Title: Annali d'Italia, vol. 1
Author: Lodovico Antonio Muratori
Commentator: Gian Francesco Galleani Napione
Release date: May 15, 2012 [eBook #39704]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara
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LODOV. ANTONIO MURATORI
ANNALI
D'ITALIA
1
DAL
PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE
SINO ALL'ANNO 1750
COMPILATI
DA L. ANTONIO MURATORI
E
CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI
Quinta Edizione Veneta
VOLUME PRIMO
VENEZIA
DAL PREMIATO STAB. DI G. ANTONELLI ED.
1843
scritta da
GIAN-FRANC. GALEANI NAPIONE
Che un uomo d'ingegno, il quale sappia far capitale del tempo, non abbia cagion di lagnarsi della brevità della vita, potendo ad infinite cose attendere, il Varrone dell'Italia moderna, Lodovico Antonio Muratori, palesemente il dimostrò; tuttochè non sia giunto a vivere, come dell'antico Varrone ci narra Plinio, ed a scrivere oltre all'ottantesimo ottavo anno, nè a poetare, come il Bettinelli, al nonagesimo. Non oltrepassò egli guari i termini di un corso ordinario di vita, e di una vita impiegata in massima parte negli esercizii religiosi, cioè come cherico attento a' doveri del suo stato ne' primi suoi anni, quindi come parroco zelantissimo sino oltre al sessagesimo, e sempre come sacerdote esemplare sino al fine de' suoi giorni; ma seppe, ciò non ostante, non meno colle azioni sue virtuose che coi dotti suoi libri, giovare agli uomini, instruirli ed eziandio dilettarli; e le opere da lui dettate formano una biblioteca.
Nato in umile fortuna il giorno vigesimo primo di ottobre dell'anno 1672 in Vignola, terra del Modenese, patria del celebre architetto Barozzi, che da quella prese il nome, non potè avere nella età sua fanciullesca altri per institutore che un maestro assai comunale di grammatica latina, che lungamente in quelle spine lo avvolse, per cui tanti vivaci ingegni prendono il più delle volte in abbominio ogni specie di lettere. Essendogli però capitati alle mani i romanzi di madama di Scuderì, ben s'avvide che esistevano libri più dilettevoli che le triviali grammatiche non sieno. Servirono questi in certo modo di correttivo, gli aprirono la mente e l'invogliarono sempre più della lettura. Chi si sarebbe dato a credere giammai che l'autor degli Annali e delle Antichità italiane, e di tante altre opere di storia e di critica la più dotta e severa, abbia incominciata, s'egli stesso non l'avesse asserito, la sua carriera letteraria dal gran Cairo, dall'illustre Bassà e da altre simili fole, leggendole avidamente? Ma il punto sustanzialissimo si è, che curiosa brama, qualunque siasi, di leggere e di imparare sorga nelle anime nuove, non riesce poi arduo gran fatto l'alimentare e meglio dirigere questa nobile fiamma; ma guai! se in principio inavvedutamente altri la spegne, in vece di nutrirla.
Migliori maestri trovò poscia in Modena il Muratori, di grammatica non tanto quanto di umane lettere, ed eziandio di filosofia; anzi quest'ultimo (cosa singolare allora in persona di chiostro), oltre al sistema peripatetico, gli spiegò i sistemi moderni; e se la filosofia neutoniana non era ancora a que' tempi uscita dall'isola natìa, già avea avuto molto prima l'Italia il Galilei ed il Torricelli, e del loro modo di filosofare (che sistema veruno non volle inventare saviamente il Galilei) convien dire che avesse avuta una idea da giovane il Muratori, da che dettò una [V-VI] dissertazione intorno allo innalzamento e depression del barometro, oltrepassando di poco il vigesimo anno. Vestito avea egli l'abito chericale, quando giovanetto per gli studii a Modena si portò. Suoi studii principali doveano essere le leggi civili e canoniche e la moral teologia; così pensava il padre di lui, costretto dalle angustie domestiche, come tanti altri, a riguardar la dottrina come un capo di entrata. La pratica perfino della giurisprudenza intraprese il Muratori; ma da quella professione, al pari di tanti altri uomini insigni nella letteratura, il genio suo dominante il ritrasse. La poesia da prima e l'eloquenza riempivano di delizia gl'istanti che poteva aver liberi; ma essendo a que' tempi in Lombardia comunemente corrotto il gusto delle lettere più amene, di quelle ampollosità che aveano voga, e di quelle argutezze egli s'invaghì tanto, che il nostro ampolloso e concettoso Tesauro era il suo maestro, il suo autore. Corresse però ben tosto il suo gusto, dopochè venne ammesso ad una letteraria conversazione, dove il marchese Giovanni Rangoni ed altri svegliati ingegni modenesi seguivano guide migliori. Ciò non ostante, se si riguarda bene, nel fraseggiare, anche più trascurato, del Muratori, restò un non so che dello stile del Tesauro, segnatamente ne' traslati.
Dalla lettura de' poeti e degli oratori passò a quella dei filosofi. Molto si compiacque di Seneca e di Epitteto, e la filosofia degli Stoici pigliò in concetto grande, sebben presto si avvedesse, come, senza la religione rivelata, quella orgogliosa dottrina è un albero pomposo, ma privo di solida radice, e che non produce frutti di vera sapienza. Lo studio delle massime degli Stoici il condusse alla lettura di Giusto Lipsio, gran partigiano di quella setta, e delle sentenze stoiche zelante promulgatore. E siccome è cosa consueta, che tutto si apprezza in quelle persone che si [VII-VIII] hanno per qualche rispetto in grande estimazione, passò il Muratori a studiare i libri, assai più pregevoli del Lipsio, riguardanti le antichità romane, e cominciò a dar opera indefessamente alla erudizione profana. Per inoltrarsi in essa vide però che gli mancavano e la copia di libri e il presidio della lingua greca. In una libreria di poveri claustrali trovò il giovane Muratori ciò che di rado o non mai si trova ne' palagi de' facoltosi, voglio dir libri in numero sufficiente e piena facoltà di valersene. Della greca lingua da sè stesso in breve tempo con ostinata fatica s'impadronì. Seguì questo in principio dell'anno 1693, ed a quei giorni maggior ventura gli toccò in sorte, cioè di rinvenire un direttore per gli studii suoi, di cui non potea desiderarne uno migliore, che lo iniziò alla diplomatica ed alle antichità del medio evo, e che a coltivare la sacra erudizione, propria al suo stato, principalmente lo animò. Fu questi l'abate cassinese Benedetto Bacchini, dottissimo personaggio, capitato allora in Modena, il Mabillon dell'Italia, che salito sarebbe ad egual fama, se avesse avuto, come il Mabillon, un più vasto teatro ed i favori di un potentissimo monarca; ma che però ebbe il vanto, che non potè avere il Mabillon, di esser padre, a dir così, nelle cose appartenenti alla soda erudizione, di due uomini sommi, il Muratori ed il Maffei. La storia ecclesiastica e gli ecclesiastici scrittori e i concilii ed i santi padri furono il nuovo pascolo che aprì il Bacchini alla mente avida del Muratori, che non lasciava passar giorno in cui lungamente non si trattenesse con lui, studiandosi di far tesoro di quanto ne' famigliari ragionamenti (la miglior disciplina di tutte) usciva dalla bocca di quell'uomo raro.
Già abbandonato avea egli gli studii delle leggi e della teologia scolastica, punto non curando, purchè soddisfar potesse al [IX-X] genio suo prepotente, que' premii che da chi le professa si ottengono, da' letterati non mai. Ma in questo mezzo avendo il Muratori fatto conoscenza col marchese Gian Gioseffo Orsi, coltissimo patrizio bolognese, e con monsignor Marsigli, poscia vescovo di Perugia, col mezzo loro ottenne di essere invitato dal conte Carlo Borromeo alla famosa biblioteca Ambrosiana di Milano. Singolare ventura fu questa per lui di venir collocato in età giovanile nella piena luce del giorno, aprendosegli in tal modo la strada di far quella luminosa comparsa che ognun sa nella letteraria repubblica; e que' gentiluomini fecero dono del Muratori all'Italia. Novella prova fu questa che per far fiorire le lettere assai più giova la coltura ed il buon giudicio ai privati, che non la potenza ed i tesori stessi de' principi. Laureato prima in leggi in fine dell'anno 1694, si recò adunque il Muratori in Milano in principio del susseguente, dottore dell'Ambrosiana, e prima che terminasse quell'anno medesimo fu ordinato sacerdote.
Gli aneddoti latini, colà due anni dopo pubblicati, (gli
aneddoti greci videro la luce poscia in Padova) furono il primo
saggio ch'ei diede del suo sapere, molti argomenti trattando di
antichità cristiane, di disciplina e di erudizione ecclesiastica, in
parecchie dissertazioni, con cui gli aneddoti suoi illustrò. Prima
di venirsene a Milano, non poche cognizioni avea già acquistato
egli appartenenti alla paleografia, facendone studio colla scorta
del p. Bacchini sulle pergamene dell'archivio di Modena: e nell'Ambrosiana,
ricca di rari e copiosi codici, vi si perfezionò.
Grande fu la fama in cui salì il Muratori, giunto appena a toccare
il vigesimo quinto anno, per questa prima opera sua; e si procacciò
la benevolenza e la stima de' primi letterati, e principalmente
di un Noris, di un Bianchini, di un Ciampini, di un
Magliabechi in Italia; di un Mabillon, di un Ruinart, di un
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XII]
Montfaucon, di un Papebrochio oltremonti. Cinque anni interi
si passarono da lui nell'Ambrosiana, quasi in proprio elemento,
in mezzo a que' codici, facendo studio indefesso di erudizione
sacra e profana, d'iscrizioni, di antichità, ed esercitandosi nel
tradurre dal greco. Nè lasciava di attendere per sollievo agli
studii delle lettere più gentili. Interveniva ad un'accademia,
detta de' Faticosi, e ad un'altra di filosofia e di belle lettere,
apertasi a suo suggerimento nella casa Borromeo; ed essendo
passato ad altra vita in quella città nell'anno 1699 il Maggi,
poeta di grido per que' tempi e suo grande amico, intraprese
tosto il pietoso letterario ufficio di dettarne la vita, che nell'anno
seguente 1700 si pubblicò, e con un idillio e con altri versi
(chè poeta pur era allora il Muratori) ne celebrò la memoria.
Le ricerche genealogiche, che per parte dell'elettore di Annover si facevano, onde chiarire l'origine italica della Casa di Brunsvico, derivata dal comun ceppo della Estense, furono quelle che richiamarono il Muratori da Milano alla contrada sua natía. In somma confusione era l'archivio estense. Per riordinarlo, e per compiacere quel principe che avea spedito un letterato tedesco a visitarlo, il duca di Modena, Rinaldo I, nominò suo archivista e bibliotecario il Muratori. Lasciò egli tosto Milano e l'Ambrosiana, non senza però qualche rincrescimento; e si restituì, nel fine della state dell'anno 1700, in Modena ai servigii del suo amato principe: e rinunciando ad ogni più splendida fortuna, mai più abbandonar non volle, durante un intero mezzo secolo, che ancor visse, l'estense biblioteca, pago, come Plutarco, di essere l'ornamento della sua patria, mentre per tutta Italia chiaro suonava il suo nome.
La genealogia de' principi estensi occupò da prima i suoi
pensieri; e le Antichità estensi, dotta opera e laboriosa, in cui,
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XIV]
d'accordo col famoso tedesco Leibnizio, fissò l'origine di quella,
prima in Italia, quindi in Germania ed Inghilterra, nobilissima
famiglia, furono il frutto delle sue fatiche. Ma come i chimici
valenti, che attenti sono oltremodo a prevalersi delle scoperte
ed invenzioni che si presentano nel corso degli esperimenti loro,
sebben non formassero l'oggetto principale, lo scopo delle loro
ricerche, così il Muratori, dovendo rivoltare tanti diplomi e
cronache e monumenti de' bassi-tempi, concepì il vasto disegno
dell'unica e dottissima opera delle Antichità italiane del medio-evo,
che rese il nome suo immortale, e che, secondo le prime idee,
altro non avea ad essere se non una continuazione delle Antichità
estensi, cui servir dovea di commento e quasi far loro corteggio.
Dallo studio incessante, a norma delle più sane regole di critica, posto intorno alla storia di que' principi, nacquero non solo quelle tante scritture in favor di essi per lo dominio di Ferrara e di Comacchio, nelle quali superiore di tanto si dimostrò al focoso suo avversario monsignor Fontanini, e mediante le quali si fece conoscere per uno de' più scienziati gius-pubblicisti; ma inoltre la gran raccolta da lui ordinata ed illustrata di tutti gli scrittori originali delle cose d'Italia per lo corso di mille anni; e finalmente gli Annali d'Italia, l'unico ed il miglior corpo che sinora si abbia della storia della nazion nostra, stesi da lui nella età di sessantasette anni nel breve spazio di un anno solo; cosa incredibile, se da testimoni oculari degni della maggior fede non venisse asseverata. Che se dettati sono in istile umile, pedestre, inelegante, come le altre opere sue italiane, non mancano però mai di chiarezza, di precisione, di naturalezza, e talvolta di vivacità, non senza una certa efficacia e festività, direi così, lombarda. Del resto, e chi mai esigere potrà in un colosso la squisitezza del lavoro di un cammeo?
Mentre per altro incominciava il Muratori a gittar i fondamenti dell'edificio immenso di cognizioni storiche che innalzar intendea, compose, quasi per sollievo e diporto, il suo trattato della Perfetta Poesia, in cui spiegò un sistema conforme ai pensamenti dell'oracolo dell'Inghilterra, Bacone da Verulamio, sistema più filosofico di quello che prima di lui da' sottili grammatici, e dopo di lui da Francesco Maria Zanotti e da altri, che han grido di filosofanti, vennero esposti alla luce del giorno. Se filosofico fu il trattato della Poetica del Muratori, poetico, a dir così, fu il disegno della Repubblica Letteraria, che pubblicò in fronte all'opera sua del Buon Gusto, o sia riflessioni sopra le scienze tutte; disegno concertato col dotto Bernardo Trevisano, che reggeva in Venezia quella cattedra di filosofia morale, che sempre occupata era da un veneto patrizio; e disegno con cui tenne lungamente e piacevolmente in sospeso la curiosità degli scienziati. Agli studi suoi di amene lettere riferir si debbono pure le Vite del Petrarca, del Castelvetro, del Sigonio, del Tassoni, del marchese Orsi, da lui in diversi tempi dettate. Ma qui non è il luogo di annoverar distintamente le opere tutte del modenese bibliotecario. Il solo catalogo, colle necessarie notizie bibliografiche, eccederebbe i confini a questa vita prescritti. Basterà il dire che la sua fecondità era tale, che due opere ad un tratto stava scrivendo per l'ordinario; e che temendo ancora non gli mancasse materia, chiedeva agli amici argomenti per comporne delle nuove. Alla erudizione sacra e profana, alle antichità romane e barbariche, alla critica, alla teologia, all'ascetica, alla giurisprudenza, alla filosofia, alla politica e perfino alla medicina, come il trattato del Governo della peste e la dissertazione De potu vini calidi ne fanno fede, a tutto rivolse le sue speculazioni e le sue fatiche.
L'erudizione sacra formò il primo oggetto de' suoi pensieri, e sempre, sino al termine de' suoi giorni, gli studii delle materie ecclesiastiche coltivò, congiungendoli coll'adempimento il più esatto ai doveri tutti del suo stato. Giovane sacerdote in Milano, in mezzo agli studii suoi più fervidi e più graditi, esemplarmente vi attendea. Fatto quindi in Modena preposto della Pomposa, con cura di anime, con vivo zelo e con amor grande le funzioni tutte del sacro suo ministero indefessamente esercitò, trovando ancora tempo, come già il celebre Pignoria, per le letterarie fatiche. Ma non contento di edificar coll'esempio e d'instruire colla voce il popolo suo, le virtù praticando che insegnava, s'ingegnò eziandio di giovare coi libri alla religione ed ai costumi. Non una persona sola, ma più persone e più anime, e tutte attivissime, operose, infiammate dell'amor de' suoi simili, pare che fossero nel Muratori concentrate. Se la vera filosofia consiste nel far del bene agli uomini, qual filosofo antico può venire in paragone con lui? Chè non parlo di coloro che negli ultimi tempi ne usurparono il nome, di tante sciagure infausta e mai sempre deplorabile cagione. Ascetico savio ed illuminato si mostrò egli (per toccar soltanto di alcuno di tali libri) negli esercizii spirituali; espertissimo conoscitore de' santi Padri, compreso del vero spirito della religione nel trattato della Carità cristiana, virtù che tutte perfeziona le cristiane virtù; maestro in divinità profondo nella dotta opera latina De ingeniorum moderatione in religionis negotio, opera in Italia non solo, ma in Germania ed in Francia eziandio riputatissima.
Ma il Muratori, avanzando in età, e già sessagenario, non
potea più reggere alle parrocchiali fatiche, e specialmente alla
predicazione. Rinunciata dunque la prepositura, attese a scrivere
negli anni che ancora gli restarono. In lui si verificò il detto di
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Cicerone, nulla esservi di più dolce e giocondo di una vecchiaia
munita degli studii della gioventù; e non solo gli Annali d'Italia
sopraccennati, ma parecchie altre opere di genere disparatissimo
furono il frutto degli anni suoi senili; che anzi in quel periodo
di tempo videro la luce le opere sue maggiori, già preparate
prima, come, per tacer degli ultimi volumi della gran raccolta
delle Cose d'Italia, furono le dissertazioni famose delle Antichità
italiane del medio-evo (negli ultimi suoi anni poi in lingua italiana
compendiate), la seconda parte delle Antichità estensi, il
nuovo Tesoro delle Iscrizioni, per non parlar di tante altre opere
di minor mole, ma non meno rilevanti, parte filosofiche, come i
trattati della morale Filosofia, delle Forze dell'intendimento
umano e della Fantasia; le altre riguardanti le antichità profane,
come la Dissertazione de' servi e liberti, dei fanciulli alimentari
di Trajano, dell'obelisco di Campo Marzio, e parecchie appartenenti
alla erudizione sacra e alle materie ecclesiastiche, studii,
da' quali avea prese le mosse nella letteraria carriera, da lui mai
intermessi, e con lui la terminò. Tali furono l'opera contro
l'inglese Burnet, le Missioni del Paraguay, l'antica Liturgia
romana, e l'aureo trattato della regolata Divozione. Nè straniero
alle, sebben da lui abbandonate, legali dottrine, scrisse dei difetti
della Giurisprudenza, opuscolo sensatissimo, il quale se riscontrò
obbiezioni, trovò eziandio difensori presso i giurisprudenti medesimi;
e col trattato della pubblica Felicità, vale a dire, della
vera scienza di governo, che le scienze e le arti tutte dirige al
vero bene degli uomini, opera che vide la luce nell'anno antecedente
alla sua morte, pose degno ed onorato fastigio a tutte le
letterarie sue fatiche.
Fu quel trattato, come disse il dottissimo cardinale Gerdil,
la voce del cigno; ed aureo chiamandolo, giusti e meritati trova
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segnatamente gli encomii in quel sensato libro dal Muratori tributati
ad un savio monarca, per avere nella università della capitale
de' suoi stati aperto una cattedra di morale filosofia. Nè
questo fu il solo provvedimento di quel principe lodato dal Muratori,
che in quel medesimo libro per altri rispetti eziandio il
celebra, e singolarmente per avere instituito peculiare carica in
ciascuna provincia, che al pubblico vantaggio soprantendesse.
Riguardano la maggior parte degli uomini il Muratori semplicemente
come critico, come istorico, come antiquario, come
filologo ed erudito, e non credono che al vanto di filosofo aspirar
possa. Ma se la vera, la utile filosofia consiste nel giudicar
delle cose rettamente e nel buon senso (più raro che altri non
creda), e nel difendere antiche ed importanti verità piuttosto
che sostenere nuovi, ingegnosi, ma inutili e dannosi paradossi,
pochi furono al certo più filosofi del Muratori. Combattè come
teologo contro l'irragionevole voto sanguinario, contro le pratiche
esteriori di religione vane od anche superstiziose, contro
l'indiscreto zelo e la ignoranza e le stravaganze divote; ed il
dotto suo libro De ingeniorum moderatione, ec. se piacque a' savii
tutti, spiacque (il che ascriversi dee a distinto pregio) a
quelli del pari che troppo poco, come a quelli che troppo al
Capo visibile della Chiesa concedono. Che se ne' libri suoi filosofici
ex professo avverso si mostrò al Loke ed all'Uezio, se
gliene vuol dar lode piuttosto che biasimo. Al primo si mostrarono
pure contrari il celebre Paolo Mattia Doria, ed altri chiari
ingegni italiani: nè ebbe seguaci in Italia prima del fiorentino
medico Antonio Cocchi, non sempre religiosissimo. Di fatto, la
filosofia lokiana, come dimostrò poscia dottamente il prefato
cardinal Gerdil, troppo al materialismo inchina, come allo
scetticismo quella postuma dell'Uezio. Persino nelle materie
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mediche, se vi fu chi la opinion sua sulla origine delle pestilenze
disapprovò, l'insigne professore di medicina in Torino, Carlo
Richa, ne prese la difesa. Le matematiche discipline soltanto
furono quelle, a cui, come que' due lumi primari della letteratura
francese, il Bossuet ed il Fenelon, non volle mai applicare
il Muratori, sia che temesse d'insuperbire, quando alle altre
vaste sue cognizioni aggiunto avesse la parte più astrusa e recondita
dell'umano sapere, sia che stimasse essere quegli studii
incompatibili collo studio di altre facoltà da lui riputate più
vantaggiose.
Compiuto egli avea intanto il settuagesimo settimo anno del
viver suo, quando un fiero colpo di paralisia gli tolse prima la
luce degli occhi, e quindi la vita nel giorno vigesimoterzo di
gennaio dell'anno 1750. Placidamente riposò nel Signore tra
le braccia del nipote ecclesiastico, dopo compiti tutti gli uffizi e
ricevuti tutti i soccorsi della cristiana pietà. Fu il Muratori di
statura ordinaria, ma quadrata, e che inclinava al pingue, di
faccia colorita, di aspetto misto di gravità e di dolcezza; nel
conversare affabile, cortese ed anche gioviale; a lui piaceva la
gioventù onestamente lieta. Del rimanente candido, sincero, modesto,
frugale, di singolare prudenza dotato, alle morali congiungea
le cristiane virtù. Invitato a Padova in modo onorevolissimo,
ed a Torino con offerta di pingue stipendio e con tutti
gli agi dal marchese di Ormea, mai non volle abbandonar la
sua patria ed il servizio del principe suo signore, a cui sagrificò
sempre ogni privato suo vantaggio. Di fatto amico di quell'anima
ingenua e generosa di papa Benedetto XIV sin prima del
pontificato, credesi che per gl'insigni meriti suoi verso la religione
cattolica e per l'esemplarità de' costumi lo avrebbe fregiato
della sacra porpora, se non avesse temuto di recar dispiacere
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alla corte per le cose dal Muratori scritte nelle controversie
di Ferrara e Comacchio. Non mancò di coraggio, dote non
sempre famigliare agli uomini di lettere. Minacciato della vita
con lettera anonima, se non ritrattava certe espressioni che credette
di dover adoperare parlando di una contrada armigera,
consegnò senza turbarsene il foglio alle fiamme, nè se ne pigliò
il menomo pensiero. Da Modena manteneva corrispondenza il
Muratori con tutti i primi letterati d'Italia, e ne coltivò l'amicizia,
e tra gli altri amico fu infino agli estremi della vita del
celebre marchese Scipione Maffei, non ostante alcuni dispareri
in punto di erudizione. Bello si è negli ultimi giorni in cui visse
il Muratori, vedere il Maffei, quasi eguale di età, protestargli di
averlo sempre riputato il primo onore d'Italia; ed il Muratori
vicendevolmente pregare il cielo che conservasse il Maffei, come
il campione più vigoroso e più coraggioso della italiana letteratura.
DI
LODOVICO ANTONIO MURATORI
Allorchè io stesi la prefazione al tomo 1 delle mie Antichità Italiane, stampato in Milano nell'anno 1738; accennai il bisogno che avea la Storia d'Italia d'esser compilata da qualche persona ben conoscente delle antiche memorie, ed amante della verità. Giacchè l'avanzata mia età e varie mie occupazioni non permettevano a me d'imprendere allora tal fatica, animai alla stessa gl'ingegni italiani, dopo averne loro agevolata la via colla gran raccolta degli Scrittori delle cose d'Italia, e colle suddette Antichità Italiane. Pure tanto di vita e di forze a me ha lasciato la divina Provvidenza, che accintomi io stesso alla medesima impresa, ho potuto se non con perfezione, certo con buona volontà, trarla a fine. Parlo io qui non già della Storia che riguarda gli avvenimenti della Chiesa di Dio, perchè di questa ci ha forniti per tempo la penna immortale del cardinal Baronio colla principal parte di essa, accresciuta poi e migliorata dal p. Antonio Pagi seniore, continuata dallo Spondano, dal Bzovio e dal Rinaldi. Abbiamo anche illustrati non poco i primi secoli del Cristianesimo dall'accuratissimo Tillemont, e l'intera Storia di essa Chiesa felicemente maneggiata dal Fleury: talchè per questo conto al comune bisogno pare sufficientemente provveduto; se non che la lingua italiana può tuttavia dirsi priva di quest'ornamento, non bastando certamente l'aver noi qualche compendio degli Annali del Baronio in volgare.
La sola Storia civile d'Italia quella è che dimanda e può ricevere aiuto
ed accrescimento dai giorni nostri. Certamente obbligo grande abbiamo a
Carlo Sigonio, insigne scrittor modenese, per aver egli assunta questa
fatica, e trattata la storia suddetta ne' suoi libri de Occidentali Imperio, et
de Regno Italiae, che tuttavia sono in onore, e meritano bene di esserlo.
Ma oltre all'aver egli solamente cominciata la sua carriera dall'imperio di
Diocleziano e Massimiano, e terminatala nell'imperio di Ridolfo I austriaco;
tali e tante notizie si son dissotterrate dipoi per cura di molti valentuomini,
tanto dell'Italia che d'altri paesi, gloriosi per avere aumentato l'erario
della repubblica letteraria, che oggidì si può ampiamente supplire ciò che
mancò al secolo del Sigonio, e rendere più copiosa e corretta la storia Italiana.
Aggiungasi, avere il Sigonio tessuto le storie sue senza allegare di
mano in mano gli scrittori onde prendeva i fatti: silenzio praticato da altri
suoi pari, ma o mal veduto o biasimato oggidì da chi esige di sapere i
fondamenti su cui i moderni fabbricano i racconti delle cose antiche. Tralascio
di rammentare qualche altro scrittore della Storia universale d'Italia,
perchè niuno ne conosco che sia da paragonar col Sigonio, e niun certamente
vi ha che abbia soddisfatto al bisogno. Ai nostri tempi poi prese il sig. di
Tillemont a compilar le Vite degl'imperadori romani, cominciando dal
principio dell'Era cristiana con tale esattezza, che se egli avesse potuto
continuare il viaggio, dalle mani sue sarebbe a noi venuta una compiuta
storia, ed avrebbe forse risparmiato a tutt'altri il pensiero di tentar da qui
innanzi una tal navigazione. Ma egli passò poco più oltre all'imperio di
Teodosio Minore e di Valentiniano III Augusti, con esporre gli avvenimenti
d'Italia per soli quattro secoli e mezzo, lasciando i lettori colla sete del
rimanente. Pertanto ho io preso a trattar la Storia Civile o sia gli Annali
d'Italia dal medesimo principio dell'Era di Cristo, conducendoli sino
all'anno 1500; nel quale ho deposta la penna, perchè da lì innanzi potrà
facilmente il lettore consultare gli storici contemporanei, che non mancano,
anzi son molti, se pure non verrà voglia ad alcuno di proseguire la medesima
mia impresa sino ai dì nostri. E chi sa che non nasca, o non sia nato
alcun altro, che prenda anche a trattar la storia dell'Italia dal principio
del mondo sino a quell'anno dove io comincio la mia? Quanto a me, tanto
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più ho creduto di dover far punto fermo nel suddetto anno 1500, perchè
nella Parte II delle mie Antichità Estensi, avendo io stesso in qualche guisa
abbozzate le avventure universali d'Italia sino all'anno 1738, mi sarebbe
incresciuto di aver da ridire lo stesso.
Ma prima di mettere in viaggio i lettori, mi convien qui istruire i men
periti di quel che debbono promettersi dalla mia fatica. Che non si ha già
alcun di essi da aspettare, che la Storia d'Italia proceda per tanti secoli
sempre con bella chiarezza, e con bastevol cognizione degli avvenimenti e
delle azioni de' principi e de' popoli, che successivamente comparvero nel
teatro del mondo, e colla tassa dei tempi precisi, ne' quali succederono i
fatti a noi conservati dagli storici delle passate età. Un così bell'apparato
di cose si può ben desiderare, ma non già sperare. Pur troppo si scorgerà,
non essere più felice la Storia d'Italia di quel che sia quella delle altre
nazioni. Di assaissime antiche storie ci ha privati l'ingiuria dei tempi, la
frequenza delle guerre, e la serie d'altri non pochi pubblici e privati disastri.
Nello stesso secolo terzo dell'Era cristiana, ancorchè le lettere tuttavia
si mantenessero in gran credito, pure si comincia a provare gran penuria
di luce per apprendere le avventure d'allora, e per ben regolare la cronologia
di que' tempi. Pur questo è un nulla rispetto al secolo quinto, e incomparabilmente
più ne' seguenti, cioè dacchè le nazioni barbare impossessatesi
dell'Italia, fra gli altri gravissimi mali v'introdussero una somma e deplorabile
ignoranza. Non solamente sono venute meno le storie di quei tempi,
ma possiamo anche sospettare, se non credere, che pochissime ne fossero
allora composte; e se la nostra buona fortuna non ci avesse salvata la Storia
longobardica di Paolo Diacono sino all'anno 744, resterebbe in un gran
buio allora la Storia d'Italia. Continua nulladimeno la medesima ad essere
anche da lì innanzi sì povera di lumi sin dopo il 1000, che qualora fosse
perita la cronica di Luitprando, e non ci recassero aiuto quelle de' Franchi
e dei Tedeschi, noi ci troveremmo ora, per così dire, in un deserto per
conto di quasi tre secoli dopo il suddetto Paolo. Oltre poi all'essersi
perduta la memoria di moltissimi avvenimenti d'allora, quegli ancora che
restano, sì mal disposti bene spesso ci si presentano davanti, che di poterne
assegnare gli anni via non resta, stante la negligenza o discordia degli
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scrittori, ed è forzata non di rado la cronologia a camminare a tentoni. A
questi malanni si vuol aggiugnerne un altro, comune alla storia di tutti i
tempi, cioè la difficoltà, meglio è dire, l'impossibilità di raggiugnere la
verità di molte cose che a noi somministra la storia. Lo spirito della parzialità
o dell'avversione troppo sovente guida la mano degli storici. Quello
che osserviamo nella dipintura delle battaglie accadute a' tempi nostri,
fatta da differenti pennelli, con accrescere o sminuire il numero de' morti e
prigioni, e talvolta con attribuirsi ognuna delle parti la vittoria: lo stesso
si praticava negli antichi tempi. E secondochè l'adulazione o l'odio prevalevano
nella penna degli scrittori, il medesimo personaggio veniva innalzato
o depresso. C'è di più. Allorchè gli storici prendevano a descrivere quanto
era accaduto ne' tempi lontani da sè, per mancanza di documenti o per
semplicità e poca attenzione, talvolta ancora per malizia, vi mischiavano
favole e dicerie, o tradizioni ridicole dell'ignorante volgo. Di queste false
merci appunto abbonda la storia de' secoli barbarici dell'Italia, e più di
gran lunga l'ecclesiastica che la secolare.
Ora come mai potere in quell'ampio fondaco di verità e bugie,
mischiate insieme, sbrogliare il vero dal falso? In tale stato ognuno ritrova
la storia della sua nazione; ma chi vuole oggidì scrivere onoratamente le
antiche cose, si studia, per quanto può, di depurarle, di dare schiettamente
ad ognuno il suo secondo l'ordine della giustizia, cioè di lodare il merito,
di biasimare il demerito altrui; e quando pur non fia possibile di raggiugnere
il certo, di almeno accennare ciò che sembra più probabile e verisimile
tanto dei fatti che delle persone. Questo medesimo mi son io ingegnato
di eseguire nella presente mia Opera, per soddisfare al debito di sincero
scrittore. Così avessi io potuto rendere dilettevole tal mia fatica, siccome
ho procurato di formarla veritiera. Ma sappiano per tempo coloro, che
nuovi si accostano alla antica storia, che io son per condurli talvolta per
ameni giardini, ma più spesso per selve e dirupi orridi a vedere: e ciò
secondo la diversità dei principi buoni o cattivi, delle felici o infelici
influenze delle stagioni, della pace o delle guerre, o d'altre pubbliche
prosperità o disgrazie. Anche allorquando era in fiore l'imperio romano,
s'incontrano dominanti, obbrobrii del genere umano, mostri di crudeltà, e
[XXXVII-
XXXVIII]
nati solamente per la rovina altrui, e in fine ancor per la propria. Scatenossi
poi il Settentrione contro l'italiche contrade, con introdurvi la barbarie
de' costumi, l'ignoranza ed altri malanni. Finalmente cominciarono le guerre
a divenire il pane d'ogni giorno nell'Italia, e le pazze e furiose fazioni
dei Guelfi e Ghibellini per parecchi secoli sconvolsero le più delle città: di
maniera che nella Storia d'Italia assai maggior copia troviamo di quel
che può rattristarci, che di quello che è possente a dilettarci. Ma questo
non è male della sola Italia. Anche nell'altre nazioni si fan vedere queste
medesime brutte scene, così avendo Iddio formato il mondo presente, con
volere che più in esso abiti il pianto che il riso, acciocchè ognuno si rivolga
a cercarne un migliore, di cui dà una dolce speranza la Fede santa che
professiamo. Intanto fra le altre utilità che reca la storia, da noi riconosciuta
per una delle efficaci maestre della vita umana, non è picciolo quello che
io andrò talvolta ricordando ai lettori. Cioè, che nel mirare sì rozza e
sconvolta, sì malmenata ed afflitta in tanti diversi passati tempi l'Italia,
possente motivo abbiamo di riconoscersi anche per questo obbligati a Dio,
cioè per averci riserbati a questi giorni, non esenti certamente da mali, ma
pure di lunga mano men cattivi e dolorosi de' vecchi secoli.
DAL
PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE FINO ALL'ANNO 1500
Anno di | Cristo I. Indizione IV. |
Cesare Augusto imper. 45. |
Consoli
Cajo Giulio Cesare figlio d'Agrippa, Marco Emilio Paolo.
Già avea la libertà della repubblica romana ricevuto un gran tracollo sotto il prepotente governo di Giulio Cesare, primo ad introdurre in Roma il principato sotto il modesto titolo d'imperadore, non altro significante in addietro che generale d'armata. Non so s'io dica ch'egli pagò le pene della sua ambizione con restar vittima de' congiurati; so bene che fu principe odiato dai più in vita, ma dopo morte scusato ed amato, massimamente da chi avea cominciato ad accomodarsi al comando di un solo; e so del pari che questo principe certamente abbondò di molti pregi, e che pochi pari di credito avrebbe avuto nell'antichità, se non avesse offuscata la sua gloria coll'oppression della patria. Caio Ottavio, o sia Ottaviano, da lui adottato per figliuolo, e da noi più conosciuto col nome di Cesare Augusto, ancorchè giovane, seppe ben deludere l'espettazione del senato. Adoperato per rimettere in piedi la repubblica, si servì egli della fortuna delle a lui confidate milizie, per assoggettar [2] Roma di nuovo, e stabilir quella monarchia che, durata per qualche secolo, cedette in fine al concorso e alla possanza delle barbare nazioni. Di gran politica abbisognò Augusto per avvezzar il senato e popolo romano alla novità del governo cominciato da Giulio Cesare, e per ischivar nello stesso tempo quel funesto fine a cui egli soggiacque. I due suoi favoriti, cioè Marco Vipsanio Agrippa, marito prima di Marcella di lui nipote, e poi di Giulia di lui figliuola, e Mecenate, personaggi di gran senno e onoratezza, non gli furono scarsi di consiglio per fargli ottenere il suo intento. L'arte dunque sua fu quella di saper fare da padrone, senza mostrare di esser tale; e di conservare il nome e il decoro della repubblica, come era in addietro, ma con ritenere per sè il meglio dell'autorità e del comando. Perchè non solamente lontanissimo si diede a conoscere dall'ammettere il nome di Re o Signore, a cui non erano avvezzi i Romani, essendogli anche esibito [Sueton., Vita August., cap. LII.] dal popolo (forse per segreta sua insinuazione) l'usitatissimo di Dittatore, grado portante seco una gran balìa, fece la bella scena di pregar tutti con un ginocchio a terra, che lo esentassero da questo onore, parendogli assai d'essere riguardato e nominato principe, titolo non altro significante allora che primo fra i cittadini. Compariva [Dio. Cass., Histor.] [3] dappertutto la stima ch'egli professava al senato; e per maggiormente cattivarselo, non volle già egli sottoporre alla propria direzione tutte le provincie, ma la maggior parte lasciò alla disposizion del medesimo e de' proconsoli, e d'altri uffiziali scelti e spediti dal medesimo senato. Ad esso parimente lasciò l'erario pubblico, la facoltà di metter imposte, di far nuove leggi, di amministrar la giustizia; con che pareva alla nobiltà di conservar tuttavia l'antico onore e dominio. Nè minor fu il suo studio per guadagnarsi l'amore del popolo, col volere ch'egli continuasse a godere della facoltà di dare i suoi suffragi nelle pubbliche elezioni, col mantener sempre l'abbondanza de' viveri in Roma e la quiete della città, e con tenerlo allegro e divertito mediante la frequente rappresentazione di varii giuochi e spettacoli, e con magnifici congiarii o vogliam dir donativi. Finalmente si conciliò l'affetto dei pretoriani, cioè delle guardie del palazzo, con far loro dar doppia paga, e con usar altri atti di liberalità verso le legioni, cioè verso il resto della milizia. Che meraviglia è dunque, se Roma, che ne' tempi della libertà avea tante traversie patito per la disunion de' cittadini, cominciò a gustare i vantaggi d'esser governata dipendente da un solo?
Ma intanto Ottavio riservò per sè le provincie dove occorreva tener delle soldatesche, o per buona guardia contro dei Barbari confinanti, o per imbrigliar i popoli facili alle sedizioni, con che il nerbo maggiore della repubblica, cioè tutta la milizia, restò in suo potere. A questo fine egli prese o volentieri accettò il titolo di imperadore, conceduto in addietro ai generali d'armate, dappoichè aveano riportata qualche vittoria; ma titolo accordato a lui a perpetuità, e con autorità sopra l'armi, di maniera che niun cittadino da lì innanzi fu onorato del trionfo, ancorchè vincesse, perchè la vittoria non s'attribuiva se non a chi era capo delle armate; [4] e questo capo era il solo imperadore. Gran possanza, insigni privilegi aveano goduto fin qui i tribuni del popolo. Erano sacrosante ed inviolabili le loro persone, di maniera che il mancar loro di rispetto, non che l'offenderli co' fatti, si riputava sacrilegio e misfatto degno di morte. Questo potere volle a sè conferito, ed agevolmente ottenne Ottaviano, per poter cassare, occorrendo, le leggi e le determinazioni che non gli piacessero, come far solevano talvolta i tribuni; e questa fu appellata Tribunizia Podestà; titolo ben caro agli imperadori romani, e mai non obbliato nel loro titolario; perchè, al dire di Cornelio Tacito [Tacit., Annal., t. III, cap. 56.], vocabolo indicante sommo dominio. Inoltre l'autorità primaria sopra le cose sacre era riserbata ai Pontefici Massimi in Roma pagana. Giudicò Augusto, che tal grado stesse meglio nelle sue mani che nelle altrui; e però tanto egli quanto i successori l'unirono con gli altri titoli della loro possanza. Finalmente il senato, già divenuto adulatore, perchè composto di gente che cercava i proprii vantaggi col promuovere quelli del principe, cercò di onorar questo imperadore colla giunta di un titolo glorioso, che facesse intendere la di lui possanza ed autorità quasi sovrana; e fu quello d'Augusto, indicante un non so che di divinità. Questo, che fu poi congiunto coll'altro di Cesare, che era a lui pervenuto per l'adozione di Giulio Cesare, continuò poscia in tutti i suoi successori, come il più luminoso dell'altra lor dignità. Veggonsi rapportati da Dione Cassio varii altri privilegi accordati dal senato a Cesare Augusto, coronati finalmente dal nobilissimo titolo di Padre della Patria, voluto o pure usato dipoi anche da quegli stessi mostruosi imperadori, che sembrarono nati solamente in danno e rovina della medesima. Salì in tal guisa ad un'ampia podestà Augusto, per cui senza nome di re potea tutto quanto poteano i più dispotici dei re, perchè il senato con tutta l'autorità a lui [5] lasciata, nulla d'importante facea, che non fosse conforme all'intenzione e ai desiderii di lui. Tuttavia per un tratto di fina politica (che è ben lecito il pensare così) andava l'accorto imperadore di tanto in tanto dolendosi del grave peso imposto sulle sue spalle, e facea intendere l'ansietà di scaricarsene, per morir da privato. Arrivò sino a proporlo in senato; ma egli dovea ben sapere, che non correa rischio d'essere esaudito. Ed in fatti così fu. S'unirono le voci de' senatori a pregarlo, per non dire a costringerlo, che continuasse nella fatica del comando finchè vivesse. Allora s'indusse ben egli con tutta modestia ad accettar questo carico, ma con impetrare che solamente per dieci anni avvenire durasse un tale aggravio. Finiti questi, e chiesta di nuovo licenza, s'accordò in cinque altri, e poscia in dieci, tanto che senza mai cessare d'essere signore del mondo romano, e con apparenza di comandare, solo perchè così volevano il senato ed il popolo, terminò poi felicemente nel comando i suoi giorni. Nè mancò chi gli succedesse nell'incominciato onore e in quella signoria, la quale a poco a poco nel proseguimento pervenne all'intero despotismo e talvolta alla tirannia.
In tale stato si trovava nell'anno presente Roma sotto Augusto imperadore, nè la di lei potenza si stendeva già sopra tutto il mondo, come l'adulazione talvolta sognò; ma bensì nella miglior parte di Europa, e in moltissime provincie non meno dell'Asia che dell'Africa. Era nato Augusto sotto il consolato di Cicerone e di Cajo Antonio, cioè l'anno sessantatre prima dell'Era cristiana; e però nel presente, in cui essa Era ebbe principio, correva l'anno sessantesimoquarto dell'età sua, e l'anno XXIII della sua tribunizia podestà, e il XLV del suo principato. Giacchè niun figlio maschio avea a lui prodotto Livia sua moglie, era già egli ricorso al ripiego dell'adozione, per desiderio di perpetuar la sua famiglia, e di trasmettere in un figlio anche la dignità imperiale. [6] Avea egli due nipoti, figliuoli di Marco Agrippa e di Giulia sua figliuola, donna famosa per la sua impudicizia, e in questi tempi a cagion di tale infamia relegata nell'isola Pandataria. L'uno Cajo e l'altro Lucio nominati, aveano già talmente conseguito l'amore d'Augusto sì in riguardo al sangue che scorrea lor nelle vene, che per le loro belle qualità, che gli aveva adottati amendue per figliuoli, innestandoli nella famiglia Giulia, e dando loro il cognome di Cesare. L'uno d'essi, cioè Cajo, fu [Noris, Cenotaph. Pisan. Diss. 2, cap. 13.] nell'anno presente alzato alla dignità più eminente, che dopo l'imperiale dar potesse allora la repubblica romana, cioè al consolato. L'altro console fu Lucio Emilio Paolo, cognato d'esso Cajo, perchè marito di Giulia sua sorella, donna, che per aver imitata la madre Giulia nella disonestà, soffrì anch'essa un eguale castigo. Militava in questi tempi Cajo Cesare console per ordine d'Augusto suo padre, nella Siria, ossia nella Soria, contro de' Parti. Questa era allora la sola guerra che tenesse in esercizio l'armi romane; perciocchè Augusto, tra perchè vecchio, e perchè signore di gran senno, il più che potea s'andava studiando di mantener la pace nell'imperio, senza curar molto l'ambiziosa gloria de' conquistatori. Assai vasto era il dominio de' Romani per appagar ogni sua voglia.
Ora in quest'anno si dee fissare il principio dell'Era cristiana volgare, di cui comunemente ci serviamo oggidì. Non fu già essa affatto ignota ai primi secoli della Chiesa; ma il merito d'averla messa in qualche credito in Occidente, è dovuto a Dionigi Esiguo, ossia il Picciolo, monaco assai dotto, che morì circa l'anno 540 nella Chiesa romana, e poscia a Beda, celebre scrittore d'Inghilterra, che nel secolo ottavo usandola, coll'esempio suo la rendè poi familiare fra i Latini. S'ingannarono amendue; ma non c'inganniamo noi in mettere sotto i consoli suddetti il principio di questa. Il cardinal Baronio, che stabilì senza fallo l'immortalità [7] del suo nome colla gran fabbrica degli Annali ecclesiastici, due anni prima del presente, cioè nell'anno XXI della tribunizia podestà di Augusto, ossia nel XLIII del suo principato, pose il principio della medesima; ma con errore manifesto, siccome han dipoi dimostrato uomini sommamente eruditi. Opinione fu di quell'insigne porporato, che nell'anno XLII di Augusto, cioè tre anni prima dell'anno presente, s'incarnasse e nascesse il Figliuolo di Dio nel di 25 di dicembre; e che nel principio del susseguente egli fosse circonciso, dalla qual circoncisione, collocata nelle calende di gennaio, si avesse da cominciare l'anno primo dell'Era cristiana. Ciò non sussiste. Quanto alla nascita del Signor nostro Gesù Cristo ne è tuttavia incerto l'anno. Solamente sappiamo essere la medesima avvenuta molto innanzi all'anno presente, fra l'altre ragioni, perchè Erode figliuolo d'Antipatro (re vivente allorchè nacque il Signore), cessò di vivere [Joseph., Antiq. Judaicar., lib. 7, cap. 8. Pagius, in Critica Baron.] nel marzo dell'anno 750 di Roma, e XLI di Augusto; e per conseguente [Vaillant, Idem. Pagius, Usserius, Noris, ec.] dovette nascere il Signore almeno nell'anno precedente al preteso dal Baronio, o in alcun altro più addietro. È ben sembrato agli eruditi più verisimile il riferire il suo natale al dicembre dell'anno 749 di Roma, e XL di Augusto; ma questa opinione nondimeno vien contrastata da quella di diversi altri, non mancando chi alcuni anni prima con buone ragioni colloca questo memorabil fatto, senza che finora si sia potuto pienamente accertare un punto di storia di tanta importanza. Ma se ciò è tuttavia oscuro, non è già per l'Era cristiana, il cui principio ormai resta deciso che si ha da fissare nell'anno presente, benchè non manchi taluno che lo riferisce nell'anno seguente. Per le ragioni suddette è un comune errore, ma errore condonabile, e di cui niun s'ha da formalizzare, il chiamar questa Era della Natività del divino [8] Salvatore, oppur della Incarnazione, ovvero della Circoncisione. Questa varietà di parlare, da gran tempo introdotta, non è per anche terminata in Italia, dove abbiamo la maggior parte delle città, che chiamano l'anno della Natività, benchè l'incomincino dalla Circoncisione; ed alcune, che nella Pasqua, o nel dì 25 di marzo precedente, o susseguente all'anno comune, cominciato alla Circoncisione, danno principio al loro anno, le une coll'anteciparlo di quasi nove mesi, e le altre col posticiparlo di quasi quattro. Anticamente molti usarono di dar principio all'anno nuovo nel Natale del Signore, e di là poi venne il chiamar l'Era nostra a Nativitate Domini, il qual nome dura presso i più, contuttochè oggidì il primo giorno di gennaio sia anche il principio dell'anno nuovo. Intanto contando noi sotto questi consoli l'anno primo d'essa Era, seguiteremo da qui innanzi col medesimo ordine ad accennare i fatti principali della Storia d'Italia.
Anno di | Cristo II. Indizione V. |
Augusto imperadore 46. |
Consoli
P. Vinicio e P. Alfenio Varo.
Il primo di questi consoli è chiamato dal padre Pagi Publio Vicinio, dal padre Stampa Publio Vinucio. Sono errori di stampa. Nè la famiglia Vicinia, nè la Vinucia son cognite fra le nobili romane. Bensì la Vinicia, di cui l'Orsino e il Palatino rapportano varie medaglie. Vellejo Patercolo [Vellejus Paterculus, lib. 2.] chiaramente scrisse P. Vinicio Consule, e parla in più d'un luogo di questa famiglia. Il secondo de' consoli è Publio Alfeno presso il Pagi. Altri hanno scritto Alfinio; ma con diversità di poca importanza. Continuò Cajo Cesare, figliuolo adottivo di Augusto, e principe della gioventù, la sua spedizion militare in Soria. Seco era lo stesso Vellejo Patercolo, autore de' pezzi di un'amena storia, [9] che si son salvati dalle ingiurie del tempo. Racconta egli, che inclinando Augusto a far pace coi Parti, perciò seguì un abboccamento di Cajo con Fraate re di que' popoli, sopra un'isola dell'Eufrate, fiume che allora divideva i due imperi. Cajo dipoi sulla riva romana diede un convito a Fraate, ed appresso ricevette anch'egli sull'opposta il medesimo trattamento. Allora fu che Fraate scoprì a Cajo l'infedeltà e venalità di Marco Lollio, a lui dato per aio da Augusto. Però da lì a poco tempo [Plinius, lib. 9, cap. 35.] venne meno la vita d'esso Lollio per veleno, non si sa se preso per elezione di lui, o pure per comando altrui. In questi tempi [Noris, Cenotaph. Pisan. Diss. 2, cap. 14.] Lucio Cesare fratello d'esso Cajo, acciocchè non marcisse nell'ozio della Corte, fu mandato da Augusto in Ispagna. Dovea servir questo viaggio per guadagnargli l'amor delle legioni che soggiornavano in quelle parti. Ma secondo le umane vicende non tardarono ad abortire in breve tante belle speranze di lui e del padre. Giunto egli a Marsilia, s'infermò, e in età di diciotto anni terminò la carriera del suo vivere nell'agosto dell'anno presente. Dione e Tacito non tacquero il sospetto che corse allora di aver Livia moglie d'Augusto procurata con arti indegne la morte di questo giovane principe. Chi fosse questa principessa, convien ora vederlo.
Livia, figliuola di Livio Druso, era in prime nozze stata moglie di Tiberio Claudio Nerone, uno de' più cospicui nobili di Roma [Dio, Suetonius, Tacitus.]. Seppe ella così ben tirar le sue reti, che invaghitosi di lei Augusto, già principe di Roma, ottenne da Nerone che la ripudiasse, per prenderla egli in moglie. Bisogna ben credere che fosse grande in questo principe il caldo, perchè gravida (fu preteso del primo marito) la condusse al talamo suo. Avea già essa partorito Tiberio, che vedremo a suo tempo imperadore. Sgravossi dipoi d'un altro [10] figliuolo, che portò il nome di Nerone Claudio Druso, e fu consegnato al padre, perchè, secondo le leggi, tenuto per figliuolo di lui. Questi poi creato console nell'anno IX, prima dell'Era cristiana, finì quello stesso anno di vivere. Che superba, che scaltra donna fosse Livia, non si può abbastanza dire. Ancorchè Augusto fosse principe di mente svegliata e di raro intendimento, pure possedeva ella il gran secreto di saperlo governare, di condurlo alle voglie sue. L'unico figliuolo a lei restato, cioè Tiberio, era il principale oggetto dell'amor suo, e tutte le sue mire tendevano ad esaltarlo. Essendo morto dodici anni prima dell'Era nostra Agrippa gran confidente di Augusto, e marito di Giulia figliuola del medesimo imperadore, e di Scribonia sua prima moglie, procurò Livia che questa passasse a seconde nozze con Tiberio suo figliuolo [Sueton., in Tiber., cap. 7.], tuttochè a lui dispiacesse assaissimo un tal matrimonio, parte perchè gli convenne ripudiar Agrippina amata sua consorte, e parte ancora perchè non gli era ignota la trabocchevole inclinazione e vita sregolata d'essa Giulia. Suoi figliastri in questa maniera divennero Cajo e Lucio, che già dicemmo nominati Cesari, figliuoli della medesima Giulia e d'Agrippa; ma da lui e da Livia sua madre internamente odiati, perchè adottati per figliuoli da Augusto, e destinati, per quanto si poteva congetturare, ad essere suoi successori nell'imperio. Nacquero in fatti delle gare fra questi due giovanetti fratelli e Tiberio lor padrigno. Sentivano già essi la superiorità della lor fortuna, ed aveano cominciato ad insolentire, e nello stesso tempo miravano di mal occhio il possesso che tenea nel cuore di Augusto la madre di Tiberio, Livia. Per ischivar tutti i pericoli, avea preso Tiberio il partito di ritirarsi: al che s'aggiunse ancora il non poter più egli sopportare i vizii della moglie sua Giulia, castigati in fine colla relegazione da Augusto suo padre. Senza che il potessero ritener le [11] preghiere della madre e del medesimo Augusto, ritirossi Tiberio nell'isola di Rodi, e qui per sette anni in vita privata si fermò. Sazio finalmente di questo volontario esilio, che avea dato occasione di molte dicerie agli sfaccendati politici, fece istanza di ritornarsene a Roma in quest'anno per mezzo della madre. Volle Augusto prima intendere, se a Cajo Cesare fosse rincresciuto il di lui ritorno, perchè i dissapori seguiti fra loro non erano cose ignote. Per buona ventura essendosi allora scoperto, che Lollio, poco fa mentovato, quegli era che seminava zizzanie fra Tiberio ed i figliastri, Caio si mostrò contento che il padrigno rivedesse Roma. Venuto Tiberio, attese da lì innanzi coll'aiuto della madre a promuovere i proprii interessi. E questi presero tosto buona piega per la sopr'accennata morte di Lucio Cesare, non restando più fra i vivi se non il solo Cajo Cesare, cioè quel solo che impediva a Tiberio il poter succedere nello imperio ad Augusto suo padrigno. Cominciò [Vellejus, Historiar. lib. 2.] in quest'anno, se pur non fu nel seguente, anche in Germania una guerra, di cui parleremo all'anno V dell'Era cristiana.
Anno di | Cristo III. Indizione VI. |
Augusto imperadore 47. |
Consoli
L. Elio Lamia e M. Servilio.
Perchè son perite le storie antiche in questi tempi, mancano a noi le memorie di quanto allora avvenne in Roma e in Italia. Forse anche la mirabil quiete che per opera d'Augusto si godea in queste parti, niun avvenimento produsse assai riguardevole per comparir nella Storia romana. Rimasto senza aio in Soria Cajo Cesare per la morte di Lollio [Tacitus, lib. 3 Annal.], Augusto non volendo lasciare la di lui giovanile età senza direzione e briglia, mandò per governatore di lui Publio Sulpicio [12] Quirinio. Questi è quel medesimo che nel Vangelo di s. Luca è appellato Cirino, e che negli anni addietro avea fatta la descrizione degli abitanti della Giudea: nel qual tempo venne alla luce del mondo il nostro Signor Gesù Cristo, senza sapersene finora con certezza l'anno preciso. Ora Cajo Cesare, che nell'anno prossimo passato [Vellejus, lib. 2. Florus, lib. 4, c. 4. Tacitus, lib. 22. Ann.] avea conchiusa la pace coi Parti, ed era penetrato sino nell'Arabia, si diede in quest'anno a regolare gli affari dell'Armenia. Di là si erano ritirate le milizie ausiliarie de' Parti, in vigor della pace suddetta; ma non per questo volentieri ritornarono all'ubbedienza de' Romani quei popoli: e però sul principio fecero qualche resistenza; ma entrato con tutte le forze nel loro territorio Cajo Cesare, gli astrinse a deporre le armi. E poichè non si arrischiavano i Romani di ridurre in provincia un paese tanto lontano, ed avvezzo al governo de' proprii re, fu scelto da Cajo per quella corona Ariobarzane, medo di nazione, e ben veduto dai medesimi Armeni, il quale dovette promettere una buona alleanza col popolo romano. A così felice successo, per cui Cajo acquistato s'era non poco di gloria, ne tenne dietro un funesto. Mal soddisfatto un certo Addo de' Romani e del re novello, mosse a ribellione Artagera, una delle primarie città dell'Armenia [Dio, in Hist. Strabo, lib. 2. Vellejus, ut supra. Ruffus, Festus, in Breviar.]. Corso con tutta la sua armata Cajo ad assediar quella città, troppo credendo al ribello Addo, si lasciò condurre ad abboccarsi con lui. Nel mentre ch'egli leggeva un memoriale, datogli dallo stesso Addo, proditoriamente fu ferito da lui, o da chi era con lui, e con pericolosa ferita. Per tale iniquità irritate al maggior segno le legioni romane, più vigorosamente che mai strinsero la città, l'espugnarono, la ridussero in un mucchio di pietre. Il traditore Addo ebbe anch'egli la meritata pena.
Anno di | Cristo IV. Indizione VII. |
Cesare Augusto imper. 48. |
Consoli
Sesto Elio Cato e Gajo Sentio Saturnino.
Celebre nella storia di Roma per varie sue dignità ed azioni fu questo Saturnino, creato console nell'anno presente. Fra gli altri suoi impieghi [Usserius, Annal. Noris, Cenotaph. Pisan.] avea avuto quello di legato, o sia di vice-governatore, o presidente della Soria, circa l'anno 36 d'Augusto, e undicesimo prima dell'Era volgare. Tertulliano [Tertullian., lib. 4, cap. 19, contra Marcionem.] scrivendo contra Marcione asserì, che Census constat actos sub Augusto tunc in Judaea per Sentium Saturninum. La nascita di Cristo Signor nostro, secondo questo conto, verrebbe a cadere nell'anno suddetto 36 d'Augusto, o pure nel seguente. Ma opponendosi all'asserzione di Tertulliano la canonica di s. Luca, da cui abbiamo che il censo fu fatto da Cirino o sia Quirinio, presidente della Siria o sia della Soria: e sapendosi che a Saturnino nell'anno 38 di Augusto succedette nel governo della Siria Quintilio Varo: altra via non s'è saputa fin qui trovare, che la plausibile e molto ben fondata, di dire che Quirinio, siccome era succeduto altre volte, fosse stato inviato colà con istraordinaria podestà a far la descrizione dell'anime, nel tempo stesso che Saturnino, o pur Varo con ordinaria podestà governava quella provincia. O sì maligna o sì mal curata fu la ferita, da Cajo Cesare riportata sotto Artagera, ch'egli non più si riebbe, e andò peggiorando la sua sanità. Perchè egli [Vellejus, lib. 2. Zonaras, Hist. Svetonius in Aug., c. 68.] non poteva accudire agli affari, gli uffiziali e cortigiani suoi, prevalendosi del tempo propizio, sotto nome di lui vendevano la giustizia, e faceano continue estorsioni ai popoli di [14] quelle contrade. Ed acciocchè non finisse sì presto una sì utile mercatura, indussero l'infelice principe, allorchè Augusto il richiamava in Italia, a rispondere di non voler venire, perchè l'intenzion sua era di passare quel che gli restava di vita, in un ozio privato. Replicò Augusto, che il desiderava e voleva in Italia, dove potrebbe egualmente, ma colla vicinanza ed assistenza de' suoi, se pur così gli piacea, menar vita privata. Convenne ubbidire. Ma mentre egli, benchè suo mal grado, se ne ritornava, giunto a Limira città della Licia, quivi nel dì 24 febbraio dell'anno presente cessò di vivere. Sicchè Augusto, a cui la morte avea rapito Marcello, figliuolo di Ottavia sua sorella, nipote amatissimo, venne ancora nello spazio di diciotto mesi a perdere questi due altri giovanetti Lucio e Cajo, nati nipoti suoi, e poscia adottati per figliuoli; motivo a lui d'inesplicabil dolore. Tuttavia sofferì egli con più di fortezza e pazienza queste perdite, che il disonore cagionatogli dall'impudicizia di Giulia sua figliuola madre dei suddetti due principi, e da lì a pochi anni dall'altra di Giulia sorella de' medesimi. Tante disgrazie faceano ch'egli si augurasse di non essere mai stato padre.
Per lo contrario ne fu ben lieto in suo cuore Tiberio, figliastro di lui, al vedere tolti di mezzo questi due possenti ostacoli al corso della sua fortuna. Livia Augusta sua madre [Tacitus, lib. 1 Annal.], per l'estrema sua ambizione da molti sospettata di aver avuta parte nella morte di que' due principi, non tardò molto ad assalire ed espugnare il cuore del marito Augusto in pro del figliuolo, proponendoglielo qual solo ormai capace e meritevole di succedere a lui nella dignità imperiale. Gli effetti della di lei eloquenza comparvero da lì a pochi mesi. Avea Augusto negli anni addietro conferita ad esso Tiberio la podestà tribunizia per cinque anni che già erano passati. Tornò nel presente ad associarlo seco nel godimento della medesima [15] podestà, nel dì 27 luglio; laonde nelle sue medaglie [Mediobarb., in Numismat.] si cominciò a notare la TRIB. POT. VI. Quel che più importa, l'adottò ancora per suo figliuolo, aprendogli la strada alla succession dei suoi beni, e insieme dell'imperio. Però chi prima era Tiberio Claudio Nerone, cominciò ad intitolarsi e ad essere intitolato Tiberio Cesare figliuolo d'Augusto. Vellejo Patercolo, storico [Vellejus, lib. 2. Dio, Histor., lib. 55.] suo grande amico, si stende qui in immensi elogi di Tiberio, il qual forse allora sotto molte sue virtù sapea nascondere i moltissimi suoi vizii. Nello stesso giorno fu obbligato Tiberio ad adottare per suo figliuolo Marco Agrippa, nato da Giulia figlia d'Augusto dopo la morte di M. Vipsanio Agrippa di lei primo consorte. Ma questi tra per essersi scoperto giovanetto stolidamente feroce, e per le spinte che gli diede Livia Augusta, unicamente intenta ad esaltare i proprii figli, fu dipoi relegato nell'isola della Pianosa, dove, appena morto Augusto, per ordine di Tiberio tolta gli fu la vita. Inoltre nel medesimo giorno 27 di luglio (così volendo Augusto), Tiberio adottò in figliuolo il suo nipote Germanico, nato da Claudio Druso, suo fratello, cioè da chi al pari di lui avea avuto per madre Livia Augusta. Nè pur questa adozione internamente venne approvata da Tiberio; perchè egli avea un proprio figliuolo per nome Nerone Druso, a lui partorito da Agrippina sua prima moglie, verso il quale più si sentiva portato. Non erano mai mancati ad Augusto dei nobili suoi secreti nemici, sì perchè la memoria dell'antica libertà troppo spesso risvegliava lo sdegno contro chi ora facea da signore in Roma, e sì perchè sui principii del suo governo e potere, Augusto, con levare dal mondo non i soli avversari, ma chiunque ancora veniva creduto atto ad interrompere la carriera de' suoi ambiziosi disegni, s'era tirato addosso l'odio dei lor figliuoli e parenti. Traspirò nel presente [16] anno una congiura ordita contra di lui da molti nobili. Capo di essa era Gneo Cornelio Cinna Magno, che per essere nato da una figliuola di Pompeo il Grande, portava nelle vene l'avversione ad Augusto; sì perchè Augusto era successore di chi tanta guerra avea fatto all'avolo suo materno; e sì ancora per essere stato persecutore anch'esso della medesima famiglia. In grande ansietà per questo si trovava Augusto, giacchè il timore o sentore delle congiure quello era spesso che non gli lasciava godere in pace il suo felicissimo stato. Conferito con sua moglie l'affanno, gli diede ella un saggio consiglio, cioè di ricorrere non già alla severità che potea solo accrescere i nemici, ma sì bene ad una magnanima clemenza; predicendogli che in tal maniera vincerebbe il cuore di Cinna, uomo generoso, ed insieme quello di tutta la nobiltà. Così fece Augusto. Dopo aver convinti i rei del meditato misfatto, perdonò a tutti; nè di ciò contento, disegnò console per l'anno prossimo avvenire lo stesso Cinna, benchè primario nell'attentato contra la di lui vita. Un atto di sì bella generosità gli guadagnò non solamente l'affetto di Cinna e degli altri, ma anche una tal gloria e stima presso d'ognuno, che nel resto di sua vita niuno pensò mai più a macchinare contra di lui. Ed ecco i frutti nobili della clemenza; ma ben diversi noi andremo trovando quei della crudeltà e fierezza.
Anno di | Cristo V. Indizione VIII. |
Cesare Augusto imper. 49. |
Consoli
Gneo Cornelio Cinna Magno, Lucio Valerio Messalla Voluso.
Di Cinna, console nell'anno presente, abbiam favellato nel precedente. L'altro Voluso taluno ha creduto che fosse piuttosto cognominato Voleso, perchè una iscrizione rapportata dal Fabretti [Fabrettus, Inscription., pag. 703.] fu [17] posta L. VALERIO VOLESO, CN. CINNA MAGNO COSS. Il Grutero, riferendo la stessa iscrizione, lesse VOLSEO, ma con errore. Certamente un marmo, veduto co' suoi occhi dal Fabretti, bastar dovrebbe a stabilire il cognome di Voleso. Ma mi ritiene una medaglia pubblicata da Fulvio Orsino e dal Patino [Patinus, Famil. Roman.], dove è la figura d'Augusto, e nel rovescio VOLVSUS VALER. MESSAL. III. VIR. A. A. A. F. F. Questi par certamente lo stesso che fu poi console o almeno della stessa casa. Abbiamo da Vellejo [Vellejus, lib. 2.], che nell'anno secondo oppure terzo dell'Era nostra, s'era suscitata in Germania una gran guerra, la qual durava tuttavia. Dappoichè nell'anno precedente Augusto ebbe adottato Tiberio, e volendo accreditarlo maggiormente nel mestiere delle armi e nel comando delle armate, nel quale si era egli anche molti anni prima esercitato con mollo onore, poco stette a spedirlo in Germania. Andò Tiberio, e con esso lui era Vellejo Patercolo generale della cavalleria. Soggiogò i Caninefati, gli Attuari e i Brutteri, e fece ritornare all'ubbidienza i Cherusci. Terminata poi con reputazione la campagna, nel dicembre se ne ritornò a Roma per visitare i genitori. Quindi nella primavera di quest'anno di nuovo si portò in Germania. Le prodezze ivi fate da Tiberio si veggono descritte ed esaltate da esso Vellejo istorico. Per attestato di lui sottomise gran parte di quei feroci popoli, de' quali nè pur dianzi si sapeva il nome. Fra gli altri domò i Longobardi, gente la più fiera e valorosa dell'altre: il che è ben da avvertire: perchè dopo alcuni secoli vedremo questa medesima nazione dominante in Italia. Le conquiste di Tiberio arrivarono sino al fiume Elba; cosa non mai tentata in addietro nè allora sperata da alcuno. Venuta poi la stagion de' quartieri, volò Tiberio a Roma a ricevere i complimenti de' genitori e il plauso del [18] popolo, per così vantaggiosa e gloriosa campagna.
Circa questi tempi, o pur nell'anno precedente, vennero a Roma gli ambasciadori de' Parti, padroni allora della Persia, per chiedere un re ad Augusto [Sveton., in Tiber., cap. 16. Joseph., Antiq. Judaic., lib. 18.]. Volle egli che andassero anche in Germania ad esporre la stessa dimanda a Tiberio Cesare, per avvezzar la gente al rispetto e alla stima di questo suo figliuolo. Era stato ucciso Fraate re dei Parti da uno scellerato suo figlio, per iniqua voglia di regnare, benchè egli poi non solo non conseguì il regno, ma vi perdè la vita. Gli altri figliuoli di Fraate stavano in Roma da qualche tempo, mandati colà per ostaggi della sua fede dal padre. Aveano chiesto i Parti per loro re ad Augusto Orode, uno de' figliuoli di Fraate; ma ottenutolo, fra poco l'uccisero. Richiesero poscia un altro d'essi figliuoli, cioè Venone; e questi andò a prendere il possesso di quella corona, per restare anche egli dopo alcuni anni vittima del furore di quella barbara nazione. Ma non è certo, se all'anno presente appartenga l'andata di esso Venone colà. Abbiamo varii regolamenti fatti da Augusto in questo anno [Dio, Histor. lib. 15.]. Difficilmente s'inducevano allora i nobili a lasciar entrare nel collegio delle vergini Vestali le lor figliuole, perchè presso i Gentili non era in pregio, anzi era in dispregio il celibato; nè mancavano disordini succeduti fra le stesse Vestali. Necessario fu un decreto, per cui fosse lecito alle fanciulle discendenti da liberti di entrarvi. Molte di queste si presentarono e furono elette a sorte; ma niuna d'esse vi entrò. Lamentavasi anche la milizia romana della tenuità della paga. Augusto, per animare i soldati a sostenere il peso della guerra, e molto più per conciliarsi l'affetto loro, siccome preventivamente accennai, volle che si accrescesse lo stipendio tanto alle legioni mantenute in varii siti dell'imperio, quanto ai pretoriani [19] destinati a far la guardia dell'imperadore e del palazzo pubblico. Colla sua propria borsa supplì egli per ora, e nell'anno prossimo vi provvide con un altro ripiego. Dione ci dà il registro di tutta la fanteria e cavalleria che allora continuamente era mantenuta in piedi dalla repubblica romana; e questa andò poi crescendo e calando, secondo la diversità de' bisogni, o pur della pubblica felicità. Il pagamento allora de' soldati era ben superiore a quel d'oggidì.
Anno di | Cristo VI. Indizione IX. |
Cesare Augusto imper. 50. |
Consoli
Marco Emilio Lepido e Lucio Arruntio.
Il Panvinio ed altri hanno scritto, che a questi consoli ne furono sostituiti nel dì primo di luglio due altri cioè Cajo Ateio Capitone e Cajo Vibio Capitone. Ma non è certo il fatto. Essendo mancante la iscrizione rapportata da esso Panvinio, può restar sospetto che tai consoli appartengano ad un altro anno. Vedemmo accresciute da Augusto le paghe ai soldati [Dio, lib. 55.]. Per soddisfare a tali spese, per le quali non era bastante il privato erario d'Augusto, e nè pure il pubblico, si pensò a mettere un nuovo aggravio. Fu dato ordine a tutti i senatori di esporre il loro parere in iscritto. In ultimo col fingerne uno già meditato da Giulio Cesare, si decretò che da lì innanzi si pagasse la vigesima parte delle eredità e dei legali, eccettuate quelle che pervenivano a' figliuoli ed altri stretti parenti, e quelle de' poveri. Sebbene può dubitarsi, se tale eccezione venisse dipoi mantenuta da lutti i susseguenti imperadori: certo è, che questo pesante aggravio rincrebbe assaissimo al popolo romano, e, secondo l'uso delle cose umane, se fu facile l'introdurlo, riuscì poi difficilissimo il levarlo. E però nelle antiche iscrizioni s'incontra talvolta l'uffizio di chi era [20] impiegato in raccogliere questo tributo. Ai lamenti del popolo se ne aggiunsero dei più gravi nell'anno presente per cagione d'una fiera carestia che afflisse la città di Roma [Sveton., in August., cap. 42.]. Oltre ad altre provvisioni e spese fatte da Augusto in aiuto de' cittadini poveri, fu preso lo spediente di cacciar fuori di città i gladiatori e gli schiavi condotti per esser venduti, e la maggior parte de' forestieri: la qual somma di persone ascese a più di ottantamila. Finita poi quella angustia, cadde in pensiero ad Augusto di abolir l'uso introdotto del frumento, che dai granai del pubblico si donava alla plebe, e di cui talvolta erano partecipi dugento e più mila persone, parendo a lui, che per cagione di questa liberalità si trascurasse l'agricoltura. Non mutò poi questo uso, perchè pericoloso sarebbe stato anche il solo tentarlo; ma attese ben da lì innanzi a far più coltivar le campagne, e volea nota di tutti gli aratori, non meno che di tutti i negozianti e del popolo. Più frequenti divennero in questi tempi gli incendii in Roma, originati forse da chi cercava coi rubamenti di sovvenire alla fame. Stabilì pertanto il provvido Augusto sette corpi di guardia, chiamati i Vigili, che la notte battessero la pattuglia: impiego, che egli pensava di abolire in breve; ma ritrovato utile, anzi necessario, fu dipoi continuato anche sotto gli altri imperadori.
Diversi guai parimente si provarono nelle provincie del romano imperio in quest'anno per le sedizioni e ribellioni dei popoli [Dio, Histor., lib. 55.]. In Sardegna, nell'Isauria e nella Getulia dell'Africa, ebbero delle faccende i soldati romani, per tenere in freno quelle barbare genti. Seguitò la guerra in Germania. Tiberio Cesare era ivi generale dell'armata romana. Ma per attestato di Dione niuna rilevante impresa vi fece, quantunque sì Augusto ch'egli prendessero, il primo, il titolo d'imperadore per la quindicesima volta, ed il secondo [21] per la quarta volta: il che solo succedea, dappoichè s'era riportata qualche vittoria. Potrebbe essere che i prosperosi successi delle armi romane in Germania nell'anno precedente guadagnassero loro questo accrescimento di lustro nel presente. Secondo Vellejo [Vellejus, lib. 2.], s'era messo Tiberio in procinto di procedere contro de' Marcomanni, gente per numero e per bravura fin qui formidabile, e non mai vinta. Meroboduo, re loro, alla potenza sapea unire la disciplina militare, e mandando ambasciatori ai Romani, talora parlava da supplicante, talora da eguale. Stendevasi il suo dominio non solamente per la Boemia, ma molto più in là fino ai confini della Pannonia e del Norico, provincie romane, di modo che poco più di dugento miglia era egli lungi dall'Italia. Ma sul più bello de' suoi preparamenti contra di Meroboduo, Tiberio intese che la Pannonia (oggidì Ungheria) e la Dalmazia, per cagion dei tribuni ribellate, tal copia d'armati avevano messo in piedi, che il terrore ne giunse a Roma stessa; giacchè que' popoli, essendo in concordia coi Triestini, minacciavano di voler in breve calare in Italia. Allora fu che Tiberio trattò e conchiuse, come potè il meglio, la pace coi Germani, per accudire a questo incendio, più importante di gran lunga dell'altro a cagione della maggior vicinanza al cuore dell'imperio. Velleio fa conto, che fossero in armi dugentomila fanti, e novemila cavalli di que' ribelli. Aveano trucidato o carcerati i soldati, i cittadini e i mercatanti romani, e già messa a ferro e fuoco la Macedonia. Gran commozione per questo fu in Roma. I paurosi si figuravano che in dieci giornate veder si potesse intorno a Roma il campo di quei sollevati. Perciò a furia si arrolarono nuovi soldati, e Vellejo Patercolo fu incaricato di condurre a Tiberio questi rinforzi. Una sì grossa armata di fanteria e cavalleria si unì, che Tiberio fu costretto a licenziarne una parte. Marciò [22] egli contro i ribelli della Pannonia; presi i passi, li ristrinse ed affamò. In somma li ridusse a tale, che molti di essi, presso il fiume Batino, vennero a deporre l'armi, e a sottomettersi. Dicono che il lor generale Batone o fu preso, o venne anch'egli spontaneamente all'ubbidienza; e pure nell'anno seguente egli si trova coll'altro Batone dalmatino in armi contro i Romani. Voltossi dipoi Tiberio contro i ribelli dalmatini, alla testa dei quali era l'altro Batone. Valerio Messalino, governatore di quella provincia, più di una volta si azzuffò con loro, ora vincitore ed ora vinto. Tutto il guadagno dei Romani si ridusse a frastornar i disegni fatti dai nemici per passare in Italia, ma senza poter impedire ch'essi non dessero il guasto ad un gran tratto di paese finchè arrivò il verno, che mise fine alle azioni militari.
Dacchè mancò di vita nell'anno 41 d'Augusto Erode il grande, re della Giudea [Joseph., Antiq. Judaic., lib. 17.], Archelao suo figliuolo s'affrettò pel suo viaggio a Roma, affin di succedere nel regno del padre in competenza di Antipa e degli altri suoi fratelli e parenti. Ottenne egli da Augusto, non già il titolo di re, ma il solo di etnarca col dominio della metà degli Stati del padre, consistente nella Giudea, Idumea e Samaria. Per conseguente egli cominciò a dominare in Gerusalemme. Gli avea promesso Augusto il titolo di re, qualora colle sue virtuose azioni se ne facesse conoscere degno. Contrario all'espettazione, anzi tirannico fu il di lui governo, di maniera che nell'anno presente i primati della Giudea e di Samaria spedirono gravissime accuse contra di lui ad Augusto [Dio, lib. 55. Strabo, lib. 16.]. Citato a Roma Archelao, e convinto de' suoi reati, n'ebbe per gastigo la relegazione in Vienna del Delfinato, e la perdita de' suoi patrimoni e tesori, che furono presi dal fisco. Ed allora fu che la Giudea, l'Idumea e la Samaria furono ridotte alla forma delle provincie del romano [23] imperio, ed unite alla Siria o sia alla Soria, e cominciarono ad essere governate dagli ufiziali dell'imperadore: cosa dianzi desiderata dagli stessi Giudei, perchè troppo aggravati dai propri re, speravano essi miglior trattamento dai ministri imperiali. Così cessò lo scettro di Giuda, siccome avea predetto Giacobbe [Genes., cap. 49, v. 10.], nella venuta del divino Salvatore del mondo. Il padre Pagi mette all'anno seguente la caduta di Archelao. Dione ne parla sotto il presente.
Anno di | Cristo VII. Indizione X. |
Cesare Augusto imper. 51. |
Consoli
Aulio Licinio Nerva Siliano e Quinto Cecilio Metello Cretico Silano.
Che il secondo di questi consoli usasse il cognome di Silano, l'hanno dedotto gli eruditi dal trovarsi Cretico Silano proconsole della Siria nell'anno di Cristo 16. Se ciò sussista, nol so. Da un antico marmo ancora ricavarono il Sigonio e il Panvinio che nelle calende di luglio ai suddetti consoli ne furono sostituiti due altri, cioè Publio Cornelio Lentulo Scipione e Tito Quinzio Crispino Valeriano. Procedeva assai lentamente la guerra nella Dalmazia e Pannonia, ed andavano a terminar tutte le prodezze dell'una e dell'altra parte in saccheggi ed incendii [Dio, lib. 55. Vellejus, lib. 3.]. Niuna cosa stava più a cuore di Tiberio che il non esporre a rischio i suoi soldati, parendogli troppo cara anche una vittoria, quando si avesse a comperar colla vita di molti de' suoi. Ma non piaceva ad Augusto una sì melensa maniera di guerreggiare; e dubitando egli che Tiberio non si curasse di finir que' romori, per poter più lungamente godere del comando dell'armi: mandò colà con un copioso rinforzo di genti Germanico Cesare, nipote d'esso Tiberio, e figliuolo di lui per adozione, giovane amatissimo dai soldati [24] per la memoria del valoroso suo padre Claudio Druso. Non vi spedì Agrippa Cesare, figliuolo di Giulia sua figlia, perchè, siccome accennai, trovatolo di sregolati costumi, in quest'anno il relegò nell'isola Pianosa vicina alla Corsica. Le imprese fatte da Tiberio e Germanico in questa campagna furono di poca conseguenza. Vero è che i due Batoni, iti ad assalire gli alloggiamenti romani, furono con loro perdita respinti, e che Germanico recò dei gravi danni ai Mazei e ad altri popoli della Dalmazia; ma altro ci volea che questa, per ridurre al dovere quelle feroci nazioni. Anche Marco Lepido, tenente generale di Tiberio, s'acquistò grande onore, e meritò gli ornamenti trionfali, per essere venuto ad unirsi con lui, aver tagliati a pezzi molti dei nemici che se gli opposero nel viaggio, ed aver dato il sacco ad un gran tratto del loro paese.
Era stato inviato da Augusto per governatore nella Siria nell'anno precedente Publio Sulpicio Quirinio, personaggio illustre, e stato console nell'anno dodicesimo prima dell'Era volgare. Perchè la Giudea ridotta in provincia romana, per la caduta di Archelao di sopra accennata, dipendeva allora dalla Siria, Quirinio ebbe ordine di portarsi colà, per confiscare i beni d'esso Archelao, e per fare il censo, o sia la descrizion delle persone abitanti nella Giudea, e l'estimo delle facoltà d'ognuno [Joseph., Antiq., lib. 17.]. V'andò egli nell'anno presente, ed eseguì puntualmente il suo impiego, ma non senza assaissimi lamenti de' Giudei, a' quali parea una specie di schiavitù una tal novità. Nè mancarono sedizioni in quel popolo, e copiosi ammazzamenti e saccheggi per questo. Il suddetto Quirinio altri non fu che quel medesimo che in san Luca [S. Lucas, in Evang., cap. 2.] vien appellato Cirino, ed ebbe l'incumbenza di fare il censo nella Giudea allorchè venne alla luce del mondo Cristo Signor nostro. Indubitata cosa è che non può parlare il santo Evangelista del censo fatto in quest'anno [25] da Quirinio, essendo nato il Signore, quando anche era vivente Erode il grande; ed avendo noi già accennato ch'esso Erode diede fine alla sua vita nell'anno 41 d'Augusto, cioè quattro anni prima dell'Era cristiana, per conseguente si dee ammettere un altro censo anteriormente fatto nella Giudea dal medesimo Quirinio. Ed ancorchè niun vestigio di ciò si trovi presso gli antichi storici profani, pure è bastante l'autorità dell'Evangelista per istabilirne la verità. E tanto più dicendo egli che: Haec descriptio prima facta est a praeside Cyrino. Imperciocchè quel prima acconciamente fa dedurre, chiamarsi così quella descrizione, per distinguerla dall'altra, fatta nell'anno presente. In qual anno poi precisamente seguisse la prima delle suddette descrizioni, cioè se cinque, o sei, o sette, o più anni prima dell'Era cristiana, non s'è potuto chiarire finora.
Anno di | Cristo VIII. Indizione XI. |
Cesare Augusto imper. 52. |
Consoli
Marco Furio Camillo e Sesto Nonio Quintiliano.
A questi consoli ordinari, nelle calende di luglio furono surrogati Lucio Apronio ed Aulo Vibio Habito. Trovavansi [Dio, lib. 55.] già i ribellati popoli della Pannonia e Dalmazia in grandi strettezze, perchè penuriavano cotanto di viveri, che si erano ridotti a mangiar dell'erbe. Sopravvenne ancora un'epidemia che, mietendo le vite di molti, li ridusse ad un infelicissimo stato, in guisa che già erano i più determinati di chiedere la pace; ma perchè s'opponevano a tal risoluzione coloro che mostravano di credere inesorabili i Romani, niuno osava di mandare ambasciatori al campo nemico. Assediò in questi tempi Germanico una forte città, e la costrinse alla resa. Questo colpo fu cagione che, senza più stare in bilancio, [26] Batone, capo dei Dalmatini ribelli, munito di salvocondotto, venne ad abboccarsi con Tiberio per trattar di pace. Gli dimandò Tiberio i motivi della già fatta e tanto sostenuta ribellione. «Ne siete in colpa voi altri Romani, animosamente allora rispose Batone, perchè a custodir le vostre gregge avete inviato non dei pastori e dei cani, ma sì bene dei lupi:» chè non erano già allora cose pellegrine le violenze ed ingiustizie degli uffiziali romani, per le quali anche altri popoli cercarono di scuotere il giogo. Augusto intanto trovandosi inquieto per questa guerra, la quale, per attestato di Svetonio [Sueton., in Tiber., cap. 16.], fu creduta la più grave e pericolosa che, dopo quelle de' Cartaginesi, avesse patito il popolo romano; e volendo egli essere più alla portata di udirne le nuove, e di provvedere ai bisogni, era venuto nell'anno precedente, o pure nel corrente, a Rimini. Approvò egli le proposizioni della pace; e, in questa maniera, parte colla forza, parte coll'uso della clemenza, que' popoli tornarono all'ubbidienza primiera. Niun altro rilevante avvenimento ci porge sotto quest'anno la Storia romana.
Anno di | Cristo IX. Indizione XII. |
Cesare Augusto imper. 53. |
Consoli
Cajo Pompeo Sabino e Quinto Sulpicio Camerino.
Furono sostituiti ai suddetti consoli nelle calende di luglio Marco Papio Mutilo e Quinto Popeo Secondo, chiamato da alcuni Secondino; ma più sicuro è il primo cognome. Dopo aver pacificata la Pannonia e la Dalmazia, glorioso se ne tornò a Roma Tiberio Cesare [Idem, ibid., cap. 17. Dio, lib. 56.]. Augusto gli venne incontro fuori della città; il fece entrare in Roma con corona d'alloro in capo; e in un palco, dove amendue si misero a sedere in mezzo ai consoli, coi senatori [27] in piedi, mostrò al popolo questo suo vittorioso figliuolo. Furono in onor suo celebrati alcuni spettacoli. In questi tempi Augusto, raunati i cavalieri romani e trovato che in minor numero erano gli ammogliati che gli altri, pubblicamente lodò i primi, biasimò i secondi. Dione rapporta la di lui allocuzione, in cui egli mostrò appartenere non meno al privato che al pubblico bene che tutti avessero moglie, e si studiassero di mettere figliuoli al mondo, per mantenere le nobili famiglie romane, e sostenere il decoro della repubblica, massimamente ne' bisogni delle guerre, con inveire gagliardamente contra di tanti, i quali non già per amore del celibato, ma per avere più libertà allo sfogo della lor libidine, fuggivano il prender moglie. Pertanto in vigore della legge Papia Poppea concedette varii privilegi a chi avesse o prendesse moglie, e pene a chi dentro un convenevol termine non si ammogliasse. Ed affinchè niuno si prevalesse dell'esempio delle Vestali, le quali pure nel loro stato erano sì accreditate, disse, che quando volessero imitarle, bisognava ancora che si contentassero d'essere puniti al pari di quelle vergini, qualora contravvenissero alle leggi della continenza. Fu poi sotto Tiberio mitigata questa legge.
Poca durata ebbe la pace della Dalmazia [Vellejus, lib. 2.]. Quel Batone, capo de' Pannonii, che dianzi avea mossi alla ribellione anche i Dalmatini, dopo aver preso ed ucciso l'altro Batone, tornò a cozzar coi Romani. Vollero questi prendere la città di Retino, ma per uno stratagemma dei sollevati ne riportarono una mala percossa. S'impadronirono bensì i Romani di alcuni luoghi; ma perchè apparenza non v'era di poter così presto terminar quella guerra, e Roma per quest'imbroglio scarseggiava di viveri, Augusto tornò di bel nuovo ad inviar colà Tiberio con un possente esercito. Nulla più bramavano i soldati, che di venire ad una giornata campale. Tiberio, che non voleva espor le genti all'azzardo, e temeva di [28] qualche sollevazione, divise in tre corpi l'armata, dandone l'uno a Silano (o sia Siliano), l'altro a Lepido, e ritenendo il terzo per sè e per Germanico suo nipote. I due primi fecero valorosamente tornare al suo dovere il paese loro assegnato. Tiberio marciò contro Batone, ed essendosi costui salvato in un castello inespugnabile per la sua situazione, perchè fabbricato sopra alto sasso, e circondato da precipizii, non si scorgeva maniera di poter espugnare quella fortezza. Anderio era il suo nome. Furono sì arditi i Romani, che cominciarono ad arrampicarsi per que' dirupi, e al dispetto de' sassi rotolati all'ingiù, giunsero a mettere in fuga parte dei difensori ch'erano usciti fuori a battaglia. Per questo successo atterriti i restati nella rocca, dimandarono ed ottennero capitolazione. Britannico anche egli forzò Arduba ed altre castella alla resa. Disperato perciò Batone il Pannonico, altro scampo non ebbe, che ricorrere alla misericordia di Tiberio. Gli fu permesso di venire al campo, e concessogli il perdono, si rinnovò ed assodò meglio che prima la pace. Volò Germanico a Roma, a portarne la lieta nuova. Tiberio gli tenne dietro, ed incontrato da Augusto ne' borghi di Roma, fece la sua entrata nella città con molta magnificenza. A Germanico furono accordate le insegne trionfali nella Pannonia; a Tiberio il trionfo e due archi trionfali nella Pannonia, con altri privilegii ed onori; ma del trionfo non potè egli godere, perchè poco stette Roma a trovarsi in gran lutto per una sempre memoranda sventura accaduta all'armi romane in Germania, di cui furono portate le funeste nuove cinque soli giorni dopo l'arrivo di Tiberio.
Siccome accennai di sopra, al governo della Siria, o vogliam dire della Soria, era stato inviato Quintilio Varo; di là poi venne in Germania per generale delle legioni che quivi continuamente dimoravano, per tener in dovere i popoli sudditi, ed in freno i non sudditi [Tacitus, Annal., lib. 1.]. Tacito [29] scrive essere state otto le legioni che si mantenevano dai Romani al Reno. Pare che Vellejo [Vellejus, lib. 2. Dio, lib. 56.] ne nomini solamente cinque. Solevano in que' tempi essere composte le legioni di seimila fanti l'una, ed alcune d'esse avevano la giunta di qualche poco di cavalleria. Il nerbo principale delle armate romane era allora la fanteria. Varo, che povero entrò già nella Siria ricca, e nel partirsene ricco, lasciò lei povera, si credette di poter fare il medesimo giuoco in Germania. Cominciò a trattar que' popoli, come se fossero una specie di schiavi, con abolir le loro consuetudini, esigerne a diritto e a rovescio danari, e volere ridurli a quella total sommessione e maniera di vivere, che si usava fra i Romani. Diede motivo questo suo governo a molti di tramare una congiura. Arminio, figliuolo o pur fratello di Segimero, giovane prode e de' principali di quelle contrade, già ammesso alla cittadinanza di Roma e all'ordine equestre, quegli era che più degli altri animava i suoi nazionali a ricuperar l'antica libertà. Quanto più crescevano i loro odii, e si preparavano a far vendetta, tanto più fingevano sommessione ai comandanti, amore e confidenza alla persona di Varo, in guisa tale, che l'avviso dato da più di uno che si macchinava una congiura contra de' Romani, da lui fu creduto una baia, nè precauzione alcuna si prese. Ora essendosi per concerto fatto fra loro mossi all'armi alcuni de' lontani Tedeschi, Quintilio Varo, messa insieme un'armata di tre legioni, d'altrettante ale di cavalleria, e di sei coorti ausiliarie, che forse ascendevano alla somma almeno di ventiduemila combattenti, la più brava ed agguerrita gente che avesse allora l'imperio romano, si mise in viaggio con grossissimo bagaglio, per opporsi ai tentativi de' nemici. Arminio e Segimero suo padre, restati indietro col pretesto di raunar le lor genti in aiuto di Varo, allorchè i Romani si trovarono sfilati e disordinati per selve e strade disastrose, all'improvviso [30] dalla parte superiore furono loro addosso, e cominciarono a farne macello. Per tre giorni durò il conflitto miserabile per i Romani, che non trovando mai sito in quelle montagne da potersi unire, schierare e difendere, rimasero quasi tutti vittima del furore germanico. Varo, e i principali dell'esercito, dopo aver riportate molte ferite, per non venire in mano dei nemici, da sè stessi si diedero la morte. Tutto il carriaggio, e le insegne romane restarono in poter de' Germani. Per attestato di Tacito, il luogo di questa tragedia fu il bosco di Teutoburgo, oggidì creduto Dietmelle nel contado di Lippa, vicino a Paderbona ed al fiume Wessen, nella Westfalia.
Portata questa lagrimevol nuova a Roma, incredibile fu il cordoglio d'ognuno, non minore il terrore per paura [Sueton., in August., cap. 23.] che i Germani meditassero imprese più grandi, e pensassero a passare il Reno, o a volgersi ancora coi Galli verso l'Italia. Più degli altri se ne afflisse Augusto per la morte di sì valorose truppe, per la perdita delle aquile romane e per la cattiva condotta di Varo, uomo male adoperato negli affari di pace, e peggio in quei della guerra. Perciò per più mesi non si fece tosare il capo, nè tagliare la barba; e andò sì innanzi il suo affanno, che dava della testa per le porte, e gridava da forsennato, che Varo gli restituisse le sue legioni. A sì fatti colpi non erano avvezzi i Romani, e dopo la sconfitta di Publio Crasso in Asia non aveano provata una calamità simile a questa. Si rincorò poscia Augusto al sopraggiugnere susseguenti avvisi d'essere la Gallia quieta, e di non avere i Germani osato di passare il Reno, per l'esatta guardia delle altre legioni ch'erano salve in quelle parti, e per la buona cura di Publio Asprenate, generale di due legioni al Reno, il quale seppe anche approfittarsi non poco delle eredità de' soldati uccisi. Perchè in Roma la gioventù atta all'armi non si voleva arrolare, adoperò Augusto [31] la forza, tanto che tra essi e i veterani, che premiati tornarono all'armi e i libertini, compose un bel corpo d'armata, per inviarlo in Germania. L'anno fu questo, in cui il poeta Ovidio in età di cinquanta anni, per ordine d'Augusto andò a far penitenza de' suoi falli, relegato in Tomi città della Scizia, oggidì Tartaria, nel Ponto. Perchè egli si tirasse addosso questo gastigo, non ben si seppe, ed ora almeno non si sa. Dall'aver detto Apollinare Sidonio, ch'egli amoreggiava una fanciulla cesarea, hanno alcuni creduto qualche suo imbroglio con Giulia figliuola d'Augusto: il che non è probabile, perchè molti anni prima questa impudica principessa era stata relegata dal padre, e gastigati i suoi drudi. Potrebbe piuttosto cadere il sospetto in Giulia figliuola della suddetta Giulia, che non la cedette alla madre nella cattiva fama. Altri ha tenuto che il suo libro dell'Arte di amare, siccome opera scandalosa, fosse cagion delle sue sciagure. La sua relegazione è certa; il perchè, difficil è l'accertarlo.
Anno di | Cristo X. Indizione XIII. |
Cesare Augusto imper. 54. |
Consoli
Publio Cornelio Dolabella e Cajo Giunio Silano.
Si trova sostituito all'uno di questi consoli nelle calende di luglio Servio Cornelio Lentulo Maluginense. Credono i padri Petavio e Pagio, che Tiberio Cesare, in quest'anno, dedicasse il tempio della Concordia in Roma, ricavando tal notizia da Dione [Dio, lib. 56.]. Ne parla veramente questo istorico, ma dopo aver detto che Tiberio fu inviato in Germania; e però tal dedicazione appartiene piuttosto ad un altro anno. È mancante, a mio credere, in questi tempi, come in tanti altri, la storia d'esso Dione. Vellejo anch'egli, perchè prometteva una storia a parte dei [32] fatti di Tiberio, con due pennellate qui si sbriga: laonde poco si sa in questo e nel seguente anno della Storia romana. Quel che è certo, unito ch'ebbe Augusto quanto potè levar di gente in Roma, spedì con tali milizie, nella Gallia Tiberio Cesare. Ciò avvenne, secondo Svetonio [Sueton., in Tib., c. 18.], nell'anno presente. Seco probabilmente andò anche il nipote Germanico, perchè Dione sotto il seguente anno scrive che unitamente fecero guerra alla Germania. Le imprese di Tiberio in essa guerra o non son giunte a noi, o piuttosto non meritarono d'essere scritte, perchè di poco momento. Vellejo unicamente ci fa sapere [Vellejus, lib. 2.] che Tiberio, ben disposte le guarnigioni della Gallia, passò il Reno coll'esercito romano. Non altro si aspettava Augusto e Roma da lui, se non che impedisse ad Arminio i progressi, sul timore che costui pensasse a molestare l'Italia. Ma Tiberio fece di più. Entrò nella parte nemica della Germania, mettendo a sacco e fuoco il paese, e in fuga chiunque ebbe ardire di contrastargli il passo: il che gran terrore diede ad Arminio. Così quello storico, gran panegirista, anzi adulator di Tiberio. Con queste poche parole Vellejo manda ai quartieri il romano esercito nell'anno presente. Potrebbono nondimeno appartenere all'anno seguente questi pochi fatti, confrontati colla narrativa di Dione. Secondo l'Usserio [Usserius, in Annalib.], a questo anno si dee riferire la morte di Salome sorella del fu re Erode. Essa era padrona del principato di Jamnia, in cui esistevano due bellissime ville, abbondanti di palme, che producevano frutti squisiti. Di tutto lasciò erede Livia moglie d'Augusto, donna che mieteva da per tutto, e con facilità, perchè essendo conosciuta di gran possanza presso il marito, ognun si procacciava la grazia di lei.
Anno di | Cristo XI. Indizione XIV. |
Cesare Augusto imper. 55. |
Consoli
Manio Emilio Lepido e Tito Statilio Tauro.
Ad alcuni non par certo il prenome di Manio nel primo di questi consoli. Numio è da essi creduto piuttosto. Marco fu appellato da altri. Un'iscrizione legittima potrebbe decidere questa poco importante quistione. Ad Emilio Lepido fu sostituito nelle calende di luglio Lucio Cassio Longino. Sotto questi consoli, narra Dione, che Tiberio e Germanico con autorità proconsolare fecero un'irruzione nella Germania, misero a sacco un tratto di quel paese; ma niuna battaglia diedero, perchè niuno si opponeva; nè sottomisero alcun di que' popoli, perchè, ammaestrati dalle disgrazie di Varo, non volevano esporsi a pericolosi cimenti. Svetonio, benchè poco d'accordo con Dione, anch'egli attesta [Sueton., in Tiber., cap 18.] che Tiberio (avvezzo per altro a far di sua testa le risoluzioni) nulla intraprese in questa spedizione senza il parere de' suoi primari uffiziali. Aggiugne, aver egli osservata una rigorosa disciplina nell'esercito; e che sebben egli non amava di azzardar la fortuna ne' combattimenti, pure non avea difficoltà a combattere, se nella precedente notte all'improvviso si fosse smorzata da sè stessa la sua lucerna, benchè vi fosse dell'olio; perchè dicea d'aver egli e i suoi maggiori trovato sempre questo un segno di buona fortuna; tanto si lasciavano gli antichi pagani travolgere il capo da tali inezie. Ma riportata vittoria un dì, poco mancò che un di que' barbari non l'uccidesse, siccom'egli confessò di poi ne' tormenti di aver meditato. Dovette ancora succedere in quest'anno ciò che narra Vellejo Patercolo [Vellejus, lib. 3.], cioè che essendo insorto un fiero tumulto e dissensione della plebe [34] in Vienna del Delfinato, città allora floridissima, accorse colà Tiberio; e senza adoperar le scuri, quietò quella pericolosa commozione. Sappiamo inoltre da Dione, che dopo l'incursione fatta nella Germania, Tiberio e Germanico si ritirarono al Reno, e quivi stettero sino all'autunno: nel qual tempo fecero giuochi pubblici in onore del natale d'Augusto, e similmente un combattimento di cavalleria. Poscia verso il fine dell'anno se ne tornarono in Italia.
Intanto Augusto mise in Roma un po' di freno alla astrologia giudiciaria, ch'era e fu anche da lì innanzi in gran voga in quella città, proibendo di predire la morte d'alcuno, benchè egli per sè niun pensiero si mettesse della vanità di quest'arte, ed avesse lasciato correre in pubblico l'oroscopo suo. Vietò ancora per tutte le provincie, che nulla più del consueto onore si facesse ai governatori ed altri ministri pubblici, durante il loro impiego, nè per due mesi dopo la loro partenza, imperciocchè per ottener simili dimostrazioni, si commettevano molte iniquità. Ora qui insorge fra gli eruditi una gran contesa, cioè in qual anno fosse Tiberio dichiarato Collega nell'Imperio, cioè ornato di quella stessa podestà tribunizia e proconsolare, che godeva lo stesso Augusto. In vigore dell'ultima era conceduto il comando di tutte le armate fuori di Roma colla stessa balìa che godevano i consoli. Da questo principio si pensano alcuni letterati di poter dedurre l'anno quindicesimo di Tiberio, enunziato da s. Luca. Non è facile la decision della quistione, perchè gli stessi antichi istorici son fra loro discordi, non già nell'assegnare il giorno, credendosi fatta tal dichiarazione dal senato nel dì 28 di agosto, ma bensì quanto all'anno. Svetonio scrive [Sveton., in Tiber., c. 20 e 21.] che, essendo ritornato Tiberio dalla Germania dopo due anni a Roma, per decreto del senato gli fu conceduto di amministrar le provincie comunemente con Angusto. Ma la autorità [35] di Vellejo Patercolo merita ben di essere preferita a quelle di Svetonio per aver egli scritto le avventure de' suoi tempi; e militato allora sotto lo stesso Tiberio, laddove Svetonio visse e scrisse cento anni dipoi. Ora abbiamo da Velleio [Vellejus, lib. 2.] che, a requisizione d'Augusto, il senato e popolo romano concedette a Tiberio l'uguaglianza nella podestà pel governo delle provincie e delle armate: Ut aequum ei jus in omnibus provinciis, exercitibusque esset. Dopo di che Tiberio se ne tornò a Roma. Adunque piuttosto all'anno presente si dee riferire l'esser egli divenuto collega dell'imperio. Anche da Tacito [Tacitus, Annal., lib. 1.] possiam raccogliere la stessa verità, scrivendo egli, che Tiberio Collega Imperii, consors Tribuniciae Potestatis adsumitur, omnesque per exercitus ostentatur. Pare che Tacito anticipi di qualche anno questa dignità; ma certamente fa intendere la medesima a lui conferita, mentr'esso era all'armata, e non già allorchè fu giunto a Roma. Però assai fondamento abbiamo per credere che dall'anno presente, a cagione di questo innalzamento di Tiberio, alcuni cominciassero a numerare gli anni del suo imperio; sentenza adottata dal padre Pagi e da altri.
Anno di | Cristo XII. Indizione XV. |
Cesare Augusto imper. 56. |
Consoli
Germanico Cesare e Caio Fontejo Capitone.
Tiberio Giulio Germanico Cesare, nipote e figliuolo per adozione di Tiberio Cesare, e nipote, a cagion d'essa adozione, di Augusto, pel merito acquistato nelle guerre della Germania, Pannonia e Dalmazia, ottenne quest'anno il consolato e inoltre gli ornamenti trionfali [Vellejus, lib. 2.]. Nelle calende di luglio a Capitone fu [36] sostituito nel consolato Cajo Visellio Varrone. Con esso Germanico venne anche Tiberio [Sueton., in Tiber., c. 20.], nell'anno presente a Roma. Le guerre sopravvenute gli aveano impedito il trionfo destinatogli dal senato per le guerre da lui felicemente terminate nella Pannonia e Dalmazia. Ricevette egli ora quest'onore, con entrare trionfalmente in Roma. Prima di passare al Campidoglio, scese dal carro trionfale, e andò ad inginocchiarsi ai piedi d'Augusto, che con gran festa l'accolse. Seco era Batone, che già vedemmo capo della sollevazion della Pannonia ed è chiamato re di quella provincia da Rufo Festo, ma impropriamente. A costui professava non poca obbligazione Tiberio, perchè nella guerra pannonica trovandosi egli stretto in un brutto sito, e circondato dai ribelli, Batone generosamente il lasciò ritirarsi in luogo sicuro. Per gratitudine Tiberio gli fece de' grandissimi doni, e il mise di stanza a Ravenna. Seguita a dire Svetonio, aver Tiberio dato un convito al popolo con mille tavole apparecchiate, ed oltre a ciò un congiario, cioè un regalo di trenta nummi per testa. Dedicò eziandio il tempio della Concordia, mettendo nell'iscrizione, come asserisce Dione [Dio, lib. 56.] d'averlo rifatto egli con Druso suo fratello già defunto. V'ha chi crede fatta cotal dedicazione nell'anno di Cristo X, e chi nel precedente IX, tirando ciascuno [Petavius, Mediobarbus, Pagius et aliis.] al suo sentimento le parole di Dione. Ma dacchè lo stesso Dione confessa che prima di questa dedicazione Tiberio era passato in Germania, da dove solamente nell'anno presente ritornò, nè essendo verisimile che in lontananza egli dedicasse quel tempio; sembra ben da anteporsi l'autorità di Svetonio che mette quel fatto sotto l'anno presente, che è inoltre autore più vicino a questi tempi, che non fu Dione. Dedicò parimente lo stesso Tiberio il tempio di Polluce e di Castore [37] sotto il nome suo o del fratello Druso, mettendo ivi le spoglie de' popoli soggiogati.
Quantunque Augusto si trovasse in età molto avanzata, e con vacillante sanità, pure non lasciava di pensare al pubblico bene [Dio, lib. 56.]. Perciò in quest'anno fece pubblicare una legge contro i Libelli famosi, ordinando che fossero bruciati, e castigati i loro autori. E perchè intese che gli esiliati da Roma con gran lusso viveano, e andando qua e là si ridevano delle delizie di Roma, nè parea loro di essere gastigati; ordinò che non potessero soggiornare se non nelle isole distanti dalla terra ferma per cinquanta miglia, a riserva di Coo, Rodi, Sardegna e Lesbo. Ristrinse ancora i lor comodi e la lor servitù. Per cagione poi della poca sua sanità mandò a scusarsi coi senatori, se da lì innanzi non poteva andar a convito con loro, pregandoli nello stesso tempo di non portarsi più a salutarlo in casa, come fin qui avevano usato di fare non tanto essi, ma eziandio i cavalieri ed alcuni della plebe. Finalmente raccomandò Germanico al senato, ed il senato a Tiberio con una polizza: segno ch'egli si sentiva già fiacco di forze, e vicino ad abbandonar questa vita. Molti pubblici giuochi furono fatti nell'anno presente dagl'istrioni e dai cavalieri nella piazza d'Augusto; e Germanico diede una gran caccia nel Circo, dove furono uccisi dugento lioni dai gladiatori. Fece ancora la fabbrica e la dedicazione del portico di Livia, in onore di Cajo e Lucio Cesari defunti. Abbiamo da Svetonio [Sueton., in Caligul., cap. 8.], che in quest'anno, nel dì 31 di agosto, venne alla luce Caio Caligola, che fu poi imperadore, figliuolo di esso Germanico Cesare, e di Giulia Agrippina, nata da Marco Agrippa, e da Giulia figliuola di Augusto. Chi il fa nato in Treveri, chi in Anzio in Italia. Di poca conseguenza è questa disputa, perchè egli non diede motivo ad alcun luogo di gloriarsi della di lui nascita.
Anno di | Cristo XIII. Indizione I. |
Cesare Augusto imper. 57. |
Consoli
Cajo Silio e Lucio Munazio Planco.
Di dieci in dieci anni, o pure di cinque in dieci il saggio Augusto soleva farsi confermare dal senato e popolo romano l'autorità ch'egli avea di reggere la repubblica come suo capo, e di comandare le armate, esercitando la podestà tribunizia e proconsolare. Con questo incenso e con quest'atto di sommessione, quasi che il suo comandare fosse una arbitraria concession de' Romani, egli continuava a far da padrone, tutti a lui servendo, quando egli mostrava d'essere dipendente e servo d'ognuno. Nè già egli dimandava la conferma di tali prerogative. Il senato stesso quegli era, che pregava e quasi forzava lui ad accettar il peso del comando. Non mancavano insinuazioni di così fare: ed anche senza insinuazioni ciascun desiderava di farsi merito con lui. Si mutò nel proseguimento dei tempi la sostanza delle cose: tuttavia l'esempio d'Augusto servì a far continuare l'uso de' quinquennali, decennali, vicennali e tricennali degl'imperadori romani, solennizzandosi con gran festa, cioè con giuochi pubblici e sagrifizii, il quinto, il decimo, vigesimo e trigesimo anno del loro imperio, con ringraziare gl'iddii della vita loro conceduta, e pregar felicità e lunghezza al resto del loro vivere, quand'anche erano cattivi. Nello anno presente [Dio, lib. 56.] fu prorogato da Augusto per altri dieci anni a venire il governo della repubblica; e benchè egli si mostrasse renitente alla loro amorevole offerta, pure si sottomise a tali istanze. Prorogò egli la podestà tribunizia a Tiberio, e a Druso figliuolo d'esso Tiberio concedette la licenza di chiedere fra tre anni il consolato, anche senza avere esercitato la pretura. Intanto perchè la inoltrata sua età e gl'incomodi della salute [39] non gli permettevano più di andare al senato, se non rarissime volte, dimandò di poter avere venti senatori per suoi consiglieri (ne tenea quindici negli anni addietro), e fu fatto un pubblico decreto, che qualunque determinazione ch'egli facesse da lì innanzi insieme coi suddetti consiglieri e coi consoli reggenti e disegnati, e coi suoi figliuoli e nipoti, fosse valida, come se fosse emanata dall'intero senato. In vigore di questo decreto, anche stando in letto per cagion delle sue indisposizioni, prese molte risoluzioni opportune al pubblico governo. Sì malcontento era il popolo romano del poco fa introdotto aggravio della vigesima parte delle eredità che si pagava all'erario militare pel mantenimento de' soldati, che si temeva di qualche sedizione in Roma. Scrisse Augusto al senato che ognuno mettesse in iscritto il suo voto, per trovar altra via più comoda da ricavar il necessario danaro, acciocchè, se non si fosse trovata, facesse conoscere che da lui non veniva il male, vietando a Germanico e a Druso di dire il loro parere, perchè non si credesse quella essere la mente sua. Vi fu gran dibattimento; e continuandosi pure a detestar la vigesima, egli mostrò di voler compartire il peso di quella contribuzione sopra i beni stabili del popolo. Inviò pertanto qua e là, senza perdere tempo, estimatori delle case e terre: il che bastò a fare che cadauno, temendo di patir più danno da questo che da quell'aggravio, si quietò, e restò, come prima, in piedi la vigesima.
Anno di | Cristo XIV. Indizione II. |
Tiberio imperadore 1. |
Consoli
Sesto Pompeo e Sesto Appuleo.
Fece in quest'anno Augusto insieme con Tiberio il censo, o sia la descrizione de' cittadini romani, abitanti in Roma e per le provincie; e per attestato della inscrizione ancirana, riferita dal Grutero [Gruter., Thesaur. Inscription., pag. 230.], [40] se ne trovarono quattro milioni e cento settantasettemila. Eusebio nella sua cronica [Euseb., in Chron.] fa ascendere essi cittadini a nove milioni e trecento settantamila persone, forse per error de' copisti, il quale s'ha da correggere coll'autorità dell'iscrizione suddetta. Svetonio [Sueton., in August., cap. ult.] e Dione [Dio, lib. 56.] attestano, avere Augusto sul fin di sua vita fatto un compendio delle sue più memorabili azioni, con ordine d'intagliarlo in varie tavole di bronzo. Se ne conservò in Ancira una copia. Fu poi spedito Germanico in Germania, perchè non era per anche cessata in quelle contrade la guerra. Prese Augusto anche la risoluzion d'inviar Tiberio nell'Illirico, per assodar sempre più la pace ivi stabilita; e però con esso lui da Roma si incamminò alla volta di Napoli, invitatovi da quel popolo nell'occasione de' giuochi insigni che qui ogni cinque anni in onor suo si facevano all'usanza de' Greci. V'andò, ma portando seco una molesta diarrea, cominciata in Roma. Dopo avere assistito a quella magnifica funzione, e licenziato Tiberio, si rimise in viaggio per tornarsene a Roma. Aggravatosi il suo male, fu forzato a fermarsi in Nola, dove poi placidamente morì nel dì 19 agosto, cioè nel mese nominato prima sestile, e poscia dal suo nome Augusto, che tuttavia dura, e in quella medesima stanza, dove Ottavio suo padre era mancato di vita. Sospetto corse [Sueton., Tacitus, Dio.], che la ambiziosa sua moglie Livia, appellata anche Giulia, perchè adottata per figliuola da esso Augusto con istravaganza non lieve, gli avesse procurata la morte con dei fichi avvelenati. Imperocchè dicono che in questi ultimi tempi Augusto, o perchè già conoscesse il mal talento di Tiberio figliastro suo, o perchè gli paresse più convenevole di anteporre Agrippa, figliuolo di Giulia sua figlia, ad un figliuolo di sua moglie Livia, avesse cangiata [41] massima intorno alla successione sua; e che segretamente coll'accompagnamento di pochi si fosse portato a visitar esso Agrippa, che trovavasi allora relegato nell'isola della Pianosa, con dargli buone speranze. Avendo Livia penetrato questo segreto affare, s'affrettò, secondo i suddetti scrittori, ad accelerar la morte del marito. Ma non par già verisimile, che Augusto sì vecchio volesse prendersi lo incomodo di arrivar sino alla Pianosa, vicino alla Corsica, nè potea ciò farsi senza che Livia ed altri nol venissero a sapere. L'affetto poi dimostrato da Augusto sul fine di sua vita alla medesima Livia e a Tiberio, il quale richiamato dal suo viaggio [Vellejus, lib. 2.] arrivò a tempo di vederlo vivo, e di tenere un lungo ragionamento con lui, non lascia trasparire segno di affezione di esso Augusto verso il nipote Agrippa, nè di mal animo contro il figliastro Tiberio e di sua madre.
Comunque sia, terminò Augusto i suoi giorni in età di quasi settantasei anni, e di cinquantasette anni e cinque mesi dopo la morte di Giulio Cesare. Tanto anticamente, quanto ne' due ultimi secoli, si vide posto sulle bilance de' politici e dei declamatori il merito di questo imperadore, lacerando gli uni la di lui fama, per avere oppressa la repubblica romana, e gli altri encomiandolo come uno dei più gloriosi principi che s'abbia prodotto la terra. La verità si è, che hanno ragione amendue queste fazioni, considerata la diversità de' tempi. Non si può negare ne' principii il reato di tirannia e di crudeltà in Augusto verso la sua patria; ma si dee ancora concedere, che il proseguimento della sua vita fece scorgere in lui non un tiranno, ma un principe degno di somma lode pel savio suo governo, per l'insigne moderazione sua, e per la cura di mantenere ed accrescere la pubblica felicità. Può anche meritar qualche perdono l'attentato suo. Trovavasi da molto tempo vacillante e guasta la romana repubblica per le fazioni e [42] prepotenze, che non occorre qui rammentare [Tacitus, Annal., lib. 1.]. Bisogno v'era di un'autorità superiore, che rimediasse ai passati disordini, e non lasciasse pullularne dei nuovi. Però la tranquillità di Roma è dovuta al medesimo, se vogliamo dire, fallo suo. Nè egli a guisa de' tiranni tirò a sè tutto quel governo, ma saggiamente seppe fare un misto di monarchia e di repubblica, quale anche oggidì con lode si pratica in qualche parte d'Europa. Felice Roma, s'egli avesse potuto tramandare ai suoi successori, come l'imperio, così anche il suo senno e il suo amore alla patria. Ma vennero tempi cattivi, ne' quali poi s'ebbe a dire: Che Augusto non dovea mai nascere, o non dovea mai morire. Il primo per mali da lui fatti a fine di rendersi padrone: il secondo per l'amorevolezza e saviezza, con cui seppe dipoi governare la repubblica, e di cui furono privi tanti de' suoi successori, non principi, ma tiranni. Un gran saggio ancora del merito d'Augusto furono gli onori a lui compartiti in vita, e più dopo morte. Vi avrà avuta qualche parte, non vo' negarlo, l'adulazione; ma i più vennero dalla stima, dall'amore e dalla gratitudine de' popoli che sotto di lui goderono uno stato cotanto felice. E tali onori arrivarono sino al sacrilegio [Tacitus, ibidem. Dio, lib. 51. Sueton., in August., c. 59. Philo, in Legation. ad Cajum.]. Imperciocchè a lui anche vivente furono, come ad un Dio, dedicati altari, templi e sacerdoti, e molto più dopo morte. Con pubblici giuochi ancora e spettacoli si solennizzò dipoi il suo giorno natalizio, e memoria onorevole si tenne de' benefizii da lui ricevuti.
Tennero Livia e Tiberio occulta per alcuni giorni la morte d'Augusto, finchè avendo frettolosamente inviato ordine alla Pianosa che fosse ucciso Agrippa, nipote d'esso Augusto, giunse loro la nuova di essere stato eseguito il barbaro comandamento, mostrando poscia di non averlo dato alcun d'essi; che questo fu il bel [43] principio del loro imperio. Allora si pubblicò essere Augusto mancato di vita. Fu portato con gran solennità il di lui corpo a Roma dai principali magistrati delle città, e poi da' cavalieri; furongli fatte solenni esequie, descritte da Dione, con averlo portato al rogo Druso figliuolo di Tiberio e i senatori. Saltò poi fuori Numerio Attico senatore, il quale, mentre la pira ardeva, giurò di aver veduta l'anima d'Augusto volare al cielo [Sueton., in August., cap. 101. Dio, lib. 56.], come si finse una volta succeduto anche a Romolo, facendosi credere con tali imposture alla buona gente ch'egli fosse divenuto un dio o semideo: vana pretensione, continuata ne' tempi seguenti per altri imperadori. Ciò fatto, si trattò nel senato di confermare, o, per dir meglio, di concedere a Tiberio Cesare, lasciato erede da Augusto suo padrigno, tutta l'autorità e gli onori goduti in addietro dal medesimo Augusto. Era allora Tiberio in età di cinquantasei anni, volpe fina e impastato di diffidenza, d'umor nero e di crudeltà; ma che sapeva nascondere il suo cuore meglio d'ogni altro, ed avea saputo coprire i suoi vizii agli occhi, non già di tutti, ma forse della maggior parte dei grandi e de' piccoli. Nel senato non v'era più alcuna di quelle teste forti che potessero rimettere in piedi la libertà romana; tutto tendeva all'adulazione e al privato, non al pubblico bene. V'entrava anche la paura, perchè Tiberio continuò a comandare alle coorti del pretorio e alle armate romane per le precedenti concessioni; e però niuno osava di alzar un dito, anzi ognuno gareggiò a conferir la signoria a Tiberio. All'incontro l'astuto Tiberio, quanto più essi insistevano per esaltarlo, tanto più facea vista di abborrir quegli onori, e di desiderare non superiorità, ma uguaglianza co' suoi cittadini, esagerando la gran difficoltà a reggere sì vasto corpo, e i pericoli di soccombere sotto il peso. Tutto affine di scandagliar bene gli animi di ciascun particolare, e far poi vendetta a suo tempo di chi poco inclinato [44] comparisse verso di lui [Dio, lib. 57.]. Temeva ancora che Germanico suo nipote, già adottato da lui per figliuolo, tra per essere allora alla testa dell'armata romana in Germania, e perchè sommamente amato dal popolo romano e dai soldati, potesse torgli la mano. Lasciossi dunque pregare gran tempo anche dagl'inginocchiati senatori, e finalmente senza chiaramente accettar l'impiego [Sueton., in Tiber., cap. 24.], o pur facendo credere di prenderlo, ma per deporlo fra qualche tempo, cominciò francamente ad esercitare l'autorità imperiale. Qui Vellejo Patercolo [Vellejus, lib. 2.] lascia la briglia all'eloquenza sua, per tessere un panegirico delle azioni di Tiberio sui principii del suo governo. La pace fiorì da per tutto; andò l'ingiustizia, la prepotenza, la frode a nascondersi fra i Barbari; si stese la di lui liberalità per le provincie e città che aveano patito disgrazie. E veramente gran moderazione mostrò a tutta prima Tiberio, e seguitò a governar da saggio, finchè visse Germanico, perchè temeva di lui. Nè qui si ferma Vellejo. Entra ancora a vele gonfie nelle lodi di Elio Sejano, scelto da Tiberio per suo consigliere e primo ministro. S'egli sel meritasse, l'andremo osservando nel progresso degli anni.
Certo che in Roma niun tumulto o sedizione accadde per questo cambiamento di governo; ma non fu così nelle provincie [Dio, lib. 57. Tacit., lib. 1 Annal., cap. 16 et seq.]. Le milizie romane che soggiornavano nella Pannonia, appena udita la morte di Augusto, si rivoltarono contra di Giulio Bleso lor comandante, che corse pericolo della vita, facendo esse istanza della lor giubilazione e d'essere premiate, col minacciar anche di ribellar quella provincia, e di venirsene a Roma. Fu dunque spedito colà da Tiberio il suo figliuolo Druso con una man di soldati pretoriani, ed accompagnato da Sejano, allora prefetto del pretorio. Durò Sejano [45] non poca fatica a mettere in dovere i sollevati che l'assediarono, e ferirono alcuni della di lui scorta. Ma finalmente essendosi ritirati e divisi costoro pe' quartieri; e chiamati sotto altro pretesto ad uno ad uno i più feroci nella tenda di Druso, dove lasciarono la testa, si quietarono gli altri, ed ebbe fine quel romore. Più strepitosa e di maggior pericolo fu la sollevazion de' soldati romani nella Germania, perchè quivi dimorava il miglior nerbo delle legioni sotto il comando di Germanico Cesare, che si trovava allora nella Gallia a fare il censo o sia la descrizione dell'anime. Si ammutinò parte di questo esercito per le stesse cagioni che poco fa accennai. Corse perciò colà Germanico; e siccome egli era sommamente amato, perchè dotato di assaissime lodevoli qualità, e il conoscevano per migliore di gran lunga che Tiberio, vollero crearlo imperadore. Costantissimo egli nel non volere mancar di fede a Tiberio suo zio che l'avea anche adottato per figliuolo, allorchè vide di non potere in altra guisa liberarsi dalle lor furiose istanze, cavò la spada per uccidersi. Quest'atto li fermò. Finse poi lettere di Tiberio, quasi ch'egli ordinasse in donativo ad essi soldati il doppio dello stabilito da Augusto; la promessa di sì fatta liberalità, e l'aver eziandio accordato il ben servito ai veterani, li placò. Ma il danaro non concorreva, e intanto giunsero gli ambasciatori di Tiberio, all'arrivo de' quali di nuovo si sollevarono, e furono vicini a privarli di vita, per timore che fossero spediti ad annullar quanto avea promesso Germanico. Presero anche Agrippina di lui moglie, gravida allora, e il piccolo figliuolo Cajo, soprannominato Caligola. La costanza di Germanico, giacchè non poteano conseguire di più, feceli dipoi tornare al loro dovere. Ed acciocchè stando in ozio non macchinassero altre sedizioni, Germanico li condusse addosso alle terre nemiche dove impiegarono i pensieri e le mani per far buon bottino. Certo è, che Germanico se avesse voluto, sarebbe stato imperatore [46] Augusto; tanto egli avea in pugno l'affetto di quel potente esercito, e il cuore eziandio del popolo romano. Ma superior fu all'ambizione la sua virtù. Cordialissime lettere perciò scrisse a lui e ad Agrippina sua moglie, Tiberio per ringraziarli [Dio, lib. 57. Tacitus, Annal., lib. 1, c. 56.]: fece anche un bell'encomio di loro nel senato ed ottenne a Germanico la podestà proconsolare, che forse dovea essere terminata la dianzi a lui accordata. Tuttavia internamente continuò più che mai ad odiarli, paventando sempre che in danno proprio si potesse convertire un dì l'amore professato dalle milizie a Germanico [Tacito, Annal., lib. 1, c. 57.]. Non finì quest'anno, che Giulia, figliuola di Augusto e moglie di Tiberio, già per gli eccessi della sua impudicizia relegata in Reggio di Calabria, fu lasciata ovvero fatta morire di stento, se pur non fu in altra più spedita maniera. Sempronio Gracco bandito anch'egli, già passava il quattordicesimo anno, da Augusto nell'isola di Cersina presso l'Africa, in castigo della sua disonesta amicizia colla suddetta Giulia, fu anch'egli tolto di vita.
Anno di | Cristo XV. Indizione III. |
Tiberio imperadore 2. |
Consoli
Druso Cesare figliuolo di Tiberio e Caio Norbano Flacco.
Fu massimamente in quest'anno un bel vedere, con che attenzione, moderazione e modestia si applicasse Tiberio al governo [Dio, lib. 57. Suetonius, in Tiber., cap. 26.]. Non volle che si premettesse al suo nome il titolo d'imperadore. Si adirava con chi osasse chiamarlo signore; e a' soldati permetteva il nominarlo per imperadore: giacchè tal nome, siccome dissi, solamente allora significava generale d'armata. Il glorioso nome di Padre della Patria non permise mai che il senato glielo desse, forse perchè abborriva l'adulazione, [47] ed egli in sua coscienza dovea forse sapere di non poterlo meritare giammai. E certamente scrivendo una volta al senato [Sueton., ibid., cap. 67.] che vilmente pregava di ricevere questo titolo, disse: «Se per mia disavventura un qualche dì accadesse, che voi dubitaste della mia buona intenzione e della sincerità dell'affetto che a voi professo (il che se dovesse avvenire, desidero piuttosto che la morte mia prevenga la mutazion della vostra opinione), questo titolo di Padre della patria niente d'onore recherebbe a me, e servirebbe solo di rimprovero a voi per aver fallato il giudicare di me, e per avere spropositatamente dato a me un cognome che non mi conveniva.» Benchè passasse in lui per eredità il titolo d'Augusto, pure non l'usava se non talvolta in iscrivendo ai re; e solamente leggendolo o ascoltandolo a sè dato, non l'avea a male; e però sovente si trova nelle iscrizioni e medaglie d'allora. Il nome di Cesare era a lui famigliare; e talora usò il cognome di Germanico, per le vittorie riportate in Germania, siccome ancor quello di Principe del Senato, cioè di primo fra i senatori. Soleva perciò dire ch'egli era: «Signore de' propri schiavi, imperadore (cioè generale) dei soldati, e primo fra gli altri cittadini di Roma.» Per la stessa ragione vietò sulle prime ad ognuno il fabbricargli dei templi come s'era fatto ad Augusto; nè volle sacerdoti flamini. Col tempo permise ciò alle città dell'Asia, ma nol volle permettere a quelle della Spagna e d'altri paesi. Che se talun desiderava d'innalzargli statue, o di esporre l'immagine sua, nol potea fare senza di lui licenza; e questa si concedea, sempre colla condizione che non si mettessero fra i simulacri degl'iddii, ma solamente per ornamento delle case. Altre simili distinzioni d'onore rifiutò egli, e soprattutto amava di comparire popolare; camminando per la città con poco seguito, e senza voler corteggio servile di gente nobile; onorando non [48] solo i grandi, ma anche la bassa gente, e tenendo al suo servigio un discreto numero di schiavi. Nel senato poi e nei giudizii del foro, non si piccava punto di preminenza, dicendo e lasciando che ogni altro liberamente dicesse il suo parere: nè si sdegnava se si risolveva in contrario al suo. Niuna risoluzione prendeva egli mai senza sentire i senatori consiglieri eletti da lui. Era sollecito in impedire gli aggravi de' popoli e le estorsioni de' ministri; e ad alcuni governatori che l'esortavano ad accrescere i tributi, o pure a quel dell'Egitto, che mandò più danaro di quel che si solea ricavare, rispose: «Che le pecore s'han da tosare, e non già da levar loro la pelle.» In somma Tiberio avea testa per esser un ottimo principe e glorioso imperatore; e pur pessimo riuscì, perchè all'intendimento prevalse di troppo, siccome vedremo, la maligna sua inclinazione [Dio, lib. 57. Tacitus, Annal., lib. 1, cap. 16. Sueton., in Tiber., cap. 50.]. All'incontro Livia Augusta sua madre, donna gonfia più d'ogni altra di fasto e di vanità, facea gran figura in Roma. Nulla avea omesso, fatte avea anche delle enormità affinchè il figliuolo arrivasse a dominare per isperanza di continuare a dominar come prima sotto l'ombra di lui. Ma era ben diverso da quello d'Augusto l'amor di Tiberio. La tenne egli, per quanto potè, sempre bassa, senza permettere che l'adulatore senato le desse certi titoli d'onore che maggiormente l'avrebbono insuperbita; talvolta diceva a lei stessa, «non esser conveniente alle donne il mischiarsi negli affari di Stato.» Quantunque talvolta si regolasse secondo i di lei consigli, pure il men che potea l'onorava di sue visite; ed anche visitandola, poco vi si tratteneva, affinchè non paresse ch'egli si lasciasse governare da lei. Fece anche di più col tempo, siccome vedremo.
Comandava intanto le armate di Germania il giovane Germanico Cesare. Ancorchè fosse lontano da Roma, per cura di Tiberio gli fu conceduto il trionfo, [49] celebrato poi nell'anno seguente, in ricompensa di quanto egli avea finora operato in quella guerra [Tacitus, Annal., lib. 1, cap. 9.]. Durava questa in Germania, ed erano tuttavia in armi Arminio e Segeste, due primari capitani di quelle contrade; ma fra loro discordi, perchè Arminio, rapita una figliuola di esso Segeste, promessa ad un altro, la avea presa per moglie a dispetto del padre. Con due corpi d'armata assai poderosi, l'uno comandato da Germanico, l'altro da Aulo Cecina, legato dello esercito, fu portata la guerra addosso ai popoli Catti (oggidì creduti gli Assiani) e preso il loro paese. Mosse in questi tempi Arminio una sedizione contra del suocero Segeste, il quale, trovandosi assediato, spedì il figliuolo Segimondo a Germanico per aiuto. Accorsero i Romani; furon messi in rotta gli assedianti, liberato Segeste, e presa con altre nobili donne la di lui figliuola, gravida allora del marito Arminio. Questo fatto e le tante grida d'Arminio cagion furono che presero l'armi per lui i Cherusci ed Ingujomero di lui zio paterno. Seguirono poi due combattimenti. Nel primo toccò la peggio ad Arminio; nell'altro ebbe Cecina colle sue brigate non poca fatica a ridursi in salvo, ma dopo averne riportate molte ferite. Fu allora che Agrippina, moglie di Germanico, fece comparire l'animo suo virile. Per la suddetta disgrazia era corsa voce che i Germani venivano per passare ostilmente nella Gallia. Impedì la valorosa donna che non si guastasse il ponte sul Reno, come volevano que' cittadini. Messasi ella stessa alla testa del medesimo, graziosamente accolse le legioni che malconce ritornavano dal suddetto fatto d'armi, con far medicare i feriti, e donar vesti a chi avea perdute le sue. Riferita a Tiberio questa gloriosa azione d'Agrippina, siccome egli odiava la stirpe d'Agrippa, e il suo pascolo era la diffidenza, ne fece doglianze nel senato, con esporre l'indecenza che una donna si usurpasse lo [50] ufficio de' generali e dei legati, ed accusandola di mire più alte, per esaltare il marito e il figliuolo Caligola. Nè mancò il favorito Sejano di maggiormente fomentar in Tiberio sì fatte gelosie. Meno è da credere che non facesse Livia Augusta, solita a mirar di mal occhio Germanico, e più la di lui moglie secondo lo stil delle femmine. Corsero dipoi gran pericolo di restar affogate nell'acque due legioni comandate da Publio Vitellio. Segimero, fratello di Segeste, col figliuolo si rendè ai Romani; e con questi, poco per altro fortunati avvenimenti, ebbe fine la campagna dell'anno presente. Pagò appunto in quest'anno Tiberio il pingue legato lasciato da Augusto al popolo romano. A ciò fare fu spinto da una pungente burla [Dio, lib. 56.]. Nel passare la piazza un cadavero, portato alla sepoltura, accostatosi alle orecchie del morto un buffone, in bassa voce gli disse o pur finse di dire alcune parole. Interrogato poi dagli amici, rispose di avergli ordinato d'avvertire Augusto della non per anche eseguita testamentaria volontà. Le spie ne rapportarono tosto l'avviso a Tiberio, il quale non tardò a pagare il legato, con far poco appresso morir l'autore della burla, dicendo ch'egli stesso porterebbe più presto ad Augusto le nuove di questo mondo [Panvin., in Fast. Blanchin., in Anast.]. Prese Tiberio in quest'anno nel dì 10 marzo il titolo di Pontefice Massimo.
Anno di | Cristo XVI. Indizione IV. |
Tiberio imperadore 3. |
Consoli
Tito Statilio Sisenna Tauro e Lucio Scribonio Libone.
Al primo d'essi consoli, cioè a Statilio, ho aggiunto il prenome di Tito, ricavandosi ciò da un'iscrizione riferita dal Fabretti [Fabrettus, Inscript., pag. 701.]. Così ancora avea scritto [51] il Panvinio. Al secondo, cioè a Libone, fu sostituito nelle calende di luglio Publio Pomponio Grecino, come consta dalla iscrizione suddetta e dal poeta Ovidio [Ovidius, lib. 4, Ep. 9 Trist.]. In Germania [Tacitus, Annal., lib. 2, cap. 9 et seq.] al fiume Weser due fatti d'armi seguirono fra i Romani sotto il comando di Germanico, e i Germani regolati da Arminio. In amendue la vittoria si dichiarò per li Romani. Avea Germanico fatto preparar mille legni tra grandi e piccoli nell'isola di Batavia (oggidì Olanda) per assalire dalla parte dell'Oceano i nemici. Sul fine della state, imbarcata che fu la copiosa fanteria, con alquanto di cavalleria, a forza di remi e di vele si mosse la flotta per entrar nel paese nemico. V'era in persona lo stesso Germanico. Per una tempesta insorta ebbe a perir tutta quella gente, e gran perdita si fece d'armi, cavalli e bagaglio. Ma quando i Germani per questo sinistro caso de' Romani si credeano in istato di vincere, Germanico spedì Cajo Silio con trentamila fanti e tremila cavalli contra di loro; il che tal riputazione acquistò ai Romani, tal terrore diede ai Germani che cominciarono ad inclinar alla pace. Avrebbe potuto Germanico dar l'ultima mano a quella guerra, se Tiberio con replicate lettere ed istanze non l'avesse richiamato a Roma con esibirgli il consolato e il trionfo già a lui accordato. Al geloso e diffidente Tiberio premeva forte di staccar Germanico da quelle legioni, paventando egli sempre delle novità a sè pregiudiziali, pel sommo amore che quei soldati professavano a sì grazioso generale. Ancorchè Germanico s'accorgesse delle torte mire d'esso suo zio, pure si accomodò ai di lui voleri, ed impreso il viaggio d'Italia, forse arrivò in Roma sul fine dell'anno. Fece [Dio, lib. 57.] Tiberio nel presente accusare in senato Lucio Scribonio Libone, giovane, diverso dal console, quasichè macchinasse delle novità. Prevenne questi la sentenza della morte [52] con uccidersi da sè stesso. Avea già cominciato Tiberio a permettere i processi contra delle persone anche più illustri per sole parole indicanti mal animo o sedizione contra del governo e della sua persona: laddove prima di salire sul trono avea sempre sostenuto [Sueton., in Tiber., cap. 27.], «che in una città libera dovea ciascuno goder la libertà di dire e pensare ciò che gli piacesse.» Questa bella massima, divenuto che fu principe, perdè presso lui di grazia. Siccome ancora quell'altra ch'egli proferì un dì nel senato con dire, «che se si cominciasse ad ammettere accuse di chi parlasse contra del principe o del senato, andrebbe in eccesso il processar persone; perchè chiunque ha dei nemici, correrebbe a denunziarli come rei di questo delitto.» Questi disordini appunto accaddero da lì innanzi sotto il tirannico di lui governo.
Era in gran voga per questi tempi in Roma la strologia giudiciaria ed anche la magia [Dio, ibidem.]. Della prima si dilettava lo stesso Tiberio, tenendo in sua casa uno di questi venditori di fumo, chiamato Trasillo, e volendo ogni dì udire da lui quel che dovea succedere in quella giornata. Trovandosi beffato da costui, se ne sbrigò col farlo uccidere; poi perseguitò tutti gli altri fabbricatori di pronostici. E perchè non erano eseguiti gli editti intorno a questi impostori, chiunque de' cittadini romani fu per tal cagione denunziato dipoi, n'ebbe per castigo lo esilio. Solennemente ancora fu vietato a chicchessia il portar vesti di seta, perchè di spesa grave, non facendosi allora seta in Europa; siccome fu parimente proibito il tener vasi d'oro, se non per valersene ne' sagrifizii; e nè pur furono permessi vasi d'argento con ornamenti d'oro. Affettava Tiberio la purità della lingua latina, e soprattutto usava i vocaboli antichi d'Ennio e di Plauto. Essendogli in un editto scappata una parola [53] non latina, n'ebbe scrupolo, e volle ascoltare il parere de' più dotti grammatici, i quali quasi tutti la dichiararono buona, dacchè era stata usata da sì gran dottore e principe, qual era Tiberio. Con tutto ciò saltò su un certo Marcello, dicendo, «che potea ben Cesare dar la cittadinanza di Roma agli uomini, ma non già alle parole;» bolzonata che ferì non poco Tiberio, e nondimeno seppe egli, secondo il suo costume, ben dissimularla. Proibì ancora ad un centurione il fare testimonianza nel senato con parole greche, tuttochè egli in quello stesso luogo avesse udito molte cause trattate in greco, ed egli medesimo talvolta si fosse servito dello stesso linguaggio per interrogare.
Anno di | Cristo XVII. Indizione V. |
Tiberio imperadore 4. |
Consoli
Caio Cecilio Rufo e Lucio Pomponio Flacco Grecino.
Il primo de' consoli negli Annali stampati di Tacito è chiamalo Celio; Cecilio in quei di Dione. E così appunto si dee appellare. S'è disputato fra gli eruditi intorno a questo nome. Credo io decisa la lite da un marmo da me dato alla luce [Thesaur. Novus Inscription., pag. 301, n. 1.], che si dice posto C. CAECILIO RVFO, L. POMPONIO FLACCO COSS. Erano insorte nell'anno precedente varie turbolenze fra i re d'Oriente, che dipendevano in qualche guisa da Roma [Tacitus, Annal., lib. 2, cap. 1. Joseph., Antiq. Judaic., lib. 16, cap. 3.]. Avea Augusto, siccome accennammo, dato ai Parti Vonone per re. Col tempo cominciarono que' barbari a sprezzarlo, poscia ad abborrirlo, e finalmente a congiurare per detronizzarlo. Chiamato alla corona Artabano del sangue degli antichi Arsacidi, questi, sconfitto sulle prime, sconfisse in fine Vonone. Si rifugiò il vinto nell'Armenia, e fatto re da [54] que' popoli non andò molto, che prevalendo presso gli Armeni il partito favorevole ad Artabano, Vonone si ritirò ad Antiochia con un gran tesoro. Ivi risedeva proconsole della Soria Cretico Silano, che adocchiato quell'oro, l'accolse ben volentieri, e permise ch'egli si trattasse da re, ma nel medesimo tempo il facea custodire sotto buona guardia. Vonone intanto implorava con frequenti lettere aiuto da Tiberio; ma non avea Tiberio voglia di romperla coi Parti, gente che non si lasciava far paura dai Romani, e gli avea anche più volte fatti sospirare. Oltre a ciò avvenne [Dio, lib. 57.] che Tiberio fece citar a Roma Archelao re della Cappadocia tributario de' Romani, col pretesto ch'egli meditasse delle rebellioni. L'odiava Tiberio, perchè, allorchè egli dimorava a guisa di relegato in Rodi, Archelao passando per colà non l'avea onorato di una visita, e grande onore all'incontro avea fatto a Cajo Cesare emulo suo. Venne Archelao a Roma vecchio e malconcio di sanità, dopo aver per cinquant'anni governato i suoi popoli; e fu accusato innanzi al senato. Si mise egli in tal affanno per questa persecuzione, che da lì a qualche tempo, non si sa se naturalmente, o pure per aiuto altrui, terminò la sua vita. Allora la Cappadocia fu ridotta in provincia, e spedito colà un governatore. In que' medesimi tempi vennero a morte Antioco re della Comagene e Filopatore re di Cilicia con gran turbazione di que' popoli, parte dei quali volea un re, ed un'altra desiderava il governo de' Romani. Anche la Soria e la Giudea, lagnandosi de' troppo gravi tributi, ne dimandavano la diminuzione.
Fu questa una bella occasione a Tiberio per allontanar l'odiato nipote Germanico Cesare da Roma, e cacciarlo in paesi pericolosi sotto specie d'onore. Propose dunque in senato, che non v'era persona più a proposito di lui per dar sesto agl'imbrogli dell'Oriente. Già avea esso Germanico conseguito il trionfo nel dì 26 [55] di maggio; e a lui per questa spedizione fu conceduta un'ampia autorità in tutte le provincie di là del mare. Ma Tiberio, per mettere a lui un contrapposto in quelle contrade, richiamato Cretico Silano dalla Soria [Tacit., Annal., lib. 2, cap. 43.], spedì a quel governo Gneo Calpurnio Pisone, uomo violento e poco amico di Germanico. Con costui andò anche Plancina sua moglie, addottrinata, per quanto fu creduto, da Livia Augusta, acciocchè facesse testa ad Agrippina moglie di Germanico. Volle inoltre Tiberio, che Druso Cesare suo figliuolo, lasciato l'ozio e il lusso di Roma, andasse nell'Illirico ad apprendere il mestiere della guerra. Andò egli; ma giunto colà fu forzato a passare in Germania, per cagion delle guerre civili nate fra i Germani non sudditi di Roma. Aspra lite quivi era fra Arminio promotore della libertà, e Maroboduo, che avea preso il titolo di re. Ad una campale battaglia vennero questi due emuli. Fu creduto vincitore Arminio, perchè l'altro per la soverchia diserzione dei suoi si ritirò fra i Marcomanni [Dio, Strabo, Eusebius, in Chron.]. Druso colà si portò con apparenza di voler trattar la pace fra essi. Devastò in quest'anno un fiero tremuoto dodici città dell'Asia, alcune delle quali assai celebri, come Efeso, Sardi, Filadelfia. Tiberio dedicò in Roma varii templi, ma edificati da altri; perchè egli non si dilettò di fabbriche, nè di lasciar magnifiche memorie, per non iscomodar la sua borsa. In Africa si sollevarono i Numidi e i Mori per istigazione di Tacfarinate. Furio Camillo, proconsole di quelle provincie, benchè non avesse al suo comando se non una sola legione e poche truppe ausiliarie, marciò contro quella gran moltitudine di gente, e le mise in fuga. Per tal vittoria si meritò dal senato gli ornamenti trionfali [Hieron., in Chron.]. Negli ultimi sei mesi dell'anno presente diede fine alla sua vita il poeta Ovidio in Tomi, città posta alle rive del mar Nero, dov'era stato relegato da Augusto. Credesi ancora, [56] che questo fosse l'ultimo anno di vita del celebre storico romano Tito Livio padovano.
Anno di | Cristo XVIII. Indizione VI. |
Tiberio imperadore 5. |
Consoli
Claudio Tiberio Nerone imperatore per la terza volta, e Germanico Cesare per la seconda.
Pochi giorni tenne Tiberio il consolato. A lui succedette Lucio Sejo Tuberone; e poscia nelle calende di luglio in luogo di Germanico, fu creato console Cajo Rubellio Blando. Ho aggiunto il prenome di Cajo a Rubellio, secondo la testimonianza di un marmo [Thes. Novus Inscript., pag. 301, num. 2.] da me dato alla luce. Ma si può dubitare, se il consolato di lui appartenga all'anno presente. Germanico si trovava in Nicopoli, città dell'Epiro, allorchè vestì la trabea consolare [Tacitus, Annal., lib. 2, cap. 54.]. Visitò egli le città greche, e massimamente Atene, ricevendo dappertutto distinti onori. Passò a Bisanzio e al mar Nero; e finalmente entrato nell'Asia, arrivò a Lesbo, dove Agrippina sua moglie partorì Giulia Livilla. Intanto Gneo Pisone, inviato da Tiberio per proconsole della Soria, raggiunse Germanico a Rodi. Non era ignoto a Germanico il mal animo di costui; pure avendo inteso ch'egli correa pericolo della vita per una fiera tempesta insorta, spedì alcune galee per salvarlo. Neppur giovò questo per ammansarlo. Appena Pisone fu dimorato un giorno in Rodi, che passò in Soria, dove usando carezze e regali si procacciò l'affetto di quelle legioni, lasciando a' soldati specialmente la libertà di far tutto ciò che loro piacea. Meno non si adoperava Plancina sua moglie, che intanto non si guardava di sparlar dappertutto di Germanico e di Agrippina. Andossene in Armenia Germanico, ed ivi pose per re Zenone figliuolo di Polemone re di Ponto, [57] dopo aver deposto Orode figliuolo di Artabano. Diede dei governatori alle provincie della Cappadocia e della Comagene, con isminuire i tributi di quelle provincie; e poscia continuò il viaggio fino in Soria. Più che mai cresceva la boria e la petulanza di Pisone proconsole; e sforzavasi bensì Germanico di pazientare gl'insulti e i mancamenti di rispetto di costui; ma niuno v'era, che non conoscesse l'aperta nimicizia che passava fra loro. Vennero a trovar Germanico gli ambasciadori di Artabano re de' Parti, per rinnovar l'amicizia e lega, esibendosi quel re di venire alle rive dell'Eufrate per fargli una visita. Una delle loro dimande fu che non permettesse al già deposto re dei Parti Vonone di soggiornar nella Soria. Germanico il mandò a Pompejopoli, città della Cilicia, non tanto per far cosa grata ad Artabano, quanto per far dispetto a Pisone, che il proteggeva non poco a cagion de' regali e della servitù che ne ricavava Plancina sua moglie. Qui ci vien meno la storia di Dione, e però nulla di più sappiamo de' fatti de' Romani nell'anno presente.
Anno di | Cristo XIX. Indizione VII. |
Tiberio imperadore 6. |
Consoli
Marco Giunio Silano e Lucio Norbano Balbo.
Fece in quest'anno Germanico Cesare un viaggio in Egitto [Tacitus, Ann., lib. 1, c. 59.], per curiosità di veder quelle rinomate antichità, e si portò sino ai confini della Nubia, informandosi di tutto. Per cattivarsi que' popoli abbassò il prezzo de' grani, e in pubblico nella città d'Alessandria andò vestito alla greca, perchè quivi predominava quella nazione e la loro lingua [Sueton., in Tiber., c. 52.]. Tiberio, risaputolo, disapprovò la mutazion dell'abito, e più l'essere entrato in Alessandria, afflitta allora dalla carestia, senza sua licenza. Tornossene dipoi in Soria, [58] dove trovò che tutto quanto egli avea ordinato per l'armata e per le città, era stato disfatto da Pisone. Pertanto divampando forte la loro discordia, prese Pisone la risoluzione d'andarsene lungi dalla Soria; ma sopravvenuta una malattia a Germanico già pervenuto ad Antiochia, si fermò, finchè parve che il di lui male prendesse ottima piega; ed allora si ritirò a Seleucia. Ma l'infermità di Germanico andò poscia crescendo. Sparsesi voce, che per malie d'esso Pisone e di Plancina sua moglie l'infelice principe venisse condotto a poco a poco alla morte; e a tal voce si prestò fede, per essersi trovati vari creduti maleficii. In somma se ne morì Germanico nell'età di trentaquattr'anni, lasciando in una grande incertezza, se la morte sua fosse naturale, oppure a lui procurata da Pisone e da Plancina sua moglie; o per segreti ordini di Tiberio. Universalmente fu creduto quest'ultimo. Non si può esprimere il dolore, non solo del popolo romano e delle provincie tutte del romano impero, ma degli stessi re dell'Asia per la perdita di questo generoso principe. Era egli ornato delle più belle doti di corpo e d'animo, valoroso coi nemici [Dio, in Excerptis, et lib. 57.], clementissimo coi sudditi. Posto in tanta dignità, e con tanta autorità, pure mai non insuperbì, trattando tutti con onorevolezza, e vivendo più da privato che da principe. Già vedemmo, ch'egli ricusò l'imperio, per non mancar di fede e di onor a Tiberio. Non mai fu veduto abusarsi della sua podestà, non mai si lasciò torcere dalla fortuna ad azioni sconvenevoli a personaggio virtuoso. Quel ch'è più, con tutti i torti a lui fatti da Tiberio, suo zio paterno, e padre per adozione, e con tutto il suo ben conosciuto mal talento, non mai si lasciò uscir parola di bocca, per riprovar le azioni di lui. Perciò era amatissimo da tutti, fuorchè dallo stesso Tiberio, anzi maggiormente amato, appunto perchè il conoscevano odiato da esso suo zio. Mirabil cosa fu l'osservare, come lo stesso Druso, [59] figliuolo natural di Tiberio, ancorchè Germanico potesse ostargli alla succession dell'imperio, pure l'amasse sempre con sincero amore e come vero fratello. Gran perdita fece Roma in Germanico, ma specialmente perchè Tiberio sciolto dal timore di lui, cominciò ad imperversare, con giugnere in fine a costumi crudeli e tirannici. Restarono di Germanico tre figliuoli maschi, cioè Nerone, Druso, e Cajo Caligola, e tre figlie, cioè Agrippina, che poi fu madre di Nerone augusto, Drusilla e Livilla. Agrippina lor madre, figliuola di Agrippa, e di Giulia nata da Augusto, donna, che ben diversa dalla madre, s'era già fatta conoscere per ispecchio di castità, ed avea dati segni di un viril coraggio, molto più ora abbisognò della sua costanza, rimasta senza il generoso consorte, con dei figliuoli piccioli, e odiata da Livia e forse poco men da Tiberio. Fu consigliata da molti di non tornarsene a Roma: differente ben era il desiderio suo, perchè ardeva di voglia di cercar vendetta di Pisone e di Plancina, tenuti per autori delle sue disavventure. Però sul fine dell'anno colle ceneri del marito e co' figliuoli spiegò le vele alla volta di Roma.
In luogo di Pisone era stato costituito progovernatore della Siria Gneo Sentio Saturnino; ma Pisone, udita la morte di Germanico, dopo averne fatta gran festa, si mise in viaggio con molti legni, e buona copia di milizie, risoluto di ricuperare il suo governo, e di adoperare, occorrendo, anche la forza. Si impadronì d'un castello; ma avendolo Saturnino quivi assediato con forze maggiori, gli convenne cedere, ed intanto fu chiamato a Roma. L'andata di Druso Cesare in Germania, secondo le apparenze, fu per pacificare i torbidi insorti fra Arminio e Maroboduo. Altri documenti avendo ricevuto dall'astuto suo padre, fece tutto il contrario, aggiungendo destramente olio a quell'incendio, acciocchè i nemici si consumassero da sè stessi. Abbandonato poi Maroboduo da' suoi, ricorse a Tiberio, che gli assegnò [60] per abitazione Ravenna, dove aspettando sempre qualche rivoluzione nella Svevia, senza mai vederla, dopo diciotto anni, assai vecchio, compiè la carriera de' suoi giorni. Fin qui Arminio in Germania avea bravamente difesa la libertà della sua patria contro ai Romani; ma avendola poi voluta egli stesso opprimere, fu in quest'anno ucciso dai suoi, in età di soli trentasette anni di vita. Per un decreto d'Augusto era già stato proibito in Roma l'esercizio della religione egiziana con tutte le sue cerimonie; ma seppe essa mantenersi quivi ad onta della legge sino al presente anno. Un'iniquità commessa da que' falsi sacerdoti, collo ingannare Paolina, savia e nobilissima dama romana, e darla per danari in preda a Decio Mondo, giovane perduto dietro a lei, con farle credere che di lei fosse innamorato il falso dio Anubi, siccome diffusamente narra Giuseppe storico [Joseph., Antiq., lib. 18, cap. 4.], diede ansa al senato di esiliar dall'Italia il culto d'Iside, di Osiride e degli altri dii d'Egitto [Tacit., lib. 2, cap. 85.]. Comandò inoltre Tiberio, che si atterrasse il tempio d'Iside, e si gittasse nel Tevere la sua statua. La medesima disavventura toccò ai Giudei [Sueton., in Tiber., cap. 36.], che in gran numero abitavano allora in Roma, a cagion di una baratteria usata da alcuni impostori di quella nazione a Fulvia, nobile dama romana, che avea abbracciata la lor religione; avendo essi convertito in uso proprio l'oro e le vesti ricche, dalla medesima inviate a Gerusalemme, affinchè servissero in onore del tempio. Scelsero i consoli quattromila giovani di essi Giudei di razza libertina, e per forza arrolati li mandarono in Sardegna a far guerra ai ladri ed assassini di quell'isola, senza mettersi in pensiero, se quivi avessero da perire per l'aria che in quei tempi veniva creduta maligna e mortifera. Il rimanente de' Giudei fu cacciato di Roma, e disperso in varie provincie. Vonone, già [61] re de' Parti, volendo in questi tempi fuggir dalla Cilicia, preso da Vibio Frontone, si trovò poi da un soldato privato di vita. Per mettere freno all'impudicizia delle matrone romane [Sueton., in Tiber., cap. 35.], che ogni dì più andava crescendo in Roma, città piena di lusso e di gente, a cui poca paura faceano i falsi dii del Paganesimo, fu con pubblico editto imposta la pena dell'esilio alle figliuole, nipoti e vedove de' cavalieri Romani che cadessero in questo delitto.
Anno di | Cristo XX. Indizione VIII. |
Tiberio imperadore 7. |
Consoli
Marco Valerio Messalla e Marco Aurelio Cotta.
Di grandi onori avea ricevuto in Roma la memoria di Germanico, per ordine di Tiberio e del senato [Tacitus, lib. 3, cap. 1.]; ed anche il popolo in varie guise ne avea attestato il suo dolore. Si rinnovò il lutto in quest'anno all'arrivo di Agrippina sua moglie. Dopo essersi per qualche giorno fermata in Corfù, sbarcò dipoi a Brindisi. Druso Cesare, che era tornato a Roma, co' maggiori figliuoli del defunto Germanico, andò ad incontrarla sino a Terracina. Innumerabil gente, massime de' militari, si portò sino a Brindisi. Caldi furono i sospiri, universale il pianto al comparire dell'urna funebre. Per tutta la via i magistrati e popoli fecero a gara per onorar le di lui ceneri. Gli stessi consoli col senato, e gran parte del popolo si portarono a riceverle con dirotte lagrime; e poi queste vennero riposte nel mausoleo d'Augusto [Ibidem, c. 9.]. Giunse dipoi Pisone con sua moglie a Roma, orgoglioso come in addietro; ma non tardarono a presentarsi al senato accusatori, imputando a lui e a Plancina sua moglie la morte di Germanico. Neppure a questo mal uomo mancavano dei difensori; e [62] difficile era il provar le accuse, siccome avviene in somiglianti casi. Tiberio, che ben sapea le mormorazioni del popolo, quasi che fosse passata buona intelligenza tra lui e Pisone, per levar di vita Germanico, da uomo disinvolto si regolava in questa pendenza, mostrando sempre un vivo affanno per la perdita del figliuolo adottivo, e di voler buona giustizia; ma nello stesso tempo di non volere, che sopercheria si facesse all'accusato. Creduto fu che segretamente a Pisone fosse fatto animo e sicurezza di protezion da Sejano, e che per questo egli si astenesse dal produrre gli ordini a lui dati da Tiberio. Ma se non si provava il reato suddetto, si faceano ben constare altri reati di sedizione, d'ingiurie fatte e dette a Germanico: cosa che mise in fiera apprension Pisone, e tanto più perchè il popolazzo vicino la curia gridava contra di lui, minacciando di menar le mani, qualora egli la scappasse netta dal giudizio de' senatori. Perciò vinto dall'affanno, tenendosi tradito, da sè stesso si diede la morte, liberando in tal guisa Tiberio da un bel molesto pensiero. Plancina sua moglie, che era tutta di Livia Augusta, per le raccomandazioni di lei seguitò a vivere in pace. Al di lei figliuolo Marco Pisone fu conceduto un capitale di cento venticinquemila filippi; il rimanente confiscato, ed egli mandato in esilio. Risvegliossi intanto di nuovo in Africa la guerra, essendo risorto più di prima vigoroso Tacfarinate. Per aver egli messa in fuga una coorte di Romani, sì fatta collera montò a Lucio Apronio proconsole allora in quelle contrade, che infierì contra de' fuggitivi. Ciò fu cagione, che cinquecento soli de' suoi veterani sì valorosamente combatterono dipoi contro l'armata di Tacfarinate, che la misero in rotta. Giunto era all'età capace di matrimonio Nerone, figliuolo primogenito del defunto Germanico [Sueton., in Tiber., cap. 29.]. Tiberio a lui diede in moglie Giulia figliuola di Druso suo figlio: cosa che recò non poca allegrezza [63] al popolo romano. Per lo contrario si mormorò non poco, perchè Tiberio avesse fatto contrarre gli sponsali ad una figliuola del suo favorito Elio Sejano con Druso figliuolo di Claudio, cioè di un fratello di Germanico, di Claudio, dico, il qual poi fu imperadore. A tutti parve avvilita con questo atto la nobiltà della famiglia principesca; perchè era bensì nato Sejano di padre aggregato all'ordine de' cavalieri, ma niuna proporzione si trovava fra lui e Druso, discendente non meno dalla casa d'Augusto, che da quella di Livia. Maggiormente ciò dispiacque per la apparenza che Sejano, comunemente odiato pel predominio suo nel cuor di Tiberio, potesse aspirare a voli più alti, cioè all'imperio. Ma non si effettuarono poi queste meditate nozze, perchè il giovinetto Druso mentre da lì a pochi giorni era in Campania, avendo gittato in aria per giuoco un pero [Sueton., in Claudio, cap 27.], e presolo a bocca aperta nel cadere, ne rimase soffocato, non sussistendo, come dice Svetonio, ch'egli morisse per frode di Sejano.
Anno di | Cristo XXI. Indizione IX. |
Tiberio imperadore 8. |
Consoli
Claudio Tiberio Nerone Augusto per la quarta volta e Druso Cesare suo figliuolo per la seconda.
Ci assicura Svetonio [Sueton., in Tib., cap. 26.], che Tiberio, il quale avea preso il consolato per far onor al figliuolo, da lì a tre mesi lo rinunziò, senza sapersi finora se alcuno subentrasse console in luogo suo. Niuno probabilmente, scrivendo Dione [Dio, lib. 57.], che Tiberio, finito il suo Consolato, ritornò a Roma nè egli vi ritornò, se non alla fine dell'anno. In fatti venuta la primavera dell'anno presente, trovandosi esso Tiberio, o pure fingendo d'essere con qualche [64] incomodo di sanità, volle mutar aria, e se n'andò a Campania. Chi credette ciò fatto per lasciar al figliuolo tutto l'onore del consolato, ed altri, perchè gli cominciasse a rincrescere il soggiorno di Roma, essendogli specialmente molesta l'ambizione di Livia Augusta sua madre, che faceva di mani e di piedi per comandare anch'ella, e per dividere il governo con lui: cosa ch'egli non sapea sofferire. Parve perciò che fin d'allora egli meditasse di volontariamente esiliarsi da Roma, siccome vedremo che succedette dipoi. Turbata fu anche nell'anno presente l'Africa da Tacfarinate [Tacit., lib. 3, cap. 35.]; laonde si vide spedito colà Giunio Bleso, zio materno di Sejano, per regolar quegli affari. Tentò in questo anno Severo Cecina nel Senato di far rinnovar l'antica disciplina de' Romani, che non permetteva ai governatori delle provincie di condur seco le loro mogli. Ma Druso console e la maggior parte de' senatori furono di contrario sentimento. Pericoloso era troppo allora il lasciar le dame romane lungi dai mariti, e in loro balìa: tanta era la corruttela de' costumi. Fu anche proposto di rimediare all'abuso introdotto e troppo cresciuto, che chiunque de' malfattori e degli schiavi fuggitivi si ricoverava alle immagini o statue degl'imperadori, era in salvo. Da tanti asili proveniva la moltiplicità de' misfatti, e l'impunità de' delinquenti. Druso cominciò a far provare ad alcuni nobili rifuggiti colà il gastigo meritato dai lor delitti, e ciò con plauso universale. Nella Tracia si sollevarono alcuni di que' popoli, ed impresero anche l'assedio di Filippopoli. Convenne inviare colà a reprimerli Publio Vellejo, forse il medesimo che ci lasciò un pezzo di storia scritta con leggiadria, ed insieme con penna adulatrice. Poca fatica occorse a dissipar quella gentaglia. Neppure andò in quest'anno esente da ribellioni la Gallia. Giulio Floro in Treveri, Giulio Sacroviro negli Edui, furono i primari a commovere la sedizione in varie città, malcontente de' Romani, a cagion della gravezza [65] de' tributi e dei debiti fatti per pagarli. Restò in breve talmente incalzato Floro da Visellio Varrone e da Cajo Silio legati, o, vogliam dire, tenenti generali de' Romani, che con darsi la morte diede anche fine alla guerra in quelle parti. Più da far s'ebbe a domar Sacroviro, che, occupata la città d'Autun, capitale degli Edui, menava in campo circa quarantamila persone armate. Nulladimeno una battaglia datagli da Silio, con fortunato successo, ridusse ancor lui ad abbreviarsi di sua mano la vita. Fu in quest'anno chiamato in giudizio Cajo Lutorio Prisco cavalier romano, e celebre poeta di questi tempi, il quale avea composto un lodatissimo poema in morte di Germanico, per cui fu superbamente regalato. Avvenne che anche Druso Cesare caduto infermo fece dubitar di sua vita; laonde egli preparò un altro poema sopra la morte di lui. Guarì Druso; ma Prisco, mosso dalla vanagloria, non volendo perdere il plauso dell'insigne sua fatica, lesse quel poema in una conversazione di dame romane. Questo bastò al senato per fargliene un delitto, e delitto che fu immediatamente punito colla morte di lui: a tanta viltà d'adulazione e di schiavitù oramai era giunto quell'augusto consesso [Dio, lib. 57. Tacitus, lib. 3, cap. 50.]. S'ebbe a male Tiberio, non già perchè l'avessero condannato a morte, ma perchè aveano eseguita la sentenza, senza ch'egli ne fosse informato. E però fu fatta una legge che da lì innanzi non si potesse pubblicar nè eseguire sentenza di morte data dal senato, se non dieci giorni dappoi, acciocchè se l'imperadore fosse assente dalla città, potesse averne notizia. Teodosio il Grande, augusto, prolungò poi questo termine sino a trenta giorni per li condannati dall'imperadore, e verisimilmente ancora per le sentenze del senato.
Anno di | Cristo XXII. Indizione X. |
Tiberio imperadore 9. |
Consoli
Quinto Haterio Agrippa e Cajo Sulpicio Galba.
Questo Galba console, non so dire se padre o pur fratello fosse di Galba, che fu poi imperadore, asserendo Svetonio [Sueton., in Galba, cap. 3.] essere stato console il padre d'esso Augusto, e poi soggiugnendo che Cajo fratello d'esso imperadore, per non aver potuto conseguire il proconsolato da Tiberio, si uccise da sè stesso nell'anno 36 dell'Era nostra. Ai suddetti consoli nelle calende di luglio furono sostituiti Marco Coccejo Nerva, creduto avolo di Nerva, poscia imperadore, e Cajo Vibio Ruffino. Era cresciuto in eccesso [Tacitus, lib. 3, cap. 55.] il lusso delle nozze, ne' conviti, e per altri capi nella città di Roma, senza far più caso delle leggi e prammatiche pubblicate da Augusto, e prima d'Augusto: il che s'era tirato dietro l'aumento dei prezzi delle robe e dei viveri. Fu proposto in senato di rimediare al disordine col moderar le spese. Ma una lettera di Tiberio, che ne accennava le difficoltà, distrusse tutta la buona intenzion degli edili. Tacito nota, che si continuò in sì fatto scialacquamento fino ai tempi di Vespasiano imperadore, sotto cui cominciarono i Romani a darsi alla parsimonia, non già per qualche legge o comandamento del principe, ma perchè così facea lo stesso Augusto: tanto può a regolare e sregolare i costumi l'esempio de' regnanti. In quest'anno ancora Tiberio scrisse al senato, chiedendo la podestà tribunizia per Druso Cesare suo figliuolo, affine di costituirlo in tal maniera compagno suo nell'autorità e metterlo in istato d'essere suo successore nell'imperio. Fu prontamente ubbidito, e con giunte di novità all'onore: al che nondimeno Tiberio non consentì. Veggonsi [67] medaglie [Mediobarb., in Num. Imperator.] di Druso, nelle quali è espressa questa podestà. Motivo di lungo e tedioso esame diedero dipoi al senato gli asili delle città greche, tanto in Europa che in Asia. Ogni tempio era divenuto un sicuro rifugio d'impunità ad ogni schiavo fuggitivo, ad ogni debitore e a chiunque era in sospetto di delitti capitali. Furono citate quelle città a produrre i loro privilegii. Si trovò per la maggior parte insussistente in esse il diritto dell'asilo; e però fu moderato quell'eccesso. Infermatasi intanto gravemente Livia Augusta, conobbe Tiberio suo figliuolo la necessità di tornarsene per visitarla. Gareggiarono a più non posso i senatori, per inventar cadauno pubbliche dimostrazioni del loro affanno per vita sì cara e della comun premura per la di lei salute; studiandosi di placare gl'insensati loro dii. Andò tanto innanzi la vilissima loro adulazione, che stomacò lo stesso Tiberio in guisa ch'ebbe a dire più volte in uscir dalla curia: Oh che gente inclinata alla servitù! Nè a lui piaceano tanti sfoggi di una stima verso la sua madre, siccome maggiore incentivo alla di lei natìa superbia e voglia di dominare. Continuavano tuttavia le turbolenze dell'Africa. Tacfarinate ribello era giunto a tale alterigia, che, spediti suoi ambasciadori a Tiberio, gli avea chiesto per sè e per l'esercito suo un determinato paese da signoreggiare: minacciando, non esaudito, una fierissima guerra. Per questa ardita dimanda fumò di collera Tiberio, e mandò ordine a Bleso proconsole di tirar colle buone all'ubbidienza i sollevati, per far poscia prigione, se mai poteva, quel temerario. Grande sforzo fece per tale incitamento Bleso, e prese un di lui fratello, ma non fu già egli stesso. Di poco rilievo furono le sue imprese; contuttociò Tiberio, perchè egli era zio materno del favorito Sejano, gli fece accordare gli ornamenti trionfali. Morì in quest'anno Asinio Salonino, figliuolo d'Asinio Gallo e di Vipsania, ripudiata già da Tiberio Augusto, [68] e però fratello uterino di Druso Cesare.
Anno di | Cristo XXIII. Indizione XI. |
Tiberio imperadore 10. |
Consoli
Cajo Asinio Pollione e Lucio Antistio Vetere o sia Vecchio.
Benchè gli autori de' fasti consolari comunemente dieno ad Antistio Vetere il prenome di Cajo, pure Lucio vien da me nominato sul fondamento d'una iscrizione della mia Raccolta [Thesaurus Novus Inscript., pag. 301, n. 4.], posta Q. IVNIO BLASEO, L. ANTISTIO VETERE; dalla quale eziandio si può raccogliere che nelle calende di luglio ad Asinio Pollione fu sostituito Quinto Giunio Bleso, già da noi veduto governatore dell'Africa. Probabilmente Asinio Pollione, fratello fu del poco fa defunto Asinio Salonino. Mancò di vita sui primi mesi dell'anno presente, dopo lunga malattia Druso Cesare [Tacitus, lib. 4, c. 8.], unico figliuolo di Tiberio Augusto, giovane destinato a succedergli nell'imperio. Voce pubblica fu che un lento veleno, fattogli dare da Elio Sejano, il conducesse a morte. Tacito e Dione [Dio, lib. 58.] danno questo fatto per certo. Druso, giovane facilmente portato alla collera, non potendo digerir l'eccesso del favore di cui godea Sejano presso il padre, un dì venne alle mani con lui, e gli diede uno schiaffo, come vuol Tacito, parendo poco verisimile che il percussore fosse lo stesso Sejano, come s'ha da Dione. Questo affronto, ma più la segreta sete di Sejano di arrivare all'imperio, a cui troppo ostava l'esser vivente Druso, gli fece studiar le vie di levarlo dal mondo. Cominciò la tela, con adescar Giulia Livilla, sorella del fu Germanico Cesare e moglie d'esso Druso, traendola alle sue disoneste voglie. Dopo di che non gli riuscì difficile colle promesse del matrimonio e dell'imperio [69] a farla precipitare in una congiura contro la vita del marito. Scelto Liddo, uno degli eunuchi suoi più cari, un tal veleno gli diede che potesse parer naturale la di lui malattia. Non si conobbe allora l'iniquo manipolator di questo fatto; ma da lì ad otto anni nella caduta di Sejano, ciò venne alla luce per confessione di Apicata sua moglie. Con tal costanza nondimeno portò Tiberio la perdita del figliuolo, che i maligni giunsero fino a sospettare lui stesso complice o autore del veleno, quasichè Druso avesse prima pensato di avvelenare il padre. Neppur Tacito, benchè inclinasse ad annerir tutte le azioni di Tiberio, osò prestar fede a così inverisimil diceria. Del resto non erano tali i costumi e le inclinazioni di Druso, che i Romani internamente si affliggessero della di lui morte. Lasciò egli tre figliuoli di tenera età, ma che l'un dietro all'altro furono rapiti dalla morte, di modo che la succession dell'imperio cominciò a destinarsi ai figliuoli di Germanico. In abbondanza furono fatti onori alla memoria di Druso; ma Tiberio non ammise chi gareggiava per passar seco atti di condoglianza, affinchè non gli si rinnovassero le piaghe del dolore. E perchè da lì a non molto tempo gli ambasciadori d'Ilio, o sia di Troja, venuti a Roma [Sueton., in Tiber., cap. 52.], gli spiegarono il lor dispiacere a cagion della perdita del figliuolo, per deriderli rispose: «Che anch'egli si condoleva con loro per la morte d'Ettore,» ucciso mille e dugento anni prima.
Buone qualità avea Tiberio mostrato in addietro, e competente governo avea fatto [Dio, lib. 57.]. Già dicemmo che tolto di vita Germanico, cominciò egli a declinar al male. Peggiorò anche dopo la morte di Druso. Nondimeno a renderlo più cattivo contribuì non poco l'ambizioso e perverso Sejano, le cui mire tendevano tutte a regnar solo col tempo. Perchè gliene avrebbono impedito l'acquisto i [70] figliuoli di Germanico, nipoti per adozione di Tiberio, e raccomandati in quest'anno dallo stesso Tiberio al senato, nè poteva Sejano sbrigarsi di loro col veleno per la buona cura che avea di essi, e della propria pudicizia Agrippina lor madre: si diede a fomentar ed accrescere l'odio di Tiberio contro d'essi, e il mal animo di Livia Augusta contro d'Agrippina. Chiunque ancora de' nobili sembrava a lui capace d'interrompere i voli della sua fortuna, cominciò egli sotto vari pretesti, e massimamente di aver essi sparlato di Tiberio, a perseguitarli con accuse che in questi tempi ad alcuni, e col progresso del tempo a moltissimi costarono la vita [Tacitus, lib. 4, cap. 14.]. Succedeva talvolta che gl'istrioni, o vogliam dire i commedianti, eccedevano nell'oscenità, e tagliavano i panni addosso a determinate donne romane, o pure porgevano occasioni a risse. Tiberio li cacciò di Roma, e vietò l'arte loro in Italia. Alle persone di merito dopo morte erano state alzate alcune statue da esso Tiberio. Videsi nel presente anno questa deformità, cioè, ch'egli mise la statua di bronzo di Sejano nel pubblico teatro. L'esempio del principe servì ad altri, per esporne molte altre simili. E conoscendo già ognuno che costui era la ruota maestra della fortuna e degli affari, risonavano dappertutto le sue lodi ed anche nello stesso senato; piena sempre di nobili l'anticamera di lui; i consoli stessi frequenti visite gli faceano; nulla in fine si otteneva, se non passava per le mani di lui. Una bestialità di Tiberio vien raccontata sotto quest'anno. Un insigne portico di Roma minacciava rovina, essendosi molto inchinate le colonne che lo sostenevano [Dio, lib. 57.]. Seppe un bravo architetto con argani ed altri ingegni ritornarlo al suo primiero sito. Maravigliatosene molto Tiberio, il fece bensì pagare, ma il cacciò anche fuori di Roma. Tornato un dì costui per supplicarlo [71] di grazia, credendo di farsi del merito, gittò un vaso di vetro in terra; poi raccoltolo fece vedere che possedeva il secreto di racconciarlo. Gli fece Tiberio levar la vita, senza sapersi il vero motivo di così pazza e crudele sentenza. Scrive Plinio [Plinius, lib. 36, cap. 26.] lo stesso più chiaramente, dicendo che quel vetro era molle e pieghevole, come lo stagno, con aggiugnere nulladimeno, essere stata questa una voce di molti, ma poco creduta dai saggi.
Anno di | Cristo XXIV. Indizione XII. |
Tiberio imperadore 11. |
Consoli
Servio Cornelio Cetego e Lucio Viselio Varrone.
Ancorchè Tiberio non chiedesse al senato la confermazione della sua suprema autorità [Dio, lib. 57.], finito il decennio di essa, come usò Augusto, perchè egli non l'avea dianzi ricevuta per un determinato tempo: pure si solennizzarono i decennali del suo imperio con varii giuochi pubblici e feste. E perciocchè [Tacitus, lib. 4, cap. 16.] i pontefici e sacerdoti aveano fatto dei voti per la conservazione della vita di Tiberio, unendo anche con lui Nerone e Druso, cioè i due maggiori figliuoli del defunto Germanico, se l'ebbe a male il geloso Tiberio. Volle sapere, se così avessero fatto per preghiere o per minacce d'Agrippina lor madre; ed inteso che no, li rimandò, non senza qualche riprensione. Poscia nel senato si lasciò meglio intendere, con dire che non si avea con prematuri onori da eccitare od accrescere la superbia de' giovani per lo più sconsigliati. Sejano anch'egli non lasciava di fargli paura, ripetendo essere già divisa Roma in fazioni; una d'esse portare il nome di Agrippina; e doversi perciò prevenire maggiori disordini. Dato [72] fu quest'anno fine alla guerra, già mossa da Tacfarinate in Africa. Era proconsole di quelle provincie Publio Dolabella, e tuttochè fosse stata richiamata in Italia la legione nona che era in quelle parti, pure raccolti quanti soldati romani potè, all'improvviso assalì i Numidi, mentre sotto il comando di esso Tacfarinate stavano raccolti sotto un castello mezzo smantellato. Fatta fu strage di loro, e fra gli uccisi vi restò il medesimo Tacfarinate, per la cui morte ritornò la quiete fra que' popoli. Fu in quella azione aiutato Dolabella da Tolomeo figliuolo di Giuba, re della Mauritania. Erano dovuti al vincitore proconsole gli onori trionfali, ed egli ne fece istanza; ma non gli ottenne, perchè a Sejano non piacque di vederlo uguagliato nella lode a Bleso suo zio, predecessore di Dolabella nel governo che pure avea ricevuto quel premio, con aver operato tanto meno. A Tolomeo re fu inviato da Tiberio in dono uno scettro d'avorio, e una veste ricamata in segno del gradimento dello aiuto prestato. Perseguitò Tiberio in quest'anno alcuni de' nobili, non d'altro delitto rei che d'aver mostrato il loro amore a Germanico e a' suoi figliuoli; e ad alcuni per questo gran misfatto, tolta fu la vita, crescendo ogni dì più la crudeltà del principe, e per conseguente il comune odio contro di lui. Abbondavano allora le spie; orecchio si dava a tutti gli accusatori, e niuno era sicuro. Nelle contrade di Brindisi un Tito Cortisio, soldato pretoriano ne' tempi addietro, mosse a sedizione i servi o, vogliam dire, gli schiavi di quelle parti; e vi fu paura d'una guerra servile. Ma per la sollecitudine di Tiberio e di Curzio Lupo questore, che con un corpo di armati volò contro di loro, restò in breve estinto il nascente incendio. Hanno osservato gli eruditi [Noris, Cenotaph. Pisan., Dissert. 2, cap. 16. Blanch., in Anastas. Schelestratus et alii.] che nell'anno presente avendo Valerio Grato dato fine al suo governo della Giudea, Tiberio [73] spedì colà per procuratore e governatore Ponzio Pilato, di cui è fatta menzione nel Vangelo.
Anno di | Cristo XXV. Indizione XIII. |
Tiberio imperadore 12. |
Consoli
Marco Asinio Agrippa e Cosso Cornelio Lentolo.
Vien creduto che Cosso sia un prenome particolare della casa de' Cornelii Lentoli. Nuovo esempio dell'infelicità dei Romani, regnando il crudele Tiberio e il prepotente Sejano, si vide nel presente anno [Tacitus, lib. 4, cap. 34.]. Cremuzio Cordo, uno de' migliori ingegni de' Romani d'allora, avea composta [Dio, lib. 57.] una storia delle guerre civili di Cesare e Pompeo, conducendola anche ai tempi d'Augusto. Lo stesso Augusto l'avea letta, e, siccome principe saggio e discreto, non se n'era punto formalizzato. Ma avendo Cremuzio dipoi, forse con qualche parola, disgustato Sejano, si trovarono in quella storia dei delitti gravissimi. Egli avea lodato Bruto e Cassio uccisori di Cesare, e chiamato lo stesso Cassio l'ultimo dei Romani. Male non avea detto di Giulio Cesare, nè di Augusto, ma neppure stato era prodigo di lodi verso di loro. Fu accusato per questo nel senato, e Tiberio con occhio arcigno gli diede assai a conoscere d'essere indispettito contro di lui. Si difese egli coll'esempio di Tito Livio e d'altri scrittori e storici precedenti; ma tornato a casa, ed increscendogli di vivere sotto un sì tirannico governo, si lasciò morir di fame. Sentenziati furono al fuoco i di lui scritti; contuttociò avendone Marcia sua figliuola conservata una copia, vennero dopo la morte di Tiberio alla luce, accolti allora con ansietà maggiore dal pubblico appunto per la persecuzione sofferta dall'autor d'essi, ma a noi poscia rubati dalla voracità de' tempi. Osserva Tacito la mellonaggine di que' potenti, che mal operando non vorrebbono [74] che la memoria de' lor perversi fatti passasse ai posteri; e tutto fanno per abolirla. Ma Iddio permette ch'ella vi passi per castigare anche nel nostro mondo chi s'è abusato della potenza in danno de' popoli. Ai Ciziceni in quest'anno levato fu il privilegio di regolarsi colle proprie leggi e co' propri magistrati; e ciò perchè non avevano per anche terminato un tempio eretto ad Augusto ed avevano imprigionati alcuni cittadini romani. Le città di Spagna in questi tempi, inclinate anch'esse all'adulazione, inviarono ambasciatori a Tiberio, pregandolo di permettere che innalzassero dei templi a lui e a Livia Augusta sua madre, siccome egli avea conceduto alle città dell'Asia. Tacito mette le più belle sentenze in bocca di Tiberio [Tacitus, loc. cit.], con riferire il ragionamento di lui fatto nel senato per cui nol volle loro permettere, riconoscendo sè stesso per uno de' mortali, e bastando a lui di avere un tempio nel cuore de' senatori per l'amore e la stima che sperava da essi. Salì poi tanto alto l'ambizion di Sejano, che nel presente anno arditamente supplicò per ottenere in moglie Giulia Livilla, vedova del fu Cajo Cesare, figliuolo adottivo di Augusto, e poi del defunto Druso Cesare, e nuora del medesimo Tiberio. Quantunque fosse eccessivo il favore di Tiberio verso di lui, pure non si lasciò indurre l'astuto principe ad accordargli tal grazia: il che sconcertò forte le misure di Sejano, e lo rendè malcontento della propria per altro smoderata fortuna. Tuttavia mise in ordine altre macchine, siccome vedremo nell'anno seguente. Credono alcuni letterati [Pagius, in Critic. Baron., Stampa et alii.], che in quest'anno corresse l'anno XV dell'impero di Tiberio, enunziato da san Luca, in cui san Giovanni Batista diede principio alle sue prediche. Prendesi tal anno dal fine d'agosto dell'anno undecimo dell'Era cristiana, in cui Tiberio colla podestà tribunizia fu costituito suo collega nell'imperio d'Augusto.
Anno di | Cristo XXVI. Indizione XIV. |
Tiberio imperadore 13. |
Consoli
Cajo Calvisio Sabino e Gneo Cornelio Lentolo Getulico.
Ebbero questi consoli nelle calende di luglio per successori nella dignità Quinto Marcio Barea e Tito Rustio Nummio Gallo. V'ha chi crede non doversi attribuire il nome di Cornelio a Lentolo Getulico. Ma certamente i Lentoli soleano essere della famiglia Cornelia, come si può vedere nei Trattati dell'Orsino e Patino, e di Antonio Agostino. S'erano messi in armi [Tacitus, lib. 6, cap. 46.] alcuni popoli della Tracia, perchè non voleano sofferir che si facesse dai Romani leva di soldati nei lor paesi; negavano anche ubbidienza a Remetalce re loro. A Poppeo Sabino fu data l'incombenza di marciar contro di loro con quelle forze che potè raccogliere; e questi sì fattamente gli strinse, che per la fame e più per la sete, parte rimasero uccisi, e il rimanente se n'andò disperso. Per tal vittoria accordati furono a Sabino gli onori trionfali. Crebbero in questo anno le amarezze fra Tiberio ed Agrippina, vedova di Germanico, perchè fu condannata Claudia Pulcra, o sia Bella, cugina di lei. Parlò alto Agrippina a Tiberio, il pregò ancora di darle marito; ma egli, che temeva competenza nel governo, la lasciò senza risposta. Fu poi gran lite in Roma fra gli ambasciadori delle città dell'Asia, gareggiando cadauna per aver l'onore di alzare un tempio ad Augusto. La decision del senato cadde in favore della città di Smirna. Ritirossi nell'anno presente Tiberio nella Campania, col pretesto di andare a dedicare un tempio a Giove in Capoa, e un altro in Nola ad Augusto, morto in quella città. Suo pensiero era di non ritornar più a Roma, e così fu in fatti. Si misero tutti allora a scandagliare i motivi di questa ritirata. Chi pensò ciò avvenuto per arte [76] e suggestione di Sejano, che voleva restar solo alla testa degli affari in Roma, e seppe così ben dipingere gl'incomodi, a' quali era sottoposto il principe per tante visite, suppliche e giudizii, che l'indusse a cercar la quiete nella solitudine. Furono altri di parere, ch'egli se ne andasse, per non poter più sofferire l'ambizion di Livia sua madre, giacchè ella credeva a sè competente il far da padrona al pari di lui: cosa ch'egli non sapea digerire, ma neppure assolutamente vietare, considerando la signoria sua un dono di lei. Credettero finalmente altri, che si movesse Tiberio a tal risoluzione solamente per impulso proprio originato dall'infame sua libidine, in cui da gran tempo ero immerso, e continuava più che mai il sozzo vecchio, ma con istudiarsi di soddisfarla in segreto al che era più proprio un luogo ritirato. Si aggiungeva l'esser egli d'alta, ma gracile statura, col capo calvo e colla faccia sparsa d'ulcere, e coperta per lo più da empiastri. Hanno perciò creduto alcuni, che ciò fosse un frutto della sua sordida impudicizia, e che il morbo gallico somministrasse ancora in que' tempi un castigo, benchè raro, ai perduti dietro alle femmine prostitute. Vergognandosi egli di comparire in pubblico con sì deforme figura, parve ad alcuni di trovare in lui bastante motivo di fuggire dal consorzio degli uomini. In fatti anche dopo la morte della madre e di Sejano, si tenne egli lontano da Roma, benchè talvolta andasse burlando la gente credula, con ispargere voce del suo imminente ritorno. Pochi cortigiani volle seco Tiberio. Fra essi furono Sejano e Coccejo Nerva, personaggio pratico della giurisprudenza e probabilmente avolo di Nerva, che fu dipoi imperadore. Ad assaissimi lunari e ciarle senza fine dei Romani diede motivo la risoluzion presa da Tiberio, nè queste furono a lui ignote. Con levar la vita ad alcuni, forse anche innocenti, egli insegnò agli altri ad esaminare e censurar con più riguardo le azioni de' tiranni.
Anno di | Cristo XXVII. Indizione XV. |
Tiberio imperadore 14. |
Consoli
Marco Licinio Crasso e Lucio Calpurnio Pisone.
Il primo di questi consoli in due iscrizioni riferite dal Reinesio [Reinesius, Inscription. Class. VII, n. 10, 18.], vien chiamato MARCVS CRASSVS FRVGI. Queste iscrizioni, senz'avvedermi ch'erano già pubblicate, le ho inserite ancor io nella mia raccolta; e sono ben più da attendere, che la rapportata dallo Sponio, per conoscere il vero cognome d'esso console. Andò in quest'anno Tiberio Augusto a fissar la sua abitazione nell'amena isola di Capri, otto miglia distante da Surrento, tre dalla terra ferma, sprovveduta di porto, e solo accessibile a piccole barche, dove ritirato, con suo comodo continuò a sfogare la infame sua lussuria. Non si sa quante guardie egli menasse seco. Molto strano era nondimeno, che un imperadore soggiornasse in sì piccolo sito per dieci anni senza aver paura de' corsari, o di chi gli volesse male. Fors'egli si assicurò sulla difficoltà di approdare colà per cagion degli scogli. Pochi giorni dopo il suo arrivo un pescatore per mezzo di essi scogli penetrò nell'isola [Sueton., in Tiber., cap. 60.], e gli presentò un bel mullo o triglia, pesce allora stimatissimo. Perchè s'ebbe non poco a male Tiberio, che costui per quella difficile via fosse entrato, fece fregargli e lacerargli il volto col medesimo pesce; e buon per lui che non gli accadde di peggio. Sejano intanto non tralasciava diligenza alcuna per accendere sempre più la diffidenza e l'odio di Tiberio contro di Agrippina, vedova di Germanico, e contro di Nerone primogenito d'essa, non quello che fu poi imperadore. Secondo le apparenze dovea questo giovane principe, siccome nipote per adozione di Tiberio, succedere a lui nell'imperio. Sejano, che v'aspirava anch'egli [78] il tenea forte di vista; segretamente ancora inviava persone, che sotto specie d'amicizia il gonfiavano, esortandolo a mostrar più spirito; tale esser il desiderio del popolo romano; tale quel degli eserciti. All'incauto giovane scappavano talvolta parole, che meglio sarebbe stato il tenerle fra i denti. Tutto era riferito a Sejano, e tutto passava, forse anche con delle giunte, alle orecchie di Tiberio, con aggiungere sospetti a sospetti. Però nell'anno presente furono messi soldati alla guardia del palazzo d'Agrippina, affin di risapere chi v'andava e che vi si parlava: tutti segni funesti di maggiore strepito e della futura ruina. Accadde in quest'anno un caso quasi incredibile e sommamente lamentevole, che ha pochi pari nella storia [Tacitus, lib. 2 Annal., c. 62. Sueton., in Tiber., c. 40.]. In Fidene, città lontana da Roma cinque sole miglia, cadde in pensiero ad un uomo di bassa sfera, e neppur ricchissimo, per nome Atilio, di schiatta libertina, di fabbricare un anfiteatro di legno di gran mole, per dar al popolo lo spettacolo de' gladiatori. Siccome non v'era divertimento, di cui fossero sì ghiotti i Romani, come di questo; venuto quel dì, a folla vi corse da Roma la gente, uomini e donne d'ogni età. Ma quella macchina era mancante di buoni fondamenti, e peggio legata; però ecco sul più bello dell'azione precipitar tutto l'anfiteatro. Vi restarono soffocate o per la caduta sfracellate ventimila persone e trenta altre mila ferite in varie guise, con braccia e gambe rotte e simili altri mali, con urli e grida che andavano al cielo. Fu almeno considerabile la carità de' cittadini romani, che nelle loro case accolsero tutti que' miseri, somministrando loro vitto, medici e medicamenti, con isvegliarsi l'antico lodevol costume degli antichi, i quali così trattavano dopo le battaglie i soldati feriti. La pena data ad Atilio per la somma sua balordaggine, fu l'esilio; ed uscì un editto, che da lì innanzi non potesse [79] dare il giuoco de' gladiatori, se non chi possedeva quattrocentomila sesterzi di valsente, e che fosse approvato l'anfiteatro da intendenti architetti. A questa disavventura tenne dietro in Roma un grave incendio, che consumò tutte le case poste nel monte Celio. Tiberio all'avviso di un tal danno spontaneamente si mosse alla liberalità, inviando gran soccorso di danaro a chi avea patito: il che gli fece assai onore, e ne fu anche ringraziato dal senato.
Anno di | Cristo XXVIII. Indizione I. |
Tiberio imperadore 15. |
Consoli
Appio Giulio Silano e Silio Nerva.
Gran romore e compassione cagionò in quest'anno in Roma la caduta di Tizio Sabino, illustre cavaliere romano [Tacitus, lib. 4, c. 68. Dio, lib. 58.]. Era egli de' più affezionati alla famiglia di Germanico, praticava in casa d'Agrippina, l'accompagnava in pubblico. Sejano gli tese le reti. Latinio Laziare, d'ordine suo, s'insinuò nella di lui amicizia cominciando con amichevoli ragionamenti intorno alle afflizioni di Agrippina, e del mal trattamento a lei fatto e a' suoi figliuoli da Tiberio: del che andava mostrando gran compassione. Non potè Sabino ritenere le lagrime, e sdrucciolò in lamenti contro la crudeltà e superbia di Sejano, non la perdonando neppure a Tiberio. Con tali ragionamenti si strinse fra loro una stretta confidenza. In un giorno determinato Laziare trasse in sua casa il mal accorto Sabino, per avvertirlo di disgrazie che soprastavano ai figliuoli di Germanico. Stavano ascosi nella camera vicina tre detestabili senatori per udir tutto, ed udirono in fatti Sabino sparlar di Tiberio e di Sejano. L'accusa tosto andò al senato, ed egli imprigionato, fu nel primo dì solenne dell'anno condotto al supplicio con terrore di ognuno che [80] seppe la frode usata. Ebbe da lì innanzi ognuno sommo riguardo nel parlare del governo, nè pur attentandosi d'ascoltare, nè fidandosi d'amici, e sospettando fin delle stesse mura. Gittato il corpo di Sabino nel Tevere, un suo cane, che lo avea seguitato alla prigione, e s'era trovato alla sua morte, andò anch'esso a precipitarsi e a morire nel fiume: del che altri esempi si son più volte veduti. Plinio anch'egli parla [Plinius, lib. 8, c. 40.] della fedeltà di questo cane, ma con pretendere che fosse di un liberto di Sabino, condannato con lui alla morte. Mancò di vita in quest'anno Giulia figliuola di Giulia, e nipote d'Augusto, la quale non men della madre convinta già d'adulterio, e relegata in un'isola da esso imperadore, e sostenuta ivi da Livia Augusta, per venti anni, avea fatto penitenza de' suoi falli. Ribellaronsi in questi tempi i popoli della Frisia, per non poter sofferire i tributi loro imposti, leggeri sul principio, e poscia accresciuti dagl'insaziabili ministri colà inviati. Contra di loro marciò Lucio Apronio vicepretore della Germania inferiore con un buon corpo di armati; ma volendo perseguitarli per quel paese inondato dall'acque e pieno di fosse, vi lasciò morti circa mille e trecento de' suoi in più incontri, con gloria de' Frisj e vergogna sua. Tiberio, ancorchè dolente ne ricevesse la nuova, pure per li suoi fini e timori politici niun generale volle inviare colà. Troppa apprensione gli facea il mettere in mano altrui il comando di grossa armata. Faceva istanza il senato, perchè Tiberio e Sejano ritornassero; e in fatti vennero essi in terra ferma della Campania; e colà si portò non solamente il senato, ma gran copia della nobiltà e della plebe con ritornarsene poi quasi tutti malcontenti o dell'alterigia di Sejano, o del non aver potuto ottenere udienza dal principe. Diede nell'anno presente Tiberio in moglie a Gneo Domizio Enobarbo Agrippina, figliuola di Germanico [81] e di Agrippina, più volte da noi memorata. Da loro poi nacque Nerone, mostro fra gl'imperadori. Era già parente della casa d'Augusto questo Gneo Domizio, avendo avuto per avola sua Ottavia, sorella d'Augusto. Svetonio [Suet., in Neron., c. 5. Dio, in Neron.], parlando di costui, ci assicura ch'egli fu una sentina di vizii; e però da meravigliarsi non è, se il suo figliuolo, divenuto imperadore, non volle essere da meno del padre. Diceva lo stesso Domizio, che da lui e da Agrippina nulla potea prodursi, se non di cattivo e di pernicioso al pubblico. Convien credere che questa Agrippina juniore, ben dissomigliante dalla madre, fosse in sinistro concetto anche in sua gioventù.
Anno di | Cristo XXIX. Indizione II. |
Pietro Apostolo papa 1. | |
Tiberio imperadore 16. |
Consoli
Lucio Rubellio Gemino e Cajo Rufio Gemino.
Nelle calende di luglio furono sostituiti altri consoli. Ha creduto taluno, che fossero Quinto Pomponio Secondo, e Marco Sanquinio Massimo. Ma il cardinal Noris [Norisius, in epistola Consulari.] con più fondamento mostrò essere stati Aulo Plauzio e Lucio Nonio Asprenate. Certamente egli è da dubitare, che nell'assegnar i consoli sostituiti, si sieno talvolta ingannati i fabbricatori de' fasti consolari. Più d'un esempio di ciò si trova nel Panvinio. Ora sotto questi due consoli Gemini han tenuto e tengono tuttavia alcuni letterati, che seguisse la Passione del divin nostro Salvatore: opinione fondatissima, perchè assistita da una grande antichità, ed approvata da molti de' santi Padri. Se così è, a noi sia lecito di metter qui l'anno primo del pontificato di san Pietro Apostolo. Tertulliano [Tertull. contra Jud., c. 8.], autore che fiorì [82] nel secolo seguente, chiaramente scrisse, che il Signore patì sub Tiberio Caesare, Consulibus Rubellio Gemino et Rufio Gemino. Furono del medesimo sentimento Lattanzio, Girolamo, Agostino, Severo Sulpizio ed il Grisostomo. Altri poi han riferito ad alcuno degli anni seguenti un fatto sì memorabile della santa nostra religione. All'istituto mio non compete il dirne di più; e massimamente, perchè, con tutti gli sforzi dell'ingegno e della erudizione, non s'è giunto fin qui, e verisimilmente mai non si giugnerà a mettere in chiaro una così tenebrosa quistione. A noi dee bastare la certezza del fatto, poco importando l'incertezza del tempo. Sino a quest'anno era vissuta Livia, già moglie d'Augusto, e madre di Tiberio [Tacitus, lib. 5, c. 1.], appellata anche Giulia da Tacito e in varie iscrizioni, perchè dal medesimo Augusto adottata. Morì essa in età assai avanzata, con lasciar dopo di sè il concetto d'essere stata donna di somma ambizione, e non men provveduta di sagacità per soddisfarla, con aver saputo, a forza di carezze e di una allegra ubbidienza in tutto, guadagnarsi il cuore d'Augusto. Con tali arti condusse al trono il figlio Tiberio, poco amata, ma nondimeno rispettata da lui, e temuta da Sejano, finchè ella visse, pochissimo poi compianta da loro in morte. Prima che Tiberio si ritirasse a Capri [Sueton., in Tiber., c. 51.], era insorto qualche nuvolo fra lui e la madre, perchè facendo ella replicate istanze al figliuolo di aggregare ai giudici una persona a lei raccomandata, le rispose Tiberio d'essere pronto a farlo, purchè nella patente si mettesse, che la madre gli avea estorta quella grazia. Se ne risentì forte Livia, e piena di sdegno gli rinfacciò i suoi costumi scortesi ed insoffribili, i quali, aggiunse, erano stati ben conosciuti da Augusto; e, in così dire, cavò fuori una lettera conservata fin allora del medesimo Augusto, in cui si lamentava dell'aspre maniere [83] del di lei figliuolo. Ne restò sì disgustato Tiberio, che alcuni attribuirono a questo accidente la sua ritirata da Roma. In fatti nell'ultima di lei malattia neppur si mosse per farle una visita; e dappoichè la seppe morta, andò tanto differendo la sua venuta, ch'era putrefatto il di lei corpo allorchè fu portato alla sepoltura. Avendo l'adulator senato decretato molti onori alla di lei memoria, egli ne sminuì una parte, e sopra tutto comandò che non la deificassero (benchè poi sotto l'imperio di Claudio a lei fosse conceduto questo sacrilego onore) facendo credere che così ell'avesse ordinato. Neppur volle eseguire il testamento da essa fatto, e di poi perseguitò chiunque era stato a lei caro, e infin quelli ch'essa avea destinati alla cura del suo funerale.
Soleva Tiberio ad ogni morte dei suoi diventar più cattivo. Ciò ancora si verificò dopo la morte della madre, la cui autorità avea fin qui servito di qualche freno alla maligna di lui natura, e agli arditi e malvagi disegni di Sejano, con attribuirsi a lei la gloria di aver salvata la vita a molti. Poco perciò stette a giugnere in senato un'assai dura lettera di Tiberio contro Agrippina vedova di Germanico, e contro di Nerone di lei primogenito. Erano tutti i reati loro, non già di abbandonata pudicizia, non di congiure, non di pensieri di novità, ma solamente di arroganza e di animo contumace contro di Tiberio. All'avviso del pericolo, in cui si trovavano l'uno e l'altra, la plebe, che sommamente gli amava, prese le loro immagini, con esse andò alla curia, gridando essere falsa quella lettera, e che si trattava di condannarli contro la volontà dell'imperadore. Faceano istanza nel senato i senatori, venduti ad ogni voler di Tiberio, che si venisse alla sentenza; ma gli altri tutti se ne stavano mutoli e pieni di paura. Il solo Giunio Rustico, benchè uno de' più divoti di Tiberio, consigliò che si differisse la risoluzione, per meglio intendere le intenzioni [84] del principe. Di questo ritardo, e maggiormente per la commozione del popolo, si dichiarò offeso Tiberio; ed insistendo più che mai nel suo proposito, fece relegar Agrippina [Sueton., in Tiber., cap. 53.] nell'isola Pandataria, posta in faccia di Terracina e di Gaeta. Dicono che non sapendosi ella contenere dal dir delle ingiurie contro di Tiberio, un centurione la bastonò per comandamento di lui sì sgarbatamente, che le cavò un occhio. I di lei figliuoli, Nerone e Druso, benchè nipoti per adozion di Tiberio, furono anch'essi dichiarati nemici; il primo relegato nell'isola di Ponza, e l'altro detenuto ne' sotterranei del palazzo imperiale. Qual fosse il fine di questi infelici, lo vedremo andando innanzi.
Anno di | Cristo XXX. Indizione III. |
Pietro Apostolo papa 2. | |
Tiberio imperadore 17. |
Consoli
Lucio Cassio Longino e Marco Vinicio.
In luogo de' suddetti consoli nelle calende di luglio succederono Cajo Cassio Longino e Lucio Nevio Sordino. Qui vien meno la storia romana, essendosi perduti molti pezzi di quella di Cornelio Tacito; e l'altra di Dione si scuopre molto digiuna, perchè assassinata anch'essa dalle ingiurie del tempo. Tuttavia è da dire essere stati sì in grazia di Tiberio i due suddetti consoli ordinarii, cioè Lucio Cassio e Marco Vinicio, ch'egli da lì a tre anni diede loro in moglie due figliuole di Germanico; a Cassio Giulia Drusilla, a Vinicio Giulia Livilla. Appartiene poi a quest'anno il funesto caso di Asinio Gallo, figliuolo di Asinio Pollione, celebre a' tempi d'Augusto. Dacchè Tiberio dovette ripudiar Vipsania, figliuola d'Agrippa, sua moglie primiera, che già gli avea partorito Druso, per prendere Giulia figliuola d'Augusto, questa Vipsania si maritò col suddetto Asinio Gallo, e gli partorì dei figliuoli, i [85] quali perciò vennero ad essere fratelli uterini di Druso Cesare, ed uno d'essi era stato promosso al consolato. Ma, per testimonianza di Tacito, Tiberio mirò sempre di mal occhio Asinio Gallo per quel maritaggio. Tanto più se la prese con lui [Dio, in Excerptis Vales.], perchè osservò ch'egli facea una gran corte a Sejano, e l'esaltava dappertutto, forse credendo che costui arriverebbe un dì all'imperio, o pure cercando in lui un appoggio contro le violenze di Tiberio. Dovendo il senato inviar degli ambasciatori a Tiberio, fece egli negozio per essere un d'essi. Andò, fu ricevuto con volto ben allegro da esso Tiberio, e tenuto alla sua tavola, dove lietamente si votarono più bicchieri; ma nel medesimo tempo ch'egli stava in gozzoviglia, il senato, che avea ricevuta una lettera da Tiberio con alcune accuse immaginate dal suo maligno capriccio, il condannò, con ispedir tosto un pretore a farlo prigione. S'infinse Tiberio d'essere sorpreso all'avviso di quella sentenza, ed esortato Asinio a star di buona voglia, e a non darsi la morte, come egli desiderava, il lasciò condurre a Roma, con ordine di custodirlo sino al suo ritorno in città. Ma non vi ritornò mai più Tiberio; ed egli intanto senza servi, e senza poter parlare se non con chi gli portava tanto di cibo, che bastasse a non lasciarlo morire, andò languendo in una somma miseria, con finir poscia i suoi guai, non si sa se per la fame o per altro verso, nell'anno 33 della nostra Era, siccome attesta Tacito. Eusebio [Euseb., in Chron.], che mette la sua morte nell'anno primo di Tiberio, non è da ascoltare. Anche Siriaco, uomo insigne pel suo sapere, tolto fu di vita non per altro delitto, che per quello d'essere amico del suddetto Asinio. In quest'anno appunto scrisse la sua storia, di cui buona parte s'è perduta, Vellejo Patercolo, con indirizzarla a Marco Vinicio, uno dei [86] due consoli di quest'anno; però non merita scusa la prostituzione della sua penna in caricar di tante lodi Tiberio e Sejano. Le loro iniquità davano negli occhi di tutti; e quegl'incensi sì mal impiegati, sempre più ci convincono di che animi servili fosse allor pieno il senato e la nobiltà romana. Abbiamo da Dione, che sempre più crescendo l'autorità e l'orgoglio di Sejano, tanto più per paura o per adulazione crescevano le pubbliche e le private dimostrazioni di stima verso di lui. Già in ogni parte di Roma si miravano statue alzate in suo onore [Dio, lib. 58.]. Fu anche decretato in senato, che si celebrasse il di lui giorno natalizio. E a lui separatamente, e non più al solo Tiberio, si mandavano gli ambasciatori dal senato, dai cavalieri, dai tribuni della plebe e dagli edili. Cominciossi ancora ne' voti e sagrifizii che si facevano agli dii del Paganesimo per la salute di Tiberio, ad unir seco Sejano; si udivano grandi e piccioli giurare per la fortuna di amendue; il che era riserbato in addietro per gli soli imperadori. Non lasciava quell'astuta volpe di Tiberio, benchè si stesse nell'infame suo postribolo di Capri, d'essere informato di tutto questo; e tutto anche dissimulava, ma coll'andar intanto ruminando quel che convenisse di fare.
Anno di | Cristo XXXI. Indizione IV. |
Pietro Apostolo papa 3. | |
Tiberio imperadore 18. |
Consoli
Lo stesso Tiberio Augusto per la quinta volta, Lucio Elio Sejano.
Non ritennero Tiberio e Sejano lungo tempo il consolato, perciocchè, siccome avvertì il cardinale Noris [Norisius, Epist. Cens.], nel dì 9 di maggio subentrarono in quella dignità Fausto Cornelio Sulla e Sestidio [87] Catullino, ciò apparendo da un'iscrizione. Da un'altra ancora da me rapportata [Thesaurus Novus Inscription., pag. 302, num. 4.] apparisce il loro nome, ma con qualche mio dubbio, che SEXTEIDIVS possa essere Sex. Teidius. Il non trovar io vestigio della famiglia Sestidia, ma bensì della Tidia, mi ha fatto nascere un tal dubbio. All'uno di questi due consoli fu surrogato nelle calende di luglio Lucio Fulcinio Trione, e all'altro nelle calende di ottobre, Publio Memmio Regolo, che non era amico di Sejano, come Fulcinio Trione. Con occhi aperti vegliava Tiberio sopra gli andamenti del suo favorito Sejano, pentito ormai d'averlo tanto esaltato. Già s'era accorto che costui avea serrati i passi ai ricorsi, nè gli lasciava sapere, se non ciò ch'egli voleva. Molto più appariva che costui a gran passi tendeva al trono col deprimere i suoi nemici, e guadagnarsi ogni dì più amici e clienti. E giacchè il senato e il popolo erano giunti ad eguagliarlo a lui in più occasioni, ed all'incontro ben sapea Tiberio d'essere poco amato, anzi odiato dai più dei Romani; preso fu da gagliardo timore, che potesse scoppiar qualche gran fulmine sopra il suo capo. Abbiamo ancora da Giuseppe Ebreo [Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 18.] che Antonia madre di Germanico e di Claudio, che fu poi imperadore, spedito a Capri Pallante suo fidatissimo servo, diede avviso a Tiberio della congiura tramata da esso Sejano coi pretoriani e con molti senatori e liberti d'esso Tiberio, di maniera che egli restò accertato del pericolo suo. Ma come atterrare un uomo sì ardito e intraprendente, e giunto a tanta possanza? La via di prevenirlo tenuta da quell'astuto vecchio, fu quella di sempre più comparir contento ed amante di Sejano, e di colmarlo di nuovi onori, per più facilmente ingannarlo. Il creò console per l'anno presente, e affine di maggiormente onorarlo, prese seco il consolato. [88] Scrisse anche al senato con raccomandargli questo suo fedele ministro. Potrebbe chiedersi, perchè nol facesse strozzare in Capri, e come mai per abbatterlo il facesse salire al consolato, cioè ad una dignità che aumentava non solo il di lui fasto, ma anche la di lui autorità e potere. Quanto a me vo' credendo, ch'egli non s'attentasse nè in Capri nè in Roma di fargli alcun danno, finchè costui era prefetto del pretorio, cioè capitan delle guardie imperiali, il che vuol dire di un corpo di gente consistente in dieci mila de' migliori soldati fra i Romani, ed abitante unito in Roma. Allorchè Tiberio volea farsi ben rispettare e temere dai consoli e senatori, alla lor presenza dava la mostra ai pretoriani. Ma anche a lui faceano essi paura, perchè comandati da Sejano, e ubbidienti a' di lui cenni; ed esso Augusto era attorniato da sì fatte guardie anche in Capri. Adunque con crear Sejano console, ed inviarlo a Roma, se lo staccò dai fianchi, disegnando di torgli a suo tempo la carica di prefetto del pretorio, per conferirla a Nevio Sertorio Macrone.
Dopo pochi mesi gli fece dimettere il consolato, allettandolo intanto colla speranza d'impieghi e premii maggiori [Dio, lib. 58.], cioè di associarlo nella podestà tribunizia, grado sicuro alla succession dell'imperio, e di dargli moglie di sangue cesareo, verisimilmente Giulia Livilla, figliuola di Germanico. E perciocchè Sejano, dappoichè ebbe deposto la trabea consolare, facea istanza di tornarsene in Capri, per seguitar ivi a far da padrone; Tiberio il fermò con dar ad intendere a lui, e spacciar dappertutto, che fra poco voleva anch'egli tornarsene a Roma. Ne' mesi seguenti andò Tiberio fingendo ora esser malato, ora di star bene, e sempre venivano nuove ch'egli si preparava pel viaggio. Talor lodava Sejano, ed altre volte il biasimava. In considerazione di lui facea delle grazie [89] ad alcuni de' suoi amici, ed altri pure amici di lui maltrattava con varii pretesti: tutto per raccogliere segretamente col mezzo delle spie, quali fossero i sentimenti e le inclinazioni del senato e del popolo. Non andò molto che al non vedersi ritornar Sejano a Capri e all'osservar certi segni di rallentato amore di Tiberio verso di lui, molti cominciarono a staccarsi con buona maniera da lui, e calò non poco il suo credito anche presso del popolo. Ma Sejano, tra perchè non gli parea di mirar l'animo di Tiberio alienato punto da sè, e perchè Tiberio conferì a lui e a suo figliuolo in questo mentre l'onore del pontificato, non pensò, siccome avrebbe potuto, a far novità alcuna. Fu poi ben pentito di non l'aver fatto, allorchè era console. Nulladimeno viveva egli con delle inquietudini e con dei sospetti; e strano gli parve che avendo Tiberio con una lettera recato avviso al senato della morte di Nerone, figliuolo primogenito di Germanico e di Agrippina, e suo nipote per adozione, niuna lode, come era usato di fare, avesse fatta del medesimo Sejano. Relegato, siccome già dissi, questo infelice principe nell'isola di Ponza, finì quivi nell'anno presente la sua vita: chi disse per la fame, e chi perchè essendo in sua camera il boja per istrangolarlo, egli da sè stesso si uccise. Certo fu anch'egli vittima della crudeltà di Tiberio.
Ora informato abbastanza Tiberio, che l'affezion del senato e popolo verso Sejano non era quale si figurava egli in addietro, volle passar all'ultimo colpo, ma tremando per l'incertezza dell'esito. Nella notte precedente il dì 18 di ottobre comparve a Roma Macrone, segretamente dichiarato prefetto del pretorio, e ben istruito di quel che s'avea da fare, mostrando di venir per altro negozio; e fu a concertare gli affari con Memmio Regolo, l'uno de' consoli, perchè l'altro, cioè Fulcino Trione, era tutto di Sejano. La mattina per tempo andò al tempio [90] di Apollo, dove s'avea da unire il senato, ed incontratosi a caso con Sejano, che non era per anche entrato, fu richiesto se avesse lettere per lui. Si annuvolò non poco Sejano all'udire che no; ma avendolo tratto in disparte Macrone, e dettogli che gli portava la podestà tribunizia, tutto consolato ed allegro andò a seder nella curia. Macrone intanto, chiamati a sè i soldati pretoriani, una buona mano de' quali facea sempre corteggio e guardia a Sejano, mostrò loro le sue patenti di prefetto del pretorio, e in luogo d'essi alla guardia del tempio distribuì le compagnie dei vigili, comandate da Gracino Lacone consapevole del segreto. Entrato egli poscia colà, presentò una lettera molto lunga, ma ingarbugliata, di Tiberio. Non parlava egli seguitatamente contro di Sejano, ma sul principio trattava di un differente affare; andando innanzi, si lamentava di lui; poi ritornava ad altro negozio; e quindi passava a dir male di Sejano, conchiudendo in fine, che si facessero morir due senatori molto confidenti di lui, e Sejano fosse ritenuto sotto buona guardia. Non si attentò di dire che il facessero morire, perchè temeva che si svegliasse qualche tumulto da' suoi parziali. Confusi ed estatici rimasero i più de' senatori ad ordini tali, perchè già preparati a far de' complimenti ed elogi a Sejano per la promessa a lui podestà tribunizia. Sejano stesso avvilito senza muoversi dal suo luogo, senza mettersi ad aringare (il che se avesse fatto, forse altrimenti passava la faccenda) pareva insensato; e chiamato tre volte dal console Memmio Regolo, non si movea, siccome usato a comandare, e non ad ubbidire. Entrato intanto Lacone colle coorti de' vigili, l'attorniò di guardie e il menò prigione. Niun movimento fecero i pretoriani, perchè Macrone li tenne a freno, con ispiegar loro la mente del principe, e promettere ad essi alcuni premii per ordine del senato. Si mosse bensì la plebe al mirare quel sì dianzi [91] orgoglioso ministro condotto alle carceri, prorompendo in villanie e bestemmie senza fine, e poi corse ad abbattere e strascinar tutte le statue a lui poste, giacchè non poteano infierir contro la persona di lui [Tacitus, lib. 6, c. 25.]. Raunatosi poi nel medesimo giorno 18 di ottobre il senato nel tempio della Concordia, veggendo che i pretoriani se ne stavano quieti, e intendendo qual fosse il volere del popolo, condannarono a morte Sejano; e la sentenza fu immediatamente eseguita col taglio della testa. Accorsa la plebe gittò giù per le scale gemonie il di lui cadavere, e dopo essersi per tre dì sfogata contra d'esso, facendone grande scempio, lo buttò in Tevere. Anche due suoi figliuoli, l'uno maschio e l'altro femmina, per ordine del senato furono privati di vita; ma perchè insolita cosa era il far morire una fanciulla, il carnefice, prima di strozzar quell'infelice, le tolse l'onore in prigione. Apicata moglie di Sejano, benchè non condannata, si diede la morte da sè stessa, dopo aver messo in iscritto il tradimento fatto dal marito e da Livilla a Druso Cesare.
Intanto batteva forte il cuore a Tiberio nell'isola di Capri per sospetto che non riuscisse bene la meditata impresa; ed avea ordinato che, per fargli sapere il più presto possibile la nuova, si dessero segnali da' luoghi alti, frapposti tra Roma e Capri; salì egli in quel dì sul più eminente scoglio dell'isola, aspettando quivi il lieto avviso. Per altro aveva egli preparato delle barchette, affinchè, se il bisogno l'avesse richiesto, potesse ritirarsi in sicuro con esse ad alcuna delle sue armate. Scrivono eziandio, aver egli dato ordine a Macrone, che qualora fosse insorta qualche fiera sedizione in Roma, cavasse dalle carceri Druso figliuolo di Germanico, e il presentasse al senato ed al popolo, con dichiararlo anche imperadore a nome suo. Il fine della tragedia di Sejano fu poi principio d'altre gravi turbolenze, che sconcertarono non [92] poco il senato e la nobiltà romana. Il popolo già commosso, a qualunque dei favoriti di Sejano, che gli cadesse nelle mani, levava la vita. Anche i pretoriani sdegnati si misero a saccheggiare e bruciar delle case. Cominciarono poi dei duri processi contro dei senatori e d'altri nobili, che più degli altri s'erano fatti conoscere parziali di Sejano. Molti furono condannati, e con ignominiosa morte puniti; altri relegati; ed altri da sè stessi si abbreviarono la vita. Tutto era pieno di accusatori, e si rivangavano i processi e le condanne, gastigando chi avea giudicato come per istigazion di Sejano. Si tenne per certo, che le tante adulazioni del senato verso il medesimo Sejano, e gli onori straordinari a lui vilmente accordati, contribuissero non poco ad ubbriacarlo e farlo precipitare. Però lo stesso senato decretò che in avvenire si procedesse con gran moderazione in onorar altrui, nè si potesse giurare se non pel nome dell'imperadore. Contuttociò nel medesimo tempo volle esso senato concedere a Macrone il grado di pretore, e a Lacone quel di questore, oltre ad un regalo in danari; ma essi, addottrinati dal recente esempio, nulla vollero accettare. Incredibil fu la gioja di Tiberio, allorchè si vide sbrigato da Sejano. Ciò non ostante, la sua mirabil politica gl'insegnò di non ammettere all'udienza sua alcuno de' tanti senatori e cavalieri che erano corsi o erano stati spediti dal senato, per significargli la fortunata riuscita dell'affare. E il console Regolo, che l'avea in ciò ben servito, fu costretto a tornarsene indietro senza poterlo vedere. Si figuravano molti, che liberato Tiberio dal giogo, dai mali ufizj e da' sospetti di Sejano, avesse da lì innanzi da fare un governo dolce. Troppo s'ingannarono: sempre più egli imperversò. E giacchè era venuto in cognizione, per la deposizion sopraccennata della moglie di Sejano, degli autori della morte di Druso suo figliuolo, contro d'essi ancora con tutto rigore [93] procedette; e la primo a provarne la pena, fu la stessa Livilla che lasciatasi sovvertir da Sejano, avea tradito il consorte Druso. Scrive Dione [Dio, lib. 58.] d'aver inteso da alcuni, che Tiberio non la facesse morire in grazia di Antonia madre di lei, e di Claudio che fu poi imperadore; ma che la medesima sua madre quella fosse, che la privò di vita con lasciarla morir di fame.
Anno di | Cristo XXXII. Indizione V. |
Pietro Apostolo papa 4. | |
Tiberio imperadore 19. |
Consoli
Gneo Domizio Enobarbo e Marco Furio Camillo Scriboniano.
Il primo di questi consoli, marito di Agrippina figliuola di Germanico, siccome già dissi, ebbe per figliuolo Nerone, che divenne poi imperadore. Al secondo de' consoli, che mancò di vita nel consolato, fu sostituito Aulo Vitellio. Non si sa intendere, perchè Svetonio [Suetonius, in Vitellio, cap. 2.], allorchè scrisse, essere nato sotto questi consoli Marco Salvio Ottone, uno de' susseguenti imperadori, chiamasse Camillo Arruntio il collega di Domizio Enobarbo: e che parimente si trova ne' fasti d'Idacio e del Cuspiniano. Forse fu sostituito a Vitellio, o Vitellio a lui. Parve bene [Dio, lib. 58.], che Tiberio volesse por fine ai processi e condanne degli amici di Sejano, con permettere ancora ad alcuni il lutto per la di lui morte; ma poco durò questo barlume d'indulgenza, ed egli più che mai continuò la persecuzione, trovando allora altre accuse ancora d'incesti e di parricidii, per levar la vita a chi non godea di sua grazia. Crebbe perciò cotanto l'universal odio contro di lui, che il poter divorare le di lui carni, sarebbe sembrato un gustoso cibo ad ognuno. Fece anche il timore di lui crescere l'adulazion [94] nel senato. Costume era in addietro che nelle calende di gennaio, un solo leggesse gli ordini di Tiberio con giurar d'osservarli: al che gli altri acconsentivano. Fu creduto maggior ossequio e finezza che cadauno prestasse espressamente quel giuramento. Inoltre per far conoscere a Tiberio, quanto cara lor fosse la vita di lui, decretarono che egli scegliesse chi de' senatori fosse a lui in grado, e che venti d'essi colle spade servissero a lui di guardia quando egli entrava nel senato. Trovò Tiberio assai ridicolo un tal decreto; e quantunque ne rendesse loro grazie, pure non l'approvò, perchè non essendogli ignoto d'essere in odio al senato, non era sì pazzo da voler permettere intorno alla sua persona di sì fatte guardie armate. E da lì innanzi molto più attese a conciliarsi l'amore de' soldati pretoriani, per valersene occorrendo contro il senato. Avea proposto Giunio Gallione che esso senato accordasse un privilegio a quei che avessero compiuto il termine della lor milizia. Tiberio, perchè non gli piacea che le genti militari fossero obbligate se non a lui solo, mandò in esilio lo stesso Gallione fuori d'Italia, e poscia il richiamò per metterlo a penare sotto la guardia de' magistrati, dacchè intese aver egli meditato di passare a Lesbo, dove sarebbe troppo deliziosamente vivuto. Raccontano Tacito [Tacitus, Annal., lib. 6, cap. 2. Dio, ibid.] e Dione che in quest'anno furono processati altri nobili per l'amicizia di Sejano; e fra gli altri fu punito Latinio Laziare che, siccome abbiam veduto di sopra, coll'usare un tradimento a Tizio Sabino, fu cagion di sua morte. Fra gli accusati nondimeno miracolosamente la scappò netta Marco Terenzio. Il suo reato consisteva nel solo essere stato amico di Sejano. Lo confessò egli francamente, e con egual coraggio difese il fatto, mostrando ch'egli così operando avea onorato Tiberio nel suo favorito; e se Tiberio, signor così saggio, s'era ingannato in dispensar tante grazie [95] a chi n'era indegno meritavano bene scusa gl'inferiori, caduti nel medesimo inganno. Nè doversi aver l'occhio all'ultimo giorno di Sejano, ma bensì ai sedici anni della di lui potenza, durante il qual tempo chi non volea perire, dovea studiarsi d'essere a lui caro. E però chiunque volesse condannar chi non avea fallato in altro che in amare ed onorar Sejano, verrebbe nello stesso punto a condannar Tiberio. Fu assoluto, nè Tiberio se l'ebbe a male.
Fu creduto daddovero in quest'anno ch'esso Tiberio tornasse a Roma [Tacitus, ibidem. Sueton., in Tib., c. 72.]; imperciocchè da Capri venne nella Campania, e poscia continuato il viaggio sino al Tevere, quivi imbarcatosi, arrivò agli orti della Naumachia presso Roma, dove oggidì si vede il monistero delle moniche de' santi Cosma e Damiano. Erano disposti sulla ripa del fiume corpi di guardia, acciocchè il popolo non se gli accostasse. Ma non entrò in città, senza che se ne sapesse il motivo, e se ne tornò poco dappoi a Capri. Altro non seppe immaginar Tacito, se non che fosse tirato colà del suo mal genio, per poter nasconder entro quello scoglio il fetore delle immense sue laidezze. Non è certamente permesso ad onesta penna il rammentare ciò ch'esso Tacito e Svetonio non ebbero difficoltà di propalare della detestabil libidine di quell'infame vecchio. Basterà a me di dire che nel postribolo di Capri si praticarono ed inventarono tutte le più sozze maniere della sensualità [Sueton., cap. 43.] che faceano orrore allora ad orecchie pudiche. E a tale stato giunse un principe di Roma pagana, ma senza che ce ne abbiamo a stupire, perchè non conoscevano i Romani d'allora se non degli dii compagni della medesima sensualità; e per altro Tiberio era di coloro che poco conto facevano de' medesimi, ne punto li temevano. Del solo tuono egli avea paura, e correva a mettersi in testa la corona d'alloro, per la credenza [96] che quelle foglie fossero rispettate dai fulmini. Morì in quest'anno Lucio Pisone, prefetto di Roma, che per venti anni con lode avea esercitata quella carica, e in ricompensa del suo merito il senato gli decretò un pubblico funerale. In luogo suo fu posto da Tiberio Lucio Elio Lamia, il quale, nell'anno seguente, diede anch'egli fine a' suoi giorni. Morì parimente quest'anno Cassio Severo, oratore di gran credito, ma portato sempre alla satira, e a lacerar la riputazione delle persone illustri. Per questo mal genio era stato relegato da Augusto nell'isola di Creta, e poscia nella picciola di Serifo, dove in estrema povertà, senza avere neppur uno straccio da coprir le parti vergognose, terminò il suo vivere.
Anno di | Cristo XXXIII. Indizione VI. |
Pietro Apostolo papa 5. | |
Tiberio imperadore 20. |
Consoli
Lucio Sulpicio Galba e Lucio Cornelio Sulla Felice.
Galba, primo dei consoli porta il prenome di Lucio in una iscrizione riferita dal cardinal Noris, e da me inserita nella mia raccolta [Thesaur. Nov. Inscription., p. 303, n. 1.]. In un'altra iscrizione che si legge nel Tesoro di Grutero, il suo prenome è Servio: che così s'ha da intendere il SER. abbreviato degli antichi, e non già Sergio, come ha creduto taluno. Ma è lecito di sospettare, che nell'iscrizion gruteriana sia stato mutato il prenome di Lucio in Servio, perchè ben si sa che Galba imperadore, cioè il medesimo che fu console in quest'anno, era chiamato Servio Galba. Ma Svetonio [Sueton., in Galba, cap. 4.] chiaramente scrive di lui: Lucium pro Servio usque ad tempus imperii usurpavit: il che giustifica quanto ha il marmo del Noris, e fa con fondamento temere della corruttela nell'altro. Tacito e Dione [97] diedero a Galba console quel prenome ch'egli usò fatto imperadore; senz'avvertire ciò che Svetonio avvertì. Nelle calende di luglio a Galba fu sostituito nel consolato Lucio Salvio Ottone creduto da alcuni figliuolo di Tiberio Augusto, cotanto se gli rassomigliava nel volto. Da questo console nell'anno precedente era nato Ottone, che fu poi imperadore di pochi mesi. Volle far conoscere Tiberio in quest'anno ai senatori [Tacitus, Annal., lib. 6.], quanto egli poco si fidasse di loro, e che in breve era per venire a Roma; cioè scrisse chiedendo che qualora egli entrava nel senato, fosse permesso a Macrone capitan delle guardie del pretorio d'accompagnarlo con alcuni tribuni e centurioni della milizia. Tosto fu decretato che potesse menar seco quanta gente voleva. Erano tuttavia serrati nelle carceri, Druso, figliuolo di Germanico e nipote per adozion di Tiberio, ed Agrippina di lui madre. Avea più volte Tiberio fatto condurre questi infelici da un luogo ad un altro, sempre incatenati e in una lettiga ben serrata [Suetonius, in Tiber., cap. 64.], e con guardie che faceano allontanar tutti i viandanti. Doveva egli paventar sempre qualche risoluzione, e che avesse da correre il popolo a sprigionar quell'infelice principe. Saziò poi il suo furore in quest'anno con far morire di fame Druso. La savia Agrippina diede anch'essa fine al suo vivere, senza apparire, se mancasse per non volere il cibo, o pure perchè il cibo le fosse negato [Dio, lib. 58.]. Furono i lor corpi non già portati nel mausoleo d'Augusto, ma sì segretamente seppelliti, che mai non se ne seppe il sito. Tutta Roma si riempiè di dolore e lutto, ma solamente nell'interno delle persone, per sì compassionevol fine della famiglia di Germanico, principe tanto amato da ognuno. Eppur bisognò che il senato rendesse grazie a Tiberio dell'avviso datogli della morte di Agrippina, [98] predicata da lui per sua nemica e adultera, quando era notissima la di lei insigne onestà; ed inoltre convenne decretare che essendo morta nel medesimo dì che Sejano fu ucciso, cioè nel di 18 d'ottobre, da lì innanzi in quel giorno si facesse un'offerta a Giove in rendimento di grazie per la morte dell'uno e dell'altra.
Restava solo in vita dei figliuoli di Germanico Cajo Caligola [Tacit., lib. 6, cap. 20.], giovinetto di costumi sommamente malvagi, ma provveduto di tanto senno da farsi amare da Tiberio. Sapea coprir con finta modestia l'animo suo inclinato alla crudeltà; non gli scappò mai una parola di dispiacere o lamento per l'esilio e per la morte dei fratelli e della madre; ed ottenne per grazia di poter accompagnare Tiberio a Capri, studiandosi quivi di comparir sempre con vesti simili a quelle di lui, e d'imitare per quanto poteva le di lui maniere di parlare; di modo che di lui, divenuto poscia imperadore, ebbe a dire Passieno oratore: «Non esservi stato mai nè miglior servo, nè peggior signore di lui.» Contrasse il medesimo Cajo, di consenso di Tiberio in quest'anno gli sponsali con Claudia o Claudilla figliuola di Marco Silano. Sotto il detestabil governo di Tiberio, gran voga intanto aveano in Roma gli spioni e gli accusatori, parte volontari, parte suscitati dal principe stesso. Bastava per lo più l'accusare, perchè ne seguisse il condannare. Fioccavano in senato i libelli contro delle persone, e moltissimi inviati dal medesimo Tiberio che col braccio del senato andava facendo vendette, e pascendo I' avarizia sua colla morte e col confisco dei beni de' condannati. A parecchi nobili toccò ancor nell'anno presente la disavventura stessa; e massimamente ai senatori, tanti de' quali a poco a poco andò egli levando dal mondo, che non si poteano più provvedere i governi delle provincie [Tacitus, ibid., cap. 49. Dio, eod. lib. 58.]. Fra l'altre più memorabili [99] ingiustizie commesse in quest'anno degna è di menzione l'usata da Tiberio contro di Sesto Mario, da lungo tempo suo amico che, col favore principesco, giunto era ad essere il più ricco gentiluomo della Spagna. Avendo egli una figliuola di bellissimo aspetto, per timore che Tiberio non gliela facesse rapire, come solito era con altri, la trafugò in luogo dove fosse sicura. Avvertitone dalle sue spie Tiberio, fece accusar amendue d'incesto, e gittar giù della rupe tarpeja i lor corpi, con far sue le immense ricchezze dell'infelice Mario. Tacito racconta molti altri spettacoli di somiglianti crudeltà accadute in quest'anno, senza che mai si saziasse il genio sanguinario di Tiberio. Strano bensì parve ai più del popolo, ch'egli in un certo dì facesse morire tutti i principali spioni ed accusatori, e proibisse a tutte le persone militari il far questo infame uffizio, benchè lo permettesse ai senatori e cavalieri. Ma si può ben credere ciò fatto per comparire disapprovatore di que' maligni stromenti, dei quali si serviva la stessa di lui malignità per far tanto male al pubblico. Erano eziandio cresciute a dismisura le usure in Roma; e contro dei debitori furono in quest'anno portate istanze ed accuse assaissime al senato; nè piccolo era il numero di coloro che, ascondendo la pecunia d'oro e d'argento, ne faceano scarseggiare la città. Si vide allora un prodigio di Tiberio. Mise egli nel banco della repubblica una gran somma d'oro e d'argento, da prestarsi a chiunque ne abbisognasse, e desse idonea sigurtà, senza che per tre anni ne pagassero frutto: azione applaudita da ognuno, ma che non fece punto sminuire il comune odio contro del tiranno. Ad Elio Lamia prefetto di Roma defunto succedette in quell'uffizio Cosso, per attestato di Tacito e Seneca [Seneca, epist. 81.]. E Marco Coccejo Nerva, giurisconsulto insigne di questi tempi, ed uno del consiglio di Tiberio, non potendo più, siccome [100] uomo giusto, tollerar le iniquità di quel mostro, se ne liberò con lasciarsi morir di fame: nè per quante preghiere gli facesse Tiberio, per saper la cagione di tal risoluzione, e per tenerlo in vita, volle mutare il fatto proponimento.
Anno di | Cristo XXXIV. Indizione VII. |
Pietro Apostolo papa 6. | |
Tiberio imperadore 21. |
Consoli
Paolo Fabio Persico e Lucio Vitellio.
A questi consoli ordinari si crede che ne succedessero nelle calende di luglio due altri [Dio, lib. 58.], de' quali si è perduto il nome. E ciò perchè avendo questi ultimi consoli celebrato l'anno ventesimo compiuto dell'imperio di Tiberio, fecero anche dei voti agli dii pel decennio venturo, come fu in uso a' tempi d'Augusto. Quella gelosa bestia di Tiberio, che avea preso l'imperio non per dieci, nè per venti anni, ma finchè a lui piacesse, parendogli che volessero far conoscere, che la di lui potestà dipendea dall'arbitrio del senato, fece accusarli tutti e due e condannarli, e pare che fosse anche abbreviata immediatamente loro la vita. Questo Persico probabilmente è quello stesso che fu mentovato da Seneca [Seneca, de benefic., lib. 2, cap. 21.], per uomo di cattiva riputazione. Ma nulla di un fatto tale, che avrebbe fatto più strepito di tant'altri, si ha presso Tacito, il qual pure accenna le morti di molti altri di dignità inferiore. Dione stesso attribuisce quei voti e quell'innocente fallo ai consoli ordinari; e pure noi sappiam da Svetonio [Sueton., in Vitellio, c. 2.], che Lucio Vitellio, console nel presente anno e padre di Aulo Vitellio che fu poi imperadore, dopo il consolato ebbe il governo della Soria, e campò molto dappoi. Parimente di Fabio Persico, sopravvissuto, s'ha memoria presso [101] Seneca [Seneca, lib. 2 et 4 de Benefic.]. Però la credenza dei consoli sostituiti, e fors'anche il fatto narrato da Dione può patire dei dubbi. Non mancarono all'anno presente le sue funeste scene, cioè molte condanne e morti d'uomini illustri, avvenute per la crudeltà di Tiberio e per la prepotenza di Macrone prefetto del pretorio; il quale imitando le arti di Sejano ma più copertamente, si abusava anch'egli della sua autorità e del favore del principe [Dio, lib. 58. Tacit., lib. 4, cap. 19.]. Pomponio Labeone, dopo essere stato pretore di Mesia per otto anni, accusato d'essersi lasciato corrompere con danari, tagliatosi le vene, si sbrigò da questa vita: ed altrettanto fece sua moglie. Era anche stato in governo Marco, ossia Mamerco Emilio Scauro, nè già era incolpato di cattiva amministrazione, quantunque vergognosi fossero i suoi costumi. Macrone, che l'odiava, trovò la maniera di precipitarlo, con presentare a Tiberio una di lui tragedia intitolata Atreo, in cui oltre al parlarsi di parricidio, uno era esortato a tollerar la pazzia del regnante; è con fargli credere che sotto nome altrui si sparlasse di lui. Di più non ci volle per far processare Scauro, il quale, senz'aspettar la condanna, si privò da sè stesso di vita, nè da meno di lui volle essere la moglie sua. Costumavasi allora dagli etnici romani di darsi iniquamente la morte da sè medesimi, perchè i corpi de' condannati non era lecito il seppellirli, e i lor beni andavano al fisco; laddove prevenendo la sentenza, loro non si negava la sepoltura: e sussistendo i testamenti, agli eredi pervenivano i loro beni. Fra coloro eziandio che furono accusati si contò Lentulo Getulico, stato già console nell'anno di Cristo 26. Altro a lui non veniva imputato, se non che avesse trattato di dare una sua figliuola in moglie a Sejano. Ma fu buon per questo personaggio ch'egli allora si trovasse in Germania al comando di [102] quelle legioni che l'amavano forte per le sue dolci maniere. Dicono ch'egli scrivesse animosamente una lettera a Tiberio, con ricordargli che non per elezione propria, ma per consiglio di lui stesso, avea cercato di far parentela con Sejano. Essersi ben egli ingannato nel procacciarsi l'amicizia di quell'uomo indegno; ma che niuno più d'esso Tiberio avea amato Sejano: nè essere perciò conforme alla ragione che il comun fallo fosse innocente per lui, e peccaminoso per gli altri. Pertanto riflettendo al pericolo di nuocere a chi aveva l'armi in mano, e poter rivoltarsi, giudicò meglio il desistere dall'impresa; e per lo contrario fece condannar e cacciare in esilio Abudio Rufo, cioè l'accusatore di Lentulo Getulico. Videsi in questo anno in Grecia un giovane [Dio, lib. 58.], che spacciatosi per Druso figliuolo di Germanico, trovò di molti aderenti in quelle contrade; e se gli riusciva di passare in Soria, a lui si sarebbe verisimilmente unito quell'esercito. Ma preso da Pompeo Sabino governator della Macedonia, fu inviato a Tiberio. Tacito scrive [Tacit., lib. 5, c. 10.] ciò avvenuto tre anni prima, quando era tuttavia vivente lo stesso Druso in prigione: il che, se fosse vero, potrebbe questo avvenimento aver dato impulso alla morte del medesimo Druso. Da esso Tacito fu ancora scritto che nel presente anno si lasciò veder di nuovo dopo alcuni secoli l'augello Fenice nell'Egitto, con rapportarne la mirabil genealogia. A simili favole oggidì non si presta fede. Plinio e Dione mettono due anni dappoi lo scoprimento di questo non mai più risorto uccello.
Anno di | Cristo XXXV. Indizione VIII. |
Pietro Apostolo papa 7. | |
Tiberio imperadore 22. |
Consoli
Cajo Cestio Gallo e Marco Servilio Moniano.
Si celebrarono in quest'anno [Dio, lib. 58.] le nozze di Cajo Caligola, nipote per adozione di Tiberio, con Claudilla, figliuola di Marco Silano, in Anzo. V'intervenne lo stesso Tiberio, non avendo voluto neppure per occasion sì propria lasciarsi vedere in Roma, perchè non gli piacea di trovarsi presente alle sanguinarie esecuzioni, che ivi tuttavia si continuavano d'ordine di lui, non mai sazio di perseguitare chiunque fu stretto d'amicizia con Sejano. Fin qui aveva egli sofferto Fulcinio Trione, che fu console nell'anno della caduta del medesimo Sejano, anzi la buona gente il riputava molto favorito da lui. Ora solamente era per iscoppiare il fulmine sopra di lui; ma ciò presentito da Trione, si uccise colle proprie mani dopo aver fatto un testamento, in cui vomitò quante ingiurie potè contra di Tiberio e di Macrone, e dei liberti della corte. Non si attentavano gli eredi suoi di pubblicare un sì obbrobrioso scritto. Avutane contezza Tiberio, volle che si portasse e leggesse nel senato per guadagnarsi il plauso di principe sofferente dell'altrui libertà, giacchè punto non si curava della propria infamia, nè che si scoprissero le iniquità da lui commesse per mezzo di Sejano, ben sapendo che non erano cose ignote al pubblico. Uso certamente suo fu il non mai volere che si occultassero i libelli infamatorii fatti contra di lui, parendo quasi che riputasse sue lodi le sue vergogne. Altri senatori ed altri nobili, annoverati da Tacito [Tacitus, lib. 6, c. 38.] e da Dione, o per mano propria o per quella del carnefice terminarono in [104] quest'anno la lor vita; ed uno fra gli altri merita d'essere rammentato, cioè Poppeo Sabino, poco fa da noi veduto, che dopo il consolato, per ventiquattro anni avea governato la Macedonia, l'Acaia e le due Mesie, e col darsi la morte schivò il giudizio. Soggiornava in questi tempi Tiberio in vicinanza di Roma, per poter più speditamente aver il piacere d'intendere l'esecuzione de' suoi tirannici comandamenti [Tacitus, l. 6, c. 31. Dio, lib. 58.]. Fu allora, che vennero a Roma alcuni nobili Parti, segretamente, cioè senza saputa del re loro Artabano, per chiedere a Tiberio Fraate, figliuolo del fu Fraate re. Era montato Artabano in gran superbia, dacchè la vecchiaia di Tiberio, e il suo abborrimento alla guerra, aveano scemata in molti la stima e paura dell'armi romane. Essendo mancato di vita Zenone o sia Artassia, già creato dai Romani re dell'Armenia, Artabano avea occupato quel regno, e messovi Arsace, uno dei suoi figliuoli, per re, con assalir dipoi la Cappadocia, e minacciar anche di peggio i Romani. Inimicossi oltre a ciò i suoi colla soverchia alterigia, e lor diede ansa che ricorressero a Tiberio. Fu dunque mandato Fraate in Soria per isperanza che i Parti si moverebbero in favore di lui; ma perchè v'andò con poca fretta, ebbe tempo Artabano di premunirsi, e Fraate ammalatosi morì. Non lasciò Tiberio per questo di accudire agli affari dell'Armenia, e costituito Lucio Vitellio, cioè il padre di Vitellio, che fu col tempo imperadore, per generale dell'armata romana in Levante, mosse anche i re d'Iberia e i Sarmati contra di Artabano. Lasciatisi corrompere i ministri di Arsace, già divenuto re dell'Armenia, tolsero a lui la vita; ed entrate in quel paese le truppe dell'Iberia sotto il comando del re Farasmane, presero Artasata capitale del regno. Allora Artabano spedì Orode altro suo figliuolo contra di Farasmane con parte delle sue forze [Joseph., Antiq. Judaicarum, lib. 18, c. 6.]. I Parti, [105] benchè inferiori di gente, vollero battaglia; ma o sia che Orode vi fosse ucciso, o che la nuova ch'egli fosse ferito passasse in credenza di morte, la vittoria si dichiarò per Farasmane, al cui fratello Mitridate re dell'Iberia fu conceduta l'Armenia. Diedesi dipoi una seconda battaglia da Artabano, ma svantaggiosa anch'essa per lui; e perchè nello stesso tempo seppe che Lucio Vitellio coll'armi romane si accingeva a passar l'Eufrate per entrar nella Mesopotamia, abbandonato ogni pensier dell'Armenia, si ritirò alla difesa del proprio paese. Era allora l'Eufrate il confine tra l'imperio romano e il partico o sia persiano.
Anno di | Cristo XXXVI. Indizione IX. |
Pietro Apostolo papa 8. | |
Tiberio imperadore 23. |
Consoli
Sesto Papinio Allenio e Quinto Plautio.
Non è ben chiaro, se Lucio Vitellio, fabbricato un ponte sull'Eufrate, coll'esercito romano passasse in questo o nel precedente anno in Mesopotamia. Certo è bensì che passò, e all'arrivo suo i primati de' Parti si scoprirono allora alienati dall'ossequio verso del re Artabano [Tacitus, lib. 6, c. 42.], e congiunsero le loro armi coi Romani. Trovavasi con Vitellio anche Tiridate, parente del defunto re Fraate. Veduta così bella disposizion dei Parti in suo favore, per consiglio di Vitellio, prese il cammino alla volta di Seleucia, città potente, che gli aprì con gran festa le porte, ed Artabano, veggendosi abbandonato de' suoi, se ne fuggì. Intanto Vitellio, contento di aver fatta la sua sparata con far conoscere a que' popoli la possanza romana, e credendo già assicurato il regno a Tiridate, se ne tornò colle sue legioni in Soria. Fu coronato Tiridate in Ctesifonte, capitale del regno dei Parti. S'egli avesse proseguito il corso di sua fortuna con visitar tutto il paese, e ridurre chiunque titubava alla [106] sua fede, interamente il regno sarebbe stato di lui. Ma essendosi egli impegnato nell'assedio di un castello, dove Artabano avea ridotto il tesoro e le concubine sue, alcuni di que' grandi, che non erano intervenuti alla coronazione o per paura di Tiridate, o per invidia che portavano ad Abdagese, ministro favorito di lui, andarono a trovar Artabano per rimetterlo sul trono. S'era questi ritirato nell'Ircania, dove da povero uomo vivea, guadagnandosi il vitto con la caccia. Credette egli a tutta prima che fossero venuti costoro per assassinarlo. Rassicurato da essi, e presa seco una mano di Sciti, si mise con loro in cammino, e trovata la gente che senza difficoltà tornava alla sua divozione, ingrossato di forze, s'indirizzò verso Seleucia. Stette in forse Tiridate, se dovea andargli incontro per dargli battaglia. Prevalse l'opinion dei dappoco, il primo de' quali era il medesimo Tiridate; e però egli si ridusse in Soria, con isperanza che l'esercito romano avesse da prestargli aiuto per ricuperare il perduto regno, di cui con tutta facilità Artabano ripigliò il possesso. Vitellio non volle altro impegno, ed all'incontro Artabano diventò più che mai orgoglioso, e poco mancò che non portasse la guerra nel territorio romano. Non è inverisimile, che questo fosse il tempo in cui egli scrisse una lettera di fuoco a Tiberio [Sueton., in Tiber. cap. 66.], rinfacciandogli la sua crudeltà, la vergognosa libidine e la poltroneria, ed esortandolo ad appagar prontamente l'odio universale e giustissimo de' popoli con darsi la morte da sè medesimo.
Due disavventure afflissero Roma nell'anno presente, cioè una fiera inondazione del Tevere, per cagione di cui in molte parti della città fu necessario l'andar colle barche, e un incendio che guastò gran copia di case nel monte Aventino e la metà del Circo [Tacitus, lib. 6, cap. 45. Dio, lib. 58.]. Tiberio in questa occasione, dimenticata [107] l'innata sua avarizia, sovvenne con abbondanza d'oro al bisogno di chiunque avea patito. Che per altro amava Tiberio di conservare e d'accrescere il suo tesoro, nè si sa che egli lasciasse alcuna fabbrica insigne, fuorchè il tempio innalzato ad Augusto, e la scena del teatro Pompeo. E neppur queste, se crediamo a Svetonio, le perfezionò. Non passò l'anno presente, senza che si vedessero le usate scene delle accuse e della crudeltà di Tiberio contra de' nobili. Cajo Galba, già console e fratello di chi fu dipoi imperadore, due Blesi ed Emilia Lepida prevennero, con darsi la morte, i colpi del carnefice. Vibuleno Agrippa, cavalier romano, accusato, prese in faccia del senato il veleno che portava in un anello. Caduto a terra moribondo, e strascinato alle carceri, fu quivi frettolosamente strozzato per occupargli i beni. Tigrane, già re dell'Armenia [Tacitus, lib. 6, c. 40. Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 18.], e nipote del fu Erode re della Giudea, detenuto allora in Roma, ed accusato, lini anch'egli i suoi giorni per mano del pubblico ministro. Trattenevasi in Roma allora anche suo fratello Agrippa, ed avea contratta una famigliarità sì grande con Cajo Caligola, nipote per adozion di Tiberio, che pareano due fratelli. Racconta Giuseppe storico, che essendo un dì amendue a divertirsi condotti in un cocchio, Agrippa per adular Cajo gli disse, essere ben tempo che quel vecchio di Tiberio cedesse il luogo a lui, perchè allora tornerebbe la felicità in Roma. Furono ascoltate queste parole da Eutico liberto d'Agrippa, che gli serviva di carrozziere; e perciocchè costui, per aver fatto un furto al padrone, fu imprigionato, allora si lasciò intendere d'aver qualche cosa da rivelare attinente alla conservazion della vita dell'imperatore. Fu perciò inviato a Capri, dove era Tiberio, e tenuto un pezzo nelle catene senza esaminarlo. Lo stesso Agrippa stoltamente tanto si adoperò, che Tiberio [108] trovandosi nel settembre di questo anno a Tuscolo, oggidì Frascati, vicino a Roma, fece venir Eutico, il quale alla presenza d'Agrippa rivelò quanto avea udito nel giorno suddetto. Ordinò immantinente Tiberio a Macrone capitan delle guardie di far incatenare Agrippa, a cui non valsero nè le negative, nè le suppliche per esentarsi da quell'obbrobrio. Stette egli nelle carceri tanto che Tiberio finì di vivere, ed allora ne uscì, siccome vedremo fra poco [Dio, lib. 58.]. Un augurio della morte d'esso Tiberio fu dai superstiziosi Romani creduta quella di Trasullo, succeduta nell'anno presente [Tacit., lib. 6, cap. 21.]. Costui era il più favorito astrologo ed indovino che si avesse Tiberio; imperciocchè oltre modo si dilettò questo imperadore della strologia giudicaria, arte piena di vanità e d'imposture, che egli stesso condannava in casa altrui. E quantunque scrivano Tacito, Svetonio e Dione, che Tiberio, per mezzo di essa, predicesse a Galba il suo corto imperio, e la morte del giovinetto Tiberio suo nipote per ordine di Caligola, e ch'egli sapesse ciò che doveva avvenire a sè stesso in cadauna giornata: simili racconti più sicuro è il crederli dicerie del volgo. Allorchè Tiberio stette come esiliato in Rodi, studiò forte quest'arte, che in que' tempi era spacciata dai Caldei dappertutto. Quanti professori capitavano a Rodi, Tiberio, accompagnato da un solo robusto liberto, li conduceva in un alto scoglio, e metteali alla prova d'indovinargli il passato o l'avvenire. Se non ci coglievano, dal liberto erano precipitati in mare, senza che alcuno ne avesse contezza. Trasullo capitato colà, fu menato da Tiberio in que' dirupi, e gli predisse l'imperio; ma soggiungendo Tiberio che gli sapesse dire anche l'anno e il giorno della propria natività, s'imbrogliò l'indovino, e confessò tremando di non saperlo, ma che ben sapea d'essere imminente la propria morte. Tra [109] per la buona nuova dell'imperio, e la conoscenza del pericolo in cui si trovava costui, Tiberio l'abbracciò, e il tenne dipoi sempre in sua corte. Perchè la morte di costui facesse credere vicina quella di Tiberio, qualche predizione di cui si dovea essere intesa.
Anno di | Cristo XXXVII. Indizione X. |
Pietro Apostolo papa 9. | |
Cajo Caligola imperad. 1. |
Consoli
Gneo Acerronio Procolo e Cajo Petronio Pontio Negrino.
Ho aggiunto il nome di Petronio al secondo di questi consoli, perchè una iscrizione, riferita dal Fabretti [Fabret., Inscript., p. 674.], fu posta CN. ACERRONIO PROCVLO, C. PETRONIO PONTIO NIGRINO COS. In vece di Negrino egli è appellato Negro da Svetonio [Suet., in Tiber., c. 73.], siccome ancora una inscrizione da me data alla luce [Thesaurus Novus Inscription., p. 303, n. 2.]. Sino alle calende di luglio durò la dignità di questi consoli. Appresso diremo a chi pervennero i fasci consolari. Anche nei primi mesi dell'anno presente si continuarono in Roma le accuse contra d'altre persone nobili; e perchè non erano accompagnate da lettere di Tiberio, credute furono manipolazioni di Macrone prefetto del pretorio, imitator di Sejano, e forse peggiore. Fra gli altri Lucio Arruntio, personaggio illustre, già stato console, non si potè impedir dagli amici, che, tagliatesi le vene, non si desse la morte, allegando che un vecchio par suo non sapea più vivere, battuto in addietro da Sejano ed ora da Macrone; e massimamente non essendo da sperare miglior tempo sotto il successor di Tiberio, che anzi prometteva peggio, e sarebbe governato dal medesimo Macrone; siccome in fatti avvenne. Intanto, dopo essersi fermato Tiberio alcuni mesi nei [110] contorni di Roma senza mai volervi entrare, o perchè non si fidava de' Romani, o perchè qualche impostore gli avea predette delle disgrazie entrandovi, o pure perchè non voleva tanti occhi addosso alla sua scandalosa vita, determinò di tornarsene alla sua cara isola di Capri. Finora, benchè giunto all'età di settantotto anni, e benchè perduto in una nefanda lascivia, avea conservata la rubustezza del corpo, ed una competente sanità, camminava diritto come un palo, senza volersi servire di medicine, e con fare il medico a sè stesso: giacchè solea dire che l'uomo giunto all'età di trent'anni, non dee più aver bisogno di medici per saper ciò che conferisca o sia nocivo alla sanità. Ma egli si ritrovò infine sorpreso da una lenta malattia, arrivato che fu ad Astura [Sueton., in Tiber., c. 72.]. Potè nondimeno continuare il viaggio sino a Miseno [Dio, lib. 58. Tacitus, lib. 6, c. 50.], celebre porto, dissimulando sempre il suo male, e non men di prima banchettando con gli amici. Deluso dal suo poco prima defunto strologo Trasullo, che gli avea predetto anche dieci altri anni di vita, tenea per lontanissima tuttavia la morte. Fu creduto che Trasullo con buon fine il burlasse con quella predizione, acciocchè persuaso di vivere sì lungo tempo, non si affrettasse a far morire tanti nobili ch'egli avea in lista. E certo non pochi si salvarono per questo saggio ripiego, e fra essi alcuni già condannati, perchè ne' dieci giorni di vita che si lasciavano loro dopo la sentenza, arrivò la nuova della morte di Tiberio.
Fingeva dunque, secondo lo stile della sua dissimulazione, Tiberio di sentirsi bene, tuttochè aggravato dal male, e ridotto a fermarsi nella villa e nel palazzo che fu di Lucullo. Ma Caricle medico insigne, e da lui amato, non già perchè volesse de' medicamenti da lui, ma per li suoi consigli, destramente nel congedarsi da lui gli toccò il polso e conobbe che s'avvicinava al suo fine. Ne [111] avvisò Macrone, e questi sollecitamente cominciò a disporre le cose per far succedere Cajo Caligola nell'imperio. Tre persone viveano discendenti in qualche guisa da Augusto, e però capaci di succedere a Tiberio, cioè esso Caligola figliuolo di Germanico, nato [Sueton., in Caligula, cap. 8.] nell'anno 12 dell'Era volgare, e però nel fiore di sua età. Questi, avendo Tiberio adottato Germanico di lui padre, veniva perciò ad essere di lui nipote legittimo. Ma egli era di pessima inclinazione, violento, e tendente anche alla follia; e se n'era facilmente accorto Tiberio, di modo che un dì ridendosi Cajo di Silla, celebre nella storia romana, Tiberio gli disse: «A quel ch'io veggo, tu sei per avere tutti i vizii di Silla, ma niuna delle sue virtù.» L'altro era Tiberio Gemello, figliuolo di Druso, cioè del figlio naturale dello stesso Tiberio, così appellato perchè nato con un altro fratello da Livilla nel medesimo parto. Ma non avea che diciassette anni, e però non per anche capace di governare un sì vasto imperio. Il terzo era Tiberio Claudio, fratello del suddetto Germanico, in età bensì virile, ma di poca testa, e di niun concetto fra i Romani. Discordano gli autori in dire chi fosse eletto da Tiberio per suo successore. Giuseppe storico racconta un fatto, che ha ciera di favola [Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 18.]. Cioè che Tiberio, incerto qual dei due de' suddetti suoi nipoti avesse egli da eleggere, ne rimise la decisione al caso, con destinare di preferir quello che la mattina seguente fosse il primo ad entrar in sua camera; e questi fu Caligola, a cui poscia raccomandò il giovinetto Tiberio, quantunque scrivano che per astrologia antivedesse che Cajo Caligola gli dovea levare la vita. Altri [Dio, lib. 58.] hanno detto che Tiberio non antepose il suo natural nipote, perchè la scoperta amicizia di Livilla di lui madre gli fece dubitare se fosse veramente figliuolo di Druso suo [112] figlio. Tuttavia pare che si accordino Filone Ebreo [Philo, de Legation. Sueton., in Tiber., c. 76.], Svetonio e Dione in dire, che Tiberio in due suoi testamenti lasciò egualmente eredi Caligola e il giovane Tiberio.
Ora Cajo Caligola, per assicurarsi di prendere la fortuna pel ciuffo, facea la corte a Macrone, potentissimo ufficiale, perchè capitano delle guardie, cioè di diecimila soldati che erano il terrore di Roma. Nè men sollecito era a farla ad Ennia Nevia di lui moglie; anzi fu creduto che passasse tra loro un'infame corrispondenza, e di ciò non si mettesse pena Macrone, giacchè anch'egli dal suo canto avea dei motivi di guadagnarsi l'affetto di Cajo, perchè parea più facile che in lui cadesse l'imperio. Però parlava sempre bene di lui a Tiberio, scusandone i difetti, in guisa che un dì Tiberio gli rimproverò questo grande attaccamento a Cajo con dirgli «d'essersi ben avveduto ch'egli abbandonava il sole d'Occidente, per seguitare il sole d'Oriente.» Era cresciuto il male di Tiberio [Dio, lib. 58. Tacitus, lib. 6, c. 50. Sueton. in Tiber., c. 73.], ed avea già patito alcuni sfinimenti. Gliene arrivò uno specialmente nel dì 16 di marzo così gagliardo, che fu creduto morto. Caligola uscì del palazzo; a folla corsero i cortigiani a rallegrarsi con lui: quand'ecco esce uno di corte, che riferisce essere tornato in sè Tiberio, e chiedere da mangiare. Allora spaventati, chi qua, chi là, colla testa bassa sfumarono. Cajo senza poter parlare, più morto che vivo ricorre a Macrone. Ma questi, nulla atterrito, sa ben trovar tosto la maniera di calmare l'altrui spavento. Non van d'accordo gli scrittori nel dirci, come Tiberio si sbrigasse dal mondo. Seneca, citato da Svetonio, scrisse che o sia che Tiberio si sentisse venir meno, o che la sua famiglia l'avesse abbandonato, come è succeduto in tanti altri casi di principi morti senza parenti, chiamò; e niuno rispondendo, si alzasse dal letto, [113] e poco lungi di là caduto, spirasse. Raccontano altri, che Cajo Caligola gli avesse dato un lento veleno che l'uccise. Altri, che sotto pretesto di riscaldarlo, Macrone gli facesse metter addosso di molti panni che il soffocarono; ovvero che gli negasse da mangiare, e il lasciasse morire per mancanza d'alimento. Finalmente scrissero altri, che veggendo Caligola [Sueton., in Cajo, cap. 12.] come Tiberio non la volea finir da sè stesso, lo strangolasse con le sue mani, o pure con uno origliere o sia guanciale gli turasse la bocca, e il facesse ammutolire per sempre. Comunque fosse, morì Tiberio nel suddetto giorno 16 di marzo. Dione scrive nel dì 26. O dell'uno o dell'altro il testo è mancante. Così cessò di vivere questo imperadore, dotato di grande ingegno, ma per servirsene solamente in male; che finchè ebbe paura d'Augusto e di Germanico, nipote e figliuolo suo adottivo, stette in dovere; che simulatore e dissimulator sopraffino si mostrò delle false virtù, ma poi si abbandonò in fine a tutti i vizii; che divenne abbominevole per l'infame sua libidine, ma più per le sue crudeltà ed ingiustizie; che niuno amava fuorchè sè stesso, che fu udito chiamar felice Priamo, per essere morto dopo aver veduti morti tutti i suoi.
Non tardò Cajo Caligola ad avvisare il senato dell'essere Tiberio mancato di vita, con dimandare ancora che decretassero al medesimo gli onori divini. Ma Tiberio era troppo odiato; e siccome il popolo romano a questa nuova diede in risalti d'allegrezza, così commosso andava lacerando la di lui memoria con tutte le maledizioni, e gridando al Tevere, al Tevere, cioè il di lui corpo. Di questa commozione si servì il senato per sospendere la risoluzion degli onori a Tiberio; e Cajo venuto poi a Roma, più non ne parlò. Portato a Roma il cadavere di Tiberio, fu bruciato secondo il costume d'allora; e con poca pompa seppellito. Cajo fece l'orazione funebre; [114] ma con poco encomio di lui, impiegando le parole piuttosto in esaltare Augusto e Germanico suo padre. Già si è detto, quanto fosse amato dai Romani esso Germanico per le sue rare virtù, e Cajo appunto per essere di lui figliuolo, comunemente era amato, giacchè non si erano per anche dati a conoscere se non a pochi tutti i suoi vizii e difetti, che si trovarono poi innumerabili. All'incontro, per l'odio d'ognuno contra di Tiberio, era anche odiato Tiberio Gemello, natural nipote di lui. E però a Cajo non fu difficile l'essere riconosciuto e confermato per imperadore, e il fare che dal senato fosse cassato il testamento di Tiberio, per cui egualmente lasciava ad esso Cajo e Tiberio Gemello l'amministrazion dell'imperio. Così restò egli solo imperadore [Sueton., in Caj., cap. 14. Dio, lib. 59.] colla podestà tribunizia e coll'autorità ed arbitrio di far tutto, siccome attesta Svetonio, benchè non usasse subito i titoli usati dai due precedenti Augusti. Piena d'ammirazione e di giubilo rimase Roma tutta al vedere con che mirabili e plausibili maniere Caligola desse principio al suo governo; senza riflettere che diversa dal mattino suol essere la sera di molti regnanti. Caligola, dissi, che così era volgarmente chiamato con soprannome a lui dato, allorchè fanciullo trovandosi all'armata in Germania, Germanico suo padre il facea vestir da semplice soldato, e portare gli stivaletti, chiamati Caligae, e usati allora nella milizia. Divenuto poi imperadore riputò egli come ingiurioso e degno di gastigo un tal soprannome; e perciò dagli storici vien mentovato per lo più col nome di Cajo. Affettò dunque Cajo sulle prime di comparir popolare, siccome abbiamo da Svetonio e da Dione; poichè, per conto di Tacito, periti seno i libri suoi, che trattavano della vita di questo iniquissimo principe, e dei primi anni del suo successore. Eseguì egli pontualmente tutti i legati lasciati da Tiberio, e quegli ancora, che Livia Augusta nel suo testamento [115] avea ordinato; ma che l'ingrato suo figliuolo Tiberio non avea mai voluto pagare. Diede subito la mostra alle compagnie de' soldati del pretorio, con isborsar a tutti il danaro lasciato lor da Tiberio, ed aggiugnerne altrettanto per ispontanea munificenza. Pagò parimente al popolo romano l'insigne donativo di danaro ordinato da Tiberio colla giunta di sessanta denari per testa, ch'egli non avea potuto pagare, allorchè prese la toga virile, e inoltre quindici altri a titolo di usura pel ritardo. Finalmente a tutti gli altri soldati di Roma, e alle guardie notturne, cioè ai vigili, e alle legioni fuori d'Italia, e ad altri soldati mantenuti nelle città minori, sborsò cinquecento sesterzii ai primi, e trecento agli altri per testa.
Mellifluo fu in un certo giorno il suo ragionamento ai senatori con dir loro, dopo aver toccati tutti i vizii del defunto Tiberio, di volerli a parte nel comando e governo, e che farebbe tutto quanto paresse loro il meglio, chiamandosi lor figliuolo ed allievo. Richiamò gli esiliati, liberò tutti i prigioni, e fra gli altri Quinto Pomponio, tenuto in quelle miserie per sette anni, dopo il suo consolato. Annullò ogni processo criminale, con bruciar anche i libelli lasciati da Tiberio. Queste prime azioni gli guadagnarono un gran plauso, massimamente perchè fu creduto ch'egli fosse per mantener la parola, che in quell'età il suo cuore andasse d'accordo con la lingua. Volle tosto il senato far dimetter il consolato a Procolo e Negrino per conferirlo a lui; ma egli ordinò che continuassero in quella dignità, secondochè era dianzi stabilito, sino alle calende di luglio, nel qual tempo poscia fu egli dichiarato console, ed amò di aver per collega Tiberio Claudio suo zio, che fin qui era stato tenuto in basso stato e nell'ordine de' soli cavalieri, a cagion della debolezza del suo capo. Nelle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imperator.] Cajo si trova intitolato CAJVS CAESAR AVGVSTVS [116] GERMANICVS: ed in altre vi si aggiunge DIVI AVGVSTI PRONEPOS. Fece ancora risplendere l'amor suo verso de' suoi, con dare il titolo d'Augusta e di sacerdotessa d'Augusto ad Antonia avola sua e madre di Germanico, e col concedere alle sue sorelle i privilegi delle Vestali, e posto presso di sè negli spettacoli. A Tiberio Gemello, nipote di Tiberio, diede il titolo di Principe della Gioventù, e di più l'adottò per suo figliuolo. Andò in persona alle isole Pandataria e Ponza a cercar le ceneri d'Agrippina sua madre, e di Nerone suo fratello; e con funebre magnificenza portatele a Roma, le collocò nel mausoleo d'Augusto, con determinare in onore e memoria d'essi esequie e spettacoli annuali. Stava tuttavia fra le catene [Joseph., Antiq. Jud., lib. 18. Dio, lib 59.] Agrippa, nipote di Erode il grande re della Giudea, quando restò liberata Roma dal ferreo giogo di Tiberio. Cajo, essendosene tosto ricordato, siccome amico suo caro, mandò ordine al prefetto di Roma di trasferirlo dalla carcere alla casa dove abitava prima; e da lì a pochi giorni fattoselo condurre davanti con abito mutato, gli mise in capo un diadema, dichiarandolo re, e sottomettendo a lui la Tetrarchia, già posseduta da Filippo suo zio, morto poco fa, con aggiugnervi l'altra di Lisania, restando la Giudea come prima sotto l'immediato governo dei Romani. Restituì ancora ad Antioco il regno della Comagene colla giunta della Cilicia marittima. Di gloria medesimamente fu a Cajo l'aver cacciato fuori di Roma que' giovinetti che faceano l'infame mercato de' lor corpi; e poco vi mancò che non li mandasse a seppellir nel Tevere. Ordinò che si cercassero e pubblicamente si potessero leggere le storie soppresse di Tito Labieno, Cordo Cremuzio e Cassio Severo. Ai magistrati lasciò libera la giurisdizione, senza che si potesse appellare a lui. Dalle provincie d'Italia levò il dazio del centesimo denaro che si pagava per tutte le cose vendute all'incanto. Sotto [117] Tiberio, principe d'umor tetro, le pubbliche allegrie, i giuochi, gli spettacoli erano divenuti cose rare. Cajo non tardò a rimetter tutto in uso, e con grande accrescimento: cose tutte stupendamente applaudite dal popolo [Sueton., in Cajo, cap. 17. Dio, lib. 59.]. Dopo aver tenuto il consolato per due mesi, lo rinunziò ai due consoli destinati da Tiberio. Il nome loro non è noto. Stimò il Pighio, che fossero Tiberio Vinicio Quadrato e Quinto Curzio Rufo. Se di queste maravigliose azioni di Cajo Caligola si rallegrasse Roma, veggendo un aspetto sì bello con tanta differenza dal precedente sanguinario governo, non è da chiederlo. Talmente si rallegrò quel popolo a sì gran mutazione di scena, che, per testimonianza di Svetonio, nei tre mesi seguenti dopo la morte di Tiberio, cento sessantamila vittime furono svenate in rendimento di grazie ai loro falsi dii. Ma durò ben poco questo ciel sì ridente, siccome nell'anno seguente apparirà. Artabano re de' Parti, che in addietro odiò forte Tiberio, udita la di lui morte, se ne rallegrò e diede tosto adito ad un trattato di pace. Scrive Dione ch'egli stesso ricercò l'amicizia di Cajo. Ma Svetonio e Giuseppe Ebreo raccontano, che fu Vitellio governator della Soria il promotore di quell'accordo per ordine di Cajo. Seguì in fatti fra esso re e Vitellio un magnifico abboccamento in un ponte fabbricato sull'Eufrate, e quivi fu conchiusa la pace con condizioni onorevoli per gli Romani.
Anno di | Cristo XXXVIII. Indizione XI. |
Pietro Apostolo papa 40. | |
Cajo Caligola imperadore 2. |
Consoli
Marco Aquilio Giuliano e Publio Nonio Asprenate.
Era già cominciato nel precedente anno un impensato cambiamento di vita e di massime nel da noi osservato finora [118] sì amorevole e grazioso Cajo Caligola. Rapporterò io qui ciò che accadde allora e nel presente anno ancora [Dio, lib. 59.]. I conviti, le crapole ed altre dissolutezze di una vita sensuale, a cui si abbandonò di buon'ora questo nuovo imperadore, cagion furono ch'egli cadde nel mese d'ottobre sì gravemente malato, che si dubitò di sua vita [Philo, in Legatione ad Cajum.]. Appena si riebbe, che di volubile, qual era dianzi, cominciò a comparir stranamente agitalo da vari e fieri capricci, quasi che la mente sua per la sofferta malattia avesse patito qualche detrimento, con peggiorar da lì innanzi di maniera, che Roma, sì maltrattata sotto Tiberio cattivo, senza paragone sotto questo pessimo maestro divenne teatro di calamità. Aveano fatto i Romani delle pazzie pel tanto desiderio ch'egli superasse quel malore, perchè dopo aver Cajo dato sì glorioso principio al suo governo, si figurava ciascuno riposta tutta la pubblica felicità nella conservazione della di lui vita. Due persone fra l'altre, cioè Publio Afranio Potito, uomo popolare, ed Atanio Secondo, cavaliere, fecero voto, l'uno di dar la propria vita, se egli ricuperava la salute, l'altro di combattere fra i gladiatori, con esporsi al pericolo della morte, purchè Caligola guarisse. Guarito ch'egli fu, d'inesplicabile giubilo si riempiè tutta la città. Ma non tardò molto a cangiarsi scena. La prima sua strepitosa iniquità quella fu di levar di vita Tiberio Gemello, nipote legittimo e naturale di Tiberio Augusto, e da lui adottato per figliuolo, con obbligarlo ad uccidersi da sè stesso; perciocchè Cajo sì scrupoloso era, che non potea permettere a chicchessia di torre la vita al nipote di un imperadore. Per iscusa di questa crudeltà addusse l'essere egli stato accertato, che il giovinetto Tiberio si era rallegrato della sua infermità, ed avea desiderata la sua morte. Passò oltre il suo bestial capriccio con esigere, che chi avea fatto voto della vita, per salvare la sua, [119] eseguisse la promessa, affinchè non rimanessero con lo spergiuro in corpo.
Fece in quest'anno Cajo alcune azioni che piacquero al popolo [Dio, lib. 59.], perchè restituì alla plebe il suo diritto ne' comizii per l'elezione de' magistrati che Tiberio avea ristretto nei senatori: il che ebbe poco effetto. Ordinò che pubblicamente si rendessero i conti delle rendite e spese della repubblica: regolamento dismesso sotto Tiberio. Essendo sminuito forte l'ordine de' cavalieri, lo ristorò con ascrivere ad esso molti scelti dalla nobilità delle città dell'imperio, purchè ben imparentati, e sufficientemente ricchi, concedendo loro anche de' privilegi. Con decreto del senato diede a Soemo il regno, o sia principato dell'Arabia Iturea; a Cotys l'Armenia minore, e poscia alcune parti dell'Arabia. Concedette ancora una parte della Tracia a Rimetalce, e il Ponto a Polemone, figliuolo del re Polemone; esercitando in tal guisa la giurisdizione romana sopra que' lontani paesi, ed affezionando quei re al romano imperio. Non furono già di questo tenore altre sue azioni nell'anno presente. Già dicemmo ch'egli per opera di Macrone prefetto del pretorio avea ottenuto l'imperio. Perchè quest'uomo, per altro cattivo, osava di parlargli con qualche franchezza [Philo, in Legatione ad Cajum.], forse per ritenerlo dall'esecuzione de' suoi malnati appetiti; Cajo, che non voleva più aver sopra di sè dei maestri, dallo sprezzo passò alla risoluzione di levarlo dal mondo, dopo avergli promesso il governo dell'Egitto. Macrone prevenne il carnefice con darsi da sè stesso la morte; e non meno di lui fece Ennia Nevia sua moglie, quella medesima, con cui Caligola avea tenuta, per quanto fu creduto, una pratica disonesta. Parve ad ognuno troppo nera l'ingratitudine di lui verso persone tali; e più indegno si riputò il delitto apposto loro dal medesimo imperadore, con chiamarli ruffiani, quando in lui ricadeva questo reato. [120] Suocero d'esso Cajo era Marco Giunio Silano, già stato console, uomo di gran nobiltà, di gran senno, e primo nel senato a dire il suo parere, allorchè regnava Tiberio. Sua figliuola Giunia Claudilla maritata con Caligola non per anche imperadore, era, per attestato di Dione [Dio, lib. 59.], stata ripudiata. Tacito [Dio, lib. 59. Tacit., Annal., lib. 6, c. 46.] la dice morta in breve, forse di parto. A questo illustre personaggio tali affronti fece Cajo, che l'indusse, secondo l'empio stile d'allora, a darsi la morte da sè stesso. Di ciò parla Dione all'anno precedente. Abbiamo anche da Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae.] e da Seneca, che Caligola volle dar l'incombenza d'accusar Silano a Giulio Grecino, senatore di rara probità, che compose alcuni libri dell'Agricoltura, menzionati anche da Plinio, e che fu padre di Giulio Agricola, la cui vita scritta da Tacito è pervenuta ai nostri giorni. Generosamente se ne scusò egli, e per questa bella azione meritò che il crudele Caligola il facesse morire. Racconta Seneca [Seneca, de Benefic., lib. 2, c. 21.] di questo Grecino, che mancandogli il denaro per celebrar de' giuochi pubblici, Fabio Persico, probabilmente quello stesso che fu console nell'anno 34 della nostra Era, ma uomo screditato, gliene mandò ad esibire una buona somma. La rifiutò Grecino, e agli amici che il biasimavano di questo, rispose: «Come vorreste voi ch'io ricevessi dei danari da uno, con cui mi vergognerei anche di stare a tavola?»
Quanta fosse la corruzion de' costumi in Roma pagana per questi tempi, sarebbe facile il mostrarlo. Caligola anch'egli ne lasciò degl'infami esempli [Sueton., in Cajo, cap. 24.]. Tre sorelle avea egli, cioè Drusilla, Agrippina e Livilla. Con tutte e tre, o vergini o maritate, disonestamente conversò. Sopra l'altre amò Drusilla, a cui tolto avea l'onore giovinetto. Era essa stata dipoi maritata con Lucio Cassio Longino, che fu console. Caligola gliela [121] tolse, e la tenne e trattò da legittima consorte. Dione [Dio, lib. 59.], non so come, la fa moglie (forse in seconde nozze) di Marco Lepido, notando nondimeno anch'egli l'obbrobrioso commercio del fratello con essa. Fu costei in quest'anno rapita dalla morte, verisimilmente verso il fine di luglio. Caio n'ebbe a impazzire, e cadde in istravaganze ridicole. Dopo un solennissimo funerale e lutto pubblico, fece decretare ad essa gli onori dati a Livia Augusta, e deificarla e alzarle dei templi; e si trovò un senator sì vile, cioè Livio Geminio, che con giuramento affermò di aver veduta Drusilla salire al cielo, e ne riportò un buon regalo da Caio. Seneca anch'egli si rise di costui. Oltre a ciò come forsennato all'improvviso si partì da Roma, fece un viaggio nella Campania, arrivò sino a Siracusa, e poi frettolosamente ritornò a Roma, senza essersi fatta radere la barba nè tosare i capelli. Andò tanto innanzi la frenesia di Caio, che fece morir non so quante persone per due opposti motivi o pretesti; cioè le une perchè si erano rattristate per la morte di Drusilla, quasi che fosse un gran delitto l'affliggersi per chi era divenuta partecipe della divinità; e l'altre, perchè o avessero fatto conviti, o balli, o fossero ite al bagno nel tempo del lutto per Drusilla, parendo ciò un rellegrarsi della sua morte. Chi potea indovinarla con un sì furioso e pazzo Augusto? Altri nondimeno han creduto ch'egli spigolasse sì fatti pretesti, per ingoiar le ricchezze dei condannati a diritto o a torto; imperciocchè il folle ne' primi mesi fece un tale scialacquamento di denaro, che consumò colla sua prodigalità in doni e pubblici giuochi gli immensi tesori che l'avaro Tiberio avea radunato; e, trovandosi poi smunto, diede ad ogni sorta di violenza, o pubblica con imporre gravezze, o privata con levar di vita i ricchi innocenti, per soddisfare ai suoi capricciosi voleri colle loro sostanze. Quando altra accusa mancava, [122] sempre era in pronto quella che avessero avuta parte nella morte dei di lui genitori e fratelli.
Un'altra ridicolosa comparsa avea fatto questo imperadore, forse nell'anno precedente, come s'ha da Dione [Dio, lib. 59. Sueton., in Cajo, cap. 25.]. Invitato alle nozze di Caio Calpurnio Pisone con Livia (o sia Cornelia) Orestilla, appena ebbe veduta quella giovinetta che se ne invaghì con dire a Pisone: «Non ti venga talento di toccare mia moglie.» E tosto seco la condusse in corte, poi fra pochi dì la ripudiò; e da li a due anni ragguagliato ch'essa avea commercio col primo marito, relegò l'uno e l'altra. Inoltre pochi giorni dopo la morte di Drusilla avendo esso Caio udito parlare della straordinaria bellezza dell'avola di Lollia Paolina, moglie di Caio Memmio Regolo, già stato console, e che era allora governatore della Macedonia ed Acaia, stranamente avvisandosi che non fosse minor la beltà della nipote, mandò a prendere essa Paolina, e la sposò, con obbligar suo marito ad adottarla per figliuola. Ma svaghitosene fra poco, la ripudiò, con precetto a lei fatto di non avere carnal commercio con altr'uomo in avvenire. Sposò dipoi Cesonia Milonia, che già avea avuto tre figliuole da un altro marito; donna che sapea il mestiere di farsi amare. E la sposò nel dì stesso che la medesima partorì una figliuola, ch'egli riconobbe per sua, ed ebbe nome Giulia Drusilla. Dione la fa nata un mese dopo, e riferisce all'anno seguente un tal matrimonio [Dio, lib. 59.]. Intanto si diede meglio a conoscere la sua furiosa passione di mirar con piacere le morti degli uomini. I giuochi funesti de' gladiatori erano il suo maggior sollazzo. Sollecitava anche i nobili, benchè fosse contro le leggi, a combattere negli anfiteatri e a farsi scannare. Non contento del duello d'uno con uno, ne voleva delle schiere; e un dì fece combattere ventisei cavalieri romani, mostrando [123] gran contento allo spargimento del loro sangue. Talvolta ancora, mancando i gladiatori, facea ghermire taluno della plebe; e colla lingua tagliata, affinchè non potesse gridare, il forzava a combattere con le fiere. Così di giorno in giorno andava egli crescendo nella crudeltà, sfoggiando nelle pazzie, e gettando smoderata copia di danaro in vari spettacoli e in demolir case per nuovi anfiteatri. In quest'anno [Philo, in Flacc. Joseph., in Antiq. Judaic. Eusebius, et alii.], per quanto si crede, la mano di Dio cominciò a farsi sentire in Levante contra de' Giudei, fieri persecutori del già nato Cristianesimo. Ebbero principio in Egitto le turbolenze mosse contra di tal nazione, che in più centinaia di migliaia abitava in quella ricchissima provincia, con essersi sollevato il popolo di Alessandria contra d'essi in occasione che il re Agrippa arrivò a quella città. Gran copia di loro fu maltrattata, tormentata, uccisa; saccheggiate le lor case, spogliati i magazzini, e ridotto quel gran popolo ad un'estrema miseria. La storia distesamente si legge ne' libri di Filone contra Flacco, negli Annali del Baronio all'anno 40, in quei dell'Usserio e d'altri. L'istituto mio non soffre ch'io ne dica di più.
Anno di | Cristo XXXIX. Indizione XII. |
Pietro Apostolo papa 11. | |
Cajo Caligola imperadore 3. |
Consoli
Cajo Cesare Caligola Augusto per la seconda volta, Lucio Apronio Cesiano.
Solamente per tutto il gennaio tenne Caligola il consolato [Sueton., in Cajo, cap. 17.], e nelle calende di febbraio, per attestato di Dione [Dio, lib. 59.], rinunziò la dignità a Marco Sanquinio Massimo, che era stato console un'altra volta. Continuò Apronio Cesiano nell'uffizio sino alla fine di giugno, per testimonianza [124] del medesimo storico, e nelle susseguenti calende dicono che gli fu sostituito Gneo Domizio Corbulone. Così il padre Stampa [Stampa, Continuat. Fastor. Sigonius et alii.] ed altri, negando la sostituzione d'altri consoli. Ma Dione scrive, che incolpati da Caio i consoli, per non aver intimate le ferie pel suo giorno natalizio, e per aver solennizzata la vittoria d'Augusto contra di Marco Antonio, furono in quello stesso dì, cioè del suo natale, degradati, con rompere i loro fasci: ignominia tale, che l'un di essi consoli si uccise di poi da sè stesso. Aggiugne che allora succedette nel consolato Domizio Africano. Secondo Svetonio [Sueton., in Cajo, c. 8.] Cajo Caligola nacque nel dì 31 d'agosto; e però in quel dì succedette la mutazion de' consoli, e Domizio Africano eletto console da Caligola, tenne il consolato sino al fine dell'anno. Domitium Afrum Collegam Cajus ipse sibi re, verbo Populus elegit. Certo è, essere stati due personaggi diversi Domizio Corbulone e Domizio Africano, come si ricava da Tacito [Tacitus, Annal., lib. 3, cap. 33, et lib. 4, c. 52.] che li nomina amendue. Dione anch'egli parla di essi sotto l'anno presente, con dire che Domizio Corbulone si guadagnò il consolato con far dei processi, e poscia aggiugne che anche Domizio Africano fu creato console. Quel solo che resta scuro, si è, qual dei due consoli deposti si troncasse il filo della vita; perciocchè tanto Sanquinio Massimo, quanto Corbulone sembra che vivessero alcuni anni ancora, se pur di amendue parla Tacito negli Annali [Tacitus, Annal., lib. II, cap. 18.]. Cajo nell'anno presente levò di nuovo al popolo il diritto dei Comizii, perchè ne seguiva dell'imbroglio, e lo restituì al senato. Era per altre cagioni in collera contro d'esso popolo, perchè sapea d'esserne odiato; vedea che scarso era il loro concorso agli spettacoli; e più volte intese che aveano levato rumore contro [125] le spie e gli accusatori. Però molti di quando in quando ne fece ammazzare, e si augurava che un solo collo avesse tutto il popolo romano per poterlo tagliare con un sol colpo. Nel medesimo tempo andava crescendo la di lui crudeltà anche verso i nobili e i ricchi, trovandosi con facilità dei pretesti per farli accusare e condannare a fine di mettere le griffe sopra le loro ricchezze e beni. Di Calvisio Sabino senatore, di Prisco pretore e d'altri parla Dione, con aggiungere che tutto il senato e popolo all'udirlo un dì lodar Tiberio, e minacciar tutti, rimasero sbalorditi e tremanti; e la conciarono per allora con delle adulazioni e lodi eccessive. Domizio Africano, del cui consolato poco fa s'è ragionato, seppe anch'egli con ripiego di fina accortezza schivar la mala ventura. Credendo costui d'acquistarsi un gran merito, avea esposta una statua di Caligola, con dire nell'iscrizione ch'esso Augusto in età di ventisette anni era giunto ad essere console due volte. Prese Caligola con quella sua testa sventata al rovescio l'espressione, parendogli fatto un rimprovero a sè stesso per la sua età, e per le leggi che non permetteano in sì poco tempo tali onori. Però considerando che uomo accreditato nell'eloquenza del foro fosse Domizio, composta un'orazione con molto studio volle egli stesso accusarlo in senato. L'accorto Domizio, finita ch'egli ebbe la diceria, senza mettersi a difendere sè stesso, si mostrò solamente stupefatto per la forza e bellezza dell'orazione di Caio, con rilevarne tutti i passi più luminosi e lodarli. Richiesto poi di difendersi, se potea, rispose d'essere vinto da così forte eloquenza, ed altro non restargli, se non di ricorrere alla clemenza di Cesare; e, in così dire, se gli gittò supplichevole ai piedi, implorando misericordia. Caio gonfio per aver superato un oratore di tanto nome, gli perdonò il resto, ed in appresso il creò console.
Ma non meno della crudeltà cresceva [126] in lui anche la frenesia o pazzia, profondendo sempre più a sproposito immenso danaro negli spettacoli [Sueton., in Cajo, cap. 54. Dio, lib. 59.]. Egli stesso sulla carretta talvolta andò nel circo a gareggiar nella corsa coi plebei professori; e guai a quegli uomini e cavalli che gli andavano innanzi. Fra gli altri ebbe un cavallo prediletto, a cui avea posto il nome d'Incitato. Lo tenea seco a tavola, dandogli biada in vasi d'oro, e in bicchieroni d'oro del vino. Forse fu una burla il dirsi che egli avea anche promesso di crearlo console un dì; e che l'avrebbe fatto, se fosse vivuto più tempo. Poca gloria a questo forsennato regnante pareva il passeggiar per terra a cavallo. Volle far vedere ai Romani, che gli dava l'animo di cavalcar sopra il mare. Fece dunque fabbricar un ponte in un seno di esso mare fra Baja e Pozzuolo, lungo da tre miglia e mezzo con due file di navi da carico, fermate con ancore, e fatte venir anche da lontano [Sueton., in Cajo, c. 19.]: il che poi cagionò una gran carestia in Roma e nell'Italia. Sopra vi fu fatto un piano di terra con varie case ben provvedute d'acqua dolce. Per questo ponte fabbricato con immensa spesa, un dì montato sopra un superbo cavallo, armato colla corazza riputata di Alessandro Magno, e con sopravvesta ornata d'oro e di gemme, spada al fianco, e scudo imbracciato e con corona di quercia in capo, marciò l'intrepido imperadore con tutta la sua corte da Baja a Pozzuolo, quasichè andasse ad assalire un'armata nemica; e come se fosse stanco per una data battaglia, si riposò poi in quella città. Nel seguente giorno salito sopra un carro tirato dai suoi più superbi destrieri, con Dario avanti, uno degli ostaggi dei Parti, seguitato da essa sua corte tutta in gala, e da alcune schiere di pretoriani, ripassò di nuovo sul medesimo ponte; in mezzo al quale alzato un tribunale, arringò, come se avesse conseguita qualche gran vittoria, lodando i soldati, quasi [127] che fossero usciti di pericolo, gloriandosi sopra tutto di aver calpestato coi piedi il mare. Dato poscia un congiario o sia regalo al popolo, egli coi cortigiani sul ponte, e gli altri in varie navi, passarono il rimanente del giorno e la notte in gozzoviglie e in ubbriacarsi, essendo tutto il ponte colla collina d'intorno illuminato da fiaccole, fuochi ed altri lumi, talmente che la notte non invidiava al giorno. Nel calore del vino e dell'allegria molti furono gittati per divertimento in mare, e molti ve ne gittò lo stesso Caio, dei quali perirono alcuni. Così terminò la gran funzione, con vantarsi il prode Augusto di aver messo terrore al mare, e con ridersi di Dario e di Serse, per aver egli domato il mare per un tratto più lungo. Le immense spese fatte in quest'azion da teatro, incitarono dipoi lo smunto Augusto a far danari per tutte le vie, e massimamente colle condanne dei benestanti. Fra questi uno fu il celebre filosofo Lucio Anneo Seneca, tenuto pel più saggio di Roma, che corse gran pericolo, non già per qualche suo delitto, ma solamente per aver trattata con vigore nel senato una causa alla presenza dello stesso Caligola, che se l'ebbe a male, o perchè proteggesse co' desiderii quella causa, o perchè gli spiacesse chi era più eloquente di lui. Il fece dunque condannare; ma il lasciò poi vivere per avere inteso da una donnicciuola di corte, che questo filosofo era tisico e poco potea campare.
Prese susseguentemente Caligola all'improvviso la risoluzione di passar nella Gallia, col pretesto della guerra non mai bene estinta coi Germani; ma veramente per far bottino addosso alle provincie romane, ed insieme per dar a conoscere l'insigne suo valore e potenza ai Barbari, dopo averne data una sì bella lezione al mare stesso. Dovette accadere la sua partenza negli ultimi mesi di questo anno. Fu detto, che raunò dugentomila, ed altri anche scrissero dugento cinquantamila armati. Direste ch'egli [128] sicuramente subbissò con tante forze la Germania. Andò a finire anche questo formidabil apparato in una scena comica. Appena ebbe passato il Reno, che marciando in carrozza in mezzo all'esercito per dei passi stretti, gli fu detto che sorgerebbe ivi della confusione se i nemici venissero ad assalire i Romani. Bastò questo, perchè egli salito a cavallo, con fretta se ne tornasse al ponte del Reno, e trovatolo impedito dalle carrette dei bagagli, si facesse portar di là sulle spalle dagli uomini, non parendogli mai d'essere in sicuro dai Germani, finchè non ebbe la barriera del Reno davanti. In quella ridicolosa spedizione fece un dì nascondere alcuni Tedeschi della sua guardia di là da esso Reno, acciocchè nel tempo del desinare gli fosse portata la nuova che il nemico veniva. Allora saltato su da tavola, colle milizie corse contra quelle sognate truppe, e giunto in un bosco vi spese il resto del giorno a far tagliare degli alberi, per innalzarvi de' trofei dell'oste nemica da lui messa in fuga, confortando intanto alla tolleranza le legioni colla speranza di menar meglio le mani un'altra volta. Ed intanto scrivea lettere di fuoco al senato, perchè in Roma si faceano dei conviti ed altri divertimenti, mentre egli si trovava in mezzo ai pericoli della guerra. Venne in questi tempi a mettersi sotto la di lui protezione con pochi de' suoi Adminio figliuolo d'uno dei re della gran Bretagna, cacciato dal padre. Come s'egli avesse conquistata la Bretagna, spedì tosto corrieri a Roma con lettere laureate, ed ordine ad essi di presentarsi sol quando il senato fosse adunato nel tempio di Marte, e di consegnar le lettere in mano dei consoli. Fecesi anco proclamar imperadore per la settima volta, quasichè egli avesse riportata qualche vittoria, quando neppur uno dei Germani provò se erano ben affilate le spade romane. Queste furono le bravure e conquiste del buffonesco imperadore, che diedero da ridere a tutti, e specialmente [129] agli stessi Germani, i quali s'avvidero per tempo della di lui vanità e paura, nè ebbero più apprensione alcuna di lui. Il tempo preciso di queste sue ridicolose prodezze non è assegnato dagli antichi scrittori.
Diedero per lo contrario da piagnere alla Gallia le inaudite sue estorsioni per far danaro. Non contento dei regali che gli portavano i deputati delle città, si applicò a far morire i più ricchi di quelle contrade sotto diversi pretesti; occupando le lor terre, e vendendole dipoi anche per forza a chi non ne avea voglia, ed era obbligato a pagarle molto più che non valevano. Trovandosi un giorno al giuoco, gli fu detto che mancava il danaro. Fecesi tosto portare i catasti dei beni della Gallia, comandò che i meglio possidenti fossero privati di vita; rivoltosi poi agli altri giocatori, disse: «Voi giuocate di poco; ma io giuoco a guadagnar sei milioni.» Profuse bensì un gran danaro in regalar le milizie, ma insieme cassò molti uffiziali; ad altri assaissimi negò la promozione dovuta; e a gran copia di soldati per capricciose ragioni fece levar la vita. Soprattutto risonò la morte da lui data a due dei suoi principali magistrati. L'uno fu Gneo Lentolo Getulico della primaria nobiltà romana, che per dieci anni avea tenuto il governo dell'armi della Germania. Perchè egli, secondo il sentimento di Dione, s'era guadagnata la benevolenza de' soldati, questo fu il gran delitto per cui Caligola il tolse dal mondo. Ma probabilmente anch'egli fu incolpato, come mischiato in una congiura tramata contra d'esso Augusto da Marco Emilio Lepido, non so se vera o falsa. Svetonio la dà per vera. Aveva Cajo condotte seco nel viaggio le sue sorelle Agrippina e Livilla, disonestamente amate da lui, e prostituite anche da altri. Lepido era loro parente, sì per essere figliuolo di Giulia nipote d'Augusto e sorella d'Agrippina lor madre, e sì per essere stato marito di Drusilla, loro sorella. La confidenza che [130] passava fra essi a cagion della parentela, degenerò facilmente in un infame commercio, cosa non rara fra i Pagani, seguaci di una falsa e sporca religione. Sapendo le sorelle, quanto fosse odiato il fratello, ed aspirando spezialmente l'ambiziosa Agrippina a divenir imperadrice, macchinarono tutti e tre contra di Caligola, perchè Lepido si prometteva di succedergli. Scoperta la trama, Lepido la pagò con la vita; ed Agrippina e Livilla furono relegate nell'isola di Ponza, con aver anche Cajo obbligata Agrippina a portare a Roma le ceneri del drudo in un'urna. Disse che oltre alle isole egli avea per loro anche delle spade. Scrisse poscia al senato di avere scappato quella pericolosa burrasca, e mandò a Roma i biglietti che attestavano l'impudica lor vita, e la lor lega coi congiurati, e tre pugnali inoltre destinali a torgli la vita, con ordine di consecrarli a Marte vendicatore [Sueton., in Cajo, cap. 39.]. Fece da lì a poco venir nella Gallia tutti gli ornamenti e le suppellettili, gli schiavi, ed anche i liberti delle sorelle per ricavarne danaro (perchè spesso lo scialacquatore ne scarseggiava), e trovato che li vendea ben cari, nella maniera nondimeno che dissi da lui praticata: comandò tosto, che fossero condotte da Roma anche tutte le più belle e preziose masserizie del palazzo imperiale, prendendo per forza tutte le carrette e cavalli che si trovavano per le pubbliche strade, affin di condurle, non senza grave danno e lamento dei popoli. Tutto ancora vendè come all'incanto nella Gallia, e carissimo, perchè volea che si pagasse anche il fumo, con aver messo de' biglietti sopra cadaun di que' mobili; in uno d'essi dicea: «Questo fu di mio padre; quest'altro di mio nonno e di mia madre; quest'era di Marc'Antonio in Egitto; questo lo guadagnò Augusto in una tal vittoria;» e così discorrendo. Tutto il danaro poi si dissipò in breve tra le paghe e i regali dei soldati, ed alcuni spettacoli ch'egli volle dar in Lione prima [131] del suo ritorno, succeduto nell'anno seguente.
Anno di | Cristo XL. Indizione XIII. |
Pietro Apostolo papa 12. | |
Cajo Caligola imperadore 4. |
Consoli
Cajo Cesare Caligola Augusto per la terza volta.
Solo fu console ad aprir l'anno Cajo Caligola, non già perchè egli non avesse nominato il collega; ma perchè, come abbiamo da Svetonio e da Dione [Sueton., in Cajo, cap. 17. Dio, lib. 59.], il console disegnato morì nell'ultimo dì del precedente anno, nè vi restò tempo da provvedere. Si ritrovarono imbrogliati i senatori per non esservi in Roma capo alcuno del senato, nè si attentavano i pretori a convocare esso senato, benchè loro appartenesse tale officio nell'assenza e mancanza de' consoli. Contuttociò da loro stessi salirono nelle calende di gennajo al Campidoglio, e quivi fecero i sacrifizii; posta anche la sedia di Caligola nel tempio, l'adorarono; e, come s'egli fosse stato presente, gli fecero l'offerta dei doni che in testimonianza del loro amore avea introdotto Augusto. Tiberio poi la dismise, e Caligola per avarizia la rinnovò. Null'altro osarono di fare in quel dì i senatori, se non di caricar di lodi l'imperadore, e di augurargli delle immense prosperità. Si contennero anche nei dì seguenti, finchè arrivò l'avviso, che Caligola giunto a Lione avea dimesso il consolato nel dì 12 di gennajo. Allora entrarono nella dignità i due consoli sostituiti. Dione li lasciò nella penna. Secondo le conghietture d'alcuni eruditi questi furono Lucio Gellio Poblicola e Marco Coccejo Nerva; ma non è cosa esente da dubbii; e molto meno che nelle calende di luglio fossero sostituiti Sesto Giulio Celere e Sesto Nonio Quintiliano, come altri han creduto. In Lione, siccome accennai, si ritrovò Caligola nelle [132] calende di gennajo [Sueton., in Cajo, cap. 20.], e probabilmente allora per onorare il suo consolato, celebrò quivi gli spettacoli mentovati da Svetonio e da Dione. Furono vari, ma non vi mancò quella della gara nell'eloquenza greca e latina, giuoco solito a farsi in quella città alla statua d'Augusto. Chi era vinto pagava il premio ai vincitori, ed era tenuto a fare un componimento in lor lode. Coloro poi, che in vece di piacere dispiacevano, doveano colla lingua, o con una spugna cancellare il loro scritto, se pur non eleggevano d'essere sferzati dai discepoli, ovvero tuffati nel fiume vicino. Era tuttavia Cajo in Lione, quando arrivò colà chiamato da lui Tolomeo re, figliuolo di Giuba già re delle due Mauritanie, e suo cugino. Fu onorevolmente ricevuto. Ma o sia ch'egli entrato nel teatro per ragione del grande sfarzo recasse gelosia al luminare maggiore, o pure che Cajo, informato delle molte di lui ricchezze, le volesse far sue: fuor di dubbio è, che il mandò in esilio, e poscia (forse nel cammino) con somma perfidia il fece ammazzare: iniquità, per cui i suoi sudditi si ribellarono dipoi al romano imperio. Anche Mitridate re dell'Armenia in altro tempo fu da lui mandato in esilio, ma non ucciso. Poscia, prima di ritornare in Italia, volle Caligola coronar tante sue gloriose imprese con un'azione magnifica [Dio, lib. 59. Sueton., cap. 46. Aurelius Victor de Caesarib.]. Sul lido dell'Oceano per ordine suo andò tutto il suo esercito ad accamparsi con gran copia di macchine e d'attrezzi militari, ed egli imbarcatosi in una galea, per mare arrivò colà. Ognun si aspettava che egli pensasse portar la guerra nella Bretagna: e forse ne avea formato il disegno: quand'ecco smontato egli di nave, salì sopra un alto trono, fece ordinare in battaglia tutte le schiere, e sonar le trombe, dare il segno della zuffa, come se fosse vicino un gran combattimento, senza vedersi intanto nemico [133] alcuno. Poscia tutto ad un punto ordinò ai soldati di raccogliere sul lido quante conchiglie o nicchi potessero nelle celate e nel seno, chiamandole spoglie dell'Oceano da portarsi a Roma, e da mettersi nel Campidoglio. In memoria di questa sua segnalata vittoria fece fabbricare ivi un'alta torre. Vennegli anche in testa prima di partirsi dalla Gallia, di far tagliare a pezzi le legioni che si rivoltarono molti anni addietro contra di Germanico suo padre, ed assediarono anche lui stesso fanciullo. Tanto gli dissero i suoi consiglieri, che depose così matta e crudel voglia; non poterono però tanto, ch'egli non persistesse nel volere almen decimare que' soldati. Feceli per tanto raunar tutti senz'armi e senza spada, ed attorniare dalla cavalleria; ma accortosi che molti d'essi dubitando di qualche insulto, correano a prendere l'armi, fu ben presto a levarsi di là, ed affrettare il suo ritorno in Italia.
Venne egli, ma pieno di mal talento, contro al senato. Si trovavano stranamente imbrogliati i senatori, per non sapere come regolarsi con un sì fantastico e pazzo imperadore [Sueton., in Caligula, cap. 49.]. Se gli decretavano onori straordinari per la sua pretesa vittoria de' Germani e Britanni, temevano del male, quasi che il beffassero; e non decretandone alcuno, o pochi a misura dei di lui desiderii, ne temevano altrettanto. Egli inoltre avea scritto di non volere onori; e pur da lì a non molto tornò a scrivere, lamentandosi che l'aveano defraudato del trionfo a lui dovuto. Ed avendogli il senato inviato all'incontro un'ambasceria, sollecitandolo a venire a Roma: Verrò, verrò, rispose, e con questa, tenendo la mano sul pomo della spada. Fece anche pubblicamente sapere a Roma, ch'egli ritornava, ma solamente per coloro che desideravano il suo arrivo, cioè per l'ordine equestre e popolo, perchè quanto a sè non si terrebbe più per cittadino nè per principe del senato. Nè dipoi volle che alcun de' senatori venisse [134] ad incontrarlo. O rifiutato o differito il trionfo, si contentò dell'ovazione: col qual onore entrò in Roma nel dì 31 d'agosto, giorno suo natalizio, conducendo seco per pompa que' pochi prigionieri disertori tedeschi che potè avere, a' quali unì una mano d'uomini d'alta statura, raccolti nella Gallia, e fatti tosare e vestire alla tedesca. Menò ancora, e buona parte per terra, le galee che l'aveano servito nella ridicolosa spedizione contra della gran Bretagna [Dio, lib. 59.]. Gittò poi in questa occasione dall'alto della basilica giulia gran quantità d'oro e d'argento, e nella folla molti vi perirono. Dopo tal solennità comandò che fosse ucciso Cassio Betulino, e volle che Capitone di lui padre assistesse a sì funesto spettacolo; e perchè questi osò di chiedergli, se permetteva a lui la vita, a lui ancora la levò. Rappacificossi poi col senato per un accidente. Entrato nella curia Protogene, corsero tutti i senatori a complimentarlo, e a toccargli, secondo il costume, la mano. Fra gli altri essendosi a lui presentato Scribonio Proculo uno d'essi, Protogene, ministro della crudeltà di Cajo, guatandolo con occhio torvo: E tu ancora, disse, hai ardire di salutarmi; tu che cotanto odii l'imperatore? Allora i senatori si scagliarono addosso all'infelice, come ad un mostro e nemico pubblico; e con gli stiletti da scrivere, che ognuno portava addosso, tante gliene diedero, che lo stesero morto a terra. Il suo corpo fatto in brani fu poi strascinato per la città. Questo atto de' senatori, e l'aver eglino decretato [Dio, in Excerptis Valesianis.] che l'imperadore avesse da sedere in un sì alto tribunale, che niuno potesse arrivarvi, e tener ivi le guardie, e che si mettessero anche dei soldati alle di lui statue; cagion fu, ch'egli si ammollì e perdonò a quell'augusto ordine: e similmente mostrò piacere, che i senatori più che mai l'adulassero, chi dandogli il titolo d'eroe, e chi di dio; il che servì [135] a maggiormente farlo impazzire. Gran tempo era, che questa legger testa si riputava più che uomo, ed ambiva gli onori divini. Già avea comandato che in Mileto, città dell'Asia, si fabbricasse un tempio in onor suo. Un altro ancora se ne fece alzare in Roma; e si trovarono intieri popoli, e massimamente gli Alessandrini, che a questa ridicolosa divinità davano gl'incensi. Perchè i Giudei, divoti del solo vero Dio, non vollero consentire a tanta empietà, patirono di molti guai, e meraviglia fu che non gli sterminasse tutti. Le pazzie che fece Cajo, per sostenere questa sua vana opinione di deità, raccontate da Dione, sono innumerabili. Sulle prime si pareggiava ai semidei, vestendosi talora, come Ercole, Bacco ed altri simili. Passò ad uguagliarsi agli dii, e a gareggiar con Giove stesso. Al vederlo un dì assiso sul trono in abito di Giove, un ciabattino nativo della Gallia non potè contenere le risa. Avvedutosene Cajo, e chiamatolo, gli domandò chi credeva egli che fosse: Un gran pazzo, con gran sincerità rispose il buon uomo. E pur Cajo, che per tanto meno avrebbe fatto morire un intero senato, male non fece a costui, perchè più sopportava la libertà dei plebei che dei grandi. La via che tenne Lucio Vitellio, padre dell'altro che fu imperadore, per salvare la propria vita, fu la seguente. Richiamato egli in quest'anno dalla Soria, nel cui governo come proconsole s'era acquistato non poco onore, con ripulsare Artabano re de' Parti, venne a Roma. Cajo, parte per invidia alla di lui gloria, parte per paura di un personaggio sì generoso, avea già fissata la di lui morte. Subodorato questo suo pericolo [Sueton., in Vitellio, cap. 2.], Vitellio prese il ripiego dell'adulazione e d'impazzire coi pazzi; e presentatosi davanti a lui con abito vile, e col capo velato, come si faceva ai falsi dii, se gli prostrò a' piedi con dirotte lagrime, dicendo, che non v'era altri che un Dio [136] par suo capace di perdonargli, promettendo di fargli de' sagrifizii se potea conseguir la sua grazia. Non solamente Caligola gli perdonò, ma il tenne da lì innanzi per uno de' suoi principali amici. E Vitellio trovata così utile l'adulazione, continuò poi sotto Claudio Augusto a valersene con perpetua infamia del suo nome. Intanto non mancarono a Roma altri spettacoli della pazza crudeltà di Caligola, accennati da Dione e da Svetonio, non potendosi abbastanza esprimere a quante metamorfosi fosse suggetto quel cervello bisbetico, volendo oggi una cosa, domani il contrario; ora amando ed ora odiando le medesime persone; prodigo insieme ed avaro; sprezzator de' suoi dii, e un coniglio, qualora udiva il tuono; talora perdonando i gran falli, ed altre volte gastigando colla morte i minimi; e così discorrendo; tutti caratteri d'uomo a cui s'era intorbidato più d'un poco il cervello. Fu anche creduto, che Cesonia sua moglie con dargli una bevanda amatoria l'avesse conciato così. La qual poscia fra le carezze che le faceva il consorte, ne sentiva anche ella delle belle: imperocchè baciandole il collo, più volte Cajo le dicea: Oh che bel collo, che subito che me ne venga talento sarà tagliato! Ma sopra tutto tenne egli saldo il costume di far morire chi de' grandi non gli mostrava assai affetto: con avere sempre in bocca il detto di Azzio tragico poeta: Oderint, dum metuant. Mi odiino quanto vogliono, purchè mi temano. Un simile tirannico motto fu in uso a Tiberio [Sueton., in Tiber., cap. 59.].
Anno di | Cristo XLI. Indizione XIV. |
Pietro Apostolo papa 15. | |
Tiberio Claudio, figliuolo di Druso imperadore 1. |
Consoli
Cajo Cesare Caligola Augusto per la quarta volta e Gneo Sentio Saturnino.
Che Caligola fosse in questo anno console per la quarta volta, e deponesse tal dignità nel dì 7 di gennaio, l'abbiamo da Svetonio [Suet., in Cajo, cap. 17.], il quale ancora aggiugne, che egli unì i due ultimi consolati, per essere stato console anche nell'anno antecedente. Secondo il Pagi [Pagius, Dissert. Hypatic.] ed altri, in vece di due dovrebbe avere scritto Svetonio tre, perchè egli entrò console anche nell'anno 39 della nostra Era. Che a lui nel consolato fosse sostituito Quinto Pomponio Secondo nello stesso dì 7 gennaio, si raccoglie da Dione [Dio, lib. 59.], che per tale il nomina nel dì 24 del suddetto mese, in cui fu ucciso Caligola. E Giuseppe Ebreo [Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 19, c. 1.] attesta anche egli, che erano consoli Sentio Saturnino e Pomponio Secondo, allorchè Claudio salì all'imperio. Nei Fasti di Cassiodoro consoli dell'anno presente son detti Secondo e Venusto: e però il Panvinio ed altri han portata opinione, che nelle calende di luglio questo Venusto succedesse a Saturnino. Monsignor Bianchini [Blanchin., in Anast.], che non trovò consoli in questo anno, e lasciò scappar l'anno medesimo, per assettare la nuova sua cronologia, difficilmente può sperar seguaci in tale opinione. Erano già pervenuti i Romani alla disperazione, veggendosi governati da un Augusto, se non tutto, almen mezzo pazzo e mezzo furioso, il quale specialmente esercitava il suo furore contro la nobiltà; che angariava con insopportabili [138] imposte e gravezze i popoli, con inviare non i soliti uffiziali, ma i soldati a riscuoterle; che avea [Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 19, cap. 1.] spogliato ogni tempio della Grecia di tutte le lor più belle pitture e statue; che permetteva agli schiavi di accusare in giudizio i lor padroni (cosa inaudita), di modo che lo stesso Claudio, zio paterno dell'imperadore, accusato da Polluce suo schiavo, corse pericolo della vita, e fu obbligato a difendersi in senato; Augusto finalmente, che tutto dì si vedea far delle nove pazzie, indegne d'ogni persona ragionevole, non che di un imperadore. Perciò tutti sospiravano, chi per vendetta del passato, chi per impazienza del mal presente, e chi per timore di peggio nell'avvenire, che la terra fosse oramai liberata da questo mostro. Ma niuno osava. I soldati pretoriani, cioè delle guardie, grosso corpo di gente avvezza all'armi, ed affezionata a Caligola per le frequenti sue liberalità, faceano venir meno il coraggio a chiunque avesse voluto tentare contro la vita di lui. Contuttociò non mancarono persone, che, per proprii riguardi e compassione del pubblico, il quale andava di male in peggio, cominciarono a tramar delle congiure. I principali e più coraggiosi furono Cassio Cherea e Marco Annio Minuciano. Era il primo uno dei tribuni, cioè dei primi uffiziali delle compagnie pretoriane, uomo di petto e di probità tale, che detestava le crudeltà e pazzie tutte di Cajo; dotato anche di molta prudenza e cautela, e però alto ad ogni grande impresa. Caligola, perchè egli avea poche parole, e parlava con voce languida, il teneva per un effemminato, beffandolo anche bene spesso, come un dappoco, e dato solo alla sensualità; di modo che qualor Cherea andava a prendere il nome per la guardia, ora gli dava quel di Priapo o di Cupido, ora quel di Venere ed altri simili: del che si offese molto Cherea. E buon per lui, che sì vil concetto avea [139] del suo merito Caligola; perciocchè dicono, che gli era stato ultimamente predetto che sarebbe ammazzato da un Cassio, come fu ancora Giulio Cesare: il che fu cagione che egli richiamò a Roma Cassio Longino proconsole dell'Asia [Dio, lib. 59. Suetonius, in Cajo, cap 57.], discendente da Cassio, uccisor di Cesare, con ordine ancora di ucciderlo, ma senza che ne seguisse poi l'effetto. Trasse Cherea nelle sue massime Cornelio Sabino, tribuno anche esso delle guardie; ed amendue si aprirono con Annio Minuciano, uomo della primaria nobiltà, e pel suo raro merito stimato da tutti; ma che stava male presso di Caligola, per essere stato amico intimo di Marco Lepido. Scrive Giuseppe, che questo Minuciano avea sposata una sorella di Caligola. Noi vedemmo che Giulia fu maritata con Marco Vinicio, uomo consolare; e Dione parla di un Viniciano che pretese all'imperio. Però potrebbe essere che Minuciano fosse il medesimo che Viniciano o sia Vinicio, con errore di alcuno de' testi. Si trovò Minuciano non solamente pronto all'impresa, ma più ardente degli altri. A loro si aggiunse Callisto liberto di Cajo, che secretamente coltivava la amicizia di Claudio zio dell'imperadore, con altri non pochi. E Valerio Asiatico, personaggio ricchissimo di beni nelle Gallie, vi tenea mano, ma con gran secretezza e riguardo. Fu destinato al compimento del disegno il tempo de' giuochi che si aveano da fare in onor di Augusto nel dì 21 di gennaio, e nei tre seguenti: giacchè terminata quella festa, Caligola avea fissata la sua partenza per l'Egitto, a far ivi meglio conoscere un impazzito imperadore. Nei tre primi giorni de' giuochi non si trovò apertura a compiere il disegno: laonde Cherea, che non potea più stare alle mosse per paura che messo l'affare in petto di tante persone traspirasse, determinò di sbrigarla nel dì 24 di gennaio.
Nella mattina di quel dì, Cajo più allegro ed affabile che mai fosse stato, si [140] assise nell'anfiteatro, fabbricato di nuovo per quella funzione; fece gittar delle frutta agli spettatori; egli ancora lietamente in pubblico mangiava e beveva, facendo parte di quei regali a chi gli era vicino, e specialmente a Pomponio Secondo console, che sedea ai suoi piedi, e facea la graziosa scena di andarglieli baciando di tanto in tanto. Pericolo vi fu, che Cajo non si movesse di là nel rimanente del giorno; perchè assai satollo ed abboracchiato per la lauta colezione, bisogno non avea di desinare. Contuttociò riusci a Minuciano, ad Asprenate e ad altri cortigiani congiurati di farlo muovere un'ora o due dopo il mezzodì, per andare al bagno, e ritornarsene, pranzato che avesse. Giunto al palazzo, in vece di andar diritto verso dove l'aspettavano i destinati al fatto, voltò strada per vedere alcuni giovanetti delle migliori famiglie dell'Asia e della Grecia [Suet., in Cajo, c. 58. Dio, lib. 59. Joseph., Antiq., lib. 59.] fatti venire apposta per cantare e ballare ne' giuochi. Allorchè fu in un luogo stretto, Cherea se gli presentò davanti, per chiedergli il nome della guardia. L'ebbe, ma derisorio, secondo il costume. Egli messa allora mano alla spada gli diede un tal fendente sul capo, che a Cajo sbalordito neppure restò voce per chiamare aiuto. Fecesi avanti anche Cornelio Sabino, che con un colpo gli tagliò una mascella; ed altri con trenta altre ferite il finirono. Perchè senza rumore non potè succedere quella scena, trassero colà primieramente i portantini della lettiga imperiale colle loro stanghe, e poscia le guardie tedesche, le quali cominciarono a menar le mani addosso a' colpevoli ed innocenti. Fra gli altri vi perderono la vita Publio Nonio Asprenate, che era stato console nell'anno 58, Norbano ed Antejo, tutti e tre senatori. Il cadavere dell'estinto Augusto, portato nella notte seguente nel giardino di Lamia, fu mezzo bruciato, e frettolosamente seppellito in terra, per timore che il [141] popolo lo mettesse in brani. Mandato anche da Cherea un centurione o tribuno, appellato Giulio Lupo, alle stanze di Cesonia moglie di Cajo, la trucidò insieme colla figliuola Giulia, per cui Cajo avea fatto varie pazzie con dichiararla anche figliuola di Giove. E tale fu il fine di Cajo Caligola, fine corrispondente ad un conculcatore di tutte le leggi umane e divine, e che troppo tardi si accorse d'essere non un Dio, ma un miserabil mortale. Abbattute poi furono le sue statue, rasato il suo nome dalle iscrizioni, e trattata la sua memoria come di un pubblico nemico.
Portata la nuova della morte di Caligola all'anfiteatro, dove buona parte del popolo dimorava in allegria godendo il pubblico divertimento, incredibil fu lo spavento di tutti; e tanto più perchè i soldati pretoriani attorniarono colle spade nude quel luogo, e si durò gran fatica a trattenerli che non cominciassero a far vendetta dell'estinto principe sopra quegl'innocenti. Subito che poterono in tanta confusione i consoli Sentio Saturnino e Pomponio Secondo, operar qualche cosa, inviarono tre compagnie di essi pretoriani che si trovarono ubbidienti per la città, affinchè impedissero i tumulti. Raunato poscia il senato nel Campidoglio, corsero colà gli altri soldati del pretorio, chiedendo con alte grida che si cercassero gli uccisori. Ma affacciatosi Valerio Asiatico, uno dei primi senatori, ad un balcone, gridò forte: «Piacesse a Dio, che l'avessi ammazzato io!» Queste sole parole fecero impression tale ne' soldati che si ritirarono. Fu poi dibattuto nel senato quel che fosse da fare in sì pericolosa congiuntura. Il console Saturnino, secondo che scrive lo storico Giuseppe, fece una bella aringa con rammentar tutti i mali patiti sotto Tiberio e Caligola principi sanguinarii ed assassini del pubblico, e conchiudendo che s'avea da ricuperare la libertà oppressa dai precedenti imperadori; ma senza prendere ben [142] le misure necessarie per sì importante risoluzione. In fatti, non tardò molto a scoprirsi la vanità di questo disegno. Tiberio Claudio Druso Germanico, comunemente conosciuto col nome di Claudio fra gl'imperadori de' Romani, figliuolo fu di Nerone Claudio Druso, e fratello di Germanico Cesare, per conseguenza zio paterno di Caligola. Uomo di poco senno e sommamente timido, benchè avesse studiato le arti liberali, era tenuto in concetto piuttosto di stolido, e perciò sprezzato e deriso da tutti. Forse anche egli mostrava d'essere più di quel che era. E questo fu la sua fortuna, perchè salvò la vita sotto Tiberio e Caligola, i quali vedendolo addormentato e dappoco, nè avendo apprensione alcuna di lui, si ritennero dal levarlo dal mondo. Tiberio nondimeno il lasciò sempre nell'ordine de' cavalieri. Cajo suo nipote, benchè fosse dipoi qualche volta tentato d'ucciderlo, pure l'avea alzato al grado di senatore ed anche al consolato. Trovavasi egli in compagnia o poco lungi da Caligola, allorchè i congiurati se gli avventarono addosso. Tutto spaventato corse ad appiattarsi dietro ad una tappezzeria, da dove ascoltava lo strepito di chi andava e veniva, e co' suoi occhi vide le teste d'Asprenate e degli altri uccisi staccate dai busti [Suet., in Claudio, cap. 10. Dio, lib. 60. Joseph., Antiq., lib. 19.]. S'aspettava anch'egli la morte, quando in passare uno de' soldati per nome Grato e scoperti i suoi piedi, il tirò per forza fuori della tappezzeria. Cadde in ginocchioni Claudio e gli dimandò la vita; ma il soldato riconosciutolo per quel che era, non solamente l'animò, ma gli diede anche il titolo di mio imperadore. E menatolo a' suoi compagni, che stavano disputando di quel che s'avesse a fare in quel contingente, siccome per la memoria di Germanico suo fratello l'amavano, tutti concorsero a riceverlo per imperadore. Pertanto postolo in una lettiga, sulle loro spalle il portarono al castello pretoriano, [143] cioè al loro quartiere; tremando egli intanto, e compassionandolo il popolo nel mirarlo così portato, sulla credenza che il conducessero alla morte. Si fermò tutta quella notte nel quartier de' soldati, nè andò al senato benchè chiamato, scusandosi colla forza che gliel'impediva. Venuto poscia il dì 25 di gennaio, giacchè i senatori erano discordi fra loro, nè mezzo appariva da poter ripigliare e sostenere l'antica libertà, non si prendeva risoluzione alcuna nel senato, in cui per altro non mancava il partito di chi proponeva un nuovo principe.
Intanto la natia paura di Claudio l'avea tenuto lungamente sospeso s'egli avesse sì o no da accettare l'esibito imperio, e fu più volte in procinto di rifiutarlo, o di rimettersi totalmente alla volontà del senato; quando, per testimonianza di Giuseppe Storico, Agrippa re di parte della Giudea, che si trovava allora in Roma, ed avea fatto dar sepoltura all'ucciso Caligola, arrivò segretamente colà, ed incoraggiò talmente il vacillante Claudio, che consentì al buon volere de' soldati, da' quali fu universalmente proclamato imperadore, con promettere egli a tutti un buon regalo di denari. Fu questi il primo degl'imperadori, eletto dalle milizie, con esempio infinitamente pregiudiziale allo imperio romano; perchè ne vedremo tanti altri per questa via, e col comperare lo imperio dai soldati, salire al trono. Ora il senato, a cui era già pervenuto lo avviso degli andamenti dei pretoriani e di Claudio, trovandosi ben intricato fra il desiderio di ricuperar la libertà, e il timore di non poterlo, mandò a chiamare il re Agrippa, per valersi del suo mezzo. Questo uomo doppio, quanto altri mai fosse, comparve in senato ben profumato, e fingendo di nulla sapere, anzi dimandando dove fosse Claudio, fu informato del presente sistema dei pubblici affari, ed interrogato del suo parere. Lodò egli sommamente il lor disegno di rimettere in piedi la repubblica, e si protestò pronto [144] a dar la vita per la gloria del senato. Ma nello stesso tempo sparse il terrore in tutti, mostrando la difficoltà di resistere ai pretoriani, e lodando in fine, che si facesse una deputazione a Claudio per esortarlo a desistere: al che egli si esibì. Accettata la offerta, e deputati con lui anche i tribuni della plebe, andò Agrippa a trovar Claudio, e fece pubblicamente la ambasciata. Poscia in un ragionamento a parte espose a Claudio la debolezza ed incertezza del senato, esortandolo a prendere le briglie con mano forte. Perciò, per quanto dicessero dipoi i tribuni per rimuoverlo, e per consentire almeno di ricevere lo imperio dalle mani del senato, Claudio tenne saldo, con promettere solamente un buon governo. Dacchè il senato ebbe ricevuta questa risposta, volle fare il bravo col minacciargli la guerra, e Claudio ne mostrò paura. Passò fra questi dubbi il dì 25 di gennajo. Ma intanto andarono cangiando faccia gli affari. Molta parte del popolo cominciò a gridare di voler un principe, e ne nominò ancora alcuni; e venuto il dì 26, non pochi dei senatori stettero ritirati, senza entrare in senato. Il peggio fu, che quattro compagnie fin qui ubbidienti a Cherea e a Sabino, voltarono casacca, ed abbracciarono il partito di Claudio. Altrettanto fecero i vigili, i gladiatori e gli altri soldati della città, in maniera che i senatori rimasti come in isola nel senato, s'appigliarono in fine, benchè forzati, alla risoluzion di conoscere Claudio per imperadore. Andarono dunque tutti a gara al quartier de' soldati per salutarlo; ma furono sì mal ricevuti da coloro, che ne restarono alcuni bastonati ed altri feriti; e Pomponio Secondo, l'uno de' consoli, corse pericolo della vita, Claudio ed Agrippa s'interposero, ed acquietarono quegli animi turbolenti.
Allora Claudio accompagnato dal senato e dalle milizie, a guisa di trionfante, si mosse, e dopo essersi portato al tempio, per ringraziare gl'iddii della sua [145] esaltazione, passò al palazzo; nè altro di funesto per allora operò, se non che per politica condannò a morte alcuni degli uccisori di Caligola, e massimamente il lor capo Cassio Cherea, che coraggiosamente la sofferì. Volle perdonare a Cornelio Sabino, e conservargli anche la sua carica; ma questi, non sapendo sopravvivere all'amico Cherea, si diede poi la morte da sè stesso. Del resto Claudio, dopo aver ricevuto i titoli di Cesare Augusto e di pontefice massimo, e la tribunizia podestà, si trovò distinto da Tiberio suo antecessore, coll'essere chiamato figliuolo di Druso o pur di Tiberio: laddove Tiberio s'intitolava figliuolo di Augusto. E nelle medaglie [Mediobarbus, Numism. Imper. Goltzius, Patinus et alii.] Tiberio è mentovato col solo prenome TIBERIVS CAESAR; ma Claudio TIBERIVS CLAVDIVS CAESAR. Nè Claudio solea anteporre il titolo d'imperadore al suo nome, ma posporlo. Ora anch'egli, non meno di quel che avessero fatto i precedenti due cattivi imperadori, diede un bel principio al suo governo. La più gloriosa delle azioni sue fu quella di accordare un general perdono a chiunque avea trattato di ridurre di nuovo Roma allo stato di libertà e di escludere lui dall'imperio. Nè egli rivangò mai più questi conti, anzi promosse a gradi più illustri chi s'era mostrato più zelante in quella occasione. Guai a loro, s'egli avesse avuto il cuor di Tiberio o di Caligola! Anzi neppur fece vendetta di tanti e tanti, che in vita privata o l'aveano oltraggiato, o vilipeso gastigandoli solamente se si provavano rei d'altri delitti. Allorchè giunse in Germania la nuova dell'ucciso Caligola, furonvi molti che sollecitarono Sulpicio Galba, general di quelle legioni, ad assumere l'imperio. Mai non volle egli acconsentire, perchè più poteva in lui l'onore che l'ambizione. Claudio, di ciò informato, tenne sempre Galba per uno de' suoi migliori amici; laddove Tiberio e Caligola furono soliti di [146] levar di vita chiunque credeano riputato degno dell'imperio. Un altro merito si era acquistato Galba nell'anno precedente, perchè appena fu uscito delle Gallie Caligola, che i Germani fecero un'irruzione nelle provincie romane; ma Galba li ripulsò con tal vigore, che fu lodato infin da Caligola, principe per altro invidioso della gloria de' suoi generali. In quest'anno ancora egli sconfisse i popoli Catti nella Germania: laonde Claudio, per tal vittoria e per altra rapportata da Publio Gabinio contro i Cauci, fu nominato imperadore per la seconda volta. Il timido natural di Claudio, avvalorato anche dal recente esempio del nipote, cagion fu, ch'egli per un mese non osò d'entrar nel senato; nè alcuno, ancorchè donna o fanciullo, da lì innanzi a lui si accostò, se prima non era visitato, per vedere se portasse sotto coltello od altre armi. Andando a qualche convito, tenea sempre le guardie intorno alla tavola; e volendo far visita a qualche malato, facea prima ben cercar per la camera e per li letti se armi vi fossero. A fine poi di cattivarsi il pubblico amore, levò tosto, o almeno ristrinse assaissimo, la licenza conceduta ad ognuno in addietro di accusare chiunque si volea di lesa maestà [Sueton., in Claudio, cap. 3. Dio, lib. 60.]; e rimise in libertà o richiamò dall'esilio le persone processate per questo, con volerne nondimeno il consenso del senato. Abolì gli aggravi imposti da Caligola, nè volle i regali annui comandati da esso suo nipote. A chiunque indebitamente era stato spogliato de' suoi beni dal medesimo e da Tiberio, li restituì. Fece anche rendere alle città le statue e pitture che Caligola avea fatto condurre a Roma. Soprattutto ebbe in abbominio gli schiavi e liberti, che sotto il disordinato precedente regno si erano rivoltati contra de' lor padroni; e similmente i falsi testimoni che in addietro aveano avuta gran voga. Egli ne fece morir la maggior parte, obbligandoli a combattere negli anfiteatri colle fiere. La [147] sua modestia era grande. Abborrì l'alzare a lui dei templi; per lo più ricusò anche le statue; altri onori straordinari non volle nè per sè nè per gli figliuoli nè per la moglie. Due erano le sue figliuole: Antonia, che fu maritata a Gneo Pompeo in quest'anno, a lui nata da Elia Petina, sua seconda moglie defunta; ed Ottavia, nata da Valeria Messalina, sua moglie vivente, che fu promessa a Lucio Silano, e poi fu maritata a Nerone crudelissimo imperadore. Gli partorì essa Messalina un figliuolo nell'anno presente, conosciuto dipoi sotto nome di Britannico Cesare. Trattava egli coi senatori con molta bontà e cortesia, visitandogli anche malati, ed assistendo alle lor feste private. Onorava specialmente i consoli, alzandosi anch'egli al pari del popolo in piede, allorchè intervenivano agli spettacoli, e qualora andavano al suo tribunale per parlargli. Parcamente ancora vivea, ed era indefesso a far giustizia, ed attento perchè gli altri la facesse. La sua liberalità verso i re sudditi fu riguardevole. Ad Agrippa, a cui professava di grandi obbligazioni, concedette tutto il regno posseduto da Erode il grande suo avolo, e ad Erode suo fratello il paese di Calcide, col diritto ad amendue di sedere in senato, ed altri onori. Restituì ad Antioco la provincia di Comagene. Mise in libertà Mitridate re d'Armenia, e gli rendè i suoi stati. Richiamò ancora dal loro esilio a Roma Agrippina e Giulia Livilla, che Caligola lor fratello avea relegate nell'isola di Ponza. In somma, sì fatte lodevoli azioni sul principio acquistarono a Claudio l'amore d'ognuno, stupendosi probabilmente tutti, come un uomo creduto da nulla e stolido in addietro, comparisse ora con sì diversa divisa, e sapesse correggere con sì buon garbo gl'innumerabili disordini introdotti dai due precedenti Augusti, e con tanta amorevolezza e giustizia si fosse accinto al pubblico governo.
Anno di | Cristo XLII. Indizione XV. |
Pietro Apostolo papa 14. | |
Tiberio Claudio figlio di Druso, imperadore 2. |
Consoli
Tiberio Claudio Germanico Augusto per la seconda volta, e Cajo Cecina Largo.
Nell'ultimo di febbraio Claudio Augusto si spogliò della dignità consolare, per ornarne non si sa bene chi. Ha creduto taluno, che gli succedesse Cajo Vibio Crispo, ma giocando ad indovinare. Nelle calende di gennaio [Dio, lib. 60.] esso Claudio Augusto console fece ben giurare dai senatori l'osservanza delle leggi d'Augusto, e la giurò egli stesso; ma non pretese, nè permise un simile giuramento per quelle ch'egli facesse. S'erano già ribellati i popoli della Mauritania per la morte data da Caligola a Tolomeo re loro. In quest'anno rimasero essi sconfitti da Svetonio Paolino, che s'inoltrò sino al monte Atlante, e saccheggiò quelle contrade. Due altre rotte lor diede dipoi Osidio Geta, di maniera che posate le armi, quel paese tornò tutto all'ubbidienza di Roma. Claudio per tali vittorie prese il titolo d'imperadore per la terza volta: poichè il merito delle vittorie si attribuiva sempre al generalissimo delle milizie romane (tali erano allora gl'imperadori) e non già agli uffiziali subalterni. Patì in quest'anno [Sueton., in Claudio, cap. 20.] Roma gran fame. Claudio Augusto non mancò al suo dovere, per provvedere al bisogno. E perciocchè Roma si trovava senza porto in sua vicinanza, nè le navi nel tempo di verno osavano portar grani alla città, Claudio imprese a formarne uno di pianta: opera degna della magnificenza romana; e tanto più gloriosa per Claudio, perchè Giulio Cesare avea avuta la medesima idea, ma per la grave spesa e difficoltà di eseguirla l'aveva abbandonata. Alla sboccatura dunque del Tevere, [149] e dal lato del fiume opposto all'altro dove era Ostia, fece cavare un porto vastissimo nel continente, con due ale che si sporgevano molto in mare; il tutto guernito di marmi, e con torre o sia fanale ben alto. Si crederono gli architetti, chiamati per tal fabbrica, di spaventarlo con dirgli la sterminata spesa che costerebbe. Egli tanto più se n'invogliò, e volle farla, e la condusse a fine con gloria grande del suo nome. Resta tuttavia il nome di Porto, a quel sito, ma non già vestigio del porto medesimo. Racconta Plinio [Plinius, lib. 9, c. 6.], come testimonio di veduta, che mentre si facea quell'insigne fabbrica, capitò colà un mostro marino, chiamato orca, di smisurata grandezza. Per prenderlo bisognò inviarvi i soldati del pretorio, e varie navi, una delle quali restò affondata dall'acqua gittatavi dalle narici del pesce. Molte leggi utili e buone fece Claudio in quest'anno, e fra le altre ordinò, che i governatori e ministri delle provincie, eletti nel principio d'anno, e soliti a fermarsi lungo tempo in Roma, per tutto il marzo dovessero trovarsi alle loro provincie; e che gli eletti nol ringraziassero in senato, come era il costume. Dicea, che non essi a lui, ma egli ad essi dovea rendere grazie, perchè l'aiutavano a portare il peso del principato, e cooperavano al buon governo de' popoli, con prometter anche loro maggiori onori se con lode avessero esercitato il loro impiego.
Non sarebbe stato Claudio con tutta la sua poca testa un principe cattivo, perchè non gli mancava una buona intenzione, e mostrava genio alle cose ben fatte, privo, per altro, d'orgoglio e di fasto; e sulle prime regolandosi col consiglio dei savi non metteva il piè in fallo [Dio, lib. 60.]. Ma per sua o per altrui disgrazia cominciò a comparir cattivo, parte per li mali affetti del suo natural timoroso, e parte perchè Messalina sua moglie, la più [150] impudica donna del mondo, e Narciso suo liberto favorito, ed altri mali arnesi della corte, abusandosi della di lui scempiaggine, il faceano precipitare in risoluzioni indegne di lui, e sommamente pregiudiziali al pubblico. Quel che parve strano, dall'un canto era un coniglio pien di paura, e dall'altro uno de' suoi maggiori piaceri consisteva nell'assister agli abbominevoli spettacoli dei gladiatori, e in vedere gli uomini combattere con le fiere, e restarne assaissimi stracciati e divorati. Diede anche da ridere, l'aver egli fatto levar l'insensata statua d'Augusto dall'anfiteatro, acciocchè non vedesse tante stragi, e non convenisse ogni volta coprirla, quando egli vivente non avea scrupolo di guatarle sì spesso, e di prenderne tanto diletto. Certamente fu creduto che avvezzatosi in questa maniera al sangue umano, divenisse poi sì facile a spargerlo co' suoi ingiusti decreti, dacchè lo spingevano al mal fare l'iniqua moglie e i suoi perversi servitori di corte. La prima sua ingiustizia, che cominciò a far grande strepito, fu la morte di Appio o sia Cajo Silano, uno de' più illustri e stimati senatori di Roma, e tenuto in gran conto, ed amato da Claudio stesso, perchè [Sueton., in Claudio, cap. 29. Seneca, in Apocol.] padrigno di Messalina sua moglie, avendo sposata Domizia Lepida, madre d'essa Messalina. E perciocchè si sa che Claudio avea già fatti seguire gli sponsali fra Ottavia figliuola di Messalina, e Lucio Silano, s'è creduto che questo Lucio Silano fosse nato dal medesimo Appio Silano e da Giulia nipote d'Augusto, sua prima moglie. Questi sì stretti legami di parentela non trattennero l'infame Messalina del tentar Appio Silano d'adulterio. Il non aver egli voluto consentire fu un grave delitto, a punir il quale Messalina e Narciso si servirono della seguente furberia [Suet., ibid., cap. 87. Dio, lib. 60.]. Entrò una mattina per tempo Narciso nella camera di Claudio, che tuttavia dimorava in letto colla [151] moglie; e facendo lo spaventato e il tremante, gli raccontò di aver veduto in sogno lo stesso imperadore ucciso per mano del sopraddetto Appio. Saltò su allora Messalina, e calcò la mano con dire, aver anch'ella le notti addietro più volte con orrore sognato un sì orrendo spettacolo. Nello stesso tempo vien bussato all'uscio, ed è Appio Silano che Messalina e Narciso d'accordo aveano fatto venire a quell'ora. Non occorse di più. Claudio, a cui in materia di sospetti le biche pareano montagne, diede tosto ordine che gli fosse levata la vita, e l'ordine fu eseguito. Portò lo stesso Claudio al senato questa bella nuova, come liberato da un gran pericolo, e molto ringraziò il suo liberto Narciso che anche sognando vegliava così bene per la vita del suo padrone. Somiglianti foghe di sospetti e timori fecero, che Claudio in altre occasioni togliesse dal mondo altre persone innocenti con subitaneo furore; ed accadde talvolta (cotanto era stupido) che dopo aver fatto morir taluno, come tornato in sè, dimandava conto, credendolo vivo. Dettogli, che per ordine suo non si contava più fra i mortali, se ne rammaricava poi forte, ma senza profitto dei morti.
Credesi che l'ingiusta morte di Silano, e il mirar la stupidità di Claudio capace d'altre simili false carriere, desse moto ad una congiura contra di lui: tanto più perchè durava in molti l'idea di rimettere in piedi la libertà della repubblica, nè parea ciò difficile sotto un imperadore impastato di paura [Sueton., in Claudio, cap. 13. Dio, lib. 60.]. Annio Viniciano, o Minuciano, fu delle prime ruote di tal cospirazione, siccome quegli che non si tenea mai sicuro, dopo essere stato uno de' principali nella congiura contro Caligola, e proposto anche in senato per succedergli nell'imperio. Ma sì grande impresa non si potea compiere senza l'armi; e Claudio intanto era ben assistito dai pretoriani e dall'altre milizie, che stavano di quartiere in Roma, [152] perchè, oltre alla paga ordinaria, li rallegrava ogni anno con un buon regalo. Si rivolsero dunque i congiurati a Furio Camillo Scriboniano, che comandava ad alcune legioni nella Dalmazia, promettendogli aiuto se armato veniva a Roma. Vi saltò egli dentro, e fattasi giurar fedeltà da quell'esercito, col pretesto di restituire il popolo romano nell'antica autorità, tutto andò disponendo, con iscrivere intanto una lettera fulminante e piena d'ingiurie a Claudio, minacciandogli tutti i malanni se non rinunziava l'imperio. Ricevuta questa imperiosa intimazione, non era lontano Claudio dall'ubbidire; ma un accidente il liberò dal pericolo. Dato da Furio Camillo il segno della marcia, per caso fortuito si trovò difficoltà a sollevar le insegne che, secondo il costume, stavano conficcate in terra. Erano i Romani d'allora la più superstiziosa gente del mondo; badavano a tutto, interpretando anche le menome bagattelle per presagi favorevoli o contrari dell'avvenire. Bastò questo perchè i soldati credessero volontà degli dii il non dar esecuzione al meditato viaggio. Furio Camillo trovandosi deluso, se ne fuggì in un'isola della Dalmazia, dove [Tacit., Historiar. lib. 2, cap. 75.] fra le braccia di Giunia sua moglie fu ucciso da un semplice soldato, appellato Volaginio, il quale premiato poi da Claudio ascese ai primi gradi della milizia. Per questa sedizione terminata con tanta felicità, Claudio fece far di molte perquisizioni in Roma, affin di scoprire i complici. Alcuni furono giustiziati, altri si levarono la vita da sè stessi, fra i quali specialmente si contò il sopr'accennato Viniciano o Minuciano. Non pochi anche dei cittadini romani, de' cavalieri e insin dei senatori furono messi ai tormenti, e data licenza ai servi e liberti di accusare i loro padroni, benchè Claudio nell'anno addietro avesse abolito quegli usi. In somma si riempiè tutta Roma di sospiri e di terrore; e quei soli se n'andarono [153] salvi che seppero guadagnarsi la protezion di Messalina o dei liberti di corte. Fu osservato il coraggio di un liberto di Furio Camillo, per nome Galeso, che interrogato da Narciso nel senato, cosa egli avrebbe fatto se il suo padrone fosse divenuto imperadore: Gli avrei, rispose, tenuto dietro secondo il mio solito, ed avrei taciuto. In questa occasione [Plinius junior, lib. 3, cap. 16.] Cecina Peto, già stato console, che avea sposato il partito di Furio Camillo, fu preso e condotto a Roma in una nave. Arria sua moglie, donna di petto virile, rigettata da quella nave, gli tenne dietro in una barchetta; ed arrivata a Roma, ricorse a Messalina, per raccomandarsele. Avendo trovata con lei Giunia moglie del suddetto Furio Camillo, la rimproverò, perchè tuttavia vivesse dopo la morte del marito. Avrebbe potuto Arria, mercè del favore di Messalina, non solamente vivere, ma anche sperar buon trattamento; pure s'incapricciò tanto di non voler sopravvivere al marito, che dopo aver veduta disperata la di lui causa, prese un pugnale, si trafisse, e poi diede il ferro medesimo al marito, acciocchè facesse altrettanto. Quest'atto d'Arria vien esaltato colle trombe da Plinio il giovane in una delle sue epistole, e da Dione, secondo la falsa idea che aveano i Romani di quel tempo della gloria; quasi che possa essere conforme alla retta ragione l'uccidere un innocente, e non sia più gloriosa quella fortezza che sa sofferir le maggiori calamità. Non si può fallare, credendo che dopo la morte di Furio Camillo, fosse inviato al governo della Dalmazia o sia dell'Illirico, Lucio Ottone padre di Ottone poscia imperadore, di cui parla Svetonio [Sueton., in Othone, cap. 1.]. Fu egli sì rigoroso, che fece tagliar la testa ad alcuni semplici soldati, i quali pentiti d'aver aderito ad esso Camillo, di lor propria autorità, e contro l'ordine, aveano ucciso i loro uffiziali come autori di quella sedizione, senza far egli caso, se dispiaceva [154] a Claudio, da cui erano anche stati promossi alcuni di que' soldati a posto maggiore. Ne acquistò gloria presso i Romani, ma perdè molto della buona grazia di Claudio, con ricuperarla nondimeno da lì a poco, per avere scoperto e rilevato il disegno formato da un cavaliere di uccidere esso imperadore.
Anno di | Cristo XLIII. Indizione I. |
Pietro Apostolo papa 15. | |
Tiberio Claudio, figlio di Druso imperadore 3. |
Consoli
Tiberio Claudio Augusto per la terza volta e Lucio Vitellio per la seconda.
Non più di due mesi tenne l'Augusto Claudio il suo terzo consolato [Sueton., in Claudio, cap. 14.]. V'ha chi crede a lui succeduto nel dì primo di marzo Publio Valerio Asiatico, quel medesimo che avea tenuta mano ad abbattere il crudele Caligola, ma è opinione incerta. Vitellio console quel medesimo è che vedemmo proconsole della Siria, e che ebbe per figliuolo Vitellio poscia imperadore. Coll'adulazione si salvò sotto Caligola, con questa ancora si fece largo presso di Claudio. Nelle calende poscia di luglio giudicarono alcuni eruditi, che ai suddetti consoli ne succedessero due altri, cioè Quinto Curzio Rufo e Vipsanio Lenate. Plausibile è la lor congettura, ma non è più che congettura. V'erano sì smisuratamente moltiplicate in Roma le ferie [Dio, lib. 60.], che la maggior parte dell'anno era feriata; ed allora non si teneano i pubblici giudizii. Vi rimediò Claudio Augusto, riducendo esse ferie ad un numero discreto. Tolse vari uffizi a chi indebitamente gli avea ottenuti da Caligola, e li restituì o li conferì a chi ne era degno. Al popolo della Licia, perchè avea fatto un tumulto, con uccidere ancora non so quanti Romani, levò la libertà e sottomise quella provincia alla [155] Panfilia. Privò della cittadinanza di Roma uno di quel paese, perchè non intendea la lingua latina; ed altri spogliò del medesimo diritto per loro falli; ma conferillo poi a moltissimi altri a capriccio, nè solo ai particolari, ma anche alle università e città. Più nondimeno quelli erano, che ricorrendo con danari a Messalina e ai liberti favoriti di corte, l'impetravano, di modo che si dicea, che la cittadinanza romana, la quale una volta siccome bel privilegio si pagava carissimo, era divenuta sì a buon mercato, che con un pezzo di vetro rotto si acquistava. Nè sol questo si vendea da Messalina e da' liberti palatini, ma ancora gli uffizi militari e i governi, con entrar anche a far traffico e a cavar danaro dalla grascia e dall'altre cose che si vendevano: il che fece incarire i lor prezzi, e necessario fu che Claudio nel campo Marzio alla presenza del popolo li tassasse. Ed intanto Messalina più che mai datasi in preda alla libidine [Juvenalis, Satyra 6. Dio, lib. 60. Sueton. in Claud., cap. 26.], e sfacciatamente adultera, senza rispetto alcuno del marito, era l'oggetto delle dicerie della gente accorta. Se vero è ciò che ne scrisse Giovenale, lasciato la notte in letto l'addormentato buon consorte, travestita passava ai pubblici lupanari; nè contenta dell'infame suo vivere, forzava anche altre nobili donne, con chiamarle a palazzo a prostituire la lor pudicizia ed anche alla presenza de' lor mariti. A chi d'essi si contentava, non mancavano onori e posti, agli altri che non amavano questo vituperoso giuoco fabbricava trappole per farli condannare e morire, trovando maniere che non penetrasse agli orecchi del goffo marito l'enorme sordidezza del viver suo. Perciò Claudio era quasi il solo che non sapesse un'infamia sì mostruosa. Anzi scioccamente talvolta cooperava alle pazze voglie di lei, siccome fra l'altre avvenne di Mnestore famoso istrione o sia commediante. Era perduta nell'amore di costui la bestial [156] Messalina, nè mai con preghiere o minacce avea potuto trarlo alle sue voglie, perchè egli dovea ben misurare il pericolo di quel salto. Lamentossi ella con Claudio, che Mnestore la sprezzava, nè volea ubbidirla in certo altro affare. Fattolo chiamare, l'Augusto bufalo gli ordinò di far tutto quanto ella gli comandasse. Nell'anno presente ancora riuscì a Messalina di levar dal mondo due principesse della casa cesarea [Seneca, in Apocol. Suetonius, in Claudio, cap. 29.], cioè Giulia figliuola di Druso Cesare figliuol di Tiberio, e Giulia Livilla sorella dell'ucciso Caligola, e di Agrippina, poi moglie dello stesso Claudio. Perchè esse voleano gareggiar con lei in bellezza e in possanza, nè usavanle assai finezze, e Livilla inoltre da sola a solo parlava spesse volte con Claudio, seppe così offuscare il cervello del marito Augusto, che senza lasciar loro agio per difendersi, le inviò all'altro mondo, l'una col ferro, l'altra colla fame. Il celebre filosofo Seneca, perchè amico di Livilla, fu in tal congiuntura relegato nella Corsica, e si vendicò poi di Claudio morto con una satira che si è conservata sino ai dì nostri.
Finquì la grand'isola della Bretagna, oggidì appellata Inghilterra, non avea piegato il collo sotto il giogo de' Romani. Perchè quantunque Orazio [Horatius, Odar., lib. 3, I.] sembri indicare, che Augusto vincesse que' popoli, e Servio [Servius, in Virgil., Georg. 3.] chiaramente l'insegni; pure Strabone [Strab., lib. 2.] assai fa conoscere che ciò non sussiste; ed è certo, che anche ai tempi di Claudio que' popoli viveano sottoposti a' vari loro re, amici solamente, ma non sudditi di Roma. Per cagione [Sueton., in Claud., cap. 17. Dio, lib. 60.] d'alcuni desertori non restituiti s'intorbidò la buona armonia fra i Britanni e i Romani; e un certo Berico cacciato dalla Bretagna, tanto seppe dire ad Aulo Plauzio senator chiarissimo, [157] pretore allora e governatore della Germania inferiore, che gli fece credere facili le conquiste in quell'isola. Claudio informato della proposizione, e voglioso di guadagnare un trionfo, vi consentì. Trovò Plauzio una somma renitenza nell'esercito, per uscire del continente e passare in paese incognito; nè si voleano in fatti muovere. Arrivò colà Narciso spedito con ordini pressanti da Claudio. Questo liberto, gonfio pel gran favore del padrone, arditamente salì sul tribunale di Plauzio per fare un'aringa ai soldati. Allora a tutti montata la collera, cominciarono a gridare: Ben venuti i Saturnali; perchè in que' giuochi i servi si travestivano con gli abiti de' padroni. E senza volerlo ascoltare, alzate le bandiere, tennero dietro a Plauzio, il quale colle navi preparate andò poi a fare uno sbarco nella Bretagna. Non si aspettavano que' popoli una tal visita; e perchè non s'erano nè preparati nè uniti, si diedero alla fuga, nascondendosi nelle selve e nelle paludi. Con Plauzio andò anche Vespasiano, che fu poi imperadore. S'impadronirono questi due valorosi uffiziali d'una parte di quel paese sino al Tamigi; nè osando Plauzio di passar oltre, significò con sue lettere la positura degli affari a Claudio, e quali popoli egli avesse soggiogato, quali Vespasiano; e come Cajo Sidio Geta inviluppato dai nemici con pericolo d'esser preso, gli avea poi sbaragliati. Claudio o avea già fatta o fece allora la risoluzione di passar colà in persona. Lasciato dunque il governo di Roma a Lucio Vitellio, ch'era stato o pur tuttavia era console, probabilmente nella state s'imbarcò, e da Ostia fece vela verso Marsiglia, con patire per viaggio una pericolosa burrasca. Poscia parte per terra, parte per mare arrivò all'Oceano: e finalmente raggiunse l'armata, che stava tuttavia accampata presso al fiume Tamigi. Valicato quel fiume, sconfisse i Britanni accorsi in gran copia per impedirgli il passaggio, e prese Camaloduno reggia di Cinobellino. Così [158] Dione [Dio, lib. 60.]: laddove Svetonio [Sueton., in Claudio, cap. 17.] scrive non aver egli data battaglia alcuna. Certo è, che per quelle imprese due o tre volte conseguì di nuovo il titolo di imperadore, titolo indicante qualche nuova vittoria. Anche Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 13.] afferma aver egli conquistato un buon tratto di paese nella Bretagna, e domati ivi alcuni di quei re; e Svetonio [Sueton., in Vesp., cap. 4.] stesso asserisce che Vespasiano in quella spedizione, ora sotto Plauzio ed ora sotto lo stesso Claudio Augusto, si segnalò con essere ben trenta volte venuto alle mani con que' popoli, ed aver sottomesse due di quelle possenti nazioni, prese venti città e l'isola di Vicht. Non molto tempo si fermò Claudio in quelle contrade, e dopo aver tolte l'armi agli abitanti del paese conquistato, e lasciato Plauzio coll'esercito al loro governo, si rimise in viaggio per tornarsene a Roma. Sei mesi spese nell'andare e venire; ed abbiamo da Seneca [Seneca, in Apocol.] e da Tacito [Tacitus, Annal., lib. 14, c. 31.], che nella Bretagna fu alzato un tempio a questo imperadore, la cui impresa aprì l'adito all'armi romane di stendersi maggiormente coll'andare degli anni in quella vasta isola. Giunti a Roma molto prima di Claudio, Gneo Pompeo e Lucio Silano, generi d'esso imperadore, coll'avviso del lieto avvenimento [Dio, lib. 60.], il senato decretò il trionfo a Claudio, e diede tanto a lui che al picciolo suo figliuolo Claudio Tiberio Germanico, il titolo di Britannico, con ordinar dei giuochi da farsi ogni anno in sua memoria e l'erezione di due archi trionfali, l'uno in Roma e l'altro al lido della Gallia, dove Claudio entrò in mare per passare in Bretagna. Accordò inoltre a Messalina moglie di Claudio, ancorchè non avesse il titolo d'Augusta, il primo luogo nelle pubbliche adunanze, (il che può parere strano) [159] e il poter andare nel carpento, cioè in carrozza singolare, di cui godeano per privilegio le sole Vestali e i Sacerdoti, ed entrar con essa ne' pubblici spettacoli. Nello stesso tempo pubblicarono un editto, che chiunque avesse monete di rame coll'immagine dell'odiato Caligola, le portasse alla zecca da essere disfatte. Sopra questo rame o bronzo mise tosto le mani Messalina, e ne fece formar delle statue al suo caro drudo Mnestore commediante.
Anno di | Cristo XLIV. Indizione II. |
Pietro Apostolo papa 16. | |
Tiberio Claudio, figliuolo di Druso, imperadore 4. |
Consoli
Lucio Quintio Crispino per la seconda volta e Marco Statilio Tauro.
Da un'iscrizion del Grutero raccolse il cardinale Noris [Noris, Epistola Consulari.] che il prenome di Statilio Tauro fu Marco. Un'altra tuttavia esistente in Roma nel museo del Campidoglio, e da me [Thesaurus Novus Inscription., pag. 304, num. 3.] pubblicata, fu posta MANIO AEMILIO LEPIDO, T. STATILIO TAURO COS. Quando questa appartenga all'anno presente, si può inferirne, che essendo mancato di vita, ovvero avendo dimessa la dignità, il primo de' consoli Crispino, a lui succedesse Manio Emilio Lepido. Similmente se ne ricaverebbe, che il prenome di Statilio Tauro era Tito e non Marco. Ma di ciò all'anno seguente. Arrivò l'imperador Claudio dalla Bretagna in Italia, e, per testimonianza di Plinio [Plin., lib. 3, cap. 16.], andò ad imbarcarsi ad una delle bocche del Po, appellata Vatreno, in un grosso legno, somigliante piuttosto ad un palazzo che ad una nave. Pervenuto a Roma, trionfante v'entrò [Sueton., in Claudio, cap. 17.] colle solite formalità. Sommamente [160] magnifico e maestoso fu l'apparato, ed ottennero licenza i governatori delle provincie, ed anche alcuni esiliati, d'intervenirvi. Osserva Dione [Dio, lib. 60.], che Claudio salì ginocchione al Campidoglio, sollevandolo di qua e di là i due suoi generi; e che dispensò, ma con profusione, gli ornamenti trionfali non solo alle persone consolari, che l'aveano accompagnato in quella spedizione, ma anche ad alcuni senatori contro il costume. Celebrò dipoi i giuochi trionfali in due teatri. Vi furono più corse di cavalli, cacce di fiere, forze d'atleti, balli di giovani armati. Le altre azioni lodevoli di Claudio in quest'anno si veggono brevemente riferite da Dione. Avea Tiberio tolte al senato le provincie della Grecia e Macedonia, con deputarne al governo i suoi uffiziali. Claudio gliele restituì, e tornarono a reggerle i proconsoli. Rimise in mano dei questori, come anticamente si usava, la tesoreria del pubblico, togliendola ai pretori. Possedeva Marco Giulio Cozio, il principato avito di un bel tratto di paese nell'Alpi che separano l'Italia dalla Gallia, appellate perciò Alpi Cozie. Gli accrebbe Claudio quel dominio, e, per attestato del medesimo Dione, gli concedè il titolo di re: cosa, dice egli, non praticata in addietro. Eppure nell'arco celebre di Susa, tuttavia esistente, la cui iscrizione pubblicata dal marchese Maffei [Scipio Maffei, Diplomat.], ho ancor io [Thesaurus Novus Inscription., pag. 1095.] data alla luce, si legge M. IVLIVS REGIS DONNI FILIVS COTTIVS. Quella iscrizione fu posta ad Augusto. Però sembra che non ora cominciasse il titolo di re in que' principi, e che Augusto, nel conquistar quelle contrade, le lasciasse bensì in signoria a Giulio figliuolo del re Donno, ma senza il titolo di re, il quale fu poi restituito da Claudio a Marco Giulio Corio di lui figliuolo o nipote. Avevano i cittadini di Rodi crocifissi alcuni Romani, che forse meritavano la morte; [161] ma perchè quel supplizio era ignominioso, e in riputazione grande si tenea il privilegio della cittadinanza romana, Claudio levò loro la libertà, cioè il governarsi colle lor leggi e co' propri ufiziali, benchè poi loro la restituisse nell'anno di Cristo 53. Mancò di vita in quest'anno Erode Agrippa re della Giudea, allorchè si trovava in Cesarea [Joseph., Antiq. Judaic., lib. 19.]. Credevasi che Claudio Augusto lascerebbe succedere in quel regno il di lui figliuolo Agrippa; ma prevalendo i consigli de' suoi liberti, ne diede il governo a Cuspio Fado cavalier romano: con che Gerusalemme restò di nuovo senza i suoi re, immediatamente sottoposta ai governatori romani.
Anno di | Cristo XLV. Indizione III. |
Pietro Apostolo papa 17. | |
Tiberio Claudio, figlio di Druso, imperadore 5. |
Consoli
Marco Vinicio per la seconda volta e Tauro Statilio Corvino.
Secondo le osservazioni del cardinal Noris, tali furono i consoli dell'anno presente, e, secondo lui, Tauro fu il prenome di Statilio: del che certo si può dubitare, perchè in un passo di Flegonte [Phlegon., de Mirabilib., cap. 6.] si parla di un fatto avvenuto in Roma, essendo consoli Marco Vinicio e Tito Statilio Tauro, cognominato Corvilio: dove apparisce Tauro cognome. Abbiam veduto nell'anno precedente rammentata un'iscrizione posta MANIO ÆMILIO LEPIDO ET T. STATILIO TAURO COS. Non ho io saputo dire, e neppure lo so ora, a qual anno precisamente appartenga questo pajo di consoli. Certamente questo Tito Statilio Tauro non sarà stato console tanto in questo che nell'antecedente anno, perchè ciò sarebbe stato notato ne' Fasti; e però lo Statilio di quell'anno dee essere [162] diverso dal presente. Osservarono il Panvinio ed altri, che ai consoli suddetti dovettero essere sostituiti Marco Cluvio Rufo e Pompeo Silvano, ricavandosi ciò da un rescritto di Claudio, riferito da Giuseppe Ebreo [Joseph., lib. 19.], e fatto sul fine di giugno, correndo la quinta sua podestà tribunizia. Per altro, ancorchè finora abbiano faticato vari valenti letterati, non possiam dire superate per anche le tenebre sparse qua e là ne' Fasti consolari, restandovi tuttavia molto di scuro e molte imperfezioni. Piena era oramai Roma di statue [Dio, lib. 60.] e d'immagini pubbliche o di marmo, o di bronzo, perciocchè ad ognuno era permesso il metterne: il che rendeva troppo familiare ed anche vile un onore che dovea essere riserbato alle persone di merito distinto. Claudio ne levò via la maggior parte, ordinando insieme, che da lì innanzi niun potesse esporre l'immagine sua senza licenza del senato, a riserva di chi facea qualche fabbrica nuova, o rifacea le vecchie, per animar ciascuno ad accrescere gli effetti di Roma. Mandò in esilio il governatore di una provincia, perchè fu convinto d'aver preso dei regali, e gli confiscò tutto quello che avea dianzi guadagnato nel governo. Fece ancora un editto, che a niuno dopo un ufizio esercitato nelle province, se ne potesse immediatamente conferire un altro: legge anche altre volte stabilita; acciocchè nel tempo frapposto potesse chi avea delle querele contra di tali persone, proporle con franchezza. Proibì ancora, finiti i loro governi, il pellegrinare in altri paesi, volendo che tutti venissero a Roma, per essere pronti a quello che ora noi chiamiamo sindacato. Nell'anno presente spese Claudio di molto in dar sollazzo al popolo con altri pubblici giuochi; e alla plebe, solita a ricevere gratis il frumento del pubblico, donò trecento sesterzi per cadauno; e vi fu di quelli che n'ebbero per testa fino mille e dugento [163] cinquanta. Nel giorno suo natalizio [Sueton., in Claudio, cap. 2.], cioè nel dì primo di agosto, in cui dieci anni prima dell'Era nostra egli venne alla luce in Lione, correva in quest'anno l'ecclissi del sole. Claudio con pubblico monitorio ne fece alcuni dì prima avvertito il popolo, acciocchè sapessero quello essere un effetto necessario del corso dei pianeti, e non ne tirassero qualche mal augurio, per lui, come per poco soleano fare in tanti altri affari i Romani, essendo troppo quella gente nudrita dagl'impostori nella superstizione. Le medaglie [Mediobarbus, Numismat. Imperator.] ci fan vedere che, tanto nel precedente che nel presente anno, Claudio prese più volte il titolo d'imperadore, trovandosi nominato imperadore per la decima volta. Indizii son questi, che i suoi generali nella Bretagna doveano aver fatti de' progressi coll'armi; ma di ciò non resta vestigio nella storia.
Anno di | Cristo XLVI. Indizione IV. |
Pietro Apostolo papa 18. | |
Tiberio Claudio, figliuolo di Druso, imperadore 6. |
Consoli
Publio Valerio Asiatico per la seconda volta, e Marco Giunio Silano.
Dal trovar noi Valerio Asiatico nominato console per la seconda volta, apparisce aver ottenuto l'eccelso grado di console un qualche anno innanzi, sostituito ai consoli ordinari; ma in quale non si è potuto finora esattamente sapere. Se crediamo al Panvinio [Panvinius, in Fast. Consularibus.] e ad altri, nelle calende di luglio a questi consoli succederono Publio Suillo Rufo e Publio Ostorio Scapula. Che ancor questi veramente arrivasse al consolato, ne abbiam delle prove; ma se veramente in quest'anno, ciò non si può accertare. Era [Dio, lib. 60.] Marco [164] Giunio Silano console fratello di Lucio, da noi veduto genero di Claudio Augusto. Diede molto da dire a' Romani la risoluzion presa in quest'anno dal suddetto Asiatico console. Siccome era stato determinato da Claudio per fargli onore, egli dovea ritener per tutto l'anno il consolato; ma spontaneamente lo rinunziò. Aveano ben fatto lo stesso alcuni altri consoli, per mancar loro le ricchezze sufficienti a sostener la spesa enorme che occorreva in celebrar i giuochi circensi, addossata alla borsa dei consoli, e cresciuta poi a dismisura. Era giusta la scusa e ritirata per questi, ma non già per Asiatico, ch'era uno de' più ricchi nobili del romano imperio, possedendo egli delle rendite sterminate nella Gallia, patria sua. Il motivo da lui addotto fu quello di schivare l'invidia altrui pel suo secondo consolato; ma poteva meglio assicurarsene col non accettarlo neppure per i primi sei mesi; e può credersi che non andò esente dalla taccia di avarizia quella spontanea sua rinunzia. Vedremo all'anno seguente i frutti amari di tante sue care ricchezze. Nel presente toccò la mala ventura a Marco Vinicio, personaggio illustre, già marito di Giulia Livilla, cioè d'una sorella di Caligola. Non l'avea nel suo libro Messalina, dopo aver essa procurata la morte alla di lui consorte. Crebbero anche i sospetti e gli odii contra la di lui persona, dacchè (per quanto fu creduto) l'onestà di lui diede una negativa alle impure voglie della medesima Messalina. Seppe ella fargli dare sì destramente il veleno, che il mandò per le poste al paese di là, con permettere dipoi, che dopo morte gli fosse fatto il funerale alle spese del pubblico: onore molto familiare in questi tempi. Da Agrippina, prima che divenisse moglie di Tiberio Augusto, era nato Asinio Pollione, il quale perciò fu fratello uterino di Druso Cesare figliolo di Tiberio. Nel cervello d'esso Pollione entrarono in quest'anno grilli di grandezze e desiderii di divenir imperadore; e cominciò egli per questo alcune tele [165] con sì poca avvertenza, che ne arrivò tosto la contezza a Claudio. Teneva ognuno per certa la di lui morte; ma Claudio si contentò di mandarlo solamente in esilio, o perchè non avea fatta adunanza alcuna di gente o di danaro per sì grande impresa, o perchè il trattò da pazzo, considerata anche la sua piccola statura e deformità del volto, per cui era comunemente deriso, nè ciera avea da far paura a chi sedeva sul trono. Di questa sua indulgenza riportò Claudio non poca lode presso il pubblico, siccome ancora per altre azioni di giustizia e di zelo pel buon governo, e massimamente per la giustizia. All'incontro era universale la doglianza e mormorazione, perchè egli si lasciasse menar pel naso da Messalina sua moglie e dai suoi favoriti liberti; di modo che egli pareva non più il padrone, ma bensì lo schiavo di essi. Condannato fu (che così si usava ancora) a combattere nei giuochi de' gladiatori Sabino, stato governator nella Gallia a' tempi di Caligola, per le sue molte rapine e iniquità. Desiderava Claudio, e gli altri più di lui, che questo mal uomo lasciasse ivi la vita, come solea per lo più succedere. Ma Messalina, che anche di costui si valeva per la sua sfrenata sensualità, il dimandò in grazia, nè Claudio gliel seppe negare. Ed intanto ogni dì più si mormorava, perchè Mnestore, commediante allora famoso, non si lasciava più vedere al teatro. Era egli in grazia grande presso il popolo per la sua arte, e specialmente per la sua perizia nel danzare; ma in grazia di Messalina era egli maggiormente per la sua avvenenza. Dolevasi la gente d'essere priva di un sì valente attore, ma più perchè ne sapeva la cagione, e la sapevano anche i più remoti da Roma. Altri non v'era, che il buon Claudio, il quale ignorasse, quanta vergogna albergasse nel proprio suo palazzo. Eusebio Cesariense [Eusebius, in Chronico et in Excerptis.] solo è a scrivere, che circa questi tempi essendo stato ucciso Rematalce [166] re della Tracia da sua moglie, Claudio Augusto ridusse quel paese in provincia, e ne diede il governo ai suoi uffiziali.
Anno di | Cristo XLVII. Indizione V. |
Pietro Apostolo papa 19. | |
Tiberio Claudio, figlio di Druso, imperadore 7. |
Consoli
Tiberio Claudio Augusto Germanico per la seconda volta, e Lucio Vitellio per la terza.
Abbiamo da Svetonio [Suetonius, in Claudio, cap. 4.], che Claudio Augusto non fu già console ordinario con Lucio Vitellio in quest'anno. Un altro, il cui nome non sappiamo, procedette console nel principio di gennaio; ma perchè questi da lì a poco finì di vivere, Claudio non isdegnò di succedere in suo luogo. Vitellio qui mentovato, lo stesso è che fu proconsole della Soria, e padre di Vitellio imperadore. Tanti onori a lui compartiti erano i frutti della sua vile adulazione. Secondo la supputazion di Varrone, questo era l'anno ottocentesimo della fondazion di Roma [Suetonius, in Claudio, cap. 21. Tacitus, lib. 11, cap. 11.]; e però Claudio diede al popolo il piacere de' giuochi secolari, i quali propriamente si doveano fare ad ogni cento anni. Ma a que' giuochi accadde ciò che si osservò nel giubileo romano cominciato nel 1300, che dovea rinnovarsi solamente cento anni dipoi; ma poi fu celebrato in anni diversi. Erano passati solamente sessantaquattro anni, dacchè Augusto diede questi giuochi, e viveano tuttavia delle persone che vi assisterono, e degl'istrioni che aveano ballato in essi, fra' quali Stefanione, commemorato da Plinio [Plinius, lib. 7, cap. 48. Zosimus lib. 1.]. Però essendo solito il banditore, nell'invitare a questi giuochi il popolo, di dire che venissero ad uno spettacolo che [167] non aveano mai più veduto, nè sarebbono mai più per vedere, si fecero delle risate alle spese di Claudio. Ancor qui notata fu l'adulazione del console Vitellio, perchè fu udito dire a Claudio, che gli augurava di poter dare altre volte questi medesimi giuochi. Comparve ne' giuochi suddetti Britannico figliuolo dell'imperadore insieme col giovinetto Lucio Domizio, che fu poi Nerone imperadore; e si osservò che l'inclinazion del popolo correa più verso questo giovine, perchè era figliuolo di Agrippina principessa amata da essi, non tanto per essere stata figlia dell'amato Germanico, quanto perchè la miravano perseguitata da Messalina. Si contano ancora sotto quest'anno alcune azioni lodevoli di Claudio [Dio, lib. 60.]. Prodigiosa era la quantità degli schiavi che ogni nobil romano teneva al suo servigio [Sueton., in Claudio, cap. 25.]. Allorchè i miseri cadeano infermi, costumavano alcuni de' loro padroni, per non soggiacere alla spesa, di cacciarli fuori di casa, mandandoli nell'isola del Tevere, acciocchè Esculapio, a cui quivi era dedicato un tempio, li guarisse, ed esponendogli in tal guisa al pericolo di morir di fame. Fece Claudio pubblicar un editto, che gli schiavi cacciati da' padroni, s'intendessero liberi, nè fossero obbligati a tornar a servire. Che se, in vece di cacciarli, volessero levarli di vita, si procedesse contra di loro come omicidi. Inoltre essendo denunziati alcuni di bassa sfera, quasi che avessero insidiato alla di lui vita, niun caso ne fece, con dire, «non essere nella stessa maniera da far vendetta di una pulce, che d'una fiera.» Ordinò ancora, che i liberti ingrati ai lor padroni tornassero ad essere loro schiavi: legge sempre dipoi osservata. Rimosse dal senato alcuni senatori, perchè, essendo poveri, non poteano con dignità calcare quel posto: il che a molti di loro fu cosa grata. E perchè un Sordinio nativo della Gallia, ed uomo ricco, poteva con decoro sostenere la dignità [168] senatoria, e Claudio intese ch'era partito per andarsene a Cartagine, disse: «Bisogna ch'io fermi costui in Roma con i ceppi d'oro;» e richiamatolo indietro, il creò senatore. Insorsero gravi querele contro gli avvocati che esigevano somme immense dai lor clienti. Fu in procinto il senato di proibire affatto ogni pagamento. Claudio volle che si tassasse una molto leggiera somma.
Ma se Claudio da tali azioni riportò lode, maggior fu bene il biasimo che a lui venne, per essersi lasciato condurre a dar la morte in questo medesimo anno a varie illustri persone, per le maligne insinuazioni di Messalina sua moglie. Aveva egli accasata con Gneo Pompeo Magno, Antonia sua figliuola. La matrigna Messalina, che odiava l'uno e l'altra, seppe inventar tante calunnie, dipingendo il genero Pompeo per insidiatore della vita di lui, che Claudio gli fece tagliar la testa. Per altro costui offuscava la nobiltà de' suoi natali con dei vizii nefandi. Nè qui si fermò la persecuzione. Fece anche morire Crasso Frugi e Scribonia genitori d'esso Pompeo, tuttochè, per attestato di Seneca [Seneca, in Apocol.], Crasso fosse così stolido, che meritasse d'essere imperadore, come era Claudio. Antonia fu poi maritata con Cornelio Silla Fausto fratello di Messalina. A Valerio Asiatico, da noi già veduto due volte console, le sue molte ricchezze furono in fine cagione di totale rovina [Tacitus, Annal., lib. II, cap. 1.]. Con occhio ingordo le mirava Messalina, e massimamente coi desiderii divorava gli orti di Lucullo, da lui maggiormente abbelliti. S'inventarono vari sospetti e delitti di lui, ed avendo egli determinato di passar nelle Gallie, dove possedea dei gran beni, fu fatto credere a Claudio, che ciò fosse per sollevar contra di lui le legioni della Germania. Condotto da Baja incatenato, ed accusato, con forza si difese, allegando che non conosceva alcuno de' testimoni prodotti contra di lui. Si fece [169] venire innanzi un soldato, che protestava d'essere intervenuto al trattato della congiura. Dettogli, se conosceva Asiatico: senza fallo, rispose. Che il mostrasse: data una girata d'occhi sopra gli astanti, sapendo che Asiatico era calvo, indicò un calvo, ma che non era Asiatico. Niuno dell'uditorio potè contenere le risa, e l'assemblea fu finita. Già pensava Claudio ad assolverlo per innocente, quando entrò in sua camera l'infame Vitellio il console, imboccato da Messalina, che colle lagrime agli occhi mostrò gran compassione d'Asiatico, e poi finse d'essere spedito da lui per impetrar la grazia di potere scegliere quella maniera di morte che più a lui piacesse. Il bietolone Augusto, senza cercar altro, credendo che per rimprovero della coscienza rea egli non volesse più vivere, accordò la grazia richiesta. Asiatico si tagliò dipoi le vene, e rendè contenta, ma non sazia l'avarizia e crudeltà di Messalina, la quale per altre somiglianti vie condusse a morte Poppea moglie di Scipione, la più bella donna de' suoi tempi, e madre di Poppea, maritata poi coll'Augusto Nerone. Nulla seppe di sua morte Claudio. D'altri nella stessa guisa abbattuti parla Tacito, la cui storia maltrattata dai tempi torna a narrarci gli avvenimenti d'allora, quando quella di Dione per la maggior parte è venuta meno. In quest'anno [Tacitus, Annal., lib. II, cap. 14. Suetonius in Claud., cap. 41.] ancora si credè Claudio d'immortalare il suo nome anche fra i grammatici, con aggiugnere tre lettere all'alfabeto latino. Una delle quali fu F scritto al rovescio per significare l'V consonante. Ma dopo la sua morte morirono ancora le da lui inventate lettere. Furono in quest'anno rivoluzioni in oriente. Essendo stato ucciso Artabano re dei Parti, disputarono del regno coll'armi in mano due suoi figliuoli. Prese Claudio questa occasione per inviar Mitridate fratello di Farasmane re dell'Iberia a ricuperare il regno dell'Armenia, già occupato dai Parti. Ed [170] egli in fatti se ne impadronì, e vi si sostenne col braccio de' Romani. Nè fu senza moti di guerra la Germania. Essendo morto Sanquinio, che comandava l'armi romane nella Germania bassa, in suo luogo fu inviato Gneo Domizio Corbulone, che riuscì dipoi il più valente capitano che allora si avesse Roma. Innanzi ch'egli arrivasse colà, i Cauci aveano fatte delle scorrerie nei lidi della Gallia. Subito che Corbulone fu alla testa delle legioni, soggiogò essi Cauci; fece tornare all'ubbidienza i popoli della Frisia, che s'erano ribellati alcuni anni prima: rimise fra le truppe romane con gran rigore l'antica disciplina. Era per far maggiori imprese, se il pauroso Claudio Augusto non gli avesse scritto di ripassare il Reno, e di lasciar in pace i Barbari. Ubbidì Corbulone, ma con esclamare: Felici gli antichi generali! Claudio a lui concedè poi gli ornamenti trionfali. Venuto anche a Roma Aulo Plauzio, il quale s'era segnalato nella guerra della Bretagna, accordò a lui pure l'onore dell'ovazione, che così chiamavano il picciolo trionfo. Già s'era cominciato a riserbare il vero trionfo ai soli imperadori, perchè soli essi erano i generalissimi dell'armi romane, e a loro si attribuiva l'onor di qualunque vittoria che fosse riportata dai subalterni.
Anno di | Cristo XLVIII. Indizione VI. |
Pietro Apostolo papa 20. | |
Tiberio Claudio, figlio di Druso imperadore 8. |
Consoli
Aulo Vitellio e Quinto Vipsanio Poblicola.
Il primo di questi consoli fu poscia imperadore. Per attestato di Svetonio [Sueton., in Vitellio, cap. 3.] ad esso Aulo Vitellio nelle calende di luglio venne sostituito Lucio Vitellio suo fratello: tanto poteva nella corte di allora Lucio Vitellio lor padre, il re degli [171] adulatori. Trattossi nell'anno presente in senato [Tacitus, Annal., lib. II, cap 23.] di crear dei nuovi senatori in luogo dei defunti, e seguì molta disputa, perchè i popoli della Gallia Comata dimandavano di poter anch'essi concorrere a tutte le dignità e agli onori della repubblica romana. Fu contraddetto da non pochi; ma prevalse il parere di Claudio, che, addotto l'esempio de' maggiori, sostenne non doversi negar la grazia, perchè ridondava in pubblico bene, e in accrescimento di Roma. Come censore fece Claudio ancora alcune buone ordinazioni, e fra l'altre spurgò il senato di alcune persone di cattivo nome, e ciò con buona maniera: perciocchè sotto mano lasciò intendere a que' tali, che se avessero chiesta licenza di ritirarsi, l'avrebbono conseguita. Propose il console Vipsanio, che si desse a Claudio il titolo di Padre del senato. Claudio, conosciuto che questo era un trovato dell'adulazione, lo rifiutò. Fu fatto in quest'anno da esso Augusto parimente, come censore, e dal vecchio Lucio Vitellio suo collega, il lustro, cioè la descrizione di tutti i cittadini romani: il che non vuol già dire degli abitanti in Roma, perchè tanti forestieri venuti a quella gran città non erano tutti per questo cittadini di Roma, e molto meno tante e tante migliaia di servi, cioè schiavi che servivano allora in Roma ai benestanti. Niuno degli antichi scrittori ci ha lasciato il conto di quante anime allora vivessero in Roma; città, che in que' tempi forse di non poco superava le moderne di Parigi e di Londra. Un'iscrizione che di ciò parla, merita d'essere creduta falsissima, siccome osservò Giusto Lipsio [Lipsius, in Notis ad Tacit. lib. 40.]. Per cittadini dunque romani si intendevano tutte quelle persone libere, che godeano allora la cittadinanza romana sì in Roma, che nelle provincie; giacchè non per anche questo privilegio s'era dilatato a tutto l'imperio romano, come ne' tempi susseguenti avvenne. Di [172] tali cittadini si trovarono nella descrizion suddetta sei milioni e novecento e quarantaquattromila.
Giunta era all'eccesso l'impudicizia e la baldanza di Messalina moglie di Claudio Augusto. Volle ella nell'anno presente far un colpo, a credere il quale gran fatica si dura, non sapendosi capire come potesse arrivar tant'oltre la sfacciataggine di una donna e la balordaggine di un marito, e marito imperadore. Lo stesso Tacito confessa [Tacit., Annal., lib. 11, cap. 26.], che ciò parrà favoloso: tuttavia tanto egli, quanto Svetonio [Sueton., in Claudio, cap. 26.] e Dione [Dio, lib. 60.], ci dan per sicuro il fatto. Era impazzita questa rea femmina dietro a Cajo Silio, giovane, non men per la nobiltà che per la bellezza del corpo, riguardevole. Avea Claudio a disegnarlo console per l'anno prossimo. Nè bastandole di mantenere un indegno commercio con questo giovane, determinò in fine di contraere matrimonio con lui, benchè vivente Claudio, nè ripudiata da lui. Dicono, ch'essendo ito Claudio ad Ostia per affari della pubblica annona, ella fingendo qualche incomodo di sanità, si fermò in Roma, e con gran solennità fece stendere lo strumento del contratto, munito di tutte le clausole consuete, donando a Silio tutti i più preziosi arredi del palazzo imperiale, e compiendo la funzione coi sagrifizii e con un magnifico convito. Fu poi esposto [Tacitus, Annal., lib. 11, cap. 30.] a Claudio, che alla presenza del senato, del popolo e de' soldati tutto ciò era seguito. Ha dell'incredibile. Svetonio aggiugne, aver Messalina indotto lo stesso imperadore a sottoscrivere quell'atto, con fargli credere che fosse una burla, e ciò utile per allontanare un pericolo che a lui sovrastava, predetto dagl'indovini, e per farlo ricadere sopra Silio, finto imperadore. Sì lontana da ogni verisimile è questa partita, che patisce l'intelletto a crederla vera. Sarà [173] stata probabilmente una diceria del volgo, solito ad aggiugnere ai fatti veri delle false circostanze; nè Tacito ne parla. Comunque sia, un gran dire per questo sì sfoggiato ardimento fu per Roma tutta. Il solo Claudio nulla ne sapea, perchè attorniato dai liberti, tutti paurosi di disgustar Messalina, l'incorrere nella disgrazia di cui, e il perdere la vita, andavano bene spesso uniti. Tuttavia troppo facile era lo scorgere che Messalina, dopo aver fatto Silio suo marito, era dietro a farlo anche imperadore, con un totale sconvolgimento del pubblico e della corte, a cui terrebbe dietro infallibilmente la rovina ancora d'essi liberti, tanto favoriti da Claudio. Si aggiunse ancora, che avendo Messalina fatto morir Polibio [Dio, in Excerptis Valesianis.], uno de' più potenti fra essi nella corte, impararono gli altri a temere un'egual disavventura. Perciò Callisto, Pallante e Narciso, liberti i più poderosi degli altri nell'animo di Claudio, presero la risoluzione di aprire gli occhi all'ingannato Augusto. Ma non istettero saldi i due primi nel proposito, paventando, che se Messalina giugneva a parlare una sola volta a Claudio, saprebbe inorpellar sì bene il fatto, che sfumerebbe in lui tutto lo sdegno. Narciso solo stette costante, nè attentandosi egli a muoverne il primo parola, fece che alcune puttanelle di Claudio gli rivelassero non solamente la presente infamia, ma ancora la storia di tutti i precedenti scandali originati dalla trabbocchevol libidine e crudeltà di Messalina. Attonito Claudio fa tosto chiamar Narciso, il quale chiesto perdono in prima, e addotte le cagioni del silenzio finora osservato, conferma il fallo, e rivela altri complici della disonestà di Messalina. Turranio presidente dell'annona, e Lusio Geta prefetto del pretorio chiamati anch'essi attestano il medesimo, con rappresentare e caricare il pericolo di perdere vita ed imperio, imminente a Claudio per gli ambiziosi disegni di Silio e di Messalina, e il bisogno di [174] provvedervi con mano forte, senz'ascoltar discolpe e parole lusinghiere della traditrice consorte. Rimase sì sbalordito Claudio, che andava di tanto in tanto dimandando, s'egli era più imperadore, se Silio menava tuttavia vita privata.
Era il mese d'ottobre, e fu veduta Messalina più gaia del solito divertirsi alle feste di Bacco [Tacitus, lib. II, cap. 31.], che si faceano per le vendemmie, prendendo essa la figura di Baccante, e Silio quella di Bacco. Quand'ecco di qua e di là giugnere a Roma l'avviso, essere Claudio consapevole di tutte le sue vergogne, e venire a Roma per farne vendetta. Il colpo di riserva, su cui riponeva le sue speranze Messalina, era quello di poter parlare a Claudio, fidandosi, che, come tant'altre volte era accaduto, ora ancora placherebbe l'insensato marito. Ma questo appunto era quello, da cui l'accorto Narciso volea tener lontano il padrone: al qual fine impetrò di avere per quel giorno il comando delle guardie, rappresentando la dubbiosa fede di Lusio Geta; ed insieme ottenne di venir anch'egli in carrozza coll'imperadore a Roma. Nella stessa venivano ancora Lucio Vitellio e Publio Cecina Largo, senza mai articolar parola nè in favore nè contra di Messalina, perchè non si fidavano dell'animo troppo instabile e debole di Claudio. Intanto Messalina, presi seco Britannico ed Ottavia suoi figliuoli, e Vibidia, la più anziana delle Vestali, ed accompagnata da tre persone, perchè gli altri se ne guardarono, s'inviò a piedi fuor della porta d'Ostia, e salita poi in una vilissima carretta, trovata ivi per avventura, andò incontro al marito, non compatita da alcuno. Allorchè arrivò Claudio, cominciò a gridare, che ascoltasse chi era madre di Britannico e d'Ottavia; e Narciso intanto facea marciar la carrozza, strepitando anche egli con esagerar l'insolenza di Silio e di Messalina, e con rimettere sotto gli occhi di Claudio lo strumento nuziale. [175] Nell'intrare in Roma si vollero affacciare alla carrozza Britannico ed Ottavia; ordinò Narciso alle guardie che li tenessero lontani; ma per la venerazione e per gli privilegi che godeano le Vestali, non potè impedir Vibidia dall'accostarsi, e dal far grande istanza, che contra di Messalina non si procedesse a condanna senza prima ascoltarla. Così promise Claudio. Accortamente Narciso condusse a dirittura l'imperadore alla casa di Silio, e fecegli osservar le preziose masserizie della corte portate colà: vista che svegliò pur del fuoco in quel freddo petto. Indi così caldo il menò al quartiere de' pretoriani, istruiti prima di quel che aveano a dire. Poche parole potè proferir Claudio, confuso tra il timore e la vergogna; ed alzossi allora un grido dei soldati che dimandavano il nome e il gastigo dei rei. Silio fu il primo che sofferì con coraggio la morte, poi Vettio Valente, Pompeo Urbico, ed altri nobili, tutti macchiati nelle impudicizie di Messalina. Mnestore il commediante, con ricordare a Claudio d'aver ubbidito ai di lui comandamenti, intenerì sì fattamente il buon Claudio, che fu vicino a perdonargli; ma i liberti gli fecero mutar sentimento. Solamente Suilio Cesonino e Plautio Laterano la scapparono netta, l'ultimo per gli meriti di Aulo Plautio suo zio. Intanto Messalina, ritiratasi negli orti di Lucullo, fra la speranza e l'ira, si pensava pure di poter superare la burrasca; e non ne fu lontana. Claudio arrivato al palazzo con gran quiete si mise a tavola, ed allorchè si sentì ben riscaldato dal vino, diede ordine che s'avvisasse Messalina di venire nel seguente dì, che l'avrebbe ascoltata. Si credette allora perduto Narciso; però fatto coraggio, e levatosi da tavola, come per dar l'ordine suddetto, da disperato ne diede un tutto diverso al centurione e al tribuno di guardia, dicendo loro, che immediatamente si portassero ad uccidere Messalina, perchè tale era la volontà dell'imperadore. La trovarono eglino stesa [176] in terra, ed assistita da Lepida sua madre, che l'andava esortando a prevenir colle sue mani gli esecutori della giustizia. All'arrivo di essi si diede ella in fatti alcuni colpi, ma con mano tremante; più sicura fu quella del tribuno, che la finì. Portata incontanente la nuova a Claudio, che Messalina era morta, lo stupido senza informarsi, se per mano propria o d'altrui, dimandò da bere, e con tranquillità compiè il convito. Ne' seguenti giorni non si mirò in lui nè ira, nè odio, nè allegrezza, nè tristezza, ancorchè osservasse l'ilarità di Narciso e degli altri accusatori, e il volto afflitto de' figliuoli. A farlo maggiormente dimenticar di Messalina, servì l'attenzione del senato; perchè per ordine suo furono levate le di lei immagini tanto dai pubblici che dai privati luoghi. Narciso, in ricompensa delle sue fatiche, da esso senato fu promosso all'ordine de' questori.
Anno di | Cristo XLIX. Indizione VII. |
Pietro Apostolo papa 21. | |
Tiberio Claudio, figlio di Druso, imperadore 9. |
Consoli
Aulo Pompeo Longino e Gallo Quinto Veranio.
S'è dubitato, se il primo de' consoli portasse il cognome di Longino o Longiniano. In un frammento di marmo [Thesaurus Novus Inscription., p. 304.], esistente oggidì nel museo del Campidoglio, si legge Q. VERANIO, A. POMPEIO GALLO COS. E però non Cajo, come s'è creduto finquì, ma sarà stato Aulo il di lui prenome. A questi consoli ordinari circa le calende di maggio fondatamente si credono succeduti Lucio Memmio Pollione e Quinto Allio Massimo. Rimasto vedovo Claudio Augusto, si credette che non passerebbe ad altre nozze [Sueton., in Claudio, cap. 26.]; e tanto più perchè egli protestò ai soldati del pretorio di non voler più moglie, [177] dacchè tanta sfortuna avea provato nei precedenti, matrimonii; e che se facesse altrimenti, si contentava d'essere scannato dalle loro mani. Ma andò presto in fumo questo suo proponimento. Tutte le più nobili dame romane si misero in arnese, per espugnar questa debil rocca, mettendo in mostra tutte le lor bellezze naturali ed artificiali, e adoperando quanti lacci sa inventare la loro scuola, sapendo per altro come egli fosse alieno dalla continenza [Sueton., in Claudio, cap. 33.]. Tenevano il primato tre fra le altre, cioè Lollia Paolina, figliuola di Marco Lollio già stato console, e per lei facea di caldi uffizii Callisto, uno dei liberti favoriti di Claudio. La seconda era Elia Petina della famiglia de' Tuberoni, figliuola di Sesto Elio Peto già console, stata già moglie del medesimo Claudio [Idem, cap. 26.] prima dell'imperio, e da lui ripudiata per lieve cagione. Perorava per questa Narciso, altro potente liberto di corte, di cui già s'è parlato. La terza fu Giulia Agrippina, figliuola di Germanico suo fratello, già cacciata in esilio da Caligola per la sua mala vita, e perseguitata in addietro da Messalina. A promuovere gl'interessi di lei si sbracciò forte Pallante, liberto anch'esso di gran possanza nel cuore di Claudio. E questa in fine vinse il pallio. Benchè fosse stata maritata due volte; cioè più di vent'anni prima a Gneo Domizio Enobarbo, a cui partorì Lucio Domizio Enobarbo, che vedremo imperadore col nome di Nerone; e poscia a Crispo Passieno, ch'ella fece morire, per non tardar a godere l'eredità da lui lasciatale; e benchè ella avesse passati gli anni della gioventù, pure era assai fresca, e sosteneva il credito d'esser bella, possedendo anche a maraviglia l'arte degl'intrighi e delle lusinghe femminili. A cagion della stretta parentela, essendo Claudio suo zio paterno, godeva ella il privilegio di visitarlo spesso ed assai confidentemente. Questo bastò per farlo cader nella pania, [178] di maniera che fino dall'anno precedente furono concertate fra loro le nozze ed eseguite poi nel presente. In mani peggiori non potea capitar Claudio, perchè in questa donna non si sa qual fosse maggiore o la fierezza o la superbia o l'avarizia. Pure la sua passion dominante e superiore all'altre era l'ambizione, per cui avrebbe sagrificato tutto. Scrive Dione [Dio, lib. 60.], esserle stato predetto un giorno da uno strologo, che suo figliuolo Nerone sarebbe imperadore, ma ch'egli stesso l'ucciderebbe. Non importa, rispose ella, mi uccida, purchè regni. In fatti, fin d'allora si diede ella a cercar le vie di accasar Lucio Domizio Enobarbo suo figliuolo (che fu poi Nerone), nato sul fine dell'anno 37 dell'Era nostra, con Ottavia figliuola di esso Claudio Augusto. Perchè tra questa principessa e Lucio Silano erano seguiti gli sponsali alcuni anni prima [Tacitus, lib. 12, cap. 4.], bisognò pensare alla maniera di levar un tale ostacolo con ricorrere alla calunnia, giacchè Silano per l'incorrotta sua vita era esente da veri delitti. Lucio Vitellio console fu l'iniquo mezzano della di lui rovina, con far credere a Claudio, che fra Silano e Giunia Calvina sua sorella passassero intrinsichezze nefande. Perciò Silano, che nulla sapea di questo, vide sè stesso tutto ad un tempo balzato dal grado di senatore, obbligato inoltre a rinunziar la pretura, e rotto il suo maritaggio con Ottavia. Questa fu la prima prodezza di Agrippina, e non era per anche moglie di Claudio.
Ma Claudio, benchè ardente di voglia di effettuar questo matrimonio, tuttavia non osava, perchè presso i Romani non era lecito, non che in uso, che uno zio sposasse una nipote. Prese ancor qui l'assunto di provvedere al bisogno quel gran faccendiere di Lucio Vitellio; ne parlò egli con energia al senato; e i senatori, schiavi d'ogni volere del principe, decretarono la validità di un tal contratto. Celebraronsi dunque le nozze, e in [179] quello stesso di Lucio Silano, stato genero di Claudio, si diede la morte da sè stesso. Entrata nell'imperial palazzo Agrippina, poca pena ebbe a rendersi padrona dello scimunito consorte e de' pubblici affari, con voler anch'ella, al pari di Claudio, essere ossequiata dal senato, dai principi stranieri e dagli ambasciadori. Cominciò ad ammassar della roba, senza perdonare a sordidezza alcuna, tirando colle lusinghe alcuni a dichiararla erede, ed atterrando altri con calunnie, per occupare i lor beni. Promosse gli sponsali del giovinetto Lucio Domizio suo figliuolo, già pervenuto all'età di dodici anni, colla suddetta Ottavia figliuola di Claudio, a cui questa alleanza fu il primo gradino per salire al trono imperiale. Fece parimente richiamare a Roma dall'esilio della Corsica Lucio Anneo Seneca, insigne filosofo stoico, e il diede per precettore al figliuolo, sperando di farne una cima d'uomo, e un mirabil imperadore, giacchè a questo bersaglio tendevano le principali sue mire. Impetrò anche la pretura pel medesimo Seneca. Appresso rivolse Agrippina lo spirito vendicativo contro a Lollia Paolina, che seco avea gareggiato pel matrimonio di Claudio. Fecesi comparire, che avesse interrogati strologhi e l'oracolo di Apollo di Clario, in pregiudizio dell'imperadore; questi perciò, senza lasciarle agio per le difese, la cacciò in esilio fuori d'Italia, e confiscò la maggior parte del suo ricchissimo patrimonio. Mandò Agrippina dipoi anche a levarle la vita; e fece appresso bandire Calpurnia, illustre donna, solo perchè accidentalmente a Claudio era scappato di bocca che era bella. Accrebbe Claudio in quest'anno il pomerio, o sia il circondario delle mura di Roma: il che era riputato di singolar gloria. Alle preghiere de' Parti mandò loro per re Meerdate di quella nazione, che poca fortuna provò per sè e svergognò i Romani. Nella Tracia furono guerre tali nondimeno, che io mi dispenso dal riferirle, perchè di niun momento [180] per la storia presente. Se crediamo ad Orosio [Orosius, in Histor.], seguì in quest'anno l'editto di Claudio, che tutti i Giudei uscissero di Roma, del che parla san Luca negli Atti degli Apostoli [Actus Apostolor., c. 18, vers. 2.]. Prodigiosa era la quantità d'essi in quella gran città. Orosio cita Giuseppe ebreo per testimonio di tal fatto all'anno presente; ma nei testi di Giuseppe ebreo oggidì non si trova un tal passo. Per altro è certo il fatto, asserendolo ancora Svetonio [Sueton., in Claudio, cap. 25.] con dire di Claudio: Judaeos, impulsore Chresto (così egli nomina il divino Salvator nostro) assidue tumultuantes Roma expulit. Sotto nome de' Giudei erano allora compresi anche i Cristiani; e forse i Giudei, perseguitando i Cristiani, svegliavano que' tumulti.
Anno di | Cristo L. Indizione VIII. |
Pietro Apostolo papa 22. | |
Tiberio Claudio, figlio di Druso, imperadore 10. |
Consoli
Cajo Antistio Vetere, o sia Vecchio, e Marco Suillio Nervilino.
Ho scritto Nervilino, e non già Nerviliano, come hanno altri, perchè il cognome di questo console si legge formato così in un insigne marmo del museo Capitolino, da monsignor Bianchini [Thesaur. Nov. veter. Inscript., T. 1.], e da me [Thes. Nov. veter. Inscript., cap. 305.] ancora dato alla luce. Un altro gran passo fece in quest'anno Agrippina per innalzar sempre più il suo figliuolo Lucio Domizio Enobarbo [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 25. Dio, lib. 60.]. Tuttochè Claudio Augusto avesse un figliuolo maschio, cioè Britannico, che naturalmente avea da succedere a lui nell'imperio, il semplicione si lasciò indurre ad addottar per figliuolo anche il medesimo Lucio Domizio, il quale, passato nella famiglia Claudia, cominciò ad [181] intitolarsi Nerone Claudio Cesare Druso Germanico, come apparisce dalle medaglie [Mediobarbus, Numism. Imp.] battute allora in onor suo. Il mezzano di questo affare, adoperato da Agrippina, fu Pallante, il più confidente che s'avesse Claudio; ed avendo allora Nerone due anni di più di Britannico, si vide la deformità d'aver egli adottivo la mano dal figliuolo legittimo e naturale dell'imperadore, ornati amendue del cognome cesareo. Nè già dimenticò sè stessa l'ambiziosa Agrippina. Non avea mai Claudio conceduta a Messalina il titolo d'Augusta. Lo volle ben ella, nè le fu difficile l'ottenerlo; sicome ancora nell'anno seguente volle l'onore d'entrar col carpento, o sia colla carrozza nei pubblici giuochi. Cresciuta ne' titoli Agrippina crebbe anche nell'autorità, e peggior divenne di Messalina, non già nell'impudicizia, perchè se questa non le mancò, fu almeno occulta, ma nelle rapine della roba altrui, e in procurar la morte a chi si tirava addosso il di lei sdegno, o lo meritava per essere ricco. Quanto ella era diligente a far ben educare e a produrre il suo figliuolo Nerone, altrettanto la scaltra donna si studiava di abbassare e di fare scomparire il figliastro suo, cioè Britannico Cesare. Sotto vari pretesti fece morire, e levare dal di lui fianco le persone che gli poteano inspirare de' sentimenti contrarii ai suoi; e fra gli altri [Dio, lib. 60.] v'andò la vita di Sosibio di lui maestro. Altre persone mise ella in lor luogo, tutte dipendenti dai suoi voleri, di modo che l'infelice principe era in certa guisa assediato e tenuto quasi come prigione, senza ch'egli potesse se non di rado vedere il padre Augusto. Faceva anche correr voce, che egli patisse di mal caduco e fosse scemo di cervello [Tacit., Annal., lib. 12, cap. 41.], quando si sapea che in quell'età di nove o dieci anni era forte di corpo e di spirito molto vivace. Un trattamento tale eccitava la compassione [182] in tutti, ma senza alcun profitto di lui. Nell'anno seguente Britannico, in salutar Nerone, disavvedutamente gli diede il nome di Domizio oppure di Enobarbo. Non si può dir che fracasso e querele facesse per questo in corte Agrippina. Volle essa inoltre la gloria di fondare una colonia che portasse il suo nome. A questo fine mandò alcune migliaia di veterani a piantarla nella città degli Ubii, che da lì innanzi prese il nome di Colonia Agrippina, città tuttavia delle più illustri e floride della Germania, che ritiene il nome di Colonia. Quivi era nata la medesima Agrippina, allorchè Germanico suo padre guerreggiò in quelle parti coi Germani. Riportò in quest'anno Publio Ostorio Scapula molti vantaggi contra de' popoli della Bretagna, e prese, non so se in questo o nel seguente anno, Carattaco, uno dei re o duci loro, colla moglie e co' figliuoli [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 32.]: per le quali imprese conseguì dal senato romano gli ornamenti trionfali, ma con goderne poco, perchè la morte il rapì da lì a non molto. Condotto a Roma Carattaco prigioniero, senza smarrirsi punto, parlò a Claudio da uomo forte: e Claudio restituì a lui e a tutti i suoi la libertà. Ammirava dipoi Carattaco la magnificenza di Roma, e dicea ai Romani, che non sapea capire, come avendo essi cotanti superbi palazzi ed agiate case, andassero poi a cercar le povere capanne de' Britanni. Camaloduno in quella grand'isola, città così denominata dal dio Camalo, fu scelta per condurvi una colonia di veterani, acciocchè servissero di baluardo contro i nemici e ribelli. Anche nella Germania superiore i Catti furono in armi, e fecero delle incursioni nel paese romano. Ma Lucio Pomponio Secondo, insigne poeta tragico, e governatore dell'armi in quelle parti, li mise in dovere, con aver anch'egli perciò meritati gli onori trionfali.
Anno di | Cristo LI. Indizione IX. |
Pietro Apostolo papa 23. | |
Tiberio Claudio, figlio di Druso, imperadore 11. |
Consoli
Tiberio Claudio Augusto per la quinta volta e Servio Cornelio Orfito.
Nelle calende di luglio ebbero questi consoli per successori nella dignità Cajo Minicio Fondano e Cajo Vettennio Severo; e all'uno di questi ultimi due nelle calende di novembre si crede che fosse sostituito Tito Flavio Vespasiano, il quale a suo tempo vedremo imperadore; ciò ricavandosi da Svetonio [Sueton., in Vesp., cap. 4.]. In questo medesimo anno a dì 24 d'ottobre ad esso Vespasiano nacque da Flavia Domitilla sua moglie Domiziano, che fu anch'egli imperadore. Benchè Nerone Cesare [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 41.] avesse solamente cominciato l'anno quattordicesimo di sua età, senz'aspettare di compierlo, come portava la legge e l'uso, per dispensa del senato adulatore, prese la toga virile, abilitato anche al consolato, subito che toccasse l'anno ventesimo: con che potea aver parte agli affari pubblici e agli onori. Venne anche dichiarato principe della gioventù, e gli fu conceduta la podestà proconsolare fuori di Roma: tutti gran passi all'imperio. All'importunità di Agrippina nulla si sapea negare nè da Claudio nè dal senato. Per tanti onori a lui conferiti volle la madre, che si desse alla plebe un congiario, a' soldati un donativo, e che si celebrassero i giuochi circensi, per procacciare con ciò l'amore del pubblico al figliuolo. Intanto il povero Britannico si facea allevare come figlio di un plebeo, e compariva nelle solennità delle funzioni tuttavia vestito da putto; laddove il fratellastro Nerone sfoggiava con abiti da imperadore: dal che ognuno argomentava, qual dovesse in fine essere [184] il destino di amendue. E perciocchè penetrò Agrippina, che alcuni centurioni e tribuni de' soldati pretoriani teneano discorsi di compassione per lo stato miserabile di Britannico, destramente li fece allontanare o li trasse a dimettere i gradi militari con darne loro dei civili più utili. Non si fidava ella di Lucio Geta, nè di Rufo Crispino, ch'erano prefetti del pretorio, o, vogliam dire, capitani delle guardie, perchè li credea parziali dell'estinta Messalina e dei di lei figliuoli. Picchiò tanto in capo a Claudio, con rappresentargli che in mano di due discordi uffiziali pativa non poco la disciplina militare ed essere meglio un solo, che l'indusse a creare un solo prefetto del pretorio; e questi fu Burro Afranio, uomo di molta sperienza nel militare, e creatura d'essa Agrippina. Tal dignità, massimamente conferita ad un solo, e durevole, era delle più cospicue e temute in Roma, e sempre più andò crescendo, dacchè i pretoriani cominciarono ad usurparsi colla forza il diritto d'eleggere gl'imperadori. Carestia si provò nell'anno presente in Roma, e il popolo affamato intronò di grida gli orecchi di Claudio [Sueton., in Claudio, cap. 18.], anzi, mosso un tumulto, se gli serrarono addosso nella pubblica piazza, gittandogli dei tozzi di pane, di modo ch'ebbe fatica a salvarsi per una porta segreta in palazzo, e convenne adoperare i soldati per isbandarli. Tuttavia non ne fece il freddo imperadore risentimento alcuno, nè vendetta; e solamente si applicò con gran cura a far venir grani da ogni parte, dando privilegi ai mercatanti e alle navi di trasporto.
Anno di | Cristo LII. Indizione X. |
Pietro Apostolo papa 24. | |
Tiberio Claudio, figliuolo di Druso, imperadore 12. |
Consoli
Publio Cornelio Sulla Fausto e Lucio Salvio Ottone Tiziano.
Avendo Ottone (poscia imperadore) un fratello per nome Lucio Tiziano, vien perciò tenuto questo console pel medesimo di lui fratello. Credono alcuni, che a questi consoli nelle calende di luglio succedessero Servilio Barca Serano, chiamato console disegnato da Tacito sotto quest'anno, e Marco Licinio Crasso Muciano; e che, cessando essi, nelle calende di novembre subentrassero in quella dignità Lucio Cornelio Sulla e Tito Flavio Sabino Vespasiano. Questo per congettura. E quando essi vogliano che Flavio Sabino fosse il fratello di Vespasiano (poscia imperadore) s'ha d'avvertire che Tacito e Svetonio ci danno ben a conoscere Sabino per prefetto di Roma, ma non già illustre per alcun consolato [Tacitus, Annal., cap. 52.]. Fu in quest'anno esiliato da Roma Furio Scriboniano, figliuolo di quel Camillo che si sollevò in Dalmazia contro di Claudio Augusto. Per atto di clemenza non avea Claudio nociuto al figlio; ma accusato egli ora di aver consultati gli strologi intorno alla vita dell'imperadore, per questo delitto si guadagnò il bando. Molto non campò di poi, rapito dir non si sa se da morte naturale o pur da veleno. Diede ciò occasione ad un rigoroso editto del senato contro gli strologi, con ordine di cacciarli d'Italia, non che da Roma. Tutto nondimeno indarno: per una porta uscivano, ritornavano per un'altra. Parimente fu pubblicata legge contra le donne libere, che sposassero schiavi. Se ciò facea la donna senza il consenso del padrone dello schiavo, diveniva anch'essa schiava; se col consenso, era [186] poi trattata come liberta. Videsi nell'anno presente, fin dove arrivasse la prepotenza dei liberti di corte, la melonaggine di Claudio e la viltà del senato. Perchè fu attribuito a Pallante, liberto il più favorito dall'imperadore, l'invenzione di questo ripiego, per frenar le donne, il senato a suggestion di Claudio, o pure, come vuol Plinio il vecchio, di Agrippina Augusta, il senato, dico, oltre a molte lodi del suo fedele attaccamento al principe, e delle sue grandi applicazioni pel ben pubblico, il pregò di accettare gli ornamenti della pretura, e la facoltà di portare l'anello d'oro, come faceano i cavalieri, e per giunta un regalo di trecento settantacinquemila scudi romani. Costui accettò gli onori, ma sdegnò di prendere il danaro, con vantarsene dipoi in un'iscrizione, e con dire ch'egli si contentava di vivere nell'antica sua povertà, quando di schiavo ch'egli fu, era giunto a posseder più milioni, ed è registrato dal vecchio Plinio fra gli uomini più ricchi del suo tempo. Plinio il giovane [Plinius, lib. 7, epistola 29.] da lì a molti anni, in leggendo quell'iscrizione e il vergognoso decreto fatto dal senato per costui, non se ne potea dar pace. Callisto e Narciso erano gli altri due liberti dominanti allora nella corte. Per le mani di Agrippina e di costoro passava tutto e di tutto si facea danaro. Si prendeano anche beffe del balordo loro padrone [Dio, lib. 60.]. Un dì mentre Claudio tenea ragione, comparvero alcuni della Bitinia ad accusar con molte grida Giunio Cilone, stato lor governatore, che avea venduta la giustizia per danari; nè intendendo ben Claudio, dimandò che volessero quegli uomini. Rispose Narciso: Rendono grazie per aver avuto Cilone al lor governo. Allora Claudio: Ebbene, l'abbiano per lor governatore anche due altri anni.
Alcuni tempi prima era venuta in mente a Claudio un'impresa che, se gli riusciva, sarebbe stata di gran gloria a [187] lui, e di pari utile al pubblico, cioè [Dio, lib. 60. Suetonius, in Claudio, cap. 20. Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 57.] di seccare il Lago Fucino, detto oggidì Lago di Celano nell'Abbruzzo, per mettere quelle terre a coltura, e difendere le circonvicine dalle inondazioni che andavano di dì in dì crescendo: fattura, per cui quei popoli Marsi avevano fatte più istanze ad Augusto, ma senza nulla ottenere. Vi si applicò con incredibil vigore Claudio, pensando di fare scolar quell'acque non già nel Tevere, come alcuno ha creduto, ma bensì nel fiume Liri o sia nel Garigliano. Plinio il vecchio [Plinius, lib. 36, cap. 15.] per un'opera maravigliosa ci descrive questo tentativo di Claudio, e di spesa infinita; imperciocchè per undici anni vi aveva egli impiegato continuamente circa trentamila lavoratori in far cavare e tagliare una montagna di tre miglia, di profondità incredibile, e condurre un canale lunghissimo da esso lago al fiume. Allorchè l'opera fu creduta compiuta, Claudio, acciocchè si conoscesse da ognuno la magnificenza della medesima, ordinò che si facesse prima un solennissimo combattimento navale sul medesimo lago. Raunati da varie parti dell'imperio diciannovemila uomini (se pur non v'ha difetto in quel numero) condannati a morte, li compartì in due squadre di navi colle lor armi, avendo disposto all'intorno in barche i pretoriani ed altre milizie, affinchè niuno scappasse. Tutte le ripe e le colline d'intorno erano coperte di gente accorsa allo spettacolo o per curiosità, o per corteggiare l'imperadore, che vi assistè con Agrippina [Sueton., in Claudio, cap. 21.], amendue superbamente vestiti. Sperando i destinati a combattere grazia, il salutarono, dicendo che andavano a morire, e non altra risposta ricevendo, se non che anch'egli salutava loro, non volevano più procedere alla battaglia. Tante esortazioni e minacce si fecero, che finalmente le nemiche [188] squadre l'una appellata la siciliana, l'altra la rodiana, si azzuffarono e combatterono da disperate. Molti furono i morti, più i feriti. Chi restò in vita ottenne poi grazia. Quindi passò la corte ad un magnifico convito, nel qual tempo si lasciò correre l'acqua del lago pel nuovo fabbricato canale; ma essa con tal empito corse, che fracassò in più luoghi le muraglie delle sponde, ed allagò talmente il territorio, che Claudio andò a pericolo d'annegarsi. Egli è pur di pochi il prevedere tutte le forze delle acque messe in moto. Altre simili burle da loro fatte ho io letto, ed anche veduto. Agrippina fece allora una gran lavata di capo a Narciso, imputandogli di non aver fatto assai forte il lavoro per risparmiare la spesa, e mettersi in saccoccia il danaro; e Narciso anch'egli rispose a lei per le rime con dei frizzi intorno alla di lei superbia, alle idee della sua ambizione. Aggiugne Tacito [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 57.], non essere stato quel canale sì basso da potere scolar le acque del lago troppo profondo nel mezzo. Ordinò nondimeno Claudio, che si rifacesse meglio il lavoro; ma per quanto si può dedurre da Plinio il vecchio, egli non campò tanto da vederlo compiuto. Nerone suo successore per invidia alla di lui gloria non si curò di perfezionarlo; e per quanto poi facessero Traiano e Adriano, il lago sussistè, e tuttavia sussiste. Un'altra maravigliosa impresa di Claudio Augusto fu l'aver egli condotto a fine l'acquidotto cominciato da Caligola, per cui furono introdotte in Roma le acque curzia e cerulea per quaranta miglia di viaggio [Plin., lib. 36, cap. 15.]; e ad una tale altezza, che arrivavano alla cima di tutti i colli di Roma, e in tanta abbondanza, che servivano ad ogni casa, alle peschiere, ai bagni, agli orti e ad ogni altro uso. Plinio il vecchio, descrivendo la grandiosità di quest'opera stupenda, ci assicura, che al veder tagliate montagne, riempiute valli, e tanti archi per condurre quella [189] gran copia d'acque, si conchiudeva, nulla esservi di sì mirabile in tutto il mondo, come quella fattura, la quale costò parecchi milioni. Tacito nota in questi tempi la prepotenza e l'arti cattive di Antonio Felice, chiamato Claudio Felice da Giuseppe Ebreo [Joseph., Antiq. Judaic., lib. 2.], liberto già d'Antonia e poi di Claudio Augusto, a cui esso imperadore avea dato il governo della Giudea. Quel medesimo egli è, che si legge negli Atti degli Apostoli aver tenuto per due anni in prigione san Paolo apostolo. Costui, oltre al godere un buon posto nel cuore di Claudio, avea anche per fratello Pallante, il più favorito, il più potente, il più ricco dei liberti di corte; e però a man salva commetteva in quel governo quante iniquità egli voleva senza timore che gliene venisse un processo. S'empiè allora la Giudea di ladri e di assassini, e tutto si andò disponendo alla ribellione che accenneremo a suo tempo.
Anno di | Cristo LIII. Indizione XI. |
Pietro Apostolo papa 25. | |
Tiberio Claudio, figliuolo di Druso imperadore 13. |
Consoli
Decimo Giunio Silano e Quinto Haterio Antonino.
Era giunto Nerone Cesare a quindici in sedici anni; anche Ottavia figliuola di Claudio Augusto all'età capace di matrimonio; e però in quest'anno si celebrarono le loro nozze. Così Tacito [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 58.]. Ma Svetonio [Sueton., in Nerone, cap. 7.] mette questo fatto due anni prima, allorchè Claudio era console, cioè nell'anno 54 dell'Era nostra, con avere allora Nerone celebrati i giuochi circensi, e la caccia delle fiere nell'anfiteatro per la salute del suocero imperadore. Anche Dione mette il di lui matrimonio prima del combattimento [190] navale sul lago Fucino. Però non è qui sicura la cronologia di Tacito. Affinchè questo giovine bestia facesse per tempo una bella comparsa nell'eloquenza, Agrippina sua madre, e Seneca il maestro, vollero ch'egli servisse da avvocato al popolo d'Ilio o sia di Troja, i cui ambasciadori chiedeano allora in senato l'esenzion dai tributi. Una bella orazione in greco, dettatagli senza fallo dal precettore [Sueton., in Nerone, cap. 8.], recitò Nerone, in cui ebbero luogo tutte le favole inventate dai Romani, cioè la loro origine da Troja e da Enea, spacciato dagli adulatori per propagatore della famiglia Giulia. Nulla si potè negare ad un sì facondo oratore, e a sì forti ragioni; però Tiberio, dopo avere anch'egli tirata fuori una lettera scritta in greco dal senato e popolo romano, in cui esibivano lega al re Seleuco, purchè egli concedesse ogni esenzione al popolo di Troja, parente de' Romani, conchiuse che non si dovea negar tal grazia ai Trojani; nè vi fu chi non concorresse nella medesima sentenza. Perchè i Romani, che componeano la colonia nella città di Bologna in Italia, erano ricorsi all'imperadore e al senato per aiuto a cagion di un incendio che avea devastato le lor case: parimente per loro fece da avvocato con una orazione latina il giovinetto Nerone, ed ottenne in lor soccorso la somma di dugento cinquanta mila scudi romani. Anche il popolo di Rodi supplicava per ricuperare la libertà, che dianzi dicemmo tolta loro dal medesimo Claudio. Per loro perorò Nerone in greco, ed impetrò tutto quanto desideravano. Concedè similmente Claudio per cinque anni l'esenzion dalle imposte a quei d'Apamea, rovinati da un tremuoto, e al popolo di Bisanzio, che si trovò troppo aggravato; e per tutti i tempi avvenire l'accordò dipoi al popolo di Coo. Statilio Tauro (non sappiamo se Marco o Tito) possedeva de' bei giardini. Agrippina gli amoreggiava [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 64.] anch'essa; [191] però dacchè fu ritornato dall'Africa, dove era stato proconsole, il fece accusare in senato da Tarquinio Prisco, con apporgli falsamente d'essersi mischiato in superstizioni di magia forse contro la vita di Claudio. S'impazientò egli cotanto per questa trappola, che datasi la morte colle proprie mani, prevenne la sentenza del senato.
Anno di | Cristo LIV. Indizione XII. |
Pietro Apostolo papa 26. | |
Nerone Claudio imperad. 1. |
Consoli
Marco Asinio Marcello e Manio Acilio Aviola.
Scrive Tacito [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 64.], che l'uno di questi consoli, sicome ancora un questore, un edile, un tribuno e un pretore, nello spazio di pochi mesi terminarono i lor giorni: accidente interpretato dai superstiziosi Romani per preludio di gravi disgrazie. Noi non sappiamo, nè qual dei consoli morisse, nè chi succedesse al defunto. All'ambiziosa Agrippina faceva ombra Domizia Lepida, donna ricchissima e di gran fasto, sorella del suo primo marito, cioè di Gneo Domizio Enobarbo, e parente d'Augusto, per via d'Antonia sua madre. Mirava Agrippina di mal occhio, che Lepida, oltre ad altri riguardi, si comperasse l'affetto del nipote Nerone con assai carezze e frequenti regali. Ella volea comandare al figliuolo, e però non istava bene in vita chi potea contrastarle un sì fatto imperio. Per attestato di Tacito non era meno impudica Lepida che si fosse Agrippina; tuttavia ella non fu per questo verso assalita. Le accuse che contra di lei inventò la malizia, furono d'aver fatti de' sortilegi per far morire essa Agrippina, oppure per diventar moglie dell'imperadore; e ch'ella non avesse frenata l'insolenza de' suoi servi, i quali, diceva ella, in Calabria turbavano la pace dell'Italia. [192] Fin lo stesso Nerone [Sueton., in Nerone, cap. 7.] fu sforzato dalla madre, donna fiera, a far testimonianza contro l'amata sua zia. In una parola, per sentenza del senato, Lepida perdè la vita, ancorchè Narciso, potente liberto di Claudio, vi si opponesse con tutte le sue forze. E probabilmente questo liberto, che osservando i disegni ambiziosi di Agrippina, si teneva perduto, se il di lei figliuolo fosse pervenuto all'imperio e perciò si dichiarava tutto in favor di Britannico, si servì di tal occasione per rivelare, a Claudio l'amicizia infame che passava tra Agrippina e Pallante, altro onnipotente liberto di corte. Promosse inoltre a tutto potere gl'interessi di Britannico presso il padre, con fargli insieme conoscere, quanto fosse indecente l'anteporre al proprio figliuolo un figliastro, e quali fossero le trame di Agrippina per questo [Idem, ibid., cap. 43.]. In fatti cominciarono a comparire alcuni segni ch'egli si fosse pentito [Dio, lib. 60.] d'aver presa per moglie Agrippina, e d'aver adottato il di lei figliuolo. Si faceva egli condurre più del solito innanzi il proprio figlio Britannico; l'abbracciava, e un dì fu udito dire, che con quella mano con cui l'avea ferito, il guarirebbe. Narciso, anch'egli consapevole della mutata inclinazion del padrone, animava Britannico, e gli facea gran festa intorno. Ad occhi aperti stava Agrippina. Ma dacchè seppe essere scappato detto un giorno a Claudio, che per suo destino egli avea dovuto avere solamente delle mogli impudiche, per poi punirle: non volle aspettar più, e si studiò di prevenirlo. Si sentiva poco bene di sanità Claudio, e sperando aiuto dall'aria e dall'acque di Sinuessa, colà si portò, per quanto scrive Tacito. Quivi fu che Agrippina, dopo aver allontanato Narciso con bella maniera, mandandolo in Campania, si fece preparar un potente veleno da una famosa fabbriciera d'essi, nominata Locusta, che servì gran tempo a [193] simili bisogni della corte. E sapendo, quanto il marito fosse ghiotto di boleti, ne acconciò uno al proposito, e gliel fece poi presentare dall'eunuco Haloto, solito a fare il saggio de' cibi del principe. Mangiò di que' boleti anche Agrippina, ma con lasciare il più bello al marito. Fu portato Claudio come ubbriaco (che questo gli accadeva spesso) dalla tavola al letto [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 67.]. Perchè parve che sciolto il ventre potesse sovvenire al rischio in cui egli si trovava, spaventata Agrippina ricorse a Senofonte medico di sua confidenza, il quale già preparata, col pretesto di svegliargli il vomito, una penna tinta d'altro fiero veleno gliela immerse nella gola. La notte egli perdè i sentimenti, e verso il far del giorno del dì 13 d'ottobre spirò. Abbiamo da Svetonio [Sueton., in Claud., cap. 43.], che in diverse maniere si contò questo fatto: comunemente nondimeno essersi detto e creduto ch'egli morisse di veleno. Incerto è anche il luogo, e sembra piuttosto ch'egli morisse in Roma. Lo stesso storico quegli è che cel dà morto nel dì 13 del suddetto mese, e con lui va d'accordo Dione. Ma pare che Tacito lo supponga prima; perciocchè si tenne (e sembra non delle sole ore) celata la di lui morte, e però potè succedere prima di quel giorno. In Roma si faceano intanto preghiere agli dii per la di lui salute. Agrippina chiamò i commedianti, quasi che li desiderasse Claudio per divertirsi, e spesso facea spargere voce che il di lui incomodo andava di bene in meglio. Tutto ciò per dar tempo a disporre le cose per far succedere Nerone. Ella inoltre si mostrava spasimante di dolore pel marito, e piena di tenerezza per Britannico e per le sorelle di lui, Antonia ed Ottavia, e trattenevali tutti, affinchè non uscissero della loro stanza, con aver anche messe guardie dappertutto.
Preparato ciò che occorreva, sul mezzogiorno del suddetto dì 13 di ottobre [194] si spalancarono [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 69.] le porte del palazzo, e ne uscì Nerone, accompagnato da Burro prefetto del pretorio, che andava ben d'accordo con Agrippina, siccome sua creatura. Fu presentato al corpo di guardia e ricevuto con acclamazioni: indi entrato in lettiga, non senza maraviglia di molti al non veder seco Britannico, fu condotto al quartiere dei pretoriani in Roma, senza che apparisca da Tacito, il quale fa morto Claudio a Sinuessa, alcun lungo viaggio, per venire da quella alla gran città. Dappoichè Nerone ebbe parlato ai pretoriani, e promesso loro un donativo, non inferiore al ricevuto da Claudio, fu acclamato da tutti per imperadore. Non tardò molto a far lo stesso il senato, perchè privo di maniere da resistere ai voleri e alla forza della milizia, già entrata in possesso di far essa gl'imperadori. Furono poi decretati a Claudio i medesimi onori che si praticarono alla morte d'Augusto, con deificarlo, e fargli un solennissimo funerale, in cui Agrippina gareggiò nella magnificenza con Livia Augusta sua bisavola [Sueton., in Claud., c. 45, et in Vespas., c. 9.]. Aveva ella anche cominciato un sontuoso tempio alla memoria del Divo Claudio; ma l'invidioso Nerone lo lasciò poi andare a terra, o lo distrusse per la maggior parte. Fu poi rifatto e compiuto da Vespasiano per gratitudine ad un imperadore che l'avea beneficato. Ed ecco come finì sua vita Claudio, principe annoverato fra i partecipanti del buono e del cattivo, di cuore inclinato alla giustizia, alla clemenza e alla munificenza, e che fece molte azioni da principe ottimo; ma di testa troppo debole, per cui lasciandosi governare da mogli scellerate e da liberti iniquissimi, per gli consigli ed inganni di essi tante altre azioni operò obbrobriose o ridicole. Gallione fratello di Seneca il derise morto, con dire, ch'egli veramente era salito al cielo [Dio, lib. 60.], ma tirato con un uncino, come [195] si faceva ai giustiziati che venivano strascinati dal boia al Tevere. Lodava anche i boleti, perchè divenuti cibi degli dii. Lo stesso Lucio Anneo Seneca, siccome maltrattato da lui, se ne vendicò anch'egli con una satira che tuttavia sussiste, rappresentandolo portato al cielo, ma poi cacciato di là e mandato all'inferno, con essere riconosciuto in entrambi que' luoghi per uno scimunito e per una bestia. L'orazione funebre [Tacit., Annal., lib. 13, c. 3.] composta dal medesimo Seneca in onore di Claudio, fu recitata da Nerone. Era elegantissima; ma allorchè si udì esaltare la provvidenza e sapienza del defunto principe, niuno vi fu che potesse trattenersi dal sogghignare, forse non prevedendo chi si ridea di Claudio, che avea poi da piangere del suo successore, sentina di crudeltà e di vizii. Non fu letto in senato il testamento di Claudio, perchè verisimilmente non volle Agrippina che Britannico a Nerone in esso comparisse anteposto. Comandano i principi quel che vogliono in vita; morti, quel solo che piace al loro successore. Solamente sotto quest'anno il padre Antonio Pagi [Pagius, in Critica Baroniana.] comincia l'anno primo del pontificato di san Pietro, perchè sostiene ch'egli solamente ora venisse a Roma. Trattandosi di punti assai tenebrosi e controversi di storia, si attenga ognuno a quella opinione che più gli aggrada.
Anno di | Cristo LV. Indizione XIII. |
Pietro Apostolo papa 27. | |
Nerone Claudio imperad. 2. |
Consoli
Nerone Claudio Augusto e Lucio Antistio Vetere o sia Vecchio.
Benchè non fosse Nerone per anche pervenuto all'età stabilita dalle leggi per esser console, non avendo più di diecisette anni, tuttavia siccome superiore alle leggi, e per onorare i principii del [196] suo governo, prese il consolato. Per testimonianza di Svetonio [Sueton., in Nerone.] lo tenne solamente due mesi. Chi succedesse a lui nelle calende di marzo, non si sa. V'ha chi crede Pompeo Paolino, perchè da lì a due anni si trova proconsole della Germania. Diede l'ambiziosa Agrippina principio al governo del figliuolo Nerone con levar di vita Giunio Silano, allora proconsole dell'Asia. Parte per gelosia, perchè fu detto dal popolazzo, ch'egli per via di femmine discendente dalla casa di Augusto potea aspirare all'imperio, e più proprio anche sarebbe stato che il giovinetto Nerone; parte ancora per timore, ch'egli volesse vendicar la morte ingiustamente data a Lucio Silano suo fratello, benchè pericolo non vi fosse, perchè egli era un dappoco, e Caligola perciò il solea chiamare la pecora ricca. Si trovarono persone che seppero dargli il veleno, ed egli se ne andò, senza che Nerone ne penetrasse la trama. Da gran tempo era in disgrazia di essa Agrippina Narciso, liberto e segretario di Claudio Augusto, perchè parzialissimo di Britannico, e perchè a lei stato contrario in molte occorrenze. Aveva egli ammassato delle immense ricchezze, e potendo tutto sopra il padrone, le intere città e gli stessi re, chiunque avea bisogno del principe, il corteggiavano e gli faceano de' regali. Era per altro fedele a Claudio, e vegliava per la di lui conservazione. S'egli si fosse trovato alla corte, non avrebbe osato Agrippina di tradir il marito, o pur sarebbono seguiti differentemente gli affari; ma Agrippina, siccome accennai, seppe bene staccarlo da lui; e poscia [Dio, lib. 62.] cacciatalo in dura prigione, il fece ammazzare, o il ridusse ad ammazzarsi da sè medesimo, ed anche contro il voler di Nerone, che l'amava per la somiglianza de' costumi, essendo egualmente anch'egli più avaro che prodigo. Si metteva Agrippina in istato d'altri simili prepotenze e crudeltà, se Afranio [197] Burro, prefetto del pretorio, ed uomo di costumi saggi e severi, e Seneca maestro di Nerone, non men dell'altro tendente al buono, divenuti amendue principali ministri ed arbitri della corte, non l'avessero tenuta in freno. Andavano d'accordo questi due ministri, e perchè desiderosi erano del buon governo, abolirono sul principio varii abusi, e fecero molti buoni regolamenti. Ad Agrippina accordarono in apparenza quante distinzioni d'onore ella seppe richiedere. Dava ella le udienze ai magistrati, agli ambasciatori, anche senza il figliuolo. Con esso usciva in lettiga; più spesso sel facea tener dietro. Ella scriveva ai popoli e ai re; ella dava il nome alle guardie. Ma a poco a poco i due ministri andarono restringendo la di lei autorità, facendole conoscere che chimerico era il di lei disegno di far da padrona assoluta.
Per conto di Nerone ognun d'essi si studiava di portarlo all'amore e alla pratica delle virtù; ma perchè aveano che fare con un giovinastro vivace, capriccioso, vago solamente di divertimenti e piaceri, e non già di logorarsi il capo nell'applicazione al governo, gli permetteano di sollazzarsi con altri giovani di suo genio in canti, suoni e conviti, e in qualche altra pericolosa libertà di più, sperando ch'egli crescendo in età, e sfogati que' primi bollori di gioventù, prenderebbe miglior cammino. Ma, siccome osserva Dione, non badarono che il lasciar così la briglia ad un giovane, era un aprirgli la strada a divenire uno scapestrato, perchè un vizio chiama l'altro, e formato il mal abito, andando innanzi, sempre più cresce e si rinforza, massimamente in chi può ciò che vuole. Per altro sul principio non nocevano punto al buon governo i suoi divertimenti, lasciando egli operare ai due suoi saggi ministri, i quali finchè ebbero possanza, sempre mantennero la giustizia e il buon ordine con plauso del popolo. Portatosi Nerone ne' primi giorni in senato, parlò così acconciamente della maniera ch'egli [198] pensava di tener nel governo, che innamorò tutti. Seneca gli avea messo in iscritto quegli avvertimenti. Non voleva egli essere il giudice di tutti gli affari; l'autorità del senato dovea esercitarsi liberamente, come ne' vecchi tempi. Non più s'aveano da vendere gli uffizii. Tutto camminerebbe sulle pedate di Augusto. E così ragionando d'altri buoni regolamenti, piacque cotanto la sua orazione, che fu ordinato d'intagliarla in una colonna d'argento, e di rinnovarne la lettura in ogni primo dì dell'anno. In fatti, anche il senato animato da tali parole fece di molti utili decreti in così bella aurora. Disobbligò fra l'altre cose i questori dal fare ogni anno il troppo dispendioso giuoco de' gladiatori, benchè non senza gravi richiami d'Agrippina, la quale fatti venire i senatori al palazzo, dietro ad una portiera ascoltava tutto, e disse che questo era un distruggere gli editti del defunto Claudio. E perciocchè ella volea pur seguitare a comparir sul trono col figliuolo, per dar le pubbliche udienze, Burro e Seneca la finirono, in occasione che i legati dell'Armenia si presentarono al senato. Era assiso Nerone sul trono ascoltando le loro dimande, quando arriva Agrippina, per fare anch'ella la sua comparsa padronale su quel medesimo trono. Allora Nerone, ammaestrato prima da Seneca, discende come per andare incontro alla madre, e trovato un pretesto per rimettere ad un altro dì l'ascoltare gli ambasciatori, diede fine al concistoro, senza che quei forestieri s'accorgessero che Agrippina voleva tuttavia menare il figliuolo grande per le maniche del sajo. Così a poco a poco la disviarono dal far quelle ambiziose comparse con vergogna del figlio. Diede [Tacitus, Annal., l. 13, cap. 7.] Nerone in quest'anno l'Armenia Minore ad Aristobolo di nazione giudaica, e a Soemo la provincia di Sofene, dichiarandoli re amendue. Spedì ordini pressanti ad Agrippa re di una parte della Giudea, e ad Antioco re di Comagene, [199] di unirsi coi Romani per far guerra ai Parti, acciocchè battuti dalla parte della Mesopotamia, uscissero dell'Armenia. Ne uscirono in fatti per le discordie insorte fra Vologeso re d'essi Parti e Vardane suo figliuolo. Portate a Roma cotali nuove, ed ingrandite, mossero il senato adulatore a decretar la veste trionfale a Nerone, ed anche l'ovazione. A Domizio Corbulone fu dato il governo, o pur la cura degli affari dell'Armenia Maggiore: cosa applaudita dai Romani. Il credito di questo generale, non meno che gli uffizii di Cajo Ummidio Durmio Quadrato governatore della Siria, indussero Vologeso a dimandar la pace e a dar degli ostaggi. Segni ancora di clemenza diede Nerone nel non volere che fossero ammesse le accuse contra di un senatore e di un cavaliere.
Tutto il finquì narrato appartiene in parte al precedente anno. Nel presente si cominciarono ad imbrogliar le scritture fra Agrippina e il figliuolo. Erasi Nerone già incapricciato di una giovine, appellata Atte, di bassa sfera, perchè stata schiava, ed allora liberta. Gli tenevano mano due de' suoi compagni negli spassi, cioè Marco Salvio Ottone, che fu poi imperadore, e Senecione. L'amore ch'egli dovea ad Ottavia sua moglie, principessa per avvenenza e saviezza meritevole di ogni lode, si era tutto rivolto verso questa ignobil giovinetta, essendosi fin detto che gli corse più volte per mente di sposarla. Mostravano di non saper questo suo sviluppo i due primi ministri per paura, che se gli si contrastava questo amoreggiamento, da cui non veniva ingiuria ad alcuno, egli si volgesse alle case de' nobili. Ma Agrippina non sì tosto se n'avvide, che diede nelle smanie, e gli fece più e più bravate. Tuttavia accorgendosi a null'altro servire questa sua severità, che ad accendere maggiormente le disoneste fiamme di Nerone, mutò batteria, e si studiò di guadagnarlo colle buone, e con profusion di regali e fin con esibizioni che non son da dire; [200] e tuttochè raccontate da Tacito e da Dione, han tutta la ciera di calunnie, facili, quando si vuol male alle persone. Nerone all'incontro, scelte le più belle gioie e masserizie del palazzo, le inviò in dono alla madre, la quale se ne offese, per voler egli far seco da liberale con quella roba che tutta egli dovea riconoscer da lei. Qui non si fermò Nerone. Levò il maneggio delle rendite del pubblico a Pallante, liberto il più confidente (e forse troppo) che s'avesse la madre, per abbassar sempre più la di lei superbia. Per questo andò nelle furie Agrippina, nè potè contenersi dal dire un dì al figliuolo, che giacchè vivea Britannico, ella ne saprebbe anche fare un imperadore. Anzi, secondo Dione [Dio, lib. 6.], gli ricordò in tal maniera d'averlo fatto imperadore, che parve volesse dire che era anche capace di disfarlo. Queste parole della superba donna incautamente proferite, furono la sentenza di morte dell'infelice Britannico, giovinetto di molta espettazione, amato da ognuno, che già toccava il quindicesimo anno dell'età sua. Nerone il fece avvelenare da Giunio Pollione tribuno di una coorte di pretoriani. Mentre lo sfortunato principe pranzava coll'imperadore, ma, secondo lo stile, ad una tavola a parte, gli fu portata una bevanda troppo calda senza veleno, di cui fece il saggio lo scalco suo. Dimandò Britannico dell'acqua fredda per temperare quel caldo, e recatagli questa con un potentissimo veleno, bebbe; ed appena bevuto, si sentì sconvolgere tutto, e da lì a poco cadde per terra tramortito. Ognuno de' circostanti atterrito tremava; alcuno anche imprudente si ritirò [Tacitus, lib. 13, cap. 7.]; ma i più accorti fissarono il guardo in Nerone, il quale senza punto muoversi da tavola, e senza punto scomporsi, disse che quello era un colpo di mal caduco, a cui fin da fanciullo egli era soggetto. Britannico morì nella seguente notte, e fu immediatamente bruciato il [201] suo corpo, acciocchè non apparissero i segni del veleno. Dione all'incontro scrive, che per coprir que' segni apparenti nel volto, Nerone lo fece imbiancare col gesso; ma sopraggiunta una dirotta pioggia nel portarlo al rogo, si lavò l'imbiancatura, onde ognuno potè scorgere l'iniquità del fatto. Anche Tacito parla di essa pioggia, ma con dir solamente, averla interpretata i Romani per un contrassegno dell'ira degli dii.
Questo colpo sbalordì fieramente Agrippina, sì per vedere di che fosse capace il figliuolo, e sì per trovarsi priva di chi al bisogno avrebbe potuto giovare ai suoi disegni. Ma fece forza a sè stessa, per coprire l'interno affanno. Nè meno di lei seppe contenersi nel mirarsi tolto da sì barbara mano il caro fratello Ottavia, siccome già avvezza a non zittire per qualunque aggravio che le fosse fatto. Colle spoglie di Britannico Nerone arricchì di poi Burro e Seneca: il che diede da mormorare di essi a non pochi. Ne fece anche parte ad Agrippina; ma questa non potea darsi pace al vedere un figlio agitato da sì violente passioni, e al temere di peggio. Laonde per premunirsi cominciò a farsi del partito coi tribuni centurioni della milizia, ed insieme ad adescare i più accreditati della nobiltà, non più altera, come in addietro, ma abbondante di cortesia anche all'eccesso. E soprattutto raunava danaro, creduto il più potente amico nelle occorrenze. Seppelo Nerone; le levò le due guardie de' pretoriani e Germani; la fece anche passare dal palazzo imperiale ad abitare in quello di Antonia sua avola, per tenerla lontana da sè. Portavasi talvolta a visitarla, ma sempre attorniato da molti centurioni, e dopo un breve complimento, se n'andava. Allora comparve a che vicende sia suggetta l'umana potenza, e quanto fragile e vana sia la grandezza de' mortali. Quella dianzi tanto venerata e temuta donna si trovò in isola; niun più andava a visitarla, a riserva di poche femmine; ognun fuggiva d'incontrarla [202] di parlarle, di mostrarsene parziale. A questo arrivò la smoderata ambizion di Agrippina; e pure non finì qui la sua depressione. Giulia Silana, nobilissima dama, già amica sua, e poi gravemente disgustata pel matrimonio di Sesto Africano, concertato da lei, e frastornato da Agrippina, prese ad accusarla, e fece passare all'orecchio, di Nerone per mezzo di Paride commediante, che la madre era dietro a volere sposar Rubellio Plauto, per via di femmine discendente da Augusto, con disegno di sconvolgere poi lo stato. Passata la mezza notte, corse Paride a far questa relazione a Nerone, il quale si ritrovava allora, secondo il solito, ubbriaco. Il primo ed unico pensiero dell'infuriato Augusto fu quello di uccider la madre e Plauto, e di levar la carica di prefetto del pretorio a Burro, sospettandolo d'accordo con Agrippina, da cui egli riconosceva la sua fortuna. Seneca chiamato al romore, il pacificò per conto di Burro, attestandone l'onoratezza. Accorse anche Burro, e promise di torre la vita ad Agrippina, se si recavano prove dell'accusa, mostrando poi la necessità d'ascoltar lei ancora. Fatto giorno, i ministri andarono ad intimarle l'accusa e a rivelarle gli accusatori. Agrippina rispose col non per anche deposto orgoglio, e dimandò di poter parlare al figliuolo: il che non le fu negato. Parlò in maniera, che il rasserenò, e poscia andò il gastigo a cadere sopra Silana, che fu relegata, e sopra alcuni altri complici di lei. Ottenne ella ancora dei posti per alcuni suoi favoriti. Un'altra accusa in questi tempi venne in campo contra del suddetto Burro, e di Pallante liberto da noi più volte nominato, imputati di voler portare all'imperio Cornelio Sulla, uno de' primati romani. Si difesero in maniera, che solamente Peto l'accusatore ne portò la pena con essere relegato. [203]
Anno di | Cristo LVI. Indizione XIV. |
Pietro Apostolo papa 28. | |
Nerone Claudio imper. 3. |
Consoli
Quinto Volusio Saturno e Publio Cornelio Scipione.
Secondochè abbiam da Svetonio, soleva Nerone mutar nelle calende di luglio i consoli. Per questo va congetturando Vinando Pighio, che ai suddetti consoli fossero sostituiti Curtilio Mancia e Dubio Avito, per trovarsi eglino da qui a due anni proconsoli. Cominciò in quest'anno lo sbrigliato giovinastro Nerone a menar una vita più che mai scandalosa [Tacit., Ann., lib. 13, cap. 25. Dio, lib. 61. Suet., in Nerone, cap. 26.]. La notte travestito da servo, accompagnato da alcuni suoi fidi, scorreva per le strade per gli postriboli, per le bettole a sfogare i bestiali suoi appetiti, divertendosi in rompere ed isvaligiar botteghe, e in dar per ischerzo delle battiture a chi s'incontrava per via, e far di peggio a chi resisteva. Essendo poi trapelato venir da Nerone somiglianti insolenze, presero animo altri giovani scapestrati per unirsi insieme, e far lo stesso sotto nome di lui, ingiuriando uomini e donne illustri: con che pericoloso per tutti divenne lo andar di notte per Roma. Perchè Nerone non era conosciuto, toccavano anche a lui talvolta delle busse. Per attestato di Plinio [Plin., lib. 13, cap. 22.] fu sfregiato una notte in volto. Con tassia, incenso e cera avendo unta la percossa, la mattina seguente comparve con la cute sana. Uno di quelli che la notte gli diedero alcune bastonate o ferite, o sia per cagion della moglie, come vuole Svetonio e Dione, o pure per motivo di propria difesa, come s'ha da Tacito, fu Giulio Montano, uomo nobile e già vicino a divenir senatore. Stette Nerone a cagion di questo regalo più dì confinato in casa, nè già pensava a vendetta, [204] perchè si figurava di non essere stato conosciuto, e però non ingiuriato. Ma il mal accorto Montano, saputo con chi egli avea sì malamente trescato, andò ad infilzarsi da sè stesso con iscrivergli una lettera lagrimevole e chiedergli perdono. «Come! gridò Nerone, costui sa d'aver percosso l'imperadore, nè si è per anche data la morte da sè stesso!» Gli fece egli dipoi insegnare come andava fatto. Da lì innanzi usò Nerone di uscir di notte con una banda di soldati e di gladiatori, che il seguitavano in disparte. Se per le insolenze ch'egli commetteva, talun si rivoltava, allora costoro menavano le mani. Dilettavasi parimente il forsennato Augusto di accendere e fomentare le fazioni del popolazzo nelle pubbliche commedie, gustando ora da luogo occulto, ed ora scoperto, di mirare se si davano de' pugni, e tiravano dei sassi, essendo egli talora il primo a gittarne, con avere anche una volta ferito in volto il pretore, presidente ai giuochi. Andò tanto innanzi la confusione per questo, con pericolo di peggio, che bisognò rimettere le guardie ne' teatri, e bandire dall'Italia alcuni dei più sediziosi istrioni e pantomimi. Piena [Tacitus, lib. 13, cap. 26.] era l'antica Roma di schiavi e di liberti. Ancorchè i primi con acquistar la libertà dai padroni, sembra che fossero sciolti da ogni legame, pure o per la pratica, o per le riserve tacite od espresse che si faceano, erano tenuti a servire essi padroni, ma in impieghi più onorevoli. Se mancavano, erano gastigati; se arrivava il lor fallo all'ingratitudine, tornavano schiavi. Grandi lamenti insorsero in questi tempi de' padroni contra dei liberti; e in senato fu proposto di fare una legge rigorosa, che gli abbracciasse tutti. Nerone l'impedì con ordinare, che il gastigo andasse sopra i particolari, per le ragioni che ne adduce Tacito. Fu anche modificata la soverchia autorità de' pretori, degli edili e de' tribuni della plebe. [205] Alcuni altri regolamenti si fecero, tutti utili al pubblico.
Anno di | Cristo LVII. Indizione XV. |
Pietro Apostolo papa 29. | |
Nerone Claudio imper. 4. |
Consoli
Nerone Claudio Augusto per la seconda volta e Lucio Calpurnio Pisone.
Si sa da Svetonio, che Nerone non tenne se non sei mesi il consolato. Disputano gli eruditi, chi a lui ed al collega succedesse nelle calende di luglio. Nulla s'è potuto accertare finora. Non ci somministra l'antica storia alcun fatto rilevante sotto quest'anno. Tacito [Tacit., lib. 13, cap. ] solamente racconta aver Nerone dato un congiario, o sia regalo, al popolo, e levata l'imposta di venticinque danari sopra la vendita che si faceva degli schiavi. Proibì ancora ai governatori delle provincie il fare spettacoli di gladiatori o di fiere, e simili altri giochi: perchè sotto questo pretesto molestavano forte le borse de' popoli, o cercavano di coprire con tali magnificenze i lor latrocini. Fu accusata Pomponia Grecina, moglie di Aulo Plauzio, conquistator della Bretagna, perchè seguitava una superstizion forestiera. Hanno creduto, e fondatamente i nostri, ch'ella avesse abbracciata la religion cristiana, la quale in questi tempi s'andava dilatando per la terra, e massimamente in Roma. Fu rimessa tal giustizia, secondo l'antico costume, alla cognizion del marito, il quale, esaminato l'affare coi di lei parenti, la giudicò innocente. Potrebbe essere che appartenesse all'anno presente ciò che narra Dione [Dio, lib. 61.] con dire, che si fecero vari spettacoli in Roma. Uno di tori, che furono uccisi da uomini a cavallo, correnti a briglia sciolta contra di essi. Un altro, in cui quattrocento orsi e trecento lioni caddero al suolo trafitti dalle lance [206] delle guardie a cavallo di Nerone. Anche trenta uomini dell'ordine de' cavalieri romani combatterono nell'anfiteatro alla foggia de' gladiatori, cioè di gente infame. Cresceva intanto lo sregolamento di Nerone ascoltando egli unicamente i consigli di chi adulava le di lui passioni, tutte rivolte ai piaceri anche più abbominevoli. Quei di Burro e di Seneca l'infastidivano, e in fine cominciò a metterseli sotto i piedi. Ottone, che fu poi imperadore, e in tutto simile era a Nerone nelle inclinazioni e nei vizii, siccome ancora gli altri collegati negl'infami di lui divertimenti, gli andavano di tanto in tanto dicendo: «Come mai soffrite che vi facciano i pedanti in questa età? E voi ve ne mettete suggezione, senza ricordarvi che siete l'imperadore, e che non essi, ma voi sopra d'essi avete potere!» Così imparò egli a sprezzare i consigli de' buoni, e, voltata strada, si diede ad imitar Caligola, anzi a superarlo; parendogli cosa degna di un imperadore il non esser da meno d'alcuno neppur nelle cose mal fatte. Tuttavia in questi primi anni si andò ritenendo. I suoi erano finora vizii privati, e nocevano a lui solo, e a pochi altri, senza che ne patisse la repubblica. Si videro anche in lui alcuni atti di clemenza, intorno alla qual virtù gli avea Seneca composto e dedicato nell'anno precedente un trattato che ci resta. Ma fin dove il portasse la sua perversa natura, e questo abbandonamento di sè stesso, poco staremo a vederlo.
Anno di | Cristo LVIII. Indizione I. |
Pietro Apostolo papa 30. | |
Nerone Claudio imper. 5. |
Consoli
Nerone Claudio Augusto per la terza volta e Valerio Messalla.
V'ha chi dà al secondo console il nome di Marco Valerio Messalla Corvino. Ed abbiamo bensì da Svetonio che il terzo consolato di Nerone durò solamente [207] quattro mesi; ma non sappiamo chi a lui succedesse nelle calende di maggio. Potentissimo avvocato, ed insieme terribile e venale accusatore sotto l'imperador Claudio era stato Marco Suilio [Tacitus, lib. 13, cap. 42.], odiato perciò da molti, i quali, mutato il governo, si studiarono d'abbatterlo. Perchè egli credea suo nemico Seneca, ne sparlava a tutto potere, tassandolo di aver avuto disonesto commercio con Giulia figliuola di Germanico Cesare, per cui giustamente avesse patito l'esilio, e ch'egli fosse filosofo bensì di nome, ma ne' fatti un solennissimo ipocrita, mentre scriveva sì dei precetti di filosofia, ed altro poi non facea che ammassar de' milioni, e andar a caccia di testamenti, e di far usure innumerabili per l'Italia e per le provincie. Nel senato comparvero delle gravi accuse contro di Suilio; ma Nerone si contentò di confiscargli una parte de' suoi beni e di relegarlo in Majorica e Minorica. Anche Cornelio Silla, verisimilmente quello stesso ch'era stato console nell'anno 52 ed aveva avuta in moglie Antonia figliuola di Claudio Augusto, fu relegato a Marsilia. Benchè pel suo genio timido e vile non fosse capace d'imprese grandi, pure gli emuli suoi fecero credere a Nerone, ch'egli, sotto una finta stupidità, covasse dei veri disegni di novità; e gli tesero anche tante trappole, che fu condannato, come dissi, all'esilio ed anche nell'anno 62 tolto dal mondo. Fu parimente accusato Pomponio Silvano d'aver fatto delle estorsioni durante il suo governo nell'Africa. Ebbe de' buoni protettori, perchè lor fece sperar le molte sue ricchezze per eredità, giacchè privo era di figliuoli ed inoltrato molto nell'età. In questa maniera si salvò, con deludere poscia l'espettazione di chiunque facea i conti sulla sua roba, per essere sopravvivuto a tutti. Potrebb'essere un d'essi Ottone, che fu poi imperadore, e forse anche il buon Seneca, da noi veduto in concetto d'attendere a simili prede. Era in questi tempi andato all'eccesso [208] l'orgoglio e l'insolenza dei pubblicani, cioè de' gabellieri di Roma, e ne mormorava forte il popolo. Saltò in capo a Nerone di levar via, tutt'i dazii e le gabelle, per aver la gloria di fare un bellissimo regalo al genere umano; e se ne lasciò intendere in senato. Lodarono i senatori assaissimo la grandezza dell'animo suo; ma appresso gli fecero toccar con mano che senza il nerbo delle rendite pubbliche non potea sussistere l'imperio romano, tanto ch'egli smontò. Furono nondimeno fatti dei buonissimi regolamenti in questo proposito per benefizio dei popoli con reprimere le avanie di quelle sanguisughe: regolamenti nondimeno ch'ebbero corta durata, con ripullulare gli abusi. Tuttavia confessa Tacito, che molti se ne levarono, nè al suo tempo si pagavano più non so quante esazioni introdotte al passaggio de' ponti, e per le navi.
Ebbe principio in quest'anno l'amoreggiamento di Nerone con Poppea Sabina, donna di gran nobiltà, di pari bellezza e ricchezza. Graziosa nel parlare, vivace d'ingegno, e modesta in apparenza, di rado si lasciava vedere per Roma, e sempre col volto mezzo coperto, per non saziare affatto la curiosità di chi la riguardava. Le mancava solo il più bello, cioè l'onestà. Bastava essere liberale per guadagnarsi i di lei favori. Era stata moglie di Rufo Crispino cavaliere romano, a cui partorì un figliuolo; ma innamoratosene Ottone, che fu poscia imperadore, non gli fu difficile colla bizzarria delle comparse, colla gioventù e col credito d'essere uno dei più confidenti dell'imperadore, di distorla dal marito, e di prenderla egli in moglie: chè di questi bei tiri abbondava Roma pagana. Ma il vanaglorioso scioccone non potea ritenersi presso Nerone dal far elogi incessanti della nobiltà e dell'avvenenza della nuova moglie, chiamando sè stesso il più felice degli uomini, per trovarsi in possesso di tal donna. Tanto andò ripetendo questa canzone, che [209] Nerone invogliossi di vederla, e il vederla fu lo stesso che innamorarsene perdutamente. Mostrossi anch'ella sul principio presa della di lui bellezza; poi colla ritrosia, e col fingersi troppo contenta del marito Ottone, e di non apprezzar molto chi era di spirito sì basso da compiacersi dell'amore di una vil serva, cioè di Atte liberta, tal corda gli diede, che sempre più andò crescendo la fiamma. Ne provò ben presto gli effetti lo stesso Ottone con restar privo della confidenza di Nerone, e col non essere ammesso alla di lui udienza, nè al corteggio. Di peggio potevagli avvenire, se Seneca, amico suo, non avesse impetrato, che Nerone l'inviasse per presidente della Lusitania, parte di cui era il Portogallo d'oggidì, dove con buone operazioni per dieci anni risarcì l'onore ch'egli avea perduto in Roma. Da lì innanzi Poppea trionfò nel cuor di Nerone. Dione [Dio, lib. 90.] pretende, che per qualche tempo Ottone e Nerone andassero d'accordo nel possedere costei; ma molto non sogliono durare sì fatte amicizie. Risvegliossi in quest'anno [Tacitus, lib. 13, cap. 34.] la guerra fra i Romani e i Parti, per cagion dell'Armenia. Vologeso re d'essi Parti pretendea di mettervi per re Tiridate suo fratello; i Romani voleano disporne a lor piacimento, come s'era fatto in addietro. Domizio Corbulone, che già dicemmo il più valente generale di Roma in questi tempi, comandava in quelle parti l'armi romane. Ma, più che i Parti, recava a lui pena la scaduta disciplina delle soldatesche sue, per lunga pace impigrite e dimentiche degli ordini della vecchia milizia. La prima sua cura adunque fu quella di cassare gl'inutili, di far nuove leve, e di ben disciplinar la sua gente, usando del rigore ch'era a lui naturale. S'impadronì egli poi di Artasata capitale dell'Armenia e di Tigranocerta; ed avendo voluto Tiridate rientrare nell'Armenia, il ripulsò, divenendo [210] in fine padrone affatto di quella contrada. Probabilmente non succederono tutte queste imprese nell'anno presente. L'Occone e il Mezzabarba [Mediobarbus, in Numism. Imperat.], che riferiscono a quest'anno la pace universale, e il tempio di Giano chiuso in Roma, come apparisce da molte medaglie, andarono a tastoni in questo punto di storia. Tacito racconta in un fiato varii avvenimenti tanto dell'Armenia che della Germania, ma non succeduti tutti in un sol anno.
Anno di | Cristo LIX. Indizione II. |
Pietro Apostolo papa 31. | |
Nerone Claudio imper. 6. |
Consoli
Lucio Vipstano Aproniano e Fontejo Capitone.
Comunemente da chi ha illustrato i Fasti consolari, il primo di questi consoli è chiamato Vipsanio. Ma, secondo le osservazioni del cardinal Noris [Noris, Ep. Consul.], il suo vero nome fu Vipstano; e ciò può ancora dedursi da un'iscrizione pubblicata anche da me [Thes. Nov. Veter. Inscr., p. 305, n. 3.]. In essa s'incontra Cajo Fontejo. Se ivi è disegnato il console di questi tempi, Cajo e non Lucio sarà stato il suo prenome. Giunse in quest'anno ad un orrido eccesso la più che maligna natura di Nerone. Erasi rimessa in qualche credito Agrippina sua madre, dappoichè le riuscì di superar le calunnie di Giunia Silana; ma dacchè entrò in corte Poppea Sabina, cominciò una nuova e più fiera guerra contro di lei. Aspirava questa ambiziosa ed adultera donna alle nozze del regnante, al che, vivente Agrippina, le parea troppo difficile di poter giungere, sì perchè Agrippina amava forte la saggia e paziente sua nuora Ottavia, e sì perchè non avrebbe potuto soffrire presso il figliuolo chi a lei fosse superiore negli onori e nel comando. Cominciò dunque Poppea a stimolar [211] Nerone con dei motti pungenti, deridendolo, «perchè tuttavia fosse sotto la tutela; ed oh che bel padrone del mondo, che nè pure è padrone di sè stesso!» Passò poi in varie guise, e coll'aiuto dei cortigiani nemici di Agrippina, a fargli credere che la madre nudrisse de' cattivi disegni contra di lui. Ingegnavasi all'incontro anche Agrippina di guadagnarsi l'affetto del figliuolo contra di questa rivale; e fanno orrore le dicerie che corsero allora, delle quali Dione Cassio [Dio, lib. 90.] e Tacito [Tac., lib. 14, cap. 2.] fanno menzione, contraddicendo quegli autori anche in parlar di Seneca, che alcuni vogliono concorde coll'iniquo Nerone alla rovina della madre, ed altri parziale della medesima, anzi macchiato di un infame commercio con lei. La stessa battaglia fra quegli scrittori si osserva, rappresentando alcuni [Sueton., in Nerone.], ch'ella con carezze nefande, ed altri colla fierezza e colle minacce procurava di rompere l'abbominevole attaccamento del figliuolo a Poppea. Se nulla è da credersi, è l'ultimo. Perciò Nerone annoiato cominciò a sfuggirla, e ad aver caro ch'ella se ne stesse ritirata nelle deliziose sue ville, benchè quivi ancora l'inquietasse, con inviar persone, le quali, in passando, le diceano delle villanie o delle parole irrisorie. Finalmente si lasciò precipitar nella risoluzione di torle la vita. Non si arrischiò al veleno, perchè non apparisse troppo sfacciato il colpo, siccome era avvenuto in Britannico; e perchè ella andava ben guernita di antidoti. Nulladimeno Svetonio scrive, che per tre volte tentò questa via, ma indarno. Pensò anche a farle cadere addosso il vôlto della camera, dov'ella dormiva, e vi si provò. Ne fu avvertita per tempo Agrippina, e vi provvide.
Ora Aniceto liberto di Nerone, presidente dell'armata navale, che si tenea sempre allestita nel porto di Miseno, siccome nemico di Agrippina, si esibì a [212] Nerone di fare il colpo con una invenzione che parrebbe fortuita; e risparmierebbe a lui l'odiosità del fatto. Consisteva questa in fabbricare una galea congegnata in maniera, che una parte si scioglierebbe, tirando seco in mare chi v'era disopra, esempio preso da una simil nave già fabbricata nel teatro. Piacque la proposizione; fu preparato nella Campania l'insidiatore legno; e Nerone per celebrar i giuochi d'allegria in onor di Minerva, chiamati Quinquatrui, si portò al palazzo di Bauli, situato fra Baia, e Miseno, conducendo seco la madre sino ad Anzo, giacchè era qualche tempo che le mostrava un finto affetto, ed usavale delle finezze. Quivi stando Nerone si udiva dire: che toccava ai figliuoli il sopportare gli sdegni di chi avea lor data la vita, e che a tutti i patti volea far buona pace colla madre; acciocchè tutto le fosse riferito, ed ella, secondo l'uso delle donne facili a credere ciò che bramano, si lasciasse meglio attrappolare. Invitolla dipoi a venire ad un suo convito ad Anzo; ed ella v'andò, accolta dal figliuolo sul lido con cari abbracciamenti, e tenuta poi a tavola nel primo posto: il che maggiormente la assicurò. O sia, come vuol Tacito, ch'ella quivi si fermasse quella sola giornata, o che, al dire di Dione, si trattenesse quivi per alcuni giorni, volle ella infine ritornarsene alla sua villa. Nerone, dopo il lungo e magnifico convito, la tenne fino alla notte in ragionamenti ora allegri, ora serii, baciandola di tanto in tanto, ed animandola a chiedere tutto quel che voleva, con altre parole le più dolci del mondo. Accompagnata da lui sino al lido, s'imbarcò nella nave traditrice, superbamente addobbata, e andò servendola Aniceto. Era quietissimo il mare, e parve quella calma venuta apposta, per far conoscere ad ognuno, che non dalla forza de' venti, ma dal tradimento procedea lo sfasciarsi della nave. Alla divisata ora cadde, secondo Tacito [Tacitus, lib. 14, cap. 3.], il tavolato di sopra, [213] che soffocò Creperio Gallo cortigiano d'Agrippina; ma essa con Acerronia Polla sua dama d'onore si attaccò alle sponde, nè cadde. In quella confusione i marinai credendo che Acerronia fosse Agrippina, coi remi la uccisero. Ad Agrippina toccò solamente una ferita sulla spalla. Fu voltata in un lato la nave, perchè si affondasse; ed Agrippina cadutavi pian piano dentro, parte nuotando, e parte soccorsa dalle barchette che venivano dietro, si salvò, e fu condotta al suo palazzo nel lago Lucrino. Dione in poche parole dice, che, sfasciatasi la nave, Agrippina cadde in mare, nè si annegò. Più minuta, ma imbrogliata, è la descrizione che fa di questo fatto Tacito; ma, comunque succedesse, per consenso di tutti, Agrippina scampò la vita.
Ridotta nel suo palazzo, e in letto, per farsi curare, ricorrendo col pensiero tutta la serie di quel fatto, non durò fatica ad intendere chi le avesse tramata la morte. Prese la saggia determinazione di tutto dissimulare, ed immediatamente spedì Agerino suo liberto al figliuolo, per dargli avviso d'avere per benignità degli dii sfuggito un bravissimo pericolo, e per pregarlo di non farle visita per ora, avendo ella bisogno di quiete per farsi medicare. Nerone ch'era stato sulle spine la notte, aspettando nuova dell'esito degli esecrandi suoi disegni, allorchè intese come era passata la cosa, ed esserne uscita netta la madre, fu sorpreso da immensa paura, immaginandosi ch'ella potesse spedirgli contro tutta la sua servitù in armi, o muovere i pretoriani contra di lui, o comparire ad accusarlo in Roma al senato e al popolo. Sbalordito non sapeva allora in qual mondo si fosse. Fece svegliar Burro e Seneca, chiamandogli a consiglio, essendo ignoto s'eglino sì o no fossero prima consapevoli del delitto. Restarono un pezzo ambedue senza parlare, o perchè non osassero di dissuaderlo, o perchè credessero ridotte le cose ad un punto [214] che Nerone fosse perduto, se non preveniva la madre. Nerone in fatti propose di levarla dal mondo; e Seneca, imputato da Dione d'aver dianzi dato questo medesimo consiglio, voltò gli occhi a Burro, come per domandargli che ne comandasse ai suoi pretoriani l'esecuzione. Ma Burro, non dimenticando che da Agrippina era proceduta la propria fortuna, prontamente rispose, che essendo obbligate le guardie del corpo a tutta la casa cesarea, e ricordandosi del nome di Germanico, non si potea promettere in ciò della loro ubbidienza; e che toccava ad Aniceto il compiere ciò ch'egli aveva incominciato. Chiamato Aniceto, non vi pose alcuna difficoltà, cosicchè Nerone protestò che in quel giorno egli riceveva dalle sue mani l'imperio; e quindi gli ordinò di prendere quegli armati che occorressero dalla guarnigione delle sue galee. Intanto arriva per parte di Agrippina Agerino. Sovvenne allora a Nerone un ripiego degno del suo capo sventato. Allorchè l'ebbe ammesso all'udienza, gli gittò a' piedi un pugnale, e chiamò tosto aiuto, con fingere costui mandato dalla madre per ucciderlo, e il fece tosto imprigionare, e poi spargere voce, ch'egli s'era ucciso da sè stesso per la vergogna della scoperta sua mala intenzione. Intanto Agrippina, ch'era negli spasimi per non veder venire Agerino, nè altra persona per parte del figlio, in vece di essi mira entrar nella sua camera Aniceto, accompagnato da due suoi uffiziali, senza sapere se in bene o in male. Poco stette in avvedersene: un colpo di bastone la colse nella testa; e vedendo sguainata la spada da un di essi, saltando su gridò: «Ferisci questo,» mostrandogli il ventre. Fu di poi morta con più ferite; e portatane la nuova a Nerone, non mancò chi disse di averla voluta vedere estinta e nuda, non fidandosi di chi gli riferì il fatto, e d'aver detto: «io non sapea d'avere una madre sì bella.» Tacito lascia in forse questa circostanza. Fu in quella stessa [215] notte bruciato, secondo il costume d'allora, il suo corpo e vilmente seppellito. Ed ecco dove andò a terminare la sbrigliata ambizione di questa donna, figliuola di Germanico, nipote del grande Agrippa, pronipote d'Augusto, moglie e madre d'imperadori. Le iniquità da lei commesse per far salire il figlio al trono riportarono questa ricompensa dallo stesso suo figlio, mostro d'ingratitudine e di crudeltà.
Fece susseguentemente Nerone una bella scena, mostrandosi inconsolabile per la morte della madre, e dolendosi d'aver salvata la vita propria colla perdita della sua; giacchè voleva che si credesse aver ella inviato Agerino per ucciderlo, e ch'ella dipoi si fosse uccisa da sè stessa. Lo stesso ancora scrisse al senato con aggiungere una filza d'altre accuse contro la madre per giustificar sè medesimo, e con dire fra l'altre cose [Quintilianus, lib. 8 Instit.]: Ch'io sia salvo, appena lo credo, e non ne godo. Perchè quella lettera o era scritta da Seneca, o si riconobbe per sua dettatura, fu mormorato non poco di questo adulator filosofo, il quale compariva approvatore di sì nero delitto. Mostrò il senato [Tacitus, lib. 14, c. 12.] di credere tutto: decretò ringraziamenti agli dii, e giuochi per la salvata vita del principe; e dichiarò il dì natalizio di Agrippina per giorno abbominevole. Il solo Publio Peto Trasea, senatore onoratissimo, dappoichè, fu letta quella lettera, uscì dal senato, per non approvare nè disapprovare, il che poi gli costò caro. Ma Nerone dopo il misfatto [Sueton., in Neron., c. 34.] si sentì gran tempo rodere il cuore dalla coscienza; sempre avea davanti agli occhi l'immagine dell'estinta madre e gli parea di veder le furie che il perseguitassero colle fiaccole accese. Nè il mutar di luogo e l'andare a Napoli ed altrove, servì a liberarlo dall'interno strazio. Neppure s'attentava di ritornar più a Roma, temendo d'essere [216] in orrore a tutti. Ma gl'ispiravano del coraggio i bravi cortigiani, facendogli anzi sperare cresciuto l'amore del popolo per aver liberata Roma dalla più ambiziosa e odiata donna del mondo. In fatti, restituitosi alla città, trovò anche più di quel che sperava, movendosi e grandi e piccoli per paura di un sì spietato principe a fargli onore. Andò dunque come trionfante al Campidoglio, persuaso ch'egli potea far tutto a man salva, dacchè tutti, o perchè l'amavano, o perchè avviliti, non sapeano se non adorare i di lui supremi voleri. Affettò ancora la clemenza con richiamare a Roma Giunia Calvina, Calpurnia, Valerio Capitone e Licinio Gabalo, esiliati già dalla madre. Ma in questo medesimo anno col veleno abbreviò la vita a Domizia sua zia paterna, con occupar tutti i suoi beni posti in quel di Baja e di Ravenna, prima ancora ch'ella spirasse. Quivi alzò de' magnifici trofei, che duravano anche ai tempi di Dione [Dio, lib. 61.]. Mirabil cosa nondimeno fu, che parlando molti liberamente di tali eccessi, ed uscendo non poche pasquinate, pure, egli, benchè dalle sue spie informato di quanto succedea, ebbe tal prudenza da dissimular tutto, e da non gastigar alcuno per questo, paventando di accrescere, altrimente facendo, il romore nel popolo.
Anno di | Cristo LX. Indizione III. |
Pietro Apostolo papa 32. | |
Nerone Claudio imper. 7. |
Consoli
Nerone Claudio Augusto e Cosso Cornelio Lentulo.
Dicendo Svetonio, che Nerone tenne questo consolato per soli sei mesi nelle calende di luglio dovettero succedere a lui e al collega due altri consoli. Il nome loro ci è ignoto. Alcuni han sospettato che fossero Tito Ampio Flaviano e Marco Aponio Saturnino, perchè da Tacito son [217] chiamati uomini consolari, ed ebbero poscia de' governi. Andossi poi sempre abbandonando Nerone [Tacitus, Annal., lib. 14, cap. 14.] ai divertimenti e piaceri, dappoichè non vivea più la madre, che il tenea pure in qualche suggezione. Sin da fanciullo si dilettava egli di andare in carretta e di condurre i cavalli. Avea anche imparato a sonar di cetra e a cantare. Diedesi ora in preda a questi sollazzi, sì sconvenevoli ad un imperadore. Seneca e Burro gli permisero il primo, per distorlo dagli altri, purchè corresse co' cavalli nel circo vaticano chiuso per non lasciarsi vedere dal popolo. Ma non si potè contenere il vanissimo giovane; volle degli spettatori, e il lor plauso l'invogliò ad invitarvi anche del popolo, il quale godendo di veder fare i principi ciò ch'esso fa, e perciò gonfiandolo con alte lodi, maggiormente l'incitò a quel plebeo mestiere [Dio, lib. 61.]. Tuttavia ben conoscendo, che i saggi erano d'altro sentimento, credette di schivar il disonore, con cercare de' compagni nobili che imitasser lui ne' pubblici divertimenti. Perciò venutogli in capo di far de' giuochi di somma magnificenza in onor della madre, che durarono più giorni, si videro nobili dell'uno e dell'altro sesso, non solo dell'ordine equestre, ma anche del senatorio, comparir ne' teatri, ne' circhi e negli anfiteatri, con esercitar pubblicamente le arti riserbate in addietro alle sole persone vili e plebee, con sonar nelle orchestre, rappresentar commedie e tragedie, ballar ne' teatri, far da gladiatori e da carrettieri: alcuni di propria elezione, ed altri per non disubbidir Nerone che gl'invitava. Mirava il popolo, ed anche i forestieri riconoscevano, che quegli attori, dimentichi della lor nascita, erano chi un Furio, chi un Fabio, chi un Valerio, un Porcio, un Appio, ed altri simili della nobiltà primaria. Al veder cotali novità e stravaganze, ne gemevano forte i saggi, sì pel disonor delle famiglie, come ancora perchè veniva [218] con ciò a crescere troppo smisuratamente la corruttela de' costumi. Rammaricavansi inoltre osservando le incredibili spese che facea Nerone, non solamente in questi sì sfoggiati divertimenti, ma anche negl'immensi regali alla plebe con gittar dei segni, ne' quali era scritto quella sorta di dono che dovea darsi a chi avea la fortuna d'aggraffarli come cavalli, schiavi, vesti, danari. Ben prevedevano che tanto scialacquamento andrebbe a finire in nuovi aggravi ed estorsioni sopra il pubblico, siccome in fatti avvenne. Instituì eziandio Nerone altri giuochi, appellati Giovenali in onore della prima volta ch'egli si fece far la barba: rito festivo presso i Romani. Que' preziosi peli in una scatola d'oro furono consecrati a Giove. In que' giuochi danzarono i più nobili fra i Romani, e bella figura fra l'altre dame fece Elia Catula, giovinetta di ottanta anni, che ballò un minoetto. Chi de' nobili non potea ballare, cantava; ed eranvi scuole apposta, dove concorrevano ad imparare uomini e donne di prima sfera, fanciulle, giovanetti, vecchi, per far poscia con leggiadria il loro mestiere ne' pubblici teatri. Che se alcuno, non potendo di meno, per vergogna vi compariva mascherato. Nerone gli cavava la maschera, e si venivano a conoscere persone impiegate ne' più riguardevoli magistrati.
Nè lo stesso Nerone volle in fine essere da meno degli altri. Uscì anche egli nella scena in abito da suonator di cetra, ed oltre al suonare, fece sentir la sua da lui creduta melodiosa voce, la qual nondimeno si trovò sì somigliante a quella de' capponi cantanti, che niun potea ritener le risa, e molti piangeano per rabbia. Se crediamo a Dione, Burro e Seneca assistenti servivano a lui di suggeritori, e andavangli poi facendo plauso colle mani e coi panni, per invitare allo stesso l'udienza. Tacito [Tacitus, lib. 14, cap. 15.] anch'egli lo attesta di Burro, ma con aggiungere che internamente se ne affliggeva. [219] Nè già era permesso [Sueton., in Nerone, cap. 23.], allorchè cantava questo insigne maestro, ad alcuno l'uscir di teatro, per qualsivoglia bisogno che occorresse. Quella era la voce d'Apollo; niun v'era che potesse uguagliarsi a lui nella melodia del canto. Così gli adulatori. Volle egli ancora che si tenesse una gara di poesia e d'eloquenza, e vi entrò anch'egli coll'invito de' giovani nobili. Non è difficile l'immaginarsi a chi toccasse la palma e il premio. Furono similmente richiamati a Roma i pantomimi, perchè divertissero il popolo nei teatri, ma non già ne' giuochi sacri. Apparve in quest'anno una cometa. Il volgo, imbevuto dell'opinione, che questo predica la morte de' principi, cominciò a fare i conti su la vita di Nerone, e a predire chi a lui succederebbe. Concorrevano molti in Rubellio Plauto, discendente per via di donne dalla famiglia di Giulio Cesare, personaggio ritirato e dabbene. Ne fu avvertito Nerone. Si aggiunse, che trovandosi a desinare il medesimo imperadore in Subbiaco, un fulmine gli rovesciò le vivande e la tavola. Perchè quel luogo era vicino a Tivoli, patria dei maggiori d'esso Plauto, la pazza gente perduta nelle superstizioni maggiormente si confermò nella predizione suddetta. Fece dunque Nerone intendere a Rubellio Plauto, che miglior aria sarebbe per lui l'Asia, dov'egli possedeva dei beni. Gli convenne andar là colla sua famiglia, ma per poco tempo, perchè da lì a due anni Nerone mandò ad ucciderlo. Venne in questi tempi a morte Quadrato, governatore della Siria, e quel governo fu dato a Corbulone, da cui dicemmo ch'era stata acquistata l'Armenia. Trovavasi da gran tempo in Roma Tigrane, nipote d'Archelao, che già fu re della Cappadocia, avvezzato ad una servile pazienza. Ottenne egli da Nerone di poter governare l'Armenia con titolo di re; e andato colà, fu assistito da Corbulone con un corpo di soldatesche tali, che, al dispetto di molti, più inclinati al [220] dominio de' Parti, n'ebbe il pacifico possesso, benchè poi non vi potesse lungo tempo sussistere [Tacitus, lib. 14, cap. 27.]. Pozzuolo in questo anno acquistò il diritto di colonia, e il cognome di Nerone; intorno a che disputano gli eruditi, perchè da Livio e da Vellejo abbiamo, che tanti anni prima Pozzuolo fu colonia, e Frontino fa autore Augusto di una nuova colonia in quella città. In questi tempi Laodicea, illustre città della Frigia restò rovinata da un tremuoto; ma quel popolo la rimise in piedi colle proprie ricchezze senza aiuto de' Romani.
Anno di | Cristo LXI. Indizione IV. |
Pietro Apostolo papa 33. | |
Nerone Claudio imper. 8. |
Consoli
Cajo Cesonio Peto e Cajo Petronio Turpiliano.
Non è certo il prenome di Cajo pel secondo di questi consoli, nè sappiamo chi nelle calende di luglio loro succedesse nella dignità. Motivo [Tacitus, ibid.] ai pubblici ragionamenti diedero in quest'anno due iniquità, commesse in Roma, l'una da un nobile, l'altra da un servo. Mancò di vita Domizio Balbo, ricco, e della prima nobiltà, senza figliuoli. Valerio Fabiano, senatore, con un falso testamento, a cui tennero mano altri nobili colle lor soscrizioni e sigilli, corse all'eredità. Convinto di falsario, degradato con gli altri suoi complici, riportò la pena statuita dalla legge Cornelia. Ucciso fu da un suo servo, o vogliam dire schiavo, Pedanio Secondo, prefetto di Roma. Ne aveva egli al suo servigio quattrocento, tra maschi e femmine, grandi e piccoli, essendo soliti i ricchi Romani a tenerne una prodigiosa quantità al loro servigio. Benchè fossero quasi tutti innocenti di quel misfatto, doveano morire secondo il rigore [221] delle antiche leggi; ma fattasi grande adunanza di gente plebea per difendere quegl'infelici, l'affare fu portato al senato; ed intorno a ciò si fece lungo dibattimento, con prevalere in fine la sentenza del supplicio di tutti. Nerone mandò un ordine alla plebe di attendere ai fatti suoi, e somministrò quanti soldati occorressero per iscortare i condannati. I mali portamenti degli uffiziali nella Bretagna cagion furono di far perdere circa questi tempi quasi tutto quel paese che vi aveano acquistato i Romani; e ciò perchè si volle rimetter ivi il confisco dei beni de' delinquenti, da cui Claudio gli avea esentati. Anche Seneca, se crediamo a Dione [Dio, lib. 61.], avea dato ad usura un milione a que' popoli, e con violenza ne esigeva non solo i frutti, ma anche il capitale. Inoltre, Boendicia o sia Bunduica vedova [Tacitus, lib. 12, cap. 29.] di Prasutago re di una parte di quella grand'isola, si protestava anche essa troppo scontenta delle infinite prepotenze ed insolenze fatte dai Romani a sè stessa, a due figlie e a tutto il suo popolo. Questa regina, donna d'animo virile, quella fu che sonò in fine la tromba col muovere i suoi e i circostanti popoli a sollevarsi contra degl'indiscreti Romani con prevalersi della buona congiuntura che Svetonio Paolino, governatore della parte della Bretagna romana, e valoroso condottier d'armi, era ito a conquistare un'isola ben popolata, adiacente alla Bretagna. Con un'armata dicono, di cento ventimila persone vennero i sollevati addosso alla nuova colonia di Camaloduno, e la presero di assalto. Dopo due dì ebbero anche il tempio di Claudio, mettendo quanti Romani vennero alle lor mani, tutti a fil di spada, senza voler far prigionieri. Petilio Cereale, venuto per opporsi con una legione, fu rotto, messa in fuga la cavalleria, e tutta la fanteria tagliata a pezzi. Portate queste funeste nuove a Svetonio Paolino, frettolosamente si mosse, e venne [222] a Londra, luogo di una colonia scarsa, ma celebre città anche allora per la copia grande dei mercatanti e del commercio. Benchè pregato con calde lagrime dagli abitanti di fermarsi alla lor difesa, volle piuttosto attendere a salvare il resto della provincia. S'impadronirono i ribelli di Londra e di Verulamio, nè vi lasciarono persona in vita. Credesi che in que' luoghi perissero circa settanta o ottantamila fra cittadini romani e collegati. Si trovò poi forzato Svetonio, perchè mancava di viveri, ad azzardare una battaglia, ancorchè non avesse potuto ammassare che dieci mila combattenti; laddove i nemici da Dione si fanno ascendere a dugento trentamila persone, numero probabilmente, secondo l'uso delle guerre, o per disattenzion de' copisti, troppo amplificato. Boendicia stessa comandava quella grande armata. Dopo fiero combattimento prevalse la disciplina militare dei pochi allo sterminato numero dei Britanni, che furono sconfitti, con essersi poi detto che restarono sul campo estinti circa ottantamila di essi, numero anch'esso eccessivo. Comunque, sia insigne e memoranda fu quella vittoria. Boendicia morì poco dappoi, o per malattia o per veleno ch'essa medesima prese, e colla sua morte tornò fra non molto all'ubbidienza de' Romani il già rivoltato paese, con avervi Nerone inviato un buon corpo di gente dalla Germania, il quale servì a Svetonio per compiere quell'impresa.
Anno di | Cristo LXII. Indizione V. |
Pietro Apostolo papa 34. | |
Nerone Claudio imper. 9. |
Consoli
Publio Mario Celso e Lucio Asinio Gallo.
Perchè Tacito sul principio di questo anno nomina Giunio Marullo, console disegnato, il quale poi non apparisce console, perciò possiam credere ch'egli fosse sostituito ad alcun d'essi consoli [223] ordinari, oppure all'uno degli straordinari, succeduti nelle calende di luglio, i quali si tiene che fossero Lucio Anneo Seneca maestro di Nerone, e Trebellio Massimo. Nel gennaio dell'anno presente [Tacitus, lib. 14, cap. 48.] accusato fu e convinto Antistio Sostano pretore, d'aver composto dei versi contro l'onor di Nerone. I senatori più vili, fra' quali Aulo Vitellio, che fu poi imperadore, conchiusero dovuta la pena della morte a questo reato. Non osavano aprir bocca gli altri. Il solo Peto Trasea ruppe il silenzio, sostenendo che bastava relegarlo in un'isola, e confiscargli i beni, nel qual parere venne il resto dei senatori. Nondimeno fu creduto meglio di udir prima il sentimento di Nerone, il quale mostrò bensì molto risentimento contra d'Antistio, eppur si rimise al senato, con facoltà ancora di assolverlo. Si eseguì la sentenza del bando. In quest'anno ancora il suddetto Trasea, uomo di petto, e rivolto sempre al pubblico bene, propose che si proibisse ai popoli delle provincie il mandare i lor deputati a Roma, per far l'elogio dei loro governatori; perchè questo onore sel procuravano i magistrati colla troppa indulgenza, e col permettere ai popoli delle indebite licenze, per non disgustarli. L'ultimo anno fu questo della vita di Burro prefetto del pretorio, uomo d'onore e di petto, che avea finquì trattenuto Nerone dall'abbandonarsi affatto ai suoi capricci, e massimamente alla crudeltà. Restò in dubbio s'egli morisse, di mal naturale, oppure di veleno, per quanto ne scrive Tacito [Tacitus, ibid., cap. 51.]; poichè, per conto di Svetonio [Sueton., in Nerone, cap. 35.] e di Dione [Dio, lib. 61.], amendue crederono che Nerone, rincrescendogli ormai d'aver un soprastante che non si accordava con tutti i suoi voleri, il facesse prima del tempo sloggiar dal mondo. Gran perdita fece in lui il pubblico, e molto più, perchè Nerone in vece d'uno [224] creò due altri prefetti del pretorio, cioè Fenio Rufo, uomo dabbene, ma capace di far poco bene per la sua pigrizia, e Sofonio Tigellino, uomo screditato per tutt'i versi, ma carissimo per la somiglianza de' depravati costumi a Nerone. Con questo iniquo favorito cominciò Nerone ad andare a vele gonfie verso la tirannia e pazzia. Allora fu, che Seneca conobbe che non era più luogo per lui presso di un principe, il quale si lascerebbe da lì innanzi condurre dai consigli de' cattivi, e già cominciava a dimostrar poca confidenza a lui. Il pregò dunque di buona licenza, per ritirarsi a finir quietamente i suoi giorni, con offerirgli ancora tutto il capitale de' beni a lui finquì pervenuti o per la munificenza del principe, o per industria propria [Sueton., in Nerone, c. 35.]. Nerone con bella grazia gliela negò, ed accompagnò la negativa con tenere espressioni d'affetto e di gratitudine, giungendo sino a dirgli di desiderar egli piuttosto la morte, che di far mai alcun torto ad un uomo, a cui si professava cotanto obbligato. Quel che potè dal suo canto Seneca; giacchè non si fidava di sì belle parole; fu di ricusar da lì innanzi le visite, di non volere corteggio nell'uscire di casa; il che era anche di rado, fingendosi mal concio di salute, ed occupato da' suoi studi. Si ridusse ancora a cibarsi di solo pane ed acqua e di poche frutta, o per sobrietà o per paura del veleno.
Già dicemmo, che Ottavia figliuola di Claudio Augusto, e moglie di Nerone, era per la sua saviezza e pazienza un'adorabile principessa; ma non già agli occhi di Nerone, troppo diverso da lei d'inclinazione e di costumi. Certamente egli non ebbe mai buon cuore per lei, e dacchè introdusse in corte Poppea Sabina, cominciò anche ad odiarla [Tacit., lib. 14, c. 60. Dio, lib. 61. Suetonius, c. 35.] per le continue batterie di quell'impudica, che non potea stabilire la sua fortuna se non sulle rovine d'Ottavia. Tanto disse, tanto [225] fece questa maga che in quest'anno, col pretesto della sterilità di essa Ottavia, Nerone la ripudiò, e da lì a pochi dì arrivò Poppea all'intento suo di essere sposata da lui. Nondimeno qui non finì la guerra. Poppea, sovvertito uno de' familiari di Ottavia, la fece accusar di un illecito commercio con un suonatore di flauto, nominato Eucero. Furono perciò messe ai tormenti le di lei damigelle, ed estorta da alcune con sì violento mezzo la confession del fallo; ma altre sostennero con coraggio l'innocenza della padrona, e dissero delle villanie a Tigellino, ministro non meno di questa crudeltà, che della morte data poco innanzi a Silla e a Rubellio Plauto già mandati da Nerone in esilio. Fu relegata Ottavia nella Campania, e messe guardie alla di lei casa, per tenerla ristretta. Ma perciocchè il popolo, che amava forte questa buona principessa, apertamente mormorava di sì aspro trattamento, la fece Nerone ritornare a Roma. Pel suo ritorno andò all'eccesso la gioia del popolo, perchè, ruppe le statue alzate in onor di Poppea, e coronò di fiori quelle di Ottavia, con altre pazzie d'allegria sediziosa; di che diede motivo a Poppea di caricar la mano contra dell'odiata principessa, persuadendo a Nerone che il di lei credito era sufficiente a rovesciare il suo trono. Fu perciò chiamato a corte l'indegno Aniceto, che già avea tolta di vita Agrippina, acciocchè servisse ancora ad abbattere Ottavia, col fingere d'aver tenuta disonesta pratica con lei. Perchè gli fu minacciata la morte, se ricusava di farlo, ubbidì. Promossa l'infame accusa colla giunta d'altre inventate dal maligno principe di aborto procurato, di ribellioni macchinate, l'infelice principessa, in età di soli ventidue anni, venne relegata nell'isola Pandalaria, dove passato poco tempo Nerone le fece levar la vita, e portar anche il suo capo a Roma, acciocchè l'indegna Poppea s'accertasse della verità del suo crudel trionfo. Di tante iniquità commesse da Nerone, forse [226] niuna riuscì cotanto sensibile al popolo romano, come il miserabil fine d'una sì saggia ed amata principessa, la quale portava anche il titolo di Augusta, e massimamente al vederla condannata per così patenti ed indegne calunnie. La ricompensa ch'ebbe Aniceto dell'indegna sua ubbidienza, fu di essere relegato in Sardegna, dove ben trattato terminò poscia con suo comodo la vita. Pallante, già potentissimo liberto sotto Claudio, morì in quest'anno, e fu creduto per veleno datogli da Nerone, affin di metter le griffe sopra le immense di lui ricchezze.
Anno di | Cristo LXIII. Indizione VI. |
Pietro Apostolo papa 35. | |
Nerone Claudio imper. 10. |
Consoli
Publio Mario Celso e Lucio Asinio Gallo.
Erano tuttavia imbrogliati gli affari dell'Armenia, dacchè Nerone avea colà inviato col titolo di re Tigrane [Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 1.]. Vologeso re de' Parti persisteva più che mai nella pretension di quel regno, per coronarne Tiridate suo fratello, che gliene faceva continue istanze. Ma andava titubando, finchè Tigrane il fece risolvere a dar di piglio all'armi, per aver egli fatta un'incursione nel paese degli Adiabeni o sudditi o collegati de' Parti. Dopo aver dunque Vologeso coronato Tiridate come re dell'Armenia, e somministratogli un possente esercito per conquistar quel paese, si diede principio alla guerra. Corbulone, governator della Siria, in aiuto di Tigrane spedì due legioni, e nello stesso tempo scrisse a Nerone, rappresentandogli il bisogno d'un altro generale, per accudire alla difesa dell'Armenia mentre egli dovea difendere le frontiere della sua provincia. Nerone v'inviò Lucio Cesennio Peto, uomo consolare, cioè ch'era stato console: il che ha fatto ad [227] alcuni crederlo lo stesso che Caio Cesennio Peto, da noi veduto console nell'anno superiore 61 di Cristo, ma che da altri vien tenuto per personaggio diverso. Intanto i Parti, entrati nell'Armenia, posero l'assedio ad Artasata capital di quel regno, dove s'era ritirato Tigrane, che non mancò di fare una valorosa difesa. Corbulone allora inviò Casperio centurione a Vologeso, per dolersi dell'insulto che si facea ad un regno dipendente dai Romani, minacciando dal suo canto la guerra ai Parti, se non desistevano da quelle violenze. Servì quest'ambasciata ad inchinar Vologeso a' pensieri di pace, ed avendo chiesto di mandare a Nerone i suoi legati per trattarne, e pregarlo di conferire lo scettro dell'Armenia a Tiridate suo fratello, accettata fu la di lui proferta, con patto di far cessare l'assedio di Artasata: il che ebbe esecuzione. Ma non è ben noto, che convenzione segreta seguisse allora fra Corbulone e Vologeso, avendo alcuni creduto che tanto i Parti quanto Tigrane avessero da abbandonar l'Armenia. Venuti a Roma gli ambasciatori di Vologeso, nulla poterono ottenere; e però il Parto ricominciò la guerra in tempo che Cesennio Peto giunse al governo dell'Armenia, uomo di poca provvidenza e sapere in quel mestiere, ma che si figurava di poter fare il maestro agli altri. Prese Peto alcune castella, passò anche il monte Tauro, pensando a maggiori conquiste; ma, all'avviso che Vologeso veniva con grandi forze, fu ben presto a ritirarsi, ed a lasciar gente ne' passi del monte suddetto, per impedir l'accesso de' nemici, con iscrivere intanto più e più lettere a Corbulone, che venisse a soccorrerlo. Forzò Vologeso i passi: a Peto cadde il cuore per terra, perchè avea troppo divise le sue genti, e colto fu con due sole legioni. Però spedì nuove lettere ad affrettar Corbulone, il quale intanto avendo passato l'Eufrate, marciava a gran giornate verso la Comagene o la Cappadocia, per entrar poi nell'Armenia, Nulladimeno [228] poco giovarono gli sforzi di Corbulone. In questo mentre Vologeso strinse il picciolo esercito di Peto, molti ne uccise; e tal terrore mise al capitano de' Romani, ch'egli solamente pensò a comperarsi la salvezza con qualunque vergognosa condizione che gli fosse esibita. Dimandando dunque un abboccamento con gli uffiziali di Vologeso, restò conchiuso, che l'armi romane si levassero da tutta l'Armenia, e cedessero ai Parti tutte le castella e munizioni da bocca e da guerra; e che poi Vologeso se l'intenderebbe coll'imperador Nerone pel resto. Le insolenze dei Parti furono poi molte; vollero entrar nelle fortezze prima che ne fossero usciti i Romani; affollati per le strade, dove passavano i Romani, toglievano loro schiavi, bestie e vesti; ed i Romani come galline lasciavano far tutto per paura che menassero anche le mani. Tanto marciarono le avvilite truppe, che piene di confusione arrivarono finalmente ad unirsi con quelle di Corbulone, il quale, deposto per ora ogni pensier dell'Armenia, se ne tornò alla difesa della Siria sua provincia.
Secondochè abbiam da Tacito, tutto ciò avvenne nel precedente anno. Dione ne parla più tardi. Nella primavera del presente comparvero gli ambasciatori di Vologeso, che chiedevano il regno dell'Armenia per Tiridate; ma senza ch'egli volesse presentarsi a Roma. Seppe allora Nerone da un centurione, venuto con loro, come stava la faccenda dell'Armenia, perchè Cesennio Peto gliene avea mandata una relazion ben diversa. Parve a Nerone ed al senato che Vologeso si prendesse beffa di loro, e perciò rimandati gli ambasciatori di lui senza risposta, ma non senza ricchi regali, fu presa la risoluzione di far guerra viva ai Parti. Richiamato Peto, tremante fu all'udienza di Nerone, il quale mise la cosa in facezia, dicendogli, senza lasciarlo parlare, «che gli perdonava tosto, acciocchè essendo egli sì pauroso, non gli saltasse la febbre addosso.» Andò ordine a Corbulone [229] di muovere l'armi contro de' Parti, e gli furono inviati rinforzi di nuove truppe e reclute; laonde egli passò alla volta dell'Armenia. Tuttavia non ebbe dispiacere che venissero a trovarlo gli ambasciatori di Vologeso, per esortarli a rimettersi alla clemenza di Cesare. S'impadronì poi di varie castella, e diede tale apprensione ai Parti, che Tiridate fece premura di abboccarsi con lui. Mandati innanzi gli ostaggi romani, Tiridate comparve al luogo destinato; e veduto Corbulone, fu il primo a scendere da cavallo, e seguirono amichevoli accoglienze e ragionamenti, nei quali Tiridate restò di voler riconoscere dall'imperador romano l'Armenia, e che verrebbe a Roma a prenderne la corona, qualora piacesse a Nerone di dargliela: del che Corbulone gli diede buone speranze. In segno poi della sua sommessione andò Tiridate a deporre il diadema a piè dell'immagine dell'imperadore, per ripigliarla poi dalle mani del medesimo Augusto in Roma. Noi non sappiamo che divenisse di Tigrane, re precedente dell'Armenia [Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 23.]. Nacque nell'anno presente a Nerone una figliuola da Poppea, fatta andare apposta a partorire ad Anzo, perchè quivi ancora venne alla luce lo stesso Nerone. Ad essa e alla madre fu dato il cognome di Augusta; e il senato, pronto sempre alle adulazioni, decretò altri onori ad amendue, ed ordinò varie feste. Ma non passarono quattro mesi, che questo caro pegno sel rapì la morte. Nerone, che per tale acquisto era dato in eccessi di gioia, cadde in altri di dolore per la perdita che ne fece. Si fecero in quest'anno i giuochi de' gladiatori, e si videro anche molti senatori e molte illustri donne combattere: tanto innanzi era arrivata la follia de' Romani.
Anno di | Cristo LXIV. Indizione VII. |
Pietro Apostolo papa 36. | |
Nerone Claudio imper. 11. |
Consoli
Caio Lecanio Basso e Marco Licinio Crasso.
Andò in quest'anno Nerone a Napoli [Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 33.] per vaghezza di far sentire a quei popoli nel pubblico teatro la sua canora voce. Grande adunanza di gente v'intervenne dalle vicine città, per udire un imperadore musico, un usignolo Augusto. Ma occorse un terribile accidente, che nondimeno a niun recò danno. Appena fu uscita tutta la gente ch'esso teatro cadde a terra. Pensava quella vana testa di passar anche in Grecia, e in altre parti di Levante, per raccogliere somiglianti plausi; ma poi si fermò in Benevento, nè andò più oltre, senza che se ne sappia il motivo. Fra questi divertimenti fece accusar Torquato Silano, insigne personaggio, discendente da Augusto per via di donne. Il suo reato era di far troppa spesa per un particolare; ciò indicar disegni di perniciose novità. Prima di essere condannato, egli si tagliò le vene. Tornato a Roma Nerone, volle dare una cena sontuosa nel lago di Agrippa, come ha Tacito. Dione [Dio, lib. 61.] scrive ciò fatto nell'anfiteatro, dove, dopo una caccia di fiere, introdusse l'acqua per un combattimento navale; e, dopo averne ritirata l'acqua, diede una battaglia di gladiatori; e finalmente, rimessavi l'acqua, fece la cena. N'ebbe l'incombenza Tigellino. V'erano superbe navi ornate d'oro e d'avorio, con tavole coperte di preziosi tappeti, e all'intorno taverne disposte in gran numero con delicati cibi preparati per ognuno. Canti, suoni dappertutto, ed illuminata ogni parte. Concorso grande di plebe e di nobiltà, tanto uomini che donne, e tutta la razza delle prostitute. Che [231] Babilonia d'infamità e di lascivie si vedesse ivi, nol tacquero gli antichi, ma non è lecito alla mia penna il ridirlo. A questa abbominevole scena ne tenne dietro un'altra, ma sommamente terribile e funesta [Tacit., Annal., lib. 15, c. 38. Dio, lib. 61. Suet., in Ner., c. 38.]. Attaccossi o fu attaccato nel dì 19 di luglio il fuoco alla parte di Roma, dov'era il Circo Massimo, pieno di botteghe di venditori dell'olio. Spirava un vento gagliardo, che dilatò l'incendio pel piano e per le colline con tal furore, che di quattordici rioni di quella gran città dieci restarono orrida preda delle fiamme, ed appena se ne salvarono quattro. Per così fiera strage di case, di templi, di palazzi, colla perdita di tanti mobili, e preziose rarità ed antichità, accompagnata ancora dalla morte d'assaissime persone, che strida, che urli, che tumulto si provasse allora, più facile è l'immaginarlo che il descriverlo. Per sei giorni durò l'incendio (altri dissero di più), senza poter mai frenare il corso a quel torrente di fuoco. Trovavasi Nerone ad Anzo, allorchè ebbe nuova di sì gran malanno, nè si mosse per restituirsi a Roma, se non quando seppe che le fiamme si accostavano al suo palazzo, e agli orti di Mecenate, fabbriche anch'esse appresso involte nell'indicibil eccidio.
Che quella bestia di Nerone fosse l'autore di sì orrida tragedia, a cui non fu mai veduta una simile in Italia, lo scrivono risolutamente Svetonio e Dione e chi poscia da loro trasse la storia romana. Aggiungono, esser egli venuto a sì diabolica invenzione, perchè Roma abbondante allora di vie strette e torte e di case disordinate, o poveramente fabbricate, si rifacesse poi in miglior forma, e prendesse il nome da lui; e che specialmente egli desiderava di veder per terra molte case e granai pubblici, che gl'impedivano il fabbricare un gran palazzo ideato da lui. Dicono di più, che fur veduti i suoi camerieri con fiaccole e stoppia attaccarvi il fuoco; e che Nerone, [232] in quel mentre stava ad osservar lo scempio, con dire: «Che bella fiamma!» Aggiungono finalmente, ch'egli vestito in abito da scena a suon di cetra cantò la rovina di Troia. Ma fra le tante iniquità di Nerone questa non è certa. Tacito la mette in dubbio; e l'altre suddette particolarità sono bensì in parte toccate da lui, ma con aggiungere che ne corse la voce. Trattandosi di un sì screditato imperadore, conosciuto capace di qualsisia enormità, facil cosa allora fu l'attribuire a lui l'invenzione di sì gran calamità, ed ora è a noi impossibile il discernere se vero o falso ciò fosse. Si applicò tosto Nerone a far alzare gran copia di case di legno, per ricoverarvi tutti i poveri sbandati, facendo venir mobili da Ostia e da altri luoghi; comandò ancora, che si vendesse il frumento a basso prezzo. Quindi stese le sue premure, a far rifabbricare la rovinata città, la quale (non può negarsi) da questa sventura riportò un incredibil vantaggio. Imperciocchè con bel ordine fu a poco a poco rifatta, tirate le strade diritte e larghe, aggiunti i portici alle case, e proibito l'alzar di troppo le fabbriche. Tutta la trabocchevol copia dei rottami venne di tanto in tanto condotta via dalle navi che conducevano grani a Roma, e scaricata nelle paludi di Ostia. Vuole Svetonio che Nerone si caricasse del trasporto di quelle demolizioni, per profittar delle ricchezze che si trovavano in esse rovine; nè vi si potevano accostare se non i deputati da lui. Determinò di sua borsa premii a chiunque entro di un tal termine di tempo avesse alzata una casa o palagio: e del suo edificò ancora i portici. Fece distribuire con più proporzione l'acque condotte per gli acquidotti a Roma, e destinò i siti di esse, per estinguere al bisogno gl'incendii, con altre provvisioni che meritavano gran lode, ma non la conseguirono per la comune credenza che da lui fosse venuto sì orribil malanno. Anch'egli imprese allora la fabbrica del suo nuovo palazzo, che fu mirabil [233] cosa, e nominato poi la Casa doro. Svetonio [Sueton., in Nerone, c. 31 et 32. Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 42 et seqq.] ce ne dà un piccolo abbozzo. Tutto il di dentro era messo a oro, ornato di gemme, intarsiato di madreperle. Sale e camere innumerabili incrostate di marmi fini; portici con tre ordini di colonne che si stendevano un miglio; vigne, boschetti, prati, bagni, peschiere, parchi con ogni sorta di fiere ed animali; un lago di straordinaria grandezza, con corona di fabbriche all'intorno a guisa di una città; davanti al palazzo un colosso alto centoventi piedi, rappresentante Nerone. Allorchè egli vi andò poi ad alloggiare, disse: «Ora sì che quasi comincio ad abitare in un alloggio conveniente ad un uomo.» Ma questa sì sontuosa e stupenda mole, con altri vastissimi disegni da lui fatti di sterminati canali, per condur lontano sino a cento sessanta miglia per terra l'acqua del mare, costò ben caro al popolo romano, perciocchè smunto e ridotto al bisogno il prodigo Augusto, passò a mille estorsioni e rapine, confiscando, sotto qualsivoglia pretesto, i beni altrui, imponendo non più uditi dazii e gabelle, ed esigendo contribuzioni rigorose da tutte le città, ed anche dalle libere e collegate; il che fu quasi la rovina delle provincie. Nè ciò bastando, mise mano ai luoghi sacri; estraendone tutti i vasi d'oro e d'argento, e le altre cose preziose. Mandò anche per la Grecia e per l'Asia a spogliar tutti que' templi delle ricche statue degli stessi dii, e di ogni lor più riguardevole ornamento.
Diede occasione lo spaventoso incendio di Roma alla prima persecuzione degl'imperatori pagani [Sueton., in Nerone, c. 16. Tacit., lib. 15, c. 42 et seqq.] contra dei Cristiani. Si era già non solo introdotta, ma largamente diffusa nel popolo romano, per le insinuazioni di s. Pietro Apostolo e de' suoi discepoli, la religione di Cristo; giacchè non duravano fatica i [234] buoni a conservare la santità ed eccellenza in confronto dell'empia e sozza dei Gentili. Nerone, affin di scaricar sopra d'altri l'odiosità da lui contratta per la comune voce di aver egli stesso incendiata quella gran città, calunniosamente, secondo il suo solito, ne fece accusare i Cristiani, siccome attestano Tertulliano, Eusebio, Lattanzio, Orosio ed altri autori, e fin gli stessi storici pagani Tacito e Svetonio. Scrive esso Tacito, ma non già Svetonio, che furono convinti di aver essi attaccato il fuoco a Roma, quando egli stesso poco dianzi avea attestato che la persuasion comune ne facea autore lo stesso Nerone; e Svetonio e Dione ciò danno per certo. Non era capace di sì enorme misfatto chi seguitava la legge purissima di Gesù Cristo, e massimamente durante il fervore e l'illibatezza dei primi Cristiani. A che fine mai, gente dabbene, e lasciata in pace, avea da cadere in sì mostruoso eccesso? Perciò una gran moltitudine di essi fu con aspri ed inutili tormenti fatta morire sulle croci, o bruciata a lento fuoco, o vestita da fiere, per essere sbranata dai cani. Vi si aggiunse ancora l'inumana invenzione di coprirli di cera, pece e di altre materie combustibili, e di farli servir di notte, come tanti doppieri della crudeltà, negli orti stessi di Nerone. Così cominciò Roma ad essere bagnata dal sacro sangue de' martiri. Confessa nondimeno il medesimo Tacito, che gran compassione produsse un così fiero macello di gente, tuttochè, secondo lui, colpevole per una religione contraria al culto dei falsi dii. In questi tempi avendo ordinato Nerone che l'armata navale tornasse al porto di Miseno, fu essa sorpresa da così impetuosa burrasca, che la maggior parte delle galee e di altre navi minori s'andò a fracassare nei lidi di Cuma.
Anno di | Cristo LXV. Indizione VIII. |
Lino papa 1. | |
Nerone Claudio imper. 12. |
Consoli
Aulo Licinio Nerva Siliano e Marco Vestino Attico.
In una iscrizione, rapportata dal Doni e da me [Thesaurus Novus Inscription., pag. 305, num. 4.], si legge SILANO ET ATTICO COS. Se questa sussiste, non Siliano, ma Silano sarà stato l'ultimo dei suoi cognomi. Il cardinal Noris ed altri sostentano Siliano. Per attestato di Tacito, avea Nerone disegnati consoli per le calende di luglio, Plauzio Laterano, dalla cui persona o casa riconosce la sua origine la Basilica Lateranense, ed Anicio Cereale. Il primo, in vece del consolato, ebbe da Nerone la morte, siccome dirò. Fece lo stesso fine Vestino Attico, cioè l'altro console ordinario. Però si può tenere per fermo che Cereale succedesse nel consolato. Roma [Tac., Annal., lib. 15, cap. 48 et seq. Dio, lib. 61. Sueton., in Nerone, cap. 36.] in questo anno divenne teatro di morti violente per la congiura di Caio Calpurnio Pisone, che fu scoperta. Era questi di nobilissima famiglia, ben provveduto di beni di fortuna, grande avvocato dei rei, e però comunemente amato e stimato, benchè dato ai piaceri ed al lusso, e mancante di gravità di costumi. Sarebbe volentieri salito sul trono, e per salirvi conveniva levar di mezzo Nerone; il che non parea tanto difficile, stante l'odio comune. S'egli fosse il primo ad intavolar la congiura, non si sa. Certo è bensì che Subrio, o sia Subio Flavio, tribuno di una compagnia delle guardie, e Mario Anneo Lucano nipote di Seneca, e celebre autore del poema della Farsalia, furono de' primi ad entrarvi, e de' più disposti ad eseguirla. Per una giovanil vanità Lucano (era nato nell'anno 39 dell'Era nostra) non potea digerire che [236] Nerone, per invidia, e pazza credenza di saperne più di lui in poesia, gli avesse proibita la pubblicazione del suddetto poema, ed anche di far da avvocato nelle cause. Entrò in questo medesimo concerto anche Plauzio Laterano, console disegnato, per l'amore che portava al pubblico. Molti altri, o senatori, o cavalieri, o pretoriani, ed alcune dame ancora, chi per odio e vendetta privata, e chi per liberar l'imperio da questo mostro, tennero mano al trattato. Proposero alcuni di ammazzarlo, mentre cantava in teatro, o pur di notte, quando usciva senza guardie per la città. Altri giudicavano meglio di aspettare a far il colpo a Pozzuolo, a Miseno o a Baja, avendo a tal fine guadagnato uno de' principali uffiziali dell'armata navale. In fine fu stabilito di ucciderlo nel dì 12 di aprile, in cui si celebravano i giuochi del Circo a Cerere. Messo in petto di tanti il segreto, per poca avvertenza di Flavio Scevino traspirò. Fece egli testamento; diede la libertà a molti servi; regalò gli altri; preparò fasce per legar ferite: ed intanto, benchè desse agli amici un bel convito, e facesse il disinvolto, pure comparve malinconico e pensoso. Milico suo liberto osservava tutto, e perchè il padrone gli diede da far aguzzare un pugnale rugginoso, s'avvisò che qualche grande affare fosse in volta. Sul far del giorno questo infedele, animato dalla speranza di una gran ricompensa, se n'andò agli orti Serviliani, dove allora soggiornava Nerone, e tanto tempestò coi portinai, che potè parlare ad Epafrodito liberto di corte, che l'introdusse all'udienza del padrone. Furono tosto messe le mani addosso a Scevino, che coraggiosamente si difese, e rivolse l'accusa contro del suo liberto. Ma perchè si seppe, avere nel dì innanzi Scevino tenuto un segreto e lungo ragionamento con Antonio Natale, ancor questo fu condotto dai soldati. Esaminati a parte, si trovarono discordi, e poi alla vista de' tormenti confessarono il disegno; e rivelarono i [237] complici. Allo intendere si numerosa frotta di congiurati, saltò tal paura addosso a Nerone, che mise guardie dappertutto, e nè pur si teneva sicuro in qualunque luogo ch'egli si trovasse.
Vien qui Tacito annoverando tutti i congiurati, e il loro fine. Molti furono gli uccisi, e fra gli altri Caio Pisone, capo della congiura, e Lucano poeta; altri, con darsi la morte da sè stessi, prevennero il carnefice; ed alcuni ancora la scamparono colla pena dell'esilio. Fra gli altri denunziati v'entrò anche Lucio Anneo Seneca, insigne maestro della stoica filosofia; ma che, se si avesse a credere a Dione [Dio, lib. 61.], macchiato fu di nefandi vizii d'avarizia di disonestà e di adulazione. Di lui parla con istima maggiore Tacito, scrittore alquanto più vicino a questi tempi. Consisteva tutto il suo reato nell'essere stato a visitarlo nel suo ritiro Antonio Natale, e a lamentarsi perchè non volesse ammettere Pisone in sua casa, e trattare con lui. Al che avea risposto Seneca, non essere bene che favellassero insieme; del resto dipendere la di lui salute da quella di Pisone. Trovavasi Seneca nella sua villa, quattro miglia lungi di Roma, e mentre era a tavola con due amici, e con Pompea Paolina sua moglie cara, arrivò Silvano tribuno d'una coorte pretoriana ad interrogarlo intorno alla suddetta accusa. Rispose con forti ragioni, nulla mostrò di paura, e parlò senza punto turbarsi in volto. Portata la risposta a Nerone, dimandò, il crudele, se Seneca pensava a levarsi colle proprie mani la vita. Disse Silvano di non averne osservato alcun segno. Farà bene, replicò allora Nerone, ed ordinò di farglielo sapere. Intesa l'atroce intimazione, volle Seneca far testamento, e gli fu proibito. Quindi scelto di morire collo svenarsi, coraggiosamente si tagliò le vene, ed entrò nel bagno per accelerare l'uscita del sangue. Dopo aver lasciati alcuni bei documenti agli amici, morì. Anche la moglie Paolina volle accompagnarlo [238] collo stesso genere di morte, e si svenò, ma per ordine di Nerone fu per forza trattenuta in vita, ed alcuni pochi anni visse dipoi, ma pallida sempre in volto. Le straordinarie ricchezze di Seneca si potrebbe credere gl'inimicassero l'ingordo Nerone, se non che scrive Dione ch'egli le avea dianzi cedute a lui, per impiegarle nelle sue fabbriche. Ancorchè il console Vestinio non fosse a parte della congiura, pure si valse Nerone di questa occasione per levarlo di vita, e lo stesso fece d'altri ch'egli mirava di mal occhio.
Andò poscia Nerone in senato, per informar quei padri del pericolo fuggito e dei delinquenti [Tacitus, Annal., lib. 16, cap. 1.]; e però furono decretati ringraziamenti e doni agli dii, perchè avessero salvato un sì degno principe; ed egli consecrò a Giove vendicatore nel Campidoglio il suo pugnale. Capitò in questi tempi a Roma Cesellio Basso, di nascita Africano, uomo visionario, che ammesso all'udienza di Nerone, gli narrò come cosa certa, che nel territorio di Cartagine in una vasta spelonca stava nascosa una massa immensa d'oro non coniato, quivi riposta o dalla regina Didone, o da alcuno degli antichi re di Numidia. Vi saltò dentro a piè pari l'avido Nerone, senza esaminar meglio l'affare, senza prendere alcuna informazione, e subito fu spedita una grossa nave, scelta come capace di sì sfoggiato tesoro, con varie galee di scorta. Nè d'altro si parlava allora che di questo mirabil guadagno fra il popolo. Per la speranza di un sì ricco aiuto di costa, maggiormente s'impoverì il pazzo imperadore, perchè si fece animo in ispendere e spandere in pubblici spettacoli e in profusion di regali. Ma con tutto il gran cavamento fatto dal suddetto Basso, nè pure un soldo si trovò; e però deluso il misero, altro scampo non ebbe per sottrarsi alle pubbliche beffe, che di togliere colle sue mani a sè stesso la vita. Ma se mancò a Nerone questa pioggia [239] d'oro, si acquistò egli almeno un'incomparabil gloria in quest'anno, coll'aver fatta una pubblica comparsa nella scena del teatro, dove recitò alcuni suoi versi. Fattagli istanza dal popolazzo di metter fuori la sua abilità anche in altri studii, saltò fuori colla cetra in concorrenza d'altri sonatori, e fece udir delle belle sonate. Strepitosi furono i viva del popolo, la maggior parte per dileggiarlo, mentre i buoni si torcevano tutti al mirar sì fatto obbrobrio della maestà imperiale. E guai a que' nobili che non vi intervennero: erano tutti messi in nota. Fu in pericolo della vita Vespasiano (poscia imperadore), perchè osservato dormire in occasione di tanta importanza. Conseguita la corona, passò Nerone, secondo Svetonio e Dione [Sueton., in Nerone, cap. 35. Dio, lib. 62.], a far correre, stando in carrozza, i cavalli. Ito poscia a casa [Tacitus, lib. 16, c. 6.], tutto contento di sì gran plauso, trovò la sola Poppea Augusta sua moglie, che gli disse qualche disgustosa parola. Benchè l'amasse a dismisura, pure le insegnò a tacere con un calcio nella pancia. Essa era gravida, e di questo colpo morì. Donna sì delicata e vana, che tutto dì era davanti allo specchio per abbellirsi; voleva le redini d'oro alle mule della sua carrozza; e teneva cinquecento asine al suo servigio, per lavarsi ogni dì in un bagno formato del loro latte. S'augurava anche piuttosto la morte, che di arrivare ad esser vecchia, e a perdere la bellezza. Opinione è d'insigni letterati [Baron., in Annal. Blanchinius, ad Anastasium. Pagius, in Critica Baroniana.] che nel dì 29 di giugno del presente anno, per comandamento di Nerone, fosse crocifisso in Roma il principe degli Apostoli san Pietro, e che nel medesimo giorno ed anno venisse anche decollato l'Apostolo de' Gentili san Paolo. Certissima è la loro gloriosa morte e martirio in Roma; ma non sembra egualmente certo il tempo; intorno a che potrà il lettore consultare [240] chi ha maneggiato ex professo cotali materie. Nel pontificato romano a lui succedette s. Lino. Dopo la morte di Poppea, Nerone, perchè Antonia figlia di Claudio Augusto, e sorella di Ottavia sua prima moglie, non volle consentir alle sue nozze, trovò de' pretesti per farla morire. Quindi sposò Statilia Messalina, vedova di Vestinio Attico console, a cui egli avea dianzi tolta la vita. Certe altre sue bestialità, raccontate da Dione, non si possono raccontar da me. E Tacito aggiunge l'esilio o la morte da lui data ad altri primarii romani, che mai non gli mancavano ragioni per far del male.
Anno di | Cristo LXVI. Indizione IX. |
Lino papa 2. | |
Nerone Claudio imper. 13. |
Consoli
Caio Lucio Telesino e Caio Svetonio Paolino.
Funesto ancora fu l'anno presente a Roma per l'infelice fine di molti illustri romani, che tutti perirono per la crudeltà di Nerone, principe giunto a non saziarsi mai di sangue, perchè questo sangue gli fruttava l'acquisto dei beni de' pretesi rei. Tacito empie molte carte [Tacitus, Annal., lib. 16, cap. 14 et seq.] di sì tristo argomento. Io me ne sbrigherò in poche parole, per risparmiare la malinconia a chiunque, è per leggere queste carte. Basterà solo rammentare che Anneo Mella, fratello di Seneca, e padre di Lucano poeta, accusato si svenò e terminò presto il processo. Caio Petronio, che ha il prenome di Tito appresso Plinio, uomo di somma leggiadria, e tutto dato al bel tempo, era divenuto uno dei più favoriti di Nerone. La gelosia di Tigellino, prefetto del pretorio, gli tagliò le gambe, e il costrinse a darsi la morte. Ma prima di darsela, fece credere a Nerone di lasciarlo suo erede, e gli mandò il suo testamento. In [241] questo non si leggevano se non le infami impurità ed iniquità di esso Nerone. La descrizione de' costumi lasciati da Tacito, ha dato motivo ad alcuni di crederlo il medesimo, che Petronio Arbitro, di cui restano i frammenti di un impurissimo libro. Ma dicendo esso Tacito, che questo Petronio fu proconsole della Bitinia e console, egli sembra essere stato quel Cajo Petronio Turpiliano, che abbiam veduto console nell'anno 61 di Cristo, e però diverso da Petronio Arbitro. Più di ogni altro venne onorato dalla compassione di tutti, e compianto il caso di Peto Trasea, e di Berea Sorano, amendue senatori e personaggi della prima nobiltà, perchè non solo abbondavano di ricchezze, ma più di virtù, di amore del pubblico bene e di costanza per sostenere le azioni giuste e riprovar le cattive. Per questi lor bei pregi non potea di meno l'iniquo Nerone di non odiarli, e di non desiderar la morte loro. Però il fargli accusare, benchè d'insussistenti reati, lo stesso fu che farli condannare dal senato, avvezzo a non mai contraddire ai temuti voleri di Nerone. Così restò priva Roma dei due più riguardevoli senatori, ch'ella avesse in que' tempi, crescendo con ciò il batticuore a ciascun'altra persona di vaglia, giacchè in tempi tali l'essere virtuoso era delitto. Non parlo d'altri o condannati o esiliati da Nerone nell'anno presente, mentovati da Tacito, la cui storia qui ci torna a venir meno perchè l'argomento è tedioso.
Secondo il concerto fatto con Corbulone governator della Soria, Tiridate fratello di Vologeso re dei Parti [Dio, lib. 63.], si mosse in quest'anno per venir a prendere la corona dell'Armenia dalle mani di Nerone, conducendo seco la moglie, e non solo i figliuoli suoi, ma quelli ancora di Vologeso, di Pacoro e di Monobazo, e una guardia di tremila cavalli. L'accompagnava Annio Viviano, genero di Corbulone, con gran copia d'altri Romani. [242] Nerone, che forte si compiaceva di veder venire a' suoi piedi questo re barbaro, non perdonò a diligenza ed attenzione alcuna, affinchè egli nel medesimo tempo fosse trattato da par suo, e comparisse agli occhi di lui la magnificenza dell'imperio romano. Non volle Tiridate [Plinius, lib. 30, cap. 2.] venir per mare, perchè dato alla magia, peccato riputava lo sputare o il gittar qualche lordura in mare. Convenne dunque condurlo per terra con sommo aggravio dei popoli romani; perchè dacchè entrò e si fermò nelle terre dell'imperio, dappertutto sempre alle spese del pubblico ricevè un grandioso trattamento (il che costò un immenso tesoro), e tutte le città per dove passò, magnificamente ornate, l'accolsero con grandi acclamazioni. Marciava Tiridate in tutto il viaggio a cavallo, con la moglie accanto, coperta sempre con una celata d'oro per non essere veduta, secondo il rito de' suoi paesi, che tuttavia con rigore si osserva. Passato per Bitinia, Tracia ed Illirico, e giunto in Italia, montò nelle carrozze che gli avea inviato Nerone, e con esse arrivò a Napoli, dove l'imperadore volle trovarsi a riceverlo. Menato all'udienza, per quanto dissero i mastri delle cerimonie, non volle deporre la spada. Solamente si contentò che fosse serrata con chiodi nella guaina. Per questa renitenza Nerone concepì più stima di lui; e maggiormente se gli affezionò, allorchè sel vide davanti con un ginocchio piegato a terra, e colle mani alzate al cielo sentì darsi il titolo di Signore. Dopo avergli Nerone fatto godere in Pozzuolo un divertimento con caccia di fiere e di tori, il condusse seco a Roma. Si vide allora quella vastissima città tutta ornata di lumi, di corone, di tappezzerie, con popolo senza numero accorso anche di lontano, vestito di vaghe vesti, e coi soldati ben compartiti coll'armi loro tutte rilucenti. Fu soprattutto mirabile nella mattina del dì seguente il vedere la gran piazza e i tetti anch'essi coperti tutti [243] di gente. Miravasi nel mezzo di esse assiso Nerone in veste trionfale sopra un alto trono, col senato e le guardie intorno. Per mezzo di quel gran popolo condotti Tiridate e il suo nobil seguito, s'inginocchiarono davanti a Nerone, ed allora proruppe il popolo in altissime grida, che fecero paura a Tiridate, e il tennero sospeso per qualche tempo. Fatto silenzio, parlò a Nerone con umiltà non aspettata, chiamando se stesso schiavo, e dicendo di essere venuto ad onorar Nerone come un suo dio, e al pari di Mitra, cioè del sole, venerato dai Parti. Gli pose dipoi Nerone in capo il diadema, dichiarandolo re dell'Armenia; e dopo la funzione passarono al teatro, ch'era tutto messo a oro, per mirare i giuochi. Le tende tirate per difendere la gente dal sole, furono di porpora, sparse di stelle d'oro, e in mezzo di esse la figura di Nerone in cocchio, fatta di ricamo. Succedette un sontuosissimo convito, dopo il quale si vide quel bestion di Nerone pubblicamente cantare e suonar di cetra: e poi montato in carretta colla canaglia de' cocchieri, vestito dell'abito loro, gareggiar nel corso con loro.
Se ne scandalezzò forte Tiridate, e prese maggior concetto di Corbulone, dacchè sapeva servire e sofferire un padrone sì fatto, senza valersi dell'armi contra di lui. Anzi non potè contenersi da toccar ciò in gergo allo stesso Nerone con dirgli: «Signore, voi avete un ottimo servo in Corbulone;» ma Nerone non penetrò l'intenzion segreta di queste parole. Fecesi conto, che i regali fatti da esso Augusto a Tiridate ascendessero a due milioni. Ottenne egli ancora di poter fortificar Artasata, e a questo fine menò da Roma gran quantità di artefici, con dar poi a quella città il nome di Neronia. Da Brindisi fu condotto a Durazzo, e passando per le grandi e ricche città dell'Asia ebbe sempre più occasion di vedere la magnificenza e possanza dell'imperio romano. Ma non ancor sazia la vanità di Nerone per questa funzione che [244] costò tanti milioni al popolo romano, avrebbe pur voluto, che Vologeso re de' Parti fosse venuto anch'egli a visitarlo, e l'importunò su questo. Altra risposta non gli diede Vologeso, se non che era più facile a Nerone passare il Mediterraneo: il che facendo, avrebbono trattato di un abboccamento. Per questo rifiuto a Nerone saltò in capo di fargli guerra; ma durarono poco questi grilli, perchè egli pensò ad una maniera più facile di acquistarsi gloria: del che parleremo all'anno seguente. Nacque [Joseph., de Bello Judaico, lib. 2, cap. 40.] bensì nell'anno presente la guerra in Giudea, essendosi rivoltato quel popolo per le strane avanie de' Romani, mentre Cestio Gallo era governator della Siria, il quale durò fatica a salvarsi dalle loro mani in una battaglia. Fu obbligato Nerone ad inviar un buon rinforzo di gente colà, e scelse per comandante di quell'armata Vespasiano, capitano di valore sperimentato. Io so che all'anno seguente è comunemente riferita la morte di Corbulone, ricavandosi ciò da Dione. Ma al trovar noi, per attestato di Giuseppe Storico, allora vivente, il suddetto Cestio Gallo al governo della Siria, senzachè parli punto di Corbulone, può dubitarsi che la morte di questo eccellente uomo succedesse nell'anno presente. E per valore e per amor della giustizia non era inferiore Corbulone ad alcuno de' più rinomati antichi Romani. Nerone presso il quale passava per delitto l'essere nobile, virtuoso e ricco, non potè lasciarlo più lungamente in vita. Coll'apparenza di volerlo promuovere a maggiori onori, il richiamò dalla Siria, ed allorchè fu arrivato a Cencre, vicino a Corinto, gli mandò ad intimar la morte. Se la diede egli colle proprie mani, tardi pentito di tanta sua fedeltà ad un principe sì indegno, e di essere venuto disarmato a trovarlo. Perchè a noi qui manca la Storia di Tacito, la cronologia non va con piede sicuro.
Anno di | Cristo LXVII. Indizione X. |
Clemente papa 1. | |
Nerone Claudio imper. 14. |
Consoli
Lucio Fontejo Capitone e Cajo Giulio Rufo.
Seguendo le congetture di vari letterati, a s. Lino papa, che martire della Fede finì di vivere in quest'anno, succedette Clemente, personaggio che illustrò dipoi non poco la Chiesa di Dio. Ho riserbato io a parlar qui del viaggio fatto da Nerone in Grecia, benchè cominciato nell'anno precedente, per unir insieme tutte le scene di quella testa sventata. La natura, in mettere lui al mondo, intese di fare un uomo di vilissima condizione, un sonator di cetra, un vetturino, un beccaio, un gladiatore, un buffone. La fortuna deluse le intenzioni della natura, con portare costui al trono imperiale; ma sul trono ancora si vide poi prevalere l'inclinazion naturale [Dio, lib. 63. Sueton., in Nerone, cap. 22]. Invanito egli delle tante adulatorie acclamazioni che venivano fatte in Roma alla soavità della sua voce, alla sua maestria nel suono e bravura nel maneggiar i cavalli stando in carretta: s'invogliò di riscuotere un egual plauso dalle città della Grecia, le quali portavano anche allora il vanto di fare i più magnifici e rinomati giuochi della terra. Perciò si mosse da Roma a quella volta con un esercito di gente, armata non già di lance e scudi, ma di cetre, di maschere e di abiti da commedia e tragedia. Con questa corte degna di un tal imperadore, comparve egli in quelle parti, astenendosi nondimeno dal visitare Atene e Sparta per alcuni suoi particolari riguardi. Fece nell'altre città in mezzo ai pubblici teatri, anfiteatri e circhi, da commediante, da sonatore, da musico, da guidator di carrette abbigliato, ora da servo, ora da donna, ed anche da donna partoriente, da Ercole, da Edipo e da altri simili [246] personaggi. Le corone destinate per chi vinceva ne' suddetti giuochi, tutte senza fallo toccavano a lui. Dicono che ne riportasse più di mille ottocento. Sì gli erano care, che arrivando ambasciatori delle città, per offerirgli i premii delle sue vittorie, questi erano i primi alla sua udienza, questi tenuti alla sua stessa tavola. Pregato da essi talvolta di cantar e sonare dopo il desinare, o dopo la cena, senza lasciarsi molto importunare, dava di mano alla chitarra, e gli esaudiva. Si mostrava ognuno incantato dalla sua divina voce: egli era il dio della musica, egli un nuovo Apollo; laonde ebbe a dire, non esservi nazione, che meglio della greca sapesse ascoltando giudicar del merito delle persone, e di aver trovato essi soli degni di sè e de' suoi studi. Le viltà, le oscenità commesse da Nerone in tal occasione furono infinite; immensi i regali e le spese. Ma nello stesso tempo, per supplire ai bisogni della borsa, impoverì i popoli della Grecia, saccheggiò quei lor templi, a' quali non per anche avea steso le griffe; confiscò i beni di assaissime persone, condannate a diritto e a rovescio. Mandò anche a Roma e per l'Italia Elio, liberto di Claudio, con podestà senza limite, per confiscare, esiliare ed uccidere fino i senatori; e costui il seppe servire di tutto punto, facendo da imperadore, senza essersi potuto conchiudere, chi fosse peggiore, o egli o Nerone stesso.
Volle questo forsennato imperadore, che i giuochi olimpici d'Elide, benchè si dovessero far prima, si differissero sino al suo arrivo in Grecia, per poterne riportare il premio. Colla sua carretta anch'egli entrò nel circo, ma cadutone ebbe ad accopparsi, e più giorni per tal disgrazia stette in letto. Con tutto ciò il premio a lui fu assegnato. Passava male per chi a lui non volea cedere [Lucian., in Nerone.]. Nei giuochi istmici un tragico, miglior musico che politico, perchè non ebbe l'avvertenza di desistere dal canto, per [247] lasciar comparire quel di Nerone, che dovea certamente essere più mirabile del suo, fu strangolato sul teatro in faccia di tutta la Grecia. Vennegli poi in pensiero di far un'opera stabile per cui s'immortalasse il suo nome: e fu quella di tagliare lo stretto di Corinto, per unire i due mari Ionio ed Egeo [Dio, lib. 63. Suetonius, in Nerone, c. 19.]: disegno concepito anche da Giulio Cesare e da molti altri; ma per le molte difficoltà non mai eseguito. Nulla parea difficile alla gran testa di Nerone. Fu egli nel destinato giorno il primo a rompere la terra con un piccone d'oro, e a portar la terra in una cesta, per animare gli altri all'impresa: il che fatto, si ritirò a Corinto, tenendosi per più glorioso di Ercole a cagione di così gran prodezza. Furono a quel lavoro impiegati i soldati, i condannati e gran copia d'altra gente: e Vespasiano [Joseph., de Bello Judaico, lib. 3] gl'inviò apposta seimila Giudei fatti prigioni. Non più di cinque miglia di terra è lo stretto di Corinto; eppure con tante mani in due mesi e mezzo di lavoro non si arrivò a cavar neppure un miglio di quel tratto. Non si andò poi più innanzi, perchè affari premurosi richiamarono Nerone a Roma. Elio liberto, mandato da lui con plenipotenza di far del male in Italia, l'andava con frequenti lettere spronando a ritornarsene, inculcando la necessità della sua presenza in queste parti. Ma Nerone, perduto in un paese dove giorno non passava che non mietesse nuove palme, non trovava la via di lasciar quel cielo sì caro: quand'ecco giugnere in persona Elio stesso, venuto per le poste, che gli mise in corpo un fastidioso sciroppo, avvertendolo che si tramava in Roma una formidabil congiura contro di lui. Allora sì, che s'imbarcò, dopo essersi quasi un anno intero [248] fermato in Grecia, alla quale accordò il governarsi coi propri magistrati, e l'esenzione da tutte le imposte; e venne alla volta d'Italia. Sorpreso fu per viaggio da una tempesta, per cui perdè i suoi tesori, laonde speranza insorse fra molti, che anch'egli in quel furore del mare avesse a perire. Sano e salvo egli compiè la navigazione, ma non già chi avea mostrata speranza o desiderio di vederlo annegato, perchè ne pagò la pena col suo sangue. Come trionfante entrò in Roma sullo stesso cocchio trionfale d'Augusto, su cui veniva anche Diodoro citarista suo favorito, corteggiato dai soldati, cavalieri e senatori. Era addobbata ed illuminata tutta la città, incessanti le acclamazioni dettate dall'adulazione: «Viva Nerone Ercole, Nerone Apollo, Nerone, vincitor di tutti i giuochi. Beato chi può ascoltar la tua voce!» A questo segno era ridotta la maestà del popolo romano. Mentre succedeano queste vergognose commedie in Grecia e in Italia, avea dato principio Flavio Vespasiano [Joseph., de Bello Judaico, lib. 3] alla guerra contro i sollevati Giudei. Già il vedemmo inviato colà per generale da Nerone. La prima sua impresa fu l'assedio di Jotapat, luogo fortissimo per la sua situazione. Vi spese intorno quarantasette giorni, e costò la vita di molti de' suoi; ma de' Giudei vi perirono circa quarantamila persone, e fra gli altri vi restò prigione lo stesso Giuseppe, storico insigne della nazion giudaica, il quale comandava a quelle milizie. Perchè predisse a Vespasiano l'imperio, fu ben trattato. Di molte altre città e luoghi della Galilea s'impadronì Vespasiano, e Tito suo figliuolo riportò qualche vittoria in vari combattimenti, con istrage di gran quantità di Giudei.
Anno di | Cristo LXVIII. Indizione XI. |
Clemente papa 2. | |
Nerone Claudio imper. 15. | |
Servio Sulpicio Galba imper. 1. |
Consoli
Caio Silio Italico e Marco Galerio Tracalo.
Il console Silio Italico quel medesimo è che fu poeta, e lasciò dopo di sè un poema pervenuto sino ai dì nostri. S'era egli meritata la grazia di Nerone, e nello stesso tempo l'odio pubblico, col brutto mestiere d'accusare e far condannare varie persone. Consisteva la riputazion di Tracalo nell'essere uomo di singolar eloquenza, trattando le cause giudiciali. Non durò il loro consolato più del mese d'aprile, a cagion delle rivoluzioni insorte, che liberarono finalmente l'imperio romano da un imperador buffone, mostro insieme di crudeltà [Dio, lib. 63. Sueton., in Nerone, cap. 40 et seqq.]. Ne' primi mesi dell'anno presente Caio Giulio Vindice, vicepretore e governator della Gallia Celtica, il primo fu ad alzar bandiera contro di Nerone, col muovere a ribellione que' popoli: al che non trovò difficoltà, sentendosi essi troppo aggravati dalle estorsioni e tirannie del furioso imperadore, vivamente ancora ricordate loro da Vindice in questa occasione. Non teneva egli al suo comando legione alcuna, ma avea ben molto coraggio, e in breve tempo mise in armi circa centomila persone di que' paesi. Con tutto ciò le mire sue non erano già rivolte a farsi imperadore; anzi egli scrisse tosto a Servio Sulpicio Galba, governatore della Spagna Taraconense [Sueton., in Galba, cap. 9 et seq.], e personaggio di gran credito per la sua saviezza, giustizia e valore, esortandolo ad accettar l'imperio, con promettergli anche la sua ubbidienza. Perciò circa il principio di aprile, Galba, [250] raunata una legione ch'egli avea in quella provincia, con alquante squadre di cavalleria, ed esposte la crudeltà e pazzie di Nerone, si vide proclamato imperadore da ognuno. Egli nondimeno prese il titolo solamente di legato o sia di luogotenente della repubblica. Dopo di che si diede a far leva di gente, e a formare una specie di senato. Parve un felice augurio e preludio, l'essere arrivata in quel punto a Tortosa in Catalogna una nave d'Alessandria carica di armi, senzachè persona vivente vi fosse sopra. In questi tempi soggiornava l'impazzito Nerone tutto dedito ai suoi vergognosi divertimenti in Napoli quando nel giorno anniversario, in cui avea uccisa la madre, cioè nel di 21 di marzo, gli arrivarono le nuove della ribellion della Gallia e dell'attentato di Vindice. Parve che non se ne mettesse gran pensiero e piuttosto ne mostrasse allegria, sulla speranza che il gastigo di quelle ricche provincie gli frutterebbe degl'immensi tesori. Seguitò dunque i suoi spassi, e per otto giorni non mandò nè lettere nè ordini, quasichè volesse coprir col silenzio l'affare. Ma sopraggiunta copia degli editti pubblicati da Vindice nella Gallia, pieni d'ingiurie contra di lui, allora si risentì. Quel che più gli trafisse il cuore, fu il vedere, che Vindice invece di Nerone il nominava col suo primo cognome Enobarbo, [Philostratus, in Apoll.] e diede poi nelle smanie perchè il chiamava cattivo sonator di cetra. Ne conoscete voi un migliore di me? gridò allora rivolto ai suoi, i quali si può ben credere che giurarono di no. Venendo poi un dopo l'altro nuovi corrieri, con più funesti avvisi, tutto sbigottito corse a Roma, consolato nondimeno per avere osservato nel viaggio, scolpito in marmo un soldato gallico trascinato pe' capelli, da un romano: dal che prese buon augurio. Non raunò in Roma nè il senato nè il popolo; solamente chiamò una consulta de' principali al suo palagio, e spese poi [251] il resto della giornata intorno a certi strumenti musicali che sonavano a forza d'acqua. Fu posta taglia sulla testa di Vindice, ed inviati ordini, perchè le legioni dell'Illirico ed altre soldatesche marciassero contra di lui.
Ma sopraggiunto l'avviso che anche Galba s'era sollevato in Ispagna [Plutarchus, in Galba. Suetonius, in Nerone, cap. 42.]; oh allora sì che gli cadde il cuore per terra. Dopo lo sbalordimento tornato in sè, si stracciò la veste, e dandosi dei pugni in testa, gridò che era spedito, parendogli troppo inaudita e strana cosa di perdere, ancorchè fosse vivo, l'imperio. E pure da lì a non molto, perchè vennero nuove migliori tornò alle sue ragazzerie, lautamente cenando, cantando poscia versi contra de' capi della ribellione, e accompagnandoli ancora con gesti da commediante. Andava intanto crescendo il partito de' sollevati nelle Gallie, e tutti con buon occhio ed animo miravano Galba. Fra gli altri che aderirono al suo partito, uno de' primi fu Marco Salvio Ottone, governatore della Lusitania, il quale gli mandò tutto il suo vasellamento d'oro e d'argento, acciocchè ne facesse moneta, ed alcuni uffiziali ancora più pratici de' Gallici per servire ad un imperadore. Ma nelle Gallie si turbarono di poi non poco gli affari. Lucio (chiamato Publio da altri) Virginio o sia Verginio Rufo, governatore dell'alta Germania, che comandava il miglior nerbo dell'armi romane, o da sè stesso determinò, oppure ebbe ordine di marciar contra di Vindice. In favor di Nerone stette salda quella parte della Gallia che s'accosta al Reno, e sopra tutto Treveri, Langres, e in fin Lione si dichiarò contra di Vindice. Pare eziandio, che l'armata della Bassa Germania, cioè della Fiandra ed Olanda, si unisse con Virginio Rufo, il quale marciò all'assedio di Besanzone. Corse colà anche Vindice con tutte le forze per difendere quella città, e seguì un segreto [252] abboccamento fra questi due generali, anzi parve nel separarsi che fossero d'accordo verisimilmente contra di Nerone. Ma accostatesi le soldatesche di Vindice per entrar nella città (il che si suppone concertato con Virginio) le legioni romane, non informate di quel concerto, senza che lor fosse ordinato, si scagliarono addosso alle milizie galliche: e non trovandole preparate per la battaglia e mal ordinate, ne fecero un macello. Vuol Plutarco [Plutarchus, in Galba.] che contro il voler de' generali quelle due armate venissero alle mani. Vi perirono da ventimila Gallici; e tutto il resto andò disperso, con tal affanno di Vindice, che da sè stesso si diede poco appresso la morte. Se di questa non voluta vittoria avesse voluto prevalersi Virginio Rufo, per farsi e mantenersi imperadore, poca fatica avrebbe durato: cotanto era egli amato ed ubbidito da tutta la sua possente armata. Gliene fecero anche più istanze allora e dipoi i suoi soldati; ma egli da vero cittadin romano, e con impareggiabil grandezza d'animo, ricusò sempre, dicendo anche dopo la morte di Nerone, che quel solo dovea essere imperadore che venisse eletto dal senato e popolo romano. Per questo magnanimo rifiuto si rendè poi glorioso Virginio, e tenuto fu in somma riputazione presso tutti i susseguenti Augusti [Plinius Junior, lib. 6, ep. 10. Tacitus, Histor., lib. 2, cap. 49.], e carico d'onori menò sua vita in pace sino all'anno ottantatrè di sua età, in cui regnando Nerva, finì i suoi giorni. In non piccola costernazione si trovò Galba, allorchè intese la disfatta di Vindice, e per vedersi anche male ubbidito dai suoi, spedì a Virginio Rufo, per pregarlo di volere operar seco di concerto affinchè si ricuperasse dai Romani la libertà e l'imperio. Qual risposta ricevesse, non si sa. Solamente è noto [Dio, lib. 63. Sueton., in Galba, cap. 11.] che Galba perduto il coraggio si ritirò con gli amici a Clunia, città della [253] Spagna, meditando già di levarsi di vita se vedea punto peggiorare gli affari.
Era intanto stranamente inviperito Nerone per questi disgustosi movimenti. Nella sua barbara mente altro non passava che pensieri d'inumanità indicibile. Quanti di nazione gallica che si trovavano o per suoi affari o relegati in Roma, tutti li voleva far tagliare a pezzi: permettere il saccheggio delle Gallie agli eserciti; levar dal mondo l'intero senato col veleno; attaccar il fuoco a Roma, e nello stesso tempo aprire i serragli delle fiere, acciocchè al popolo non restasse luogo da difendersi. Nulla poi fece per le difficoltà che s'incontravano. Quindi pensò che s'egli andasse in persona contro i ribelli, vittoria si otterrebbe. Figuravasi egli, che al solo presentarsi piangendo alla vista loro, tutti ritornerebbero alla sua divozione. Credendo inoltre, che a vincere la Gallia fosse necessario il grado di console, per attestato di Svetonio, deposti i consoli ordinari circa le calende di maggio, prese egli solo il consolato per la quinta volta. Trovasi nondimeno in Roma un frammento d'iscrizione, da me dato alla luce [Thesaurus Novus Veter. Inscription., pag. 306, num. 2.], in cui si legge NERONE V. ET TRACHA...... parendo per conseguenza, che Tracalo non dimettesse allora il consolato. Ridicolo fu il preparamento suo per questa grande spedizione. La principal sua attenzione andò a far caricare in carrette scelte tutti gli strumenti musicali e gli abiti da scena con armi e vesti da Amazzoni per le sue concubine. E certo, s'egli cantava una delle sue canzonette a que' rivoltati, potevano eglino non darsi per vinti? Ma occorreva danaro, e assaissimo, a questa impresa. Pose una gravosissima colta al popolo romano, facendola rigorosamente riscuotere. Servì ciò ad aumentar l'odio di ognuno contro di lui, e ad affrettar la sua rovina, tanto più che in Roma era carestia, e quando si credette che [254] un vascello d'Alessandria portasse grani, si trovò che conduceva solamente polve per servigio de' lottatori. Cominciarono allora a fioccar le ingiurie e le pasquinate, e tutto era disposto alla sedizione. Per buona fortuna avvenne [Plutarc., in Galba.], che anche Ninfidio Sabino, eletto in luogo di Fenio Rufo, prefetto del pretorio, uomo di bassa sfera, ma fiero, mosso a compassione di tante calamità di Roma, tenne mano a liberarla dal furioso tiranno. Anche l'altro prefetto, o sia capitan delle guardie, Tigellino che tanto di male avea fatto negli anni precedenti, giunse ora a tradire l'esoso padrone. Essendo stato avvertito Nerone del mal animo del popolo, e giuntogli nel medesimo tempo avviso, mentre desinava, che Virginio Rufo col suo esercito si era dichiarato contra di lui, stracciò le lettere, rovesciò la tavola, fracassò due bicchieri di mirabil intaglio, e preparato il veleno si ritirò negli orti serviliani, meditando o di fuggirsene fra i Parti o di andar supplichevole a trovar Galba, o di presentarsi al senato e al popolo per domandar perdono. Di questa occasione profittò Ninfidio [Ibid.] per far credere ai pretoriani, che Nerone era fuggito, e per far acclamare Galba imperadore, promettendo loro a nome di esso Galba un esorbitante donativo. Verso la mezza notte svegliandosi Nerone, si trovò abbandonato dalle guardie, e con pochi andò girando pel palazzo, senzachè alcuno gli volesse aprire, e senza impetrar dai suoi, che alcuno gli facesse il servigio di ucciderlo. Si esibì Faonte suo liberto di ricoverarlo ed appiattarlo in un suo palazzo di villa, quattro miglia lungi da Roma; ed in fatti colà con grave disagio per luoghi spinosi arrivato si nascose. Fatto giorno, vennero nuove a Faonte che il senato romano avea proclamato imperadore Galba, e dichiarato Nerone nemico pubblico, e fulminate contra di lui le pene consuete. Dimandò [255] Nerone, che pene fossero queste? Gli fu risposto di essere trascinato nudo per le strade, fatto morire a colpi di battiture, precipitato dal Campidoglio, e con un uncino gittato nel Tevere. Allora fremendo mise mano a due pugnali che avea seco, ma senza attentarsi di provare se sapeano ben forare. Udito poi, che veniva un centurione con molti cavalli per prenderlo vivo, aiutato da Epafrodito suo liberto, si diede del pugnale nella gola. Arrivò in quel punto il centurione, fingendo di esser venuto per aiutarlo, e corse col mantello da viaggio a turargli la ferita. Allora Nerone, benchè mezzo morto, disse: «Oh adesso sì che è tempo! E questa è la vostra fedeltà [Dio, lib. 63. Suet., in Ner., c. 57. Euseb., in Chr. Eutrop. et alii.]?» Così dicendo spirò in età di anni trentuno, o pure trentadue, nel dì 9 di giugno, restando i suoi occhi sì torvi e fieri, che faceano orrore a chiunque il riguardava. Permise poi Icelo, liberto di Galba, poco prima sprigionato, che il di lui corpo si bruciasse. Le ceneri furono seppellite, per quanto s'ha da Svetonio assai onorevolmente nel sepolcro dei Domizii. E tale fu il fine di Nerone, degno appunto della sua vita, la quale è incerto se abbondasse più di follie o di crudeltà. Manifesta cosa è bensì, ch'egli fu considerato qual nemico del genere umano, qual furia, qual compiuto modello de' principi più cattivi, anzi dei tiranni, non essendo mai da chiamare legittimo principe chi per forza era salito sul trono, ed avea carpita col terrore l'approvazione del senato e del popolo romano, accrescendo di poi col crudel suo governo e colle tante sue ingiustizie e rapine la macchia del violento ingresso. E tal possesso prese allora nei popoli la fama di questo infame imperadore, che passò anche ai secoli seguenti con tal concordia, che oggidì ancora il volgo del nome di lui si serve per denotare un uomo crudele e spietato. Nulladimeno [256] fra il minuto popolo, vago solamente di spettacoli, e fra i soldati delle guardie, avvezzi a profittare della disordinata di lui liberalità, molti vi furono che amarono ed onorarono la di lui memoria. Fu anche messa in dubbio la sua morte, e si vide uscir fuori in vari tempi più di un impostore, che finse di essere Nerone vivo, con gran commozione dei popoli, godendone gli uni, e temendone gli altri.
Non si può esprimere l'allegrezza del popolo romano allorchè si vide liberato da quel mostro. V'ha chi crede, che tolto di mezzo Nerone, fossero creati consoli Marco Plautio Silvano e Marco Salvio Ottone, il quale fu poi imperadore. Ma di questo consolato d'Ottone vestigio non apparisce presso gli antichi scrittori; e Plutarco [Plutar., in Galba.] osserva, ch'egli venne di Spagna con Galba: dal che si comprende, non aver egli potuto ottenere si fatta dignità in questi tempi. Fuor di dubbio è bensì, che consoli furono Cajo Bellico Natale e Publio Cornelio Scipione Asiatico. Ciò consta dalle iscrizioni ch'io ho riferito [Thesaur. Novus Inscription., pag. 306, n. 3.]. In esse Natale si vede nominato Bellico, e non Bellicio, e gli vien dato anche il cognome di Tebaniano. Galba intanto col cuor tremante se ne stava in Ispagna aspettando qual piega prendessero gli affari; quando in sette dì di viaggio arrivò colà Icelo suo liberto, ed entrato al dispetto de' camerieri nella stanza, dov'egli dormiva, gli diede la nuova ch'era morto Nerone, e di essersene egli stesso voluto chiarire colla visita del cadavero, ed avere il senato dichiarato imperadore esso Galba. Racconta Svetonio, ch'egli tutto allegro immediatamente prese il nome di Cesare. Più probabile nondimeno è, che aspettasse a prenderlo due giorni dopo, nel qual tempo arrivò Tito Vinio da Roma, che gli portò il decreto del senato per la sua elezione in imperadore. Servio [257] (appellato scorrettamente da alcuni Sergio) Sulpicio Galba, che prima avea usato il prenome di Lucio, uscito da una delle più antiche famiglie romane, dopo essere stato console nell'anno di Cristo 55, e dopo aver con lode in vari onorevoli governi dato saggio della sua prudenza e del suo valor militare, si trovava allora in età di settantadue anni [Suet., in Galba, c. 12.]. Ne sperò buon governo il senato romano, ed ancorchè si venisse a sapere che egli era uom rigoroso ed inclinato alla avarizia, male famigliare di non pochi vecchi; pure il merito di avere in lontananza cooperato ad abbattere l'odiatissimo Nerone, fece che comunemente fosse desiderato il suo arrivo a Roma. Partissi egli di Spagna, e a piccole giornate in lettiga passò nelle Gallie, inquieto tuttavia per non sapere se l'armate dell'alta e della bassa Germania, comandate l'una da Virginio Rufo, e l'altra da Fontejo Capitone; fossero per venire alla sua divozione. Soprattutto gli dava dell'apprensione Virginio, siccome quello, a cui vedemmo fatte cotante istanze acciocchè assumesse l'imperio. Ma questi con eroica moderazione indusse l'armata, benchè non senza fatica, a giurar fedeltà a Galba; ed altrettanto anche prima di lui fece Capitone. Poco dipoi grato si mostrò Galba a Virginio, perchè chiamatolo alla corte con belle parole, diede il comandò di quell'esercito ad Ordeonio Fiacco, e da lì innanzi trattò assai freddamente esso Virginio, senza fargli del male, ma neppur facendogli del bene.
I due maggiormente favoriti e potenti presso Galba cominciarono ad essere Tito Vinio, dianzi da noi mentovato, che ci vien descritto da Plutarco [Plutarc., in Galba.] per uomo perduto nelle disonestà, ed interessato al maggior segno, e [Tacitus, Histor., lib. 1, c. 6.] Cornelio Lacone, uomo dappoco, e di parecchi vizii macchiato, che Galba senza dimora [258] dichiarò capitano delle guardie, o sia prefetto del pretorio. Per mano di questi due passavano tutti gli affari. Volle anco Marco Salvio Ottone, vicepretore della Lusitania, accompagnar Galba a Roma. Era egli stato de' primi a dichiararsi per lui, nè lasciava indietro ossequio e finezza alcuna per cattivarsi il di lui affetto, e quello ancora di Vinio, avendo conceputa speranza che il vecchio Galba, sprovveduto di figli, adotterebbe lui per figliuolo. E qualora ciò non succedesse, già macchinava di pervenire all'imperio per altre vie. Giunto Galba a Narbona, quivi se gli presentarono i deputati del senato, accolti benignamente da lui, ma senza che egli volesse mobili di Nerone, inviati da Roma, e senza voler mutare i propri, benchè vecchi; il che gli ridondò in molta stima, per darsi egli a conoscere in tal forma signore moderato e lontano dal fasto. Non tardò poi a cangiar di stile per gli cattivi consigli di Vinio. Intanto in Roma si alzò un brutto temporale, che felicemente si sciolse per buona fortuna di Galba. Ninfidio Sabino prefetto del pretorio, che più degli altri avea contribuito alla morte di Nerone, e all'esaltazione di Galba, si credea di dover essere l'arbitro della corte, e far da padrone allo stesso nuovo Augusto che tanto gli dovea. Perciò imperiosamente depose Tigellino suo collega, e sotto nome di Galba si diede a signoreggiare in Roma [Plutarc., in Galba.]. Ma dappoichè gli fu riferito che Cornelio Lacone aveva anch'egli conseguita la dignità di prefetto del pretorio, e ch'esso con Tito Vinio comandava le feste, se ne alterò forte, perchè non amava nè voleva compagno nell'uffizio suo. Mutate dunque idee, meditò di farsi egli imperadore. Trasse dalla sua quanti soldati delle guardie potè, ed anche alcuni senatori e qualche dama delle più intriganti; e giacchè non si sapea chi fosse suo padre, sparse voce di esser egli figliuolo di Caio Caligola. Gli rassomigliava [259] anche nella fierezza del volto e nell'infame sua impudicizia. Voleva spedire ambasciatori a Galba, per rappresentargli che s'egli si levasse dal fianco Vinio e Lacone, riuscirebbe più grata la sua venuta a Roma. Poscia, in vece di questo, tentò d'intimidirlo con fargli credere mal contente di lui le armate della Germania, Soria e Giudea. E perciocchè Galba mostrava di non farne caso, determinò Ninfidio di prevenirlo con farsi proclamar imperadore dai pretoriani. E gli veniva fatto, se Antonio Onorato, uno de' principali tribuni di quelle compagnie, non avesse con saggia esortazione tenuta in dovere la maggior parte de' pretoriani. Anzi arrivò ad indurgli a tagliare a pezzi Ninfidio: con che si quietò tutto quel romore.
Informato Galba di quest'affare, ed avuta nota d'alcuni complici di Ninfidio, e specialmente di Cingonio Varrone, console disegnato, e di Mitridate, quegli probabilmente ch'era stato re del Ponto, mandò l'ordine della lor morte senz'altro processo, e senza accordar loro le difese: dal che gli venne un gran biasimo. Nella stessa forma tolto fu dal mondo Caio Petronio Turpiliano, stato già console nell'anno di Cristo 61, non per altro delitto che per essere stato amico ed uffiziale di Nerone. Giunto poi Galba a Ponte Molle colla legione condotta seco dalle Spagne, e con altre milizie, se gli presentarono senz'armi alcune migliaia di persone, che Svetonio [Suet., in Galba, cap. 12.] dice di remiganti, alzati all'onore della milizia da Nerone: Dione [Dio, lib. 64.] pretende di soldati, che prima erano dall'armata navale passati al grado di pretoriani. Galba avea comandato che tornassero al loro esercizio nella flotta, ed eglino con alte grida faceano istanza di riaver le loro bandiere. Rinforzavano essi le grida, e, secondo Plutarco [Plutarc., in Galba.], che li suppone armati, alcuni misero mano alle spade, Galba allora [260] ordinò che la cavalleria di sua scorta facesse man bassa contro di loro. Per quel che narra Svetonio, furono messi in fuga, e poi decimati. Tacito scrive che ne furono uccise alcune migliaia; e Dione giugne a dire che furono settemila: il che par poco credibile. Quel che è certo, per azioni tali entrò Galba in Roma già screditato; ed ancorchè facesse alcuni buoni regolamenti in benefizio del pubblico, e rallegrasse il popolo colla morte di Elio, Policeto, Petino, Patrobio e d'altri, che con calunnie aveano fatto perire molti innocenti: pure tant'altre cose operò, che fecero parlare molto di lui il popolo. Imperciocchè contro la espettazion di ognuno non punì Tigellino, ministro primario della crudeltà di esso Nerone, perchè costui seppe guadagnarsi la protezione di Tito Vinio, che tutto potea nel palazzo imperiale. Chiedendogli i pretoriani le immense somme di danaro promesse loro da Ninfidio, con fatica donò pochissimo. E pervenutogli a notizia che se ne lagnavano forte, diede una risposta da saggio Romano, con dire: [Sueton., in Galba, cap. 16.] «Ch'egli era solito ad arrolare per grazia, e non già a comperare i soldati.» Ma se n'ebbe ben presto a pentire. Seguitava [Joseph., de Bello Judaico, lib. 4.] in questi tempi la guerra de' Romani sotto il comando di Vespasiano contra de' Giudei. Si andò egli disponendo per far l'assedio di Gerusalemme, con prendere tutte le fortezze all'intorno; e quella città, che nel di fuori provava tutte le fiere pensioni della guerra, maggiormente era afflitta nel di dentro per le funeste e micidiali discordie degli stessi Giudei, che diffusamente si veggono descritte da Giuseppe Ebreo. Ma perciocchè arrivarono le nuove colà della ribellione delle Gallie e della Spagna, che facea temere di una guerra civile, e poi della morte di Nerone, Vespasiano sospese l'assedio suddetto, e spedì Tito suo figliuolo ad assicurar Galba della sua divozione ed ubbidienza; ma da [261] lì a non molto cangiarono faccia gli affari, siccome vedremo andando innanzi.
Anno di | Cristo LXIX. Indizione XII. |
Clemente papa 3. | |
Servio Sulpicio Galba imper. 2. | |
Marco Salvio Ottone imper. 1. | |
Flavio Vespasiano imper. 1. |
Consoli
Servio Sulpicio Galba imperad. per la seconda volta, e Tito Vinio Ruffino.
Perchè Clodio Macro vicepretore dell'Africa si era anch'egli ribellato contra Nerone, e continuava a far delle estorsioni e ruberie, Galba nell'anno precedente ebbe maniera di farlo levar dal mondo [Tacitus, Historiar., lib. 1, cap. 7. Dio, lib. 64.]. Fu ancora accusato di meditar delle novità nella bassa Germania Fonteio Capitone, il qual pure vedemmo che avea riconosciuto Galba per imperadore. Vero o falso che fosse questo suo disegno, anch'egli fu ucciso, senza aspettarne gli ordini da Roma. Al comando di quell'armata [Sueton., in Vitellio, cap. 7.] inviò Galba, a suggestione di Vinio, Aulo Vitellio, uomo pieno di vizii, oppur creduto tale da non far bene nè male, e che, purchè potesse appagar la sua ingordissima gola, pareva incapace d'ogni grande impresa. Fu questa elezione il principio della rovina di Galba. Costui, pieno di debiti per aver troppo scialacquato sotto i precedenti Augusti, arrivò all'armata della Germania inferiore, e niuna viltà o bassezza lasciò indietro per conciliarsi l'amore di quelle milizie, senza gastigar alcuno, con perdonare e far buona ciera a tutti, e donar loro quel poco che potea. Avvenne che le legioni dimoranti nell'alta Germania, già irritate per l'abbassamento di Virginio Rufo, udendo le relazioni, accresciute molto nel viaggio, dell'avarizia e della crudeltà di Galba, cominciarono ad inclinar tutte alla sedizione; nè Ordeonio Flacco lor comandante, uomo [262] vecchio, gottoso e sprezzato dai soldati, avea forza di tenerle in dovere. In fatti, benchè nel primo giorno di gennaio dell'anno presente, secondo il costume, giurassero, ma con istento, fedeltà a Galba, nel dì seguente misero in pezzi le di lui immagini, e giurarono di riconoscere qualunque altro imperadore che fosse eletto dal senato e popolo romano [Plutarc., in Galba. Tacit., Historiar., lib. 1, cap. 55.]. Tacito scrive che la ribellione ebbe principio nelle stesse calende di gennaio. Volò presto l'avviso di tal novità a Colonia, dove dimorava Vitellio, che ne seppe profittare, con far destramente insinuare ai suoi soldati della bassa Germania di elegger essi piuttosto un imperadore, che di aspettarlo dalle mani altrui. Non vi fu bisogno di molte parole. Nel dì seguente Fabio Valente, venuto colla cavalleria a Colonia, e tratto fuori di casa Vitellio, benchè in vesta da camera, l'acclamò imperadore. Poco stettero ad accettarlo per tale le legioni dell'alta Germania. Le città di Colonia, Treveri e Langres, disgustate di Galba, s'affrettarono ad esibir armi, cavalli e denaro a Vitellio. Accettò egli con piacere il cognome di Germanico: per allora non volle quello d'Augusto; nè mai usò quello di Cesare. Formò poi la sua corte; e gli uffizii, soliti a darsi dall'imperadore ai liberti, furono da lui appoggiati a cavalieri romani. Valerio Asiatico legato della Fiandra, per essersi unito a lui, divenne fra poco suo genero. E Giunio Bleso, governatore della Gallia lugdunense, perchè il popolo di Lione era forte in collera contra di Galba, seguitò anch'egli il partito di Vitellio con una legione e colla cavalleria di Torino.
Galba in questo mentre, il meglio che potea, attendeva in Roma al governo [Tacit., Historiar., lib. 1, cap. 13.], ma per la sua vecchiezza sprezzato da molti, avvezzi alle allegrie del giovane Nerone, e da molti odiato per la sua avarizia. Il potere nella sua corte [263] era compartito fra Tito Vinio, che già dicemmo console, e Cornelio Lacone prefetto del pretorio, e per terzo entrò Icelo liberto di Galba, uomo di malvagità patente. Costoro, emuli e discordi fra loro, abusando della debolezza del vecchio Augusto, si studiavano cadauno di far roba, e di portar innanzi chi potesse succedere a Galba. Ma eccoti corriere, che porta la nuova della sollevazion delle legioni dell'alta Germania. Andava già pensando Galba ad adottare in figliuolo e successor nell'imperio qualche persona, in cui si unisse la gratitudine verso del padre, e l'abilità in benefizio del pubblico. Più degli altri vi aspirava, e confidato nell'appoggio di Tito Vinio sperava Marco Salvio Ottone, più volte da me rammentato di sopra come uomo infame per molti suoi vizii, e veterano negl'intrichi della corte. All'udir le novità della Germania, non volle Galba maggiormente differir le sue risoluzioni per procacciarsi in un giovane figliuolo un appoggio alla sua avanzata età e alla mal sicura potenza. Fatto chiamare all'improvviso nel dì 10 di gennaio, Lucio Pisone Frugi Liciniano, discendente da Crasso e dal gran Pompeo, giovane di molta riputazione e gravità, in età allora di trentun anni, alla presenza di Vinio, di Lacone, di Mario Celso console disegnato e di Ducennio Gemino prefetto di Roma, dichiarò che il voleva suo figliuolo adottivo e successore. Pisone senza comparir turbato, nè molto allegro, rispettosamente il ringraziò. Andarono poi tutti al quartiere dei pretoriani, e quivi più solennemente fece Galba questa dichiarazione per isperanza di guadagnargli l'affetto di que' soldati. Ma perchè non si parlò punto di regalo, quelle milizie mal avvezze ascoltarono con silenzio ed anche con malinconia quel ragionamento. Per attestato di Tacito, la promessa di un donativo poteva assicurar la corona in capo a Pisone; ma Galba non sapea spendere, e volea vivere all'antica, senza riflettere che [264] erano di troppo mutati i costumi. Anche al senato fu portata questa determinazione ed approvata.
Ottone, che di dì in dì aspettava questa medesima fortuna da Galba, allorchè vide tradite tutte le sue speranze, tentò un colpo da disperato. Coll'aver ottenuto un posto in corte ad un servo di Galba, avea poco dianzi guadagnata una buona somma d'argento. Di questo danaro si servì egli per condurre ad una sua trama due, oppur cinque soldati del pretorio [Sveton., in Othone, cap. 5.], a' quali, con tirar nel suo partito pochi altri, prodigiosamente riuscì di fare una somma rivoluzion di cose. Costoro, perchè furono cassati in questo tempo alcuni uffiziali delle guardie, come parziali dell'estinto Ninfidio, sparsero voci di maggiori mutazioni. Quel poltron di Lacone, tuttochè avvertito di qualche pericolo di sedizione, a nulla provvide. Ora nel dì 15 di gennaio, Marco Salvio Ottone, dopo essere stato a corteggiar Galba, si portò alla colonna dorata, dove trovò, secondo il concerto, ventitrè soldati: che così pochi erano i congiurati [Tacitus, Historiar., lib. 1, c. 27. Plutarchus, in Galba.]. L'acclamarono essi imperadore, e messolo in una lettiga, l'introdussero nel quartiere de' pretoriani, senza che a sì picciolo numero di ammutinati alcun si opponesse. A poco a poco altri si unirono ai precedenti, e non finì la faccenda, che tutto quel corpo di milizie, colla giunta ancora dall'altra dell'armata navale, si dichiarò per lui, mercè del buon accoglimento e delle promesse di un gran donativo che Ottone andava di mano in mano facendo a chiunque arrivava. Avvisati di questa novità Galba e Pisone, spedirono tosto per soccorso alla legione condotta dalle Spagne, e ad alcune compagnie di tedeschi. Uscì Galba di palazzo, per una falsa voce che Ottone fosse stato ucciso, sperando che il suo presentarsi ai perfidi [265] pretoriani li farebbe cedere. Ma al comparir essi in armi con Ottone, e al gridare che si facesse largo, il popolo si ritirò, e Galba, in mezzo alla piazza rimasto abbandonato, fu steso con più colpi a terra, ed anche barbaramente messo in brani. Il console Vinio anch'egli restò vittima delle spade. Pisone malamente ferito tanto fu difeso da Sempronio Denso centurione, che potè fuggire e salvarsi nel tempio di Vesta; ma saputosi dov'egli era, due soldati inviati colà anche a lui levarono la vita, e il medesimo fine toccò a Lacone capitan delle guardie. Avvicinandosi poi la sera, entrò Ottone in senato, dove spacciando d'essere stato forzato a prendere l'imperio, ma che volea dipendere dall'arbitrio de' senatori, trovò pronta la volontà e l'adulazione d'ognuno per confermarlo, e per mostrar anche gioia della di lui esaltazione. Gli furono accordati tutti i titoli e gli onori de' precedenti Augusti; e il matto popolo gli diede il cognome di Nerone, per cui non cessava in molti l'affetto. Giacchè non vi erano più consoli, fu conferita questa dignità al medesimo Marco Salvio Ottone imperadore Augusto e a Lucio Salvio Ottone Tiziano suo fratello per la seconda volta. Nelle calende di marzo succederono ad essi Lucio Virginio Rufo e Vopisco Pompeo Silvano: Cedendo questi nelle calende di maggio, furono sostituiti Tito Arrio Antonino e Publio Mario Celso per la seconda volta. Continuarono questi in quel decoroso grado sino alle calende di settembre; ed allora entrarono consoli Caio Fabio Valente ed Aulo Alieno Cecina. Ma essendo stato degradato il secondo d'essi nel dì 31 di ottobre, fu creato console Roseto Regolo, la cui dignità non oltrepassò quel giorno; perciocchè nelle calende di novembre venne conferito il consolato a Gneo Cecilio Semplice e a Caio Quinzio Attico. Tutto ciò si ricava da Tacito [Tacitus, lib. 1, cap. 77.].
Sul principio si studiò Ottone di [266] procacciarsi l'affetto e la stima del popolo. Luminosa fu un'azione sua. Mario Celso poco fu mentovato, che comandava la compagnia delle milizie dell'Illirico, ed era console disegnato, avea con fedeltà soddisfatto al suo dovere nell'accorrere alla difesa di Galba. Dopo la di lui morte venne per baciar la mano ad Ottone [Plutarc., in Othone.]. Gl'iniqui pretoriani alzarono allora le voci, gridando: Muoia. Ottone, bramando di salvarlo dalla lor furia, col pretesto di voler prima ricavare da lui varie notizie, il fece caricar di catene, fingendosi pronto a toglierlo di vita. Ma nel dì seguente il liberò, l'abbracciò, e scusò l'oltraggio fattogli solamente per suo bene. Nè solamente il lasciò poi godere del consolato, ma il volle ancora per uno de' suoi generali e dei più intimi amici, con trovarlo non men fedele verso di sè che verso l'infelice Galba. Alle istanze ancora del popolo indusse a darsi la morte Sofonio Tigellino, da noi veduto infame ministro delle scelleraggini di Nerone. Inoltre si applicò seriamente al maneggio de' pubblici affari, e restituì a molti i lor beni tolti da Nerone: azioni tutte che gli fecero del credito, non parendo egli più quel pigro e quel perduto nel lusso e ne' piaceri che era stato in addietro. Ma i più non se ne fidavano, conoscendolo abituato nei vizii, e simile nel genio a Nerone, le cui statue, come ancor quelle di Poppea, permise che si rialzassero. Osservavano parimente ch'egli mostrava poco affetto al senato, moltissimo ai soldati: laonde temevano che se fosse cessata la paura dell'emulo Vitellio, si sarebbe provato in lui un novello Nerone. E certo egli era comunemente odiato più di Vitellio, non tanto pel tradimento da lui fatto a Galba, quanto perchè il riputavano persona data alla crudeltà, e capace di nuocere a tutti; laddove Vitellio era in concetto di uomo dato ai piaceri, e però in istato di solamente nuocere a sè stesso: benchè in fine amendue fossero poco [267] amati, anzi odiati dai Romani. Intanto era diviso il romano imperio fra questi due competitori. Ottone si trovava riconosciuto imperadore in Roma e da tutta l'Italia. Cartagine con tutta l'Africa era per lui. Muciano, governator della Siria, o sia della Soria, gli fece prestar giuramento dai popoli di quelle contrade [Tacitus, Hist., lib. 1, cap. 1.]. Altrettanto fece Vespasiano nella Palestina. Aveva egli inviato già Tito suo figliuolo, per attestare il suo ossequio a Galba; ma dacchè, arrivato a Corinto, intese la di lui morte, se ne tornò indietro a trovar il padre. Anche le legioni della Dalmazia, Pannonia e Mesia aderirono ad Ottone. Così l'Egitto e le altre città dell'Oriente e della Grecia. Ancorchè Ottone fosse un usurpatore, il nome nondimeno di Roma e del senato romano, che l'avea accettato, bastò perchè tanti altri paesi s'uniformassero al capo dell'imperio.
Ma in mano di Vitellio erano le migliori e più accreditate milizie de' Romani, raccolte dall'alta e bassa Germania, dalla Bretagna e da una parte della Gallia [Idem, ibid., cap. 61 et seq.]. Ne formò egli due eserciti, l'uno di quarantamila combattenti sotto il comando di Fabio Valente, l'altro di trentamila, comandato da Alieno Cecina, a' quali si unirono varii rinforzi di Tedeschi. Ardevano tutti costoro di voglia, non ostante il verno, di far dei fatti, per aver occasione di bottinare (fine primario di chi esercita quel mestiere), mentre il grasso e pigro Vitellio attendeva a darsi bel tempo, con far buona tavola, ubbriaco per lo più. Anche vivente Galba si mossero tante forze sotto i due generali per due diverse vie alla volta d'Italia; cioè Valente per le Gallie, e Cecina per l'Elvezia. Vitellio facea conto di seguitarli dipoi. Nel viaggio ebbero nuova della morte di Galba e dell'innalzamento di Ottone. Dovunque passò Valente per la Gallia, il terrore delle sue armi condusse i popoli all'ubbidienza [268] di Vitellio. Sopra tutto con allegria fu ricevuto in Lione. In altri luoghi non mancarono saccheggi ed anche stragi. Non fece di meno Cecina nel passare pel paese degli Svizzeri. All'avviso di queste armate, che si avvicinavano all'Italia, un reggimento di cavalleria, accampato sul Po, che avea servito una volta in Africa sotto Vitellio, l'acclamò imperadore, e cagion fu che Milano, Ivrea, Novara e Vercelli prendessero il suo partito. Perciò si affrettò Cecina verso la metà di marzo per calare in Italia, ancorchè i monti fossero tuttavia carichi di neve, e spedì innanzi un corpo di gente, per sostenere le suddette città. Gran dire, gran costernazione fu in Roma, allorchè si udì la mossa di tante armi, e l'inevitabil guerra civile [Plutarchus, in Othone.]. Mosse Ottone il senato a scrivere a Vitellio delle lettere amorevoli, per esortarlo a desistere dalla ribellione, offrendogli danaro, comodi e una città. Ne scrisse anch'egli, e dicono [Suetonius, in Othone, cap. 8. Dio, lib. 64. Tacitus, Histor., lib. 1, cap. 74.] che gli esibisse segretamente di prenderlo per collega nell'imperio e per genero. Gli rispose Vitellio in termini amichevoli; tali nondimeno che mostravano di burlarsi di lui. Irritato Ottone gli rispose per le rime, cioè gliene scrisse dell'altre piene di vituperii, e con ridicole sparate, ricordandogli soprattutto l'infame sua vita passata. Non furono meno obbrobriose le risposte di Vitellio. Nè alcun di loro diceva bugia. Amendue ancora inviarono degli assassini, per liberarsi cadauno dall'emulo suo; ma riuscì in fumo il loro disegno. Adunque chiaro si vide, non restar altro che di decidere la contesa coll'armi. Unì Ottone una possente armata anch'egli, composta della maggior parte de' pretoriani e delle legioni venute dalla Dalmazia e Pannonia. E lasciato al governo di Roma Tiziano suo fratello con Flavio Svetonio prefetto d'essa città, e fratello di Vespasiano, [269] dato anche ordine che non fosse fatto torto alcuno alla madre, alla moglie e a' figliuoli di Vitello, nel dì 14 di marzo si licenziò dal senato, e alla testa dell'esercito, non parendo più quell'effeminato uomo di una volta, s'incamminò per venir contro a' nemici. Suoi marescialli erano Svetonio Paolino, Mario Celso ed Annio Gallo, uffiziali non meno prudenti che bravi. Mancavano ben questi pregi a' Licinio Procolo prefetto del pretorio, che pur faceva una delle prime figure in quell'armata. Alieno Cecina, general di Vitellio, arrivato al Po, passò quel fiume a Piacenza, ed assalì quella città, da cui Annio Gallo [Tacitus, Histor., lib. 2, cap. 21.], dopo due dì di valorosa difesa, il fece ritirare a Cremona, malcontento per la perdita di molta gente. Fu in quella occasione bruciato l'anfiteatro de' Piacentini, posto fuori della città, il più capace di gente che fosse allora in Italia. Anche Marzio Macro, console disegnato, diede a Cecina un'altra percossa coi gladiatori di Ottone. Eppur egli, ciò non ostante, volle venire ad un terzo cimento: tanta era la voglia in lui di vincere, affinchè l'altro general di Vitellio, cioè Valente, non gli rapisse o dimezzasse la gloria. In un luogo detto i Castori, dodici miglia lungi da Cremona, tese un'imboscata a Svetonio Paolino e a Mario Celso; ma questi, avutane notizia, presero così ben le misure, che il misero in rotta, ed avrebbono anche rovinata affatto la di lui gente, se Paolino per troppa cautela non avesse impedito ai suoi l'inseguirli. Per questo fu egli in sospetto di tradimento, ed Ottone chiamò da Roma Tiziano suo fratello, acciocchè comandasse l'armi, sebben con poco frutto, perchè Licinio Procolo, capitan delle guardie, benchè uomo inesperto, la facea da superiore a tutti.
Venne poi Valente da Pavia colla sua armata più numerosa dell'altra ad unirsi con Cecina, e tuttochè questi due [270] generali di Vitellio fossero gelosi l'uno dell'altro, si accordarono nondimeno pel buon regolamento della guerra, e per isbrigarla il più presto possibile. Tenne consiglio dall'altra parte Ottone; e il parere de' suoi più assennati generali, cioè di Svetonio Paolino, Mario Celso ed Annio Gallo, fu di temporeggiare, tanto che venissero alcune legioni che si aspettavano dall'Illirico. Ma prevalse quello di Ottone, Tiziano e Procolo, ai quali parve meglio di venir senza dimora a battaglia, perchè i pretoriani credendosi tanti Marti, si tenevano in pugno la vittoria, e tutti ansavano di ritornarsene tosto alle delizie di Roma [Plutarc., in Othone.]. Lo stesso Ottone impaziente per trovarsi in mezzo a tanti pericoli, fra l'incertezza delle cose e il timore di qualche rivolta de' soldati, era nelle spine; però si voleva levar d'affanno con un pronto fatto d'armi. Ma da codardo si ritirò a Brescello, dove il fiume Enza sbocca nel Po, per quivi aspettar l'esito delle cose; risoluzione che accrebbe la sua rovina, perchè seco andarono molti bravi uffiziali e molti soldati, con restare indebolita l'armata sua in mano di generali discordi fra loro, e poco ubbidienti e senza quel coraggio di più che loro avrebbe potuto dar la presenza del principe. Seguì qualche piccolo fatto fra gli staccamenti delle due armate, ma finalmente quella di Ottone, passato il Po, andò a postarsi a qualche miglio lungi da Bedriaco, villa posta fra Verona e Cremona, più vicina nondimeno all'ultimo, verso il fiume Oglio, dove si crede che oggidì sia la terra di Caneto. Molte miglia separavano le due armate; ed ancorchè Svetonio e Mario ripugnassero alla risoluzion conceputa da Procolo di andare nel dì seguente (cioè circa il dì 15 di aprile) ad assalire i nemici, perchè l'arrivar colà stanchi i soldati era un principio d'esser vinti: Procolo persistè nella sua opinione, perchè sollecitato da [271] più lettere di Ottone, che voleva battaglia. Si venne in fatti al combattimento [Dio, lib. 64.], che fu sanguinosissimo, credendosi che fra l'una e l'altra parte restassero sul campo estinte circa quarantamila persone, perchè non si dava quartiere. Ma la vittoria toccò all'armata di Vitellio. I generali di Ottone, chi qua chi là fuggitivi, scamparono colle reliquie della lor gente il meglio che poterono, valendosi del favor della notte [Plutarc., in Othone.]. Ma perchè nel dì seguente si aspettavano di nuovo addosso il vittorioso esercito, con pericolo d'essere tutti tagliati a pezzi, gli uffiziali, soldati e lo stesso Tiziano, fratello di Ottone, che si trovarono insieme, s'accordarono di fare una deputazione a Valente e Cecina, per rendersi. Fu accettata l'offerta, ed unitesi le non più nemiche armate, ognun corse ad abbracciare gli amici, a detestare gli odii passati, e condolersi delle morti di tanti. Giurarono i vinti fedeltà a Vitellio, e cessarono tutti i rancori. Portata questa lagrimevol nuova ad Ottone, dimorante in Brescello, non mancarono già i suoi cortigiani di animarlo, con fargli conoscere arrivate già ad Aquileia tre legioni della Mesia, salvate altre buone milizie a lui fedeli, non essere disperato il caso. Ma egli aveva già determinato di finirla, chi credette per orrore di una guerra civile, come attesta Svetonio [Sueton., in Othone, cap. 10.], chi per poca fortezza d'animo, e chi per acquistarsi una gloria vana con una risoluzion generosa. Pertanto attese spiritosamente nel resto del giorno a distribuir danaro a' suoi domestici ed amici, a bruciar le lettere scrittegli da varie persone contra di Vitellio, affinchè non pregiudicassero a chi le avea scritte, e a dar altri ordini per la sicurezza di molti nobili ch'erano alla sua corte [Tacitus, Histor., lib. 2, c. 48.]. Prese anche nella notte seguente un po' di sonno, ma fu disturbato da un rumor delle guardie, [272] che minacciavano la morte a que' senatori, i quali d'ordine suo erano per ritirarsi, e sopra tutto aveano assediato Virginio Rufo. Uscì Ottone di camera, e con buona maniera calmò quel tumulto. Poscia, sul far del giorno svegliato, intrepidamente si diede un pugnale nel petto, e di quella ferita fra poco morì in età di trentasette anni [Plutarcus, in Othone.]. Al suo cadavero bruciato fu data quella sepoltura che si potè, cioè in terra, colla memoria del solo suo nome senza titolo alcuno. Una massa di monete d'oro, trovate sui primi anni del secolo, in cui scrivo, sul territorio di Brescello, fece credere ad alcuni che fossero ivi seppellite in occasion delle disgrazie di Ottone. Benchè usurpator dell'imperio, e screditato per varie sue ree qualità, cotanto era amato dai soldati, che alcuni d'essi, non meno in Brescello, che in Piacenza e in altri luoghi, pel dolore accompagnarono la di lui morte colla propria, secondo la detestabil usanza e frenesia di quei tempi. Dacchè i soldati, ch'erano in Brescello, non poterono indurre Virginio Rufo ad accettar l'imperio, si diedero ai generali di Vitellio. In un fiero imbroglio si trovò allora la maggior parte del senato che Ottone avea lasciato in Modena, perchè dall'un canto temeva oltraggi dall'armi di Vitellio, e dall'altro i soldati di Ottone tenendoli a vista d'occhio, e riputandoli nemici dell'estinto principe, cercavano pretesti per menar le mani contra di loro. Finalmente ebbero la fortuna di salvarsi a Bologna, dove si mostrarono disposti a riconoscere Vitellio; ma per qualche tempo se ne guardarono a cagion di una falsa voce portata da Ceno, liberto già di Nerone, che i vincitori erano poi stati vinti. Da queste paure non si riebbero se non allorchè arrivarono lettere di Valente che riferirono la vera positura degli affari. In Roma, subito che s'intese quanto era succeduto di Ottone, Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, fece prestar giuramento dal [273] senato e dai soldati che ivi restavano, a Vitellio, e il senato gli accordò tutti gli onori consueti.
Intanto Vitellio, dopo aver lasciato ad Ordeonio Fiacco un corpo di milizie per la guardia del Reno germanico, col resto delle genti che potè raccorre, si mise in viaggio verso l'Italia. Per istrada intese la vittoria de' suoi e la morte di Ottone, e che Cluvio Rufo, governator della Spagna, avea ricuperate le due Mauritanie. Arrivato a Lione, quivi trovò non meno i vincitori che i vinti generali. Perdonò a Tiziano fratello di Ottone, perchè il conosceva per uomo dappoco. Conservò il consolato a Mario Celso. Svetonio e Procolo si acquistarono la di lui grazia con una viltà, asserendo di aver fatta consigliatamente perdere la vittoria ad Ottone nella battaglia di Bedriaco. Mandò Vitellio a Roma un editto, per cui proibiva ai cavalieri il combattere da gladiatori fra loro e contro le fiere negli anfiteatri. Un altro ancora, che tutti gli strologhi e indovini prima delle calende di ottobre fossero fuori d'Italia. Si vide attaccato nella stessa notte un cartello, in cui essi strologhi comandavano a lui di uscire del mondo prima del suddetto medesimo giorno. Se ne alterò talmente Vitellio, che qualunque d'essi che gli capitasse alle mani, senza processo il condannava alla morte. Grande odiosità si tirò egli addosso coll'aver inviato ordine che si levasse la vita a Gneo Cornelio Dolabella uno de' più illustri Romani, odiato da lui per particolari riguardi, che, relegato ad Aquino, era dopo la morte di Ottone ritornato a Roma. L'ordine fu barbaramente eseguito. Intanto a poco a poco tutte le provincie si andarono sottomettendo a lui; ma l'Italia era afflitta per le tante soldatesche del medesimo Vitellio e dell'altre che furono di Ottone. Senza disciplina saccheggiavano, uccidevano, e sotto l'ombra loro anche molti altri faceano ruberie e vendette. Entrato che fu Vitellio in Italia, trovò modo di dividere le [274] milizie (e specialmente i pretoriani) che avevano servito ad Ottone, perchè le conobbe malcontente ed inquiete, e a poco a poco le andò cassando, con dar loro delle ricompense. Venne a Cremona, e volle coi suoi occhi vedere il campo dove s'era data (già scorreano quaranta giorni) la battaglia; ed avvegnachè fossero tuttavia insepolte quelle migliaia di cadaveri, e menasse un insopportabil fetore, non lasciò ordine che si seppellissero; anzi disse che l'odore di un nemico morto sapea di buono. Menava seco circa sessantamila combattenti, senza i famigli ed altre persone destinate al bagaglio, ch'erano più del doppio. Dovunque passava questa gran ciurma, lasciava lagrimevoli segni della sua rapacità e barbarie. Verso la metà di luglio arrivò a Roma, e, se non era distornato da' suoi amici, volea farvi l'entrata in abito da guerra, come in una città conquistata. L'accompagnavano mandre di eunuchi e commedianti, secondo la usanza del suo maestro Nerone, e questi ebbero poi parte agli affari. Trovata Sestilia sua madre nel Campidoglio, le diede il cognome di Augusta; ma ella non se ne allegrò punto, anzi si vergognava di avere un sì indegno imperadore per figlio. Morì ella dipoi in quest'anno, non si sa se per iniquità del figliuolo, o per veleno da lei preso, prevedendo i mali che doveano avvenire. Fece dipoi Vitellio una nuova leva di coorti pretoriane sino a sedici, tutte di mille uomini per cadauna, e gente scelta. Due furono i prefetti del pretorio, cioè Publio Sabino e Giulio Prisco. Valente e Cecina potevano tutto in corte, ma sempre fra loro discordi. Diedesi poi questo ghiottone Augusto, com'era il suo stile, a fare del suo ventre un dio, ma con eccessi maggiori, a misura della dignità e del comodo accresciuto. Il suo mestiere cotidiano era mangiare e bere e vomitare per far luogo ad altri cibi e bevande. Consumava in ciò tesori; e molti si spiantarono per fargli de' conviti. Non istimava [275] nè lodava questo mostro se non le azioni di Nerone, e le imitava bene spesso, inclinando anche alla crudeltà, di cui rapporta Svetonio [Sueton., in Vitellio, cap. 24. Dio, lib. 64] varii esempli; e se fosse sopravvissuto molto, forse sarebbe riuscito anche in ciò non inferiore a lui. La maniera di guadagnarlo soleva essere l'adulazione; ma siccome egli era timido e sospettoso, poco ci voleva a disgustarlo.
E fin qui abbiam veduto le due tragedie di Galba e di Ottone. Ora è tempo di passare alla terza. Di niuno più temeva Vitellio che di Flavio Vespasiano, generale dell'armi romane nella Giudea, dove si continuava la guerra con apparenza ch'egli fosse per assediar Gerusalemme. Allorchè gli venne la nuova che esso Vespasiano e Licinio Muciano, governator della Soria, il riconoscevano per imperadore, ne fece gran festa. Ed, in vero, sulle prime niuno mai s'avvisò che Vespasiano potesse arrivar all'imperio, nè egli vi aspirava, perchè bassamente nato a Rieti e mancante di danaro. Si raccontavano ancora molte viltà di lui nella vita privata; e Tacito [Tacitus, Histor., lib. 2, c. 97. Suetonius, in Vespasiano, c. 4.] ci assicura ch'egli si era tirato addosso l'odio e il dispregio de' popoli; ma i fatti mostrarono poi tutto il contrario. Comunque sia, Dio l'aveva destinato a liberar Roma dai mostri, e a punire l'orgoglio de' Giudei implacabili persecutori del nato Cristianesimo. Era egli per altro dotato di molte lodevoli qualità, perchè senza fasto, temperante nel vitto, amorevole verso tutti, e massimamente verso i soldati, che l'amavano non poco, ancorchè li tenesse in disciplina; vigilante e prudente, buono soldato e migliore capitano. Sopra tutto veniva considerato come amator della giustizia; la sua età era allora d'anni sessanta. Si può giustamente credere che dopo la morte di Galba i più saggi de' Romani, al vedere che i due usurpatori Ottone e Vitellio, [276] senza sapersi chi fosse il peggiore di loro, disputavano dell'imperio, rivolgessero i lor occhi e desiderii a Vespasiano, e segretamente ancora l'esortassero al trono. Flavio Sabino di lui fratello gran figura faceva anch'egli, coll'essere prefetto di Roma, e le sue belle doti maggiormente accreditavano quelle del fratello. O questo fosse, o pure che gli uffiziali e soldati di Vespasiano mirando quel che aveano fatto gli altri in Ispagna, Roma e Germania, non volessero essere da meno: certo è che si cominciò da essi a proporre di far imperadore Vespasiano. Quegli che diede l'ultima spinta all'irrisoluzione di esso Vespasiano, personaggio guardingo e non temerario, fu il suddetto Licinio Muciano governator della Soria, il quale dopo la morte di Ottone gli rappresentò, che non era sicura nè la comune lor dignità, nè la vita sotto quell'infame imperador di Vitellio. Si lasciò vincere in fine Vespasiano, ed essendo entrato nella medesima lega anche Tiberio Alessandro governator dell'Egitto, fu egli il primo a proclamarlo in Alessandria imperadore nel dì primo di luglio [Joseph., de Bello Judaic., lib. 4.]; e lo stesso fece nel terzo giorno di esso mese anche la armata della Giudea, a cui Vespasiano promise un donativo, simile a quel di Claudio e di Nerone. La Soria, e tutte le altre provincie e i re sudditi di Roma in Oriente, e la Grecia alzarono anche esse le bandiere del novello Augusto. Furono scritte lettere a tutte le provincie dell'Occidente, per esortar ciascuno ad abbandonar Vitellio, usurpatore indegno del trono imperiale [Tacitus, Historiar., lib. 2, cap. 82.]. Si fece intendere ai pretoriani cassati da Vitellio, che questo era il tempo di farlo pentire; e veramente costoro arrolatisi in favor di Vespasiano, fecero di poi delle meraviglie contra di Vitellio.
Essendo così ben disposte le cose, e procacciate quelle somme di denaro che si poterono raccogliere per muovere le [277] soldatesche, e in un gran consiglio tenuto in Berito, fu conchiuso che Muciano marcerebbe con un competente esercito in Italia; Tito, figliuolo di Vespasiano, già dichiarato Cesare, continuerebbe lentamente la guerra contro ai Giudei: e Vespasiano passerebbe nella doviziosa provincia dell'Egitto, per raunar danaro, ed affamare o provveder di grani Roma, secondochè portasse il bisogno. Muciano, uomo ambizioso, e che mirava a divenire in certa maniera compagno di Vespasiano nel principato, accettò volentieri quella incumbenza. Per timore delle tempeste non si arrischiò al mare; ma imprese il viaggio per terra, con disegno di passare lo stretto verso Bisanzio; al qual fine ordinò che quivi fossero pronti i vascelli del mar Nero. Non era molto copiosa e possente l'armata di Muciano, ma a guisa de' fiumi regali andò crescendo per via: tanta era la riputazion di Vespasiano, e l'abbominazion di Vitellio. Nella Mesia le tre legioni che stavano ivi a' quartieri, si dichiararono per Vespasiano; e l'esempio d'esse seco trasse due altre della Pannonia, e poi le milizie della Dalmazia, senza neppur aspettare l'arrivo di Muciano. Antonio Primo da Tolosa, soprannominato Becco di Gallo, forse dal suo naso (dal che impariamo l'antichità della parola Becco), uomo arditissimo [Sueton., in Vitellio, cap. 18.], sedizioso ed egualmente pronto alle lodevoli che alle malvage imprese, quegli fu che colla sua vivace eloquenza commosse popoli e soldati contra di Vitellio, nè aspettò gli ordini di Vespasiano o di Muciano, per farsi generale di quelle legioni. Che più? Chiamati in soccorso i re degli Svevi ed altri Barbari, e trovato che quelle milizie nulla più sospiravano che di entrare in Italia, per arricchirsi nello spoglio di queste belle provincie, di sua testa con poche truppe innanzi agli altri calò in Italia, e fu con festa ricevuto in Aquileia, Padova, Vicenza, Este, ed altri luoghi di quelle parti. Mise in rotta un corpo [278] di cavalleria, ch'era postata al Foro da Alieno, dove oggidì è Ferrara. Rinforzato poi dalle due legioni della Pannonia (soleva essere ogni legione composta di seimila soldati), s'impadronì di Verona, e quivi si fortificò. Colà ancora giunse Marco Aponio Saturnino con una delle legioni della Mesia, e concorse ad arrolarsi sotto di Primo gran copia dei pretoriani licenziati da Vitellio. Ancorchè fosse sì grande il suscitato incendio, non s'era per anche mosso l'impoltronito Vitellio. Svegliossi egli allora solamente, che intese penetrato il fuoco fino in Italia. Perchè Valente non era ben rimesso da una sofferta malattia, diede il comando delle sue armi ad Alieno Cecina, con ordine di marciare speditamente contra di Antonio Primo. Venne Cecina con otto legioni almeno, cioè con tali forze che avrebbe potuto opprimerlo. Mandò parte delle milizie a Cremona, e col più della gente armata si portò ad Ostiglia sul Po. Macchinando poi altre cose, perdè apposta il tempo in iscrivere lettere di rimproveri e minacce ai soldati di Primo, ed intanto lasciò che arrivassero a Verona le due altre legioni della Mesia. Finalmente, dappoichè intese che Luciano Basso, governatore della flotta di Ravenna, con cui teneva intelligenza, verso il di 20 d'ottobre s'era rivoltato in favor di Vespasiano: allora, come se fosse disperato il caso per Vitellio, si diede ad esortare i soldati ad abbracciare il partito di Vespasiano, e molti ne indusse a prestar giuramento a lui, e a rompere le immagini di Vitellio. Ma gli altri, che non poteano sofferir tanta perfidia, e quegli stessi che poc'anzi aveano giurato [Dio, lib. 65. Tacitus, Histor., lib. 3, cap. 13.], presi dalla vergogna e pentiti, si scagliarono contra di lui, senza alcun rispetto al carattere di console, incatenato l'inviarono a Cremona, e cominciarono a caricar anch'essi il bagaglio, per passare colà.
Ad Antonio Primo, ch'era in Verona, [279] fu portata dalle spie l'informazione di quanto era accaduto ad Ostiglia, e subito fu in armi, per impedir l'unione di quell'esercito con quel di Cremona. Inoltratosi sino a Bedriaco, luogo fatale per le battaglie, e circa nove miglia lungi da quel sito, s'incontrò colle soldatesche di Vitellio, che uscite di Cremona venivano per unirsi con quelle d'Ostiglia. Ciò fu circa il dì 26 di ottobre. Dopo sanguinoso conflitto le mise in rotta, obbligando chi scampò dalle sue spade a rifugiarsi in Cremona. Ad alte voci allora dimandarono i vittoriosi soldati di andar dirittamente a Cremona, per isperanza d'entrarvi e per avidità di saccheggiarla. Nè gli avrebbe potuto ritenere Primo, se non fosse giunto l'avviso che s'appressava l'altra armata partita da Ostiglia, e in ordinanza di battaglia. Era già sopraggiunta la notte, e pure i due eserciti vennero alle mani con ardore, con fierezza inaudita, combattendo, per quanto comportavano le tenebre, senza distinguere talvolta chi fosse amico o nemico. Levatasi poi la luna, cominciò Primo a provarne del vantaggio, perchè essa dava nel volto ai nemici. Durò il combattimento tutto il resto della notte, e fatto poi giorno, avendo la terza legione, già venuta di Soria, secondo l'uso di que' paesi, salutato il sole con alti ed allegri Viva, questo rumore fece credere a que' di Vitellio che l'esercito di Muciano fosse arrivato, e diede loro tal terrore, che riuscì poi facile a Primo lo sconfiggerli ed obbligarli alla fuga. Giuseppe [Joseph., de Bello Judaico, lib. 5, cap. 13.], narrando che dei soldati di Vitellio in queste azioni perirono trentamila e dugento persone, quattromila e cinquecento di quei di Vespasiano, verisimilmente, secondo l'uso delle battaglie, ingrandì di troppo il racconto, nè noi siam tenuti a prestargli fede. Bensì possiam credere a Dione allorchè dice, che oscurandosi talvolta la luna per qualche nuvola, cessava il combattimento; e che i soldati emuli vicini parlavano [280] l'uno all'altro, chi con villanie, chi con parole amichevoli, e con detestar le guerre civili, e con invitar l'avversario a seguitar Vitellio o pur Vespasiano. Ma non c'è già ragion di credere che l'uno porgesse all'altro da mangiare e da bere, finchè non si provi che i soldati di allora erano sì bravi od industriosi da portar seco anche nel furor delle zuffe le loro bisacce al collo, coll'occorrente cibo e bevanda. Tanto poi Dione quanto Tacito ci assicurano che incomodando forte una grossa petriera, con lanciar sassi, l'esercito di Vespasiano, due coraggiosi soldati, dato di piglio a due scudi degli avversarii, si finsero Vitelliani; ed arrivati alla macchina ne tagliarono le funi, con render essa inutile, ma con restar anch'essi tagliati a pezzi senza che rimanesse memoria alcuna del lor nome. Dopo lo spoglio del campo, a Cremona, a Cremona, gridarono i vincitori soldati. Bisognò andarvi. Si credevano di saltarvi dentro, ma trovarono un impensato ostacolo, cioè un alto e mirabil trinceramento, fatto fuor della città nella precedente guerra di Ottone, alla cui difesa era accorsa quasi tutta la milizia esistente in Cremona. Fecero delle maraviglie i soldati di Vespasiano per superar quel sito: tanta era la lor gola di arrivar al sacco di quella ricca città, che Antonio Primo avea loro benignamente accordato: il che fatto, assalirono la città. Con tutto che questa fosse cinta di forti mura e torri e piena di popolo, invilirono sì fattamente i soldati vitelliani, che non tardarono a trattare di rendersi. Scatenarono per questo Alieno Cecina, acciocchè s'interponesse nel perdono, ed esposero bandiera bianca. Uscì Cecina vestito da console co' suoi littori, cioè colle sue guardie, e passò al campo dei vincitori, ma accolto da tutti con ischerni e rimproveri, perchè la perfidia suol essere pagata coll'odio d'ognuno. D'uopo fu che Antonio Primo il facesse scortare, tanto che fosse in luogo sicuro, da potersi portare a trovar Vespasiano.; [281] Fu perdonato ai soldati di Vitellio, ma non già all'infelicissima città allora celebre per bellissime fabbriche, per gran popolo, per molte ricchezze [Tacitus, Historiar., lib. 3, c. 33. Dio, lib. 65.]. Quarantamila soldati, e un numero maggior di famigli e bagaglioni, come cani v'entrarono. Stragi e stupri senza numero; non si perdonò neppure ai templi: tutto andò a sacco; e in fine si attaccò il fuoco alle case. Gli stessi soldati di Vitellio, che prima difendeano quella città, gareggiarono in tanta barbarie con gli altri; anzi fecero di peggio, perchè più pratici de' luoghi. Che vi perissero cinquantamila di quegli innocenti e miseri cittadini, lo scrive Dione. A me par troppo. Gli abitanti rimasti in vita furono tenuti per ischiavi, e poi riscattati. Per cura di Vespasiano venne poi riedificata e popolata di nuovo quella città.
Vitellio intanto se ne stava in Roma agitato, e con isfoggiata tavola, niuna apprensione mostrando di tanti romori. Ma quando cominciarono sul fine di ottobre ad arrivare l'un dietro l'altro i funesti avvisi di quanto era succeduto, allora gli corse il freddo per l'ossa. E poscia udendo che Antonio Primo s'era messo in cammino per venire a Roma, buffava, non sapea più dove si fosse, ora pensando a far ogni sforzo per resistere, ora a dimettere l'imperio, ed a ritirarsi a vita privata, ora facendo il bravo con la spada al fianco, ed ora il coniglio, con far ridere il senato, e con trovare ormai poca ubbidienza ne' pretoriani. Tuttavia spedì Giulio Prisco ed Alfeno Varo con quattordici coorti pretoriane, e tutti i reggimenti, di cavalleria, a prendere i passi dell'Apennino [Tacitus, Historiar., lib. 3, cap. 55.], e vi aggiunse la legione dell'armata navale: esercito sufficiente a sostener con vigore la guerra, se avesse avuto capitani migliori. Si postò a Bevagna quest'armata, e colà ancora si portò poi lo stesso Vitellio, benchè solennissimo poltrone, per le istanze dei [282] soldati. Attediossi ben presto di quel soggiorno, e venutagli poi nuova che Claudio Faentino e Claudio Apollinare aveano indotta alla ribellione l'armata navale del Miseno, e le città circonvicine, se ne tornò a Roma, ed inviò Lucio Vitellio suo fratello ad occupar Terracina per opporsi da quella banda ai ribelli. Ma Antonio Primo colle milizie fedeli a Vespasiano, alle quali egli permetteva il far quante insolenze ed iniquità volevano nel viaggio, passò l'Apennino. Pervenuto che fu a Narni, se gli arrenderono la legione e le coorti inviate contra di lui da Vitellio. E pur Vitellio in sì duro frangente seguitava a starsene con tal torpedine in Roma, che la gente sapea bensì esser egli il principe, ma parea di non saperlo egli stesso. Ogni dì nuove, l'una più dell'altra cattive. A Fabio Valente suo generale, ch'era stato preso nell'andar nelle Gallie, e rimandato ad Urbino, tagliata fu la testa, per far conoscere ai Vitelliani falsa una voce, ch'egli avesse messa in armi la Germania e Gallia contra di Vespasiano. Vero all'incontro era che anche le Spagne, le Gallie e la Bretagna riconobbero Vespasiano per imperadore. Poc'altro che Roma ormai non restava a Vitellio; e però Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, che fin qui era stato prefetto della città, con fedeltà e buona intelligenza di Vitellio, desiderando di salvar Roma da più gravi disordini, avea proposto dei temperamenti a Vitellio stesso, per salvargli la vita. Altrettanto aveano fatto con lettere Muciano e Primo; e già s'era in concerto che Vitellio, deponendo l'impero, ne riceverebbe in contraccambio un milione di sesterzii e terre nella Campania. In fatti egli nel dì 18 di dicembre, uscito di palazzo in abito nero co' suoi domestici, e col figliuolo tuttavia fanciullo, piangendo dichiarò al popolo che per bene dello Stato egli deponeva il comando; ma nel voler consegnare la spada al console Cecilio Semplice, nè questi nè gli altri la vollero accettare. A tale [283] spettacolo commosso il popolo protestò di non volerlo sofferire; ma scioccamente, perchè tutto si rivolse poscia in danno della città e rovina maggior di Vitellio. Trovavasi in questo mentre un'assemblea de' primi senatori, cavalieri ed uffiziali militari presso Flavio Sabino, [Dio, lib. 65. Tacitus, Histor., lib. 3, cap. 69.] trattando del buono stato di Roma, colla persuasione che veramente fosse seguita, o che seguirebbe la rinunzia di Vitellio. Alla nuova dell'abortito trattato, fu creduto bene che Sabino andasse al palazzo per esortare o forzar Vitellio a cedere. Andò egli accompagnato da una buona truppa di soldati; ma per via essendosi incontrato colla guardia de' Tedeschi, si venne ad un picciolo combattimento. Salvossi Sabino nella rocca del Campidoglio con alcuni senatori e cavalieri, e co' due suoi figliuoli Sabino e Clemente, e con Domiziano figlio minore di Vespasiano. Quivi assediato fece una meschina difesa; v'entrarono i Germani, ed appiccato il fuoco al Campidoglio (non si sa da chi), si vide ridotto in cenere quell'insigne luogo, con perir tante belle memorie che ivi erano: accidente sommamente compianto dal popolo romano. Fuggirono di là Domiziano, i figli di Sabino; non già l'infelice Sabino, che, preso dai Germani insieme con Quinzio Attico console, fu condotto carico di catene davanti a Vitellio. Si salvò Attico; ma Sabino, uomo di gran credito e di raro merito, e fratello maggiore di Vespasiano, sotto le furiose spade di que' soldati perdè la vita: del che più che d'altro s'afflisse dipoi Vespasiano, ma non già Muciano che il riguardava come ostacolo all'ascendente della sua fortuna.
Antonio Primo, informato di queste lagrimevoli scene, mosse allora il suo campo alla volta di Roma, dove si trovò all'incontro la milizia di Vitellio, e lo stesso popolo in armi. Giacchè egli e Petilio Cereale non vollero dar orecchio alle proposizioni di qualche accordo, varii [284] combattimenti seguirono, favorevoli ora all'una ed ora all'altra parte; ma finalmente rimasero superiori quei di Vespasiano. Furono presi varii luoghi di Roma, e il quartiere de' pretoriani, commessi molti saccheggi colle consuete appendici, e strage di tanta gente, che Giuseppe [Joseph., de Bel. Jud., lib. 4, cap. 42. Dio, lib. 65.] e Dione la fanno ascendere a cinquantamila persone [Sueton., in Vitellio, cap. 16.]. Veggendosi allora a mal partito Vitellio, dal palazzo fuggì nell'Aventino, con pensiero di andarsene nel dì seguente a trovar Lucio suo fratello a Terracina. Ma sul falso avviso che non erano disperate le cose, tornò al palazzo, e trovato poi che ognun se n'era fuggito, preso un vile abito, con una cintura piena d'oro, andò a nascondersi nella cameretta del portinaio, oppur nella stalla de' cani, da più di uno de' quali fu anche morsicato. A nulla gli servì questo nascondiglio. Scoperto da un tribuno, per nome Giulio Placido , ne fu estratto, e con una corda al collo, colle mani legate al di dietro, fu menato per le strade, dileggiato, e con picciole punture trafitto in varie forme dai soldati, ed ingiuriato dal popolo, senzachè alcuno compassion ne mostrasse; anzi correndo ognuno a rovesciar le sue statue sotto gli occhi di lui. Credette di fargli servigio un soldato tedesco, per levarlo da tanti obbrobrii, e gli lasciò sulla testa un buon colpo: il che fatto, si ammazzò da sè stesso, ovvero, come si ha da Tacito, fu ucciso dagli altri. Terminò la sua vita Vitellio, coll'essere gittato giù per le scale gemonie; il cadavero suo fu coll'uncino strascinato al Tevere, e la sua testa portata per tutta la città. Era in età di cinquantasette anni; e questo frutto riportò egli dalla sconsigliata sua ambizione, alzato da chi nol conosceva a sì sublime grado, ed abborrito da chi sapea di sua vita, riguardandolo per troppo indegno dell'imperio, e certamente incapace di sostenerlo con tanto perversi [285] costumi e sì grande poltroneria. Restò bensì libera Roma dall'usurpatore Vitellio, ma non già dalle atroci pensioni della guerra civile. Per lungo tempo durarono i saccheggi e gli omicidii. Maltrattato era chiunque fu amico di Vitellio, e sotto questo pretesto si estendeva ad altri la feroce avidità dei vittoriosi e licenziosi soldati: in una parola, tutto era lutto, confusione e lamenti in Roma ed altrove. Ancorchè Domiziano, figlio di Vespasiano, fosse ornato immediatamente col nome di Cesare, pure niun rimedio apportava, intento solo a sfogar le passioni proprie della scapestrata gioventù. Lucio Vitellio, fratello dell'estinto Augusto, venne ad arrendersi colle sue soldatesche, sperando pure miglior trattamento; ma restò anch'egli barbaramente ucciso. Fece lo stesso fine Germanico, piccolo figliuolo del medesimo imperadore. Subito che si potè raunare il senato, furono decretati a Flavio Vespasiano tutti gli onori soliti a godersi dagl'imperadori romani. E bisogno ben grande v'era di un sì fatto imperadore, sì per rimettere in calma la sconcertata Roma ed Italia, come ancora per dar sesto alla Germania e Gallia dove Claudio Civile avea mosso dei gravi torbidi che accenneremo fra poco. Guerra eziandio era nella Giudea, guerra nella Mesia e nel Ponto. Sovrastavano perciò danni e pericoli non pochi alla romana repubblica, se non arrivava a reggerla un Augusto, che per senno e per valore gareggiasse coi migliori.
Anno di | Cristo LXX. Indizione XIII. |
Clemente papa 4. | |
Flavio Vespasiano imperadore 2. |
Consoli
Flavio Vespasiano Augusto imperad. per la seconda volta, e Tito Flavio Cesare suo figliuolo.
Ancorchè fossero lontani da Roma Vespasiano Augusto e Tito suo figlio, dichiarato anch'esso Cesare dal senato, pure, per onorare i principii di questo nuovo imperadore, furono amendue promossi [286] al consolato, in cui procederono per tutto giugno. In essa dignità ebbero per successori nelle calende di luglio Marco Licinio Muciano e Publio Valerio Asiatico: e poscia a questi nelle calende di novembre succederono Lucio Annio Basso e Caio Cecina Peto. Dacchè [Tacit., Histor., lib. 4. Dio, lib. 66.] nell'anno precedente giunse a Roma Muciano, prese egli il governo, facendo quel che gli parea sotto nome di Vespasiano. V'interveniva anche Domiziano Cesare, figliolo dell'imperadore, per dar colore agli affari; ma quantunque egli prendesse molte risoluzioni per le istigazioni degli amici, pure l'autorità era principalmente presso Muciano, uomo di smoderata ambizione, che s'andava vantando d'aver donato l'imperio a Vespasiano, e di essere come fratello di lui, e facendo perciò alto e basso, come s'egli stesso fosse l'imperadore. Certo la sua prima cura fu quella di metter fine all'insolenza dei soldati, e di ridurre la quiete primiera nella città. Ma un'altra maggiormente n'ebbe per adunar danaro il più che si potea, per rinforzare il pubblico fallito erario, dicendo sempre che la pecunia era il nerbo del Principato; nè rincresceva di tirar sopra di sè l'odiosità delle esazioni, e di risparmiarla a Vespasiano, perchè ne profittava non poco anch'egli per sè stesso. Recavano a lui gelosia Antonio Primo, divenuto in gran credito, per aver egli abbassato Vitellio; ed Arrio Varo, perchè alzato alla potente carica di prefetto del pretorio. Quanto a Primo, il caricò di lodi nel senato, gli mostrò gran confidenza, gli fece sperare il governo della Spagna Taraconense, promosse agli onori varii di lui amici; ma nello stesso tempo mandò lungi da Roma le legioni che aveano dell'amore per lui, e fece restar lui in secco. Andò Primo a trovar Vespasiano, che il ricevè con molte carezze; ma Muciano, con rappresentarlo uomo pericoloso a ragion della sua arditezza, e con rilevar gli abbominevoli disordini da lui [287] permessi in Cremona, Roma ed altrove, per guadagnarsi l'affetto de' soldati, gli tagliò in fine le gambe [Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 69.]. Per conto di Varo, gli tolse la prefettura del pretorio, dandogli quella dell'annona, e sostituì nella prima carica Clemente Aretino, parente di Vespasiano.
Allorchè si compiè la tragedia di Vitellio, si trovava Vespasiano in Egitto, Tito suo figliuolo nella Giudea. Non sì tosto ebbe Vespasiano avviso di quanto era avvenuto, che spedì da Alessandria a Roma una copiosa flotta di navi cariche di grano, perchè le soprastava una terribil carestia, e l'Egitto da gran tempo era il granaio de' Romani, affinchè quel gran popolo abbondasse di vettovaglia. Se vogliam credere a Filostrato [Philostratus, in Apollon. Tyan.], Vespasiano fece di gran bene all'Egitto, con dare un saggio regolamento a quel paese, esausto in addietro per le soverchie imposte, Dione [Dio, lib. 66.] all'incontro attesta che gli Alessandrini, i quali si aspettavano delle notabili ricompense, per essere stati i primi ad acclamarlo imperadore, si trovarono delusi, perchè egli volle da loro buone somme di danaro, esigendo gli aggravii vecchi non pagati, senza esentarne nè meno i poveri, ed imponendone di nuovi. Questo era il solo difetto o vizio (se pure, come diremo, tal nome gli competeva) che s'avesse Vespasiano. Perciò il popolo di Alessandria, popolo per altro avvezzo a dir quasi sempre male de' suoi padroni, se ne vendicò con delle satire, e con caricarlo d'ingiurie e di nomi molto oltraggiosi. Perciò vi mancò poco che Vespasiano, quantunque principe savio ed amorevole, non li gastigasse a dovere; e l'avrebbe fatto, se Tito suo figliuolo non si fosse interposto, per ottener loro la grazia, con rappresentare al padre, «che i saggi principi fanno quel che debbono, o credono ben fatto, e poi lasciano dire.» Nella state venne [288] Vespasiano Augusto alla volta di Roma. Arrivato a Brindisi, vi trovò Muciano, ch'era ito ad incontrarlo colla primaria nobiltà di Roma. Trovò a Benevento il figliuolo Domiziano, che già aveva cominciato a dar pruove del perverso suo naturale, con varie azioni ridicole, o con prepotenze. Perchè egli nella lontananza del padre si era arrogata più autorità che non conveniva, e trascorreva anche in ogni sorta di vizii: Vespasiano in collera parea disposto a de' gravi risentimenti contra di questo scapestrato figliuolo [Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 52.]. Il buon Tito suo fratello fu quegli che perorò per lui, e disarmò l'ira del padre. Non lasciò per questo Vespasiano di mortificar la superbia di esso Domiziano. Accolse poi gli altri tutti con gravità condita di cordiale amorevolezza, trattando non da imperadore, ma come persona privata con cadauno. Aveva egli molto prima inviato ordine a Roma, che si rifabbricasse il bruciato Campidoglio, dando tal incombenza a Lucio Vestino, cavaliere di molto credito. Nel dì 21 di giugno s'era dato principio a sì importante lavoro con tutto il superstizioso rituale e le cerimonie di Roma pagana, con essersi gittate ne' fondamenti assai monete nuove e non usate, perchè così aveano decretato gli aruspici. Giunto da lì a non molto Vespasiano a Roma, per meglio autenticar la sua premura per quella fabbrica, e per alzar quivi un sontuoso tempio [Sueton., in Vespasiano, c. 8.], fu dei primi a portar sulle sue spalle alquanti di que' rottami; e volle che gli altri nobili facessero altrettanto, affinchè dal suo e loro esempio si animasse maggiormente il popolo all'impresa. E perciocchè nell'incendio d'esso Campidoglio erano perite circa tremila tavole di rame, o sia di bronzo, cioè le più preziose antichità di Roma, perchè in simili tavole erano intagliate le leggi, i decreti, le leghe, le paci e gli altri atti più insigni del senato e del popolo romano fin dalla fondazione di Roma, [289] comandò che se ne ricercassero diligentemente quelle copie che si potessero ritrovare, e di nuovo s'incidessero in altre tavole. Parimente ordinò Vespasiano che fosse restituita la buona fama a tutti i condannati al tempo di Nerone [Dio, in Excerptis Valesianis.], e sotto i tre susseguenti Augusti, e la libertà a tutti gli esiliati che si trovassero vivi; e che si cassassero tutte le accuse de' tempi addietro. Cacciò eziandio di Roma tutti gli strologhi, gente perniciosa alle repubbliche, quantunque egli non disprezzasse quest'arte vana, e tenesse in sua corte uno di tali pescatori dell'avvenire, stimandolo il più perito degli altri. E si sa ch'egli, a requisizione di un certo Barbillo strologo, concedette al popol di Efeso di poter fare il combattimento appellato sacro: grazia da lui non accordata ad altre città.
Due guerre di somma importanza ebbero in questi tempi i Romani, l'una in Giudea, l'altra nella Gallia e Germania. Diffusamente è narrata la prima da Giuseppe Ebreo; l'una e l'altra da Cornelio Tacito. Io me ne sbrigherò in poche parole. Famosissima è la guerra. Avea quel popolo, ingrato e cieco, ricompensato il Messia, cioè il divino Salvator nostro, di tanti suoi benefizii, con dargli una morte ignominiosa; avea perseguitata a tutto potere fin qui la nata santissima religione di Cristo. Venne il tempo, in cui la giustizia di Dio volle lasciar piombare sopra quella sconoscente nazione il gastigo, già a lei predetto dallo stesso Signor nostro [Joseph., lib. 5 de bello Judaico.]. S'erano ribellati i Giudei all'imperio romano, e per una vittoria da loro riportata contro Cestio, parea che si ridessero delle forze romane [Tacitus, Histor., lib. 5.]. Vespasiano, irritato forte contra di loro, spedì Tito suo figliuolo nella primavera dell'anno presente per domarli. Gerusalemme era in quei tempi una delle più belle; forti e ricche città dell'universo, perchè i Giudei, sparsi in [290] gran copia per l'Asia e per l'Europa, faceano gara di divozione per mandar colà doni al tempio e limosine di danari. Per dar anche a conoscere Iddio più visibilmente che dalla sua mano veniva il gastigo, Tito andò ad assediarla in tempo che un'infinità di Giudei era, secondo il costume, concorsa colà per celebrarvi la Pasqua: nel qual tempo appunto aveano crocifisso l'umanato figliuol di Dio. Che sterminato numero di essi per giusto giudizio di Dio si trovasse ristretto in quella città, come in prigione, si può raccogliere dal medesimo loro storico Giuseppe, il quale asserisce che, durante quell'assedio, vi perì un milione e centomila Giudei, per fame e per la peste. Sanguinosi combattimenti seguirono; ostinato quel popolo mai non volle ascoltar proposizioni di pace e di arrendersi. Avvegnachè riuscisse al copiosissimo esercito romano di superar le due prime cinte di muro di quella città, la terza nondimeno, più forte dell'altre, fu sì bravamente difesa dagli assediati, che Tito perdè la speranza di espugnar la città colla forza, e si rivolse al partito di vincerla con la fame. Un prodigioso muro con fosse e bastioni di circonvallazione fatto intorno a Gerusalemme tolse ad ognuno la via a fuggirsene. Però una orribil fame, e la peste sua compagna, entrate in Gerusalemme, vi faceano un orrido macello di quegli abitanti; i quali anche discordi fra loro e sediziosi, piuttosto amavano di vedere e sofferire ogni più orribile scempio, che di suggettarsi di nuovo al popolo romano. Non si può leggere senza orrore la descrizione che fa Giuseppe di quella deplorabil miseria, a cui difficilmente si troverà una simile nelle storie. Immense furono le ruberie e le crudeltà di quei che più poteano in quella città; le centinaia di migliaia di cadaveri accrescevano il fetore e le miserie di coloro che restavano in vita; faceano i falsi profeti e i tiranni interni più male al popolo che gli stessi Romani. Ma nel dì 22 di luglio [291] il tempio di Gerusalemme, fu preso, e con tutta la cura di Tito Cesare, perchè si conservasse quell'insigne e ricchissimo edificio, Dio permise che gli stessi Giudei vi attaccassero il fuoco, e si riducesse in un monte di sassi e di cenere. S'impadronì poi Tito della città alta e bassa nel mese di settembre colla strage e schiavitù di quanti si ritrovarono vivi. Non solo il tempio, ma anche la città, parte dalle mani de' vincitori, parte dal fuoco furono disfatti ed atterrati; e quella gran città rimase per molto tempo un orrido testimonio dell'ira di Dio, siccome la dispersion di quel popolo senza tempio, senza sacerdoti, che noi tuttavia miriamo, fa fede, quello non essere più il popolo di Dio, siccome aveano predetto i profeti.
L'altra guerra, che i Romani sostennero in questi tempi, ebbe principio nella Batavia, oggidì Olanda, sotto Vitellio [Tacitus, Histor., lib. 4.]. Claudio Civile, persona di sangue reale, di gran coraggio, avendo prese l'armi, stuzzicò quei popoli, e i circonvicini ancora, a rivoltarsi contra de' Romani e di Vitellio, con apparenza nondimeno di sostenere il partito di Vespasiano. Diede sul Reno una rotta ad Aquilio generale de' Romani, e al suo fiacco esercito. Questa vittoria fece voltar casacca a molte delle soldatesche, le quali ausiliarie militavano per l'imperio, e commosse a ribellione altri popoli della Germania e della Gallia; e però cresciute le forze a Claudio Civile, non riuscì a lui difficile il riportare altri vantaggi. Ma dopo la morte di Vitellio, i ministri di Vespasiano inviarono gran copia di gente per ismorzar quell'incendio. Annio Fallo e Petilio Cereale furono scelti per capitani di tale impresa. Andò innanzi il terrore di quest'armata, e cagion fu che la parte rivoltata della Gallia tornasse all'ubbidienza. Furono ripigliate alcune città colla forza, date più sconfitte a Civile e a' suoi seguaci, tanto che tutti a poco a poco si ridussero a piegare il [292] collo, e a ricorrere alla clemenza romana. Domiziano Cesare in questa occasione, bramoso di non essere da meno di Tito suo fratello, volle andare alla guerra; e Muciano, per paura che questo sfrenato ed impetuoso giovane non commettesse qualche bestialità in danno dell'armi romane, giudicò meglio, di accompagnarlo. Seppe poi con destrezza fermarlo a Lione sotto varii pretesti, tanto che si mise fine a quella guerra, senzachè egli vi avesse mano; e poscia; il ricondusse in Italia, acciocchè andasse ad incontrar il padre Augusto, il quale; siccome già dicemmo, venne a Roma nell'anno, presente, e fu ricevuto con gran magnificenza dappertutto.
Anno di | Cristo LXXI. Indizione XIV. |
Clemente papa 5. | |
Flavio Vespasiano imperadore 3. |
Consoli
Flavio Vespasiano Augusto per la terza volta, e Marco Cocceio Nerva.
Nerva, collega dell'imperadore nel consolato, divenne anch'egli col tempo imperadore. Non tennero essi consoli se non per tutto febbraio quella dignità, e ad essi succederono, nelle calende di marzo, Flavio Domiziano Cesare, figliuolo di Vespasiano, e Gneo Pedio Casto. Merito grande s'era acquistato Tito Cesare presso il padre per la guerra gloriosamente terminata nella Giudea. Maggior anche era il merito de' suoi dolci costumi [Sveton., in Tito, cap. 5.]. Cotanto si faceva egli amar dai soldati, che, dopo la presa di Gerusalemme, l'armata romana, gli diede il titolo militare d'imperadore; e volendo egli venire a Roma, cominciarono tutti con preghiere, e poi con minacce, a gridare o che restasse egli, o che tutti li conducesse seco. Per questo e per qualche altro barlume insorse sospetto presso della gente maliziosa ch'egli nudrisse dei disegni di rivoltarsi contra del padre: il [293] che giammai a lui non cadde in pensiero. Ne fu anche informato Vespasiano; ma siccome egli avea troppe prove dell'onoratezza del figliuolo, così non ne fece caso; anzi udito che già egli era in viaggio, il fece dichiarar suo collega nell'imperio, e compagno anche nella podestà tribunizia, ma senza conferirgli i titoli di Augusto e Padre della Patria. Questi onori equivalevano allora alla dignità dei re de' Romani de' nostri giorni, ed erano un sicuro grado per succedere al padre Augusto nella piena dignità ed autorità imperiale [Philostratus, in Apollon. Tyaneo.]. Passando per la Città di Argos, volle Tito abboccarsi con Apollonio Tianeo, filosofo di gran grido in questi tempi, e di cui molte favole hanno spacciato i Gentili. Il pregò di dargli alcune regole per saper ben governare. Altro non gli diss'egli, se non d'imitar Vespasiano suo padre, e di ascoltar con pazienza Demetrio filosofo cinico, che facea professione di dir liberamente, e senz'adulazione o rispetto di alcuno, la verità; e che non s'inquietasse, se l'avesse ripreso di qualche fallo. Tito promise di farlo. Sarebbe da desiderare un filosofo sì fatto, e con tale autorità in ogni corte; e fors'anche in ogni paese si troverebbe volendolo. Ma è da temere che non si trovassero poi tanti Titi. Ebbe Tito sentore per istrada delle relazioni maligne portate di lui al padre (e forse n'era stato sotto mano autore l'invidioso Domiziano) con fargli anche sospettare che Tito non verrebbe, perchè macchinava cose più grandi. Allora egli s'affrettò, e in una nave da carico, quando men s'aspettava, arrivò in corte; e quasi rimproverando il padre ch'era uscito in fretta ad incontrarlo, un po' agramente gli disse: Son venuto, Signor e Padre, son venuto.
Fu decretato il trionfo dal senato tanto a Vespasiano, quanto al figliuolo, e separatamente per la vittoria giudaica. Ma Vespasiano che amava il risparmio [294] in tutte le occorrenze, nè potea sofferir tanta spesa, si contentò d'un solo che servisse ad amendue. Non s'era mai veduto in addietro un padre trionfar con un figlio: si vide questa volta. Memoria di questo trionfo tuttavia abbiamo nell'arco di Tito in Roma, dato anche alle stampe dal Bellorio, e vi si mira portato l'aureo candelabro del tempio di Gerusalemme. L'essersi felicemente terminate le guerre della Giudea e Germania, diede campo a Vespasiano di fabbricar il tempio della Pace, e di chiudere quello di Giano; giacchè per tutto l'imperio romano si godeva un'invidiabil calma. Questa specialmente tornò a fiorire in Roma insieme colla giustizia, per tanti anni in addietro bandita da essa, e vi risorse la quiete degli animi e l'allegria: tutti effetti del saggio e dolce governo di Vespasiano. Buon concetto si avea nei tempi andati di questo personaggio; ma, divenuto imperadore; superò di lunga mano l'aspettazion di ognuno [Sueton., in Vespasiano, cap. 8.]. Imperocchè tosto si accinse egli con vigore a ristabilire Roma e l'imperio, che tanto aveano patito sotto i precedenti, o principi o tiranni; nè si diede mai posa, finchè visse, per levare i disordini, e per abbellire quella gran città. Chiara cosa essendo che i passati affanni principalmente erano proceduti dall'avidità, insolenza e poca disciplina de' soldati, e soprattutto de' pretoriani, vi rimediò col cassare la maggior parte di quei di Vitellio, ed esigere rigorosamente la buona disciplina dai suoi propri. Per assicurarsi meglio del pretorio, cioè delle guardie del palazzo, con istupore di ognuno, creò lo stesso Tito, suo figliuolo e collega, prefetto del pretorio: carica sempre innanzi esercitata dai cavalieri, e che perciò divenne col tempo la più insigne ed apprezzata dopo la dignità imperiale [Dio, lib. 66.]. La vita di Vespasiano era senza fasto. Il venerava ognuno come signore, ed egli amava all'incontro di [295] comparir verso tutti piuttosto concittadino, e come persona tuttavia privata. Di rado abitava nel palazzo, più spesso negli orti sallustiani, luogo delizioso. Dava quivi benignamente udienza non solo ai senatori, ma agli altri ancora di qualsivoglia grado. Vigilantissimo, soleva avanti giorno, stando in letto, leggere le lettere e le memorie a lui presentate, ammettere i suoi familiari ed amici, quando si vestiva, e favellar con loro delle cose occorrenti. Uno di questi era Plinio il Vecchio [Plinius Junior, lib. 4, epist. 5.]. Anche andando per istrada non rifiutava di parlare con chi avea bisogno di lui. Fra il giorno stavano aperte a tutti e senza guardia le porte della sua abitazione. Sempre interveniva al senato, mostrando il convenevol rispetto a quell'ordine insigne, nè v'era affare d'importanza che non comunicasse con loro. Sovente ancora, andava in piazza a rendere giustizia al popolo. E qualora per la sua avanzata età non potea portarsi al senato, gli partecipava i suoi sentimenti in iscritto, e incaricava i suoi figliuoli di leggerli. Nè solamente in ciò dava egli a conoscere la stima che facea del senato, ma eziandio col voler sempre alla sua tavola molti dei senatori, e coll'andar egli stesso non rade volte a pranzare in casa degli amici e dei familiari suoi. Sapeva dir delle burle, e pungere con grazia; nè s'avea a male, se altri facea lo stesso verso di lui. Dilettavasi massimamente di praticar colle persone savie, per le quali non vi era portiera, e fu udito dire [Philostratus, in Vita Apollonii Tyan.]: Oh potess'io comandare a dei saggi, e che anche i saggi potessero comandare a me! Non mancavano neppure in que' tempi pasquinate e satire contro di lui; ma egli, benchè, ne fosse avvertito, non se [296] ne alterava punto, seguitando, ciò non ostante, a far ciò che riputava utile alla repubblica. Allorchè Vespasiano era in Grecia col pazzo Nerone [Dio, lib. 66. Suetonius, in Vespasiano, cap. 14.], vedendolo un dì nel teatro prorompere in parole, e gesti indecenti alla sua dignità, non seppe ritenersi dal fare un cenno di stupore e disapprovazione. Febo, liberto di Nerone, osservato ciò, se gli accostò, e dissegli che un par suo non istava bene in quel luogo. Dove, volete ch'io vada?, disse allora Vespasiano. E il superbo ed insolente liberto replicò, che andasse alle forche. Costui ebbe tanto ardire di presentarsi, davanti a lui, già divenuto imperadore, per addurre delle scuse. Altro male non gli fece Vespasiano, se non di dirgli, che se gli levasse davanti, e andasse alle forche. Con rara pazienza sofferiva egli che gli si dicesse la verità, e godeva quel bel privilegio, tanto esaltato da Cicerone in Giulio Cesare, di dimenticar le ingiurie. Maritò molto decorosamente tre figliuole di Vitellio; e benchè si trovasse più d'uno che macchinò congiure contra di un principe sì buono, contuttociò niuno mai gastigò se non coll'esilio, solendo anche dire, che compativa la pazzia di coloro, i quali aspiravano all'imperio, perchè non sapevano che aggravio e spine l'accompagnassero. Però sua usanza fu di guadagnar coi benefizii, e non di rimeritar coi gastighi, chi era stato ministro della crudeltà de' tiranni, perchè volea credere che avessero così operato più per paura che per malizia. E questo per ora basti de' costumi di Vespasiano. Ne riparleremo andando innanzi, come potremo, giacchè si son perdute le storie di Tacito, e con ciò a noi manca il filo cronologico delle azioni di questo principe.
Anno di | Cristo LXXII. Indizione XV. |
Clemente papa 6. | |
Vespasiano imperadore 4. |
Consoli
Vespasiano Augusto per la quarta volta, e Tito Flavio Cesare per la seconda.
Dappoichè Muciano venuto a Roma cominciò a godere de' primi onori, il governo della Siria fu dato da Vespasiano a Cesennio Peto. Scriss'egli a Roma, che Antioco re della Comagene, il più ricco dei re sudditi di Roma, con Epifane suo figliuolo teneva dei trattati secreti con Vologeso re dei Parti, disegnando di rivoltarsi. Dubita Giuseppe Ebreo [Joseph., de Bello Judaico, lib. 7.], se Antioco fosse di ciò innocente, o reo, ed inclina piuttosto al primo. Peto gli volea poco bene; e potè ordir questa trama. Vespasiano, a cui troppo era difficile il chiarire la verità, nè volea trascurar l'affare, essendo di somma importanza quella provincia per le frontiere della Soria e dell'imperio romano: mandò ordine a Peto di far ciò ch'egli credesse più convenevole, e giusto in tal congiuntura. Pertanto unitosi quel governatore con Aristobolo re di Calcide, e con Soemo re di Emessa, entrò coll'esercito nella Comagene. A questa inaspettata mossa Antioco si ritirò con tutta la sua famiglia, e senza voler far fronte all'armi romane, lasciò che Peto entrasse in Samosata capitale dei suoi Stati. Epifane e Callinico suoi figliuoli, prese le armi, fecero qualche resistenza; ma tardarono poco i lor soldati a rendersi ai Romani. Si rifuggirono essi alla corte di Vologeso, re dei Parti, che gli accolse, non già come esiliati, ma come principi. Antioco lor padre fuggì nella Cilicia. Peto inviò gente, a cercarlo, ed essendo stato colto a Tarsi, fu caricato di catene, per essere condotto a Roma. Nol permise Vespasiano, e spedì ordini che fosse rimesso in libertà, e che potesse abitare a Sparta, dove gli facea somministrar tutto l'occorrente, [298] acciocchè vivesse da par suo. Per intercessione poi di Vologeso, ai di lui figliuoli fu permesso di venire a Roma. Vi venne anche Antioco, e tutti riceverono trattamento onorevole, senza più riaver quegli Stati. Siamo assicurati da Svetonio [Suet., in Vespasiano, c. 8.] che la Comagene, siccome ancora la Tracia, la Cilicia e la Giudea furono ridotte in provincie sotto Vespasiano, cioè immediatamente governate dagli uffiziali romani. Ma non tutto ciò avvenne sotto il presente anno. Fece in questi tempi Vologeso re de' Parti istanza d'aiuti ai Vespasiano, perchè gli Alani, feroce popolo della Tartaria, entrati nella Media, obbligarono a fuggirne Pacoro re di quel paese, e Tiridate re dell'Armenia, minacciando anche il dominio di Vologeso. Non si volle mischiar Vespasiano negli affari di que' Barbari; e forse di qua venne qualche alterazion di animo fra di loro. Sappiamo da Dione [Dio, lib. 66.], aver quel superbo re scritta una lettera con questo titolo: Arsace re dei re a Vespasiano, senza riconoscerlo per imperador de' Romani. Vespasiano, lungi dal farne rimprovero o doglianza alcuna, gli rispose nel medesimo tenore: Ad Arsace re dei re, Vespasiano. Credesi [Tacitus, in Vita Agricolae, c. 17.] che in questi tempi avvenisse qualche guerra nella Bretagna, dov'era andato per governatore Petilio Cereale, con far quivi l'armi romane nuove conquiste.
Seguitava intanto Vespasiano a far dei saggi regolamenti [Suet., in Vespasiano, c. 9.] per levare gli abusi, e rimettere il buon ordine in Roma. Osservate alcune persone indegne ne' due nobili ordini senatorio ed equestre, le levò via; e perchè era scemato di molto il numero dei medesimi senatori e cavalieri, per la crudeltà de' regnanti precedenti, aggregò a quegli ordini le famiglie e persone più riguardevoli e degne, non tanto di Roma, quanto dell'Italia e dell'altre provincie. Trovò che le liti civili [299] erano cresciute a dismisura, andavano in lungo e si eternavano anche talvolta: male non forestiere anche in altri tempi e in altri luoghi. Cercò di rimediarvi con eleggere varii giudici, che le sbrigassero senz'attendere le formalità e lunghezze ordinarie del foro. Per mettere freno alla libidine delle donne libere che sposavano gli schiavi, rinnovò il decreto che anch'esse, perduta la libertà, divenissero schiave. Per frastornar coloro che prestavano danaro ad usura ai figliuoli di famiglia, vietò il poterlo esigere dopo la morte dei padri. Ma nulla più contribuì alla correzion de' costumi e a far cessare il soverchio lusso de' Romani, che l'esempio dell'imperadore stesso. Parca era la mensa sua; semplice e non mai pomposo il suo vestire; sicura dal di lui potere l'altrui onestà. Il disapprovar egli colle parole e coi fatti gli eccessi introdotti, più che le leggi e i gastighi, ebbe forza d'introdurre la riforma dei costumi nella nobiltà, e in chiunque desiderava d'acquistare o conservar la grazia di lui. Aveva [Suet., in Vespasiano, c. 8.] egli conceduta una carica ad un giovane. Andò costui per ringraziarlo tutto profumato. Questo bastò perchè Vespasiano, guatandolo con disprezzo, gli dicesse: Avrei avuto più caro che tu puzzassi d'aglio; e gli levò la patente. Oltre a ciò, per guarire l'altrui vanità e superbia col proprio esempio, parlava egli stesso della bassezza della prima sua fortuna, e si rise di chi avea compilata una genealogia piena di adulazione, per mostrare [Idem, cap. 12.] ch'egli discendeva dai primi fondatori della città di Rieti sua patria, e da Ercole. Anzi talora nella state andava a passar qualche giorno nella villa, dov'egli era nato, fuori di Rieti, senza voler mai che a quel luogo si facesse mutazione alcuna, per ben ricordarsi di quello ch'egli fu una volta. E in memoria di Tertulla sua avola paterna, che l'avea allevato, nei dì solenni [300] e festivi solea bere in una tazza d'argento da lei usata.
Anno di | Cristo LXXIII. Indizione I. |
Clemente papa 7. | |
Vespasiano imperadore 5. |
Consoli
Flavio Domiziano Cesare per la seconda volta, e Marco Valerio Messalino.
Console ordinario fu in quest'anno Domiziano [Suet., in Domiziano, cap. 2.], non già per li meriti suoi nè per elezione del saggio suo padre, ma perchè il buon Tito suo fratello, disegnato per sostenere anche nell'anno presente sì riguardevol dignità, la cedette a lui, e pregò il padre di contentarsene. E si vuol qui appunto avvertire che esso Tito era in tutti gli affari il braccio diritto del vecchio padre [Idem, in Tito, cap. 6.]. A nome di lui dettava egli le lettere e gli editti, e per lui recitava in senato le determinazioni occorrenti. Secondochè s'ha dalla cronaca d'Eusebio [Euseb., in Chron.], circa questi tempi (se pur ciò non fu più tardi) l'Acaia, la Licia, Rodi, Bizanzio, Samo ed altri luoghi di Oriente perderono la lor libertà, perchè se ne abusavano in danno lor proprio per le sedizioni e nemicizie regnanti fra i cittadini. Non si mandava colà proconsole o governatore romano in addietro, lasciando che si governassero coi propri magistrati e colle lor leggi. Da qui innanzi furono sottoposti al governo del presidente inviato da Roma, e a pagare i tributi al pari dell'altre provincie. Per attestato ancora di Filostrato [Philostratus, in Apollon. Tyan.], Apollonio Tianeo, filosofo rinomato di questi tempi, grande strepito fece contra di Vespasiano, perchè avesse tolta alla Grecia quella libertà che Nerone, tuttochè principe sì cattivo, le avea restituita. Ma Vespasiano il lasciò gracchiare, dicendo che i Greci aveano disimparato il governarsi da [301] gente libera. Il Calvisio, il Petavio, il Bianchini ed altri, non per certa cognizione del tempo, ma per mera congettura, riferiscono a quest'anno la cacciata de' filosofi da Roma: risoluzione che par contraria alla saviezza di Vespasiano, ma che fu fondata sopra giusti motivi. Le diede impulso Elvidio Prisco nobile senatore romano, e professore della più rigida filosofia degli stoici, la qual era allora più dall'altre in voga presso i Romani. A questo personaggio fa un grande elogio Cornelio Tacito [Tacitus, Historiar., lib. 4, cap. 5.], con dire, aver egli studiata quella filosofia, non già per vanità, come molti faceano, nè per darsi all'ozio, ma per provvedersi di costanza ne' varii accidenti della vita, per sostenere con equità e vigore i pubblici uffizii, e per operar sempre il bene, e fuggire il male. Perciò s'era acquistato il concetto d'essere buon cittadino, buon senatore, buon marito, buon genero, buon amico, sprezzator delle ricchezze, inflessibile nella giustizia, ed intrepido in qualsivoglia sua operazione. Anche Ariano [Arrian., in Epictet.], Plinio [Plinius junior., lib. 4, epist. 23.] il giovane e Giovenale furono liberali di lodi verso di Prisco. Ma egli era troppo invanito dell'amor della gloria, cercandola ancora per vie mancanti di discrezione [Dio, lib. 66.]. Gli esempli di Trasea Peto, suocero suo, uomo da noi veduto lodatissimo ne' tempi addietro, gli stavano sempre davanti agli occhi, per parlare francamente ove si trattava del pubblico bene. Ma non sapea imitarlo nella prudenza. Trasea, ancorchè avesse in orrore i vizii e le tirannie di Nerone, pure nulla dicea o facea che potesse offenderlo. Solamente talvolta si ritirò dal senato, per non approvare le di lui bestialità e crudeltà: il che poi gli costò la vita.
Ma Elvidio si facea gloria di parlar con vigore e libertà senza riguardo alcuno. Così operò sotto Galba, sotto Vitellio; [302] ma più usò di farlo sotto Vespasiano, quasichè la bontà di questo principe dovesse servire di passaporto alla soverchia licenza delle sue parole. Il peggio fu ch'egli, scoprendosi nemico della monarchia, tenendo sempre il partito del popolo, non si facea scrupolo di darsi in pubblico e in privato a conoscere per persona che odiava Vespasiano. Allorchè questo principe arrivò a Roma, ito a salutarlo, non gli diede altro nome che quello di Vespasiano. Essendo pretore nell'anno 70, in niuno de' suoi editti mai mise parola in onore di lui, anzi nè pure il nominò. Ma questo era poco. Sparlava di lui dappertutto, lodava solamente il governo popolare, e Bruto e Cassio; formava anche delle fazioni contra del dominio cesareo. Andò così innanzi l'ostentazione di questo suo libero parlare, che nel senato medesimo giunse a contrastare e garrire insolentemente collo stesso Vespasiano, quasichè fosse un suo eguale [Sueton., in Vespasiano, cap. 15.]; perlochè, d'ordine dei tribuni della plebe, fu preso e consegnato ai littori, o sia ai sergenti della giustizia. Il buon Vespasiano, a cui forte dispiaceva di perdere un sì fatt'uomo, eppur non credea bene d'impedire il riparo alla di lui insolenza, uscì di senato quel dì piangendo e con dire: O mio figliuolo mi succederà, o niun altro: volendo forse indicare che Elvidio con quelle sue impertinenti maniere additava di pretendere all'imperio. Pure la clemenza di Vespasiano non permise che si decretasse ad uomo sì turbolento, che inquietava e screditava il presente governo, e mostravasi tanto capace di sedizioni, se non la pena dell'esilio. Ma perchè verisimilmente neppur si seppe contener da lì innanzi la lingua di questo imprudente filosofo, fu (non si sa in qual anno) condannato a morte dal senato, e mandata gente ad eseguire il decreto. Vespasiano spedì ordini appresso per salvargli la vita; ma gli fu fatto falsamente credere che non erano arrivati a [303] tempo. Probabilmente Muciano, che men di Vespasiano amava Elvidio, il volle tolto dal mondo con questa frode. E fu appunto in tale occasione [Dio, lib. 66.] ch'esso Muciano persuase all'imperatore di cacciar via da Roma tutti i filosofi, e massimamente coloro che professavano la filosofia stoica, maestra della superbia. Imperciocchè, oltre al rendersi da questa gli uomini grandi estimatori di sè stessi e sprezzatori degli altri, i seguaci di essa altro non faceano allora che declamar nelle scuole, e fors'anche in pubblico, contra dello stato monarchico, e in favore del popolare, svergognando una scienza che dee inspirare l'ossequio e la fedeltà verso qualsivoglia regnante. E tanto più dovea farlo allora Elvidio, che ai precedenti tiranni era succeduto un buon principe, quale ognun confessa che fu Vespasiano, e la sua vita il dimostra. Fra gli altri andarono relegati nelle isole Ostilio e Demetrio filosofi anch'essi. Portata al primo la nuova del suo esilio, mentre disputava contra dello stato monarchico, maggiormente s'infervorò a dirne peggio, benchè dipoi mutasse parere. Ma Demetrio, siccome professore della filosofia cinica, o sia canina, che si gloriava di mordere tutti, e di non portare rispetto ai difetti e falli di chicchessia [Sueton., in Vespasiano, cap. 13.], dopo la condanna vedendo venir per via Vespasiano, nol salutò, e neppur si mosse da sedere, e fu anche udito borbottar delle ingiurie contro di lui. Il paziente principe passò oltre, solamente dicendo: Ve' che cane! Nè mutò registro, ancorchè Demetrio continuasse a tagliargli addosso i panni; perciocchè avvisato di tanta tracotanza, pure non altro gli fece dire all'orecchio se non queste poche parole: Tu fai quanto puoi perch'io ti faccia ammazzare: ma io non mi perdo ad uccidere can che abbaia. Per attestato di Dione, il solo Caio Musonio Rufo, cavaliere romano, eccellente filosofo stoico, [304] non fu cacciato di Roma: il che non s'accorda colla Cronica di Eusebio, da cui abbiamo che Tito, dopo la morte del padre, il richiamò dall'esilio.
Anno di | Cristo LXXIV. Indizione II. |
Clemente papa 8. | |
Vespasiano imperadore 6. |
Consoli
Flavio Vespasiano Augusto per la quinta volta, e Tito Flavio Cesare per la terza.
A Tito Cesare, che dimise il consolato, succedette nelle calende di luglio Domiziano Cesare suo fratello. Terminarono in quest'anno Vespasiano e Tito il censo, o sia la descrizione de' cittadini romani ch'essi aveano già cominciato come censori negli anni addietro. E questo fu l'ultimo de' censi fatti dagl'imperadori romani. Scrive Plinio il vecchio [Plinius, Histor. Natural., lib. 7, cap. 49.], che in tale occasione si trovarono fra l'Apennino e il Po molti vecchi di riguardevol età. Cioè tre in Parma di cento venti, e due di cento trenta anni; in Brescello uno di cento venticinque; in Piacenza uno di cento trentuno; in Faenza una donna di cento trentadue; in Bologna e Rimini due di cento cinquanta anni, se pure non è fallato, come possiam sospettare, il testo. Aggiugne essersi trovati nella Regione ottava dell'Italia, ch'egli determina da Rimini sino a Piacenza, cinquantaquattro persone di cento anni; quattordici di cento dieci; due di cento venticinque; quattro di cento trenta; altrettanti di cento trentacinque, o cento trentasette, e tre di cento quaranta. Dal che probabilmente può apparire qual fosse tenuta allora per la più salutevol aria d'Italia. Se in altre parti d'Italia si fossero osservate somiglianti età, non si sa vedere perchè Plinio l'avesse taciuto. Circa questi tempi [Dio, lib. 66. Sueton., in Vespasiano, cap. 3.] mancò di vita Cenide, donna carissima a Vespasiano, liberta di Antonia, madre di Claudio Augusto. Avea Vespasiano avuta per [305] moglie Flavia Domitilla, che gli partorì Tito e Domiziano. Morta costei, ebbe per sua amica questa Cenide, e creato anche imperatore la tenne quasi per sua moglie, amandola non solamente per la sua fedeltà e disinvoltura, e per molti benefizii da lei ricevuti quando era privato, ma ancora perchè gli serviva di sensale per far danari. Era l'avarizia forse l'unico vizio per cui universalmente veniva proverbiato questo imperadore [Sueton., in Vespasiano, cap. 3.]. Mostravasi egli non mai contento di danaro. A questo fine rimise in piedi alcune imposte e gabelle, abolite già da Galba; ne aggiunse delle nuove e gravi; accrebbe i tributi che si pagavano dalle provincie, ed alcune furono tassate il doppio. Lasciavasi anche tirare a far un mercimonio vergognoso per un par suo, col comperar cose a buon mercato, per venderle poi caro. Cenide anch'essa l'aiutava ad empiere la borsa. A lei si accostava chiunque ricercava sacerdozi e cariche civili e militari, accompagnando le suppliche con esibizioni proporzionate al profitto dei posti desiderati. Nè si badava, se questi concorrenti fossero o non fossero uomini dabbene, purchè se ne spremesse del sugo. Si vendevano in questa maniera anche l'altre grazie del principe; e le pene, per chi potea, venivano riscattate col danaro. Di tutto si credeva consapevole e partecipe Vespasiano. E tanto egli si lasciava vincere da questa avidità, che cadeva in bassezze [Sueton., in Vespasiano, cap. 23. Dio, lib. 66.]. Avendo i deputati di una città chiesta licenza di alzare in onor suo una statua, la cui spesa ascenderebbe a venticinquemila dramme, per far loro conoscere che amerebbe più il denaro in natura, stese la mano aperta con dire: Eccovi la base dove potete mettere la vostra statua. Era egli stesso il primo a porre in burla questa sua sete d'oro per coprirne la vergogna, e si rideva di chi poco approvava le sue vili maniere per adunarne. Uno di questi [306] fu suo figliuolo Tito, che non potendo sofferire una non so quale imposta, da lui messa sopra l'orina, seriamente gliene parlò, con chiamar fetente quell'aggravio. Aspettò Vespasiano che gli portassero i primi frutti di quell'imposta, e fattili fiutare al figlio, dimandò se quell'oro sapea di cattivo odore. Un giorno, ch'egli era per viaggio in lettiga, si fermò il mulattiere con dire che bisognava ferrar le mule. Sospettò egli dipoi inventato da costui un tal pretesto, per dar tempo ad un litigante di parlargli, e di esporre le sue ragioni. E però gli domandò poi quanto avesse guadagnato a far ferrare le mule, perchè voleva esser a parte del guadagno. Questo forse disse per burla. Ma da vero operò egli con uno de' suoi più cari cortigiani, che gli avea fatta istanza di un posto per persona da lui tenuta in luogo di fratello. Chiamato a sè quel tale, volle da lui il danaro pattuito con fargli la grazia. Avendo poscia il cortigiano replicate le preghiere, siccome non informato della beffa, Vespasiano gli disse: Va a cercare un altro fratello, perchè il proposto da te, non è tuo, ma mio fratello.
Tale era l'industria e continua cura di Vespasiano per ammassar danari, cura in lui biasimata, e non senza ragione dagli storici di allora, e più dai sudditi. Credevano alcuni, che dal suo naturale fosse egli portato a questa debolezza: ed altri, che Muciano gliel'avesse inspirata, con rappresentargli che nell'erario ben provveduto consisteva la forza e la salute della repubblica, sì pel mantenimento delle milizie, come per ogni altro bisogno. Tuttavia il brutto aspetto di questo vizio si sminuisce di molto al sapere, come osservarono Svetonio [Sueton., in Vespasiano, cap. 16.] e Dione [Dio, lib. 66.], che Vespasiano non fece mai morire persona per prendergli la roba, nè mai per via d'ingiustizie occupò l'altrui. Quel che è più, non amava, nè cercava egli le ricchezze, per impiegarle ne' suoi piaceri, [307] perchè sempre fu moderatissimo in tutto, nè poteva spendere senza necessità, contento di poco. Appariva eziandio chiaramente, quanto egli fosse lontano dal covare con viltà il danaro, perciocchè lo dispensava allegramente e con saviezza in tutti i bisogni del pubblico, e in benefizio de' popoli. Sapeva regalare chi lo meritava [Sueton., in Vespasiano, cap. 16.], sovvenire a' nobili caduti in povertà; anzi la sua liberalità si stendeva a tutti. Promosse con somma attenzione le arti e le scienze, favorendo in varie maniere chi le coltivava; e fu il primo che istituisse in Roma scuole d'eloquenza greca e latina, con buon salario pagato dal suo erario. Prendeva al suo servigio i migliori poeti ed artifici che si trovassero, e tutti erano partecipi della sua munificenza. A lui premeva specialmente che il minuto popolo potesse guadagnare. A questo fine faceva di quando in quando de' magnifici conviti; e ad un valente artefice, che gli si era esibito di trasportare con poca spesa molte colonne, diede bensì un regalo, ma di lui non si volle servire, per non defraudare di quel guadagno la plebe. In Roma edificò degli acquidotti, alzò uno smisurato colosso, nè solamente fece di pianta varie fabbriche insigni, ma eziandio rifece le già fatte dagli altri, mettendovi non già il nome suo, ma quel de' primi fondatori. Erano per cagion de' tremuoti cadute, o per gl'incendi molto sformate, assaissime città dell'imperio romano. Egli alle sue spese le rifece, e più belle di prima. La stessa attenzione ebbe per fondar delle colonie in varie città, e per risarcir le pubbliche strade dell'imperio [Aurelius Victor, in Breviar.]. Restano tuttavia molte iscrizioni [Gruterus, Thesaur. Inscription. Thesaurus Novus Veter. Inscription. Muratorian.] per testimonianza di ciò. Gli convenne per questo tagliar montagne e rompere vasti macigni; e per tutto si lavorava senza salassar le borse de' popoli. Rallegrava ancora il [308] popolo colla caccia delle fiere negli anfiteatri, ma abborriva i detestabili combattimenti de' gladiatori. Aggiungasi, per testimonianza di Zonara [Zonaras, Annal.], che Vespasiano mai non volle profittar dei beni di coloro che aveano prese l'armi contra di lui, ma li lasciò ai lor figliuoli o parenti. Ed ecco ciò che può servire, non già per assolvere questo principe da ogni taccia in questo particolare, ma bensì per iscusarlo, meritando bene il buon uso che egli facea del denaro, che si accordi qualche perdono alle indecenti maniere da lui tenute per raunarlo. Se non è scorretto il testo di Plinio il vecchio [Plinius, Histor. Natur., lib. 3, c. 5.], abbiamo da lui, che in questi tempi misurato il circondario delle mura di Roma, si trovò esser di tredici miglia dugento passi. Un gran campo occupavano poi i borghi suoi.
Anno di | Cristo LXXV. Indizione III. |
Clemente papa 9. | |
Vespasiano imperadore 7. |
Consoli
Flavio Vespasiano Augusto per la sesta volta, e Tito Cesare per la quarta.
Nelle calende di luglio furono sostituiti nel consolato Flavio Domiziano Cesare per la quarta volta, e Marco Licinio Muciano per la terza. In gran favore continuava Muciano ad essere presso di Vespasiano [Sueton., in Vespasiano, c. 23.]. Naturalmente superbo, e più perchè alzato ai primi onori, sapea ben far valere la sua autorità [Dio, in Excerptis Valesian.]. Sopra gli altri della corte pretendea d'essere ossequiato e rispettato. Verso chi gli mostrava anche ogni menomo segno di distinzione in onorarlo, andava all'eccesso in procurargli posti ed avanzamenti. Guai all'incontro a chi, non dirò gli facea qualche affronto od ingiuria, ma solamente lasciava di onorarlo; l'odio [309] di Muciano contra di lui diveniva implacabile. Costui pubblicamente era perduto nelle disonestà, e vantava tuttodì i gran servigi da lui prestati a Vespasiano: suo dono chiamava ancora quel diadema ch'egli portava in capo. A tanto giunse talvolta questa sua boria, e la fiducia de' meriti propri, che nemmeno portava rispetto allo stesso imperadore. E pure nulla più fece risplendere, che magnanimo cuore fosse quel di Vespasiano, quanto la pazienza sua in sopportare quest'uomo, temendo egli sempre di contravvenire alla gratitudine se l'avesse disgustato, non che punito. Anzi neppure osava di riprenderlo in faccia; ma solamente con qualche comune amico talora sfogandosi, disapprovava la di lui maniera di vivere, e diceva: Son pur uomo anch'io: tutto acciocchè gli fosse riferito, per desiderio che si emendasse [Sueton., in Vespasiano, c. 14. Dio, lib. 66.]. Fu anche dagli amici consigliato Vespasiano di guardarsi da Melio Pomposiano; perchè egli fatto prendere il proprio oroscopo, si vantava che sarebbe un dì imperadore. Lungi dal fargli male, Vespasiano il creò console (noi non ne sappiamo l'anno) dicendo più probabilmente per burla che da senno; Costui si ricorderà un giorno del bene che gli ho fatto. Dedicò esso Augusto, cioè fece la solennità di aprire e consecrare il tempio della Pace, da lui fabbricato in Roma in vicinanza della piazza pubblica, per ringraziamento a Dio della tranquillità donata al romano imperio, e particolarmente a Roma, dopo tanti torbidi tempi patiti sotto i precedenti tiranni. Plinio [Plinius, lib. 36, cap. 15.] chiama questa tempio una delle più belle fabbriche che mai si fossero vedute. Erodiano [Herodian., lib. 1, c. 14.] anch'egli scrive, ch'esso era il più vasto, il più vago e il più ricco edifizio che si avesse in Roma. Immensi erano ivi gli ornamenti d'oro e d'argento; e fra gli altri vi furono [310] messi il candelabro [Joseph., de Bello Judaic., lib. 7, c. 14.] insigne e gli altri vasi portati da Gerusalemme dopo la distruzione di quel ricchissimo tempio. Ma che? questa mirabil fabbrica circa cento anni dipoi, regnante Commodo Augusto, per incendio, o casuale o sacrilego, rimase affatto preda delle fiamme.
Anno di | Cristo LXXVI. Indizione IV. |
Clemente papa 10. | |
Vespasiano imperadore 8. |
Consoli
Flavio Vespasiano Augusto per la settima volta e Tito Cesare per la quinta.
Abbiamo sufficienti lumi per credere sostituito all'uno di questi consoli nelle calende di luglio Domiziano Cesare, probabilmente per la cessione di Tito suo fratello. Secondo il Panvino [Panvin., in Fastis.], succedette ancora all'altro console ordinario Tito Plautio Silvano per la seconda volta. Ma non altro fondamento ebbe quel dotto uomo di assegnare all'anno presente il secondo consolato di costui, se non il sapere ch'egli due volte fu console. Che nel gennaio di quest'anno nascesse Adriano, il qual poscia divenne imperadore, l'abbiamo da Sparziano. Fiorì ancora in questi tempi, per attestato di Eusebio [Eusebius, in Chronic.], Quinto Asconio Pediano, storico di molto credito; di cui restano tuttavia alcuni Commenti alle Orazioni di Cicerone. In età di anni settantatrè divenne cieco questo letterato, e ne sopravvisse dodici altri, tenuto sempre in grande stima da tutti. Era in questi tempi governator della Bretagna Giulio Frontino, e gli riuscì di sottomettere i popoli Siluri in quella grand'isola all'imperio romano. Era venuto a Roma Agrippa [Dio, lib. 66.] re dell'Iturea, figliuolo di Agrippa il grande, stato già re della Giudea; avea [311] condotto seco Berenice o sia Beronice sua sorella, giovane di bellissimo aspetto, già maritata con Erode re di Calcide suo zio [Joseph., Antiq. Judaic., lib. 18.], e poscia con Polemone re di Cilicia. Se n'invaghì Tito Cesare. Forse anche era cominciata la tresca allorchè egli fu alla guerra contra de' Giudei. Agrippa ottenne il grado di pretore. Berenice alloggiata nel palazzo imperiale, dopo aver guadagnato Vespasiano a forza di regali, sì fattamente s'insinuò nella grazia di Tito, che sperava ormai di cangiar l'amicizia in matrimonio; e già godeva un tal trattamento e autorità, come s'ella fosse stata vera moglie di lui. Ma perciocchè, secondo le leggi romane, era vietato ai nobili romani di sposar donne di nazion forestiera, o sia barbara (barbari erano allora appellati i popoli tutti non sudditi al romano imperio) o pure perchè i re, tuttochè sudditi di Roma, erano tenuti in concetto di tiranni; il popolo romano altamente mormorava di questa sua amicizia, e molto più della voce sparsa, che fosse per legarsi seco pienamente col vincolo matrimoniale. Ebbe Tito cotal possesso sopra la sua passione, e sì a cuore il proprio onore, che arrivò a liberarsene, con farla ritornare al suo paese. Svetonio [Sueton., in Tito, cap. 7.] attribuisce a Tito questa eroica azione, dappoichè egli fu creato imperadore, laddove Dione [Dio, lib. 66.] ne parla circa questi tempi. Ma aggiugnendo esso Dione, che Berenice, dopo la morte di Vespasiano, ritornò a Roma, sperando allora di fare il suo colpo, e che, ciò non ostante, rimase delusa, si accorda facilmente l'asserzione dell'uno e dell'altro storico.
Anno di | Cristo LXXVII. Indizione V. |
Cleto papa 1. | |
Vespasiano imperadore 9. |
Consoli
Flavio Vespasiano Augusto per la ottava volta, e Tito Flavio Cesare per la sesta.
Fu nelle calende di luglio conferito il consolato a Domiziano Cesare per la sesta volta ed a Gneo Giulio Agricola, cioè a quel medesimo, di cui Cornelio Tacito suo genero ci ha lasciata la vita. Terminò in quest'anno Caio Plinio Secondo [Plinius Senior, in Praefatione.] veronese, i suoi libri della Storia Naturale, e li dedicò a Tito Cesare, ch'egli nomina console per la sesta volta, e dà a conoscere quanto amore quel buon principe avesse per lui, e quanta stima per li suoi libri. S'è salvata dalle ingiurie de' tempi quest'opera delle più insigni ed utili dell'antichità, perchè tesoro di grande erudizione; ma è da dolersi che sia pervenuta a noi alquanto difettosa, e che per la mancanza d'antichi codici non sia possibile il renderne più sicuro ed emendato il testo. Anche ai tempi di Simmaco camminava scorretta questa istoria, siccome consta da una sua lettera ad Ausonio. Son periti altri libri di Plinio, ma non di tanta importanza, come il suddetto. Abbiamo dalla cronica di Eusebio [Euseb., in Chron.], essere stata nell'anno presente, o pure nel seguente, sommamente afflitta Roma da una pestilenza così fiera, che per molti dì si contarono dieci mila persone morte per giorno: se pur merita fede strage di tanto eccesso. Ma questo flagello forse s'ha da riferire all'anno 80, regnando Tito. Verso questi tempi [Dio, lib. 66.] bensì capitarono a Roma segretamente due filosofi cinici, che, secondo il loro costume, si faceano belli con dir male d'ognuno. Diogene si appellava l'un d'essi, nome probabilmente da lui preso, per assomigliarsi in [313] tutto all'altro antico sì famoso che fu a' tempi di Alessandro Magno. Costui perchè nel pubblico teatro, pieno di gran popolo, scaricò addosso ai Romani una buona tempesta d'ingiurie e di motti satirici, ebbe per ricompensa, d'ordine dei censori, un sonante regalo di sferzate. L'altro fu Eras, che pensando di aggiustar la partita con sì tollerabil pagamento, più sconciamente sfogò la sua rabbia ed eloquenza canina contra de' Romani, fors'anche non la perdonando ai principi. Gli fu mozzato il capo. Riferisce Dione [Dio, lib. 66.] come un prodigio, che in una osteria in una botte piena il vino tanto si gonfiò, che uscendo fuori, scorreva per la strada. Erano ben facili allora i Romani a spacciare de' fatti falsi per veri, o a credere degli avvenimenti naturali per prodigiosi. Molti di tal fatta se ne raccontano di Vespasiano, ch'io tralascio, perchè o imposture o semplicità di quei tempi. E non ne mancano nella storia stessa di Tito Livio. A san Clemente martire si crede che in quest'anno succedesse Cleto nel pontificato romano.
Anno di | Cristo LXXVIII. Indizione VI. |
Cleto papa 2. | |
Vespasiano imperadore 10. |
Consoli
Lucio Cejonio Commodo e Decimo Novio Prisco.
Son di parere alcuni, che questo Lucio Cejonio Console fosse avolo (se pur non fu padre) di Lucio Vero, che noi vedremo a suo tempo adottato da Adriano imperadore, ciò risultando da Giulio Capitolino [Capitolinus, in Vita Lucii Veri.]. Abbiamo da Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 9.], che Gneo Giulio Agricola, stato console nell'anno precedente, fu inviato governatore della Bretagna in luogo di Giulio Frontino. Era Agricola uomo di rara prudenza ed onoratezza. Giunto [314] che fu là, non lasciò indietro diligenza veruna per rimettere la buona disciplina fra le milizie, e per levare gli abusi dei tempi addietro, per gli quali erano malcontenti que' popoli, moderando le imposte, e compartendole con ordine: con che cessarono le avanie de' ministri del fisco, e tornò la pace in quelle contrade. Eransi negli anni precedenti sottratti all'ubbidienza de' Romani gli Ordovici nell'isola di Mona, creduta oggidì l'Anglesei. Agricola v'andò colle armi, e guadagnata una vittoria, ridusse quelle genti alla primiera divozione. Forse fu in questi tempi [Dio, lib. 66.], che si scoprì vivo Giulio Sabino, nobile della Gallia, che nell'anno 70 dell'Era Cristiana avea nel suo paese di Langres impugnate le armi contra de' Romani, e fatto ribellare quel popolo [Plutarch., in Amatorio.]. Sconfitto egli in una battaglia, ancorchè potesse ricoverarsi fra i Barbari, pure pel singolare amore ch'egli portava a Peponilla sua moglie, chiamala da Tacito [Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 67.] Epponina, e da Plutarco Empona, determinò di nascondersi in certe camere sotterranee di una sua casa in villa, con far correre voce di non esser più vivo. Licenziati pertanto i suoi servi e liberti, con dire di voler prendere il veleno, ne ritenne solamente due de' più fidati. E perciocchè gli premeva forte, che fosse ben creduta da ognuno la propria morte, mandò ad accertarne la moglie stessa, la quale a tal nuova svenne, e stette tre dì senza voler prender cibo. Ma per timore, che ella in fatti fosse dietro ad accompagnare colla vera sua morte la finta del marito, fece poi avvisarla del nascondiglio in cui si trovava, pregandola nondimeno a continuare a piagnerlo, come già estinto. Andò ella dipoi a trovarlo la notte di tanto in tanto, e gli partorì anche due figliuoli (l'uno dei quali Plutarco dice d'aver conosciuto), coprendo sì saggiamente la sua gravidanza e il suo parto, [315] che niuno mai s'avvide del loro commercio. Portò la disgrazia, che dopo vari anni fu scoperto l'infelice Sabino, e condotto con la moglie a Roma. Per muovere Vespasiano a pietà, gli presentò Epponina i due suoi piccioli figliuoli, dicendo, che gli avea partoriti in un sepolcro per aver molti che il supplicassero di grazia, ed aggiugnendo tali parole, che mossero le lagrime a tutti, e fino allo stesso Vespasiano. Contuttociò Vespasiano li fece condannare amendue alla morte. Allora Epponina, saltando nelle furie, gli parlò arditamente, dicendogli fra l'altre cose, che più volentieri avea sofferto di vivere in un sepolcro, che di mirar lui imperadore. Non si sa perchè Vespasiano, che pur era la stessa bontà, e tanti esempli avea dato finora di clemenza, procedesse qui con tanto rigore, se forse non l'irritò sì fattamente l'indiscreto parlare dell'irata donna, che dimenticò di essere quel ch'egli era. Attesta Plutarco, che per questo rigor di giustizia, tuttochè l'unico di tutto l'imperio di Vespasiano, venne un grande sfregio al di lui buon nome; ed egli attribuisce a sì odioso fatto l'essersi dipoi in breve tempo estinta tutta la di lui casa. Non saprei dire, se i poeti di questi ultimi tempi abbiano condotta mai sul teatro questa tragica avventura: ben so, che un tale argomento vi farebbe bella comparsa, siccome stravagante e capace di muovere le lagrime oggidì, come pur fece allora.
Anno di | Cristo LXXIX. Indizione VII. |
Cleto papa 3. | |
Tito Flavio imperadore 1. |
Consoli
Flavio Vespasiano Augusto per la nona volta, e Tito Flavio Cesare per la settima.
Essendo in quest'anno, siccome dirò, mancato di vita Vespasiano Augusto, potrebbe darsi, secondo le congetture da [316] me recate altrove [Thesaurus Novus. Inscript., pag. 111.], che nelle calende di luglio il consolato fosse conferito a Marco Tizio Frugi e a Vito Vinio o Vinicio Giuliano. Pacificamente avea fin qui Vespasiano amministrato l'imperio, e meritava ben il saggio e dolce suo governo, ch'egli non trovasse de' nemici in casa. Tuttavia, o sia perchè la morte sola di Sabino, compianta da tutti, rendesse odioso questo principe, oppure perchè Tito destinato suo successore fosse, per quanto vedremo, poco amato, ovvero, come è più probabile, perchè non mancano, nè mancheranno mai al mondo dei pazzi e degli scellerati: certo è che in quest'anno due de' principali tramarono una congiura contra di Vespasiano [Dio, lib. 66. Suetonius, in Tito, cap. 6.]. Questi furono Alieno Cecina, già stato console, ed Eprio Marcello, potenti in Roma, amati e beneficati da esso Augusto. Si credeva egli d'aver in essi due buoni amici, e non avea che due ingrati: vizio corrispondente ad altre loro pessime qualità. Venne scoperta la congiura: si trovò avervi mano molti soldati, e Tito Cesare ne fu assicurato da lettere scritte di lor pugno. Non volle esso Tito perdere tempo, perchè temeva che nella notte stessa scoppiasse la mina, e però fatto invitar Cecina seco a cena, dopo essa il fece trucidar dai pretoriani senza altro processo. Marcello, citato e convinto, allorchè udì proferita contra di lui la sentenza di morte, colle proprie mani si tagliò con un rasoio la gola. Non potea negarsi che la risoluzion presa da Tito contra Cecina non fosse giusta, o almeno scusabile: contuttociò per cagion d'essa egli incorse nell'odio di molti. Dopo questa esecuzione sentendosi Vespasiano [Idem, in Vespasiano, cap. 24.] alquanto incomodato nella salute per alcune febbrette, si fece portare alla sua villa paterna nel territorio di Rieti, siccome era solito nella state. In quelle parti v'erano l'acque cutilie, sommamente fredde da Strabone e da [317] Plinio chiamate utili a curar varii mali. Riuscirono queste perniciose non poco o per la lor natura, o pel troppo berne, a Vespasiano, di maniera che gl'indebolirono forte lo stomaco, e gli suscitarono una molesta diarrea. Era egli principe faceto, e dacchè cominciò a sentir quelle febbri, ridendo e burlandosi del superstizioso ed empio rito de' suoi tempi, nei quali si deificavano dopo morte gl'imperadori, disse: Pare ch'io incominci a diventar dio. Erasi anche veduta poco innanzi una cometa, e parlandone in sua presenza alcuni: Oh, disse, questa non parla per me. Quella sua chioma minaccia il re de' Parti che porta la capigliatura. Quanto a me son calvo. E perciocchè, non ostante l'infermità sua egli seguitava ad operar come prima, attendendo agli affari dell'imperio, e dando udienza ai deputati delle città (del che era ripreso dai familiari) rispose: Un imperadore ha da morire stando in piedi. Morì egli in fatti, conservando sempre il medesimo coraggio, nel dì 23 o 24 di giugno, in età di settant'anni, e non già per male di podagra, come alcuni pensarono: molto meno per veleno, che taluno falsamente [Dio, lib. 66.], e fra gli altri Adriano imperadore, disse a lui dato in un convito da Tito suo figliuolo, principe, in cui non potè mai cadere un sì nero sospetto. Si fecero poscia i suoi funerali colla pompa consueta, e gli fu dato il titolo di Divo. Da Svetonio [Sueton., in Vespasiano, cap. 19.] si raccoglie che a tali esequie intervenivano anche i mimi, o sia i buffoni, ballando, atteggiando ed imitando i gesti, la figura e il parlare del defunto imperadore. Il capo de' mimi, che in questa occasione rappresentava la persona di Vespasiano, probabilmente colla maschera simile al di lui volto, volendo esprimere l'avarizia a lui attribuita, dimandò ai ministri dell'erario, quanto costava quel funerale. Dissero: Ducento cinquantamila scudi. Ed egli [318] Datemene solo dugento cinquanta, e gittatemi nel fiume. Gran disavventura si credeva allora il restar senza sepoltura: ma per un poco di guadagno, secondo costui, si sarebbe contentato Vespasiano di restarne privo.
Era già suo collega nell'imperio, cioè nel comando dell'armi, e nella tribunizia podestà, Tito Flavio Sabino Vespasiano Cesare, suo primogenito; e però bisogno non ebbe di maneggi per acquistare una dignità, di cui egli già buona parte godeva, e di cui anche il padre l'avea dichiarato erede nel suo testamento. Prese bensì il titolo d'Augusto, indicante la suprema potestà, e quella di Pontefice Massimo; e dal senato gli fu conferito il glorioso nome di Padre della Patria, come apparisce dalle sue medaglie. Per testimonianza di Svetonio [Sveton., in Tito, cap. 1.], egli era nato in Roma nell'anno 41 dell'epoca nostra, in cui Caligola imperadore fu ucciso. Siccome suo padre in quei tempi si trovava in molto bassa fortuna, così Tito nacque vicino al Settizionio vecchio entro una brutta casuccia in camera stretta e scura, che si mostrava anche ai tempi del suddetto Svetonio, per una rarità. Fanciullo fu messo alla corte, probabilmente per paggio, al servigio di Britannico, figliuolo di Claudio imperatore, e con esso lui allevato, studiando seco e sotto i medesimi maestri, le lettere e le arti cavalleresche. Tanta era la famigliarità d'esso lui con Britannico, che in occasion del veleno dato a quell'infelice principe, ne toccò anche a lui non poco, per cui soffrì una grave malattia. Divenuto poi imperadore, mostrò la sua riconoscenza ad esso Britannico, con fargli ergere due statue, l'una dorata, e l'altra equestre d'avorio. Giovanetto di alta statura, di gran robustezza, di volto avvenente ed insieme maestoso, con facilità imparò l'arti della guerra e della pace, peritissimo soprattutto in maneggiar armi e cavalli. Egregiamente parlava il latino e il greco linguaggio, sapea far [319] delle belle orazioni, sapea di musica, e tal possesso avea in far versi, che anche fra gl'improvvisatori facea bella figura. L'imitare gli altrui caratteri gli era facilissimo, e scherzando dicea: Ch'egli avrebbe potuto essere un gran falsario. Fece dipoi col padre varie campagne nelle guerre della Germania, e Bretagna, e poscia nella Giudea, siccome di sopra fu detto, lasciando segni di prudenza e di valore in ogni occasione, e comperandosi dappertutto l'affetto delle milizie. Mirabile specialmente era in lui l'arte di farsi amare, parte a lui venuta dalla natura, e parte acquistata colla saggia sua accortezza, perchè in lui si trovava unita un'aria dolce e una rara bontà verso tutti, con affabilità popolare ed insieme con gravità, che guadagnava i cuori, e nello stesso tempo esigeva il rispetto di ognuno. Ebbe per prima sua moglie Arricidia Tertulla, figliuola d'un prefetto del pretorio. Morta questa, sposò Marcia Furnilla di nobilissimo casato, ma dopo averne avuto una figliuola, nomata Giulia Sabina, di cui parleremo a suo luogo, la ripudiò. In tale stato era Tito, allorchè succedette al padre Augusto nel governo della repubblica romana, ma non senza difetti, la menzion de' quali io riserbo all'anno seguente. Nel presente si crede [Plinius Junior, lib. 6, epist. 16 e 20.] che avvenisse la morte di Plinio il vecchio, celebre scrittore di questi tempi, intorno alla cui patria hanno disputato Verona e Como. Nel primo dì di novembre cominciò spaventosamente il monte Vesuvio a fumare [Dio, lib. 66.], a gittar fiamme, pietre e ceneri, che empievano tutti i luoghi circonvicini. Plinio seniore, che si trovava allora a Miseno, comandante di quella flotta, portato dal suo incessante studio delle cose naturali, sopra una galea si fece condurre sino a Castell'-a-mare di Stabia, per essere più vicino a contemplare il terribile sfogo di quel monte; ed ancorchè vedesse le genti scappare dalla parte del mare, per [320] non esser colte dal torrente del fuoco, o dai sassi, pure si fermò quivi la notte. Allorchè volle anch'egli fuggire, non gli fu permesso dal mare, ch'era in fortuna. Sicchè soffocato dall'odore dello zolfo, e dall'aria ingrossata da quelle esalazioni, lasciò ivi la vita. Plinio secondo, il giovane, comasco, suo nipote, e da lui adottato per figliuolo, uomo non men dello zio dotato di meraviglioso ingegno, che soggiornava allora a Miseno, corse anch'egli pericolo della vita in quel brutto frangente, ma ebbe tempo da ridursi in salvo.
Anno di | Cristo LXXX. Indizione XIII. |
Cleto papa 4. | |
Tito Flavio imperadore 2. |
Consoli
Tito Flavio Augusto per l'ottava volta, e Domiziano Cesare per la settima.
Con tutte le belle e plausibili prerogative, colle quali Tito arrivò al trono imperiale, non si vuol dissimulare ciò che scrive di lui Svetonio [Sueton., in Tacito, cap. 7.], cioè aver egli somministrata occasione a molti del popolo romano di credere ch'egli nel governo avesse da riuscire un cattivo principe, anzi un altro Nerone. Si perdeva egli talvolta nelle gozzoviglie coi suoi amici dal buon tempo, stando a tavola sino a mezza notte: dal che si guardavano allora i saggi Romani. Recava loro pena il parere, ch'egli fosse immerso nella libidine anche più abbominevole, stante le qualità delle persone della sua corte, e l'esser egli stato sì sconciamente invaghito della regina Berenice. Temevasi inoltre di trovare in lui un principe, a cui più del dovere piacesse la roba altrui, sapendosi che prendeva regali anche nell'amministrazion della giustizia. Ma dopo la morte del padre cessarono tutti questi sospetti. Tito con istupore e piacer d'ognuno comparve tutt'altro, scoprendosi esente [321] da ogni vizio, e solamente fornito di eccellenti virtù, di maniera che si convertirono in lode sua tutt'i conceputi timori di lui. Licenziò tosto dalla sua corte qualunque persona che dar potesse scandalo, ed elesse amici di gran senno e proprietà, tali che anche i susseguenti principi se ne servirono, come di strumenti utili o necessari al buon governo. Tornò a Roma la regina Berenice, figurandosi, che potendo ora Tito far tutto, molto anch'ella potrebbe sopra di lui. Se ne sbrigò egli e rimandolla alle sue contrade. I conviti, ai quali invitava or l'uno or l'altro de' senatori e de' nobili, erano allegri, ma senza profusione od eccesso. Più non si osservò in lui ruggine d'avarizia; mai non tolse ad alcuno il suo e neppur ammetteva i regali soliti a darsi dalle provincie, città ed università agli Augusti. Eppur niuno d'essi imperadori gli andò innanzi nella munificenza e magnificenza. Imperciocchè in quest'anno egli dedicò l'anfiteatro [Sueton., in Tacit., cap. 8.], appellato oggi il Colosseo, stupenda mole, incominciata, per quanto si crede, da Vespasiano suo padre, e da lui perfezionata. Nulla più fa intendere qual fosse la potenza e splendidezza degli antichi Augusti, quanto i pezzi che restano tuttavia di quel superbo edifizio. Fabbricò eziandio le Terme, o sia i bagni pubblici, presso al medesimo anfiteatro, le cui vestigia pur ora si mirano circa la chiesa di san Pietro in Vincula, per attestato del Nardino, del Donato e d'altri. Ed allorchè si fece la dedicazion di tali fabbriche, cioè quando si misero all'uso pubblico, Tito solennizzò la funzione con maravigliosi e magnifici spettacoli, descritti da Dione [Dio, lib. 66.]. Si fecero combattimenti navali, giuochi di gladiatori, caccie di fiere, cinquemila delle quali furono uccise nell'anfiteatro in un sol dì, e quattro altre migliaia ne' susseguenti giorni. Nè vi mancarono i giuochi circensi, e una gran profusione di doni al [322] popolo. Durarono cento dì così allegre e dispendiose feste.
L'incendio del Vesuvio, di sopra da me accennato, che fu de' più terribili che mai si sieno provati, avea portata la rovina o notabili danni alle città e terre della Campania. Tito inviò colà due senatori, già stati consoli con buone somme di danaro, acciocchè si rimettessero in piedi le fabbriche. Per tali spese assegnò ancora i beni di tutti coloro che erano morti senza eredi, benchè, secondo le leggi, que' beni appartenessero al suo fisco. Ed egli stesso colà si portò, non tanto per mirar la desolazion de' luoghi, quanto per affrettarne il sollievo. Ma a questa disgrazia ne tenne dietro un'altra non meno spaventosa e lagrimevole. Attaccatosi il fuoco in Roma, vi consumò il Campidoglio, il tempio di Giove Capitolino, il Pantheon, i templi di Serapide e d'Iside, siccome quel di Nettuno ed altri; il teatro di Balbo e di Pompeo, il palazzo d'Augusto colla biblioteca, e molti altri pubblici edifizii. Sì ampia fu la strage delle fabbriche, che fu creduto quell'incendio non operazion degli uomini, ma gastigo mandato da Dio. Se ne afflisse sommamente Tito, protestando nondimeno, che a lui come principe apparteneva il risarcimento di tante fabbriche del pubblico. In fatti a questo fine alienò tutt'i più preziosi mobili de' suoi palazzi; e quantunque molti particolari, e varie città, e alcuni dei re sudditi, gli offrissero o promettessero di molto danaro per quel bisogno, non volle che alcuno si scomodasse, riserbando tutte quelle spese alla propria borsa. Dopo sì fiero incendio succedette in Roma una atrocissima peste, di cui parlano Svetonio e Dione, e che, secondo [Aurelius Victor, in Breviar.] Aurelio Vittore, fu delle più micidiali che mai si provassero in quella città, e se ne diede la colpa alle esalazioni del Vesuvio. Dubito io, questa essere la medesima, che di sopra all'anno 77 fu riferita da Eusebio, e però collocata fuor di sito, cioè [323] sotto l'imperio di Vespasiano. La fece Tito da padre in sì funeste circostanze, consolando il popolo con frequenti editti, ed aiutandolo in quante maniere gli fu mai possibile. Certo inesplicabile fu l'amore ch'egli portava ad ognuno, e la bontà sua e la premura di far del bene a tutti. Era lecito ad ognuno l'andare all'udienza sua, ed ognuno ne riportava o consolazione o speranza. E perchè i suoi dimestici non approvavano ch'egli promettesse sempre perchè non sempre poi poteva mantener la parola: rispondeva, non doversi permettere che alcuno mai si parta malcontento dall'udienza del principe suo. Tanta era in somma l'inclinazione sua a far dei benefizii, che sovvenendogli una notte, mentre cenava, di non averne fatto veruno in quel dì, sospirando disse quelle sì celebri e decantate parole [Sueton., Dio, Eutropius, Eusebius.]: Amici io ho perduta questa giornata. Giunse a tanto questa benignità e amorevolezza, che nel poco tempo ch'egli regnò, a niuno per impulso o per ordine suo tolta fu la vita.
Diceva di amar piuttosto di perir egli, che di far perire altrui. In effetto, ancorchè si venisse a sapere che due de' principali romani faceano brighe e congiure per arrivar all'imperio, e ne fossero essi anche convinti, pure non altro egli fece, se non esortarli a desistere, dicendo che il principato vien da Dio, nè si acquista colle scelleraggini; e che se desideravano qualche bene da lui, prometteva di farlo [Suetonius, in Tito, cap. 9. Dio, lib. 66.]. Dopo di che, per timore che la madre d'uno di questi senatori si trovasse in grandi affanni, le spedì dei corrieri, acciocchè l'assicurassero che suo figliuolo era salvo. Inoltre la notte stessa tenne seco a cena questi due personaggi, e nel dì seguente li volle [324] allo spettacolo de' gladiatori a' suoi fianchi. Allora fu che portate a lui le spade di que' combattenti, com'era il costume, le diede in mano ad amendue, acciocchè osservassero s'erano taglienti, per far loro tacitamente conoscere, che più non dubitava della loro fedeltà. Ma ciò che sopra ogni altra cosa gli conciliò l'amore d'ognuno, fu l'aver egli levato via l'insoffribile abuso introdotto sotto i precedenti cattivi imperadori; cioè che a qualsivoglia persona era permesso l'accusare altrui d'avere sparlato del principe, o d'avergli mancato di rispetto: il che era delitto di lesa maestà. Una licenza sì fatta teneva tutti sempre in una apprensione e schiavitù incredibile. Tito ordinò ai magistrati, che non ammettessero più sì fatte accuse, ed egli stesso perseguitò vivamente la mala razza di cotali accusatori, facendoli battere o mettere in ischiavitù, o pure esiliandoli. Soleva perciò dire: Non credo che mi si possa fare ingiuria, perchè non opero cosa, di cui con giustizia io possa essere biasimato. Che se pur taluno ingiustamente mi biasima, egli fa ingiuria più a sè, che a me: ed io in vece d'adirarmi contro di lui, ho d'aver compassione della sua cecità. E se talun dice male dei miei predecessori con ingiustizia, quando sia vero che questi abbiano il potere che loro s'attribuisce nell'averli deificati, sapran ben essi vendicarsene senza di me. Fece parimenti questo buon principe circa questi tempi selciar di nuovo la via Flaminia, che da Roma conduceva a Rimini. Ed Agricola [Tacitus, in Vita Agricolae, c. 22.] continuando la guerra in Bretagna, stese i contini romani sin verso la Scozia, fondando ivi castelli e fortezze, per mettervi delle guarnigioni.
Anno di | Cristo LXXXI. Indizione IX. |
Cleto papa 5. | |
Domiziano imperadore 1. |
Consoli
Lucio Flavio Silva Nonio Basso e Asinio Pollione Verrucoso.
Tali furono i nomi de' consoli di quest'anno, come apparisce dall'iscrizione rapportata da monsignor Bianchini, e da me [Thesaurus Novus Inscript., pag. 312 et pag. 318.]. Ma in un'altra iscrizione da me data alla luce, il primo console è appellato Lucio Flavio Silvano. Di lagrime e sospiri abbondò Roma in questo anno. Un ottimo principe oramai la governava, che amava tutti come figliuoli, comunemente ancora amato da ognuno, e che perciò avea conseguito un titolo, non prima nè poi dato ad alcun altro de' romani imperadori, cioè era chiamato [Suet., in Tito, cap. 10.] la delizia del genere umano. O sia ch'egli non si sentisse ben di salute, o che qualche cattivo presagio gli facesse apprendere vicina la morte; perciocchè non si può dire, quanto i Romani d'allora fossero superstiziosi, e dai vari accidenti vanamente deducessero i buoni o tristi successi dell'avvenire, o pur badassero agli strologhi: fuor di dubbio è, che Tito Augusto nulla operò in quest'anno di singolare. Si fecero degli spettacoli, e vi assistè; ma nel fin d'essi fu veduto piagnere. Comparve ancora in quest'anno nell'Asia un furbo appellato Terenzio Massimo, che si facea credere Nerone Augusto [Zonara, in Chr.], già morto, e fu ben accolto da Artabano re de' Parti. Anzi parea, che quel barbaro re si preparasse per muovere guerra a Tito, con pretendere di rimettere sul trono un sì fatto impostore. Se Tito se ne mettesse pensiero, non è a noi noto. Volle egli, venuta la state, portarsi alla casa paterna nel territorio di Rieti, e melanconico più [326] del solito uscì di Roma, perchè nel voler sagrificare, era fuggita la vittima di mano al sacerdote; ed essendo tempo sereno, s'è sentito il tuono. Alloggiato la sera in non so qual luogo, gli venne la febbre. Posto in lettiga, continuò il viaggio, e come già fosse certo che quell'era la ultima sua malattia, fu veduto tirar le cortine, e mirare il cielo, e dolersi, perchè in età sì immatura egli avesse da perdere la vita; giacchè egli non sapea di aver commessa azione alcuna, di cui si avesse a pentire, fuorchè una sola. Qual fosse questa, non si potè mai sapere di certo, quantunque molte dicerie ne fossero fatte. Dione [Dio, lib. 66.] con più fondamento riferisce ciò al tempo in cui vide disperata la sua salute. Arrivato alla villa paterna, dove il padre avea terminata la sua vita, anch'egli, crescendo il male, vi trovò la morte. Siccome in casi tali avviene, ognun disse la sua. Per quanto scrive Plutarco [Plutar., de Sanit.], i suoi medici attribuirono la cagion di sua morte ai bagni, a' quali s'era talmente avvezzato che non potea prendere cibo la mattina, se prima non s'era portato al bagno. Forse l'acque fredde della Sabina gli nocquero. Anche un certo Regolo, che con esso lui si bagnò nello stesso giorno, fu sorpreso da un colpo di apoplessia, per cui morì. Altri pretesero [Aurelius, in Breviar.], che Domiziano suo fratello il levasse dal mondo col veleno, perchè più volte anche prima gli avea insidiata la vita; ed altri [Dio, lib. 66.], che veramente egli mancasse di malattia naturale. Aggiugne Dione, che Domiziano, allorchè Tito era malato, e potea forse riaversi, il fece mettere in un cassone pieno di neve, non so, se col pretesto di rinfrescarlo, o di ottener quell'effetto, che oggidì alcuni medici pretendono, con dar acque agghiacciale nelle febbri acute, ma con vero disegno di farlo morire [327] più presto. Quel ch'è certo, non era per anche morto Tito, che Domiziano corse a Roma, guadagnò i soldati del pretorio, e si fece proclamar imperadore colla promessa di quel donativo, che Tito avea loro dato nella sua assunzione all'imperio.
Tale fu il fine di questo amabile imperadore, mancato di vita nel dì 13 di settembre [Sueton., in Tito, cap. 10.], e nell'anno quarantesimo dell'età sua, dopo avere per poco più di due anni e due mesi tenuto l'imperio. Credettero alcuni politici d'allora, che fosse vantaggioso per lui l'essere tolto di vita giovane, siccome fu ad Augusto, l'essere morto vecchio. Perciocchè Augusto, sul principio del suo governo, fu costretto per la moltitudine de' suoi nemici e delle frequenti sedizioni, a commettere non poche azioni crudeli e odiose; ed ebbe poi bisogno di gran tempo, se volle guadagnarsi il pubblico amore a forza di benefizii, per li quali morì glorioso. All'incontro meglio fu per Tito il mancar di buon'ora, cioè in tempo che egli già era in possesso dell'amore di ognuno, perchè correa pericolo se fosse più lungamente vissuto, d'essere astretto a far cose che gliel facessero perdere. Volata a Roma la nuova di sua morte, fu per sì gran perdita inesplicabile il dolore di quel popolo, parendo ad ognuno di aver perduto un figliuolo o pure il padre. Altrettanto avvenne per le provincie romane. I senatori, senz'essere chiamati dai consoli o dal pretore, corsero alla curia, ed aperte le porte, diedero più lodi a lui morto, di quel che avessero fatto a lui vivo. Portato a Roma il suo cadavere, fecegli fare Domiziano il funerale, e registrarlo nel catalogo degli dii, ma senz'alcun altro degli onori, che Roma gentile soleva accordare agli altri imperadori, come giuochi annuali, templi e sacerdoti per eternare la loro memoria. Finquì Flavio Domiziano altro titolo non avea goduto, che quello di Cesare [Patin., Vaillant, Mediobarb. et alii.], [328] e di Principe della gioventù. Appena prese le redini del governo, che, siccome persona gonfia di vanità ed ambizione, volle dal senato tutt'i titoli ed onori, che altri imperadori partitamente aveano ricevuto, cioè quelli d'Imperadore, d'Augusto, di Pontefice Massimo, di Censore e di ornato della tribunizia podestà. Le medaglie ancora ci assicurano, che non tardò punto a voler anche il bel nome di Padre della Patria. Qual fosse il merito suo, quali i suoi pregi, lo vedremo all'anno seguente. Egli era nato nell'anno cinquantesimo dell'Era nostra; e però cominciò il suo reggimento in età giovanile; e diede il titolo d'Augusta a Domizia sua moglie.
Anno di | Cristo LXXXII. Indizione X. |
Cleto papa 6. | |
Domiziano imperadore 2. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per l'ottava volta, e Tito Flavio Sabino.
Era questo Sabino console, cugino carnale di Domiziano, perchè figliuolo di Tito Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, e prefetto di Roma, da noi veduto ucciso negli ultimi giorni di Vitellio Augusto. Avea già dato principio Domiziano imperadore al suo governo, non diversamente da alcuni suoi predecessori, buoni sulle prime, e nel progresso del tempo d'ogni crudeltà e scelleraggine macchiati [Sueton., in Domitiano, cap. 8.]. Salito sul tribunale, posto in piazza, bene spesso ascoltava e decideva giudiciosamente e giustamente le liti. Cassò molte sentenze date dai giudici con indebita parzialità, dichiarando infami quei d'essi che si scoprivano aver preso danaro per vendere la giustizia [Aurelius Victor, in Epitome.]. Tanta attenzione ebb'egli anche nel resto dei suoi anni all'amministrazione di essa giustizia, non solo in Roma, ma anche nelle provincie, che, per attestato di [329] Svetonio, non si videro mai in tutto l'imperio romano i governatori e i magistrati sì modesti e giusti, come sotto di lui. E perchè questi dopo la sua morte lasciarono la briglia alla loro malnata avidità di far danaro, furono poi per la maggior parte condannati e puniti. Come censore perpetuo fece ancora alcune belle provvisioni. Volle nei teatri, distinti dalla plebe i sedili de' cavalieri. Abolì le pasquinate e i libelli famosi, pubblicati contro l'onore dei nobili dell'uno e dell'altro sesso, gastigandone gli autori, se venivano a scoprirsi. Cacciò dal senato Cecilio Rufino questore, perchè si dilettava di far il buffone e il ballerino. Alle pubbliche meretrici vietò l'uso della lettiga, e il poter conseguire eredità e legati. Levò dal ruolo dei giudici un cavaliere romano, perchè dopo avere accusata di adulterio e ripudiata la moglie, l'avea dipoi ripigliata. Secondo la legge statinia condannò alcuni de' senatori e cavalieri per la lor impudicizia. Nè il padre nè il fratello di lui aveano presa cura degli adulterii delle vergini vestali, le quali, come ognun sa, venivano obbligate a conservar la verginità. Rigorosamente volle egli, siccome Pontefice massimo, che si eseguisse contra di loro la pena capitale, prescritta dalle leggi; nè risparmiò i dovuti gastighi o d'esilio o di morte ai complici dei lor falli. Parve [Sueton., in Domitiano, cap. 9.] parimente ne' principii del suo governo, ch'egli abborrisse il levar la vita agli uomini, nè fosse punto avido della roba altrui. Anzi inclinava egli molto alla liberalità, e ne diede dei gran saggi verso tutti i suoi cortigiani, parenti ed amici, loro poscia severamente incaricando di guardarsi da ogni sordida azione per far danaro. Le eredità a lui lasciate da chi avea figliuoli, le ricusò. Molte terre decadute al fisco restituì ai padroni di esse. Decretò l'esilio a quegli accusatori che non provavano le lor denunzie ed accuse. Molto più aspramente trattò coloro che intentavano [330] processi calunniosi di contrabbandi in favore del fisco; imperocchè egli diceva: Chi non gastiga i falsi accusatori, anima essi ed altri a questo iniquo mestiere. Non fu minore la sua magnificenza nel rifare il Campidoglio: che fu mirabil cosa, perchè, secondo la testimonianza di Plutarco [Plutarc., in Vita Poplic.], nelle sole dorature egli v'impiegò dodicimila talenti: il che era un nulla rispetto alle spese fatte nell'adornare il proprio palazzo. Rifabbricò eziandio varj templi bruciati sotto Tito Augusto, mettendovi il suo nome, e non già quello de' primieri. Fece di pianta il tempio della famiglia Flavia, lo stadio per gli atleti, l'Odeo per le gare de' musici, e la Naumachia per gli combattimenti navali. Marziale, poeta di questi tempi, sfacciato adulatore di Domiziano, esalta alle stelle tutte queste sue fabbriche, ed ogni altra sua azione. Ora quanto s'è detto fin qui potrà far credere ai lettori, che Domiziano comparisse figliuolo ben degno di un Vespasiano, e fratello d'un Tito, principi che aveano restituito il suo splendore a Roma, e all'imperio romano. Ma noi non tarderemo a vederlo indegno lor figlio e fratello, e tiranno non signore di Roma. Prese egli in quest'anno il titolo d'imperadore per la terza volta, a cagione, per quanto si crede, di qualche vittoria riportata da Giulio Agricola nella Bretagna. Colà s'inoltrò cotanto quel valente capitano coll'armi romane, che arrivò sino ai confini dell'Irlanda [Tacitus, in vita Agricolae, cap. 24.].
Anno di | Cristo LXXXIII. Indizione XI. |
Anacleto papa 1. | |
Domiziano imperadore 3. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la nona volta, e Quinto Petillio Rufo per la seconda.
A Quinto Petilio fu sostituito nel consolato, per quanto si crede, Cajo [331] Valerio Messalino. In quest'anno la Storia ecclesiastica riferisce la morte di san Cleto papa, che col suo sangue illustrò la religione di Cristo. A lui succedette nella cattedra di s. Pietro, Anacleto. Durava tuttavia la guerra nella Bretagna. Giulio Agricola comandante dell'armi romano in quelle parti [Tacitus, cap. 25 et seq.], riportò un'insigne vittoria nella Scozia contra di quei popoli. Aveano i Romani trasportato in quelle grandi isole un reggimento di Tedeschi. Costoro non volendo più militare in quelle parti, fatta una congiura, uccisero il loro tribuno, i centurioni, ed alcuni soldati romani, ed imbarcatisi in tre brigantini si diedero alla fuga. Il piloto d'essi legni seppe far tanto, che ricondusse il suo all'armata romana. Gli altri due fecero il giro della Bretagna, e dopo una fiera fame patita, per cui mangiarono i più deboli, giacchè non poteano approdare ad alcun sito d'essa Bretagna, per essere considerati quai nemici, andarono poi a naufragar nelle coste della Germania bassa. Quivi dai corsari svevi e frisoni furono presi e venduti come schiavi. Perchè alcuni d'essi capitarono nelle terre del romano imperio, perciò allora solamente vennero a conoscere i Romani, che la Bretagna era un'isola e non già terra ferma, come per la poca pratica aveano fin allora molti creduto. Intanto Domiziano teneva allegro il popolo romano [Sueton., in Domitiano, c. 4.] con dei magnifici e dispendiosi spettacoli, non solamente nell'anfiteatro, ma anche nel circo, dove si videro corse di carrette, combattimenti a cavallo e a piedi, siccome ancora cacce di fiere, battaglie di gladiatori in tempo di notte a lume di fiaccole [Dio, lib. 67.], dando nel medesimo spettacolo cena, o almen vino al popolo spettatore. Vidersi ancora zuffe d'uomini, ed anche combattere con le fiere, o fra loro. Mirabili altresì furono i combattimenti navali, fatti nell'anfiteatro, [332] oppure in un lago, cavato a mano in vicinanza del Tevere. Probabilmente a vari anni son da attribuire sì fatti spettacoli, benchè da Svetonio e da me accennati tutti in un fiato.
Anno di | Cristo LXXXIV. Indizione XII. |
Anacleto papa 2. | |
Domiziano imperadore 4. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la decima volta e Sabino.
Non ho io dato alcun prenome e nome a questo Sabino console, perchè intorno a ciò nulla v'ha di certo. Da Giordano [Jord., de Reb. Getic., c. 13.], che altri sogliono chiamar Giornande, egli vien appellato Poppeo Sabino. Parve probabile al cardinal Noris [Noris, Ep. Consul.], che il suo nome fosse Cajo Oppio Sabino. Ma in un'iscrizione riferita dal Cupero (non so di qual peso) a Domiziano per la decima volta console vien dato per collega Tito Aurelio Sabino. Noi bensì vedremo un console dell'anno seguente appellato Tito Aurelio. In tale incertezza ho io ritenuto solamente il di lui cognome, di cui non ci lasciano dubitare i fasti antichi. Quantunque non si sappia di certo l'anno in cui Domiziano andò alla guerra in Germania, pure, seguendo la traccia delle medaglie [Mediobarbus, Goltzius et alii.], reputo io più verisimile il parlarne nel presente. Erano confinanti i Romani coi Catti, popolo, per attestato di Tacito [Tacitus, de Morib. Germanorum, cap. 30.], il più prudente e meglio disciplinato che s'avesse la Germania, creduto oggidì quel d'Hassia e Turingia. Domiziano, siccome sommamente vano ed ambizioso di gloria, determinò di marciar egli in persona contra d'essi [Dio, lib. 67.], perchè aveano cacciato Cariomero re dei Cherusci dal suo dominio a cagion dell'amicizia ch'egli professava ai Romani. Andò [333] questo gran campione, assai persuaso che il suo solo nome avesse da sbigottire que' popoli; e forse fu allora, che, per quanto abbiam da Frontino [Frontin., in Stratagem., lib. 1, cap. 1.], egli mostrò di portarsi nelle Gallie, ad oggetto unicamente di fare il censo di quelle provincie. Ma giunto colà, all'improvviso passò coll'esercito il Reno, e a bandiere spiegate andò contro ai Catti. Se volessimo credere agli adulatori poeti, uno de' quali era allora Publio Stazio Papinio [Stat., in Sylv., l. 1, c 1.], egli domò la fierezza di quei barbari e mise in pace i vicini. Ma non si sa ch'egli desse loro battaglia alcuna; e probabilmente altro non fece che ridurli ad un trattato di pace, con rovinar intanto i popoli suoi sudditi di là dal Reno. Contuttociò, come s'egli avesse compiuta una segnalata impresa, sparse voce di vittorie riportate; e tutto gonfio del suo mirabil valore se ne tornò a Roma per goder del trionfo, che il senato sulla di lui parola gli accordò. Nelle medaglie di quest'anno si truova più volte coniato il tipo della vittoria, segno di questi pretesi vantaggi nella guerra germanica, per cui cominciò egli ad usare il titolo di Germanico, e si fece proclamar imperadore sino alla nona volta. Può nondimeno essere, che contribuissero alla gloria di Domiziano anche le prodezze di Giulio Agricola nella Bretagna; imperciocchè, per quanto si può conghietturare [Tac., in vita Agric., c. 38 et seq.], nell'anno presente quel saggio uffiziale sottopose al romano imperio le isole Orcadi, ed altri paesi in quelle parti. Di questi felici successi diede egli di mano in mano avviso a Domiziano. Qual ricompensa ne ricavasse, lo diremo all'anno seguente.
Anno di | Cristo LXXXV. Indizione XIII. |
Anacleto papa 3. | |
Domiziano imperadore 5. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per l'undecima volta, e Tito Aurelio Fulvo, o Fulvio.
Questo Tito Aurelio console per attestato di Capitolino [Julius Capitolinus, in Antonino Pio.], fu avolo paterno di Antonino Pio Augusto. Che solamente nell'anno presente Domiziano solennizzasse il suo trionfo per aver ridotti a dovere i popoli Catti, si può facilmente dedurlo dalle monete o medaglie d'allora [Mediobarb., in Numism. imperator.], nelle quali ancora con isfacciata adulazione si legge GERMANIA CAPTA, quasichè a questo bravo imperadore, il qual forse neppure fu a fronte de' nemici, riusciti fosse di conquistar l'intera Germania. Però da lì innanzi egli costumò di andare al senato in abito trionfale. Son di parere alcuni [Blanchinius ad Anastas.], ch'egli nello stesso tempo trionfasse dei Quadi, Daci, Geli e Sarmati. Ma, per quanto sembra indicare Svetonio [Sueton., in Domitiano, cap. 6.], diverse furono quelle guerre, diversi i trionfi. Egli spontaneamente fece la prima spedizione contro ai Catti; e l'altre per necessità. Però ne parleremo andando innanzi. L'avviso delle vittorie riportate da Agricola fu ricevuto da Domiziano con singolare allegrezza in apparenza [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 39, et seq.]; perchè internamente gli rodeva il cuore, che vi fosse altra persona, che lui, creduta valorosa, e da invidioso riputava perdita sua le glorie altrui. Perciò, quantunque, per coprire lo scontento suo, gli facesse decretar dal senato gli ornamenti trionfali, una statua e gli altri onori, de' quali fosse capace una privata persona, dappoichè si riserbavano ai soli imperadori i trionfi: pure determinò di richiamarlo a Roma, indorando questa pillola, col far correr voce di volergli [335] conferire il governo riguardevole della Siria o sia della Soria, giacchè era mancato di vita Attilio Rufo, governatore di quella provincia. Fu detto ancora, che gliene inviasse la patente portata da un suo liberto, ma con ordine di consegnargliela solamente allorchè Agricola non fosse partito per anche dalla Bretagna; perchè dovea Domiziano temere, ch'egli non volesse muoversi, se prima non riceveva la sicurezza di qualche migliore impiego. Ma il liberto avendo trovato, che Agricola, dopo aver consegnata la provincia tutta in pace al suo successore, cioè a Sallustio Lucullo era già venuto nella Gallia, senza neppur lasciarsi vedere da lui, se ne ritornò a Roma, portando seco la non presentata patente. Entrò in Roma Agricola in tempo di notte, per ischivare lo strepito di molti suoi amici, che voleano uscire ad incontrarlo; e si portò a salutar Domiziano, da cui fu accolto con della freddezza. Da ciò intese egli ciò che potea sperare da un tale imperadore; e rimasto senza impiego, si diede poscia ad una vita ritirata e privata. Non mancò in corte chi animò Domiziano a fargli del male, accusando e calunniando un sì degno personaggio, prima ch'egli giugnesse a Roma; ma non avea per anche Domiziano dato luogo in suo cuore alla crudeltà, di cui parlerò a suo tempo; e la moderazione e prudenza d'Agricola ebbero tal fortuna, ch'egli giunse naturalmente alla morte, senza riceverla dalle mani altrui. Abbiamo da Tacito [Tacitus, in vita Agricolae.], che dopo l'arrivo di esso Agricola a Roma, gli eserciti romani nella Mesia, nella Dacia, nella Germania e nella Pannonia, o per la temerità, o per la codardia de' generali, furono sconfitti; e che vi rimasero o trucidati o presi moltissimi uffiziali di credito colle lor compagnie, di maniera che non solamente si perdè alquanto de' confini del romano imperio, ma si dubitò infine di perdere i luoghi forti, dove soleano star le milizie romane ai [336] quartieri d'inverno. Tali disavventure nondimeno si può credere che succedessero in vari anni; a noi resta luogo di distribuirle con sicurezza secondo i lor tempi, perchè son periti gli Annali antichi, e Svetonio e Dione, secondo il loro uso, contenti di riferir le azioni degli antichi Augusti, poca cura si presero della cronologia.
Anno di | Cristo LXXXVI. Indizione XIV. |
Anacleto papa 4. | |
Domiziano imperadore 6. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la dodicesima volta, e Servio Cornelio Dolabella Metiliano Pompeo Marcello.
Tutti questi cognomi ho io dato al secondo de' consoli, seguendo un'iscrizione da me [Thesaur. Novus Inscript., pag. 113, n. 2.] pubblicata, e creduta spettante al medesimo personaggio. Abbiamo da Giulio Capitolino [Capitolinus, in vita Antonini Pii.], che in quest'anno venne alla luce Antonino Pio, il quale vedremo andando innanzi imperadore. E in questi tempi ancora, siccome scrive Censorino [Censorinus, de Die Natali, cap. 18.], Domiziano istituì in Roma i Giuochi Capitolini, i quali continuarono di poi a celebrarsi ad ogni quarto anno, a guisa dei giuochi olimpici della Grecia. Si solennizzavano in onore di Giove Capitolino. Per testimonianza di Svetonio [Suetonius, in Domitiano, cap. 4.], in que' giuochi varie erano le gare e contese dei professori dell'arti. Chi più degli altri piaceva nel suo mestiere, ne riportava in premio una corona. Faceano un giorno le lor forze gli atleti; un altro dì i cantori e sonatori; un altro gl'istrioni o commedianti. V'era anche il giorno destinato per li poeti; e il suo per chi recitava prose in greco o latino. Stazio Papinio poeta [Statius, in Sylv.] recitò allora al popolo una [337] parte della sua Tebaide, che non piacque; e in confronto di lui furono coronati altri poeti. Vi si videro ancora non senza dispiacer de' buoni, fanciulle pubblicamente gareggiare nel corso. Come pontefice massimo presiedeva a questi giuochi Domiziano, vestito alla greca, portando in capo una corona d'oro, perchè i sacerdoti costumavano nelle lor funzioni di andar coronati. Abbiamo da Dione [Dio, lib. 67.] e da Svetonio [Sueton., in Domitiano, c. 4.] che Domiziano, oltre al suddetto spettacolo ed altri straordinari, usò ogni anno di fare i giuochi quinquatri in onor di Minerva, mentre villeggiava in Albano. In essi ancora si miravano cacce di fiere, divertimenti teatrali, e gare d'oratori e di poeti. Non contento Domiziano di profondere immense somme di danaro in tali spettacoli, tre volte in vari tempi diede al popolo romano un congiario, cioè un regalo di trecento nummi per testa. Così nella festa dei Sette monti, mentre si facea uno spettacolo, diede una lauta merenda a tutto il popolo spettatore, in maniera pulita di tavole apparecchiate ai senatori e cavalieri, e alla plebe in certe sportelle. Nel giorno seguente sparse sopra il medesimo popolo una quantità prodigiosa di tessere, cioè di tavolette, nelle quali era un segno di qualche dono, come di uccelli, carne, grano, ec., che si andava poi a prendere alla dispensa del principe. E perchè erano quasi tutte cadute ne' gradini del teatro o anfiteatro, dove sedea la plebe, ne fece gittar cinquanta sopra cadaun ordine de' sedili de' senatori e cavalieri. Certo è che gl'imperadori, per guadagnarsi l'affetto del popolo, coll'esempio d'Augusto, il ricreavano di quando in quando colla varietà de' giuochi pubblici, e più lo rallegravano con dei regali. Ma in fine queste esorbitanti spese di Domiziano tornarono, siccome dirò, in danno dello stesso pubblico, perchè l'erario si votava con sì fieri salassi, e per [338] ristorarlo egli si diede poi alle crudeltà e alle oppressioni de' cittadini.
Anno di | Cristo LXXXVII. Indizione XV. |
Anacleto papa 5. | |
Domiziano imperadore 7. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la tredicesima volta, e Aulo Volusio Saturnino.
Benchè Eusebio nella sua Cronica [Euseb., in Chron.] non rechi un filo sicuro per la cronologia di questi tempi, pure si può ben credergli, allorchè scrive che nell'anno presente cominciò Domiziano a gustare che la gente gli desse il titolo di Signore e fin quello di Dio: empietà non perdonabile a mortale alcuno. Secondo il suddetto istorico, assistito dall'autorità di Svetonio [Sueton., in Domitiano, cap. 13.], non solamente egli si compiacque, ma comandò ancora d'essere così nominato: il che, dice Eusebio, non venne in mente ad alcun precedente imperatore. Noi abbiam veduto, avere Augusto veramente vietato con pubblico editto d'essere chiamato Signore; ma anch'egli permise bene e gradì che in sua vita gli fossero eretti dei templi e costituiti dei sacerdoti ad onore della sua pretesa divinità. Per attestato ancora di Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.], Caligola forsennato Augusto volle essere chiamato Signore e Dio. Di tutto era vie più capace la smoderata ambizione o frenesia di Domiziano; e pronta ad ubbidire era l'adulazione e la superstiziosa stoltezza dei Pagani. Però fondatamente hanno creduto alcuni, che l'aver Domiziano perseguitati i Cristiani, avesse origine di qui; perchè certo i seguaci di Gesù Cristo, professando la credenza di un solo Dio invisibile ed immortale, non poteano mai indursi a riconoscere per dio un imperadore, vile e miserabil creatura in [339] confronto del Creatore. Abbiamo dallo stesso Eusebio, che in questi tempi i popoli Nasamoni e Daci, avendo guerra coi Romani, furono vinti. Quanto ai Daci non ci somministra l'antica storia assai lume per essere il tempo vero in cui ebbe principio la guerra con essi, e quanto durò, e quando finì. Tuttavia potrebbe darsi che a questi tempi appartenesse il primo movimento di quella guerra, che continuò molto dipoi, e riuscì ben pericolosa e funesta ai Romani. Credesi che l'antica Dacia comprendesse quel paese che oggidì è diviso nella Transilvania, Moldavia e Valachia. Erano popoli fieri e bellicosi quei di quelle contrade, perchè credeano la morte fine della presente vita, e principio di un'altra, secondo l'opinion di Pitagora, che spacciò la trasmigrazion delle anime. Con tal persuasione sprezzavano ogni pericolo, e si esponevano alla morte, sperando di risorgere con miglior mercato in altri corpi. Alcuni Greci [Dio, lib. 67.] diedero ai Daci il nome di Geti e Goti; e veramente si truovano confusi presso gli antichi scrittori i nomi delle barbare nazioni. Quel che è certo, capitano di essi Daci era allora Decebalo, uomo di rara maestria ed accortezza nel mestier della guerra. E questi, se crediamo a Giordano [Jordan., de Rebus Geticis, cap. 12.] scrittore de' tempi di Giustiniano Augusto, mossi dall'avarizia di Domiziano, rotta l'alleanza che aveano con Roma, passarono il Danubio, e cacciarono da quelle ripe i presidii romani [Sueton., in Domitiano, cap. 6.]. Appio Sabino, che il cardinal Noris [Noris, Epist. Consulari.] crede più tosto appellato Cajo Oppio Sabino, personaggio stato già console, e governatore allora probabilmente della Mesia, marciò colle sue forze contra di que' Barbari, ma ne rimase sconfitto, ed egli ebbe tagliata la testa [Eutrop., Histor.]. A questa vittoria tenne dietro il saccheggio del paese, e la presa di molti villaggi e [340] castella. Giunte a Roma queste dolorose nuove, si vide Domiziano in certa guisa necessitato ad accorrere colà per fermare questo rovinoso torrente. In qual anno egli la prima volta v'andasse (perchè due volte v'andò) non si può decidere. Sarà permesso a me di riserbarne a parlar nell'anno susseguente. Dei Nasamoni, popoli dell'Africa di sopra nominati da Eusebio, noi sappiamo da Zonara [Zonara, in Annal.], che, a cagion delle eccessive imposte, si sollevarono contro ai Romani e diedero una rotta a Flacco governator della Numidia. Ma essendosi coloro perduti dietro a votar molti barili di vino, che trovarono nel campo dei vinti, Flacco fu loro addosso, e ne fece un gran macello. Domiziano, gloriandosi delle imprese altrui, nel senato espose d'aver annientati i Nasamoni.
Anno di | Cristo LXXXVIII. Indizione I. |
Anacleto papa 6. | |
Domiziano imperadore 8. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la quattordicesima volta, e Lucio Minucio Rufo.
Minicio e non Minucio è appellato questo console in una iscrizione da me [Thesaurus Novus Inscription., p. 314, n. 1.] data alla luce. Nobil famiglia era anche la Minucia. Derisa fu l'avidità di Domiziano (l'avea preceduto coll'esempio Vespasiano suo padre) da Ausonio [Ausonius, in Panegyr.] e da altri, nel continuare per tanti anni il consolato nella sua persona, quasichè invidiasse agli altri un tale onore. Arrivò egli ad essere console diecisette volte: il che niuno de' suoi predecessori avea mai fatto, amando essi di veder compartita anche ad altri questa onorevolezza. Osservò nondimeno Svetonio [Sueton., in Domitian., cap. 13.], che Domiziano non esercitava poi la funzione di console, lasciandone il peso al [341] collega, o pure ai sostituiti. Bastava alla sua boria, che il suo nome comparisse negli atti pubblici, l'anno de' quali per lo più era segnato col nome de' consoli ordinari. Del resto egli constumava di deporre il consolato alla più lunga nelle calende di maggio; e i più d'essi rinunziò nel dì 13 di gennaio. Ma quali persone fossero a lui sostituite in quella dignità, e in qual anno, non si può ora accertare. Volle Domiziano, che si celebrassero nell'anno presente i giuochi secolari, ancorchè, secondo l'istituto di essi, si avessero a celebrare ad ogni cento anni [Censorinus, de Die Natal., cap. 17.], nè più che quarantun anni fosse, che Claudio Augusto gli avea fatti. La prima spedizion di Domiziano contro ai Daci, insuperbiti per la loro vittoria, forse accadde nell'anno presente. Andò egli in persona coll'esercito a quella volta. Racconta Pietro patrizio nel suo trattato delle ambascerie [Petrus Patric., de Legat. Hist. Byzant., T. 1.], che Decebalo veduto venire con sì grande apparato di gente un imperador romano contro sè, gl'inviò degli ambasciatori per trattar di pace. Se ne rise il superbo Domiziano, ed avendoli rimandati senza risposta, ordinò che le milizie imprendessero la guerra, con dare il comando di tutta l'armata a Cornelio Fosco, prefetto allora del pretorio. Decebalo assai informato del valore di questo generale, che avea studiata l'arte militare solamente fra le delizie della corte e in mezzo ai divertimenti di Roma, se ne fece beffe, e spedì altri deputati a Domiziano, offerendosi di terminar quella guerra, purchè i Romani di quelle contrade gli pagassero annualmente due oboli per testa; e ricusando essi tal condizione, minacciava loro lo sterminio [Sueton., in Domitiano, cap. 6.]. Contuttociò Domiziano, ch'era un solennissimo poltrone, come se avesse pienamente assicurato l'imperio da quella parte, se ne tornò da bravo a Roma, senza apparire se prima che terminasse [342] il presente anno, o pur nel seguente. Per quanto scrivono Svetonio e Giordano [Jordan., de Reb. Geticis, cap. 13.], Fosco avendo passato il Danubio, fece guerra a' Daci, e probabilmente ebbe sopra di loro qualche vantaggio; ma in fine restò sconfitto e ucciso, forse nell'anno seguente. Circa questi tempi, per quanto s'ha da Eusebio [Eusebius, in Chron.], Marco Fabio Quintiliano, eccellente maestro di eloquenza, nato a Calaorra in Ispagna, venne a Roma salariato dal pubblico, per insegnar la oratoria. Ma probabilmente ciò avvenne sotto Vespasiano, il quale fondò quivi varie scuole, e vi chiamò degl'insigni maestri. Certo è intanto, che Quintiliano fiorì sotto i di lui figliuoli, e fu anche maestro dei nipoti di Domiziano.
Anno di | Cristo LXXXIX. Indizione II. |
Anacleto papa 7. | |
Domiziano imperadore 9. |
Consoli
Tito Aurelio Fulvo per la seconda volta, e Aulo Sempronio Atratino.
Siamo accertati da Giulio Capitolino [Capitol., in Antonino Pio.], che Vito Aurelio Fulvo o sia Fulvio, avolo paterno di Antonino Pio Augusto, fu due volte console. Giacchè Svetonio scrive che Domiziano volle un doppio trionfo dei Catti e dei Daci, non è improbabile ch'egli nell'anno presente affrettasse questo onore per far credere ai Romani, che felicemente passavano gli affari nella guerra della Dacia. Attesta il medesimo storico, ch'erano seguite alcune battaglie in quelle parti, e taluna verisimilmente vantaggiosa ai Romani, il che bastò all'ambizioso Augusto, per esigere l'onor del trionfo. Giacchè sopravvenne la sconfitta e la morte di Cornelio Fosco nella guerra che continuava nella Dacia, potrebbe attribuirsi all'anno presente la seconda spedizione del [343] medesimo Domiziano contro ai Daci, essendo noi accertati da Svetonio [Sueton., in Domitiano, cap. 6.], che due volte egli andò in persona a quella guerra. Ma se non è possibile il ben dilucidare i tempi delle azioni di Domiziano, a noi bastar deve almeno la certezza delle medesime. Tornò dunque Domiziano alla guerra [Dio, lib. 67.], ma perchè facea più conto della pelle che dell'onore, nè gli piacea la fatica, ma sì bene il godersi tutti i comodi, siccome uomo poltrone, e perduto tra le femmine e in ogni sorta di disonestà: non osò giammai di lasciarsi vedere a fronte dei nemici. Fermatosi dunque in qualche città della Mesia, spedì i suoi generali contra di Decebalo. Seguirono vari combattimenti, ne' quali, per testimonianza di Dione, perì buona parte delle sue armate. Tuttavia, perchè la fortuna delle guerre è volubile, e i suoi riportarono talvolta de' vantaggi, e specialmente Giuliano diede una considerabil rotta a Decebalo: Domiziano di continuo, ed anche allorchè andavano poco bene gli affari, spediva l'un dietro all'altro i corrieri a Roma, per avvisare il senato delle sue felici vittorie. Pertanto, a cagione di questi creduti sì gloriosi successi, il senato gli decretò quanti onori mai seppe immaginare, e per tutto l'imperio romano gli furono alzate statue d'oro e d'argento, se pur non erano dorate ed inargentate. Con tutto il suo valor nondimeno Decebalo cominciò a sentirsi assai angustiato dalle forze de' Romani; e però inviò degli ambasciatori a Domiziano per ottener la pace. Non ne volle il poco saggio Augusto udir parola; ma in vece di maggiormente incalzare il vacillante nemico, venuto nella Pannonia, rivolse l'armi contro ai Quadi e Marcomanni, volendo gastigarli, perchè non gli aveano dato soccorso contra dei Daci. Due volte que' popoli gli fecero una deputazione, per placare il suo sdegno; non solo nulla ottennero, ma Domiziano [344] fece anche levar la vita ai secondi lor deputati. Si venne dipoi ad una battaglia, in cui dai Marcomanni, combattenti alla disperata, fu sconfitto l'esercito romano, ed obbligato l'imperadore alla fuga. Allora fu, che egli diede orecchio alle proposizioni di pace con Decebalo, il qual seppe ben profittare della debolezza, in cui, dopo tante perdite, si trovavano i Romani. Contentossi dunque egli di restituir molte armi e molti prigioni, e di ricever anche dalle mani di Domiziano il diadema del regno; ma si capitolò, che anche Domiziano pagasse a lui una gran somma di danaro, e di mandargli molti artefici in ogni sorta d'arti di guerra e di pace; e, quel che fu peggio, di pagargli in avvenire annualmente una certa quantità di danaro a titolo di regalo. Durò questa vergognosa contribuzione sino ai tempi di Trajano, il quale, siccome vedremo, avendo altra testa e cuore che Domiziano, insegnò ai Daci il rispetto dovuto all'aquile romane. Tutto boria Domiziano per questa pace, quasichè egli l'avesse fatta da vincitore, e non da vinto, scrisse al senato lettere piene di gloria, e fece in maniera ancora, che gli ambasciatori di Decebalo andassero a Roma con una lettera di sommessione, a lui scritta da Decebalo, se pur non fu finta, come molti sospettarono, dallo stesso Domiziano. Per altro Decebalo non fidandosi di lui, si guardò dal venire in persona a trovar Domiziano, e in sua vece mandò il fratello Diegis a ricevere da lui il diadema. Quanto durasse questa guerra sì perniciosa ai Romani, e quando cessasse, non abbiamo assai lume per determinarlo; ma v'è dell'apparenza, che si stabilisse la pace nell'anno presente, e che Domiziano se ne tornasse a Roma nel dicembre per prendere il consolato nell'anno seguente. Nè si dee tacere ciò che Plinio il giovane osservò, cioè che Domiziano [Plinius, in Panegyr.] andando a queste guerre, per [345] dovunque passava sulle terre dell'imperio, non pareva il principe ben venuto, ma un nemico ed un assassino: tante erano le gravezze che imponeva ai popoli, tante le rapine, gl'incendi, ed altri disordini che commettevano le sue milizie, braccia cattive di un più cattivo capo.
Anno di | Cristo XC. Indizione III. |
Anacleto papa 8. | |
Domiziano imperadore 10. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la quindicesima volta, e Marco Coccejo Nerva per la seconda.
Nerva console, quegli è che a suo tempo vedremo imperadore. Siccome il cardinal Noris ed altri mettono la seconda guerra dacica prima di quel ch'io abbia supposto, così credono che Domiziano celebrasse nell'anno 88, o pure nel precedente, il secondo suo trionfo dei Daci, e prendesse il titolo di Dacico. Eusebio [Euseb., in Chron.] lo differisce sino all'anno seguente. Io sto col padre Pagi [Pagius, in Critica Baron. ad hunc Ann.], che riferisce quel trionfo al presente anno. Su tal supposto adunque, fu in quest'anno, per attestato di Dione [Dio, lib. 67.], che Domiziano solennizzò in Roma le sue glorie con magnifiche feste e spettacoli. Si fecero nel Circo vari combattimenti a piedi e a cavallo, e in un lago fatto a posta una battaglia navale, in cui quasi tutti i combattenti restarono morti. Levossi inoltre durante quello spettacolo un fiero temporale con pioggia, che quasi ebbe ad affogare gli spettatori. Domiziano si fece dare il mantello di panno grosso, ma non volle che gli altri mutassero veste, nè che alcuno uscisse, di maniera che tutti inzuppati d'acqua, contrassero poi delle malattie, per cui molti morirono. A consolar poi il popolo per tal disgrazia, [346] trovò lo spediente di dargli una cena a lume di fiaccole; e per lo più fu suo costume di eseguire i pubblici divertimenti in tempo di notte. Ma specialmente fece egli comparire il suo fantastico cervello in un convito notturno, al quale invitò i principali dell'ordine senatorio ed equestre. Fece addobbar di nero tutte le stanze del palazzo, mura, pavimento e soffitte, con sedie nude. Invitati i commensali, cadaun vide collocata vicino a sè una specie d'arca sepolcrale, col suo nome scritto in essa, e con una lucerna pendente, come ne' sepolcri. Sopravvennero fanciulli tutti nudi e tinti di nero, ballando intorno ad essi, e portando vasi, simili agli usati nelle esequie dei morti. Cadauno de' convitati si tenne allora spedito, e tanto più perchè tacendo ognuno, il solo Domiziano d'altro non parlava che di morti e di stragi. Dopo sì gran paura furono in fine licenziati; ma appena giunti alla loro abitazione, ecco che parecchi di loro son richiamati alla corte. Oh allora sì che crebbe in essi lo spavento; ma in vece d'alcun danno, riceverono poi da Domiziano qualche dono in vasi d'argento, o in altri preziosi mobili. Tali furono i sollazzi bizzarri dati da Domiziano alla nobiltà in occasione del suo trionfo. Nondimeno il popolo comunemente dicea, che questo era non già un trionfo, ma un funerale de' Romani nella Dacia, ovvero in Roma estinti. Dopo questi trionfi la vanità di Domiziano, che studiava ogni dì qualche novità, volle che il mese di settembre da lì innanzi s'appellasse Germanico [Sueton., in Domitiano, cap 13. Plutarchus in Num.], e l'ottobre Domiziano, per non essere da meno di Giulio Cesare e di Augusto; e ciò perchè nel primo avea conseguito il principato, ed era nato nel secondo. Ma non durò più della sua vita questo suo decreto. Non si sa mai capire, come Eusebio [Euseb., in Chron.] scrivesse, che molte fabbriche furono terminate in Roma [347] nell'anno presente, o pure nell'antecedente, cioè Capitolium, Forum transitorium, Divorum Porticus, Isium ac Serapium, Stadium, Horrea piperataria, Vespasiani Templum, Minerva Chalcidica, Odeum, Forum Trajani, Thermae Trajanae et Titianae, Senatus, Ludus Matutinus, Mica aurea, Meta sudans et Pantheum. Non si pensasse alcuno, che tanti edifizii ricevessero il lor essere o compimento in quest'anno. Forse furono risarciti. Il Panteon era da gran tempo fatto; e, per tacere il resto, la piazza e le terme di Traiano non furono, siccome diremo, fabbricate, se non nei tempi del suo imperio, cioè da qui a qualche anno.
Anno di | Cristo XCI. Indizione IV. |
Anacleto papa 9. | |
Domiziano imperadore 11. |
Consoli
Marco Ulpio Trajano e Marco Acinio Glabrione.
Trajano, console in quest'anno, il medesimo è che fu poi imperadore glorioso. Il prenome dell'altro console Glabrione, secondo alcuni, fu non già Marco, ma Manio, siccome proprio della famiglia Acilia. Noi abbiamo da Dione [Dio, lib. 67.] esser avvenuti due prodigii, per l'uno de' quali fu presagito l'imperio a Trajano, e per l'altro la morte a Glabrione. Quali fossero, nol sappiamo, se non che per attestato del medesimo storico, Glabrione, benchè console, fu obbligato dal capriccioso ed iniquo Domiziano a combattere contra di un grosso lione, che fu bravamente da lui ucciso, senza restarne egli ferito. Questa azione, che dovea guadagnargli lode e stima presso di Domiziano, altro non fece che incitarlo ad invidia, ed anche ad odio, perchè non gli piaceano i nobili di raro valore. Però col tempo trovò de' pretesti per mandarlo in esilio, e poi imputandogli volesse [348] turbare lo stato (forse nell'anno 95) il fece ammazzare. All'anno presente vien riferita da Eusebio [Eusebius, in Chron.] la strepitosa morte di Cornelia, capo delle Vergini Vestali. Era ella stata accusata dianzi d'incontinenza e dichiarata innocente. Sotto Domiziano si risvegliò questa accusa; e Domiziano affettando la gloria di custode della religione, cioè della superstizione pagana, e volendo rimettere in uso le antiche leggi, la fece condannare e seppellir viva. Svetonio [Sueton., in Domitiano, c. 2.] dice, ch'ella fu convinta de' suoi falli; Plinio il giovane [Plinius, lib. 4, Ep. II.], ch'essa nè pur fu chiamata in giudizio, non che ascoltata, ed essere quella stata un'enorme crudeltà ed ingiustizia. Furono anche processati alcuni nobili romani, come complici del delitto, frustati sino a lasciar la vita sotto le battiture, benchè non confessassero l'apposto reato. E perchè Valerio Liciniano, già senatore e pretore, uno de' più eloquenti uomini del suo tempo, per avere nascosa in sua casa una donna della famiglia di Cornelia, fu accusato, altra maniera non ebbe, per sottrarsi a que' rigori, se non di confessare quanto gli fu suggerito sotto mano per ordine di Domiziano. Tuttavia fu egli cacciato in esilio, e i suoi beni assegnati al fisco. Questi poi sotto Trajano ritornato a Roma si guadagnò il vitto, con fare il maestro di rettorica. Così inorpellava Domiziano i suoi vizii, volendo comparire zelantissimo dell'onore de' suoi falsi dii. Narrasi ancora, che essendo morto uno dei suoi liberti, e seppellito, dappoichè Domiziano intese che costui si era fatto fabbricare il sepolcro con dei marmi presi dal tempio di Giove Capitolino, bruciato negli anni addietro, fece smantellar dai soldati quel sepolcro, e gittar in mare le ossa e le ceneri di colui; tanto si piccava egli di essere zelante dell'onore delle cose sacre.
Anno di | Cristo XCII. Indizione V. |
Anacleto papa 10. | |
Domiziano imperadore 12. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la sedicesima volta, e Quinto Volusio Saturnino.
S'è disputato, e tuttavia si disputa, in qual anno succedesse la ribellione di Lucio Antonio, e la breve guerra civile che in que' tempi avvenne. Alcuni [Pagius, in Crit. Baron.] la mettono nell'anno 88, altri nell'89, e il Calvisio [Calvisius, Tillemont et alii.] la differisce sino al presente anno. A me sembra più probabile l'ultima opinione, confrontando insieme quel poco che s'ha di questo fatto da Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae.], e da Svetonio [Sueton., in Domitiano, cap. 9.], e da Dione [Dio, lib. 67.], o sia da Sifilino; perchè da loro apparisce che dopo questa sollevazione Domiziano lasciò la briglia alla sua crudeltà, e ciò avvenne, siccome dirò, nell'anno seguente. Lucio Antonio, a cui Marziale [Martial., lib. 4, Epist. 9.] dà il cognome di Saturnino, era governatore dell'alta o sia superiore Germania. Perchè ben sapea, quanto per poco Domiziano perseguitasse le persone di merito, e che specialmente sparlava di lui con ingiuriosi nomi, mosse a ribellione le sue legioni, facendosi proclamare imperadore. Portata a Roma questa nuova, se ne conturbò ognuno per l'apprensione che ne succedesse una gran guerra, e si tornasse a provar tutti i malanni compagni delle guerre civili. Domiziano stesso, temendo che quest'incendio si potesse maggiormente dilatare, determinò di portarsi in persona contra di lui, ed avea già in ordine l'armata. Ciò che recava maggiore spavento, era il sapersi che Lucio Antonio s'era collegato coi Germani, e questi doveano rinforzarlo con un potente esercito. Ma che? Lucio [350] Massimo, che il Tillemont fondatamente congettura essere lo stesso che Lucio Appio Norbano Massimo, il qual forse governava allora la bassa Germania, o pure una parte della Gallia vicina, senza aspettare alcun de' soccorsi che gli promettea Domiziano, diede battaglia improvvisamente ad esso Lucio Antonio, prima che con lui si unissero i Tedeschi. Volle anche la buona fortuna, che mentre erano alle mani, crescesse così forte il Reno, che non poterono passare i Tedeschi. Rimase sconfitto ed ucciso Antonio, e la sua testa fu inviata a Roma in testimonianza della vittoria: il che risparmiò a Domiziano gl'incomodi di continuar quella spedizione. Plutarco [Plutarchus, in P. Æmil.] e Svetonio [Sueton., in Domitiano, c. 6.] narrano, che nel giorno stesso, in cui fu data quella battaglia, un'aquila posandosi in Roma sopra una statua di Domiziano, fece delle grida di allegria; e passando tal voce d'uno in altro, nel medesimo giorno si divulgò per tutta Roma, che Lucio Antonio era stato interamente disfatto: ed alcuni giunsero fino a dire di aver veduta la sua testa recisa dal busto. Prese tal piede questa diceria, che gran parte dei magistrati corsero a far de' sagrifizii in rendimento di grazie. Ma cominciandosi a cercare chi avea portata questa nuova, niuno si trovò, ed ognuno rimase confuso. Domiziano, che era in viaggio, ricevette dipoi i corrieri della vittoria, e si verificò essere la medesima succeduta nel giorno medesimo, in cui se ne sparse in Roma la falsa voce. All'anno presente attribuisce Eusebio [Euseb., in Chron.] l'editto di Domiziano contro le vigne [Sueton., in Domitiano, cap. 7.]. Trovatosi che v'era stata molta abbondanza di vino, poca di grano, s'immaginò Domiziano, che la troppa quantità delle viti cagion fosse che si trascurasse la coltura delle campagne. Ma Filostrato [Philostratus, in Vita Apollon., lib. 6.] [351] aggiugne, che non piaceva a Domiziano sì sterminata copia di vino, perchè l'ubbriachezza cagionava delle sedizioni. Ora egli vietò che in Italia non si potessero piantar viti nuove, e che nelle provincie se ne schiantasse la metà, anzi tutte nell'Asia, per quanto ne dice Filostrato. Ma non istette poi saldo in questo proposito, per essere venuto a Roma Scopeliano spedito da tutte le città dell'Asia, il quale non solamente ottenne che si coltivassero le vigne, ma ancora che si mettesse pena a chi non ne piantava. Forse ancora più di ogni altra riflessione servì a fare smontar Domiziano da questa pretensione, l'essersi sparsi de' biglietti [Aurelius Victor, in Epitome. Vopiscus, in Probo.], ne' quali era scritto, che facesse pur Domiziano quanto voleva, perchè vi resterebbe tanto di vino per fare il sagrifizio in cui sarebbe la vittima lo stesso imperadore.
Anno di | Cristo XCIII. Indizione VI. |
Anacleto papa 11. | |
Domiziano imperadore 13. |
Consoli
Pompeo Collega e Cornelio Prisco.
Credesi che a questi consoli fossero sostituiti prima del dì 15 di luglio, Marco Lollio Paolino e Valerio Asiatico Saturnino; e che all'un di essi succedesse nel consolato Cajo Antistio Giulio Quadrato; e il padre Stampa [Stampa, ad Fastos Consular. Sigonii.] ha sospettato che Cajo Antistio o sia Antio Giulio fosse personaggio diverso da Quadrato. Ma qui son delle tenebre, come in tanti altri siti de' Fasti consolari, trovandosi bensì de' consoli sostituiti e straordinari nelle antiche storie e lapidi nominati, ma senza certezza dell'anno in cui esercitarono quell'insigne uffizio. Poichè per altro quai fossero i due poco fa menzionati consoli, l'abbiamo da un marmo riferito dal Grutero [Gruter., Thesaur. Inscript., pag. 189.], [352] e compiutamente poi dato alle stampe dal canonico Gori [Gorius, Inscription. Etrusc., p. 69.], che fu posto M. LOLLIO PAVLLINO VALERIO ASIATICO SATVRNINO. C. ANTIO IVLIO QVADRATO COS. Se poi questi nell'anno presente fossero sostituiti ai consoli ordinari, io nol so dire. Nell'agosto di quest'anno in età di cinquantasei anni diede fine alla sua vita Gneo Giulio Agricola, suocero di Cornelio Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 44.], già stato console: le cui imprese militari nella Bretagna di sopra accennai. Tornato ch'egli fu di colà a Roma, arrivò l'anno in cui potea chiedere il proconsolato, o sia il governo dell'Asia o dell'Africa. Ma non si sentì egli voglia d'altri onori, perchè sotto un imperador cattivo troppo era pericoloso il servire. Poco prima avea Domiziano fatto levar di vita Civica Cereale proconsole dell'Asia per meri sospetti di ribellione. Questo esempio, e il sapere che l'imperadore non avea caro di conferir sì riguardevoli posti a persone di sperimentato valore, indussero Agricola a pregarlo che volesse esentarlo da quel pesante fardello. Era questo appunto ciò che desiderava Domiziano, e ben presto glie l'accordò; e permise, che Agricola il ringraziasse, come se gli avesse fatta una grazia. Seppe di poi vivere questo saggio uomo anche per qualche tempo, senza provar le persecuzioni del bisbetico Augusto, facendo conoscere che gli uomini grandi provveduti di prudenza possono stare anche sotto principi cattivi, e non fare naufragio. Dione [Dio, lib. 67.], ciò non ostante scrive che Domiziano l'uccise; ma Tacito, che più ne seppe di lui, e scrisse la sua vita, dice bensì esser corsa voce di veleno, nondimeno ne restò egli in dubbio.
Ma tempo è oramai di far vedere un principe appunto cattivo, anzi pessimo, nella persona di Domiziano; cosa da me riserbata a quest'anno, non già perchè [353] egli cominciasse solamente ora a riconoscersi tale, ma perchè il suo mal talento dopo la guerra civile di Lucio Antonio andò agli eccessi. Certamente a Domiziano non mancava ingegno ed intendimento: ma questa bella dote, se va unita con delle sregolate passioni, ad altro non serve d'ordinario, che a rendere più perniciosi e malefici i regnanti. Ora non si può assai esprimere quanta fosse la vanità, la prosunzione, e la sete di dominare in lui. Egli si credeva la maggior testa dell'universo, e ch'egli solo fosse degno di comandare: perciò fiero, superbo e sprezzator d'ognuno, astuto ed implacabile ne' suoi sdegni. Era sicuro dell'odio suo chiunque compariva eccellente in alcuna bella dote: che questo è lo stilo delle anime basse [Sueton., in Domitiano, cap. 1.]. Vivente il padre, e creato Cesare fece di mani e di piedi per non esser da meno del buon Tito suo fratello: ottenne vari uffizi, che esercitò con gran boria ed eccesso di autorità. E giacchè Vespasiano, ben conoscente del maligno suo naturale, il teneva basso, non avendo potuto conseguire se non un consolato ordinario, almeno si studiò sempre di essere sustituito come console straordinario al fratello. Morto Vespasiano, fu in dubbio se dovesse offerire ai soldati il doppio del donativo promosso loro da Tito, per tentar di levare a lui l'imperio. Andava spacciando che il padre l'avea lasciato collega del fratello nella signoria; ma che era stato suppresso il testamento. Vantavasi ancora d'aver egli alzato al trono non meno il padre che il fratello; e l'adulatore Marziale approvò questo suo folle sentimento. Vivente esso Tito, non fece egli mai fine a tendergli delle insidie, non solo segretamente, ma anche in palese. Tuttavia tanta era la bontà di Tito, che quantunque consigliato di liberar sè stesso e il pubblico da sì pericoloso arnese, mai non volle ridursi a questo passo, contentandosi solamente di fargli talvolta delle fraterne correzioni colle lagrime agli occhi, benchè [354] senza frutto. Forse quell'unica azione di cui Tito prima della sua immatura morte disse d'esser pentito, fu d'aver lasciato in vita questo fratello, ben conoscendo il gran male che ne avverrebbe alla repubblica. Divenuto poscia imperadore [Dio, lib. 67.] non lasciava occasione, anche in senato [Sueton., in Domitiano, cap. 1.], di sparlare copertamente ed ancora svelatamente del padre e del fratello, biasimando le loro azioni; e per cadere in disgrazia di lui, altro non occorreva che essere in grazia o dell'uno o dell'altro, o dir parole alla presenza di lui in lode di Tito. Per altro egli era un solennissimo poltrone: temeva i pericoli della guerra; abborriva le fatiche del governo [Aurelius Victor, in Epitome.]. Il suo divertimento principale consisteva in giocare ai dadi, anche ne' giorni destinati agli affari. Soleva eziandio ne' principii del suo governo starsene ritirato in certe ore del giorno: e la sua mirabil applicazione era in prendere mosche [Suet., in Domit., c. 3. Dio, l. 67. Aurel. Vict., in Epitome.], o ucciderle con uno stiletto. Celebre è intorno a ciò il motto di Vibio Crispo, uomo faceto. Dimandando taluno, chi fosse in camera con Domiziano, rispose Crispo: Nè pur una mosca. Ora non aspettò egli, siccome dissi, a comparire quel crudele che era, a questi tempi. Anche ne' precedenti anni diede varj saggi di questa sua fierezza per varie e ben frivole cagioni. Fra gli altri (non se ne sa l'anno) fece ammazzare Tito Flavio Sabino suo cugino, perchè avendolo disegnato console, secondo le apparenze, per la seconda volta, il banditore inavvertentemente in vece del nome di Console gli diede quello d'imperadore. Questo bastò per togliere a Sabino la vita. La stessa mala sorte toccò ad alcuni altri, o pure l'esilio: che questo era ne' primi suoi anni di più ordinario gastigo; ed Eusebio [Euseb., in Chron.] al di lui [355] quarto anno scrive essere stati esiliati da lui assaissimi senatori. Probabilmente ciò avvenne più tardi. Ora noi sappiamo da Suetonio [Sueton., in Domit., cap. 10.], che Domiziano prima di questi tempi avea levato dal mondo Salvio Coccejano, solamente perchè avea solennizzato il giorno natalizio di Ottone imperatore suo zio; Sallustio Lucullo, non per altro, che per aver dato il nome di lucullee ad alcune lance di nuova invenzione; Materno Sofista, cioè professor di rettorica, per aver fatta una declamazione contra de' tiranni; ed Elio Lamia Emiliano, per cagione di qualche motto piccante, detto fin quando esso Domiziano era persona privata. Moglie di questo Lamia fu Domizia Longina, figliuola di Corbulone. Gliela tolse Domiziano, e dopo averla tenuta per amica un tempo, la sposò, e diedele il titolo di Augusta. Ad accrescere la crudeltà di questo imperadore, s'aggiunse la smoderata credenza che si dava in questi tempi alle vane predizioni degli strologhi. Più degli altri loro prestava fede Domiziano, uomo timidissimo; e perchè fin da giovane gli avea predetto alcun d'essi che sarebbe un dì ucciso: perciò la diffidenza fu sua compagna finchè visse, e massimamente negli ultimi anni del suo imperio. Di qua venne la morte di vari principali signori dell'imperio; perchè egli si procacciava l'oroscopo di tutti, e trovandoli destinati a qualche cosa di grande, li faceva levare dal mondo. Metio Pomposiano, di cui parlammo all'anno 75, preservato sotto il buon Vespasiano, non la scappò sotto l'iniquo suo figliuolo. Perchè fu creduto che avesse una genitura, che vanamente gli pronosticava l'imperio, e perchè teneva in sua camera una carta geografica del mondo, e studiava le orazioni dei re e dei capitani, che son nelle storie di Livio, il mandò in Corsica in esilio [Dio, lib. 67.], ed appresso il fece ammazzare. Ma soprattutto s'accese, e giunse al [356] colmo l'inumanità di Domiziano, dappoichè se gli ribellò Lucio Antonio Saturnino; del che s'è favellato all'anno precedente. S'accorse più che mai allora questo maligno principe, che l'odio universale è un pagamento inevitabile delle iniquità [Sueton., in Domitiano, cap. 10.]. Trovò anche in Roma dei complici di quella congiura, e molti altri, che almeno sospiravano di vederla camminare ad un fine felice. Incrudelì dunque contra di chiunque era stato, o si sospettava che fosse stato partecipe dei disegni d'esso Lucio Antonio; nè perdonò se non a due uffiziali, che con vergognosa scusa coprirono il loro fallo. D'altre illustri persone da lui uccise parleremo all'anno seguente. Anche Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 45.] attesta avere bensì Domiziano commessa qualche crudeltà negli anni addietro, ma un nulla essere in paragon di quelle ch'egli praticò dopo la morte d'Agricola, avvenuta nell'anno presente, siccome dicemmo. O nel precedente anno, come vuole il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], o nel presente, come credette il cardinal Noris [Noris, Epist. Consulari, Tillemont et alii.] ed altri, ebbe principio la guerra de' Romani coi Sarmati [Eutrop., in Breviar.]. Aveano que' barbari tagliato a pezzi una o più legioni romane coi loro uffiziali. Ciò diede impulso a Domiziano di accorrere colà in persona con un buon esercito, per frenare l'insolenza di que' popoli. Da Marziale e da Stazio poeti, due trombe delle azioni di questo imperadore, noi impariamo ch'egli ebbe a combattere anche contro ai Marcomanni. Se bene, o male, non si sa. Ben sappiamo [Sueton., in Domitiano, c. 6.] che, secondo il suo costume di attribuirsi le vittorie, anche quando egli era vinto, tornato a Roma nel gennaio di questo anno o pur del seguente, fece credere che gli affari erano passati a maraviglia bene. Tuttavia ricusò il trionfo, e si contentò di portare al Campidoglio la sola [357] corona d'alloro, e di offerirla a Giove Capitolino.
Anno di | Cristo XCIV. Indizione VII. |
Anacleto papa 12. | |
Domiziano imperadore 14. |
Consoli
Lucio Nonio Torquato Asprenate e Tito Sestio Magio Laterano.
Fra gli eruditi è stata finora molta disputa intorno ai consoli ordinari di quest'anno, nè si sapea il prenome e nome di Laterano. Una iscrizione del museo kircheriano, da me [Thesaur. Novus Veter. Inscript., p. 314, num. 2.] data alla luce, ha messo tutto in chiaro. Da un altro marmo apparisce che, in luogo di Laterano, era console nel settembre Lucio Sergio Paolo. Moltiplicarono più che mai in questi tempi le calamità di Roma sotto Domiziano, divenuto oramai formidabil tiranno, e non inferiore a Nerone. Ne lasciò a noi un orrido ritratto Cornelio Tacito [Tacitus, Hist., lib. 1, c. 2 et seq. Idem, in Vita Agricolæ, c. 46.], presente a tutte quelle scene, con dire che si vide il senato circondato ed assediato da genti di armi; a molti che erano stati consoli, tolta la vita; e le più illustri dame o fuggitive o cacciate in esilio. Di persone nobili bandite, piene erano le isole, e all'esilio tenea dietro bene spesso la spada del carnefice. Ma in Roma si facea il maggior macello. Pareva un delitto l'aver avuto delle dignità; pericoloso era il volerne; nè altro occorreva per istar tutto dì esposto ai precipizii, che l'essere uomo dabbene. Le spie e gli accusatori erano tornati alla moda; e fra questi mali arnesi si distinguevano Metio Caro Messalino e Bebio Massa, assassini del pubblico, non nelle strade, ma ne' tribunali stessi di Roma, con essersi attribuita la maggior parte delle crudeltà d'allora più alla lor malignità [358] e prepotenza che a quella di Domiziano. Le spese eccessive fatte da questo prodigo imperadore in tanti spettacoli non necessari, e in accrescere fuor di misura lo stipendio ai soldati, per maggiormente obbligarseli, l'aveano ridotto al verde [Sueton., in Domitiano, cap. 12.]. Si avvisò di cercare il risparmio col cassare una porzion delle milizie; e, secondo Zonara [Zonara, in Annalib.], eseguì questo pensiero. Svetonio sembra dire, che solamente lo tentò, ma che trovandosi tuttavia imbrogliato a dar le paghe, rivolse il pensiero a far danaro in altre tiranniche maniere, occupando a diritto e a torto i beni dei vivi e dei morti. Pronti erano sempre gli accusatori, denunziando or questo, or quello, come rei di lesa maestà per un cenno, per una parola contra del principe o contra uno dei suoi gladiatori; delitti per lo più finti e non provati. Si confiscavano a tutti i beni; e bastava che comparisse un solo a dire di aver inteso che un tale prima di morire avea lasciata la sua eredità a Cesare, perchè tosto si mettessero le griffe su quella roba. Sopra gli altri furono angariati i Giudei, che da gran tempo pagavano un rigoroso testatico, per esercitare liberamente il culto della lor religione. Un'esatta perquisizion di essi fu fatta per tutto l'imperio romano, e processati coloro che, dissimulando la lor nazione, non aveano pagato.
Fra gli altri personaggi di distinzione che, per attestato di Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 45.], furono tolti di mira in questi tempi dal genio sanguinario di Domiziano, si contarono Elvidio il giovane, Rustico e Senecione. Era il primo figliuolo di quell'Elvidio Prisco, che a' tempi di Vespasiano, siccome fu detto di sopra all'anno 73, per la sua stoica insolenza si tirò addosso l'esilio, e poi la morte [Sueton., in Domitiano, cap. 10. Plinius, lib. 9, Epist. 13.]. Eccellenti qualità concorrevano ancora in questo suo figliuolo, per le quali era in [359] gran riputazione, oltre all'aver esercitato un consolato straordinario. Quantunque egli se ne stesse ritirato per la malvagità de' tempi che correano, pure si vide accusato davanti al senato, per avere, secondochè diceano, in un suo poema sotto i nomi di Paride e di Enone messo in burla il divorzio di Domiziano [Sueton., in Domitiano, cap. 3.], il quale altrove abbiam detto che prese in moglie Domizia Longina. Questa poi la ripudiò, perchè perduta di amore verso Paride istrione, ch'egli fece uccidere in mezzo ad una strada. Contuttociò non si potè contenere dal ripigliarla poco dipoi: del che fu assai proverbiato. Publicio Certo, dianzi pretore, ed ora uno de' giudici dati ed Elvidio, per mostrare il suo zelo adulatorio verso Domiziano, commise la più vergognosa azione che si possa mai dire; perchè mise le mani proprie addosso ed Elvidio, e il trasse alle prigioni. Fu condannato Elvidio, e l'infame Publicio per ricompensa destinato console, senza però giugnere a godere di quella dignità, perchè Domiziano tolto di vita non gli potè mantener la parola. Contra di costui si fece accusatore Plinio il giovine; e tal terrore gli mise in corpo, che disperato finì i suoi giorni. Errenio Senecione, per avere scritta la vita di Elvidio Prisco seniore, somministrò assai ragione al crudel Domiziano e al timido senato, per condannarlo a morte e far bruciare pubblicamente l'opere composte da quel felice ingegno. Un altro personaggio, tenuto in sommo credito per la professione della stoica filosofia [Dio, lib. 67. Plutarchus, de Curios.], fu Lucio Giunio Aruleno Rustico. Aveva egli in un suo libro lodati Peto Trasea ed Elvidio Prisco, uomini insigni, dei quali si è parlato di sopra. Di più non occorse, perchè egli fosse condannato e fatto morire. Plutarco attribuisce la di lui disgrazia all'invidia portata da Domiziano alla gloria di quest'uomo illustre. Sappiamo parimente, che Fannia, moglie [360] di Elvidio Prisco, in tal occasione fu mandata in esilio, e spogliata di tutti i suoi beni; siccome ancora Arria vedova di Peto Trasea; e Pomponia Gratilia, moglie del suddetto Rustico. Fece anche Domiziano morire Ermogene da Tarso, perchè in una storia di lui scritta si figurò di essere stato punto sotto certe maniere di dir figurate. I copisti di quella storia furono anch'essi fatti morire in croce. Di questo passo camminava la crudeltà di Domiziano, e Dione [Dio, in Excerptis Valesian.] ebbe a dire, che non si può sapere a qual numero ascendesse la serie degli uccisi per ordine suo, perchè non voleva che si scrivesse negli atti del senato memoria alcuna delle persone da lui tolte di vita. E con questa barbarie congiungeva egli un'abbominevole infedeltà, perchè servendosi di molti iniqui o per accusare altrui di lesa maestà, o per rapire le altrui sostanze, dopo averli premiati con dar loro onori e magistrati, da lì a poco faceva ancor questi ammazzare, acciocchè sembrasse che da essi soli, e non da lui fossero procedute quelle iniquità. Altrettanto facea coi servi e liberti da lui segretamente mossi ad accusare il padrone, facendoli poi morire anch'essi. Molte arti usò inoltre, per indurre alcuni ad uccidersi da sè stessi, acciocchè si credesse spontanea e non forzata la morte loro. Peggiore ancor di Nerone fu per un conto [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 45.], perchè assisteva in persona agli esami e ai tormenti delle persone accusate, e si compiaceva di udire i loro sospiri, e di mirar quei mali che facea lor sofferire, il maggior dei quali era il veder presente l'autore iniquo de' medesimi lor tormenti. Aggiungeva inoltre la dissimulazione all'inumanità, usando finezze e carezze a chi fra poche ore dovea per suo comandamento perdere la vita. Lo provò tra gli altri [Sueton., in Domitiano, cap. 11.] Marco Arricino Clemente, già prefetto del pretorio sotto Vespasiano, [361] e poi console (non si sa in qual anno), che era anche suo parente, ed amato non poco da lui, perchè l'aiutava nelle iniquità. Convertito l'amore in odio, un dì fattagli gran festa, il prese anche seco in seggetta, e veduto colui che era appostato per denunziarlo nel dì seguente come reo di lesa maestà, disse a Clemente: Vuoi tu, che domani ascoltiamo in giudicio quel furfante di servo? Posti in così duro torchio, se stessero male i cittadini romani, e particolarmente i nobili, non ci vuol molto ad intenderlo.
Anno di | Cristo XCV. Indizione VIII. |
Anacleto papa 13. | |
Domiziano imperadore 15. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la diecisettesima volta, e Tito Flavio Clemente.
Non zio paterno, ma cugino di Domiziano fu questo Clemente console, perchè figliuolo di Sabino fratello di Vespasiano. Mostravagli Domiziano molto affetto, e per testimonianza di Svetonio [Sueton., in Domitiano, c. 15.], meditava di voler suoi successori due piccioli figliuoli di lui, a' quali avea anche fatto cangiare il nome, chiamando l'uno Vespasiano, e l'altro Domiziano. Ma appena ebbe Clemente compiuto il tempo dell'ordinario suo consolato, il quale in questi tempi solea durare solamente i primi sei mesi, che Domiziano per leggerissimi sospetti gli fece levar la vita. Il cardinal Baronio [Baron., Annal. Ecclesiast.], il Tillemont [Tillemont, Mém. Hist. Ecclés.] ed altri dottissimi uomini, pretendono ch'egli morisse cristiano e martire; e le lor ragioni mi paiono convincenti. Imperciocchè Eusebio, Orosio ed altri scrittori cristiani mettono sotto quest'anno la persecuzione mossa da Domiziano contro i professori della legge di Cristo; e insin lo stesso Dione [Dio, lib. 67.], scrittore [362] pagano, scrive aver Domiziano nell'anno presente fatto morir Flavio Clemente Console per delitto d'empietà, cioè per non credere nè venerare i falsi dii del Paganesimo; e che furono molti altri condannati a morte, per avere abbracciata la religion de' Giudei: che tali erano creduti e chiamati allora i Cristiani. Svetonio [Sueton., in Domitiano, c. 15.], tacciando questo Clemente di una vilissima dappocaggine (contemtissimae inertiae), indica lo stesso; perchè, per attestato di Tertulliano [Tertull., in Apologetico, cap. 42.], i Cristiani, siccome gente ritirata, che non compariva agli spettacoli, non cercava dignità e gloria nel secolo, e attendeva alla mortificazion delle sue passioni, pareano persone di poco spirito, e gente buona da nulla. Moglie di questo Clemente console era Flavia Domitilla, nipote di Domiziano, cristiana anch'essa, che fu relegata nell'Isola Pandataria. Ebbe inoltre esso Clemente una nipote, appellata parimente Flavia Domitilla. Credesi che amendue queste Domitille, morendo martiri, illustrassero la fede di Gesù Cristo, e la lor memoria è onorata ne' sacri martirologi. Ne parla anche Eusebio [Eusebius, in Chron., et Hist. Ecclesiast. lib. 3.], citando in prova di ciò la storia di Brutio Pagano. O sia perchè il Cristianesimo era considerato come una setta di filosofia, o pure perchè Senecione e Rustico, amendue filosofi, uccisi, come dicemmo, nell'anno precedente (se pur non fu nel presente), irritassero non poco l'animo bestiale e timido di Domiziano: certo è, ch'egli cacciò di Roma tutti i professori della filosofia circa questi tempi, non potendo egli probabilmente sofferir coloro, da' quali ben s'immaginava che erano condannate le sue malvagie azioni. E che ciò succedesse nell'anno presente, lo scrive il mentovato Eusebio [Eusebius, in Chron.]. Però Filostrato notò [Philostratus, in Apollon., lib. 8.], che molti d'essi filosofi se ne fuggirono nelle [363] Gallie, ed altri nei deserti della Scizia e della Libia. Dione Crisostomo, uomo insigne, se ne andò nel paese de' Goti. Epitetto celebre Stoico, fu anch'egli obbligato a ritirarsi fuori di Roma. Amaramente si duol Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 2.] di questo crudele editto di Domiziano, perchè fu un bandire da Roma la sapienza ed ogni buono studio, acciocchè non vi rimanesse studio delle virtù, e vi trionfasse solamente la disonestà con gli altri vizii. Pare che a quest'anno appartenga, secondo Dione [Dio, lib. 67.], la morte di Acilio Glabrione, che fu console l'anno 91, fatto uccidere da Domiziano. Epafrodito, già potente liberto di Nerone, lungamente avea goduto gran fortuna anche nella corte di Domiziano, servendolo per segretario de' memoriali [Sueton., in Domitiano, cap. 14.]. Fu mandato in esilio, e condannato ora solamente a morte, perchè avea aiutato Nerone a darsi la morte, in vece d'impedirlo; il che fu fatto da Domiziano per atterrire i suoi domestici liberti, acciocchè non ardissero mai di far lo stesso con lui. Forse ancora è da riferire all'anno presente, o piuttosto al seguente, quanto avvenne, per attestato di Dione [Dio, lib. 67.], a Giuvenio Gelso, creduto da alcuni Publio Giuvenzio Celso, che fu poi pretore sotto Trajano, console sotto Adriano, e celebre giurisconsulto di que' tempi. Fu egli accusato di aver cospirato contra di Domiziano. Prima che si venisse nel senato alle prove, fece istanza di parlare all'imperadore, perchè avea cose rilevanti da dirgli. Ottenuta la permissione, questo accorto uomo se gli gittò ginocchioni davanti come per adorarlo; gli diede cento volte il titolo di Signore e di Dio; protestò di essere innocente; ma che se gli volea dare un po' di tempo, saprebbe ben pescare, ed indicargli chiunque avea mal animo contra di lui. Fu licenziato, ed egli dipoi andò tanto tirando innanzi [364] con vari sutterfugi senza rivelar alcuno, che arrivò la morte di Domiziano, per cui sicuro poi se ne visse. Abbiamo dal medesimo Dione, che in questi tempi Domiziano fece lastricar la via che va da Sinuessa a Pozzuolo. Anche Stazio [Statius, Sylvar., lib. 4, cap. 3.] parla d'una simil via acconciata; ma questa forse andava da Roma a Baja.
Anno di | Cristo XCVI. Indizione IX. |
Evaristo papa 1. | |
Nerva imperadore 1. |
Consoli
Cato Antistio Vetere e Caio Manlio Valente.
Erasi ben ridotta Roma ad un compassionevole stato sotto il crudele e tirannico governo di Domiziano. Non si sarebbe trovata persona nobile e benestante, che continuamente non tremasse al vedere tanti senatori, cavalieri ed altre persone, o private di vita o spinte in esilio o spogliate di beni [Plinius, in Panegyrico, et lib. 7, Epist. 14.]. Si univa bensì il senato, ma solamente per fulminar quelle sentenze che voleva il tiranno, o per autorizzar le maggiori iniquità. Ad ognuno mancava la voce per dire il suo sentimento; parlava quel solo che portava gli ordini dell'imperadore, e gli altri colla testa bassa, col cuor pieno di affanno, approvavano tacendo ciò che non osavano disapprovare parlando [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 2.]. Esente non era da un pari timore il resto del popolo, perchè dappertutto si trovavano spioni, che raccoglievano, amplificavano, e bene spesso fingevano parole dette in discredito del principe; e bastava essere accusato, per essere condannato. Ma se Domiziano facea tremar tutto il mondo, anche tutto il mondo facea tremar Domiziano, chè questa è una pensione inevitabile dei tiranni, i quali col nuocere a tanti, e massimamente ai migliori e agli innocenti, sanno di essere in odio a tutti, [365] e che da tutti, almeno coi desiderii, se non con altro, è affrettata la morte loro. Però la diffidenza, gastigo che rode il cuore di ogni principe crudele ed ingiusto, crebbe sì fattamente in Domiziano, che cominciò a non fidarsi neppur di Domizia Augusta sua moglie, nè di alcuno de' suoi liberti, cioè de' suoi più intimi cortigiani [Sueton., in Domitiano, cap. 15.]. Ad accrescere i suoi terrori si aggiunsero le predizioni a lui fatte in sua giuventù dai Caldei, cioè dagli strologi, che dovea perir di morte violenta. Anche Vespasiano suo padre, che non poco badava alla strologia, vedendolo ad una cena astenersi dal mangiar funghi, gli diede pubblicamente la burla, dicendo, che avea piuttosto da guardarsi dal ferro. Ma specialmente in quest'anno, che verisimilmente gli era stato predetto come l'ultimo di sua vita, non sapea dove stare: tanta era la sua inquietudine e paura, tanti i suoi sospetti contra ancora dei suoi più cari e familiari. A tutti perciò parlava brusco, tutti mirava con aria minaccevole. Avvenne inoltre, che per otto continui mesi caddero di molti fulmini, uno sopra il Campidoglio rifabbricato da lui, un altro nel palazzo imperiale, e nella stessa sua camera, un altro sopra il tempio della famiglia Flavia, e un altro guastò l'iscrizione posta ad una statua trionfale di lui, rovesciandola in un monumento vicino. Il popolo superstizioso di Roma, e più degli altri Domiziano, facea mente a tutti questi naturali avvenimenti e ad altri ch'io tralascio, credendoli segni d'imminente disavventura. Nulla nondimeno atterrì cotanto questo indegno imperadore [Dio, lib. 67.], quanto un certo strologo appellato Ascletarone, che avea predetta la di lui morte. Preso costui e condotto alla presenza di Domiziano, confessò di averlo detto. Sai tu, disse allora Domiziano, che cosa abbia da intervenire a te in questo giorno? — Signor sì, rispose lo strologo, [366] il mio corpo ha da essere mangiato dai cani. Ordinò tosto Domiziano che costui fosse giustiziato, ed immantinente bruciato il corpo suo. Ma appena mezzo abbrustolito, si svegliò una dirotta pioggia, che estinse il fuoco, e costrinse la gente a ritirarsi, sicchè poterono i cani accorrerne, e far buon convito di quel arrosto. Portatane poi la nuova a Domiziano, oh allora sì che smaniò per la paura [Sueton., in Domitiano, cap. 16.]. Più fortunato fu un certo Largino Proclo, aruspice, che in Germania avea predetto dover seguire nel dì 18 di settembre gran mutazione di cose; anzi chiaramente, secondo Dione [Dio, lib. 67.], avea accennata la morte di Domiziano. Mandato perciò a Roma in catene negli ultimi tempi di esso imperadore, fu condannato a perdere la testa dopo il suddetto giorno, supponendosi che falsa avesse da riuscire la di lui predizione. Ma verificatasi questa, egli restò salvo, e fu anche ben regalato da Nerva.
Vanissima arte è la strologia; ma Dio, pei suoi occulti giudizii, può permettere che i suoi professori, per lo più fallacissimi, talvolta arrivino a colpire nel segno. Ma intanto è da osservare, che quest'arte ingannatrice, piuttosto che predire la morte di Domiziano, fu essa la cagione della morte medesima, di maniera che fors'egli sarebbe sopravvivuto molto, se non le avesse prestato fede. Imperciocchè, siccome abbiamo detto, essendosi conficcata nel di lui animo la credenza di dover esser ammazzato un dì, servì essa a lui di stimolo per commettere buona parte delle sue crudeltà, e a divenire odioso a tutti, con togliere dal mondo i migliori, e chiunque egli riputava più capace e voglioso di nuocergli. Il rendè essa inoltre sì diffidente e sospettoso, che temeva fin della moglie e de' suoi più intimi famigliari; ed arrivò, per quanto fu creduto, sino alla risoluzione di volerli privar tutti di vita. Ora, tanto Domizia sua moglie, [367] quanto i suoi più confidenti liberti, Norbano, e Petronio Secondo, allora prefetti del pretorio, dappoichè ebbero veduto, come per sì lievi motivi egli avea ucciso Clemente suo cugino, e personaggio di tanta probità, e faceva troppo conoscere di non più fidarsi di alcun di loro: assai intesero ch'erano anch'essi in pericolo, e che, per salvar la propria vita, altra maniera non restava che di levarla a Domiziano. Sicchè prendendo bene il filo, la soverchia credenza che professò questo screditato Augusto alle ciarle degli strologi, trasse lui ad esser crudele, e a non fidarsi di alcuno: e questa sua crudeltà e diffidenza costò a lui la vita per mano de' suoi più cari. Scrive dunque Dione di aver inteso da buona parte [Dio, lib. 67.], che Domiziano avesse veramente presa la determinazione di uccider la moglie e gli altri più familiari suoi liberti, e i capitani delle guardie stesse. Subodorata questa sua intenzione, si accinsero essi a prevenirlo, ma non prima di aver pensato a chi potesse succedergli nell'imperio. Segretamente ne fecero parola a varie nobili persone, che tutte, dubitando di qualche trappola, non vollero accettar quella esibizione. Finalmente si abbatterono in Marco Coccio Nerva, personaggio degno dell'imperio, che abbracciò l'offerta. Un accidente fece affrettare la di lui morte, se pur è vero ciò che racconta Dione: perchè Svetonio, più vicino a questi tempi, non ne parla, e lo stesso vedremo raccontato di Commodo Augusto, anch'esso ucciso. Soleva Domiziano per suo solazzo tenere in camera un fanciullo spiritoso di pochi anni. Questi, mentre il padrone dormiva, gli tolse di sotto al capezzale una carta, con cui andava poi facendo dei giuochi. Sopravvenuta Domizia Augusta, gliela tolse, e con orrore trovò quella essere una lista di persone che il marito volea levare dal mondo, e di esservi scritta ella stessa, i due prefetti del pretorio, Partenio mastro di camera, ed [368] altri della corte. Ad ognun di essi comunicato l'affare, fu determinato di non perder tempo ad eseguire il disegno.
Venne il dì 18 di settembre, in cui, secondo gli astrologi, temeva Domiziano di essere ucciso. L'ora quinta della mattina, quella specialmente, era di cui paventava. Però, dopo aver atteso nel tribunale alla spedizione di alcuni processi, nel ritirarsi alle sue stanze dimandò che ora era. Da taluno de' congiurati maliziosamente gli fu detto, che era la sesta: perlochè tutto lieto, come se avesse passato il pericolo, si ritirò nella sua camera per riposare. Partenio, mastro di camera, entrò da lì a poco per dirgli, che Stefano liberto e mastro di casa dell'ucciso Flavio Clemente, desiderava di parlargli per affare di somma importanza. Costui siccome uomo forte di corpo, e che odiava sopra gli altri Domiziano per la morte data al suo padrone, era scelto dai congiurati per fare il colpo. Ne' giorni addietro aveva egli finto di aver male al braccio sinistro, e lo portava con fascia pendente dal collo. Entrato egli in tal positura, presentò a Domiziano una carta, contenente l'ordine di una congiura che si fingeva tramata contra di lui, col nome di tutti i congiurati. Mentre era l'imperadore attentissimo a leggerla, Stefano gli diede di un coltello nella pancia. Gridò Domiziano aiuto: un suo paggio corse al capezzale del letto, per prendere il pugnale, oppure la spada, nè vi trovò che il fodero, e tutti gli uscii erano chiusi [Dio, lib. 67. Sueton., in Domitiano, c. 17.]. Ma perchè la ferita non era mortale, Domiziano s'avventò a Stefano, si ferì le dita nel volergli prendere il coltello, ed abbrancolatisi insieme caddero a terra. Partenio, temendo che Domiziano la scappasse, aperta la porta, mandò dentro Clodiano Corniculario, Massimo suo liberto, e Saturio capo de' camerieri, ed altri che con sette ferite il finirono. Ma entrati altri, che nulla sapeano della congiura, e trovato Stefano in terra, l'uccisero. In [369] questa maniera, cioè col fine ordinario dei tiranni terminò sua vita Domiziano, in età di anni quarantacinque. Del suo corpo niuno si prese cura, fuorchè Filide sua nutrice, che segretamente in una bara plebea lo fece portare ad una sua casa di campagna, e dopo averlo fatto bruciare, secondo l'uso d'allora, seppe farne mettere le ceneri, senza che alcuno se ne avvedesse, nel tempio della casa Flavia, mischiandole con quelle di Giulia Sabina Augusta, figliuola di Tito imperadore suo fratello [Sueton., in Domitiano, cap. 22.]. Fu questa Giulia maritata da esso Tito a Flavio Sabino suo cugino germano; ma invaghitosene, Domiziano, vivente ancora Tito, l'ebbe alle sue voglie. Divenuto poi imperadore, dopo aver fatto uccidere il di lei marito, pubblicamente la tenne presso di sè, con darle il titolo di Augusta, e farle un tal trattamento che alcuni la credettero sposata da lui [Philostratus, in Apollon. Tyan., lib. 7.]. Ma, perchè gravida del marito egli volle farla abortire, cagion fu di sua morte. Non ho detto fin qui, ma dico ora che Domiziano nella libidine non la cedette ad alcuno de' più viziosi. Nè occorre dire di più.
Quanto al basso popolo di Roma [Sueton., in Domitiano, c. 23.], non mostrò egli nè gioia nè dolore per la morte di sì micidial regnante, perchè sfogavasi di ordinario il di lui furore solamente sopra i grandi, nè toccava i piccoli. I soldati sì ne furono in grande affanno e rabbia, perchè sempre ben trattati, e smoderatamente arricchiti da lui; però voleano tosto correre a farne vendetta: ma i lor capitani ne frenarono que' primi furiosi movimenti, benchè non potessero dipoi impedire quanto soggiugnerò appresso. All'incontro il senato, contra di cui specialmente era infierito Domiziano, ne fece gran festa, il caricò di tutti i titoli più obbrobriosi, ed ordinò che si abbattessero la sue statue, e i suoi archi trionfali [Dio, lib. 67.]; si cancellasse il di lui [370] nome in tutte le iscrizioni, cassando anche generalmente ogni suo decreto. Ancorchè Domiziano non si dilettasse delle lettere e delle arti liberali, a solamente si conti ch'egli gran cura ebbe di rimettere in piedi le biblioteche bruciate di Roma, con raccogliere [Sueton., in Domitiano, cap. 24.] libri da ogni parte, e farne copiare assaissimi da quella di Alessandria: pure fiorirono a' suoi tempi vari insigni filosofi, fra' quali massimamente risplendè Epitteto, i cui utili insegnamenti restano tuttavia, ed Apollonio Tianeo, la cui vita, scritta da Filostrato, è piena di favole. Fiorirono anche in Roma l'eccellente maestro della eloquenza Marco Fabio Quintiliano, e Marco Valerio Marziale, poeta rinomato per l'ingegno, infame per gli suoi troppo licenziosi epigrammi. Erano amendue nativi di Spagna. Vissero parimente in que' tempi Cajo Valerio Flacco, Cajo Silio Italico, de' quali abbiamo tuttavia i poemi, ma di gusto cattivo; e Decimo Giunio Giuvenale, autor delle satire, poco certamente modeste, ma assai ingegnose e degne di stima.
Terminata dunque la tragedia di Domiziano, cominciò Roma, e seco l'imperio romano, liberato da questo mostro, a respirare, e tornarono i buoni giorni per l'assunzione al trono imperiale di Marco Coccejo Nerva. Era nato Nerva, per quanto ne scrive Dione [Dio, lib. 68.], nell'anno 32 dell'era nostra, di nobilissimo casato. L'onestà dei suoi costumi, la sua aria dolce e pacifica, la sua rara saviezza, prudenza ed inclinazione al ben del pubblico, il faceano amare e rispettar da chicchessia. Queste sue belle doti gli ottennero due volte il consolato, cioè nell'anno 71 e nel 90. Mancava a lui solamente un corpo robusto, e una buona sanità, essendo stato debolissimo lo stomaco. Non si accordano gli storici in certe particolarità della sua vita negli ultimi anni di Domiziano. Filostrato [Philostrat., in Vita Apollonii, lib. 7.] [371] vuole che venuto a Roma Apollonio Tianeo, gl'insinuasse di liberar la patria dalla tirannia di Domiziano, ma ch'egli non ebbe tanto coraggio. Aggiugne che Domiziano il mandò in esilio a Taranto; ed Aurelio Vittore [Aurel. Vict., in Epit.] scrive, che Nerva si trovava ne' Sequani, cioè nella Franca Contea, allorchè trucidato fu Domiziano, e che per consentimento delle legioni prese l'imperio. Ben più credibile a noi sembrerà ciò che lasciò scritto Dione, cioè, che Domiziano, giù da noi veduto persecutore di chiunque o per le sue buone qualità, o per relazion degli astrologi, era creduto potergli succedere nell'imperio, meditò ancora di levar Nerva dal mondo, e l'avrebbe fatto, se uno strologo amico di lui non avesse detto a Domiziano, che Nerva attempato e mal sano era per morire fra pochi giorni. Nè Dione parla punto di esilio; anzi suppone ch'egli si trovasse in Roma nel tempo dell'uccision di Domiziano, e che passasse di concerto coi congiurati, consentendo che si togliesse la vita a lui, giacchè senza di questo egli più non istimava sicura la propria. Estinto dunque il tiranno, fu alzato al trono cesareo Marco Coccejo Nerva, che certo non era lungi da Roma, per opera [Eutrop., in Brev. Dio, lib. 68.] specialmente di Petronio Secondo prefetto del pretorio, e di Partenio principal autore della morte di Domiziano, con approvazione di tutto il senato e plauso del popolo. Ma eccoti alzarsi un rumore e una voce, che Domiziano era vivo, e fra poco comparirebbe [Aurel. Vict., in Epit.]. Nerva di natural timido allora mutò colore, perdè la favella, nè più sapea in qual mondo si fosse. Ma Partenio, che coi suoi occhi avea veduto le ferite e gli ultimi respiri dell'estinto Domiziano, lo incoraggiò, e rimise in sella. Andò pertanto Nerva a parlare ai soldati per quietarli, e promise loro il donativo solito [372] nell'assunzion de' nuovi imperadori. Di là poscia passò al senato, dove ricevette gli abbracciamenti gioviali, e i complimenti cordiali di cadauno de' senatori. Non vi fu se non Arrio Antonino, avolo materno di Tito Antonino poscia imperadore, suo sviscerato amico, il quale abbracciatolo gli disse, che ben si rallegrava col senato e popolo romano, e colle provincie per sì degna elezione, ma non già con lui; perchè meglio per lui sarebbe stato il vivere paziente sotto principi cattivi, che assumere un peso sì grave, ed esporsi a tanti pericoli ed inquietudini, col mettersi fra i nemici, che mai non mancano, e fra amici, i quali credendo di meritar tutto, se non ottengono quel che vogliono, diventano più implacabili degli stessi nemici. Contuttociò Nerva fattosi coraggio, prese le ridini del governo, e si accinse a sostener con decoro la sua dignità, siccome ancora a restituire al senato il primier suo decoro, e la quiete e l'allegria ai popoli. Vivente ancora Domiziano, e non per anche cessata la persecuzione da lui mossa a' Cristiani, sant'Anacleto papa coronò la sua vita col martirio o nel precedente, o piuttosto nel presente anno; ed ebbe per successore nel pontificato romano Evaristo.
Anno di | Cristo XCVII. Indiz. X. |
Evaristo papa 2. | |
Nerva imperadore 2. |
Consoli
Marco Coccejo Nerva Augusto per la terza volta, e Lucio Virginio Rufo per la terza.
Vari altri consoli l'un dietro l'altro si credono dall'Almeloven sostituiti in quest'anno, fra gli altri certo è che Cornelio Tacito istorico, siccome osservò anche Giusto Lipsio, succedette a Virginio, o sia Verginio Rufo. Tal notizia abbiamo da Plinio il giovane [Plinius, lib. 2, ep. 1.]. Era Virginio Rufo quel medesimo che nell'anno [373] 68 ricusò più di una volta l'imperio, datogli in Germania dai soldati. Gloriosamente avea egli menata fin qui la sua vita, senza incorrere in alcuna disgrazia, rispettandolo ognuno, e fin quella bestia di Domiziano, e serbando quell'animo grande, ch'era stato superiore agl'imperi. Nerva anch'egli volle far conoscere a lui ed al pubblico, quanta stima ne facesse con crearlo suo collega nel consolato. Abbiam di certo da Plinio suddetto, che questo fu il Terzo consolato di esso Virginio: al che non fece riflessione il padre Stampa [Stampa sul Fastos Consul. Sig.], quantunque il cardinal Noris [Noris, Epistol. Consul.] ed altri lo avessero avvertito, e si raccolga eziandio da Frontino e dai Fasti d'Idacio. Fu egli sotto Nerone nell'anno 63 per la prima volta console ordinario. Credesi che nell'anno 69 gli toccasse il secondo consolato, ma straordinario, sotto Ottone Augusto. Intorno al prenome di Rufo s'è disputato. Chi Tito, chi Pubblio l'ha voluto. È più probabile Lucio. Ora per la terza volta creato console nell'anno presente, siccome c'insegna Plinio il giovane, mentre sul principio dell'anno si preparava a recitare in senato il rendimento di grazie a Nerva per la dignità a lui conferita, essendo in età di ottantatrè anni, colle mani tremanti, e stando in piedi, gli cadde il libro di mano; e nel volerlo raccogliere gli sdrucciolò il piede pel pavimento liscio e lubrico, in maniera che si ruppe una coscia. Non essendosi questa ben ricomposta o riunita, dopo qualche tempo se ne morì, e gli furono fatti solenni funerali, mentre era console Cornelio Tacito, eloquentissimo oratore e storico, il qual fece l'orazione funebre in sua lode. Scrive il medesimo Plinio, che questo Virginio Rufo era nato in una città confinante alla sua patria Como.
Dacchè l'Augusto Nerva si vide sufficientemente assodato sul trono, fece tosto sentire il suo benefico genio a Roma [374] e a tutto il romano imperio [Dio, lib. 68.]. Richiamò dall'esilio una copia grande di nobili, che aveano patito naufragio sotto il precedente tirannico governo, ed abolì tutti i processi di lesa maestà. E perciocchè questi erano proceduti da mere calunnie, perseguitò i calunniatori, e fece morir quanti servi e liberti si trovarono aver intentate accuse contra dei loro padroni, proibendo con rigoroso editto a tal sorta di persone l'accusare da lì innanzi i padroni. Vietò parimente l'accusar chicchessia d'empietà, e di seguitare i riti giudaici: il che vuol dire ch'egli estinse la persecuzione mossa de' Cristiani, che dai Pagani venivano tuttavia confusi coi Giudei. Perciocchè per conto de' Giudei era loro permesso l'osservar la lor legge. Quanti preziosi mobili si trovarono nell'imperial palazzo, ingiustamente tolti da Domiziano, furono da lui con tutta prontezza restituiti. Non volle permettere che si facessero statue d'oro e d'argento (se pur non erano dorate o inargentate) in onor suo, abuso dianzi assai gradito da Domiziano. A que' cittadini romani che si trovavano in gran povertà, assegnò terreni, ch'egli fece comperare, di valore di un milione e mezzo di dramme, con deputare alcuni senatori che ne facessero la divisione. Perchè trovò smunto affatto l'erario, vendè, a riserva delle cose necessarie, tutti i vasi d'oro o d'argento ed altri mobili, tanto suoi particolari, che della corte, e parecchi poderi e case, con usar anche liberalità ai compratori. E ciò non per covare in cassa il danaro, ma per dispensarlo al popolo romano, apparendo dalle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.] che egli distribuì due volte nel breve corso del suo governo danari e grano. Giurò che d'ordine suo non si farebbe mai morire alcuno de' senatori; e quantunque un di essi fosse convinto di aver congiurato contra di lui, pure altro mal non gli fece che di cacciarlo in esilio. Fu da lui confermata [375] la legge che non si potessero far eunuchi; e proibito il prendere in moglie le nipoti. Attese ancora al risparmio, dopo aver conosciuto il gran male provenuto dallo scialacquamento esorbitante di Domiziano. Levò dunque via molti sagrifizii, molti giuochi ed altri non pochi spettacoli, che costavano somme immense [Aurel. Vict., in Epit.]. Soppresse tutto ciò ch'era stato aggiunto agli antichi tributi a titolo di pena contro quei ch'erano morosi al pagamento; siccome ancora le vessazioni ed angarie introdotte contro ai Giudei, nell'esigere le lor imposte. Le città oppresse da troppe gravezze ebbero sollievo da lui; ed ordinò che per tutte le città d'Italia si alimentassero alle spese del pubblico gli orfani dell'uno e dell'altro sesso, nati da poveri genitori, ma liberti: carità continuata anche dai susseguenti buoni imperadori, anzi accresciuta, come apparisce dalle antiche iscrizioni. Ristrinse ancora l'imposta della vigesima per le eredità e per gli legati, introdotta da Augusto. Fra le lettere di Plinio il giovane [Plinius, lib. 10, Epist. 66.] si trova un editto di questo imperadore, che assai esprime quanta fosse la di lui bontà, con dir egli che ciascuno de' suoi concittadini poteva assicurarsi, aver egli preferita la sicurezza di tutti alla propria quiete, e non aver altro in animo che di far di buon cuore de' nuovi benefizii, e di conservare i già fatti da altri. E però per levar dal cuore d'ognuno la paura di perdere quel che aveano conseguito sotto altri Augusti, o doverne cercar la conferma con delle preghiere d'oro, dichiarava che senza bisogno di nuovi ricorsi, chiunque godeva avesse da godere; perchè egli volea solamente attendere a dispensar grazie e benefizii nuovi a chi non avea finora goduto.
E pure con un principe sì buono, il cui dolce e salutevol governo tanto più dovea prezzarsi, quanto più si paragonava [376] col barbarico precedente, non mancarono nobili romani che tramarono una congiura [Dio, lib. 68. Aurelius Victor, in Epitome.]. Capo di essi fu Calpurnio senatore dell'illustre famiglia de' Crassi: degli altri non si sa il nome. Con esorbitanti promesse di danaro sollecitava egli alla rivolta i soldati. Scoperta la mina, Nerva il fece sedere presso di sè assistendo ai giuochi de' gladiatori, e nella stessa guisa che vedemmo operato da Tito, allorchè gli furono presentate le spade di quei combattenti, le diede in mano a Crasso, acciocchè osservasse, se erano ben affilate, mostrando in ciò di non paventar la morte. Fu processato e convinto Crasso: tuttavia Nerva per mantener la sua parola di non uccidere senatori, altro gastigo non gli diede che di relegar lui e la moglie a Taranto. Fu biasimata dal senato sì grande indulgenza in caso di tanta importanza, e in altri ancora, perchè egli non sapea far male ai grandi, benchè sel meritassero [Plinius, lib. 4, Ep. 22. Aur. Vict., in Epit.]. Trovavasi un dì alla sua tavola Vejento o sia Vejentone, già console, uomo scellerato, che sotto Domiziano era stato la rovina di molti. Cadde il ragionamento sopra Catullo Messalino, che nell'antecedente governo tutti avea assassinati colle sue accuse e colla sua crudeltà, ed era già morto. Se costui, disse allora Nerva, fosse tuttavia vivo, che sarebbe di lui? Giunio Maurico, uomo di gran petto, di egual sincerità, e uno dei commensali immantinente rispose: Con esso noi sarebbe a questa tavola. Ma quello che maggiormente sconcertò Nerva, fu l'attentato d'Eliano Casperio, creato non so se da lui, o pur da Domiziano, prefetto del pretorio, cioè capitan delle guardie. O sia che costui movesse i soldati, o che fosse incitato da loro, certo è, che un dì formata una sollevazione andarono tutti al palazzo [Plinius, in Panegyr.], chiedendo con alte grida il capo di coloro che aveano ucciso Domiziano. A tal dimanda si trovò in una [377] somma costernazione Nerva; contuttociò parendogli che non fosse mai da comportare il dar loro in mano chi avea liberata la patria da un tiranno, ed era stato cagione del proprio suo innalzamento, coraggiosamente negò loro tal soddisfazione, dicendo che se si voleano sfogare, piuttosto colla sua testa cadesse il loro sdegno. Ma costoro senza fermarsi per questo, e con disprezzo all'autorità imperiale, corsero a prendere Petronio Secondo, già prefetto del pretorio, e lo svenarono. Altrettanto fecero a Partenio già maestro di camera di Domiziano, trattandolo anche più ignominiosamente dell'altro. E Casperio, divenuto più insolente, obbligò Nerva di lodar quest'azione al popolo raunato, e di protestarsi obbligato ai soldati, perchè avessero tolta la vita ai maggiori ribaldi che si avesse la terra.
Una sì atroce insolenza de' pretoriani servì a far meglio conoscere a Nerva, ch'egli, stante la sua vecchiaia e poca sanità, non potea sperare l'ubbidienza ed il rispetto dovuto al suo grado, e piuttosto dovea temerne degli altri oltraggi. Il perchè da uomo saggio pensò di fortificar la sua autorità, con associare all'imperio una persona che fosse non men forte d'animo, che vigorosa di corpo. E siccome egli non avea la mira se non al pubblico bene, desiderava di scegliere il migliore di tutti [Aurelius Victor, in Epitome.], così dopo maturo esame, e consigliato anche da Lucio Licino Sura, senza punto badare ai molti parenti, che avea (giacchè non si sa ch'egli avesse mai moglie) fermò i suoi pensieri sopra Marco Ulpio Trajano, generale allora dell'armi romane nella Germania. Era questi di nazione spagnuolo, perchè nato in Italica città della Spagna, come si raccoglie da Dione [Dio, lib 68.] e da Eutropio [Eutr., in Brev.], benchè Aurelio Vittore [Aurel. Vict., in Epitome.] il dica venuto alla luce in Todi; nè alcuno finora avea ottenuto l'imperio, [378] che non fosse nato in Roma o nel vicinato: contuttociò Nerva fu di sentimento, che per iscegliere chi dovea governare un sì vasto imperio, si avea da considerare più che la nazione, l'abilità e la virtù. Pertanto in occasion di una vittoria riportata nella Pannonia, fatto raunare il popolo nel Campidoglio nel dì 18 settembre, come alcuni vogliono [Panvin., Petav., Pagius, Dodwellus, Fabrett., Tillem.], o piuttosto nel dì 27 o 28 di ottobre, come pretendono altri, ad alta voce dichiarò ch'egli adottava per suo figliuolo Marco Ulpio Nerva Trajano, a cui il senato diede nel giorno stesso il titolo di Cesare e di Germanico, e scrisse di suo proprio pugno, avvisandolo di tale elezione [Plinius, in Panegyrico.]. Fors'anche, secondo alcuni, non era pervenuta questa nuova a Trajano, soggiornante allora in Colonia, che Nerva il proclamò Imperadore [Euseb., in Chron.], conferendogli la tribunizia podestà, ma non già il titolo d'Augusto; cioè il creò suo collega nell'imperio. Può essere che ciò avvenisse alquanto più tardi. Almen certo è che il disegnò console per l'anno seguente. Il merito assai conosciuto di Trajano, che era stato console nell'anno 94, ed avea avuto il padre, stato anch'esso console (non si sa in qual anno) fece che ognuno ricevesse con plauso una sì bella elezione, e cessasse ogni sollevazione e tumulto in Roma. Si trovava allora Trajano nel maggior vigore della virilità, perchè in età di circa quarantaquattro anni.
Anno di | Cristo XCVIII. Indiz. XI. |
Evaristo papa 3. | |
Trajano imperadore 1. |
Consoli
Marco Coccejo Nerva Augusto per la quarta volta, e Marco Ulpio Trajano per la seconda.
Credesi che a questi consoli ne fossero sostituiti degli altri nelle calende di luglio, ma quali noi possiamo sapere di [379] certo. Poco sopravvisse il buon imperadore Nerva, nè già sussiste, come taluno ha pensato, ch'egli deponesse l'imperio. Riscaldossi egli un giorno forte in gridando contra di un certo Regolo [Aurel. Vict., in Epit. Tillem., Mém. Hist. Pagius, Crit. Bar.], che doveva aver commessa qualche iniquità, di modo che, quantunque fosse di verno, sudò; e questo raffreddatosegli addosso, gli cagionò una tal febbre, che fu bastante a levarlo di vita. Aurelio Vittore gli dà sessantatre anni d'età [Aurel. Victor, in Epitome.], Dione sessantacinque [Dio, lib 68.] Eutropio settantuno [Eutrop., in Breviar.], ed Eusebio settantadue [Eusebius, in Chron.]. Comunque sia, lasciò egli anche dopo sì corto governo un glorioso nome a cagion delle sue lodevoli azioni di bontà e saviezza; azioni tali, ch'egli ebbe a dire di non sapere d'aver operata cosa, per cui, quando anch'egli avesse deposto l'imperio, non avesse da vivere quieto e sicuro nella vita privata. Ma nulla certo gli acquistò più credito e gloria, che l'aver voluto per successore nell'imperio un Trajano, che poi divenne il modello de' principi ottimi. Con funerale magnifico fu portato il suo corpo, o vogliam dire le ceneri ed ossa sue, dal senato, nel mausoleo d'Augusto. Intorno al giorno di sua morte disputano gli eruditi. Inclinano i più a credere che questa avvenisse nel gennaio dell'anno presente, e nel dì 27; Aurelio Vittore scrive che quel giorno, in cui egli mancò di vita, fu un ecclissi del sole. Secondo i conti del Calvisio si eclissò il sole nel dì 21 di marzo di quest'anno; ma non s'accorda ciò con chi [Dio, lib. 68. Eutropius, in Brev.] gli dà sedici mesi e nove o dieci giorni d'imperio. Sappiamo bensì da Eusebio [Eusebius, in Chron.], dalle medaglie [Mediobarb., in Numism. imperator.], e dalle iscrizioni [Gruter., Thesaur. Insc.], che Nerva per decreto del senato fu alzato all'onore degli [380] dii, e che Trajano non mai stanco di mostrar la sua gratitudine a questo buon principe e padre, che l'avea alzato al trono, alzò anch'egli a lui dei templi, secondo la cieca superstizione e temerità del gentilesimo. Allorchè terminò Nerva i suoi giorni, Publio Elio Adriano, che fu poi imperadore, giovane allora ed amicissimo, anzi parente di Trajano, lasciato già da suo padre sotto la tutela di lui [Spartianus, in Hadriano.], si trovava nella Germania superiore. Arrivata colà la nuova della morte di Nerva, Adriano volle essere il primo a portarla a Trajano, dimorante allora in Colonia; e tuttochè Serviano di lui cognato cercasse d'impedirglielo, con fare segretamente rompere il di lui calesse, per aver egli l'onore di far penetrar con sua lettera il lieto avviso a Trajano: nondimeno Adriano camminando a piedi, prevenne il messagger di Serviano. Ricevute poi che ebbe Trajano [Dio, lib. 67.] le lettere del senato, gli rispose di suo pugno, co' dovuti ringraziamenti, fra l'altre cose promettendo, che nulla mai farebbe contro la vita e l'onore delle persone dabbene; il che poscia confermò con suo giuramento. Mentr'egli tuttavia si trovava in quelle parti, o certo prima di tornarsene a Roma, chiamò a sè Eliano Casperio prefetto del pretorio e i soldati da lui dipendenti, facendo vista di volersi valere di lui in servigio della repubblica. Nerva in ragguagliarlo della elezione sua, l'avea particolarmente incaricato di far le sue vendette contra d'esso Casperio, e di quelle milizie che ammutinate gli aveano fatto, siccome dicemmo, un sì grave affronto. Trajano l'ubbidì. Tolta fu a Casperio la vita e a quanti pretoriani si trovò che avevano avuta parte in quella sedizione. Comandava allora ad una possente armata Trajano, nè v'è apparenza ch'egli nell'anno presente venisse a Roma, ma bensì che egli si trattenesse in quelle ed anche in altre parti per dare un buon sesto [381] ai confini dell'imperio e alla quiete delle provincie [Plinius, in Panegyr.]. Sparsasi nelle nazioni germaniche la fama che Trajano era divenuto imperadore ed Augusto, tale già correa la rinomanza e la stima del di lui valore e senno anche fra quelle barbare genti, che ognun fece a gara per ispedirgli dei deputati e chiedergli supplichevolmente la continuazion della pace. Erano soliti i Tedeschi nel verno, allorchè il Danubio gelato si potea passare a piedi, di venir ai danni dei Romani. Nel verno di quest'anno non si lasciarono punto vedere. Trovavasi in quelle contrade Trajano, e tuttochè le sue legioni facessero istanza di valicar quel fiume, per dare addosso ai Tedeschi, tuttavia egli nol permise. Una delle sue principali applicazioni era stata, e maggiormente fu in questi tempi, di ristabilire l'antica disciplina, l'amor della fatica, e l'ubbidienza nella milizia romana; ed egli stesso, con trattar civilmente tutti gli uffiziali e soldati, si conciliò più che prima l'amore e il rispetto d'ognuno.
Anno di | Cristo XCIX. Indizione XII. |
Evaristo papa 4. | |
Trajano imperadore 2. |
Consoli
Aulo Cornelio Palma e Cajo Sosio Senecione.
Erano questi consoli due de' migliori nobili che si avesse allora il senato romano, e particolarmente godevano della stima ed amicizia di Trajano. Aveano costumato alcuni de' precedenti Augusti di prender essi il consolato nelle prime calende di gennaio, susseguenti alla loro assunzione, cessando perciò i consoli disegnati [Plinius, in Panegyr.]. Trajano, tra perchè non si pasceva di fumo, e perchè gli affari non gli permettevano di trovarsi all'apertura dell'anno nuovo in Roma, ricusò [382] nell'anno precedente l'onore del consolato offertogli dal senato, secondo lo stile, e volle che entrassero i due consoli sopraddetti. Verisimilmente venuta che fu la primavera, fu il tempo in cui egli dalla Germania s'inviò a Roma. Ben diverso fu il suo passaggio da quel di Domiziano. Quello era un saccheggio delle città, dovunque passava egli colle sue truppe. Trajano, benchè scortato da più legioni, con tal disciplina, con sì bel regolamento faceva marciare e riposar la sua gente, che diventò lieve ai popoli quel militare aggravio. Abbiamo ancora da Plinio l'entrata di Trajano in Roma. Fu ben lieto quel giorno al veder venire un buon principe, non già orgoglioso sopra un carro trionfale, o portato dagli uomini, come costumò alcuno de' suoi antecessori, ma a piedi e in abito modesto; che non accoglieva con fronte alta e superba, chi gli si presentava, per rallegrarsi con lui e per ossequiarlo; ma bensì gli abbracciava e baciava tutti, come suoi cari concittadini e fratelli. Andò al Campidoglio, e poscia al palazzo. Seco era Pompea Plotina sua moglie, donna d'alto affare, ed emula delle virtù del marito [Dio, lib. 68.]. Allorchè ella fu sulle scalinate del palazzo imperiale, rivolta al popolo disse: Quale io entro or qua, tale desidero anche d'uscirne, cioè ben voluta e senza rimprovero di alcuna iniquità. In fatti con tal modestia e saviezza visse ella sempre dipoi, che si meritò gli encomi di tutti, e massimamente perchè cooperava anch'essa a promuovere il ben pubblico e la gloria del marito [Aurel. Vict., in Epit.]. Raccontasi, che informata delle avanie e vessazioni che si praticavano per le provincie del romano imperio dagli esattori de' tributi e delle gabelle, sanguisughe ordinarie de' popoli, ne fece una calda doglianza al marito, come egli fosse sì trascurato in affare di tanta premura, permettendo iniquità che facevano troppo torto alla di lui [383] riputazione. Seriamente vi si applicò da lì innanzi Trajano, e rimediò ai disordini, riconoscendo essere il fisco simile alla milza, la quale crescendo fa dimagrar tutte le altre membra. A Plotina fu probabilmente conferito, dopo il suo arrivo a Roma il titolo di Augusta, siccome a Trajano quello di Padre della Patria, che si trova enunziato nelle monete di quest'anno, come pur anche quello di Pontefice Massimo. Avea Trajano una sorella, appellata Marciana, con cui mirabilmente andò sempre d'accordo la saggia imperatrice Plotina. La città di Marcianopoli, capitale della Mesia, per attestato di Ammiano [Ammianus, lib. 27.] e di Giordano [Jordan, de Reb. Geticis.], prese il nome da lei. Ebbe anche Marciana il titolo d'Augusta, che si trova in varie iscrizioni e monete. Da lei nacque una Matidia, madre di Giulia Sabina, che fu moglie di Adriano Augusto, e per quanto si crede, di un'altra Matidia.
Le prime applicazioni di Trajano, dacchè fu egli giunto a Roma, furono a cattivarsi l'amore del pubblico colla liberalità [In Panegyr.]. Aveva egli già pagato alle milizie la metà del regalo che loro solea darsi dai novelli imperadori. Ai poveri cittadini romani diede egli l'intero congiario, volendo che ne partecipassero anche gli assenti e i fanciulli: spesa grande, ma senza arricchire gli uni colle sostanze indebitamente rapite ad altri, come in addietro si facea da' principi simili alle tigri, le quali nudriscono i lor figliuoli colla strage d'altri animali. Da gran tempo si costumava in Roma, che la repubblica distribuiva gratis di tanto in tanto una prodigiosa quantità di grano e di altri viveri al basso popolo dei cittadini liberi, perchè anch'esso riteneva qualche parte nel dominio e governo. Ma i fanciulli che aveano meno di undici anni, non godevano di tal distribuzione. Trajano volle ancor questi partecipi [384] della pubblica liberalità. E perciocchè, siccome dicemmo, Nerva avea ordinato, che anche per le città dell'Italia a spese dei pubblici erari si alimentassero i figliuoli orfani della povera gente libera: diede alle città danari e rendite, affinchè fosse conservato ed accresciuto questo buon uso. Rallegrò parimente il popolo romano con alcuni giuochi e spettacoli pubblici, conoscendo troppo il genio di quella gente a sì fatti divertimenti. Per altro non se ne dilettava egli; anzi cacciò di nuovo da Roma i pantomimi, come indegni della gravità romana. Cura particolare ebbe dell'annona, con levar via tutti gli abusi e monopolii, con formare e privilegiare il collegio de' fornai: di modo che non solo in Roma, ma per tutta l'Italia si vide fiorire l'abbondanza del grano, talmente che l'Egitto, solito ad essere il granaio dell'Italia, trovandosi carestioso in quest'anno, per avere il Nilo inondato poco paese, potè ricevere soccorso di biade dall'Italia stessa. Ma ciò che maggiormente si meritò plauso da ognuno, fu l'aver anch'egli più rigorosamente di quel che avessero fatto Tito e Nerva, ordinato processi e gastighi contra dei calunniosi accusatori, che sotto Domiziano erano stati la rovina di tanti innocenti. Nella stessa guisa ancora abolì l'azione di lesa maestà, ch'era in addietro l'orrore del popolo romano. Ogni menoma parola contra del governo si riputava un enorme delitto. Ma egregiamente intendeva Trajano, essere proprio de' buoni principi l'operar bene, senza poi curarsi delle vane dicerie dei sudditi: laddove i tiranni, male operando, esigerebbono ancora, che i sudditi fossero senza occhi e senza lingua; nè badano che coi gastighi maggiormente accendono la voglia di sparlare di loro e l'odio universale contra di sè stessi. Assistè Trajano nell'anno presente, come persona privata ai comizi, nei quali si dovea far l'elezion de' consoli per l'anno seguente. Fu egli disegnato console ordinario, ma si durò fatica a fargli [385] accettare questa dignità; ed accettata che l'ebbe, con istupore d'ognuno si vide il buon imperadore andarsi ad inginocchiare davanti al console, per prestare il giuramento come solevano i particolari: e il console, senza turbarsi, lasciò farlo. Altri consoli da sostituire agli ordinari, furono anche allora disegnati, siccome dirò nell'anno seguente.
Anno di | Cristo C. Indizione XIII. |
Evaristo papa 5. | |
Trajano imperadore 3. |
Consoli
Marco Ulpio Nerva Trajano per la terza volta, e Marco Cornelio Frontone per la terza.
Gran disputa fra gli eruditi illustratori de' Fasti consolari [Panvinus, Pagius, Tillemont, Stampa.] è stata e dura tuttavia, senza aver mezzo finora da deciderla, quale sia stato il collega ordinario di Trajano nel presente consolato, cioè chi con lui procedesse console nelle calende di gennaio. Parve al cardinal Noris [Noris, Ep. Consul.] più probabile che fosse Sesto Giulio Frontino per la terza volta, scrittore rinomato per li suoi libri, conservati sino ai dì nostri. Poscia inclinò piuttosto a crederlo Marco Cornelio Frontone per la terza volta, come avea tenuto il Panvinio, e tenne dipoi anche il Pagi. L'imbroglio è nato dalla vicinanza dei cognomi di Frontone e Frontino. Certo è che Frontone fu console in quest'anno. E perciocchè sappiamo da Plinio [Plinius, in Panegyr.], essere stati disegnati per quest'anno oltre all'Augusto Trajano due altri, che serebbono consoli per la terza volta, perciò alcuni han creduto anche Frontino console nell'anno presente; ma senza apparire in qual anno preciso, tanto egli quanto Frontone, avessero conseguito gli altri due consolati. Credesi ben comunemente, che nelle calende di settembre [386] fossero sostituiti in quella illustre dignità Cajo Plinio Cecilio Secondo comasco, celebre scrittore di lettere, e del panegirico di Trajano, ch'egli per ordine del senato compose e recitò in questa congiuntura, e Spurio Cornuto Tertullo, personaggio anch'esso di gran merito. Secondo il Panvinio e l'Almeloven, nelle calende di novembre succederono Giulio Feroce ed Acutio Nerva. Ma io [Thesaurus Novus Inscript., pag. 305, n. 5.] ho prodotta un'iscrizione posta nel dì 29 di dicembre dell'anno presente, da cui ricaviamo essere allora stati consoli Lucio Roscio Eliano e Tiberio Claudio Sacerdote. Benchè fosse assai conosciuto in Roma il mirabil talento di Trajano Augusto, pure assunto ch'egli fu al trono, maggiormente comparì qual era, con vedersi inoltre un avvenimento ben raro, cioè ch'egli non mutò punto nella mutazion dello stato i buoni suoi costumi, anzi li migliorò; e che l'altezza del suo grado e della sua autorità servì solamente a far crescere le sue virtù. Fasto e superbia sparivano le azioni di molti suoi predecessori [Plinius, in Panegyr.]. Continuò egli, come prima, la sua affabilità, la sua modestia, la sua cortesia. Ammetteva alla sua udienza chiunque lo desiderava, trattando con tutti civilmente, e massimamente onorando la nobiltà, ed abbracciando e baciando i principali: laddove gli altri Augusti, stando a sedere, appena porgeano la man da baciare. Gli stava fitta in mente questa massima, che un sovrano in vece d'avvilirsi coll'abbassarsi, tanto più si fa rispettare e adorare. Usciva egli con un corteggio modesto e mediocre; nè andavano già innanzi lacchè o palafrenieri per fargli largo colle bastonate, anzi egli talvolta si fermava nelle strade, per lasciar che passasse qualche carro o carrozza altrui. Per un imperadore era assai frugale la sua tavola, ma condita dall'allegria di lui e da quella di varie persone savie e scelte, [387] ch'erano or l'una, or l'altra invitate [Eutropius, in Breviar.]. Distinzione di posto non voleva alla sua mensa, nè sdegnava di andare a desinare in casa degli amici, di portarsi alle lor feste, di visitarli malati, di andar talvolta nelle loro carrozze. In somma, per quanto poteva, si studiava di trattar con tutti, non meno in Roma che per le provincie, con tanta civiltà e moderazione, come se non fosse il sovrano, ma un loro eguale, ricordando a sè stesso, che egli comandava bensì agli uomini, ma ch'era uomo anch'egli. E perchè un dì gli amici suoi il riprendevano, perchè eccedesse nella cortesia verso d'ognuno, rispose quelle memorande parole: Tale desidero d'essere imperadore verso i privati, quale avrei caro che gl'imperadori fossero verso di me se fossi uomo privato. Lo stesso Giuliano Apostata [Julianus, de Caesaribus.], che andò cercando tutte le macchie e i nei dei precedenti Augusti, non potè non confessare, che Trajano superò tutti gli altri imperadori nella bontà e nella dolcezza: il che punto non facea scemare in lui la maestà, e ne' sudditi il rispetto verso di lui. Per questa via, e col mostrar amore a tutti, egli era sommamente amato da tutti, odiato da niuno; e dappertutto si godeva una somma pace e un'invidiabil tranquillità, come si fa nelle ben regolate famiglie.
L'adulazione come in paese suo proprio suol abitar nelle corti; non già in quella di Trajano, che l'abborriva [Plinius, in Panegyrico.]. E però neppur gradiva che se gli alzassero tante statue, come in addietro si era praticato con gli altri Augusti, e di rado permetteva che si gli facesse quest'onore, nè altri che puzzassero di adulazione. Per altro mostrava egli piacere, che il nome suo comparisse nelle fabbriche da lui fatte o risarcite, e nelle iscrizioni de' particolari; laonde apparendo poi esso in tanti luoghi, diede motivo ad alcuni [388] di chiamarlo per ischerzo [Ammianus, lib. 27. Aurelius Victor, in Epitome.] Erba Parietaria, erba che si attacca alle muraglie. Ma conferendo le cariche, neppur voleva esserne ringraziato, quasi ch'egli fosse più obbligato a chi le riceveva, che essi a lui. Le ordinarie sue occupazioni consistevano in dar udienze a chi ricorrea per giustizia, per bisogni, per grazie, con ispedir prontamente gli affari, specialmente quelli che riguardavano il ben pubblico. Sapeva unire la clemenza, la piacevolezza colla severità e costanza nel punire i cattivi, nel rimediare alle ingiustizie de' magistrati, nel pacificar fra loro le città discordi. Sotto di lui in materia criminale non si proferiva sentenza contro di chi era assente; nè per meri sospetti, come si usava in addietro, si condannava alcuno. Un bellissimo suo rescritto vien riferito ne' Digesti [Lege 5. Digestis de Poenis.], cioè: Meglio è in dubbio lasciar impunito un reo, che condannare un innocente. Sotto altri principi il fisco guadagnava sempre le cause. Non già sotto Trajano, che anche contra di sè amava che fosse fatta giustizia. Quanto era egli lontano dal rapire la roba altrui, altrettanto era alieno dal nuocere o inferir la morte ad alcuno. A' suoi tempi un solo de' senatori fu fatto morire, ma per sentenza del senato, e senza notizia di lui, mentre era lungi da Roma: tanto era il rispetto ch'egli professava a quel nobilissimo ordine [Plinius, in Panegyr.]. Ed appunto in quest'anno fu bel vedere, come creato console egli si contenesse nel senato, in esercitando quest'eminente dignità. Nel primo giorno dell'anno volle salito in palco nella pubblica piazza prestare il giuramento di osservar le leggi, solito a prestarsi dagli altri consoli, ma non dagl'imperatori, che se ne dispensavano. Portatosi al senato, ordinò ad ognuno di dire con libertà e sincerità i lor sentimenti, con sicurezza di non dispiacergli. Così diceano [389] anche gli altri Augusti, ma non di cuore, e i fatti poi lo mostravano. Ordinò ancora, che ai voti, i quali non meno in Roma che per le provincie nel dì 3 di gennaio si faceano per la salute dell'imperadore, s'aggiugnesse questa condizione: Purché egli governi a dovere la Repubblica e procuri il bene di tutti. Egli stesso in pregare gli dii per sè medesimo, solea dire: Se pure la meriterò, se continuerò ad essere quale sono stato eletto, e se seguirò a meritar la stima e l'affetto del Senato. Con tal pazienza accudiva egli ai pubblici affari, ascoltava i dibattimenti delle cause, e con tanta attenzione distribuiva le cariche, promovendo sempre chi andava innanzi nel merito, che il senato non potè contenersi dal palesar la sua gioia con delle acclamazioni, che mossero le lagrime al medesimo Trajano, coprendosi intanto il di lui volto di rossore, cioè di un contrassegno vivo della sua modestia. E verisimilmente il senato circa questi tempi conferì a Trajano il glorioso titolo di Ottimo Principe. Plinio nelle sue epistole parla di molte cause agitate in questi tempi nel senato, con aver Trajano ben disaminati i processi, e custodita rigorosamente l'osservanza delle leggi. Il primo gran dono che fa Dio agli uomini, quello è di dar loro un buon naturale, un intendimento chiaro e un'indole portata solamente al bene. Convien ben dire, che ottimo fosse il talento di Trajano, dacchè confessano gli storici, ch'egli poco o nulla avea studiato di lettere, ed era mancante d'eloquenza. Ma il suo ingegno e giudizio, e il pendìo a quel solo che è bene, supplivano questo difetto. E però, benchè non fosse letterato, sommamente amava e favoriva i letterati, e chiunque era eccellente in qualsivoglia professione.
Anno di | Cristo CI. Indizione XIV. |
Evaristo papa 6. | |
Trajano imperadore 4. |
Consoli
Marco Ulpio Nerva Trajano Augusto per la quarta volta, e Sesto Articolajo.
Credesi che l'uno di questi consoli avesse nelle calende di marzo per successore nel consolato Cornelio Scipione Orfito, e che nelle calende di marzo fossero sostituiti Bebio Macro e Marco Valerio Paolino; e poi nelle calende di luglio procedessero colla trabea consolare Rubrio Gallo e Quinto Celio Ispone. Trovasi un'iscrizione, da me [Thesaurus Novus Veter. Inscript., pag. 316, num. 2.] riferita, posta a Marco Epulejo (forse Apulejo) Procolo Cepione Ispone, ch'era stato console. Sarebbe da vedere se si tratti del suddetto Ispone. Per me ne son persuaso, quantunque chiaro non apparisca in qual anno cada il di lui consolato. Han creduto molti storici, che in quest'anno avvenisse la prima guerra di Trajano contra dei Daci. Tali nondimeno son le ragioni addotte dal giudiziosissimo cardinal Noris [Noris, Epistola Consulari.], che pare doversi la medesima riferire all'anno seguente. Nulladimeno il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], scrittore anch'esso accuratissimo, inclinò a giudicarla succeduta in questo anno. Più sicuro a me sembra il differirla al seguente, quantunque si possa credere cominciata la rottura nel presente. Già vedemmo fatta da Domiziano una vergognosa pace con Decebalo re dei Daci, a cui egli s'obbligò di pagare ogni anno certa somma di danaro a titolo di regalo, che in fatti era un tributo. All'animo grande di Trajano parve troppo ignominiosa una sì fatta concordia e condizione, nè egli si sentì voglia di pagare [Dio, lib. 68.]. Per questo rifiuto Decebalo cominciò a formare un possente armamento, e a minacciar le terre [391] dell'imperio con delle sgarate. Forse anche le sue genti commisero qualche ostilità. Portossi perciò nell'anno susseguente l'Augusto Trajano in persona a que' confini, per dimandargliene conto; ed allora, come io vo' credendo, ebbe principio la prima guerra dacica. Non istette certamente in ozio in questi tempi Trajano. Stendevasi la di lui provvidenza e liberalità a tutte le parti dell'imperio. Abbiamo da Eutropio [Eutropius, in Breviario.], ch'egli riparò le città della Germania, situate di là dal Reno. Potrebbe ciò essere succeduto nell'anno presente. E senza questo noi sappiamo ch'egli fece far infinite fabbriche per le città romane, e porti, e strade, ed altre opere, o per utilità o per ornamento; ed era facile a concedere ad esse città privilegi ed esenzioni, e a sollevarle ne' lor bisogni. Tale ancora il provavano i particolari. Bastava avere avuta con lui anche una mediocre familiarità, e poi chiedere. A chi ricchezze, a chi compartiva onori, rimandando consolati gli altri colla promessa di dar ciò che allora non potea. Ma particolarmente premiava egli chi avea più merito; e laddove sotto i precedenti Augusti chi era uomo di petto, e odiava la servitù, e solea parlar franco, o dispiaceva, o correva pericolo dell'esilio o della vita: questi da Trajano erano i più stimati, ben voluti ed esaltati. E tuttochè la nobiltà sua propria si stendesse poco indietro, pure gran cura avea egli di chi procedeva dagli antichi nobili romani, e li preferiva agli altri negl'impieghi. Ne' tempi addietro troppo spesso si vide, che i liberti degl'imperatori la faceano da padroni del pubblico e della corte stessa [Plinius, in Panegyrico.]. Trajano, scelti i migliori fra essi, se ne serviva bensì, e li trattava assai bene; ma in maniera che si ricordassero sempre della lor condizione, e d'essere stati schiavi; e che, per piacere, altra maniera non v'era, che d'essere uomini dabbene [392] e persone amanti dell'onore [Plinius, lib. 10, ep. 3.]. Proibì alle città il far dei regali col danaro del pubblico, ma non volle che si potessero ripetere i fatti prima di venti anni addietro, per non rovinar molte persone, conchiudendo il suo rescritto a Plinio: Perchè a me appartiene di non aver men cura del bene de' particolari, che di quello del pubblico. Così procurava egli anche alle città il risparmio delle spese. Però sapendo [Idem, lib. 4, epist. 22.] questa sua buona intenzione Trebonio Rufino, duumviro, cioè principal magistrato scelto dal popolo di Vienna del Delfinato, proibì che si facessero in quella città i giuochi ginnici, i quali, oltre alla spesa, riuscivano anche scandalosi e contrari a' buoni costumi, perchè gli uomini nudi alla presenza di tutto il popolo faceano la lotta. S'opposero i cittadini. Fu portato l'affare a Trajano, che raccolse i voti de' senatori. Fra gli altri Giulio Maurino sostenne, che non si doveano permettere que' giuochi a quelle città, e poi soggiunse: Volesse Dio, che si potessero anche levar via da Roma, città perduta dietro a simili sconci divertimenti.
Anno di | Cristo CII. Indizione XV. |
Evaristo papa 7. | |
Trajano imperadore 5. |
Consoli
Gajo Sosio Senecione per la terza volta e Lucio Licinio Sura per la seconda.
Certo è bensì che Sura fu console ordinario nell'anno presente. Non v'ha la medesima certezza di Senecione. Il solo Cassiodoro quegli è, che cel mette davanti. Discordano gli altri fasti. Ho io seguitato in ciò i più che han trattato de' consoli. Erano questi due i più cari e favoriti che s'avesse Trajano, degni bene amendue della di lui confidenza ed affetto, perchè ornati di tutte quelle virtù [393] che si ricercano in chi dee servire ad un buon principe. Ma specialmente [Aurelius Victor, in Epitome. Dio, lib. 68.] amava egli Licinio Sura, per gratitudine, avendo questi cooperato non poco, affinchè Nerva adottasse Trajano. Salì questo Sura a tal ricchezza e potenza, che a sue proprie spese edificò un superbo ginnasio, o sia la scuola de' lottatori al popolo romano. Non andò egli esente dai soffi dell'invidia, compagna ordinariamente delle grandi fortune, avendo più d'uno procurato d'insinuare in cuor di Trajano dei sospetti della fedeltà di questo suo favorito, calunniandolo come giunto a meditar delle novità contra di lui. Trajano, la prima volta che Sura l'invitò seco a pranzo, v'andò senza guardie. Volle per una flussione che aveva agli occhi, farseli ugnere dal medico di Sura. Fatto anche venire il di lui barbiere, si fece radere la barba: chè così allora usavano i Romani. Adriano fu quegli che poi introdusse il portarla. Dopo aver anche preso il bagno, Trajano si mise a tavola, e allegramente desinò. Nel dì seguente disse agli amici, che gli mettevano in mal concetto Sura: Se costui mi avesse voluto ammazzare, n'ebbe jeri tutta la comodità. Fu ammirato un sì fatto coraggio in Trajano, ben diverso da que' principi deboli che temono di tutto. Aggiugne Dione, che un altro saggio di questa sua intrepidezza diede Trajano. Nel crear sulle prime un prefetto del pretorio (si crede che fosse Saburano) dovea cingergli la spada al fianco. Nuda gliela porse, dicendo: Prendi questo ferro, per valertene in mia difesa, se rettamente governo: contra di me, se farò il contrario. Forse fu lo stesso Saburano, come conghiettura Giusto Lipsio, che gli dimandò licenza di ritirarsi, perchè Plinio [Plinius, in Panegyrico, §. 86.] attesta essere stato un prefetto del pretorio, che antepose il piacere della vita e della quiete agli onori della corte. Trajano, perchè gli dispiaceva di [394] perdere un uffizial sì dabbene, fece quanto potè per ritenerlo. Vedendolo costante, non volle rattristarlo col negargli la grazia; ma l'accompagnò sino all'imbarco, il regalò da par suo, e baciandolo, colle lagrime agli occhi il pregò di ritornarsene presto.
L'anno verisimilmente fu questo, in cui Trajano con poderosa armata marciò contro a Decebalo re dei Daci. Poco sappiamo delle avventure di quella guerra. Ecco quel poco che ne lasciò scritto Dione [Dio, lib. 68.]. Giunto che fu l'Augusto Trajano ai confini della Dacia, veggendo Decebalo tante forze in ordine, e un sì rinomato imperadore in persona venuto contra di lui, spedì tosto deputati per esibirsi pronto alla pace. Trajano, oltre al non fidarsi di lui, un gran prurito nudriva di acquistar gloria per sè e di ampliare il romano imperio: però, senza voler prestare orecchio a proposizione alcuna, andò innanzi. Si venne ad una terribil battaglia, che costò di gran sangue ai Romani, ma colla sconfitta de' nemici. Raccontasi che in tal congiuntura girando Trajano, per osservare se i soldati feriti erano ben curati, al trovare che mancavano fasce per legar le ferite, fece mettere in pezzi la veste propria, perchè servisse a quel bisogno. Con grande onore data fu sepoltura agli estinti; ed alzato un altare, acciocchè ne' tempi avvenire si celebrasse il loro anniversario. Col vittorioso esercito s'andò poi di montagna in montagna inoltrando Trajano, finchè pervenne alla capitale della Dacia, che si crede Sarmigetusa, città posta in quella provincia che oggidì appelliamo Transilvania; che divenne poi colonia de' Romani col nome di Ulpia Trajana [Thesaurus Novus Veter. Inscription., p. 1121, 7; 1127, 112.]. Nel medesimo tempo Lucio Quieto, Moro di nazione, uffizial valoroso, da un'altra parte fece grande strage e molti prigioni dei Daci; e a Massimo, uno de' generali, riuscì di prendere una buona fortezza; [395] entro la quale si trovò la sorella di Decebalo. Allora dovette accadere ciò che narra Pietro Patrizio [Petrus Patricius, de Legationib., Tom. 1, Hist. Byzantin.], cioè che Decebalo mandò a Trajano prima alcuni de' suoi conti, poscia altri de' suoi principali uffiziali a supplicarlo di pace, esibendosi di restituir l'armi e le macchine da guerra, e gli artefici guadagnati nella guerra fatta a' tempi di Domiziano [Dio, lib. 68.]. Accettò Trajano le proposizioni, con aggiugnervi che Decebalo smantellasse le fortezze, rendesse i disertori, cedesse il paese occupato ai circonvicini, e tenesse per amici e nemici quei del popolo romano. Decebalo, suo malgrado, venne a prostrarsi a' piedi di Trajano, e ad implorar la sua grazia ed amicizia. Non si sa, se in questa prima guerra e pace Trajano restasse in possesso di Sarmigetusa, e di quanto egli avea conquistato in quelle contrade. Certo è, che per questa impresa riportò egli il titolo di Dacico, nè aspettò a conseguirlo nell'anno seguente, come immaginò il Mezzabarba [Mediobarbus, Numismat. Imperator.]; ma nel presente, siccome ancora apparisce da due iscrizioni da me date alla luce [Thesaurus Novus Inscription., pag. 449, 2, 450, 1.], nelle quali è chiamato Dacico, correndo la sua tribunizia podestà V, che terminava circa il fine di ottobre in quest'anno.
Anno di | Cristo CIII. Indizione I. |
Evaristo papa 8. | |
Trajano imperadore 6. |
Consoli
Marco Ulpio Nerva Trajano Augusto per la quinta volta e Lucio Appio Massimo per la seconda.
Intorno ai consoli di quest'anno han disputato vari letterati, pretendendo che il consolato quinto di Trajano, e il secondo di Massimo cadano nell'anno [396] seguente [Noris, Epistol. Consulari.]; e che ciò si deduca da due o tre medaglie, nelle quali Trajano, correndo la sua settima podestà tribunizia, è chiamato COnSul IIII. DESignatus V. Ma concorrendo gli antichi fasti ne' consoli sopraccitati, si può forse dubitare della legittimità di quelle monete, oppur di errore ne' monetari. Finchè si scuoprano migliori lumi, io mi attengo qui al Panvinio, al Pagi, al Tillemont e ad altri, che non ostante l'opposizione di quelle medaglie, mettono in quest'anno il consolato quinto di Trajano. Massimo, il secondo d'essi consoli, verisimilmente è quel medesimo che nell'anno precedente s'era segnalato nella guerra dacica, e fu premiato per la sua prodezza coll'insigne dignità del consolato. Era [Dio, lib. 68.] già tornato a Roma nel precedente anno il vittorioso Trajano. Perchè egli da saggio e buon principe cercava il proprio onore, nè dimenticava quello del senato romano, avea fra l'altre condizioni obbligato Decebalo a spedire ambasciatori a Roma, per supplicare il senato di accordargli la pace, e di ratificare il trattato. Vennero essi verisimilmente in quest'anno, e introdotti nel senato, deposero l'armi, e colle mani giunte a guisa degli schiavi, in poche parole esposero la lor supplica. Furono benignamente ascoltati, e confermata la pace: il che fatto, ripigliarono l'armi, e se ne tornarono al loro paese. Trajano dipoi celebrò il suo trionfo per la vittoria riportata dei Daci: e v'ha una medaglia [Mediobarbus, in Numism. Imperat.], creduta indizio di questo suo trionfo, dove comparisce la Tribunizia Podestà VII; il che può far credere differita questa funzion trionfale agli ultimi due mesi dell'anno corrente. Ma quivi egli è intitolato CONSUL IIII; il che si oppone alla credenza ch'egli nell'anno presente procedesse console per la quinta volta. Un qualche dì potrebbe disotterrarsi alcuna iscrizione o medaglia che dileguasse le tenebre, nelle quali resta [397] involto questo punto di storia e cronologia. Aveva Trajano trovato nelle parti della Dacia Dione Grisostomo eloquentissimo oratore e filosofo greco, di cui restano tuttavia le orazioni. Seco il condusse a Roma, e tale stima ne mostrò, che, se dice il vero Filostrato [Philostratos, in Sophist.], nel suo stesso carro trionfale il volle presso di sè, con volgersi di tanto in tanto a lui per parlargli e far conoscere al pubblico quanto l'apprezzasse. Al trionfo tenne dietro un combattimento pubblico di gladiatori, e un divertimento di ballerini che Trajano, dopo averli due anni prima cacciati di Roma, ripigliò, dilettandosi dei loro giuochi, e sopra gli altri amando Pilade uno di essi. Ma s'egli talvolta si ricreava con tali spettacoli, ciò non pregiudicava punto agli affari; e massimamente s'applicava il vigilante imperadore all'amministrazione della giustizia. Una bellissima villa era posseduta da Trajano a Centocelle, oggidì Cività Vecchia, dove egli andava talvolta a villeggiare, con attendere anche ivi alla spedizion delle cause e liti più rilevanti. Plinio [Plinius, lib. 4, epist. 31.] scrive d'essere stato chiamato a quel delizioso soggiorno (probabilmente in quest'anno) per assistere ad alcuni giudizii ch'egli descrive. Fra gli altri era accusato Euritmo, liberto e procurator di Trajano, di aver falsificati in parte i codicilli di Giulio Tirone, i cui eredi alla presenza di Trajano pareva che non si attentassero a proseguir la causa, trattandosi di un uffizial di casa del principe. Fece lor animo il giusto principe, con dire: Eh che colui non è Policleto (liberto favorito di Nerone) nè io son Nerone. Abbiamo dal medesimo Plinio, che Trajano in questi tempi facea fabbricare un porto vastissimo a foggia di un anfiteatro. Già era compiuto il braccio sinistro, si lavorava al destro, e vi si andavano conducendo per mare grossissimi sassi. Tolomeo [Ptolomaeus, Geograph.] parla del [398] porto di Trajano, lo stesso che oggidì Cività Vecchia; e Rutilio nel suo Itinerario ne fece la descrizione [Rutilius, in Itinerar.].
Anno di | Cristo CIV. Indizione II. |
Evaristo papa 9. | |
Trajano imperadore 7. |
Consoli
Lucio Licinio Sura per la terza volta, e Publio Orazio Marcello.
Il cardinal Noris, il Fabretti e il Mezzabarba stimarono che questi fossero i consoli dell'anno precedente, e che nel presente Trajano Augusto per la quinta volta, insieme, con Appio Massimo, amministrassero il consolato. Finchè si possa meglio chiarir questo punto, io seguito gli antichi Fasti, abbracciati in ciò anche dal Panvinio, dal Pagi, dal Tillemont e da altri. Disputa ancora c'è intorno al primo d'essi consoli, credendo alcuni ch'egli sia stato non già Sura, ma Suburrano. Sarebbe da desiderare qualche marmo che decidesse la quistione. Uno dei più riguardevoli amici di Trajano fu il suddetto Orazio Marcello. Le conghietture dei migliori letterati concorrono [Loydius, Pagius, Tillemont et alii.] a persuaderci, che in quest'anno prendesse origine la seconda guerra dacica. Non sapea digerir Decebalo la pace fatta con Trajano, perchè comperata con troppo dure condizioni; e però subito che si vide rimesso in arnese, cominciò delle novità, e a chiedere un nuovo accordo, lamentandosi specialmente, che molti dei suoi sudditi passavano al servigio dei Romani. Perchè nulla potè ottenere, determinò di venir di bel nuovo all'armi [Dio, lib. 68.]. Diedesi dunque a far gente, a fortificar i suoi luoghi, ad accogliere i disertori romani, e a sollecitare i circonvicini popoli, acciocchè entrassero seco in lega, per timore, diceva egli, che un dietro l'altro non rimanessero oppressi dall'armi romane. [399] Gli Sciti, cioè i Tartari, ed altre nazioni si unirono con lui. A chi ricusò di sposare i di lui disegni, fece aspra guerra, e tolse ancora ai Jazigi una parte del loro paese. Queste furono le cagioni, per le quali il senato romano dichiarò Decebalo nemico pubblico, e Trajano fece tutti gli opportuni preparamenti per domarne la ferocia. Se sussiste ciò che racconta Eusebio [Euseb., in Chron.], in quest'anno Roma vide bruciata la casa d'oro, cioè, per quanto si può credere, una parte di quella fabbricata da Nerone, che si dovea essere salvata nell'incendio precedente. Furono di parere il Loidio e il Tillemont, che circa questi tempi Plinio il giovane, già stato console, fosse inviato da Trajano al governo del Ponto e della Bitinia, non come proconsole, ma come vicepretore colla podestà consolare. Scabrosa è la quistione del tempo in cui ciò avvenne, e mancano notizie per poterla decidere. A me perciò sarà lecito di differir più tardi quest'impiego di Plinio, siccome han fatto il Noris, il Pagi, il Bianchini ed altri.
Anno di | Cristo CV. Indizione III. |
Evaristo papa 10. | |
Trajano imperadore 8. |
Consoli
Tiberio Giulio Candido per la seconda volta e Aulo Giulio Quadrato per la seconda.
Tre iscrizioni spettanti a questi consoli ho io rapportate altrove [Thesaurus Novus Inscription., pag. 316, n. 3 et seq.]. Credesi che l'anno presente quel fosse, in cui l'Augusto Trajano imprese la seconda sua spedizione contra di Decebalo re dei Daci, per aver egli creduta necessaria la sua presenza anche questa volta contro ad un sì riguardevole avversario, e che non fosse impresa da fidare ai soli suoi generali. Adriano, suo cugino, che fu poi imperadore, ed era stato in quest'anno [400] tribuno della plebe [Spartianus, in Hadriano.], andò servendolo per comandante della legione minervia, e vi si portò così bene, che Trajano il regalò di un diamante, a lui donato da Nerva [Dio, lib. 68.]. Non erano certamente le forze di Decebalo tali da poter competere con quelle di Trajano, il quale seco menava un potentissimo agguerrito esercito. Perciò tentò il Dacio altre vie per liberarsi, se gli veniva fatto, dall'imminente tempesta, con inviar nella Mesia, dov'era giunto l'imperadore, dei disertori bene instruiti per ucciderlo. Poco mancò che non succedesse il nero attentato, perchè Trajano, oltre alla sua facilità di dare in tutti i tempi udienza, spezialmente la dava a tutti nell'occorrenze della guerra. Per buona fortuna osservati alcuni cenni di un di costoro, fu preso, e messo a' tormenti, confessò le tramate insidie: il che sconcertò anche le misure degli altri. Un'altra vigliaccheria pur fece Decebalo. Dato ad intendere a Longino uno de' più sperimentati generali d'armi che s'avessero i Romani, di volersi sottomettere ai voleri dell'imperadore, l'indusse a venire ad una conferenza con lui; ma da disleale il ritenne prigione, sforzandosi poi di ricavar da lui i disegni e segreti di Trajano. La costanza di questo generale in tacere fu qual si conveniva ad un uomo d'onore par suo. Decebalo il fece bensì slegare, ma il mise sotto buone guardie, con iscrivere poscia a Trajano d'essere pronto a rilasciar Longino, ogni volta che si volesse trattar di pace: altrimenti minacciava di torgli la vita. Trajano, benchè irritato forte dall'iniquo procedere di costui, gli rispose con molto riguardo, cioè mostrando di non fare tal caso della persona e salute di Longino, che volesse comperarla troppo caro; ma senza trascurare la difesa della vita di quel suo uffiziale. Stette in forse Decebalo, qual risoluzione ne avess'egli da prendere intorno a Longino; e perchè forse [401] si lasciò intendere di volerlo far morire sotto i tormenti, Longino guadagnò un liberto d'esso Decebalo, che gli procurò del veleno; e, per salvarlo dalle mani del padrone, ottenne di poterlo spedire a Trajano, sotto pretesto di procurar un accordo. Il che eseguito, prese Longino il veleno, e si sbrigò dal mondo. Allora Decebalo inviò a Trajano un centurione già fatto prigione con Longino, e seco dieci altri prigionieri, esibendogli il corpo di Longino, perchè Trajano gli restituisse quel liberto. Ma l'imperadore che trovava aliena dal decoro del romano imperio una tal proposizione, nè gli volle consegnare il liberto, e neppur lasciò tornare a lui il centurione, siccome preso contro il diritto delle genti.
Pare che fondatamente si possa dedurre da quanto narra Dione [Dio, lib. 68.], che nel presente anno nulla di rilevante fosse operato da Trajano per conto della guerra contra di Decebalo. Le applicazioni sue prima di esporsi a maggiori imprese, consisterono in far fabbricar un ponte di pietra sul Danubio. Considerava il saggio condottiere d'armate, che essendo egli passato di là da quel fiume, se venissero assaliti i Romani dai Barbari, poteva esser loro impedito il ritirarsi di qua, ed anche il ricevere nuovi rinforzi. Però volendo assicurarsi di simili pericolosi avvenimenti, e mettere una stabile buona comunicazione fra il paese signoreggiato di qua e di là dal Danubio, volle prima che si edificasse un ponte su quel fiume, per quanto credono alcuni [Cellarius Georg., Tom. I.], tra Belgrado e Widen: intorno a che è da vedere il Danubio del conte Marsigli [Marsilius, in Danubii descriptione.]. Altre opere di somma magnificenza fece Trajano, ma questa andò innanzi alle altre, per sentimento di Dione, il quale non sapea abbastanza ammirarla nè decidere qual fosse più grande, o la spesa occorsa per sì gran lavoro, o l'arditezza del disegno. Ognun sa che [402] vastissimo fiume sia in quelle parti il Danubio, e tuttochè fosse scelto pel ponte il più stretto che si potesse dell'alveo suo, ciò nonostante occorreva un ponte di lunga estensione; e cresceva anche la difficoltà, perchè le acque ristrette in quel sito tanto più veloci e rapide correano, e il fondo del fiume, ricco sempre d'acque, era profondissimo e pieno di gorghi di fango. Ma alla potenza e al voler di un Trajano nulla era difficile. Senza poter divertire le acque del fiume, quivi furono piantate venti smisurate pile tutte di grossissimi marmi quadrati, alte cento cinquanta piedi senza i fondamenti, larghe sessanta, distanti l'una dall'altra cento settanta, ed unite insieme con archi e volte. L'architetto fu Apollodoro Damasceno: [Procopius, lib. 4, de Ædific.] e di qua e di là da esso ponte furono fabbricati due forti castelli per guardia del medesimo. Eppure questa mirabil fabbrica da lì a pochi anni si vide in parte smantellata, non già dai barbari, ma da Adriano successor di Trajano, col pretesto, che per quel medesimo ponte i Barbari potrebbono passare ai danni de' Romani. Ma da quando in qua non potea la potenza romana difendere un ponte, difeso da due castelli? Oltre di che, nel verno tutto il Danubio agghiacciato non era forse un vasto ponte ai Barbari per passar di qua, se volevano? Però fu creduto, e con più ragione, che Adriano, mosso da invidia per non poter giugnere alla gloria di Trajano, così gloriosa memoria di lui volesse piuttosto distrutta. Vi restarono in piedi solamente le pile; e queste ancora a' tempi di Procopio non comparivano più. In questo anno parimente, per quanto si raccoglie dalle medaglie [Mediobarbus, Numism. Imperat.], e da Dione [Dio, lib. 68.], l'Arabia Petrea, che avea in addietro avuti i propri re, fu sottomessa con altri popoli all'imperio romano per valore di Auto Cornelio Palma governatore della Soria, e stato già console [403] nell'anno 99. Una nuova Era perciò cominciarono ad usar le città di Samosata, Bostri, Petra ed altre di quelle contrade.
Anno di | Cristo CVI. Indizione IV. |
Evaristo papa 11. | |
Trajano imperadore 9. |
Consoli
Lucio Ceionio Comodo vero e Lucio Tuzio Cereale.
Il primo di questi consoli, cioè Comodo Vero, fu padre di Lucio Vero, che noi vedremo a suo tempo adottato da Adriano Augusto. Il secondo console nella cronica di Alessandria è chiamato Ceretano in vece di Cereale, e fu creduto dal Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] diverso da Tuzio Cereale. Ma sufficiente ragione non v'ha, per aderire alla di lui opinione, siccome neppure di tener con lui, che nell'anno precedente avesse fine la seconda guerra dacica. Chiaramente scrive Dione [Dio, lib. 68.], che Trajano, dopo aver fatto il meraviglioso ponte sul Danubio (impresa che senza fallo costò gran tempo e danari), passò di là da quel fiume, e fece la guerra piuttosto con sicurezza, che con celerità; non volendo arrischiar combattimenti, e procedendo a poco a poco nel paese nemico. Plinio [Plinius, lib. 8, Epistol. 4.] con poche parole riconosce, che immense fatiche durò l'esercito romano, guerreggiando in que' montuosi paesi, e gli convenne accamparsi in montagne scoscese, condurre fiumi per nuovi alvei, e far altre azioni, che pareano da non credersi, come simili alle fole. Dione [Dio, lib. 68.] aggiugne, aver Trajano in tal congiuntura dati segni di singolar valore e di savia condotta, e che l'esempio suo servì ai soldati per gareggiare insieme in esporsi a molti pericoli, e per giugnere al sommo [404] della bravura. Fra gli altri un cavaliere che, ferito in una zuffa, fu portato alle tende per farsi curare, dacchè intese disperata la di lui guarigione, mentr'era ancor caldo, rimontò a cavallo, e tornato alla mischia, vendè ben caro ai nemici il poco che gli restava di vita. Le apparenze sono, che nè pure in quest'anno con tutti i suoi progressi Trajano terminasse la guerra suddetta, come altri han creduto. Tutte le medaglie [Mediobarb., in Numism. imperator.] riferite dall'Occone e dal Mezzabarba, per indizio che nel presente anno Decebalo fosse vinto, e ridotta la Dacia in provincia dell'imperio romano, nulla concludono, perchè possono appartenere anche nell'anno 107 e 108. Però chi dei moderni scrive, che Trajano non solamente tornò in quest'anno a Roma, e dopo avere ordinata una strada per le paludi pontine, partì tosto alla volta dell'Oriente, con trovarsi in Antiochia ne' primi giorni dell'anno seguente, probabilmente anticipò di troppo le di lui imprese. E noi abbiamo bensì dalla cronica alessandrina [Cronicum Paschale, seu Alexandrinum.] sotto quest'anno, che mossa guerra dai Persiani, dai Goti, e da altri popoli al romano impero, Trajano marciò contra di loro e sospese l'esazion de' tributi sino al suo ritorno; ma questo ha ciera di favola. Più che mai abbisognava egli allora di danaro; e senza dubbio avvenne molto più tardi la guerra co' Persiani, o sia co' Parti. Può ben verificarsi quella guerra dacica, perchè sotto nome di Goti venivano in que' tempi anche i Daci, come attestano Dione e Giordano. Rapporta il Panvinio [Panvinius, Fast. Consular.] a quest'anno l'iscrizione posta a Lucio Valerio Pudente, il quale, benchè in età di soli tredici anni, nel sesto lustro de' giuochi capitolini fatti in Roma, fu vincitore, e riportò la corona sopra gli altri poeti latini.
Anno di | Cristo CVII. Indizione V. |
Evaristo papa 12. | |
Trajano imperadore 10. |
Consoli
Lucio Licinio Sura per la terza volta, e Caio Sosio Senecione per la quarta.
Ma questo Sura da Sparziano [Spartianus, in Vita Hadriani.] vien detto Consul bis nell'anno presente insieme con Serviano. All'incontro il Panvinio [Panvinius, Fast. Consular.] con altri fu di parere, che i due suddetti ordinari consoli nelle calende di luglio avessero per successori Cajo Giulio Servilio Orso Serviano, che avea sposata Paolina sorella di Adriano, e cugina di Trajano, e fu molto amico di Plinio, e Surano per la seconda volta. Certo non mancano imbrogli ne' fasti consolari; ed è ben facile il prendere degli abbagli nell'assegnare ai consoli sostituiti il preciso anno del loro consolato. Nel presente si può ragionevolmente credere che Trajano, con felicità bensì, ma dopo immense fatiche, conducesse a fine la seconda guerra contro de' Daci. Per attestato di Dione [Dio, lib. 68.] s'impadronì egli della reggia di Decebalo, o sia della capitale della Dacia, chiamata Sarmigetusa: il che reca indizio, ch'egli non ne fosse restato in possesso nella pace stabilita dopo la prima guerra. Pertanto Decebalo, veggendosi spogliato di tutto il suo paese, ed in pericolo ancora di restar preso, piuttosto che venire in man dei nemici, si diede la morte da sè stesso, e il capo suo fu portato a Roma. Così pervenne tutta la Dacia in potere del popolo romano, e Trajano ne formò una provincia, con fondare in Sarmigetusa una colonia, nominata nelle iscrizioni della Transilvania, che il Grutero ed io [Gruterus, Thesaur. Inscription.] abbiam dato alla luce. In oltre abbiam da Dione che Decebalo, trovandosi in mal punto, affinchè i suoi tesori non [406] cadessero in mano de' Romani, distornò il corso del fiume Sargezia, che passava vicino al suo palazzo, e fatta cavare una gran fossa in mezzo al seccato lido di quel fiume, vi seppellì una gran copia d'oro, d'argento e d'altre cose preziose, che si poteano conservare. Quindi ricoperto il sito con terra e con grossi sassi, tornò a far correre l'acqua pel solito alveo. I prigioni da lui adoperati per quella fattura, acciocchè non rivelassero il segreto, furono tosto uccisi. Ma essendo poi stato preso dai Romani Bicilis, uno de' familiari più confidenti di Decebalo, questi scoprì tutto a Trajano, il quale ne seppe ben profittare. Rimasto spolpato quel paese, ebbe cura Trajano di mandarvi ad abitare un numero infinito di persone, e di fondarvi, oltre alla suddetta, altre colonie, che si veggono menzionate da Ulpiano [Lege Sciendum ff. de Censibus.]: con che divenne la Transilvania una fioritissima provincia de' Romani, essendosi perciò in quelle parti trovate negli ultimi due secoli molte iscrizioni romane, che si leggono presso il suddetto Grutero, presso il Reinesio, e nel mio nuovo Tesoro.
Anno di | Cristo CVIII. Indizione VI. |
Alessandro papa 1. | |
Trajano imperadore 11. |
Consoli
Appio Annio Trebonio Gallo e Marco Atilio Metilio Bradua.
V'ha chi dà il cognome di Treboniano al primo di questi consoli; ma in due iscrizioni, riferite dal Panvinio [Panvinius, Fast. Consul.], si legge Trebonio. Se crediamo al medesimo Panvinio, nelle calende di marzo succederono nel consolato Cajo Giulio Africano e Clodio Crispino. Ma un'iscrizione, conservata in Verona, e riferita dal marchese Scipione Maffei, e poscia anche da me [Thesaur. Novus Veter. Inscription., p. 317, num. 4.], ci fa sufficientemente conoscere, [407] che nel dì 23 di agosto dell'anno presente erano consoli Appio Annio Gallo e Lucio Verulano Severo, o pur Severiano. O sul fine del precedente anno, o nella primavera del presente, sbrigato dagli affari della Dacia, se ne ritornò Trajano a Roma, ed ivi celebrò il secondo suo trionfo dei Daci con magnifiche feste, e massimamente perchè correvano i decennali del suo imperio, che solevano solennizzarsi con gran pompa [Dio, lib. 68.]. Attesta Dione che, arrivato Trajano a Roma, vennero molte ambascerie di nazioni barbare, e fino dall'India a visitarlo, chi per bisogni, chi per ossequio. Quattro mesi durarono in Roma i pubblici spettacoli e divertimenti, consistenti per lo più in combattimenti di lioni e di altre feroci bestie, oppur di gladiatori. Giorni vi furono, nei quali si videro uccisi mille di questi fieri animali, e in più altri arrivò la somma a diecimila. Si fece conto che anche dieci migliaja di gladiatori diedero orrida mostra della lor arte, combattendo fra loro negli anfiteatri. In questi tempi ancora attese Trajano a formare e selciare una strada pubblica per le paludi pontine, con fabbricar anche case e ponti di gran magnificenza lungo di essa via, per comodo de' viandanti e del commercio. E perchè si trovava molta moneta o di bassa lega, o strozzata, o falsa; ordinò il saggio imperadore, che tutta fosse portata alla zecca, dove fu disfatta per rifarne della buona e di giusto peso. A quest'anno si crede che appartenga il terzo congiario o regalo, che Trajano diede al popolo romano, espresso da una medaglia, riferita dal Mezzabarba [Mediobarb., in Numism. Imperat.]. Mette il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] con altri scrittori in questi tempi la spedizion di Trajano contro de' Parti, o sia de' Persiani; ma certamente è da anteporre la sentenza d'altri, che molto più tardi parlano di quelle imprese. Succedette, secondo [408] la cronica di Damasco [Anastas., Bibliothec.], nel presente anno il glorioso martirio di santo Evaristo papa, in cui luogo fu posto Alessandro.
Anno di | Cristo CIX. Indizione VII. |
Alessandro papa 2. | |
Trajano imperadore 12. |
Consoli
Aulo Cornelio Palma per la seconda volta, e Cajo Calvisio Tullo per la seconda.
Si tien per certo, che a questi consoli ordinari fossero sostituiti (forse nelle calende di luglio) Publio Elio Adriano, che poi divenne imperadore, e Lucio Publilio, o piuttosto Publicio Celso. Era stato Adriano pretore in Roma nell'anno 107, per testimonianza di Sparziano [Spartian., in Vita Hadriani.], e Trajano gli avea donato due milioni di sesterzi, che si credono far la somma di cinquantamila scudi d'argento, acciocchè potesse celebrare i giuochi soliti a darsi da chi entrava in quel riguardevole uffizio. Pretende il Salmasio [Salmas., in Notis ad Spartian.], che Sparziano scrivesse il doppio. Fu nel precedente anno inviato con titolo di legato pretorio, o sia di vicepretore esso Adriano nella bassa Pannonia: mise in dovere i Sarmati, che aveano fatto qualche novità ne' confini dell'imperio romano; restituì la disciplina fra le milizie di quelle parti; e fece altre azioni, per le quali si meritò il consolato nell'anno presente. Non avea figliuoli Trajano, e Adriano suo cugino non ometteva diligenza ed arte alcuna per giungere a succedergli nell'imperio, aiutandosi spezialmente con far la corte alla imperadrice Plotina, e col tenersi amico Lucio Licinio Sura, uno de' favoriti di Trajano. Fu appunto in quest'anno, che Sura gli diede la buona nuova, qualmente Trajano [409] pensava di adottarlo; e perchè i cortigiani ed amici di esso imperadore scoprirono qualche barlume di questa sua intenzione, laddove prima mostravano di poco stimare, anzi di sprezzare Adriano, da lì innanzi cominciarono ad onorarlo, e a procacciarsi la di lui amicizia. Mancò poi di vita, forse circa questi tempi, il medesimo Sura. Trajano, che si serviva di lui per farsi dettar le allocuzioni al senato e al popolo, perchè egli sapea poco di lettere, non ignorando che Adriano, siccome persona letterata, era capace di servirlo in quella funzione, il volle presso di sè, e si valeva della di lui penna; il che gli accrebbe la familiarità e l'amor di Trajano. Al defunto Sura fece fare Trajano un solenne funerale, ed alzare una statua per gratitudine [Dio, lib. 68.]. Lo stesso fece egli dipoi alla memoria di Sosio Senecione e di Palma e di Celso, che abbiam detto essere stati consoli nell'anno presente, come ad amici suoi cari. Noi sappiamo che Cajo Plinio Cecilio Secondo, rinomatissimo autore del panegirico di Trajano, dopo essere stato console nell'anno 100, fu poi mandato con titolo di vicepretore al governo della Bitinia e del Ponto. Le sue lettere scritte di là a Trajano si leggono nel libro decimo. Ma per quanto finora abbiano disputato fra loro gli eruditi, non s'è potuto, nè si può decidere in qual anno egli fosse spedito colà. Il Loidio e il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] attribuirono la di lui andata al fine dell'anno 103; il cardinal Noris [Noris, Epist. Consulari.] al presente 109, o pure al susseguente, come ancor fece [Pagius, in Critic. Baron.] il padre Pagi. Eusebio [Eusebius, in Chron.] mette all'anno decimo di Trajano, cioè al 107 dell'Era nostra, la lettera celebre scrittagli da Plinio, esistente allora nella Bitinia. Idacio [Idacius, in Fastis.] ne parla all'anno 112. In tale incertezza di tempi sia lecito ai lettori l'attenersi a [410] quella opinione che più loro aggradirà, e a me di seguitar più tosto il Noris, il Pagi e il Bianchini. A questi tempi, ma colla medesima incertezza, vien riferita dal Mezzabarba [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.] e dal suddetto Bianchini [Blanchinius ad Anastasium.] la selciatura della via Trajana, fatta per ordine di esso Trajano. Altro essa non fu, che la via descritta da Dione, di cui si parlò al precedente anno, cioè la via Appia, che da Roma va a Capua: la più magnifica di quante mai facessero i Romani, ed opera di molti secoli avanti. Perchè la rimodernò ed arricchì Trajano di vari ponti e di fabbriche a canto alla medesima, perciò egli, o il pubblico le diede il nome di via Trajana. Credesi parimente che in questo anno Trajano dedicasse il Circo, cioè il Massimo, ristorato da lui co' marmi presi dalla Naumachia [Suetonius, in Domitiano, cap. 15.] di Domiziano.
Anno di | Cristo CX. Indizione VIII. |
Alessandro papa 3. | |
Trajano imperadore 13. |
Consoli
Servio Salvidieno Orfito e Marco Peduceo Priscinio.
Le iscrizioni pubblicate dal Fabretti, dal Bianchini e da me, ci assicurano tali essere stati i nomi e cognomi di questi consoli, che si trovavano ignorati o guasti presso i precedenti illustratori dei Fasti. Non si sa intendere, perchè il Mezzabarba [Mediobarbus, in Numism. Imper.] e monsignor Bianchini pretendano, che solamente in quest'anno il senato accordasse a Trajano il glorioso titolo di Ottimo, quando questo titolo comparisce in tante altre medaglie, che si rapportano agli anni precedenti. Plinio anch'egli ne parla nel panegirico che dicemmo composto nell'anno 100. Dione [Dio, lib. 68.], per lo contrario, scrive che [411] solamente dopo le conquista dell'Armenia egli fu cognominato Ottimo. Vogliono i suddetti scrittori, che Trajano l'accettasse solamente in quest'anno. Ma non era tale la di lui umiltà, da far sì lunga resistenza a quest'elogio, per altro ben meritato da lui. Augusto non voleva esser chiamato Signore. Trajano all'incontro assai gradiva che gli si desse questo nome. Abbiamo da Eusebio [Euseb., in Chron.], che il famoso tempio del Panteon di Roma, oggidì la Rotonda, fu bruciato da un fulmine. Chi sa che in quella nobilissima fabbrica non entrava legno, crederà bensì che un folgore cadesse colà, ma che lo incendiasse, non saprà intenderlo. Sotto Nerone e sotto Domiziano, principi nemici della virtù, maraviglia non è, se fu perseguitata la santa religione di Cristo. Potrebbe ben taluno stupirsi, come essa trovasse un persecutore in Trajano [Euseb., Histor., lib. 3, cap. 31.], principe amator delle virtù, delle quali vera maestra è la sola religione de' Cristiani. Pure fuor di dubbio è, che sotto di lui la Chiesa di Dio patì la terza persecuzione, non già, come osservò il cardinal Baronio, ch'egli pubblicasse editto alcuno particolare contro di essi Cristiani, ma perchè riferito a lui, come si andava a gran passi dilatando la lor credenza con pregiudizio del dominante culto degl'idoli, con gravi lamenti de' falsi sacerdoti del Paganesimo, e con delle sollevazioni de' popoli contra chi professava la fede di Cristo; Trajano ordinò, o permise che fossero osservate rigorosamente le antiche leggi contra gl'introduttori di nuove religioni. Però i governatori delle provincie, massimamente dell'Oriente, cominciarono ad infierire, probabilmente circa questi tempi, contra chiunque si scopriva seguace dei dogmi cristiani; laonde si videro molti forti campioni attestar col loro sangue la verità di questa religione. Ne han trattato ampiamente [412] il cardinal Baronio [Baron., in Annal.], il Tillemont [Tillemont, Mém. de l'Église.], i Bollandisti [Acta Sanctorum.] ed altri. Forse a questi tempi appartiene la scoperta della congiura tramata da Crasso contra del buon imperador Trajano, che vien solo accennata da Dione [Dio, lib. 68.], senza dirne circostanza alcuna. Altro di più non abbiamo, se non che Trajano ne lasciò la cognizione al senato, da cui gli fu dato il meritato gastigo, senza apparire se pagasse il delitto col capo o coll'esilio. Racconta Sparziano [Spartianus, in Hadriano.], che Adriano, successor di Trajano, ne' primi giorni del suo imperio fu consigliato da Taziano di levar la vita a Laberio Massimo e a Crasso Frugi, relegati nelle isole per sospetti di aver aspirato all'imperio; ma ch'egli, affettando sul principio il buon concetto di essere principe clemente, niun male avea lor fatto. Tuttavia, perchè Crasso dipoi senza licenza era uscito fuor dell'isola, il procuratore di Adriano, senza aspettarne alcun ordine dall'imperadore, l'avea ucciso, quasichè egli macchinasse delle novità. Questi forse è il medesimo Crasso, di cui parla Dione.
Anno di | Cristo CXI. Indizione IX. |
Alessandro papa 4. | |
Trajano imperadore 14. |
Consoli
Cajo Calpurnio Pisone e Marco Vettio Bolano.
Un'iscrizione pubblicata dal Panvinio [Panvin., Fast. Consular.] ci fa vedere console nelle calende di marzo, se pure è vero, correndo la tribunizia podestà XIV di Trajano, cioè nell'anno presente, Cajo Orso Serviano per la seconda volta e Lucio Fabio Giusto. Quando sia vero che Plinio in questi tempi governasse il Ponto e la Bitinia, probabil cosa sarebbe che a [413] quest'anno appartenesse la celebre lettera [Plinius, lib. 10, epist. 97 et 98.] da lui scritta a Trajano intorno ai Cristiani. Era cresciuta a dismisura in quelle parti, non meno che nell'altre dell'Oriente, la religione di Cristo; e si scorge che Plinio avea ricevuto ordine da Trajano di processare e punire i di lei seguaci. Plinio ne fece diligente ricerca; ma ritrovato, più di quel che credea, esorbitante il numero de' Cristiani di ogni sesso ed età; e, quel che più importa, dopo maturo esame scoperto, ad altro non tendere questa religione, che a professar la pratica delle virtù, e l'abborrimento ai vizi, volle prima informarne Trajano, per sapere come s'avea da condurre in circostanze tali. Abbiamo anche la risposta dell'imperadore, che gli comanda di non fare ricerca de' Cristiani; ma se saranno denunziati, e trovati costanti nella lor fede, sieno puniti, con perdonare a chi proverà di non esser tale, sagrificando agli dii, e col non badare alle denunzie orbe, cioè date contra di loro, senza il nome dell'accusatore. Tertulliano [Tertullianus, in Apologetico, cap. 2.], ben informato di queste lettere, fa conoscere l'ingiustizia di Trajano in non volere che sieno ricercati come innocenti, e in volerli puniti, se accusati. Però continuò la persecuzione come prima: e quantunque non mancassero degli apostati, pure senza paragone maggior fu il numero degli altri, che amarono piuttosto di sofferir coraggiosamente la morte, che di sagrificare ai falsi dii del Gentilesimo. Crede il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], che sia piuttosto da riferire al seguente anno la lettera di Plinio. Il vero è, che non si può accertar questo tempo.
Anno di | Cristo CXII. Indizione X. |
Alessandro papa 5. | |
Trajano imperadore 13. |
Consoli
Marco Ulpio Nerva Trajano Augusto per la sesta volta e Tito Sestio Africano.
Possiam credere che a quest'anno appartengano due opere di Trajano, fatte prima d'imprendere la spedizione verso l'Armenia, delle quali fa menzione lo storico Dione [Dio, lib. 68.]. Cioè l'erezione in Roma di alcune biblioteche, e la fabbrica della piazza, che fu poi appellata di Trajano, nel sito, dove anche oggidì si mira la sua colonna. Un tesoro impiegò Trajano in formar questa piazza, perchè gli convenne spianare una parte del Monte Quirinale, e servendosi di Apollodoro insigne architetto, ornò in varie maniere tutta la circonferenza di bei portici, e l'atrio di alte e grossissime colonne con capitelli e corone, e con istatue e ornamenti di bronzo indorato, rappresentanti uomini a cavallo e arnesi militari. Nel mezzo dell'atrio si vedea la statua equestre d'esso Trajano. Era sì vaga e sì magnifica tal fattura per altre giunte fattevi da Alessandro Severo imperadore, che restava incantato chiunque la mirava. Ammiano Marcellino [Ammianus Marcellinus, lib. 16, c. 10.] scrive, che venuto a Roma Costanzo Augusto, allorchè giunse alla piazza di Trajano, fattura che non ha pari tutto il mondo, e che mirabil sembra fino agli stessi dii (così uno storico pagano), rimase attonito all'osservar quelle gigantesche figure e tanti begli ornamenti. E Cassiodoro [Cassiodorus Var., lib. 7, c. 6.] anch'egli scriveva, che a' suoi tempi, per quanto si andasse e riandasse alla piazza di Trajano, sempre essa compariva un miracolo. In somma non vi fu opera fatta da Trajano, che non desse a conoscere che il suo bel genio era impareggiabile, e il suo buon [415] gusto mirabile in tutto. Credesi che in quest'anno e nel seguente fosse compiuta e dedicata quella piazza. Il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], fidatosi di Giovanni Malala, scrittore abbondante di favole e di sbagli, mise all'anno 106 e al seguente, la spedizion di Trajano verso l'Armenia. Le ragioni recate dal Cardinal Noris, dal Pagi e da altri, e lo stesso racconto che fa Dione di quella guerra, persuadono abbastanza, che solamente in questo anno Trajano si mosse verso quelle parti [Dio, lib. 68.]. V'ha in oltre qualche medaglia [Mediobarbus, in Numismat. Imperator.] indicante i voti fatti pel suo buon ritorno. Ardeva di voglia Trajano di far qualche altra militare impresa, per cui sempre più crescesse la gloria sua. Gli se ne presentò un'occasione, perchè egli non era di que' principi che trovano, sempre che vogliono, nei lor gabinetti delle ragioni di far guerra ai loro vicini. Erano soliti i re dell'Armenia (l'abbiam già veduto) di prendere il diadema reale dai Romani imperadori, dalla sovranità de' quali si riconosceano in qualche maniera dipendenti. Esedare, nuovo re di quella contrada, l'avea preso da Cosroe re de' Parti, dominator della Persia. Trajano fece intendere le sue doglianze a Cosroe, il quale come se fossero burle, o per sua superbia, niuna adeguata risposta diede. Trajano allora determinò di farsi fare giustizia con un mezzo più concludente, cioè coll'armi. Si mise dunque in viaggio nell'anno presente con un possente esercito verso il Levante. Il solo suo muoversi fece calar tosto l'alterigia di Cosroe, e spedire ambasciatori a Trajano con dei regali, per esortarlo a desistere da una guerra di tale importanza, giacchè egli diceva d'aver deposto Esedare, e il pregava di voler concedere l'Armenia a Partamasire, che forse era fratello del medesimo Cosroe. Trovarono questi ambasciatori Trajano già arrivato ad Atene, [416] ma non già in lui quella facilità, di cui si lusingavano. Rifiutò egli i lor presenti, e disse conoscersi l'amicizia dalle azioni, non dalle parole, ed esser egli incamminato verso la Soria, dove avrebbe prese quelle misure che più converrebbono. Continuato poscia il viaggio per terra, secondo Giovanni Malala, nel dì 7 del seguente gennaio, oppure nell'ottobre dell'anno presente, entrò in Antiochia, capitale della Soria, con corona d'ulivo in capo.
Anno di | Cristo CXIII. Indizione XI. |
Alessandro papa 6. | |
Trajano imperadore 16. |
Consoli
Lucio Publicio Gelso per la seconda volta e Lucio Clodio Priscino.
Vogliono alcuni, che nell'occasione che Trajano Augusto si trovò in Antiochia, o sul fine del precedente anno, o sul principio del presente, gli fosse condotto d'avanti santo Ignazio vescovo di quella città [Acta Sanctorum apud Bolland. et apud Ruinartum.], accusato d'essere cristiano, e pastore de' Cristiani. Confessò il santo vecchio intrepidamente il nome di Gesù Cristo: e però d'ordine di Trajano fu mandato a Roma, per essere esposto alle fiere nell'anfiteatro. Gli atti del suo gloriosissimo martirio, compiuto secondo i Greci nel dì 20 di dicembre, e le sue lettere, spiranti un mirabile amor di Dio e una tenerissima divozione, restano tuttavia per edificazion della Chiesa. Altri mettono più presto il suo martirio; ma a noi basti di sapere la certezza del fatto, se non possiamo quella del tempo. L'iscrizione [Gruterus, pag. 190, num. 4.] che si legge nella base della nobilissima Colonna Trajana, tuttavia esistente in Roma, ci vien dicendo, che nell'anno presente seguì la dedicazione di questa maravigliosa fattura a nome del senato in onor di Trajano, che [417] non ebbe poi il contento di vederla prima di morire. Nella gran copia delle figure illustrate dalla penna del Fabretti, rappresentata si vede la guerra di Trajano contra ai Daci. Proseguendo intanto Trajano il suo viaggio, arrivò con un poderosissimo esercito ai confini dell'Armenia. Allora i re e principi di quelle contrade [Dio, lib. 68.] si portarono a gara a visitarlo con ricchissimi presenti, fra' quali si vide un cavallo così ben ammaestrato, che s'inginocchiava e chinava il capo a' piedi di chi si voleva. Abgaro re, o principe di Edessa nella Osroena, parte della provincia della Mesopotamia, gl'inviò regali e proteste di amicizia, ma senza venire in persona, perchè non volea perdere la buona grazia di Cosroe re de' Parti. Tuttavia in sua vece gli mandò [Idem, in Excerptis Valesian.] Arbando suo figliuolo, giovane di bellissimo aspetto, che s'insinuò così bene nel cuor di Trajano, che quando poi questo imperadore passò per Edessa, Abgaro andatogli incontro, agevolmente, per intercession del figliuolo, ottenne il perdono. Partamasire s'era già messo in possesso dell'Armenia con favore de' Parti, ed avea preso il titolo di re. Con questo titolo scrisse egli lettera di sommessione a Trajano; ma, non vedendo venire risposta, ne tornò a scrivere un'altra, senza più intitolarsi re; supplicandolo di voler inviare a lui Marco Giunio, governatore della Cappadocia, per trattar seco d'accordo. Trajano gl'inviò il figliuolo di Giunio, e intanto continuò il suo viaggio, con impossessarsi del paese, dovunque passava, senza trovarvi resistenza alcuna. Arrivato a Satala, città dell'Armenia minore, venne ad inchinarlo Anchialo re degli Eniochi, popoli della Circassia verso il mar Nero. Trajano il ricevè con grande onore, e il rimandò carico di regali. Allora fu, che anche Partamasire, considerando il brutto [418] aspetto de' suoi affari, probabilmente consigliato dal figliuolo di Giunio a rimettersi nella clemenza cesarea, ottenuto il salvocondotto, venne a presentarsi a Trajano. Nol volle egli ricevere, se non assiso sul trono in mezzo al campo. Se gli accostò Partamasire, e depose a' suoi piedi il diadema senza proferir parola: il che veduto dall'immensa corona dei soldati di Trajano, si alzò un sì allegro strepitoso grido di Viva, che quel principe atterrito fu in procinto di fuggirsene, se non si fosse veduto attorniato da sì gran copia d'armati. Chiesta poi una particolare udienza da Trajano, l'ottenne egli bensì, ma non già il diadema, siccome egli dimandava e sperava coll'esempio di Tiridate a' tempi di Nerone. Era ben diverso dal codardo Nerone il coraggioso Trajano. Ne uscì in collera Partamasire; ma risalito sul trono Trajano, il fece richiamare, acciocchè pubblicamente si riconoscesse il ragionamento seguito fra loro in disparte. Lamentossi Partamasire d'essere trattato come un prigioniero, quando egli era volontariamente venuto, e fece nuova istanza, per impetrare il diadema dalle mani di Cesare, a cui giurerebbe omaggio. Trajano gli rispose, che essendo l'Armenia pertinenza del romano imperio, non voleva concederla a chicchessia, ma bensì mettervi un governatore; e licenziatolo, il fece tosto partire, scortato da un corpo di cavalleria, acciocchè non potesse manipolar nel ritorno qualche intrico colla gente del paese. Si venne dunque alla guerra, di cui altro non sappiamo, se non che Partamasire, dopo essersi sostenuto, finchè potè, coll'armi alla mano, finalmente fu ucciso, e tutta l'Armenia restò in potere dell'Augusto Trajano, il quale ne fece una provincia del romano imperio.
Anno di | Cristo CXIV. Indizione XII. |
Alessandro papa 7. | |
Trajano imperadore 17. |
Consoli
Quinto Ninnio Hasta e Publio Manilio Vopisco.
Gran disavventura è stata che uno de' più gloriosi imperadori che s'abbia avuto Roma, quale ognuno confessa Trajano, con un regno fecondo di tante belle imprese, e di sì grandi uomini, qual fu il suo, non sia passato a noi con esatta e convenevole storia della vita e delle azioni di lui. Non mancò già agli antichi secoli una tale storia, anzi più d'una ve ne fu, attestando Lampridio [Lampridius, in Vita Alexandri Severi.], avere Mario Massimo, Fabio Marcellino, Aurelio Vero e Stazio Valente scritta la di lui vita, ed asserendo Plinio [Plin., lib. 8, ep. 4.] il giovane, che Caninio era dietro a descrivere la guerra dacica. Pure tutti questi scritti son rimasti preda del tempo, e son periti i libri di Arriano che avea descritte le guerre dei Parti; sicchè altro a noi non resta che il compendio di Dione, fatto da Giovanni Sifilino, da cui si possano ricavar le imprese di Trajano, ma appena abbozzate, e senza poterne noi trarre i tempi distinti, in cui furono fatte. Perciò solamente a tentone andiamo riferendo a questo e a quell'anno le di lui imprese, senza poterne fondatamente assegnare il tempo preciso. Sia dunque ch'egli nel precedente anno compiesse la conquista di tutta l'Armenia, o che ciò avvenisse in parte ancora del presente, certo è, per testimonianza di Dione [Dio, lib. 68.], che sparsasi maggiormente la fama del di lui valore, e de' suoi acquisti per l'Oriente, i re e i principi circonvicini vennero ad assoggettarsi all'aquile romane, oppure a chiedere amicizia e pace. Diede egli un [420] re ai popoli Albani [Eutrop., in Breviar.]; e i re dell'Iberia, de' Sauromati, del Bosforo e della Colchide gli prestarono giuramento di fedeltà. Avea notato Plinio [Plinius, in Panegyrico, c. 81.], che Trajano, se volea ricrearsi talvolta dalle applicazioni e fatiche del governo, non passava già a divertimenti puerili di giuoco, meno poi ad altri di maggior vergogna, perchè illeciti e scandalosi, ma a passatempi faticosi, per tenere in esercizio il corpo, e giovare alla sanità. Il cavalcare, la caccia erano i suoi trastulli; e se si trovava vicino al mare o ai fiumi, solea talvolta far da piloto in una nave, e mettersi a remigare, facendo a gara co' suoi cortigiani a chi meglio sapea esercitar quel duro mestiere in romper l'onde e passare gli stretti. Non operò di meno questo saggio imperadore in Levante, insegnando coll'esempio suo ai soldati l'amore e la tolleranza delle fatiche [Dio, lib. 68.]. Marciava anch'egli a piedi, e al pari d'essi passava a piedi i guadi dei fiumi. Ordinava egli in persona i soldati nelle marcie, e camminava innanzi, come un semplice uffiziale. Teneva molte spie, per saper nuove de' nemici, e talora ne spargeva egli delle false, per avvezzar la milizia ad ubbidir con prontezza, a star vigilante e preparata sempre con coraggio a tutti i pericoli ed avvenimenti. Son di parere il Mezzabarba e monsignor Bianchini, che Trajano conquistasse in quest'anno l'Assiria, perchè in una sua medaglia si legge ASSYRIA IN POTESTATEM POPVLI ROMANI REDACTA. Ma quella medaglia si può riferire ai due seguenti anni, non avendo caratteristica particolare dell'anno presente; e da Dione, secondo me, si ricava che più tardi succedette l'acquisto dell'Assiria, o sia della parte della Soria che allora era posseduta dai Parti.
Anno di | Cristo CXV. Indizione XIII. |
Alessandro papa 8. | |
Trajano imperadore 18. |
Consoli
Lucio Vipstanio Messala e Marco Vergiliano Pedone.
Che Vipstanio e non Vipstano fosse il nome del primo di questi consoli, apparisce da un'iscrizione da me [Thesaurus Novus Inscription., pag. 319, num. 2.] prodotta, e da due altre del Grutero [Gruterus, pag. 74 et 1070.]. Se crediamo al Tillemont, l'anno fu questo delle grandi imprese di Trajano in Levante, perchè egli entrò nel paese de' Parti, e fece quelle grandi conquiste ch'io accennerò all'anno seguente. Se non c'inganna Dione [Dio, lib. 68.], altro non sappiamo dell'operato da lui in questo, se non ch'egli s'impadronì delle città di Nisibi, capitale della Mesopotamia, e di Singara, e di Barne, città o luogo amenissimo di que' contorni: il che indica abbastanza, che alle sue mani venne l'intera ricca provincia della Mesopotamia, avendo noi anche osservato di sopra, ch'egli passò per Edessa, città parimente di quel tratto dove signoreggiava il re o sia principe Abgaro. Parla dipoi Dione, e parlerò ancor io, fra poco, del tremuoto orrendo d'Antiochia, accaduto sul fine del presente anno. Dopo di che descrive i gloriosi progressi di Trajano contra de Parti, i quali perciò debbono appartenere all'anno seguente, e non già al presente. Anche [Mediobarbus, in Numism. Imperat.] il Mezzabarba mette in quest'anno la dedicazione fatta in Roma della basilica Ulpia, o sia di Trajano, che può anche riferirsi all'anno 112, e ai quattro susseguenti. Certo è che questa basilica era contigua alla piazza di Trajano, superbo edificio che accresceva la bellezza di quella piazza, sapendo noi, che le basiliche de' Romani furono sontuosissime fabbriche, simili a molte grandi [422] chiese de' Cristiani, con trofei, statue ed altri ornamenti in cima, e con portici magnifici all'intorno, destinate per i giudici che andavano a tener ragione, concorrendovi anche i negozianti a trattar de' loro affari. Tornando ora a Trajano, mentr'egli attendeva all'acquisto della Mesopotamia, Manete, capo d'una nazion degli Arabi, Sporace principe dell'Antemisia, cioè di una parte d'essa Mesopotamia, e Manisare, anch'egli signore in quelle contrade, faceano vista di volersi a lui sottomettere, ma con trovar pretesti ogni dì per dichiararsi, e per venire a trovarlo [Dio, lib. 68.]. Non si fidava Trajano di costoro, e molto meno se ne fidò, dappoichè Mebaraspe, re dell'Adiabene, avendo ottenuto da lui un corpo di soldatesche per difendersi contro di Cosroe, avea da traditore parte trucidati, parte ritenuti prigioni que' soldati. Fra gli ultimi fu un centurione chiamato Sentio, il quale con altri imprigionato in un forte castello, allorchè l'esercito di Trajano, irritato contra del traditore, arrivò nell'anno seguente in vicinanza di quel luogo, ruppe le catene, uccise il castellano, ed aprì le porte agli altri Romani. Scrive Eutropio [Eutrop., in Breviar.], che Trajano s'impossessò del l'Antemisia. Dovette essere in quest'anno, perchè quella era una delle provincie della Mesopotamia. Secondo che abbiam da Dione, per queste vittorie fu dato a Trajano il titolo di Partico; ma egli più si compiaceva dell'altro di Ottimo, perchè esprimente la soavità de' suoi costumi, e il possesso in cui egli era di tutte le virtù.
Finita la campagna coll'acquisto della Mesopotamia, venne Trajano [Joannes Matala, in Chron. Dio, lib. 68.] a svernare con parte dell'armata ad Antiochia. Ma mentre ivi soggiornava, avvenne in quella città uno de' più orribili e funesti tremuoti che mai si leggano nelle storie. L'ordinario popolo di quella vasta città ascendeva ad un numero [423] esorbitante: ma lo avea accresciuto a dismisura la venuta colà della corte imperiale, e di gran copia di soldatesche. V'era inoltre concorsa un'immensa moltitudine di persone di quasi tutto l'imperio romano, chi per negozi, chi per bisogno del principe, chi per veder quelle feste. In tale stato si trovava quella nobilissima metropoli dell'Oriente; quando nel dì 25 di decembre, come pretende il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], venne un sì impetuoso tremuoto, preceduto da fulmini e da venti gagliardissimi, che rovinò buona parte delle fabbriche della città, con restare oppressa sotto le rovine gran moltitudine di persone, ed innumerabili altri con ferite e membra rotte. Si vide il vicino monte Corasio scuotere sì forte la cima, che parea dover precipitare addosso alla città; uscirono da più luoghi nuove fontane, e si seccarono le vecchie. Acquetato il gran flagello, si cominciò a pescar nelle rovine, e moltissimi vi si scoprirono morti di fame. Trovossi una sola donna che avea sostentato per più giorni sè stessa e un suo pargoletto col proprio latte, ed amendue furono cavati vivi: il che par cosa da non credere. Trajano che s'incontrò ad essere in sì brutto frangente, per una finestra del palazzo, in cui abitava, se ne fuggì; e scrivono che un personaggio d'inusitata e più che umana statura lo ajutò a salvarsi. Tal fu nulladimeno la sua paura, che quantunque fosse cessato lo scotimento della terra, pure per molti giorni volle abitare a cielo scoperto nel Circo. In questa sciagura perdè la vita Pedone console, che terminato il suo consolato ordinario ne' primi sei mesi potè molto ben venire pe' suoi affari ad Antiochia; se pur non fu un altro Pedone, stato console in alcun degli anni precedenti.
Anno di | Cristo CXVI. Indizione XIV. |
Alessandro papa 9. | |
Trajano imperadore 19. |
Consoli
Lucio Elio Lamia ed Eliano Vetere.
Chiaramente scrive lo storico Dione [Dio, lib. 68.] che dopo il tremuoto di Antiochia (e però nell'anno presente, e non già nel precedente) venuta la primavera, Trajano con tutto lo sforzo delle sue genti si mosse per portar la guerra nel cuore del regno dei Parti. Conveniva passare il rapido fiume Tigri, le cui sponde, dalla parte del Levante, erano ben guernite di nemiche milizie. Avea egli fatto fabbricar nel verno una prodigiosa quantità di barche con legni presi dai boschi di Nisibi; e per introdurle nel suddetto fiume, pensò ad un arditissimo e dispendioso ripiego, cioè di tirare un gran canale di acqua dall'Eufrate nel Tigri, per cui si potessero condurre le navi. Nacque sospetto, che essendo più alto l'Eufrate dell'altro fiume, potessero le di lui acque accrescere di soverchio la rapidità del Tigri, e che colà si volgesse tutto l'Eufrate, con perdersene anche la navigazione; e però non si compiè l'impresa; o se pur si compiè, non se ne servì Trajano. L'altro ripiego, a cui s'attenne, fu di condurre sopra carri barche fatte, ma sciolte, per unirle poi insieme sulle ripe del Tigri, e lanciarle quivi nel fiume. Così fu fatto. Di queste si formò un ponte; e tanta era la copia delle altre navi cariche di armati, che infestavano i Parti schierati sull'opposta ripa, e di altre che minacciavano in più luoghi il passaggio dell'armata, che i Parti non sapendo intendere, come in un paese privo affatto d'alberi, fossero nate cotante navi, e perciò sgomentati, presero la fuga. Passò dunque felicemente tutto l'esercito romano, e piombò sulle prime addosso al traditor Mebaraspe re dell'Adiabene, con sottomettere tutta quella provincia. Quindi [425] s'impadronì di Arbela e di Gaugamela (dove Alessandro il Grande diede la sconfitta a Dario), e di Ninive e di Susa. Di là passò a Babilonia, senza trovare in luogo alcuno opposizione, perchè i Parti non erano d'accordo col re loro Cosroe, e più di una sedizione e guerra civile in addietro avea snervata la potenza di quella nazione. Volle Trajano osservare in quei contorni il lago onde si cavò il bitume, con cui in vece di calce furono unite le pietre delle mura di Babilonia. Sì fetente è l'aria di quel lago, che l'alito suo fa morire gli animali e gli uccelli che vi si appressano. Di là passò Trajano a Ctesifonte, capitale allora del regno de' Parti, dove fu fatto un incredibil bottino, e presa una figliuola di Cosroe col suo ricchissimo trono [Spartianus, in Vita Hadriani.]. Cosroe se n'era fuggito: ne parleremo a suo tempo. Stese dipoi il vittorioso Augusto le sue conquiste per quelle parti, soggiogando Seleucia [Eutrop., in Breviar.], e i popoli Marcomedi, e un'isola del Tigri, dove regnava Atambilo, e giunse fino all'Oceano. Svernò coll'armata in quelle parti, e vi corse vari pericoli per cagion delle tempeste insorte in quel fiume, vastissimo verso le basse parti per l'union dell'Eufrate.
Lo strepito di tali conquiste arrivato a Roma riempiè di giubilo quel popolo, che non sapea saziarsi di esaltar le prodezze di questo Augusto, giacchè l'aquile romane non aveano mai steso sì oltre, come sotto di lui, i lor voli. Perciò il senato gli confermò il cognome di Partico, con facoltà di trionfalmente entrare in Roma quante volte egli volesse, perchè in Roma non erano conosciuti tanti popoli da lui soggiogati. Trovasi ancora in qualche medaglia [Mediobarbus, in Numismat. Imperator.] accresciuto per lui sino alla nona volta il titolo d'imperadore, e datogli il nome d'Ercole. Ordinò [426] parimente il senato, oltre ad altri onori, che gli fosse alzato un arco trionfale. Preparavansi ancora i Romani a fargli uno straordinario onorevole incontro, allorchè egli fosse ritornato a Roma; ma Dio altrimenti avea disposto. Trajano più non rivide Roma, nè potè goder del trionfo. Intanto stando egli ai confini dell'Oceano, vista una nave che andava alle Indie, cominciò ad informarsi meglio di quel paese, di cui avea dianzi udito tante maraviglie; e gran desiderio mostrava di portarsi colà. Poi dicea, che se egli fosse giovane vi andrebbe; e chiamava beato Alessandro il Grande, per avere in età fresca potuto dar principio alle sue imprese. Contuttociò gli durava questo prurito; ma nell'anno seguente gli sopravvennero tali traversie, che gli convenne cacciar queste fantasie, e cangiar di risoluzione. Intanto egli fece dell'Assiria e della Mesopotamia due provincie del romano imperio. Da una iscrizione [Gruterus, pag. 247, num. 6.] esistente tuttavia nel porto d'Ancona, e riferita da più letterati, si raccoglie, che circa questi tempi fu compiuto il lavoro di quel porto per ordine di Trajano, il quale, dopo aver provveduto il Mediterraneo del porto di Cività Vecchia, volle ancora che l'Adriatico ne avesse il suo. A lui ha questa obbligazione Ancona, ed ivi tuttavia sussiste un arco trionfale, posto in onore di così benefico principe. Abbiamo ancora da Eusebio [Eusebius, in Chron.], che verso questi tempi la nazione giudaica, sparsa per la Libia e per l'Egitto, si rivoltò dappertutto contra de' Gentili, e ne seguirono innumerabili morti. Ebbero i Giudei la peggio in Alessandria. Secondo i conti di Dione vi perirono dugento ventimila persone; in Cirene essi Giudei commisero delle incredibili crudeltà contro de' Pagani.
Anno di | Cristo CXVII. Indizione XV. |
Sisto papa 1. | |
Adriano imperadore 1. |
Consoli
Quinzio Negro e Gaio Vipstanio Aproniano.
Secondo l'opinione de' migliori, l'anno fu questo, in cui santo Alessandro papa gloriosamente terminò i suoi giorni col martirio. Dopo lui, Sisto tenne il pontificato romano. Soggiornando Trajano verso l'Oceano, tuttavia co' pensieri e desiderii di veder l'Indie, si fece condurre in nave pel golfo, che Dione [Dio, lib. 68.] ed Eutropio [Eutropius, in Breviar.] chiamano il mar Rosso, ma che, secondo tutte le apparenze, fu il golfo Persico. Aggiugne Dione ch'egli s'inoltrò in quelle parti sino al luogo, dove si crede che morisse il grande Alessandro, con far ivi le cerimonie funebri in memoria di lui. Ma restò ben deluso, perchè dopo la relazione di tante belle cose che si diceano di que' paesi, altro non vi trovò che favole e luoghi rovinati. In questo mentre gli vien nuova, che i Parti si son ribellati, e si son perdute tutte le conquiste della Persia e della Mesopotamia, colla morte e prigionia delle milizie lasciatevi di guarnigione. Non tardò Trajano ad inviar colà Massimo e Lucio Quieto. Differente fu la fortuna di questi due generali. Massimo in una battaglia vi lasciò la vita. Lucio Quieto, all'incontro, moro di nazione, ricuperò Nisibi, ed espugnata Edessa, le diede il sacco e la incendiò. Alla medesima pena fu esposta la città di Seleucia, presa da Ericio Claro e da Giulio Alessandro. Tali novità fecero risolvere Trajano a mutar disegno intorno a que' paesi, scorgendo assai, che non gli sarebbe riuscito di conservarli come provincia, e sotto il governo dei magistrati romani. Però, tornato a Ctesifonte, e fatti raunare in una gran pianura [428] i Romani e i Parti, salito sopra un eminente trono, dichiarò re dei Parti Partamaspare personaggio di quella nazione, chiamato Psamatossiris da Sparziano [Spartianus, in Vita Hadriani.], e gli pose in capo il diadema: risoluzione abbracciata volentieri ed applaudita da que' popoli. Indi passò nell'Arabia Petrea, che s'era anch'essa ribellata; ma vi trovò il paese molto brutto, nè vi potè prendere Atra lor capitale, con patirvi ancora insoffribili caldi e molti altri disastri. Credesi nondimeno da alcuni ch'egli pervenisse fino all'Arabia Felice. Negli stessi tempi [Dio, lib. 68.] continuarono più che mai le sedizioni e ribellioni de' Giudei nella Mesopotamia, nell'Egitto e in Cipri. Attesta Eusebio [Euseb., in Chron.], che in Salamina città di Cipri prevalse la forza de' Giudei contra de' Gentili, di modo che quella città rimase spopolata. Ma Artemione capitano de' Cipriotti così fattamente perseguitò i Giudei in quell'isola, che li disertò affatto, facendosi conto, che ivi tra Gentili e Giudei perirono dugento quarantamila persone. Fu anche spedito Lucio Quieto il Moro contra de' medesimi nella Mesopotamia, che, col farne un'orrida strage, diede fine alla loro inquietudine.
Ma che? tutte queste vittorie e conquiste di Trajano, che costarono tanto sangue e tante spese e fatiche ai Romani, non istettero molto a svanir in fumo; perchè appena ritirossi da quelle contrade Trajano, che le cose ritornarono nel primiero stato, senza restarvi un palmo di dominio pe' Romani. E se ne ritirò per forza Trajano, perchè nel mese di luglio cominciò a sentire aggravata la sua sanità da male pericoloso, che da lui fu creduto veleno; ma si attribuisce da altri a cessazion delle emorroidi, e da altri ad un tocco di apoplessia, per cui restò offesa qualche parte del suo corpo. Altri in fine vogliono ch'egli fosse assalito dall'idropisia. Questo qualunque [429] sia malore sopraggiunto a Trajano, allorchè meditava di tornarsene in Mesopotamia, gli fece cangiar pensiero, e l'invogliò di ritornarsene in Italia, dove era continuamente richiamato dal senato; e però verso queste parti frettolosamente s'incamminò [Aurel. Vict., in Epit.]. Giunto ad Antiochia, capitale della Soria, lasciò ivi Elio Adriano, suo cugino, con titolo di governatore, e gli consegnò l'esercito romano. Continuato poscia il viaggio sino a Selinonte, città marittima della Cilicia, appellata poi Trajanopoli, oppresso dal male, che Eutropio [Eutrop., in Breviar.] chiamò flusso di ventre, quivi in età di sessantuno, altri dicono di sessantatrè anni, compiè il corso di sua vita, per quanto si crede nel dì 10 d'agosto. Il detto finora ha condotto i lettori a comprendere le mirabili belle doti, che concorsero a rendere Trajano uno de' più gloriosi imperadori che s'abbia mai avuto Roma, e a cui pochi altri possono uguagliarsi, non che andare innanzi. Oltre alle belle memorie ch'egli lasciò in Roma e in varie parti del romano imperio, in fabbriche sontuose, strade, porti, ponti, si trovano ancora varie città o fabbricate da lui, o che presero il nome da lui. A lui ancora principalmente attribuisce Aurelio Vittore l'istituzione del Corso Pubblico, oggidì appellato le Poste, che veramente ebbe origine da Augusto, ma fu ampliato e regolato in miglior forma da Trajano, acciocchè si potessero speditamente e regolarmente saper dall'imperadore le nuove del vasto imperio romano, e andar e venir prontamente gli uffiziali cesarei: giacchè, come dottamente osservò il Gotofredo [Gothofredus ad Legem 8, Tit. 5, Codic. Theodosiani.], serviva allora la posta solamente per gli ministri ed uomini dell'imperatore, e non già per le persone private, ed era mantenuta alle spese del Fisco con cavalli, calessi e carrette. Ma siccome osserva [430] Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesarib.], e si raccoglie dal codice teodosiano, questo lodevol istituto col tempo, e sotto i cattivi imperadori degenerò in uno intollerabil aggravio delle provincie e de' sudditi. Non fu già esente da ogni difetto Trajano, e van di accordo Dione [Dio, lib. 68.], Aurelio Vittore [Aurel. Vict., de Caesarib.], Sparziano [Spart., in Vita Hadriani.] e Giuliano l'Apostata [Julian., de Caesar.] in dire ch'egli cadea talvolta in eccessi di bere; ma non si sa ch'egli commettesse giammai azione alcuna contra il dovere, allorchè era riscaldato dal vino. Anzi, se crediamo ad esso Vittore, egli ordinò di non aver riguardo a ciò ch'egli avesse comandato dopo essere intervenuto a qualche convito. Aggiugne Dione, ch'egli fu suggetto ad un'infame libidine, abborrita dalla natura stessa, ma senza fare violenza o torto ad alcuno. Tutti effetti della falsa e stolta religione dei Gentili, la quale accecava e affascinava talmente le loro menti, che non si attribuivano a vergogna e peccato le maggiori enormità, che san Paolo chiaramente nomina e riconosce per un gran vitupero del gentilesimo allora dominante. Contuttociò nelle virtù politiche, e massimamente nell'amorevolezza, clemenza e saviezza, fu sì eccellente questo Augusto, che [Eutrop., in Brev.] da lì innanzi nelle acclamazioni che faceva il senato al regnante imperadore, si usò di augurargli, che fosse più fortunato d'Augusto, più buono di Trajano. E ben godè sotto di lui Roma e l'imperio tutto una mirabil calma: se non che si sentirono tremuoti in varie città, e peste e carestia in vari luoghi, e in Roma seguì una fiera inondazion del Tevere: malanni nondimeno, che servirono solamente di gloria a Trajano, perchè egli in quante maniere potè si adoperò per rimediare ai lor pessimi effetti, e per sovvenire chi era in bisogno. Fiorirono ancora sotto [431] questo insigne imperadore vari eccellenti ingegni, perchè egli al pari degli altri più rinomati regnanti, amò i letterati, e promosse le lettere. Restano a noi tuttavia le Opere di Cornelio Tacito, di Plinio il giovane e di Frontino, per tacer d'altri, che fiorirono anche sotto Adriano, e d'altri de' quali si son perduti i libri.
Ora Plotina imperadrice, che accompagnò sempre in tutti i suoi viaggi il marito Trajano, dacchè egli fu morto, non lasciò traspirare la di lui perdita, se non dappoichè ebbe concertato tutto per fargli succedere Publio Elio Adriano di lui cugino, giacchè non si sa che Trajano avesse mai figliuolo alcuno. La fama è varia intorno a questo punto. Crederono alcuni [Spartianus, in Vita Hadriani.], che fosse corso per mente a Trajano di lasciar l'imperio a Nerazio Prisco giurisconsulto di que' tempi, e che gli dicesse un giorno: A voi raccomando le provincie, se qualche disgrazia mi accadesse. Altri pensarono [Dio, lib. 69.] ch'egli avesse posti gli occhi sopra Serviano cognato di Adriano, ed altri fin sopra Lucio Quieto, che già dicemmo moro di nazione. Lo creda chi vuole. Vi fu chi disse essere stata sua intenzione di nominar dieci persone, lasciando poi la scelta del migliore al senato, dopo la sua morte. Nulla di ciò fu fatto. Solamente sul fin della vita adottò e nominò suo successore Adriano, e ciò per opera di Plotina Augusta e di Celio Taziano o sia Attiano, tutore di esso Adriano; perchè veramente Trajano non mostrò mai tenerezza alcuna di amore per lui, conoscendone assai i difetti; e l'avea bensì sollevato alla dignità di console, ma senza dargli cariche riguardevoli sussistenti: il che non si accorda con ciò che abbiam detto rivelato a lui da Licinio Sura [Spartianus, in Vita Hadriani.] nell'anno 109, cioè che fin d'allora Trajano meditava di adottarlo per suo figliuolo. Convengono nondimeno gli storici in dire, che [432] Plotina co' suoi maneggi portò il marito infermo a dichiararlo suo figliuolo e successore, siccome quella che, se vogliamo prestar fede a Dione [Dio, lib. 69.], era innamorata di Adriano: il che facilmente potè immaginar la malizia solita a far dei ricami alle azioni altrui, e massimamente dei grandi. Anzi non mancò chi credesse essere stata l'adozion di Adriano una tela interamente fatta da essa Plotina senza notizia e consentimento di Trajano, ed anche dopo la di lui morte, tenuta celata apposta per qualche dì, con fingere fatta da lui l'adozione suddetta. A questo sospetto diede qualche fondamento l'essere state spedite le lettere al senato coll'avviso di tale adozione, ma sottoscritte dalla sola Plotina. Fece la medesima Augusta per solleciti corrieri intendere ad Adriano la nuova dell'operato da Trajano (se pur tutta sua non fu quella fattura) nel dì 9 di agosto. Poscia nel dì 11 gli arrivò la nuova della morte di Trajano [Dio, ibid.]. Non perdè tempo Adriano a scriver lettere al senato, intitolandosi Trajano Adriano, e pregandolo di confermargli l'imperio, e protestando di non ammettere onore alcuno, ch'egli non avesse prima domandato ed ottenuto dal medesimo senato, con altre sparate di non voler fare se non ciò che fosse utile al pubblico, di non far morire alcun senatore, aggiungendo a tali proteste gravi giuramenti ed imprecazioni, se non eseguiva ciò che prometteva. Niuna difficoltà si trovò ad approvare la di lui successione, ben conoscendo i senatori, che, comandando egli al nerbo maggiore delle milizie romane, pazzia sarebbe il negare a lui ciò che colla forza potrebbe ottenere. Oltre di che l'esercito stesso della Soria, appena udita l'adozione di lui e la morte di Trajano [Spartianus, in Vita Hadriani.], l'avea riconosciuto per Imperadore: del che fece egli scusa col senato. Uscì Adriano di Antiochia, per veder le ceneri ed ossa [433] dello stesso Trajano, che Plotina sua moglie, Matidia sua nipote e Taziano portavano a Roma; e poscia se ne ritornò ad Antiochia, per dar sesto agli affari dell'Oriente, prima d'imprendere anch'egli il suo viaggio alla volta della Italia. Furono accolte in Roma esse ceneri colle lagrime e con un trionfo lugubre, ed introdotte in quella città sopra un carro trionfale, in cui si mirava l'immagine del defunto Augusto; e poscia collocate in un'urna d'oro sotto la colonna trajana, con privilegio conceduto a pochi in addietro, perchè non era lecito il seppellire entro le città [Eutropius, in Breviar.]. Egli certo fu il primo degl'imperadori che fossero entro Roma seppelliti. Scrisse Adriano al senato, acciocchè gli onori divini, secondo l'empio costume del gentilesimo, fossero compartiti a Trajano. Non sol questi, ma altri ancora, come templi e sacerdoti, decretò il senato alla di lui memoria; e per molti anni dipoi si celebrarono in onor suo i giuochi appellati Partici.
Anno di | Cristo CXVIII. Indizione I. |
Sisto papa 2. | |
Adriano imperadore 2. |
Consoli
Elio Adriano Augusto per la seconda volta, e Tiberio Claudio Fosco Alessandro.
Credesi che Trajano avesse all'anno precedente disegnato console Adriano per l'anno presente. Ma anche senza di questo, il costume era che i novelli Augusti prendessero il consolato ordinario nel primo anno del loro governo. Era nato Adriano nell'anno 76 della nostra Era, nel dì 24 di gennaio, per testimonianza di Sparziano [Spartianus, in Vita Hadriani.], da cui abbiam la sua vita. Ebbe per moglie Giulia Sabina, figliuola di Matidia Augusta, di cui fu madre Marciana Augusta, sorella di [434] Trajano. Perchè in sua gioventù comparve scialacquatore, si tirò addosso lo sdegno di Trajano, suo parente, e già suo tutore. Tuttavia tal era la sua disinvoltura e vivacità di spirito, che si rimise in grazia di lui, e ricevè anche molti onori da lui; ma non mai giunse in vita del medesimo ad essere accertato di succedergli nell'imperio a cagion del suo naturale, in cui quel saggio imperadore trovava bensì molte belle doti, ma insieme sapea scoprire non pochi vizii, quantunque Adriano si studiasse di dissimularli e coprirli. L'ambizione traspariva dalle di lui azioni e parole, molto più la leggerezza e l'incostanza; e sopra tutto, il suo essere stizzoso e vendicativo, facea temere che sarebbe portato alla crudeltà. Non si può negare, che la penetrazione del suo intendimento, la prontezza delle sue risposte, un'applicazione a tutto quanto può riuscir d'ornamento a persona nobile, l'aiutavano a brillar nella corte e negli uffizi a lui commessi. Prodigiosa era la sua memoria. Tutto quanto leggeva, lo riteneva a niente. Fu veduto talvolta in uno stesso tempo scrivere una lettera, dettarne un'altra, ascoltare e favellar con gli amici. Non si lasciava andar innanzi alcuno nella cognizion delle lingue greca e latina; sapea egregiamente comporre tanto in prosa che in versi, ed anche improvvisava talvolta con garbo [Dio, lib. 69.]. La medicina, l'aritmetica, la geometria le possedeva; dilettavasi di sonar vari strumenti, di dipignere, di lavorar delle statue; e la sua non mai sazia curiosità il portava a voler sapere di tutto, con insino inoltrarsi molto nel vanissimo studio della strologia giudiciaria, o nell'empio della magia. Lasciò anche dopo di sè vari libri di sua composizione in prosa e in versi. Suo maestro, o pure aiutante di studio, fu Lucio Giulio Vestinio, che servì poscia a lui divenuto imperadore di segretario, e vien chiamato sopraintendente alle biblioteche di Roma [435] greche e latine in una iscrizione [Thesaurus novus Inscription.]. Questo suo amore alle scienze ed arti cagion fu, che a' suoi tempi fiorirono in Roma le lettere, e vidersi i professori d'esse sommamente onorati e premiati, come attesta anche Filostrato [Philostratus, in Sophist.]. Piena era la sua corte di grammatici, musici, pittori, geometri ed altri simili. Spezialmente si compiaceva di conversar coi filosofi, poeti ed oratori, e li teneva bene in esercizio, proponendo loro stravaganti quistioni, per imbrogliarli, e rispondendo loro con egual vivacità tanto sul serio, che burlando. Per altro a misura del suo volubil cervello era anche bizzarro ed instabile il suo genio e gusto. E credendosi, per istare sopra gli altri come imperadore, di aver anche questa medesima superiorità nell'ingegno e nel sapere, portava nello stesso tempo invidia a chi parea sapere più di lui, con giugnere a maltrattarli, e a trovar da dire sopra tutte le lor fatiche, e, quel che è peggio, a perseguitarli. Facevasi anche ridere dietro, allorchè anteponeva ad Omero un certo cattivo poeta appellato Antimaco, Ennio a Virgilio, Catone a Cicerone, Celio a Sallustio. E questo suo maligno ed invidioso talento il trasse fino a screditar le azioni e le fabbriche di Trajano, quasichè egli andasse innanzi a quel grand'uomo nel giudizio e nel buon gusto. Ma questo per ora basti del novello imperadore Adriano, e intorno alle sue doti e costumi.
Dacchè fu egli creato imperadore, giudicò di non dover partire di Antiochia senza lasciare in istato quieto le cose d'Oriente [Dio, lib. 69. Spartianus, in Vita Hadriani.]. Avea ben Trajano aggiunto al romano imperio le provincie della Mesopotamia, dell'Assiria e dell'Armenia; ma il mantenere quelle provincie nella dovuta ubbidienza, non era da un Adriano, principe che s'intendea del mestier della guerra per parlarne in sua camera, non per esercitarlo in campagna, [436] perchè mal provveduto di coraggio e di pazienza nelle fatiche. Però si rivolse egli a' trattati di pace con Cosroe, già re de' Parti, e con quei popoli, contento di salvare la dignità del popolo romano: giacchè non si credea da tanto da poter conservar quelle conquiste. Cedette dunque l'Assiria e la Mesopotamia a Cosroe, mandandogli probabilmente il diadema, con ritener qualche ombra di superiorità, e riducendo il confine romano all'Eufrate, come era prima. Levò via Partamaspare, cioè quel re che Trajano avea dato ai Parti, costituendolo re in qualche di angolo quelle contrade. Permise anche ai popoli dell'Armenia l'eleggersi il loro re. Parve che in tutto questo egli cercasse d'estinguere la gloria di Trajano, di cui, per attestato di Eutropio [Eutrop., in Breviar.], si mostrò sempre invidioso. Fece poi anche per questo distruggere, contro il volere di tutti, il teatro fabbricato da esso Trajano nel Campo Marzio. Poco mancò che non restituisse ancora la Dacia ai Barbari. Impedito ne fu dalla persuasion degli amici, acciocchè non cadessero sotto il giogo barbarico tanti cittadini romani, che Trajano aveva inviato ad abitare colà. Creò Adriano sul principio due prefetti del pretorio, cioè Celio Taziano per gratitudine, avendolo avuto per tutore in sua gioventù, e per mezzano a salire in alto; e Simile per la moderazione ed onoratezza de' suoi costumi. Di questi ne dà un saggio lo storico Dione [Dio, lib. 69.] con dire che mentre Simile era solamente centurione, trovossi nella anticamera imperiale per andare all'udienza di Trajano. V'erano ancora molti altri da più di lui, cioè uffiziali primari che la desideravano anch'essi. Trajano il fece chiamare innanzi agli altri, ma egli si scusò con dire, essere contro l'ordine, che un par suo dovesse goder quest'onore, con fare intanto aspettare i suoi comandanti nell'anticamera. Accettò Simile con difficoltà la carica di prefetto, e da [437] lì forse a due anni, scorgendo che verso di lui s'era raffreddato Adriano, dimandò ed ottenne il suo congedo. Ritiratosi alla campagna, quivi per sette anni sopravvisse in tutta pace, comandando poi alla sua morte, che pel suo epitaffio si scrivesse come egli era stato settantasei anni sulla terra, ed esserne vissuto solamente sette. D'altro umore fu ben Taziano, perchè uomo violento. Egli sulle prime scrisse da Roma ad Adriano di levar dal mondo [Spartianus, in Vita Hadriani.] Bebio Marco prefetto di Roma, e Laberio Massimo, e Crasso Frugi, relegati nell'isole, come persone capaci di novità. Adriano non volle dar principio al suo governo con queste crudeltà. Alcune poi ne commise andando innanzi, e di queste diede la colpa ai consigli del medesimo Taziano. Depresse Lucio Quieto, valoroso uffiziale, con levargli la compagnia de' Mori, perchè si sospettava che aspirasse all'imperio. Mandò ancora Marzio Turbone ad acquetare un tumulto insorto nella Mauritania. Probabilmente verso la primavera di quest'anno Adriano, dopo aver dato ai soldati il doppio di quel regalo che solevano dare gli altri nuovi imperadori, e lasciato al governo della Soria Catilio Severo, si mise in viaggio per terra alla volta di Roma. Il senato gli avea decretato il trionfo. Lo ricusò egli, volendo che a Trajano, benchè defunto, si desse quest'onore. Perciò entrò in Roma sul carro trionfale, su cui era inalberata l'immagine di esso Trajano. Cominciò dipoi il suo governo, come far sogliono per lo più i principi novelli, con somma bontà e dolcezza, e con far bene a tutti. Diede un congiario al popolo romano [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.], e pare che n'avesse dato due altri nell'anno antecedente. Rimise alle città d'Italia tutto il tributo coronario, cioè quello che si solea pagare per le vittorie degl'imperadori, e per l'assunzione d'essi al trono. Lo sminuì anche alle provincie fuori d'Italia, benchè egli [438] pomposamente esprimesse, quanto allora lo stato si trovasse in gran bisogno di danaro, che ciò nonostante egli faceva quella remissione. Ciò nondimeno che gli produsse un incredibil plauso, fu l'aver condonato tutti i debiti [Dio, lib. 69.] che aveano le persone private da sedici anni in addietro coll'erario imperiale, tanto in Roma che in Italia, e nelle provincie spettanti all'imperadore, secondo la divisione d'Augusto, non sapendosi se questa liberalità si stendesse ancora alle provincie governate dal senato. Parla di questa sua memorabil generosità Sparziano, e ne conservarono la memoria le medaglie e le iscrizioni antiche [Panvinius, Fast. Consular. Spartianus, in Vita Hadriani.]. Se non fallano i conti del Gronovio [Gronovius de Sestertiis.], questa remissione ascese a ventidue milioni e mezzo di scudi d'oro: il che sembra cosa incredibile. Per dare maggior risalto a questa sua insigne azione, e per maggior sicurezza dei debitori, fece bruciar nella piazza di Trajano tutte le lor polizze ed obbigazioni. Apparisce dalle medaglie suddette, ch'egli appena creato imperadore prese i titoli di Germanico, Dacico e Partico, come se ancor questi fossero passati in lui coll'eredità di Trajano. Trovasi anche appellato Pontefice Massimo. Ma per conto del titolo di Padre della Patria, benchè il senato non tardasse ad esibirglielo, e tornasse da lì a qualche tempo ad offerirglielo, nol volle, sull'esempio di Augusto che tardi l'avea accettato.
Anno di | Cristo CXIX. Indizione II. |
Sisto papa 3. | |
Adriano imperatore 3. |
Consoli
Elio Adriano Augusto per la terza volta, e Quinto Giunio Rustico.
Perchè non abbiamo storici che abbiano con ordine di cronologia distribuite [439] le azioni di Adriano e di molti altri susseguenti imperadori, possiamo ben rapportar con sicurezza ciò che operarono, ma non già accertarne i tempi. Le stesse medaglie mancano in questi tempi di note cronologiche, perchè non vi si esprime, se non in generale, la podestà tribunizia e il consolato terzo, ripetuto sempre ne' susseguenti anni, perchè egli più non fu da lì innanzi console. Diede (forse nel precedente e non meno nel presente) dei sollazzi al popolo romano, troppo vago degli spettacoli, correndo il suo giorno natalizio, cioè [Dio, lib. 69.] il combattimento de' gladiatori, e molte cacce di fiere. Giorni vi furono, ne' quali cento lioni ed altrettante lionesse restarono uccisi. Tanto nel teatro che nel circo, dove si fecero altri giuochi, sparse dei doni separatamente agli uomini e alle donne. E perciocchè regnava in Roma l'abbominevole abuso, che nel medesimo bagno e nello stesso tempo si andavano a lavar uomini e donne, proibì così enorme indecenza. Durò [Spartianus, in vita Hadriani.] il suo consolato dell'anno presente solamente i primi quattro mesi, senza che si sappia chi gli fosse sostituito in quella dignità. Ed allora attese ad ascoltar e decidere le cause, che erano portate al senato. Meglio regolò le poste, acciocchè i magistrati delle provincie non avessero l'incomodo di provveder le vetture ai bisogni. Ordinò che da lì innanzi le pene dei condannati non si pagassero al fisco, cioè alla camera cesarea, ma bensì all'erario della repubblica. Accrebbe gli alimenti ai fanciulli e alle fanciulle orfane povere per tutta l'Italia, ampliando la bella istituzione che aveano dinanzi fatto i buoni imperadori Nerva e Trajano. Ai senatori, che senza lor colpa aveano sminuito molto del patrimonio che si esigeva per essere di quell'ordine eminente, diede egli il supplemento con pensioni ben pagate finchè egli visse. Per le spese occorrenti nell'ingresso [440] delle cariche a molti suoi amici poveri somministrò un buon aiuto di costa, e ciò fece ancora con alcuni che nol meritavano. Sovvenne ancora molte nobili donne, alle quali mancava il modo onesto di sostentar la vita. Scelse i più accreditati dell'ordine senatorio per i suoi domestici e familiari, e li teneva alla sua tavola. Fuorchè nel giorno suo natalizio, ricusò i giuochi circensi, che in altri tempi volle il senato decretare in onore di lui. Spesse volte ancora, parlando al senato e al popolo, protestò di voler far conoscere nel suo governo, ch'egli procurava il ben pubblico, e non già il proprio.
La cronica di Alessandria mette sotto questi consoli l'andata di Addano a Gerusalemme [Chr. Paschale, tom. I Histor. Byzantin.], per quietare i tumulti eccitati dai Giudei anche in quelle parti. Prese, se vogliam credere a quello storico, la città di Terebinto, e vendè schiavi al pubblico i Giudei quivi trovati. Atterrò il tempio di Gerusalemme; fabbricò ivi due piazze, un teatro ed altri edifizii. Divise quella città in sette rioni coi lor sopraintendenti, ed abolito il nome di Gerusalemme, volle che quella città dal suo si chiamasse Elia. Anche Eusebio [Eusebius, in Chron.] qualche cosa di ciò parla all'anno presente; e il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.] tien per fermo che allora seguisse il viaggio suddetto di Adriano, e che Gerusalemme fosse da lui rifabbricata. Ma non è l'autore della cronica alessandrina di tal peso, da dovergli tosto prestar fede in questo punto di cronologia, quando Dione e Sparziano nulla di ciò dicono verso i tempi presenti; e quello scrittore patentemente s'inganna in attribuire ad Adriano la distruzione del tempio accaduta nella guerra di Tito. Non è perciò, a mio credere, assai sussistente il viaggio colà di Adriano in questi tempi. Possiamo bensì tenere, che nell'anno presente i sediziosi Giudei facessero qualche movimento, [441] e restassero abbattuti, come scrive san Girolamo [Hieron., Comment. in Danymus, c. 9.], e vien accennato anche da Eusebio. Abbiamo inoltre da Eutropio [Eutrop., in Breviar.], che Adriano ebbe una sola guerra, di cui parleremo, nè questa la fece in persona, ma per mezzo di un suo generale.
Anno di | Cristo CXX. Indizione III. |
Sisto papa 4. | |
Adriano imperadore 4. |
Consoli
Lucio Catilio Severo e Tito Aurelio Fulvo.
Per quanto c'insegna Giulio Capitolino [Julius Capitolinus, in T. Antonino.], l'imperadore Antonino Pio fu prima nominato Tito Aurelio Fulvio o Fulvo, ed era stato console con Catilio Severo. Quando quello storico non prenda abbaglio, il secondo de' consoli dell'anno presente dovette essere il medesimo Antonino. Non Lucio Aurelio, come per errore è corso ne' fasti del padre Stampa, ma Tito Aurelio fu il prenome e nome d'esso console, come s'ha da un'iscrizione riferita dal Panvinio [Panvinius, in Fast. Consular.]. Ora all'anno presente, secondochè immaginò il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.] con altri, e non già al precedente, come volle il Tillemont, pare che s'abbia da riferire la guerra mossa [Dio, lib. 69.] dai Sarmati e dai Rossolani contro le terre dell'imperio romano. A questo avviso Adriano Augusto immediatamente mandò innanzi l'esercito romano, e poi, tenendogli dietro, arrivò anche egli nella Mesia, e si fermò al Danubio, frapposto fra lui e i nemici. Il Cellario [Cellar., Geogr.], che mette i Sarmati verso il mar Nero, e i Rossolani circa la Palude Meotide, non so come ben si accordi col racconto di questa guerra. Un dì la cavalleria romana, di tutte armi [442] guernita, all'improvviso passò a nuoto il Danubio: azione sommamente ardita, che mise tal terrore nei Barbari, che trattarono di pace [Euseb., in Chron.]. Lamentavasi il re de' Rossolani [Spartianus, in Vita Hadriani.], che gli fosse stata sminuita la pensione solita a pagarsegli dai Romani. Adriano, che abborriva i pericoli della guerra, il soddisfece, con accordar vergognosamente quanto il barbaro richiedea. Fu in questi tempi, che egli diede il governo della Pannonia e della Dacia a Marzio Turbone, ch'era stato presidente della Mauritania, conferendogli la medesima autorità che avea il governator dell'Egitto. Fors'anche allora fu ch'egli fece fabbricar nella Mesia una città, che da lui prese il nome di Adrianopoli, oggidì Andrinopoli, città molto cospicua tuttavia. Secondo l'ordine che tiene Sparziano nel suo racconto, parrebbe che appartenessero all'anno presente alcune crudeltà usate da esso Adriano. Dione [Dio, lib. 69.] sembra metterle molto prima, cioè all'anno 118 o 119. Siccome Adriano era principe diffidente e sospettoso, e che facilmente bevea quanto di male gli veniva riferito, così prestò fede a chi accusò Domizio Negrino d'aver macchinato contro la di lui vita: del qual delitto (vero o falso che fosse) furono creduti complici Cornelio Palma, Lucio Publicio Celso e Lucio Quieto, tutti e quattro personaggi di gran credito e nobiltà, e stati già consoli ordinari o straordinari. Ma non s'accordano insieme Dione e Sparziano. Il primo scrive che doveano ammazzare Adriano, allorchè era alla caccia; e l'altro, mentr'egli si trovava impegnato in un sagrifizio. Si può anche dubitare che un tal fatto accadesse quando Adriano si trovava nelle vicinanze di Roma, e non già nella Mesia. Ne scrisse Adriano al senato. Pare che queste persone prendessero la fuga, perchè Palma, per ordine del senato, fu ucciso in Terracina, Celso [443] a Baja, Negrino a Faenza, e Lucio in viaggio. Protestò dappoi Adriano, non essere accaduta la lor morte di commessione sua, e lo scrisse anche nella sua vita, libro che più non esiste. Ma per quanto egli dicesse [Dio, lib. 69.], comune credenza fu, che per insinuazioni segrete da lui fatte, il senato levasse a sì riguardevoli soggetti la vita; nè alcuno si sapea persuadere, che persone di tanta riputazione fossero giunte a meditar simile attentato. Lo stesso Adriano poi in qualche congiuntura non negò d'aver data la spinta alla lor morte, con rigettarne poi la colpa del consiglio sopra Taziano, prefetto del pretorio.
Nè fu questa la sola crudeltà usata da Adriano. Altre nobili e potenti persone credute colpevoli per la suddetta congiura, o per altre cagioni, ed in altri tempi, perderono la vita d'ordine suo, tuttochè l'astuto principe, anche con giuramento, attestasse d'essere in ciò innocente. Così in un altro anno egli fece levare dal mondo Apollodoro Damasceno [Dio, ibidem.]. Siccome di sopra accennammo, era questi un architetto mirabile. Avea fabbricato il maraviglioso ponte di Trajano sul Danubio. Sua fattura parimente furono la superba piazza di Trajano, l'Odeo ed il Ginnasio in Roma. Un giorno si trovava presente Adriano, allorchè l'Augusto Trajano ed Apollodoro trattavano di una di esse fabbriche, e volle anch'egli fare il saccente, come quegli che credea di sapere di tutto. Rivoltosegli Apollodoro gli disse: Andate di grazia a dipingere delle zucche: chè di questo non v'intendete punto. Questa ingiuria non si cancellò mai più dal cuor di Adriano, e fu cagione che mandò poi con de' pretesti quel valentuomo in esilio. Tuttavia maggior male per questo non gli avrebbe fatto; anzi in qualche tempo si servì di lui. Avvenne che Adriano fabbricò il tempio di Venere e di Roma, dove erano le magnifiche statue [444] di queste due falsamente appellate dee. Per prendersi beffe di Apollodoro ch'era fuori di Roma, e forse esiliato, gliene mandò il disegno, acciocchè intendesse che senza di lui si poteano far delle sontuose e belle fabbriche in Roma; e nello stesso tempo desiderò che dicesse il suo sentimento, se fosse o no con buona architettura formato quello edifizio. Rispose Apollodoro, che conveniva fabbricar quel tempio assai più alto, se avea da fare un'eminente comparsa sopra le alte fabbriche della Via sacra: ed anche più concavo, a cagion delle macchine che si pensava di fabbricar ivi segretamente, per introdurle poi nel teatro. Aggiugneva, che le maestose statue ivi poste non erano proporzionate alla grandezza del tempio, perchè se le dee avessero avuto da levarsi in piedi ed uscir fuori, non avrebbono potuto farlo. All'udir queste osservazioni, e al conoscere l'error commesso senza poterlo emendare, s'empiè di tanta rabbia e dolore Adriano, che privò di vita il troppo sincero architetto, degno ben d'altra mercede pel suo impareggiabil valore. Oh che bestia il signore Adriano! griderà qui taluno. Ma convien aspettare alquanto, perchè mirandolo in un altro prospetto fra poco, troveremo in lui tanto di buono da potere far bella figura fra i regnanti. Non so io ben dire in che luogo dimorasse Adriano, allorchè succedette la tragedia dei quattro consolari suddetti uccisi. Ben so ch'egli si trovava fuori di Roma [Spartianus, in Hadriano.], ed avvisato dalla grave mormorazione che si faceva per la morte di sì illustri personaggi, e ch'egli s'era tirato addosso l'odio di tutti, corse frettolosamente a Roma per prevenire i disordini. Quetò il popolo con dispensargli un doppio congiario. Mentre era lontano, gli avea anche fatto distribuire tre scudi d'oro per testa. Nel senato, dopo aver addotte le scuse dell'operato, giurò di nuovo che non avrebbe mai fatto morire senatore alcuno, se non era [445] giudicato degno di morte dal senato. Ma sotto i precedenti cattivi Augusti, un solo lor cenno bastava a far che il senato proferisse la sentenza di morte contra di chi incorreva nella loro disgrazia. Se non falla Eusebio [Euseb., in Chron.], in quest'anno ovvero nel seguente, un fiero tremuoto diroccò la città di Nicomedia, e ne patirono gran danno tutte le città circonvicine. Adriano generosamente inviò colà grandi somme di danaro per rifarle.
Anno di | Cristo CXXI. Indizione IV. |
Sisto papa 5. | |
Adriano imperadore 5. |
Consoli
Lucio Annio Vero per la seconda volta e Aurelio Augurino.
Fu Lucio Annio Vero avolo paterno di Marco Aurelio filosofo ed imperadore, di cui parleremo a suo tempo. Osservossi [Spartianus, in Hadriano.] in tutte le maniere di vivere d'Adriano Augusto una continua varietà, e una costante incostanza. Ora crudele, ora tutto clemenza: ora serio e severo, ora lieto buffone: avaro insieme e liberale: sincero e simulatore. Amava facilmente, ma facilmente passava dall'amore all'odio. S'è veduto com'egli trattò l'architetto Apollodoro, e pure abbiam da Sparziano, che non si vendicò di chi gli era stato nemico, allorchè menava vita privata. Divenuto imperadore, solamente non guardava loro addosso. E vedendo uno che più degli altri se gli era mostrato contrario, disse: L'hai scappata. Tutto ciò può essere, se non che per testimonianza del medesimo storico, Palma e Celso consoli, stati sempre suoi nemici nella vita privata, abbiam veduto qual fine fecero. In quest'anno gli venne troppo a noia Celio Taziano, che già dicemmo alzato da lui al grado di prefetto del pretorio, in guisa che, come dimentico di averlo avuto per tutore, e [446] per gran promotore della sua assunzione al trono, ad altro non pensava che a levarselo d'attorno. Non poteva sofferire la grand'aria di potenza che si dava Taziano; e perciò gli corse più volte per mente di farlo tagliare a pezzi. Se ne astenne, perchè era fresca la memoria dei quattro consolari uccisi, e l'odio che gliene era provenuto. Ma con tutto il suo guardarlo di bieco, non otteneva che Taziano chiedesse di depor quella carica. Gli fece per tanto dire all'orecchio, che era bene il chiederlo; ed appena ne udì l'istanza, che conferì la carica di prefetto del pretorio e Marzio Turbone, richiamato dalla Pannonia e Dacia. Creò senatore Taziano, dandogli anche gli ornamenti consolari, e dicendo che non avea cosa più grande con cui premiarlo. Anche Simile, l'altro prefetto del pretorio, siccome dissi all'anno 118, dimandò il suo congedo. Entrò nel suo posto Setticio Claro. Sì Turbone che Claro erano due personaggi di raro merito; ma anch'essi provarono col tempo, quanto instabile fosse l'amore e la grazia di questo imperadore. Per questa mutazion d'uffiziali parendo oramai ad Adriano d'aver la vita in sicuro, perchè di loro non si fidava più, andò a sollazzarsi nella Campania, dove fece del bene a tutte quelle città e terre, ed ammise all'amicizia sua le persone più degne ch'egli trovò in quel tratto di paese.
Ritornato a Roma Adriano, come se fosse persona privata, interveniva alle cause agitate davanti ai consoli e ai pretori; compariva ai conviti de' suoi amici, e se questi cadevano malati, due ed anche tre volte il giorno andava a visitarli. Nè solamente ciò praticò coi senatori; si stesero le visite sue anche ai cavalieri romani infermi, e insino a persone di schiatta libertina, sollevando tutti con buoni consigli, ed aiutando chiunque si trovava in bisogno. Gran copia d'essi amici volea sempre alla sua mensa. Alla suocera sua, cioè a Matidia [447] Augusta, nipote di Trajano, compartì ogni possibil onore, allorchè si faceano i giuochi de' gladiatori, e in altre occorrenze. Ebbe sempre in sommo onore Plotina Augusta, vedova di Trajano, da cui conosceva l'imperio. E a lei defunta fece un suntuoso scorruccio. Gran rispetto ancora mostrava ai consoli, sino a ricondurli a casa terminati ch'erano i giuochi circensi. Anche con la più bassa gente parlava umanissimamente, detestando i principi che colla loro altura si privano del contento di mandar via soddisfatte di sè le persone. Con queste azioni prive di fasto, piene di clemenza [Dio, lib. 69.], si procacciava l'affetto del pubblico; e lodavasi nel medesimo tempo la continua sua attenzione al buon governo; la sua magnificenza nelle fabbriche; la sua provvidenza ne' bisogni occorrenti, e specialmente nel mantenere l'abbondanza de' viveri al popolo. Assaissimo ancora piaceva il non esser egli vago di guerre, che d'ordinario costano troppo ai sudditi. Tanto le abborriva egli, che se ne insorgeva alcuna, più tosto si studiava di aggiustar le differenze coi negoziati, che di venir all'armi. Non confiscò mai i beni altrui per via d'ingiustizie; troppo si pregiava egli di donare il suo ad altri, non già di far sua la roba altrui. In fatti grande fu la sua liberalità verso moltissimi senatori e cavalieri; nè aspettava egli d'essere pregato; bastava che conoscesse i lor bisogni per correre spontaneamente a sovvenirli. Se gli poteva parlare con libertà, senza ch'egli se l'avesse a male. Avendogli una donna dimandata giustizia, rispose di non aver tempo di ascoltarla. Perchè siete voi dunque imperadore? gridò la donna. Fermossi allora Adriano, con pazienza l'ascoltò, e la soddisfece. Un di ne' giuochi de' gladiatori al popolo non piacea quel che si facea, e con importune grida dimandava all'imperadore, che se ne facesse un altro. Comandò Adriano all'araldo che gli era vicino, [448] di dire imperiosamente al popolo che tacesse, come solea far Domiziano. Ma l'araldo fatto cenno al popolo di dovergli dir qualche parola a nome del regnante, altro non disse se non: Quel che ora si fa, è di piacere dell'imperadore. Non si offese punto Adriano, che l'araldo avesse contro l'ordine suo parlato con tal mansuetudine al popolo, anzi il lodò d'aver così fatto. Credesi ch'egli in quest'anno fabbricasse un circo in Roma. Comincia il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] nell'anno 120 i viaggi di Adriano fuori di Italia; il Pagi [Pagius, Crit. Baron.] nell'anno 121. Io mi riserbo di parlarne all'anno seguente.
Anno di | Cristo CXXII. Indizione V. |
Sisto papa 6. | |
Adriano imperadore 6. |
Consoli
Manio Acilio Aviola, e Cajo Cornelio Pansa.
Per accertar gli anni precisi, ne' quali Adriano Augusto imprese ed eseguì tanti suoi viaggi, non ci ha provveduti la storia di lumi sufficienti. Nè occorre volgersi alle medaglie, nelle quali veramente sono accennati questi suoi viaggi, perchè esse non ritengono vestigio del tempo. L'Occone e il Mezzabarba [Mediobarbus, in Numism. Imperat.] le han distribuite a tentone per varii anni, senza poterne addurre il perchè. Sia dunque lecito a me il tener qui con esso Mezzabarba e col Bianchini [Blanchinius, ad Anastasium.], che in quest'anno cominciasse Adriano a viaggiare. Parte per curiosità, e parte per farsi rinomare, si era egli messo in testa di voler visitare tutto il vasto imperio romano; cosa non mai fatta da alcuno de' predecessori. Venne dunque, a mio credere, nell'anno presente per l'Italia, e passò nella Gallia [Spartianus, in Hadriano.], dove delle sue azioni altro non si sa, se non che sollevò [449] colla sua liberalità quanti bisognosi a lui ricorsero. Certo è che questo suo genio ambulatorio tornava in profitto delle provincie [Dio, lib. 69.] dove egli arrivava; imperocchè a guisa di un ispettore s'informava co' suoi occhi, e col saggio esame delle cose, se i magistrati faceano il lor dovere, oppur mancavano alla giustizia, e quali fossero gli abusi, per rimediare a tutto; nel che maravigliosa era non meno la di lui attività e provvidenza, che la sua costanza in degradare o punire in altre forme i delinquenti. Volea saper tutte le rendite e gli aggravi delle città; visitava tutte le fortezze, per osservare se erano ben tenute e munite, ordinando che si provvedesse quel che mancava, distruggendo ciò che non gli piacea, e comandando, se occorreva, delle fabbriche nuove in altri siti. Dalla Gallia passò nella Germania romana. A que' confini distribuito stava a quartiere il maggior nerbo delle milizie romane sempre all'ordine per opporsi ai Germani non sudditi, i quali più che altra nazione furono sempre temuti e rispettati dai Romani. Era Adriano, quanto altri mai, peritissimo dell'arte militare, e sembra ch'egli anche ne componesse un libro, come altrove ho io accennato [Antiquit. Italicar., tom. 2, Dissert. 26.]. Adunque senza perder tempo, si applicò alla visita de' luoghi forti, esaminando le fortificazioni, l'armi, le macchine militari; e come se fosse imminente la guerra, diede la mostra a tutte quelle legioni, e premiò e promosse a gradi superiori chi sel meritava; fece far l'esercizio a tutti. Trovati moltissimi abusi introdotti nella milizia per trascuratezza dei principi e generali precedenti, si mise al forte, per rimettere in piedi l'antica disciplina romana fra que' soldati. Diede ordini bellissimi intorno a varii impieghi degli uffiziali, e alle spese che si facevano. Levò via dagli alloggiamenti de' soldati (che erano obbligati ad abitar sotto le tende alla [450] campagna) i portici, i pergolati, le grotte ed altre delizie. Niuno de' soldati senza giusta cagione potea uscire del campo. Per divenir centurione (noi diremmo capitano) bisognava aver buona fama e robustezza di corpo. Essere non potea tribuno (noi diremmo colonnello) se non chi era giunto ad una perfetta giovanezza, accompagnata inoltre dalla prudenza. Lecito non era ai tribuni l'esigere o ricevere alcun dono o danaro dai soldati. E per conto de' medesimi soldati disaminò attentamente le loro armi, il lor bagaglio, la loro età, acciocchè niuno prima degli anni diecisette fosse assunto alla milizia, nè fosse tenuto a militar più di trenta, se non voleva. Nell'esattezza della disciplina precedeva egli a tutti, animando col proprio esempio le sue leggi. Mangiava in pubblico, altro cibo non prendendo che l'usato dai soldati gregari, cioè lardo, cacio e posca, o sia acqua mischiata d'aceto. Talvolta armato fece venti miglia a piedi; bene spesso usava vesti dimesse, non dissomiglianti da quelle de' soldati. L'usbergo suo era senza oro, le fibbie senza gemme, di avorio solamente il pomo della spada. Visitava i soldati infermi; disegnava i siti degli accampamenti; sopra tutto badando che non si comprassero robe inutili, nè si desse a mangiare a persone oziose. Da questo poco si può comprendere la saviezza degli antichi Romani nel ben disciplinare la loro milizia.
Sbrigato della Germania Adriano, si crede che nell'anno stesso, cioè come io vo congetturando, nel presente passasse alla visita della gran Bretagna [Spartianus, in Hadriano.]. Quivi ancora trovò molti abusi, e li corresse. Erano i Romani in possesso di buona parte di quell'isola; ma nel principio del governo di Trajano vi era stata qualche ribellione o tumulto in quelle parti. Certo è che la parte settentrionale non ubbidiva all'aquile romane. Per assicurarsi dunque Adriano dagl'insulti di [451] que' Barbari, gente feroce e temuta, ordinò che si fabbricasse un muro lungo ottanta miglia, il qual dividesse i confini romani dalle terre d'essi Barbari. Credono gli eruditi Inglesi, che questo muro fosse nella provincia del Northumberland verso il fiume Tin, e che ne restino tuttavia le vestigia. Ebbe fra le altre cose in uso Adriano di tener delle spie, non tanto per saper tutto ciò che si faceva in corte, quanto ancora per indagar tutt'i fatti particolari de' suoi cortigiani ed amici. Al qual proposito si racconta, che avendo una dama scritto al marito, lamentandosi dello star egli tanto tempo lontano, e del perdersi nei bagni ed in altri piaceri: lo seppe Adriano, e venuto quel tale a prendersi commiato, gli disse ch'era bene l'andare e l'abbandonare ormai i bagni e i piaceri. Il cavaliere non sapendo di che mezzi si servisse Adriano per iscoprire i fatti altrui, allora rispose: L'ha forse mia moglie scritto anche a voi, siccome ha fatto a me? Ora dovette Adriano essere avvisato da Roma, che Svetonio Tranquillo, autore delle Vite dei dodici primi Cesari, che allora serviva in corte nel grado di segretario delle lettere, e Setticio Claro, prefetto del pretorio, ed altri, praticavano troppo familiarmente con Sabina sua moglie, non mostrando quella riverenza che si dovea alla casa dell'imperadore. Di più non vi volle, perchè egli levasse loro le cariche. Aggiungono, ch'era anche disgustato della stessa Sabina sua moglie, perchè gli parea donna aspra e schizzinosa: laonde ebbe a dire, che s'egli fosse stato persona privata, l'avrebbe ripudiata. Succedette in questi tempi qualche fastidiosa sedizione in Egitto. Adoravano que' popoli il dio Apis sotto figura di un bue macchiato; e morendo questo, si cercava un vitello che avesse le medesime macchie. Dopo molti anni trovato questo dio bestia, gran gara, anzi un principio di guerra insorse fra le città, pretendendo molte d'esse di doverlo nutrire nel loro tempio. A questo [452] avviso turbato Adriano, dalla Bretagna tornò nella Gallia, e venne a Nimes in Provenza, dove d'ordine suo fu fabbricata una maravigliosa basilica in onore di Plotina Augusta, già moglie di Trajano. A lui ancora, o pure ad Antonino, vien attribuita la fabbrica dell'anfiteatro, in parte ancora sussistente, ed un ponte ed altre antichità di quella città. Di là poi si portò in Ispagna, e passò il verno in Tarragona.
Anno di | Cristo CXXIII. Indizione VI. |
Sisto papa 7. | |
Adriano imperadore 7. |
Consoli
Quinto Aprio Petino e Lucio Venulejo Aproniano.
I più degl'illustratori de' Fasti consolari danno il nome di Cajo Ventidio Aproniano al secondo di questi due consoli. Io, fondato sopra un embrice o mattone, tuttavia esistente nell'insigne museo del Campidoglio [Thesaurus Novus Inscription., pag. 321, num. 6.], l'ho appellato Lucio Venulejo. Ma in un altro mattone, riferito dal Fabretti [Fabrettus, Inscription., pag. 509.], egli ha il prenome di Tito, e non già di Lucio. Sembra che sotto Nerva s'introducesse l'uso continuato di poi per molti anni, d'imprimere ne' mattoni, e in altri materiali di terra cotta, oltre al nome della bottega o sia della fornace, quello ancora de' consoli per denotar l'anno. Passò Adriano, siccome già accennai, il verno in Tarragona, dove egl'incontrò un pericoloso accidente. Mentre egli un dì passeggiava per un giardino, gli venne incontro furiosamente colla spada nuda un servo del padrone di quella casa. Adriano bravamente si difese, e fermato il micidiale, consegnollo alle guardie [Spartian., in Hadriano.]. Trovossi che il cervello avea data volta a costui. L'imperadore con esempio di rara moderazione il fece curar dai medici, nè [453] volle fargli alcun male. In quella città riparò egli a sue spese il tempio d'Augusto. Ordinò una leva di gente, ma vi trovò delle difficoltà, tuttavia con tal prudenza e destrezza maneggiò gli animi di que' popoli, che ottenne l'intento suo. Motivo di stupore fu, che trovandosi egli in Ispagna, non andasse a visitar la sua patria Italica. Sappiamo nondimeno che le fece di gran bene; ed Aulo Gellio [Gellius, lib. 16, cap. 13.] cita un discorso da lui fatto in senato, allorchè Italica, Utica ed altre città che godeano la libertà dei municipii, dimandarono d'aver delle colonie romane: il che parve strano, essendo migliore la condizion dei municipii, che quella delle colonie. Qualche torbido dovette seguire circa questi tempi nella Mauritania, provincia dell'Africa. Adriano felicemente lo quietò. Deducendosi dalle medaglie [Mediobarbus, Numism. Imper.], che anche in persona a quella provincia egli si trasferì, il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] si figura che questo accadesse nell'anno presente. Ma il Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] pensa ciò avvenuto più tardi. Dicendo poi Sparziano [Spartianus, in Hadriano.], che in questi tempi vi fu un principio di guerra coi Parti, il quale con un abboccamento seguito fra esso Adriano e forse con Cosroe re di quella nazione, in breve fu posto fine: potrebbe taluno argomentare, che Adriano passasse dalla Spagna e dalla Mauritania in Soria. Il salto a me par troppo grande. Si tien parimente, che egli andasse dipoi ad Atene, dove si fermò per tutto il verno seguente. Con tal supposizione pare che possa accordarsi l'avere scritto Eusebio [Eusebius, in Chron.], che Adriano, fattagli istanza di nuove leggi dal popolo ateniese, formò un estratto di quelle di Dracone, Solone ed altri legislatori, e loro le diede.
Anno di | Cristo CXXIV. Indizione VII. |
Sisto papa 8. | |
Adriano imperadore 8. |
Consoli
Manio Acilio Glabrione e Cajo Bellicio Torquato.
Perchè si sono smarrite tante antiche storie, e massimamente la vita di sè stesso scritta da Adriano, noi ci troviamo ora troppo intrigati a seguitar questo imperadore ne' suoi viaggi, e ci convien solamente per congetture rapportare a questo ed a quell'anno i suoi passi. Camminando dunque sul supposto che Adriano soggiornasse nel presente verno ad Atene, ne sarebbe seguito ciò che scrive Eusebio nella sua Cronica, cioè, che essendo uscito del suo letto il fiume Cefiso, ed avendo inondata la città di Eleusi o sia Eleusina, egli fabbricò un ponte sopra quel fiume, e verisimilmente lo fece arginar con delle muraglie, in maniera che più non potesse farle di queste burle. Quindi pare ch'egli si portasse alla visita della Bitinia, Macedonia, Cappadocia, Cicilia, Frigia, Pamfilia, Licia, Armenia, e d'altri paesi dell'Asia e dell'isole adiacenti. Ci sono medaglie di tali provincie, che il nominano lor ristauratore; imperciocchè in niun luogo andava egli, che non vi lasciasse dei benefizii, con esenzioni e privilegii, o con fabbriche degne di un par suo. Dione [Dio, lib. 69.] attesta ch'egli magnificamente aiutò ed abbellì le città da lui visitate, chi con danari, chi con acquedotti o porti, chi con templi, ed altri pubblici edifizii, o con accrescimento d'onori. Sotto l'antecedente anno l'autore della cronica alessandrina [Chron. Paschale. Histor. Byzantin.] scrive che Adriano edificò le piazze di Nicomedia e di Nicea, e i Crociali, e le mura che guardano verso la Bitinia. Fabbricò inoltre il tempio di Cizico, e in quella città selciò di marmi la piazza. Colla stessa generosità in molte [455] altre illustri città alzò vari templi, e varie statue fece mettere in essi. Aggiugne lo storico Dione, che nella maggior parte delle città, dove si lasciò vedere, fabbricò de' teatri, e v'istituì dei combattimenti annuali. Così dappertutto risuonava la fama e il nome di Adriano, come di comune benefattore di tutto il romano imperio. Varie iscrizioni in testimonianza di questo ho anch'io rapportato altrove [Thesaurus Novus Inscript., tom. 1.]. Non è inverisimile, che verso il fine dell'anno egli si riducesse di nuovo ad Atene, città sopra le altre a lui cara, e quivi soggiornasse ne' mesi del verno, moltiplicando le grazie verso quella città. In essa volle anche esser presidente dei pubblici giuochi e combattimenti. Fu osservato che molti de' Greci portavano dei coltelli, anche andando ai lor templi. O per ordine o per riverenza di Adriano niuno osò allora di portarli.
Anno di | Cristo CXXV. Indizione VIII. |
Sisto papa 9. | |
Adriano imperadore 9. |
Consoli
Publio Cornelio Scipione Asiatico, per la seconda volta, e Quinto Vettio Aquilino.
Camminando noi sul supposto, che Adriano Augusto soggiornasse nel presente verno in Atene, allora dovette succedere ciò che narra Sparziano, cioè ch'egli volle intervenire [Spartianus, in Hadriano.] alle sacre feste di Cerere, che si faceano nella città di Eleusi o sia Eleusina. Rinomati erano i misteri di que' sacerdoti, cioè i riti e le cerimonie che si adoperavano nel culto di quella falsa deità, appunto perchè segreti e non veduti dal popolo. Per grazia pochi si ammettevano alla conoscenza e participazione di sì fatte superstizioni ed imposture. Adriano, ad esempio d'Ercole e di Filippo il Macedone, ne volle essere partecipe, e farsi ascrivere [456] al ruolo di que' divoti. Venne poi da Atene a visitar le città della Sicilia, ed anche ivi è da credere che con larga mano spargesse benefizii, dacchè abbiamo una medaglia, in cui vien appellato Restitutore della Sicilia. Volle quivi visitare il monte Etna, per vedere la nascita del sole, la quale si dicea che rappresentava l'arco baleno. Dopo tante girate finalmente si restituì a Roma.
Anno di | Cristo CXXVI. Indizione IX. |
Sisto papa 10. | |
Adriano imperadore 10. |
Consoli
Marco Annio Vero per la terza volta, ed Eggio Ambibulo.
Il primo de' consoli Annio Vero, sappiam di certo che fu avolo paterno di Marco Aurelio imperadore; non così certo è il suo prenome di Marco. Ho io appellato il secondo Eggio Ambibulo, fondato sopra un'iscrizione da me rapportata altrove [Thesaurus Novus Inscript., p. 323, n. 2.], ed esistente nel Museo Capitolino. Credette il cardinal Noris [Noris, Espistol. Consular.], ch'egli portasse i nomi di Lucio Vario Ambibulo, adducendone per prova due iscrizioni riferite dal Reinesio. Ma i marmi reinesiani non dicono che quel Lucio Vario Ambibulo fosse console, e perciò nulla si oppongono al marmo da me sopra citato. Il padre Pagi [Pagius, Critic. Baron.] pieno della idea de' quinquennali, decennali, quindecennali, ec. degl'imperadori, de' quali sì spesso favella, pretende che il motivo d'Adriano per tornare a Roma, fosse affin di celebrare in quest'anno le feste che si usavano, allorchè gli Augusti compievano il decimo anno del loro imperio. Eusebio [Eusebius, in Cron.], con cui vanno concordi l'autore della cronica alessandrina, e Paolo Orosio, scrive che nel presente anno dal senato romano fu conferito ad Adriano il titolo di Padre della Patria, e a Giulia [457] Sabina sua moglie quello di Augusta. Ma che ciò succedesse in quest'anno, si può giustamente dubitarne, trovandosi iscrizioni [Gruterus, Thesaur. Inscript.] e medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imp.], nelle quali prima di questi tempi Adriano si vede intitolato Padre della Patria. Abbiamo poi da Sparziano [Spartianus, in Hadriano.] che continuando questo imperadore nel desiderio di visitar tutte le provincie dell'imperio, dopo essersi fermato qualche tempo in Roma, passò in Africa, dove non men si fece conoscere liberale di grazie e di benefizii verso quelle città, che fosse stato verso le altre di sopra menzionate. Veggonsi medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imp.], nelle quali è appellato Ristoratore dell'Africa, della Mauritania, della Libia. Terminata poi la visita di quelle provincie, tornò a Roma, per quivi soggiornare nel verno.
Anno di | Cristo CXXVII. Indizione X. |
Telesforo papa 1. | |
Adriano imperadore 11. |
Consoli
Tiziano e Gallicano.
Finora non si sono scoperti in sicure memorie i prenomi e i nomi di questi consoli. Assai fu in uso de' Romani il distinguere le persone nobili, una dall'altra coll'ultimo lor cognome, o sia soprannome. Questo solo dovea bastare per intendere chi fosse l'uno e l'altro de' consoli. Opinione poi fondata è, che in quest'anno succedesse il glorioso martirio di san Sisto papa, in cui luogo nella cattedra di san Pietro fu sustituito Telesforo. Quanto tempo si fermasse in Roma Adriano, non si sa. Sembra bensì credibile, che ogni qualvolta egli tornava a Roma, rallegrasse il popolo con un congiario, e con altre fogge di regali. Le medaglie [Idem, ibid.] ci hanno conservata la memoria di varie Liberalità di Adriano, e ne contano fin sette. Secondochè scrive [458] Sparziano [Spartianus, in Hadriano.], si rimise poi in viaggio il non mai stanco Augusto, per visitare un'altra volta la Grecia e l'Asia, verisimilmente bramoso di conoscere, se le fabbriche già da lui ordinate in varie città, fossero compiute. Tali trovò quelle che egli avea disegnato in Atene, e celebrò la festa della lor dedicazione. Fra gli altri suntuosi edifizii, ch'egli fece fabbricare in Atene, si contò quello di Giove Olimpio, il quale sembra, siccome dirò, compiuto solamente nell'anno 134. In alcune iscrizioni [Thesaurus Novus Inscript., p. 235.] da me date alla luce, egli è chiamato Adriano Olimpio. Sembra ancora che l'adulazione greca arrivasse a dare a lui il titolo di Giove Olimpio: il che, se fosse, sarebbe da cercare chi più meritasse il nome di pazzo, o chi lo dava o chi lo riceveva. Oltre a ciò si osserva nelle iscrizioni suddette, che dimorando Adriano in Atene, varie città gli spedirono ambasciatori, per rallegrarsi del di lui felice ritorno in quelle parti. Pare anche verisimile, ch'egli innamorato di Atene, si fermasse ivi tutto il seguente verno. Troppo si compiaceva egli di trovarsi tra i filosofi e le persone letterate. Di queste tuttavia era doviziosa la scuola d'Atene; e sopra gli altri furono in gran credito alla corte di Adriano Epitteto, insigne filosofo stoico, di cui ci restano il manuale, operetta aurea, e molti suoi documenti nel libro di Arriano suo discepolo; e Favorino sofista, o sia oratore, dottissimo tanto nella latina che nella greca lingua, di cui molto parla Aulo Gellio [Spartianus, in Hadriano.]. Di lui si racconta [Aulus Gellius, Noct. Attic.] che avendogli un giorno Adriano, principe uso di fare l'arcifanfano nelle lettere, riprovata una parola, adoperata da esso oratore in qualche scritto, dopo breve contrasto Favorino gliela diede vinta. Rimproverandolo poscia di codardia gli amici suoi, perchè quella era parola buona, autenticata dall'uso [459] fattone da alcuni accreditati scrittori, egli saporitamente ridendo, loro rispose: Trattandosi di uno che ha trenta legioni al suo comando, non volete voi ch'io il creda più dotto di me? Ma cadde egli in fine dalla grazia di Adriano, perchè non sapea questo capriccioso e volubile Augusto sofferir lungamente chi potea far ombra al preteso suo universal sapere. E se n'avvide Favorino, allorchè fu per trattare una sua causa davanti a lui, pretendendo l'esenzione dal sostenere le cariche della sua patria Arles nella Gallia. Conobbe assai, che Adriano era per dargli la sentenza contro; e però quando si credea ch'egli venuto al contradditorio perorasse per la sua pretensione, altro non disse, se non che apparitogli la notte in sogno il suo maestro (forse Dione Grisostomo) l'avea esortato a non lasciarsi increscere di far quello che faceano gli altri suoi concittadini. Aveano gli Ateniesi eretta a quel filosofo una statua. Inteso ch'egli era decaduto dal favore di Adriano, corsero ad abbatterla [Philostratus, in Sophistis.]. Ne fu portata la nuova a Favorino, ed egli senza punto scomporsi, rispose: Avrebbe ben voluto Socrate essere trattato dagli Ateniesi a così buon mercato. Anche Dionisio da Mileto, eccellente sofista, godè un tempo della grazia di Adriano; ma perchè un giorno gli scappò detto ad Eliodoro segretario delle lettere di esso imperadore; Cesare ti può ben caricar di onori e di ricchezze, ma non ti può far divenire oratore, Adriano l'ebbe da lì innanzi in odio. Per altro questo imperadore, siccome ho detto di sopra, s'intendeva di tutte le arti e scienze, e lasciò scritti vari libri, di dicitura per lo più scura ed affettata, ed uno massimamente della sua vita. Ma usava di pubblicarli sotto nome de' suoi liberti, uno de' quali fu Flegonte, di cui tuttavia resta un'operetta degli Avvenimenti maravigliosi, e che compose molti altri libri.
Anno di | Cristo CXXVIII. Indizione XI. |
Telesforo papa 2. | |
Adriano imperadore 12. |
Consoli
Lucio Nonio Asprenate Torquato per la seconda volta, e Marco Annio Libone.
Fu quest'Annio Libone zio paterno di Marco Aurelio, poscia imperadore, come si ricava da Giulio Capitolino [Capitolinus, in Marco Aurelio]. Seguitando quella poca traccia che dei viaggi di Adriano ci ha lasciato Sparziano [Spartianus, in Hadriano.], possiam credere ch'esso Augusto nell'anno presente da Atene ripassasse nell'Asia, per osservare se ivi ancora erano stati eseguiti gli ordini suoi, e perfezionate le fabbriche e i lavori da lui nel primo suo viaggio disegnati. In fatti vi fece la consecrazione di molti templi, appellati di Adriano. Andò nella Cappadocia, e quivi raunò gran copia di servi o sia schiavi per servigio delle armate, e non già per farli soldati. A tutti i re e principi barbari di quelle vicinanze fece sapere il suo arrivo, per confermar la buona amicizia con tutti. Molti di essi vennero ad attestargli il loro ossequio, e Adriano li trattò e regalò così generosamente, che si trovarono ben pentiti coloro i quali ebbero difficoltà di venire ad inchinarlo. Più degli altri se ne pentì Farasmane, probabilmente re dell'Iberia, che con insolente alterigia avea ricusato di comparire davanti a lui. Tuttavia Sparziano più di sotto scrive, che Adriano fece dei gran donativi a molti di quei re, comperando la pace dalla maggior parte di essi; ma verso niuno fu così liberale, come verso il re dell'Iberia, al quale, oltre ad altri magnifici regali, donò un lionfante e una coorte di cinquecento uomini d'armi. Farasmane anch'egli dal canto suo gl'inviò de' superbi donativi, e fra essi delle vesti di tela d'oro. Ma Adriano, per deridere i di lui regali, ordinò [461] che trecento uomini condannati a morte andassero a combattere nell'anfiteatro, vestiti di tela d'oro. Invitò anche Cosroe re de' Parti, con rimandargli la figliuola, già presa da Trajano, e con promettergli la restituzione del trono d'oro, ma senza mantenergli poi la parola. Era la vanità principal compagna di Adriano in tutti questi viaggi. Abbiamo da Arriano [Arrianus, de Pont.], che questo imperadore diede dei re ai popoli de' Lazii, degli Abasgi, de' Sanigi e degli Zughi, tutti situati verso le parti del mar Nero. Continuando egli poscia a girar per le provincie romane, poste nell'Asia, quanti uffiziali ritrovò che si erano abusati delle loro autorità in pregiudizio de' popoli, severamente li gastigò, e a molti tolse la vita. Venuto nella Soria, ebbe sopra tutto in odio il popolo di Antiochia, senza che ne apparisca il motivo: di modo che pensò di separar la Fenicia dalla Soria, acciocchè Antiochia non fosse in avvenire capo di tanto paese. E che in fatti la separasse, e ch'egli veramente venisse in quest'anno nella Soria, lo prova il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.] colle antiche medaglie. Certo è, che gli Antiocheni si pregiavano di una lingua tagliente. Forse li guardò di mal occhio per questo. Volle poi visitare il monte Casio, dove situato era un rinomato tempio di Giove, e salì colà di notte, per veder la mattina nascere il sole; ma insorse un temporale, la cui pioggia il bagnò, e un fulmine cadde sopra la vittima, mentre egli preparava il sagrifizio. Passò in appresso Adriano dalla Soria nell'Egitto.
Anno di | Cristo CXXIX. Indizione XII. |
Telesforo papa 3. | |
Adriano imperadore 13. |
Consoli
Quinto Giulio Balbo e Publio Giuvenzio Celso per la seconda volta.
Celso fu un insigne giurisconsulto di questi tempi. Ad essi ordinari consoli furono sostituiti Cajo Nerasio Marcello e Gneo Lollio Gallo, siccome osservò il Panvinio [Panvinius, in Fastis Consul.], con produrre un'iscrizione antica. Un'altra data alla luce dal canonico Gorio [Gorius, in Inscript. Etrur.], ci fa vedere consoli insieme Giuvenzio per la seconda volta, e Marcello anch'esso per la seconda: laonde si può dubitare che Balbo fosse mancato di vita prima di compiere i mesi del suo consolato, o ch'egli prima del collega scendesse. Scrisse Sparziano [Spartianus, in Hadriano.] che essendo stato Adriano tre volte console promosse molti altri al terzo consolato, ed infiniti al secondo; il che sembra da lui detto con troppa esagerazione. Che nell'anno precedente venisse Adriano nell'Egitto, e viaggiasse nel presente infaticabilmente per quei paesi, lo provò il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.] colle medaglie battute da varie città egiziane nell'anno 11 di esso Adriano. Ora in quest'anno egli fece il viaggio per l'Arabia, e di là tornò a Pelusio, dove fece con maggior magnificenza rifare il sepolcro di Pompeo il Grande. Mentr'egli navigava pel Nilo, perdè Antinoo, giovinetto nato in Bitinia, di rara bellezza, suo gran favorito, ma come si credeva per motivi degni della detestazione di tutti. Nella cronica di Eusebio appunto sotto quest'anno è riferita la di lui morte. Fece correre voce Adriano, che Antinoo caduto nel Nilo si fosse affogato. Ma per testimonianza di Sparziano [Spartianus, in Hadriano.] e di [463] Dione [Dio, lib. 69.], opinion comune fu che Antinoo offerisse ai falsi dii la volontaria sua morte, per soddisfare a una bestial curiosità o empia superstizione di Adriano, il quale vago della magia, o credulo alle imposture del gentilesimo [Aurelius, in Epitome.], si figurò di prolungar la sua vita coll'iniquo sacrifizio di questo giovine; oppure, come pensò il Salmasio, volle cercar nelle viscere di lui l'augurio dei fatti avvenire. Comunque sia, certo è, per attestato di Sparziano, che Adriano pianse la morte di Antinoo, come fan le donnicciuole; poscia per consolar sè stesso, e ricompensare il defunto giovinetto, il fece deificare dai Greci; pazza e ridicola risoluzione, per tale riconosciuta anche dagli stessi Gentili, ma specialmente dai Cristiani d'allora, che si servirono di questa empia buffonata per maggiormente screditare la stolta religion de' Pagani, come si può vedere ne' libri di san Giustino, di Tertulliano, di Origene e d'altri difensori della santa religione di Cristo. Ma che non sa far l'adulazione? Per guadagnarsi merito con Adriano, i popoli accettarono questo novello dio, gli alzarono statue per tutto l'imperio romano; più templi furono fabbricati in onore di lui, con sacerdoti apposta, i quali incominciarono anche a fingere ch'egli dava le risposte come un oracolo. E gli strologhi, osservata in cielo una nuova stella, non ebbero vergogna di dire che quell'era Antinoo trasportato in cielo. Lo stesso Adriano, con dire di vederlo colà, dava occasion di ridere alla gente savia. Fece egli dipoi fabbricare una città nel luogo dove morì, e fu seppellito Antinoo, alla quale pose il nome di Antinopoli, di cui poche vestigia oggidì restano nell'Egitto.
Anno di | Cristo CXXX. Indizione XIII. |
Telesforo papa 4. | |
Adriano imperadore 14. |
Consoli
Quinto Fabio Catullino e Marco Flavio Aspro.
Non è inverisimile che Adriano stoltamente impegnato ad eternar la memoria del suo Antinoo, passasse il verno di quest'anno nell'Egitto. Siccome egli stendeva il guardo a tutte le provincie del romano imperio per beneficarle, così non avea lasciato indietro la Giudea. Ha creduto il padre Petavio [Petavius, in Chronol.], ch'egli in quest'anno e non prima rifabbricasse l'abbattuta città di Gerusalemme, e le desse il nome suo proprio, chiamandola Elia Capitolina, deducendolo da Sparziano, che nulla dice di questo. Solamente scrive egli [Spart., in Hadriano.], che trovandosi Adriano in Antiochia (probabilmente, siccome abbiam supposto, nell'anno 128) i Giudei si sollevarono per cagion di un editto, in cui veniva loro vietato il castrarsi; il che, per quanto si può credere, vuol dire che loro fu proibita la circoncisione. Non potendo essi sofferire un divieto cotanto opposto alla lor legge, si mossero a ribellione. Abbiamo all'incontro da Dione [Dio, lib. 69.], che Adriano fatta fabbricare Gerusalemme, e mutatole il nome, nel luogo, dove dinanzi era il tempio dedicato al vero Dio, ne edificò uno in onore di Giove, e pose in quella città una colonia di gentili romani. Perderono la pazienza i Giudei al vedere in casa loro venir a piantare una stabile abitazione gente straniera, e in faccia loro alzato un tempio all'idolatria; e però non seppero contenersi da' movimenti di ribellione. Ma finchè Adriano Augusto si fermò in quelle vicinanze, cioè nell'Egitto e nella Soria, non ardirono di venire all'armi, ed attesero a [465] covar l'ira loro, aspettando tempo più opportuno per dar fuoco alla mina. Il padre Pagi, che crede riedificata Gerusalemme nell'anno 119, differisce sino all'anno 155 la nuova nominazion di Gerusalemme, e non va certo d'accordo con Dione. Santo Epifanio [Epiphanius, de Mensuris.] scrive, che Adriano passò nella Palestina, e visitò quel paese, dopo essere stato nell'Egitto. Nulla è più verisimile, che andando egli dalla Soria in Egitto, oppur nel ritorno, visitasse quella provincia. Ci ha conservata Vopisco [Vopiscus, in Saturn.] nella vita di Saturnino una lettera, scritta da Adriano a Serviano suo cognato, nell'anno 134, in cui descrive i costumi degli Egiziani, come aveva egli stesso osservato, allorchè fu in quelle contrade, cioè dipinge il popolo specialmente di Alessandria, come gente volubile, inquieta, pronta sempre alle sedizioni e alle ingiurie. Se vogliamo prestar fede a lui, i Gentili vi adoravano Cristo, i Cristiani vi adoravano Serapide, essendo amanti solo di novità. Non vi era Giudeo, Samaritano, Cristiano, che non attendesse alla strologia, agli augurii: benchè il Salmasio stimi doversi altrimente spiegar quelle parole: I Cristiani, i Giudei, i Gentili non vi conoscevano che un Dio, probabilmente l'interesse. Alessandria era piena di popolo, di ricchezze; niuno vi stava in ozio; si facevano lavorare fino i ciechi, e quei che pativano di podagra e chiragra. Loro aveva Adriano confermati gli antichi privilegii, aggiuntine de' nuovi. Tuttavia appena fu egli partito, che dissero un mondo di male di lui e dei suoi più cari. Così Adriano. Ma che i Giudei e i Cristiani tutti adorassero Serapide, e che fossero tutti gente superstiziosa e cattiva, non siam tenuti a stare al giudizio di un Adriano gentile. Di qua bensì intendiamo, quanto in quella città fosse cresciuto il numero de' Cristiani, e che Adriano li lasciava vivere [466] in pace. Scrive poi Lampridio [Lampridius, in Alexandro Severo.], aver avuto in animo questo imperadore di ricevere Cristo Signor nostro per Dio, al qual fine avea fabbricati molti templi senza statue. Ma il Casaubono e il Pagi credono ciò una diceria popolare. Nè questo s'accorda col dirsi da Sparziano [Spartianus, in Vita Hadriani.], che Adriano gran diligenza e zelo mostrò per le cose sacre di Roma, e sprezzò le forestiere.
Anno di | Cristo CXXXI. Indizione XIV. |
Telesforo papa 5. | |
Adriano imperadore 15. |
Consoli
Servio Ottavio Lenate Ponziano e Marco Antonio Rufino.
In un'iscrizione riferita dal Grutero [Gruterus, Thesaurus Inscription., p. 337.] il secondo console vien chiamato Annio Rufino. Quello è un errore. Antonio Rufino ho io trovato in più di un'antica copia di quel marmo. Secondo la Cronica d'Eusebio, fu circa questi tempi compiuta in Roma, per ordine di Adriano, la fabbrica del tempio di Venere e di Roma, e se ne fece la dedicazione. Era questo uno de' più sontuosi edifizii dell'augusta città, per la gran quantità e bellezza dei marmi, coi quali era fabbricato o incrostato, e col tetto coperto di tegole di bronzo, che poi servirono, a' tempi di Onorio I per coprire la basilica di san Pietro. Altri riferiscono all'anno seguente la dedicazione del tempio suddetto, che fu la morte dell'architetto Apollodoro, come di sopra accennai all'anno 120. Per attestato ancora del medesimo Eusebio [Euseb., in Chron.] fu pubblicato in quest'anno l'editto perpetuo, composto dall'insigne giurisconsulto Salvio Giuliano, che fu uno de' principali consiglieri di Adriano. Imperciocchè [Spartianus, in vita Hadriani.] questo imperadore ebbe il lodevol costume, allorchè andava a giudicare e a decidere le [467] controversie, di avere per assistenti non solamente i suoi amici e cortigiani, ma anche i migliori giurisconsulti, approvati prima dal senato; ed egli principalmente si serviva del suddetto Salvio Giuliano, di Giulio Celso e di Nerazio Prisco. Gran diversità era allora nei giudizii per le provincie; chi decideva a una maniera e chi all'altra. Adriano, affinchè si camminasse con uniformità dappertutto, volle che Giuliano formasse una raccolta di leggi ed editti, creduta bastevole a terminar con giustizia tutte le cause. Di questo editto perpetuo si veggono raccolti i frammenti nell'edizion dei Digesti fatta da Dionisio Gotofredo. Le apparenze sono, che Adriano abbandonasse in quest'anno l'Egitto, e passando per la Soria e per l'Asia, tornasse alla sua diletta città di Atene, dove, per testimonianza di Eusebio, egli stette tutto il verno seguente. Giacchè non abbiamo storico migliore, che ci somministri un buon filo per seguitare i passi di questo imperadore, non è temerità l'attenersi ad Eusebio.
Anno di | Cristo CXXXII. Indizione XV. |
Telesforo papa 6. | |
Adriano imperadore 16. |
Consoli
Sentio Augurino ed Arrio Severiano per la seconda volta.
Non Severiano, ma Sergiano è chiamato in vari Fasti il secondo di questi consoli, e però resta indecisa la lite intorno al di lui vero cognome. Dimorò [Euseb., in Chron.] Adriano tutto questo verno, e forse il resto dell'anno presente, in Atene, dove celebrò i suoi quindecennali, cioè l'anno quindicesimo compiuto del suo imperio [Blanchinius, in Anastasium.]. Per attestato di Eusebio, tornò a visitar le misteriose imposture di Cerere Eleusina; compiè molte fabbriche [468] in Atene; vi fece de' suntuosi giuochi, fra' quali una caccia di mille fiere. Sopra tutto quivi formò una biblioteca delle più copiose e belle che fossero nell'universo. Per tutto il tempo che si fermò Adriano [Dio, lib. 69.] nelle vicinanze della Giudea, cioè nella Soria e in Egitto, i Giudei, benchè pieni di rabbia a cagione del tempio di Giove fabbricato in Gerusalemme, si tenner per paura quieti. Ma intanto andavano disponendo tutto per ribellarsi a suo tempo. Fecero preparamenti d'armi, fortificarono vari siti, formarono cammini sotterranei per ricoverarvisi in caso di bisogno; e sopra tutto spedirono segreti messi per le varie città dell'imperio, acciocchè quei della lor nazione accorressero in lor aiuto, o formassero delle sedizioni. Nè lasciarono di commuovere anche altre nazioni a prendere l'armi, facendo loro sperare non pochi vantaggi e guadagni. Dacchè dunque videro Adriano molto allontanato dalle loro contrade, cominciarono apertamente a non voler ubbidire ai magistrati romani; ma non osando di venire a combattimenti, attendevano solamente a premunirsi contro la forza de' Romani. Però Eusebio mette all'anno presente il principio di questa guerra.
Anno di | Cristo CXXXIII. Indizione I. |
Telesforo papa 7. | |
Adriano imperadore 17. |
Consoli
Marco Antonio Ibero e Nummio Sisena.
Un'iscrizione rapportata dal Doni [Donius, Inscription. Antiquar.] ci ha scoperto il prenome del console Ibero. Dove soggiornasse Adriano nell'anno presente, io nol so dire. Che fosse ritornato a Roma, non apparisce da alcuna memoria. Il dire col Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], ch'egli fu in questi tempi in Egitto e nell'anno seguente nella Soria, [469] non si accorda con Dione [Dio, lib. 69.], che fa ribellati i Giudei, dappoichè Adriano si fu ben allontanato dai lor paesi: il che dovette succedere nell'anno precedente. Ma o fosse egli tuttavia in Atene, come io vo' sospettando, o fosse ripassato in Asia, si può credere che egli non istesse fermo in un sol luogo: tanta era la sua vaghezza di viaggiare, e di acquistarsi credito colle sue maniere popolari fra tutt'i popoli. Abbiamo da Sparziano [Spartianus, in Vita Hadriani.], ch'egli in Atene volle essere uno degli Arconti. Nella Toscana, benchè divenuto imperadore, esercitò la pretura; e per le città del Lazio si compiacque degli uffizii municipali di Dittatore, Edile e Duumviro. In Napoli volle essere Demarco, o capo del popolo; in Italica, sua patria, in Ispagna, quinquennale; e in Adria, da cui ebbero origine i suoi maggiori, ebbe il medesimo uffizio di quinquennale. A tutta prima non fecero i magistrati romani [Dio, lib. 69.] gran caso dei movimenti degli Ebrei; ma dappoichè si avvidero che si accendeva il fuoco per tutta la Giudea, e che per l'altre parti dell'imperio romano la nazion giudaica facea delle adunanze, delle minacce e peggio ancora: Adriano pensò allora daddovero a reprimere il loro ardire e disegno. Perciò spedì rinforzi di gente a Tenio Rufo, governatore della Giudea, ed ordinò che i migliori suoi generali passassero in quelle parti. Uno di questi fu Giulio Severo. Abbiamo da Eusebio [Eusebius, in Chron.], che i Giudei aveano saccheggiata la Palestina. Lor capitano era un certo Cochebas o Barcochebas, uomo sommamente crudele. Fece costui quanto potè per indurre i Cristiani a prendere anch'essi l'armi contra de' Romani; ma i cristiani istruiti dalla lor santa legge, che s'ha da osservare la fedeltà anche ai principi cattivi, non ne vollero far altro; e però lo spietato Giudeo non solamente [470] contra de' Romani, ma anche contra di quanti cristiani gli caddero nelle mani, andò sfogando il suo sdegno, con fargli aspramente tormentare e morire. Ma sopraggiunti gli eserciti romani, poco potè far fronte alla superiore lor forza.
Anno di | Cristo CXXXIV. Indizione II. |
Telesforo papa 8. | |
Adriano imperadore 18. |
Consoli
Cajo Giulio Serviano per la terza volta, e Cajo Vibio Varo.
Serviano console ordinario dell'anno presente era il cognato di Adriano, perchè marito di Paolina, sorella di lui. Però a quest'anno appartiene la lettera, che di sopra all'anno 230 dicemmo a lui scritta da Adriano intorno ai costumi degli Alessandrini ed Egiziani, e a noi conservata da Vopisco [Vopisc., in Saturn.]. Fa conoscere quella lettera, che Adriano era stato in Egitto, e tuttavia dimorava ne' primi mesi di quest'anno lungi da Roma. Non è improbabile ch'egli andasse visitando le città e le isole della Grecia. Avea nel precedente anno cominciata Giulio Severo la guerra contro ai Giudei; nel presente la terminò, se sussiste la cronologia di Eusebio [Euseb., in Chron. et lib. 4, cap. 6 Historiae Ecclesiasticae.], che ne riferisce il fine sotto quest'anno. Così gran fatti ne racconta Dione [Dio, lib. 69.], che parrebbe non essersi potuto smorzar quell'incendio in poco tempo. Scrive egli adunque, che Giulio Severo, valoroso ed accorto generale di Adriano, non si attentò mai di venire con quella gente disperata, ed ascendente ad un numero eccessivo, ad una battaglia campale. Ma assalendoli in corpi separati, impedendo loro i viveri, e rinserrandoli a poco a poco, e senza azzardare, ne fece un terribil macello, [471] sì fattamente, che pochissimi salvarono la vita. È da credere ch'egli non la perdonasse nè pure alle donne, a' fanciulli e ai vecchi; imperocchè vi perirono, se dobbiamo stare in ciò all'asserzione di quello storico, cinquecento ottantamila persone di nazione giudaica, tagliate a pezzi, senza contare i morti di fame, fuoco e malattia, che fu una moltitudine incredibile. Cinquanta buone loro fortezze vennero in poter de' Romani: e novecento ottantacinque belle terre, castella e borghi furono tutti spianati, di modo che quasi tutta la Palestina rimase un paese deserto. Costò nondimeno assai caro anche ai Romani quella impresa, perchè ve ne perirono parecchie migliaia; e perciò in occasione che Adriano scrivendo al senato in questi tempi (segno ch'egli era lungi da Roma) non si servì dell'usato esordio secondo il formolario, cioè di quelle parole: Se voi e i vostri figliuoli siete sani, me ne rallegro. Quanto a me e all'esercito, noi siam tutti sani. Terminata secondo i giusti giudizii di Dio questa gran rovina del popolo giudaico [Euseb., lib. 4, cap. 6 Histor. Hieronymus in Isaiam, cap. 6.], Adriano pubblicò un editto, che sotto pena della vita niun Giudeo potesse più entrare in Gerusalemme, e nè pure appressarvisi. Ma non si mantenne questo gran rigore sotto i susseguenti Augusti. Diede lo stesso Adriano in ricompensa del buon servigio a Giulio Severo il governo della Bitinia, esercitato poscia da lui con tal giustizia, prudenza e nobil contegno, e con sì fatta cura non men de' pubblici che de' privati affari di quel paese, che Dione, nativo di lì, attesta essere stata anche ai suoi dì in venerazione la di lui memoria. Insorse poco appresso un altro torbido in Levante, perchè gli Alani, appellati anche Massageti, mossi da Farasmane re loro, diedero il sacco alla Media e all'Armenia, scorrendo fin sulle terre della Cappadocia, dove era governatore Flavio Arriano, forse quel medesimo, di cui ci [472] restano alcuni libri. I regali fatti da Vologeso (probabilmente re dell'Armenia) a que' Barbari, e la paura dell'esercito romano raunato da Arriano, fecero da lì a non molto cessare le loro ostilità e i saccheggi. Si può ricavar da Dione, che in questi tempi l'Augusto Adriano stanziasse in Atene, dove dedicò il tempio di Giove Olimpico, in cui fu anche posto la statua di lui col suo altare, e un drago fatto venire dall'India. Solennizzò ivi Adriano con gran magnificenza le feste di Bacco, e vi fece la sua comparsa, vestito in abito di Arconte. Diede inoltre licenza ai Greci adulatori di fabbricar in quella città a nome di tutta la Grecia un tempio alla sua persona, come ad un dio; e per far onore a questo insigne edifizio, istituì de' combattimenti e giuochi, e donò agli Ateniesi non solo una grossa somma di danaro e del grano, ma anche l'isola di Cefalonia. In somma di tante beneficenze colmò egli Atene, che quasi divenne essa una città nuova. Il che fatto, finalmente abbandonò quel caro paese, e se ne ritornò in Italia nel presente anno, o almeno nei primi mesi del seguente.
Anno di | Cristo CXXXV. Indizione III. |
Telesforo papa 9. | |
Adriano imperadore 19. |
Consoli
Ponziano ed Atiliano.
Il prenome e nome di questi consoli non si sono finora scoperti; v'ha chi in vece di Atiliano scrive Atelano. Da un'iscrizione atletica, che si legge presso il Grutero e presso il Falconieri, ricavò il padre Pagi [Pagius, Critic. Baron.], che Adriano Augusto prima del dì 3 di maggio era ritornato a Roma, perchè un suo rescritto dato in quel giorno e nella stessa città, appartiene alla di lui Podestà Tribunizia XVIII corrente allora. Rallegrò tosto il popolo con degli spettacoli. Nel corso delle carrette si acquistò gran plauso uno di quei [473] cocchieri, servo di qualche nobile romano [Dio, lib. 69.]. Il popolo con alte grida fece istanza all'imperadore che gli desse la libertà. Addano in iscritto rispose, non essere cosa decente per li Romani il dimandare, che l'imperadore dia la libertà ad un servo altrui, o forzi il padrone a dargliela. Ripigliò Adriano in Roma le sue solite maniere di vivere. Fra gli altri suoi usi, andava spesso ai pubblici bagni, e si lavava con gli altri del popolo [Spartianus, in Hadriano.]. Gli venne un dì osservato un veterano, molto ben noto a lui, che fregava la schiena e le altre parti del corpo ai marmi del bagno. Gliene dimandò il perchè: Perchè non ho un servo, rispose il soldato, che mi possa fregare. Adriano gliene donò alcuni, ed anche le spese in vita. Risaputosi ciò, l'altro dì vennero molti vecchi a far lo stesso, sperando un egual trattamento. Ordinò Adriano che si fregassero l'un l'altro. Fece molti buoni ordini. Che non fosse lecito ai senatori il prendere nè direttamente nè indirettamente appalto alcuno di gabelle. Che fosse vietato ai padroni l'uccidere i loro servi, cioè gli schiavi (il che ne' tempi addietro era permesso ai Romani) volendo che se si trovavano rei, fossero condannati dai giudici. Soffrì nondimeno che tenessero prigioni private per li servi e liberti. Voleva che i senatori, uscendo in pubblico, sempre portassero la toga, eccettochè la notte. Tassò le sportole ai giudici, riducendole all'antica moderazione. Ripudiò le eredità lasciategli da persone ch'egli non conosceva; ed anche conoscendole, se v'erano de' figliuoli, le rifiutò. Dilettossi forte della caccia, ed amò sì fattamente alcuni de' suoi cavalli e cani, che fece far loro dei sepolcri. Talvolta nelle cacce ammazzò orsi, lioni ed orse; tanta era la sua destrezza. Non voleva che i suoi liberti avessero alcuna autorità, nè si credesse che potessero qualche cosa presso di lui, perchè attribuiva a questa sorta di gente la maggior [474] parte dei disordini passati sotto i precedenti Augusti. Osservò egli una volta, che uno di costoro passeggiava in mezzo a due senatori. Mandò tosto uno de' suoi domestici a dargli una guanciata, e a dirgli: Guardati di camminar del pari con persone, delle quali tu puoi tuttavia divenire schiavo. Mirabile eziandio parve la sua moderazione, perchè quantunque infinite fabbriche facesse per tutto l'imperio romano, non volle che si mettesse il suo nome, se non nel tempio alzato a Trajano. Riedificò in Roma il Panteon, lo steccato del Campo Marzio, la basilica di Nettuno, molti templi, la piazza di Augusto, il bagno di Agrippa: contuttociò d'ordine suo fu ivi rimesso il nome dei primi fondatori. Fabbricò sopra il Tevere il ponte chiamato di Adriano, oggidì ponte sant'Angelo; e il suo sepolcro vicino al Tevere che ora si chiama castello sant'Angelo; e il tempio della Buona Dea. Fece anche un emissario al lago Fucino. Tutte queste azioni ho io raccolte sotto quest'anno, benchè spettanti a vari tempi, acciocchè sempre più si conosca qual imperadore fosse Adriano.
Anno di | Cristo CXXXVI. Indizione IV. |
Telesforo papa 10. | |
Adriano imperadore 20. |
Consoli
Lucio Cejonio Commodo Vero, e Sesto Vetuleno Civica Pompejano.
Lucio Cejonio, primo fra questi due consoli, quel medesimo è che Adriano adottò per suo figliuolo, e destinò alla succession dell'imperio. Resta finora in disputa l'anno preciso, in cui seguisse tale adozione. L'esser egli nominato Lucio Cejonio Commodo nei fasti e nelle inscrizioni, cioè portando egli i nomi propri della sua famiglia sul principio di quest'anno, fa abbastanza intendere ch'egli non era per anche giunto alla figliuolanza di Adriano. Adottato da lui, prese il nome di Lucio Elio Commodo, e il titolo [475] di Cesare. Però sentenza è di alcuni, che in quest'anno solamente seguisse la di lui adozione. Altri la riferiscono all'anno precedente, perchè nella lettera che abbiam detto scritta allora da Adriano a suo cognato Serviano, egli dice che gli Alessandrini aveano tagliati i panni addosso anche al mio figliuolo Vero. E perchè a Lucio Elio vien dato il cognome di Vero da Sparziano, di cui si crede che parlasse Adriano. Io per me ne dubito al vedere che Lucio Vero (che fu poi Augusto) di lui figliuolo, ricevè da Marco Aurelio, e non da suo padre il cognome di Vero. Fu poi di parere il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.], che fin dall'anno 130, Adriano adottasse il suddetto Lucio Cejonio, ma senza conferirgli il titolo di Cesare, e senza destinarlo all'imperio: il che poi fece nell'anno presente. E con questa idea pare che vada d'accordo Sparziano [Spartianus, in Hadriano et in Ælio Vero.]. Ma non si saprà mai ben intendere, come Lucio Cejonio Commodo, se prima del presente anno entrò, per via dell'adozione, nella famiglia Elia, comparisse negli atti pubblici senza il nome di Elio: il che poi si osserva fatto nell'anno seguente. Certo è che il testo di Sparziano in questo racconto ha delle contraddizioni, e probabilmente degli errori. Ma lasciate da banda queste liti, a noi basterà di sapere che Cejonio Commodo fu adottato dall'Augusto Adriano, e perciò da lì innanzi appellato Lucio Elio, ed ebbe il titolo di Cesare, cioè la futura promessa dell'imperio: il che credo io fatto solamente nell'anno presente. Volle Adriano solennizzar questa elezione, con dare al popolo romano un congiario, e ai soldati un regalo di sette milioni e mezzo, se dicono il vero coloro che parlano dell'antica moneta. Si fecero correre nel circo i cavalli, ed altri divertimenti si diedero, che accrebbero l'allegrezza del popolo. Fu in oltre esso Elio Cesare disegnato console per l'anno avvenire. Il dirsi da Sparziano, che questo principe, [476] appena adottato, fu creato pretore, e poscia andò al governo della Pannonia, cagiona non poco imbroglio: perchè, secondochè osserva il padre Pagi, esercitò egli la pretura nell'anno 130; il che poi discorda da altre notizie recate dal medesimo storico. E veramente sembra che lo stesso Sparziano, siccome lontano da questi tempi, non sapesse ben quel che dicesse intorno a tali affari. Fors'anche non fu lo stesso storico, il qual descrisse le gesta di Adriano e la vita di Lucio Elio. Sappiamo bensì di certo, che questo principe era di cattiva complessione ed infermiccio; per altro di vita allegra, e data a' piaceri anche illeciti, ornato di letteratura, di grazioso aspetto, e tale che chi volea male ad Adriano, immaginò proceduta la di lui elezione dal riflesso piuttosto alla bellezza del corpo, che alle virtù dell'animo. Ma s'egli godeva poca sanità, anche Adriano cominciò a sentire venir meno la sua; anzi Dione [Dio, lib. 69.] e Sparziano [Spartianus, in Hadriano.] vanno d'accordo in dire, che per cagione appunto di questi suoi malori Adriano si risolvesse di eleggersi questo figliuolo, con disegno di averlo per successore.
Anno di | Cristo CXXXVII. Indizione V. |
Telesforo papa 11. | |
Adriano imperadore 21. |
Consoli
Lucio Elio Cesare per la seconda volta, e Lucio Celio Balbino Vitulio Pio.
Cominciò, siccome accennai di sopra, a declinare la sanità dell'imperadore Adriano: e fu creduto da alcuni originato questo sconcerto dalle pioggie e dai freddi patiti in tanti suoi viaggi, e massimamente perchè egli ebbe in uso per tutti i tempi di stare e di andare colla testa scoperta. Soleva uscirgli di tanto in tanto il sangue dal naso; questo cominciò a [477] farsi più copioso. Non poca inquietudine per altra parte gli recava l'osservare, quanto meschina fosse anche la sanità dell'adottato suo figliuolo Lucio Elio, di modo che dicono, che stette poco a pentirsi di aver messo gli occhi sopra di lui, per farsi un successore. Certamente fu più volte udito dire: Ci siamo appoggiati ad una parete rovinosa, ed abbiam gittati via dieci milioni, dati al popolo e ai soldati per la di lui adozione. Anzi coloro che scrissero la vita d'esso Adriano, e nominatamente Mario Massimo, portarono opinione ch'egli sapesse non dovergli sopravvivere questo figliuolo; e ciò per via della strologia, di cui egli si dilettava forte, con dirsi insino, che Adriano, finchè visse, andava scrivendo ciò che ogni dì gli dovea accadere. Noi possiamo ben dispensarci dal prestar fede a queste fandonie, e v'ha contraddizione tra il dire che lo voleva per successore, con sapere nello stesso tempo che questo successore dovea mancare prima di lui. Eppure aggiungono, aver più volte Adriano predetta la morte d'esso Lucio Elio e pensato a provvedersi di un altro successore. Intanto Adriano, secondo il consiglio de' medici, i quali allorchè non han rimedio ai mali, propongono la mutazion dell'aria, si ritirò a Tivoli, sperando di migliorar di salute con quell'aria migliore. Se si ha da credere a Sparziano, egli mandò Lucio Elio Cesare al governo della Pannonia, dove si acquistò una convenevole riputazione. Ma chi mai può persuadersi ch'egli malsano volesse allontanare da sè un figliuolo anch'esso malconcio di sanità, e destinato a succedergli. Par ben più verisimile, che Sparziano confondesse le azioni e i tempi, e che Lucio Cejonio, prima d'essere adottato, esercitasse la pretura, e governasse dipoi la Pannonia; e che creato Cesare attendesse al governo di Roma. Attesta il medesimo storico, esser egli stato dopo l'adozione talmente in grazia di Adriano, che tutto quel che voleva, lo impetrava dall'imperadore, [478] anche col solo scrivergli delle lettere: il che suppone che potesse anche parlargli. In fatti Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] lasciò scritto che Adriano, ritiratosi a Tivoli, permise che Lucio Elio Cesare restasse in Roma. Abbiamo parimente da esso Vittore, che stando l'imperadore in Tivoli, quivi si applicò per divertirsi a fabbricar dei palagi ed altri edifizii, ai quali diede il nome di Liceo, Accademia, Pritaneo, Canopo, Tempe, ed altri. Attese ancora a far de' buoni conviti, e delle gallerie di statue e pitture, abbandonarsi anche alla lascivia, forse ad imitazione di Tiberio. Il peggio fu che si lasciò trasportare ad imitar Tiberio anche nella crudeltà: ma questo, a mio credere, appartiene solamente all'anno seguente.
Anno di | Cristo CXXXVIII. Indizione VI. |
Igino papa 1. | |
Antonino Pio imperadore 1. |
Consoli
Camerino e Negro.
Non si è potuto finora accertare quai fossero i prenomi e nomi di questi consoli. Da alcuni per sole conghietture furono appellati Sulpicio Camerino e Quinzio Negro; ma meglio fia l'aspettare che si scuopra qualche marmo che meglio ci istruisca di questa faccenda. Per quanto s'ha dalla cronica antichissima di Damaso [Anastas. Bibliothecarius.], sul principio di quest'anno san Telesforo papa compiè il corso del suo pontificato colla corona del martirio. Quantunque Adriano niun editto nuovo pubblicasse contra de' Cristiani, pure in vigore delle precedenti leggi, e per lo mal animo dei sacerdoti gentili, noi sappiamo che sotto di lui moltissimi Cristiani col sangue loro confermarono la fede di Gesù Cristo. Vero è che, per attestato di Eusebio [Eusebius, Hist. Ecclesiast., lib. 4, c. 3.] e di san Girolamo [Hieron., de Viris Illustr.], i santi Quadrato ed Aristide [479] presentarono ad Adriano le loro apologie per la religione cristiana, e che queste fecero un buon effetto. Contuttociò non mancavano allora dei nemici del nome cristiano, che instigavano i giudici da infierire contra i pastori della greggia di Cristo. A Telesforo succedette nella cattedra di san Pietro Igino. Lucio Elio Cesare figlio adottivo di Adriano anche egli terminò i suoi giorni nel dì primo di quest'anno. Pareva che i suoi malori gli avessero data posa in guisa tale, che egli si era preparato per recitar nelle calende di gennaio in senato un'orazione composta da lui, o dettata a lui da qualche maestro, in rendimento di grazie ad Adriano per la sua adozione, come narra Sparziano [Spartianus, in Hadriano.]. Dissi per la sua adozione: parole che non possono mai accordarsi coll'opinione del padre Pagi [Pagius, Critic. Baron.], che il vuole adottato fin dall'anno 130. V'ha chi crede ciò fatto nell'anno 136, non avendo egli, come si figurano, per la sua poca salute potuto soddisfare nelle calende dell'anno precedente. Ma nè pur nelle calende di quest'anno gli fu permesso, perchè in quel medesimo giorno la morte il rapì. Essendo quello il tempo, in cui si formavano i voti solenni per la salute dell'imperadore, non volle Adriano che si facesse piagnisteo alla sepoltura di lui. Avea Lucio Elio avuta per moglie una figliuola di Domizio Negrino, fatto uccidere da Adriano sui principii del suo governo; ed essa gli avea partorito un figliuolo appellato Lucio Cejonio Commodo. Verso questo fanciullo vedremo in breve quanto continuasse l'amore e la beneficenza di Adriano Augusto.
Al vedere sconcertati i suoi disegni per la morte di Lucio Elio, andò Adriano per qualche settimana pensando a riparar questa perdita coll'elezione di un altro figliuolo; e per buona fortuna de' Romani egli fermò il suo guardo sopra Tito Aurelio Fulvio (o Fulvo) Bojonio Antonino, che era stato console nell'anno [480] 120. Egli è chiamato Arrio Antonino da Sparziano [Spartianus, in Hadriano.]. Giulio Capitolino [Capitolinus, in Tito Antonino.] gli dà i suddetti nomi, e vuole che Arrio Antonino fosse avolo materno di esso Tito Aurelio. Conosceva molto bene Adriano le rare virtù di questo soggetto, giacchè egli era uno de' senatori del suo consiglio; e però gli fece intendere il disegno da lui concepito di adottarlo per figliuolo e successor nell'imperio, colla condizion nondimeno, che, stante l'esser esso Antonino privo di prole maschile, anch'egli volesse adottar per figliuolo Marco Aurelio Vero, figliuolo di Annio Vero, cioè di un fratello di Sabina Augusta sua moglie; e Lucio Cejonio Commodo, che poco fa dicemmo nato da Lucio Elio Cesare, fanciullo allora di circa otto anni, perchè nato dell'anno 130. Fu dato tempo ad Antonino tanto da pensarvi, ed avendo egli poi accettata la favorevol offerta fattagli, e le condizioni prescritte, Adriano Augusto, la cui sanità andava di male in peggio, nel dì 25 febbraio fece la solenne funzione di dichiararlo suo figliuolo, con dargli il titolo di Cesare, e farlo suo collega nella podestà tribunizia e nel comando proconsolare. Ch'egli ancora ottenesse il titolo d'Imperadore, lo stimò il padre Pagi; ma non ne abbiamo sufficiente fondamento. Presentò Adriano questo suo nuovo figliuolo al senato, con dire, che giacchè la morte gli avea tolto Lucio Elio, ne avea trovato quest'altro, nobile, mansueto e prudente, in età da non temere, ch'egli o per temerità male operasse, o per debolezza trascurasse gli affari. Parea pure che l'elezione di un sì degno personaggio avesse da tirarsi dietro l'allegrezza e il plauso di ognuno: e pure che non può l'ambizione? Moltissimi dell'ordine senatorio, giacchè cadauno aspirava a sì gran dignità, se l'ebbero a male; e sopra gli altri Catilio Severo, già stato console, ed allora prefetto di Roma, che si teneva in pugno l'imperio. Perchè questi dovette [481] lasciar traspirare i suoi lamenti, Adriano gli levò quella carica prima del tempo consueto. L'aver egli in tal congiuntura scoperta una tal contrarietà a' suoi voleri, con parergli anche per la sua malattia di essere oramai sprezzato dal senato, cominciò a farlo prorompere in alcune azioni di crudeltà. Si credettero alcuni, che naturalmente Adriano inclinasse a questo vizio, e se ne astenesse per la sola paura, tenendo davanti agli occhi il fine di Domiziano. Ma Dione [Dio, lib. 69.] lo niega, e da quanto abbiam detto finora, può apparire che solamente per qualche esaltazion di bile incrudelì. Si aggiunse in questi tempi una fastidiosa malattia, che gli svegliò il mal umore e la rabbia non solamente contra degli altri, ma infin contra di sè stesso: il perchè venne meno in lui la mansuetudine e la clemenza.
Si sa ch'egli fece morire Serviano suo cognato, cioè marito di Paolina sua sorella già defunta [Spartianus, in Hadriano.]. Fin qui l'aveva egli amato ed onorato sopra gli altri; l'avea promosso al terzo consolato, e sempre usciva ad incontrarlo fuori della camera, ognivoltachè sapeva il di lui arrivo al palazzo. Ma dappoichè fu compiuta l'adozione di Antonino, nacque sospetto in Adriano, che Serviano, benchè vecchio di novant'anni, meditasse di salire sul trono, deducendolo dall'aver egli mandata la cena ai servi della corte; dell'essersi un dì messo a sedere con gran possesso sulla sedia imperiale che stava a canto del suo letto, e dall'esser entrato pettoruto nel quartier de' soldati, quasi per farsi conoscere tuttavia atto al comando. Dione [Dio, lib. 69.] espressamente scrive, che Serviano e Fosco di lui nipote si risentirono per l'elezione di Antonino, credendosi aggravati perchè Adriano avesse anteposto chi non era parente ad un nipote di sua sorella. Perciò Adriano li fece uccidere amendue. Raccontano che Serviano prima di essere strangolato, [482] si fece portar del fuoco, e messovi dell'incenso, come in atto di sacrifizio, disse: Voi immortali dii, che ho per testimoni della mia innocenza, prego di una sola grazia, cioè che Adriano, benchè ardentemente brami la morte, non possa morire. Forse fu una frottola inventata per quello che poscia avvenne. Di altri che fossero uccisi per ordine di Adriano, non parla Dione, che pur fu più vicino a questi tempi. Ma Sparziano scrive che parecchi altri furono levati dal mondo o scopertamente o per insidie; e corse fin voce, che Sabina Augusta, la qual forse finì di vivere in questi tempi, per veleno datogli da Adriano terminasse i suoi giorni. Sparziano la tien per una favola. In fatti niuno è più soggetto alle dicerie del popolo che i gran signori. Aurelio Vittore [Aur. Victor, in Epitome.], benchè più lontano da questi tempi, arrivò a scrivere che Adriano, prima di morire, fece ammazzar molti senatori; che Sabina per gli strapazzi a lei usati dal marito, volontariamente si diede la morte; e ch'ella pubblicamente sparlava del genio crudele di Adriano, con aggiungere di aver fatto il possibile di non restare gravida di lui, temendo di partorire qualche mostro pernicioso al genere umano. È a noi permesso il credere che con qualche verità sia mischiata una buona dose di falso. E se non falla Capitolino [Capitolin., in Antonino Pio.] in dire, che Marco Aurelio adottato per ordine di Adriano da Antonino, era figliuolo di un fratello di essa Sabina; non sembra già che Adriano nudrisse così mal animo contro la moglie. Contuttociò convengono tutti gli storici in dire, che il merito di tante belle azioni fatte da Adriano parve un nulla al senato in confronto della morte da lui data sul principio del suo governo ai quattro personaggi consolari, e agli altri sul fin di sua vita, contro replicate promesse da lui fatte, di maniera che si era messo in testa il medesimo senato di non voler accordare gli onori consueti [483] dell'empia gentilità ad Adriano defunto, siccome vedremo fra poco.
Cresceva intanto la malattia di esso Adriano, e fu in fine dichiarata idropisia, accompagnata da dolori e da un insoffribil tedio, non solo del male, ma anche della vita [Dio, lib. 69. Spartianus, in Hadr. Aurelius Victor, in Epit.]. Non si stendeva la potenza di un imperadore a trovarvi rimedio; e quantunque egli ricorresse insino alla magia, neppur questa potè aiutarlo. Disperato adunque, altro più non desiderava, se non di potersi dar la morte da sè stesso, o di riceverla con veleno o con pugnale da altri. Prometteva impunità e danari a chi gli prestasse aiuto in questo; ma niuno si sentiva voglia di ubbidirlo. Importunato con preghiere e minacce il suo medico, questi amò meglio di uccidersi da sè stesso, che di abbreviare la vita al suo principe. Al medesimo fine si raccomandò ad un servo, il quale ne corse a dar l'avviso ad Antonino. Per animarlo alla pazienza, e levargli di capo sì nere fantasie, entrò in sua camera esso Antonino Cesare, accompagnato dai prefetti del pretorio. Veggendosi scoperto, entrò nelle furie Adriano, e comandò che si ammazzasse quel servo. Antonino il salvò, facendo poi credere ad Adriano che il suo ordine era stato eseguito. Oltre a ciò gran guardia gli fece fare per questo, con dire che crederebbe sè stesso reo di omicidio, se avesse tralasciato di conservarlo vivo finchè si poteva [Spartianus, in Hadrian. Aurel.]. Invenzione sua anche fu il far venire una donna, che disse ad Adriano d'avere ricevuto ordine da una deità di avvisarlo che sarebbe guarito: e perchè ella non l'avea fatto, era divenuta cieca. Tornò poscia a dirgli, d'avere inteso in altro sogno, che s'ella baciasse le ginocchia ad Adriano, ricupererebbe la vista: e così con facilità avvenne. Si finse ancora cieco nato un uomo, venuto dalla Pannonia, che col toccare Adriano, tornò anch'egli [484] a vedere. Servirono queste imposture a quietare alquanto Adriano; e tanto più che per accidente, o perchè gli fu fatto credere, gli cessò la febbre. Volle egli dipoi essere portato a Baja; ma quivi nel dì 10 di luglio, in età di sessantadue anni, dopo aver detto un assai famoso motto, cioè: I molti medici hanno ucciso l'imperadore, e dopo aver recitato cinque versi sopra l'anima sua, destinata agli orrori dell'inferno, finalmente morì. Prima di morire, chiamò da Roma Antonino, che giunse a tempo di vederlo vivo, sebben Capitolino [Capitolin., in Marco Aurelio.] sembra dire ch'egli andò colà solamente per riportarne le ceneri a Roma. Scrive Sparziano, che Adriano odiato da tutti, fu seppellito in Pozzuolo nella villa di Cicerone, dove il suo successore Antonino gli fabbricò un tempio, come ad una deità, dandogli de' Flamini ed altri sacri ministri. Capitolino, per lo contrario, attesta che le di lui ceneri furono portate a Roma da Antonino, esposte nel giardino di Domizia, e riposte nel suo mausuleo (oggidì castello sant'Angelo), perchè in quello di Augusto non v'era più luogo. Succedette a lui nell'imperio Antonino Pio, di cui parleremo all'anno seguente. E si vuol ben qui ripetere che le lettere fiorirono non poco sotto Adriano imperadore letterato. Abbiam di sopra fatta menzione di Favorino sofista, di Epitteto insigne filosofo della scuola stoica, di Arriano suo discepolo e di Flegonte liberto d'esso Adriano. Oltre ad altri scrittori vivuti allora, de' quali si son perdute l'opere, furono e son tuttavia in gran credito Svetonio Tranquillo, autore delle vite de' dodici primi imperadori, e massimamente Plutarco, le cui opere meritano di essere appellate un dovizioso magazzino dell'erudizione greca e latina, e dell'antica filosofia.
Anno di | Cristo CXXXIX. Indizione VII. |
Igino papa 2. | |
Antonino Pio imperadore 2. |
Consoli
Tito Elio Adriano Antonino Augusto per la seconda volta, e Cajo Bruttio Presente per la seconda.
Ebbe il console Presente il prenome di Cajo, ciò risultando da una greca iscrizione che si legge nella mia raccolta [Thesaur. Nov. Inscript., pag. 326, n. 4.]. Così da un'altra pubblicata dal Fabretti [Fabrettus, Inscription, pag. 726.] apparisce che avendo Antonino Augusto deposto il consolato, a lui fu sostituito Aulo Giunio Rufino. Morto Adriano imperadore nell'anno precedente, prese le redini del governo Antonino Pio, ed ebbe il titolo d'Imperadore (se non l'avea ottenuto prima), d'Augusto e di Pontefice Massimo. Era egli della famiglia Aurelia, originaria di Nimes, città della Gallia, e il suo primo nome fu quello di Tito Aurelio Fulvo o Fulvio [Capitolinus, in Antonino Pio.]. L'avolo suo, che portava lo stesso nome, tre volte ebbe l'onore dei fasti consolari: due volte il di lui padre. Arria Fadilla, sua madre, figliuola fu di Arrio Antonino, stato anch'esso console, ed uno de' più illustri senatori d'allora. Tito Aurelio suddetto si vede poi nominato Arrio Antonino con indizio, che l'avolo materno l'avesse adottato per figliuolo; e certamente fu erede del ricco di lui patrimonio. Nacque egli nell'anno 89 della nostra Era nella villa di Lanuvio. Nell'anno 120 dal suo merito fu portato al consolato, imperciocchè si univano in lui la bella presenza, un ingegno penetrante, ma insieme placido e sodo, molta letteratura, maggiore eloquenza, e sopra tutto una rara saviezza, sobrietà ed amorevolezza. Era liberale in donare il suo, lontano dal volere quel d'altri, il tutto sempre operando con misura e senza giattanza. Tale in somma comparve [486] agli occhi dei Romani nella vita privata, e molto più divenuto imperadore, che i saggi l'assomigliavano, e con ragione, a Numa Pompilio. Da Adriano fu scelto per uno de' quattro consolari che reggevano l'Italia. Proconsole dell'Asia fece un sì bel governo, che ne riportò plauso da ognuno. Poscia ammesso nel consiglio di Adriano, costumò in tutto ciò che era messo in consulta, di eleggere la sentenza più mite. Stimarono alcuni, che l'avere Adriano veduto Antonino entrar nel senato dando di braccio al d'Annia Galeria Faustina sua moglie, tanto si compiacesse di quell'atto, che per questo il volle suo successore. Ma è ben più da credere che a tale elezione si sentisse mosso Adriano dalla conoscenza e sperienza del senno e delle tante virtù che concorrevano in esso Antonino.
Dappoichè egli ebbe riportate a Roma le ceneri di Adriano [Spartianus, in Hadriano.], trovò il senato così irritato contro la memoria di Adriano per le crudeltà sul principio e nell'ultimo di sua vita usate verso l'ordine senatorio, che non solamente stava forte in negargli i creduti onori divini, ma era in procinto di cassar ancora tutti i di lui atti e decreti. Entrò in quella illustre assemblea il novello imperadore, che per la sua adozione fu da lì innanzi nominato Tito Elio Adriano Antonino, e colle lagrime agli occhi perorò in favore del defunto padre così vivamente, che avrebbe potuto muovere ogni più duro cuore. Vedendo tuttavia i senatori mal disposti a compiacerlo, venne all'ultima batteria con dire, che dunque non volevano nè pur lui per imperadore, giacchè se pensavano d'abolir tutti gli atti d'Adriano, come di un principe cattivo e nemico, fra questi entrava anche la sua adozione. A tali parole si piegò il senato, non tanto per riverenza ad Antonino, quanto per timore de' soldati che erano per lui; decretando che Adriano potesse [487] aver luogo fra gli dii, benchè personaggio da lor tenuto per sanguinario e crudele. Puntualmente pagò Antonino [Capitolinus, in Antonino Pio.] di sua propria borsa alle milizie il regalo promesso loro dal padre, e diede al popolo un congiario fors'anche vivente lo stesso Adriano. Restituì e condonò interamente alle città d'Italia l'oro coronario, cioè la contribuzione o sia il donativo esibito per la sua adozione, e ne rilasciò la metà alle provincie fuori d'Italia. Rientrato poi in sè stesso il senato, e conoscendo che bel regalo avesse fatto Adriano con dare alla repubblica romana un sì buono, un sì degno successore, rivolse le sue applicazioni ad onorar Antonino, e a renderselo grato. Gli diede il titolo di Pio, che comincia tosto a comparire nelle di lui medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.]. Crede il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], che questo nome significasse Buono, e a lui fosse accordato per denotare la singolar sua amorevolezza verso il padre, verso i parenti e la patria. Anche gli antichi [Pausanias, lib. 8. Dio, l. 70. Lampridius in Elagabalo.] ne cercarono il motivo; chi il credette appellato così pel suo rispetto alla religione; altri perchè avea salvata la vita a molti condannati all'ultimo supplicio da Adriano infermo e furioso, ch'egli nascose, e dopo la di lui morte rimise in libertà: il che par ben più credibile, che il dirsi da Dione ciò fatto, perchè sul principio del suo governo molti furono accusati per varii reati, ed egli non volle che alcun fosse gastigato. Il lasciare impuniti certi delitti, che turbano la pubblica quiete, non suol essere molto glorioso ne' principi, ed è nocivo al pubblico. Per altro la clemenza è una bella gemma della lor corona, e per questo crede Eutropio ch'egli meritasse il titolo di Pio. Le medaglie ancora [Mediobarbus, in Numismat. Imperator.] battute in quest'anno ci possono assicurare che fu onorato Antonino col bel nome di Padre della Patria, pel [488] qual fece un bel ringraziamento ai Padri. Inoltre il senato fece alzar delle statue ai genitori, all'avolo paterno e materno e ai fratelli già defunti del medesimo Antonino. Non ebbe discaro esso Augusto che il senato desse anche ad Annia Galeria Faustina sua moglie il titolo di Augusta; accettò ancora i giuochi circensi decretati dallo stesso senato per solennizzare il di lui giorno natalizio, che correva nel dì 19 di settembre; ma rifiutò ogni altra pubblica dimostrazione. Da lì a qualche anno determinò il medesimo senato, che i mesi di settembre e di ottobre in onor suo e di Faustina si chiamassero Antoniano, Faustiniano; ma ricusò Antonino un sì fatto onore. Trovavansi delle persone non poche condannate o esiliate da Adriano. Dimandò Antonino grazia per loro nel senato, con dire che Adriano l'avrebbe chiesta anch'egli. A niun di coloro, che lo stesso Adriano avea dato dei posti, li levò; anzi suo costume fu lasciar continuare ne' governi delle provincie per fin sette e nove anni coloro ch'erano in concetto di governare con illibatezza e prudenza.
Ebbe Antonino Pio da Faustina sua moglie due figliuoli [Capitolinus, in Antonino Pio.] maschi, uno appellato Marco Aurelio Fulvo Antonino, e l'altro Marco Galerio Aurelio Antonino. Amendue giovani erano a lui premorti. Due figliuole ancora gli nacquero. La maggiore, maritata con Lamia Sillano, mancò di vita, allorchè il marito andava al governo dell'Asia. Restavagli la seconda, cioè Annia Faustina. Avea ordinato Adriano, ch'egli la desse in moglie a Lucio Vero, cioè a quel medesimo che insieme con Marco Aurelio per comandamento di Adriano egli avea adottato per suo figliuolo. Ma Antonino, dacchè cessò Adriano di vivere, riflettendo all'età troppo tenera di Lucio Vero, e che miglior testa era quella di Marco Aurelio, cangiata massima [Capitolinus, in Marco Aurel.], s'invogliò di dar la figliuola ad esso Marco Aurelio, [489] contuttochè egli avesse contratti gli sponsali con Fabia figliuola di Lucio Cejonio Commodo, e sorella del suddetto Lucio Vero. Gliene fece far la proposizione per Giulia Faustina sua moglie, con dargli tempo di pensarvi. Si credette in fine Marco Aurelio di assicurar meglio la sua fortuna con questo matrimonio; e però disciolti gli sponsali suddetti, s'indusse ad isposare Annia Faustina. Non si sa bene se seguissero tali nozze nell'anno presente. Prima anche d'esse Antonino, per maggiormente comprovare al destinato genero il suo compiacimento ed affetto, gli conferì il titolo di Cesare, e il disegnò, ad istanza del senato, console seco per l'anno seguente, contuttochè egli non fosse se non questore, nè avesse esercitate altre cariche pubbliche. Il fece anche accettare ne' Collegi de' sacerdoti, e passare nel palazzo di Tiberio, con formargli una corte da par suo, benchè egli ripugnasse. Assegnò anche Antonino [Capitolinus, in Antonino Pio.] in dote alla figliuola tutti i suoi beni patrimoniali, con riserbarsene nondimeno l'usufrutto sua vita natural durante per gli bisogni dello stato. Servono le medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.], coniate nel secondo consolato di Antonino Pio, cioè nell'anno presente, per farci conoscere che egli diede un re ai Quadi, e un altro ai popoli dell'Armenia.
Anno di | Cristo CXL. Indizione VIII. |
Igino papa 3. | |
Antonino Pio imperadore 3. |
Consoli
Tito Elio Adriano Antonino Pio Augusto per la terza volta e Marco Elio Aurelio Vero Cesare.
Siccome il regno di Antonino Pio fu regno tutto di pace, perchè quest'ottimo principe, privo d'ambizione e nulla sitibondo della gloria vana, unicamente attese a rendere felici i suoi [490] popoli: mestiere che dovrebbe essere quello di tutti i regnanti: così la di lui vita non ci somministra varietà d'azioni da poter empiere gli anni del suo lungo imperio. Oltre di che son perite le antiche storie, che parlavano de' fatti di lui, nè altro ci resta, che la breve sua vita scritta da Giulio Capitolino, mancante di quel filo ch'è necessario per riferir cronologicamente anno per anno le di lui imprese. Sia pertanto ora a me lecito di riportar qui il ritratto di questo insigne Augusto, che anche il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] raccolse da esso Capitolino [Capitolinus, in Antonio Pio.], dai libri di Marco Aurelio [Marcus Aurelius, de rebus suis.] suo figliuolo adottivo, da Dione [Dio, lib. 70.], e da altri pochi rimasugli dell'antichità. Fu Antonino Pio provveduto dalla natura di un corpo di alta statura e ben fatto, con volto maestoso e insieme dolce, con voce grata ad udirla; allegro nella conversazione, ma senza eccesso; buon economo del suo, e insieme liberale e magnifico alle occorrenze, con dilettarsi molto di stare alla campagna, dove facea fruttare i suoi beni, e solea divertirsi colla caccia e colla pesca, e in città coll'intervenire alle commedie e buffonerie degl'istrioni. Studioso della sobrietà, anche giunto all'imperio, sempre la conservò, contento de' cibi ordinari, senza cercarne de' rari e senza lusso: con che visse molto, senza bisogno di medici nè di rimedi. I suoi conviti o pubblici, o privati erano per lo più conditi dai discorsi de' suoi commensali amici, andando anch'egli talvolta a pranzare in casa loro con tutta confidenza. Usava [Aurelius Victor, in Epitome.] la mattina di ammettere alcuno all'udienza, di mangiare un tozzo di pan secco, per aver lena agli affari, nei quali sempre si dimostrò applicato e indefesso. Compiacevasi ancora di andar come persona privata alle vendemmie [491] co' suoi amici; divertimento carissimo agli antichi Romani. Anche imperadore usò abiti dimessi, senza curarsi di ornar molto il corpo, ma neppur mostrandosi dimentico della polizia e del decoro. Era, dissi, indefesso negli affari e tuttochè patisse di quando in quando delle micranie, pure appena le avea scrollate, che tornava più vigoroso di prima alle applicazioni. Quotidiane erano queste, perchè non meno de' saggi padri di famiglia, che continuamente studiano il bene della lor casa, anch'egli, come se la repubblica fosse la casa di lui propria, senza mai darsi posa, ne procurava i vantaggi, vegliava alla sua difesa, e rimediava ai disordini e bisogni. Esatto anche nelle minime cose (del che fu deriso da alcuni, e spezialmente nella sua satira da Giuliano Apostata), con gran calma [Zonaras, in Annalibus.], e senza fermarsi alle apparenze, esaminava a fondo le cose, i costumi degli uomini e le ragioni; ma nulla spediva degli affari, senza aver prima raccolti i pareri di saggi amici e di dotti consiglieri. Presa poi con maturità una risoluzione, costante e fermo era nel volerne l'esecuzione. Tanto nel rallegrare il popolo con degli spettacoli e con de' congiari, quanto nelle fabbriche e in altre azioni di piacere e d'ornamento del pubblico, non cercava punto con vanità gli applausi del popolo, siccome nè pur si metteva pensiero dei di lui sregolati giudizii. Facea del bene per far del bene, e non per sete di lode; e però gli adulatori alla di lui presenza perdeano la voce. Nè, come Adriano, avea egli gelosia di chi più di lui compariva eccellente nell'eloquenza, nella conoscenza delle leggi, o in altre arti e scienze, anzi tanto più onorava questi tali e cedeva loro con piacere. Trovasi sopra tutto lodato in lui l'amore della religione: falsa religione bensì, ma in cui per sua disavventura egli era nato. Al contrario ancora di Adriano, si provò [492] sempre in lui stabilità nelle amicizie: frutto nondimeno del non aver egli ammesso al grado di suoi confidenti ed amici, se non persone di gran merito per l'ingegno e per la virtù. E bastino per ora queste poche pennellate del ritratto d'Antonino Pio. Da un'iscrizione riferita dal Grutero [Gruterus, Thesaur. Inscript., p. 268, n. 8.] ricaviamo che in questi tempi erano prefetti del pretorio Petronio Mamertino e Gavio Massimo. Questo Gavio, uomo severissimo, durò in quella carica per venti anni, ed ebbe per successore Tazio Massimo. Certo è, che sotto l'imperio di quest'Augusto seguì un'inondazione del Tevere in Roma, attestandolo Capitolino [Capitolinus, in Antonino Pio.]; e il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] pretende ciò avvenuto nell'anno presente, per trovarsi una medaglia, in cui si legge TIBERIS. Non ha sufficiente fondamento una tale opinione. Potrebbe ben esser vero ciò che egli aggiugne, cioè che in quest'anno riuscisse ad Antonino Pio di riportare una vittoria de' Britanni per mezzo di Lollio Urbico suo legato, con aver poi maggiormente ristretti que' popoli con un altro muro più in là che quel di Adriano. Da altri vien riferita questa vittoria all'anno 144.
Anno di | Cristo CXLI. Indizione IX. |
Igino papa 4. | |
Antonino Pio imperadore 4. |
Consoli
Marco Peduceo Siloga Priscino e Tito Hoenio Severo.
Abbiamo da Capitolino [Capitolinus, in Antonino Pio.] che nell'anno terzo dell'imperio di Antonino Pio mancò di vita Annia Galeria Faustina Augusta sua moglie. Però han creduto alcuni avvenuta la sua morte nell'anno precedente. Ma il padre Pagi, in vigore di un'iscrizione, pubblicata dal [493] padre Mabillone, e da me ancora riferita [Thesaurus Novus Inscription., p. 239, n. 3.], in cui è nominata la DIVA, cioè la defunta Faustina, moglie d'Antonino Angusto console per la terza volta, ornato della Quarta Podestà Tribunizia, ha sostenuto che Faustina terminasse la vita dopo il dì 25 di febbraio dell'anno presente, e prima del dì 10 di luglio; nel qual tempo correva la quarta podestà tribunizia, e il terzo anno dell'imperio di Antonino. Forte è questa ragione, ma non toglie affatto il sospetto che Faustina potesse essere morta nell'anno precedente, e quell'iscrizione fosse a lei posta nel presente. Per ordine del senato fu deificata questa imperatrice; alzato a lei un tempio; deputate delle donne flaminiche; poste delle statue d'oro e d'argento, o sia dorate e inargentate. Furono anche in onor suo celebrati i giuochi circensi. Tutto ciò fu fatto dalla cieca gentilità per onorare una donna, la quale, per testimonianza di Capitolino, diede da parlare molto di sè, per la troppa libertà e facilità di vivere; il che Antonino mirava con dolore e con somma pazienza dissimulava. Che nè pure lo stesso Antonino fosse esente da simil difetto, il Platino, il Tillemont, ed altri l'hanno creduto e dedotto dalla satira ingegnosamente composta da Giuliano apostata [Julian., de Caesarib.]. Ma non è assai chiaro quel passo, e il padre Petavio lo pretende una calunnia. Abbiamo solamente di certo da Capitolino, che essendo mancato di vita, molti anni dopo, Tazio Massimo prefetto del pretorio, rammentato di sopra, in suo luogo ne furono sostituiti due da Antonino, cioè Fabio Repentino e Cornelio Vittorino: ed essere allora corsa una pasquinata, in cui si dicea che Repentino era giunto a quella dignità per raccomandazione di una concubina dell'imperadore. Di questo si può anche dubitare, perchè Antonino Pio mancò di vita in età di sessantaquattr'anni, [494] ed essendo l'elezion di Repentino succeduta negli ultimi tempi suoi, non par credibile che un sì saggio principe si lasciasse vincere da sregolate passioni in quell'età. Oltre di che, secondo la falsa morale de' Gentili, non erano biasimevoli certi usi od abusi d'allora. Dalla vita di Avidio Cassio, scritta da Vulcazio Gallicano [Vulcat. Gallicanus, in Avidio Cassio.], abbiamo un barlume, che vivente ancora Faustina, si ribellò uno non so qual Celso contra di Antonino, però nel precedente, o nel presente anno, Faustina, sapendo quanto fosse inclinato il consorte Augusto alla clemenza, gli scrisse che s'egli avesse compassion di costui, non mostrerebbe d'averla per sua moglie nè per gli suoi, perchè se andasse ben fatta ai ribelli, essi non avrebbono pietà nè dell'imperadore nè di chi è congiunto con lui. Ma niun'altra memoria di questo Celso ci ha conservata la storia.
Anno di | Cristo CXLII. Indizione X. |
Pio papa 1. | |
Antonino Pio imperad. 3. |
Consoli
Lucio Cuspio Rufino e Lucio Statio Quadrato.
È di parere monsignor Bianchini [Blanchin., ad Anastas. Bibliothecar.], che in quest'anno, e non già nel precedente, come pensò il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], santo Igino romano pontefice terminasse la sua vita con una più gloriosa morte, perchè martire della Fede di Gesù Cristo. Certo è bensì, che a lui succedette Pio papa. Sappiamo del pari, che anche sotto Antonino Pio continuò la persecuzion de' Cristiani, non già per editto, non già per colpa di questo clementissimo imperadore e principe assai conoscente che la cristiana religione ed i seguaci di essa, per la maggior parte professori della virtù, non meritavano gastighi; ma per [495] gli precedenti non aboliti editti, e per la malvagità de' presidenti e de' giudici, adoratori degl'idoli, a' quali non era vietato il procedere contro ai cristiani. Però circa questi tempi san Giustino, poscia glorioso martire, scrisse un'apologia in favore de' fedeli, e la presentò ad esso imperadore Antonino, dimostrandogli la falsità dei delitti attribuiti ai cristiani, e l'ingiustizia de' supplizii, a' quali erano condannati. L'anno preciso, in cui san Giustino compose e presentò all'imperadore questa prima sua apologia (perchè egli due ne compose) nol sappiamo. Fuor di dubbio è, per attestato di Eusebio [Euseb., in Chron. et Hist. Eccl., lib. 4.], aver non meno essa, che varie favorevoli lettere dei governatori Gentili dell'Asia, prodotto buon effetto, avendo Antonino dipoi, cioè nell'anno 152, spediti ordini che niuno fosse condannato perchè fosse cristiano. Nè si potea aspettar meno da un imperador tale, ch'era la stessa bontà, e che nulla più desiderava che di far fiorire la pace e la contentezza per tutte le provincie del romano imperio. Tanto il portava alla mansuetudine, alla clemenza la sua ben radicata virtù, che nè pur volea punire le offese fatte a lui stesso. Di due sole congiure tramate contra di lui parla Capitolino [Capitolinus, in Antonino Pio.]. L'una di Attilo Taziano. Fu questi processato e convinto dal senato; ma per ordine di Antonino, gastigato col solo esilio. Nè volle il buon Angusto, che si ricercassero i complici, e verso il di lui figliuolo si mostrò in tutte le occorrenze sempre mai favorevole. L'altra fu di Prisciano. Da che costui si vide scoperto, prevenne la clemenza di Antonino con darsi la morte da sè stesso. Faceva istanza il senato [Aurelius Victor, in Epitome.], che si procedesse oltre per iscoprire gli altri congiurati: vietollo Antonino, dicendo, che non era bene il far di più, non amando egli di sapere a quante persone fosse in odio la sua persona. Anche un dì per sospetto, che mancasse [496] in Roma il grano, l'insolente popolo arrivò a tirargli de' sassi. Ma egli in vece di punire il pazzo loro ammutinamento, si studiò di placarli con buone ed amorevoli ragioni. Perciò sotto di lui niuno de' senatori si vide privato di vita. Un solo convinto di parricidio, fu condannato ad essere portato e lasciato in un'isola deserta.
Anno di | Cristo CXLIII. Indizione XI. |
Pio papa 2. | |
Antonino Pio imperadore 6. |
Consoli
Cajo Bellicio Torquato e Tiberio Claudio Attico Erode.
Il secondo console, cioè Attico Erode, fu uno dei celebri personaggi del suo tempo, e trovasi commendato assaissimo da Aulo Gellio [Aulus Gell., Noct. Attic.] e da Filostrato [Philost., de Sophist.]. Si racconta di Attico suo padre, cittadino di Atene, che avendo trovato un gran tesoro, ne scrisse al buon imperadore Nerva, per sapere che ne avesse da fare. La risposta fu, che ne usasse come voleva. Tuttavia temendo egli un dì qualche avania dal fisco, gli tornò a scrivere, come non osando di valersi di tal grazia; e Nerva gli replicò che si servisse di ciò che la fortuna gli avea donato, perchè era cosa sua. Divenne molto più ricco il figliuolo Erode, ma con impiegar in bene le sue ricchezze, con aiutare un gran numero di persone bisognose. La eccellenza sua consisteva nell'eloquenza, in cui forse allora non ebbe pari. Avea esercitati vari governi, e poi fu scelto da Antonino per maestro de' suoi due figliuoli adottivi, cioè di Marco Aurelio e di Lucio Vero, affinchè loro insegnasse la eloquenza greca. Accomodando il padre Pagi le azioni degli Augusti [Pagius, in Crit. Baron.] alle regole da sè stabilite, immagina che in quest'anno Antonino Pio celebrasse i quinquennali del suo imperio. Ma di ciò [497] niun vestigio ci somministra la storia, e nè pur le medaglie, le quali, perchè non esprimono i diversi anni della podestà tribunizia, non ci conducono a discernere i precisi tempi delle opere e degli avvenimenti di questi tempi. Per altro nè pure Antonino Pio lasciò privo il popolo romano de' tanto sospirati spettacoli. Abbiamo da Capitolino [Capitolin., in Antonino Pio.], ch'egli ne diede più volte, facendo comparire in essi degli elefanti, delle corocotte, delle tigri, e insin de' coccodrilli, e de' cavalli marini ed altri ammali stranieri, fatti venire da tutte le parti della terra. E in un dì solo cento lioni si fecero entrar nell'anfiteatro, e se ne fece la caccia.
Anno di | Cristo CXLIV. Indizione XII. |
Pio papa 3. | |
Antonino Pio imperadore 7. |
Consoli
Publio Lolliano Avito e Massimo.
Perchè non è sicuro il nome del secondo console, cioè di Massimo, chiamato da alcuni Cajo Gavio Massimo, io l'ho lasciato andare. Il cardinal Noris [Noris, Epistola Consulari.] e il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.] portarono opinione, che egli si chiamasse Claudio Massimo, e fosse quel medesimo che fu uno de' maestri di Marco Aurelio, poscia imperadore, mentovato da Capitolino [Capitol., in Marco Aurel.], e che da Apulejo [Apulejus, in Apolog. secund.] vien riconosciuto proconsole dell'Africa, con chiaro indicio, che dianzi egli era stato console. Pensa all'incontro il Panvinio [Panvin., in Fast. Consular.], seguitato in ciò da altri, ch'egli fosse quel Gavio Massimo, che di sopra dicemmo avere esercitata la carica di prefetto del pretorio per venti anni, con citare un'iscrizione, in cui si legge: C. GAVIVS C. F. STRABO MAXIMVS COS. Ma cotale iscrizione nulla conchiude, perchè non si sa di certo che appartenga a lui. All'incontro si dee osservare [498] detto da Capitolino [Capitolinus, in Antonino Pio.], avere Antonino pio arricchiti i suoi prefetti, e donati loro gli ornamenti consolari. Suol significar questa frase, l'aver solamente ottenuto il privilegio di portar la veste palmata, di aver la sedia d'avorio, ed altri onorevoli segni, conceduti ai veri consoli, ma senza essere stato console. Però più probabile sembra l'opinione del Noris e del Pagi. Tuttavia comparendo essa non esente da ogni dubbio, meglio ho creduto di nominar solamente Massimo il console suddetto. Circa questi tempi, siccome abbiamo dagli antichi scrittori cristiani [Justin., in Apolog. Eusebius. Tertull., Philastrius et alii.], sboccarono dall'inferno Valentino, Cerdone e Marcione, eresiarchi e maestri d'altri non meno empii discepoli, che si studiarono d'infettar la nostra santa religione con istravaganti immaginazioni, ed opinioni esecrande, contra de' quali poi aguzzarono le lor penne varii santi e dottissimi scrittori cattolici. Scrivono all'incontro san Giustino ed Arnobio, che Antonino Pio, portato dallo zelo dell'erronea religione pagana, vietasse il leggere i versi dello Sibille, e le opere di Cicerone della Natura degli dii, e della Divinazione, ed altri simili, perchè atti a distruggere le imposture e lo stolto culto de' falsi numi. Di ciò nulla dicono gli autori della sua vita. Per conto de' libri sibillini, finti negli antichi tempi, è da vedere il Du-Pin [Du-Pin, Dissertat. Préliminair. aux Auteurs Ecclésiastiq.], che dottamente esamina questo argomento, senza ch'io ne dica una parola di più. Sembra poi inverisimile questo divieto delle opere di Cicerone, il quale se fosse succeduto, tanta era la stima di quello presso i Romani, che non avrebbono taciuta sì importante particolarità gli scrittori della vita di Antonino Pio, giacchè derisero Adriano solamente perchè egli apprezzava più lo stile di Catone che quello di Cicerone.
Anno di | Cristo CXLV. Indizione XIII. |
Pio papa 4. | |
Antonino Pio imperadore 8. |
Consoli
Tito Elio Adriano Antonino Pio Augusto per la quarta volta, e Marco Elio Aurelio Vero Cesare per la seconda.
Si figura il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.], che Antonino Augusto prendesse questo consolato per solennizzare i quinquennali del suo imperio, avendo differita questa festa all'anno presente, che dovea farsi nel precedente. Ma cotal dilazione è immaginata da lui, nè fondata se non sopra le regole da esso ideate, che patiscono molte difficoltà. Credè egli parimente, che in quest'anno Lucio Vero suo figliuolo adottivo, per attestato di Capitolino [Capitolinus, in Lucio Vero.], essendo in età di quindici anni, prendesse la toga virile: nella qual occasione solevano i Romani far festa. Credono altri, che Antonino in fatti la facesse con dedicare il tempio d'Augusto, da lui ristorato, siccome consta dalle medaglie [Mediobarb., in Numism. Imperat.]. Ma Capitolino [Capitolinus, in Antonino Pio.] scrive diversamente, con dire ch'egli in tal congiuntura dedicò il Tempio del Padre, cioè di Adriano, e non già di Augusto. Dal medesimo autore abbiamo, che Antonino Pio lasciò di belle memorie, tanto in Roma che altrove, con fabbriche sontuose, o fatte di pianta o ristorate durante il suo imperio. Cioè il tempio dedicato in onore di esso Adriano suo padre; il Grecostadio, o sia la Grecostasi, edificio, in cui si fermavano gli ambasciadori delle nazioni prima di essere introdotti nel senato. Questo, già rovinato da un incendio, fu da lui rifatto. Ristorò similmente l'anfiteatro di Tito, per quanto si crede; il sepolcro di Adriano; il tempio d'Agrippa, cioè oggidì la Rotonda; il ponte Sulpicio di legno sul Tevere; il Faro, forse di Pozzuolo [500] o di Gaeta. Vedesi in Pozzuolo una iscrizione, testimonio di questo [Thesaurus Novus Inscript., pag. 543, n. 5.]. Racconciò i porti di essa Gaeta e di Terracina. Lo stesso benefizio prestò alle Terme d'Ostia, all'acquidotto d'Anzio, e al tempio di Lanuvio, o sia di Lavinia. Del tempio d'Augusto, da lui risarcito, non parla Capitolino. Soggiugne bensì, aver egli aiutate con danaro molte città, acciocchè o facessero delle nuove fabbriche, o ristorassero le vecchie, ed aver contribuito molto del suo, affinchè i senatori ed altri magistrati potessero con decoro esercitar i loro impieghi. Pausania [Pausanias, lib. 8.] fa menzione di varii altri edifizii attribuiti nella Grecia al medesimo Antonino Augusto. E da un'iscrizione rapportata dal marchese Maffei [Maffejus, Antiquit. Galliae.] si raccoglie ch'egli ristorò le Terme di Narbona nella Gallia. Anche di diverse pubbliche strade per ordin suo riselciate parlano altre iscrizioni.
Anno di | Cristo CXLVI. Indizione XIV. |
Pio papa 5. | |
Antonino Pio imperadore 9. |
Consoli
Sesto Erucio Claro per la seconda volta, e Gneo Claudio Severo.
Intanto si provava una mirabil tranquillità e un delizioso vivere, tanto in Roma che in tutto il romano imperio, pel savio governo di Antonino Pio, che si facea conoscere buon principe, e maggiormente padre a tutti i sudditi suoi. Marco Aurelio, imperador dopo lui, nello scrivere la vita propria [Marcus Aur., de rebus suis, lib. 1, §. 26.], confessa d'aver molto imparato dagli esempli e dalla voce d'esso Antonino, padre suo per adozione, e ci dà un bel saggio della maniera da lui tenuta di vivere. Capitolino [Capitolinus, in Antonino Pio.] anch'esso ce ne lasciò qualche memoria. L'altezza del grado, a cui era pervenuto Antonino, non gli fece punto [501] mutare, se non in meglio, i costumi, perchè mai non gli andò il fumo alla testa. Vivuto da privato con gran moderazione, saviezza ed affabilità [Eutrop., in Breviar.], maggiormente continuò ad esser tale divenuto Augusto, con ritener lo stesso abborrimento al fasto e alla matta superbia, e con istudiare, tanto superiore come era, di farsi eguale agli altri nobili cittadini: il che, invece di sminuire, accresceva negli altri la stima e l'amore della maestà imperiale. Si faceva egli servire da' suoi schiavi, come usavano anche i privati; andava alle case degli amici; famigliarmente passeggiava con loro, come se non fosse imperadore; e voleva che cadauno di essi godesse la sua libertà, senza formalizzarsi, se invitati non venivano alla cena, se, andando egli in viaggio, non l'accompagnavano. Costantissimo fu il suo rispetto verso il senato, e trattava coi senatori in quella stessa guisa e colla medesima bontà ch'egli, allorchè era senatore, desiderava d'essere trattato dagli imperatori. Ritenne sempre il costume di render conto di tutto quel che faceva al senato ed anche al popolo, allorchè avea da pubblicar degli editti. E qualor voleva il consolato, o qualche altra carica per sè o per gli figliuoli, la domandava al senato al pari degli altri particolari. Scrive lo stesso Marco Aurelio, suo figliuolo adottivo, d'aver fra l'altre avuta a lui l'obbligazione d'essere spogliato della vanità, appunto dappoichè fu adottato e alzato da lui; perchè Antonino gli andava insinuando, che si potea vivere anche in corte quasi come persona privata: cosa appunto praticata da lui, con altre virtù commemorate da Marco Aurelio.
Grave nell'aspetto, nel medesimo tempo era cortese, gioviale e dolce verso tutti, infin verso i cattivi, ai quali levava il poter più nuocere, ma senza punirli quasi mai col rigor delle leggi. Quanto egli fosse mansueto, tollerante delle ingiurie, e nemico del vendicarsi, già si è accennato di sopra. Serviranno nondimeno [502] alcuni avvenimenti a maggiormente comprovarlo. In concetto di uno dei più famosi sofisti greci [Philostrat., in Sophistis.] fu in questi tempi Polemone. La più bella casa che fosse nella città di Smirne era la sua. Si era abbattuto a passar di là Antonino, mentre esercitava la carica di proconsole dell'Asia, e vi andò ad alloggiare. Polemone, che si trovava fuor di città, venuto una notte, ed osservando in sua casa tanta foresteria entratavi senza licenza sua, ne fece tal rumore e tanti lamenti, che il buon Antonino di mezza notte stimò meglio di uscirne, e di cercarsi un altro albergo. Creato ch'egli fu poi imperadore, Polemone venne a Roma, ed ebbe tanto animo di andargli a fare riverenza. Antonino l'accolse colla solita sua cortesia senza che gli turbasse l'animo la memoria del passato, e solamente con galante maniera gli ricordò la sua scortesia, con ordinare che gli fosse data una stanza nel palazzo, e che persona nol facesse sloggiare. Accadde ancora che un commediante andò a lamentarsi ad Antonino, e a chiedere giustizia, perchè il suddetto Polemone l'avea cacciato dal teatro nel bel mezzodì: E me, rispose allora l'imperadore, egli ha cacciato fuor di casa in tempo di mezza notte, e non ne ho fatta querela. Bisogna ben credere che l'alterigia e l'albagia fossero il quinto elemento della maggior parte di que' decantati sofisti greci di allora. Antonino, a cui premeva forte la buona educazion di Marco Aurelio suo figliuolo adottivo fece venir dalla Grecia Apollonio, non già il Tianeo, ma bensì un filosofo stoico [Capitolinus, in Antonino Pio.], ch'era in gran riputazion di sapere allora. Venne costui a Roma, menando seco molti dei suoi discepoli, che graziosamente, per attestato di Luciano [Lucianus, in Demonacte.], furono chiamati da Demonatte filosofo cinico Argonauti nuovi, perchè tutti in viaggio menati dalla speranza di divenir tutti ricconi [503] in Roma. Mandò a dirgli Antonino che venisse al palazzo, per consegnargli il figliuolo; e l'orgoglioso sofista altra risposta non diede, se non che toccava al discepolo di andar a trovare il maestro, e non già al maestro di andare al discepolo. In somma l'essere dotto e prudente non è lo stesso: e pur troppo il sapere suol mandare de' fumi alla testa. Si mise a ridere Antonino, e disse: Mirate che bel capriccio! A costui non è incresciuto di venir sì da lontano a Roma, ed ora gl'incresce di venir solamente dalla sua casa al palazzo. Contuttociò permise che Marco Aurelio andasse a prendere le lezioni, dove Apollonio volle, e durò fatica a contentar costui nel salario. Un saggio ancora della sua mansuetudine diede il buon Antonino nel visitar che fece la casa di Valerio Omulo [Capitolinus, in Antonino Pio.]. Al vedere le belle colonne di porfido, delle quali essa era ornata, se ne maravigliò, e dimandò onde le avesse avute. Omulo, in vece di gradire la stima che facea un imperadore degli ornamenti di sua casa, sgarbatamente gli rispose: In casa d'altri si ha da essere mutolo e sordo. Tanto questa impertinenza, quanto altri motti pungenti del medesimo Omulo, persona satirica e maligna, sopportò sempre con pazienza il buon imperadore Antonino, senza far valere giammai i diritti della maestà imperiale, e senza farne mai vendetta.
Anno di | Cristo CXLVII. Indizione XV. |
Pio papa 6. | |
Antonino Pio imperadore 10. |
Consoli
Largo e Messalino.
Cresceva ogni dì più l'affetto di Antonino Pio verso di Marco Aurelio Cesare, non solamente perchè figliuolo suo adottivo e marito di Faustina sua figlia, ma perchè scopriva in lui ben radicata la saviezza con altre virtù che insegnava [504] la filosofia di quei tempi, e per le quali meritò poi di essere appellato Marco Aurelio Antonino il Filosofo. Avendogli appunto [Capitolinus, in Marco Aurel.] Faustina partorita una figliuola, cioè Lucilla, maritata poi con Lucio Commodo, o sia Lucio Vero, da che divenne Augusto, volle Antonino Pio esaltar maggiormente l'amato suo genero e figliuolo, conferendogli in questo anno la Tribunizia Podestà, l'imperio proconsolare fuori di Roma, e il diritto di far cinque relazioni in qualsivoglia senato. Pretende il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], che Marco Aurelio fosse in quest'anno ancora dichiarato Imperadore e Collega dell'Imperio con suo padre Antonino. Il cardinal Noris pretese di no, e par ben più sicura la di lui opinione. Il gius della quinta relazione, conferito a Marco Aurelio, non conveniva ad un imperadore, la cui autorità non era ristretta, ma si stendeva a quello che gli piaceva. Scrive inoltre Capitolino, che quel maligno uomo di Valerio Omulo, di cui poco fa si è parlato, osservata un giorno Domizia Calvilla, madre di Marco Aurelio, la quale, dopo il presente anno, venerava in un giardino la statua di Apollo, disse sotto voce ad Antonino: Colei prega ora, che tu chiuda gli occhi, e suo figliuolo sia imperadore. Non ne fece alcun caso l'imperadore; tanto era conosciuta la probità di Marco Aurelio, tanta era la modestia nel principato imperatorio; le quali ultime parole non si sa se si abbiano da riferire a Marco Aurelio, oppure ad Antonino stesso, regnante con tal moderazione, che non credeva dovergli alcuno augurare la morte. Pareva ancora che Antonino Pio portasse affetto all'altro suo figliuolo adottivo, cioè a Lucio Commodo [Capitolinus, in Lucio Vero.]; ma era ben differente il calibro di questo amore. Imperciocchè finchè visse, il lasciò sempre nello stato di persona privata, senza mai conferirgli il titolo di [505] Cesare, nè altra dignità, per cui apparisse che destinava ancor lui all'imperio. Era egli solamente appellato Figliuolo dell'Imperadore, e quando Antonino usciva in campagna, Lucio Commodo non andava in carrozza col padre, ma bensì nel cocchio del capitan delle guardie. Tuttociò chiaramente apparisce da quanto ne scrisse Capitolino; falsa perciò o adultera si può credere qualche medaglia o iscrizione, che sembra insinuare il contrario [Tillemont, Mémoires des Empereurs. Pagius, Crit. Baron.]. Conosceva assai Antonino Pio i difetti di questo giovinetto, ma non lasciava di compatirlo, ed amava in lui la semplicità dell'ingegno, e l'andar egli alla buona nella sua maniera di vivere. Abbiamo dalla cronica alessandrina [Chron. Pascale, Histor. Byzantin.] che nell'anno presente Antonino Pio esercitò la sua liberalità verso i debitori del Fisco, con rimettere loro tutto il debito, e bruciar pubblicamente le cedole delle loro obbligazioni. Ancor questo possiam conghietturare fatto per solennizzar maggiormente la promozion predetta di Marco Aurelio a maggiori onori. Correndo intanto l'anno novecentesimo dalla fondazion di Roma, sono stati di parere alcuni dotti uomini che nell'anno presente si celebrassero in Roma i giuochi secolari con somma magnificenza. L'ha negato il padre Pagi. Ma Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.], secondo l'edizione del padre Scotto, può abbastanza assicurarcene in dicendo: Celebrato magnifice Urbis nongentesimo.
Anno di | Cristo CXLVIII. Indizione I. |
Pio papa 7. | |
Antonino Pio imperadore 11. |
Consoli
Lucio Torquato per la terza volta, e Marco Salvio Giuliano.
Pietro Relando [Reland., Fast. Consular.], accuratissimo illustratore dei Fasti consolari dell'anno 146 dell'Era Cristiana sino al fine, chiama il secondo console Cajo Giuliano Vetere, ricavandolo da un'iscrizione riferita dal Gudio. Ma converrebbe prima accertarsi, se le tante iscrizioni pubblicate dal Gudio fossero tutte di buon conio ed esenti da ogni sospetto: il che non sarà sì facile. Quanto a me vo' giudicando più sicuro partito il chiamar questo console Marco Salvio Giuliano, giurisconsulto celebratissimo di questi tempi, milanese di patria, perchè tale si trova appellato in una iscrizione da me data alla luce [Thesaurus Novus Inscript., p. 329, n. 3.], e perchè sappiamo da Sparziano [Spartianus, in Didio Juliano.], esser egli stato console due volte. Se il console dell'anno presente fosse stato Cajo Giuliano Vetere, l'anno sarebbe stato notato Torquato et Vetere Coss. perchè l'ultimo cognome o soprannome soleva enunziarsi, secondo l'uso più familiare d'allora. Ma in tutt'i fasti antichi noi troviamo solamente Torquato et Juliano Coss. Forse anche si può dubitare, se questo Torquato fosse appellato console per la terza volta. Che in quest'anno si celebrassero in Roma i decennali di Antonino Pio Augusto, chiaramente apparisce dalle medaglie [Mediobarb., in Numism. Imperator.] che ne parlano e rammentano i voti pubblici fatti per la di lui salute. Crede il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], che nell'anno presente san Giustino presentasse ad Antonino Pio la sua prima apologia, creduta un pezzo la seconda, in difesa della religione cristiana.
Anno di | Cristo CXLIX. Indizione II. |
Pio papa 8. | |
Antonino Pio imperadore 12. |
Consoli
Servio Scipione Orfito e Quinto Nonio Prisco.
Se crediamo al Relando [Reland., Fast. Consular.], il primo console fu Sergio Scipione Orfito; in prova di che egli cita quattro iscrizioni della Raccolta di Marquardo Gudio, nelle quali chiaramente si legge Sergio. Ma io torno a dire (e ne chieggo perdono): convien andar cauto a fidarsi de' marmi del Gudio, dati alla luce pochi anni sono. A buon conto la prima di quelle iscrizioni, che si dice data sotto questi consoli, è patentemente falsa, perchè vi si parla delle Terme Costantiniane, che certo non erano per anche nate. Ho io dunque dato ad esso Orfito il prenome di Servio, perchè nelle iscrizioni rapportate dal Panvinio e dal Grutero si legge SER. che significa Servio e non Sergio. Pensa il Noris [Noris, Epist. Consulari.] che questo console s'abbia da appellare Sergio Vettio Scipione Orfito. Del prenome ho parlato. Per conto del nome di Vettio, lo reputo cosa dubbiosa. Anche lo Spon [Sponius, Section. III, num. 28.] rapporta un'iscrizione, in cui il secondo console è appellato Sosio Prisco. Sarebbe da vedere, se quella fosse un'iscrizione sicura, in cui comparisce un liberto di Tito Augusto, cioè di un principe morto sessanta anni prima. In ogni caso col Fabretti si può immaginare ch'egli fosse chiamato Nonio Sosio Prisco. In un mattone antico da me rapportato [Thesaur. Nov. Inscription., pag. 330, n. 3.] egli vien chiamato Priscino, o per vezzo o per distinguerlo da un altro Prisco. Parlando le medaglie [Mediobarbus, in Numism. Imperat.] di quest'anno di una munificenza usata dall'imperadore Antonino al popolo romano, stima il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] ciò [508] fatto per la celebrazione dei decennali dell'imperio cesareo di Marco Aurelio. Se sia vero, niuno lo potrà dire. Piena avea la testa esso padre Pagi di quinquennali, decennali, quindecennali, vicennali, ec. tutto riferendo ad essi; ma non poco è da diffalcare dalle regole sue.
Anno di | Cristo CL. Indizione III. |
Aniceto papa 1. | |
Antonino Pio imperadore 13. |
Consoli
Gallicano e Vetere.
Il prenome e nome di questi consoli son tuttavia incerti. Ha creduto il Panvinio [Panvinius, in Fastis Consul.], che il secondo si chiamasse Cajo Antistio Vetere, perchè si trova sotto Domiziano un personaggio di tal nome. La conghiettura è assai debole. Meno si può accordare al Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], il chiamare il primo di questi consoli Glabrione Gallicano, e al Bianchini [Blanc., ad Anastas. Bibliothecar.] l'appellarlo Quinto Romulo Gallicano, senza che essi ne adducano pruove sufficienti. Nell'anno presente, secondo i conti del medesimo Bianchini, passò a miglior vita s. Pio pontefice romano, coronato col martirio, e sulla cattedra di san Pietro fu posto Aniceto. Truovansi medaglie battute in quest'anno dal senato e popolo romano [Mediobarbus, in Numism. Imperator.], in cui vien dato ad Antonino Pio il titolo di Ottimo Principe; e si dice che egli ha accresciuto il numero de' cittadini. Ben giustamente si meritò questo imperadore un sì glorioso titolo, perchè egli spendeva tutti i suoi pensieri e le sue applicazioni per procurare il pubblico bene, tanto di Roma, quanto di tutte le provincie dell'imperio romano [Capitolinus, in Antonino Pio.]. Sapeva egli esattamente lo stato d'esse provincie, e quanto se ne ricavava. Raccomandava agli esattori de' tributi di procedere senza rigore, molto più senza avanie nel loro uffizio; e qualora mancavano [509] a questo dovere, gli obbligava a render conto rigorosamente della loro amministrazione. La porta e gli orecchi suoi erano sempre aperti a chiunque si trovava aggravato da sì fatti ministri, abborrendo egli troppo di arricchirsi colle lagrime e coll'oppressione de' sudditi. Però sotto il suo regno furono ricche e floride le provincie romane tutte. Che se ad alcuna incontravano inevitabili disastri di carestie, tremuoti, epidemie e simili malanni, si trovava in lui un'amorevol prontezza ad esentarle per un convenevole tempo dalle imposte. Le sue maggiori premure riguardavano la giustizia; e però quanto egli era attentissimo e indefesso nel farla, tanto ancora si studiava di scegliere chi credeva abile ed inclinato ad amministrarla agli altri. Chi più si distingueva in questo, più veniva da lui amato e promesso a gradi maggiori. Molti editti fece in bene del pubblico, servendosi de' più celebri giurisconsulti d'allora, cioè di Vinidio Vero, Salvio Valente, Volusio, Metiano, Ulpio Marcello e Jaboleno. Vietò il seppellire i morti nelle città, perchè doveva esser ito in disuso il rigore delle antiche leggi. L'aggravio delle poste con savii regolamenti fu da lui scemato. Probabilmente è di lui una legge, citata da santo Agostino [August., de Adulter. Conjug., lib. 2, cap. 8.], che non fu lecito al marito il volere in giudizio gastigata la moglie per colpa di adulterio, quando anch'egli fosse mancato di fedeltà verso della stessa. Se talun veniva [Marcus Aurel., lib. 1, cap. 16, de Rebus suis.] per proporgli qualche cosa utile al pubblico, con piacere la ascoltava; e lo stesso allegro volto faceva a chiunque gli dava qualche buon avviso, senza aversi a male che quei del suo consiglio s'opponessero al di lui sentimento, nè che vi fossero persone, le quali ingiustamente disapprovassero il governo suo. Molto ancora onorava i veri filosofi: diede pensioni e privilegi per tutto l'imperio romano, tanto ad essi [510] che ai professori dell'eloquenza. Sopportava poi que' filosofi, ch'erano tali solamente in apparenza, e senza mai rimproverar loro la superbia od ipocrisia. E questo basti per ora delle ragioni, per le quali si meritò Antonino Pio l'eminente elogio di Principe Ottimo.
Anno di | Cristo CLI. Indizione IV. |
Aniceto papa 2. | |
Antonino Pio imperadore 14. |
Consoli
Sesto Quintilio Condiano e Sesto Quintilio Massimo.
Senza i prenomi di Sesto, il Pagi e il Relando ed altri aveano proposto i consoli presenti. Loro l'ho aggiunto io in vigore d'un'iscrizione che si legge nella mia Raccolta [Thesaur. Novus Inscript., pag. 330, n. 5.]. Nuovo non è, che due fratelli portino il medesimo prenome. Il cognome o sia soprannome li distingueva. Nelle medaglie di Antonino Pio [Mediobarb., in Numism. Imper.] spettanti all'anno presente, è fatta menzione dell'Annona, cioè della provvision di grani, fatta dal buon imperadore per sollievo del popolo romano. Se ne trova menzione anche sotto altri anni. Ben sollecito in sì importante affare fu Antonino Augusto [Capitol., in Antonino Pio.], trattandosi di provvedere di vitto all'immenso popolo allora abitante in Roma. Un anno ancora vi fu, in cui si patì una grave carestia. Servì questa a far meglio conoscere il generoso ed amorevol cuore del principe. Abbondante provvision da ogni parte fece egli di grano e d'olio e di vino colla sua propria borsa, e tutto gratuitamente donò al suo popolo. Pareva che questo imperadore inclinasse troppo al risparmio, e quasi all'avarizia; ma ciò che veniva disapprovato dall'ignorante popolo, nell'estimazion de' saggi era uno de' suoi più begli elogi. Levò egli via moltissime pensioni date da Adriano a delle persone inutili, con dire, che era [511] cosa indegna, anzi crudele, il lasciar divorare il pubblico da chi non gli prestava servigio alcuno. A Mesomede Candiotto, poeta e sonator di lira, che dovea essere ben eccellente nell'arte sua, perchè di lui parlano con lode Eusebio [Eusebius, in Chron.] e Suida, sminuì Antonino il salario. Vendè ancora vari addobbi ed altre cose superflue de' palazzi imperiali, ed alcuni poderi ancora: del che probabilmente si fecero molte dicerie. Pure tutto ciò era per pubblico bene, e non per ammassar tesori, perchè Antonino in occasione magnificamente spendea, se così richiedeva il bene e il bisogno della repubblica, e il risparmio suo tendeva al non aggravar mai di nuove imposte i popoli. Se dice il vero Zonara [Zonaras, in Annal.], occorrendo qualche guerra, o pur altro bisogno di regalare i soldati, non richiedeva egli danari da alcuno, non imponeva gabelle; ma, messi pubblicamente all'incanto gli ornamenti del palazzo, e fin le gioie ed altri arredi della moglie Augusta, col ricavato soddisfacea i soldati. Passata poi quella necessità, procurava di ricuperar le cose preziose vendute, con rifonderne il prezzo. Alcuni le restituivano; ma altri no, senza che Antonino se ne sdegnasse, nè inquietasse per questo i compratori. Noi vedremo all'anno 170, che Marco Aurelio suo successore fece lo stesso, talmente che si può fondatamente sospettare che Zonara si sia ingannato attribuendo questo fatto glorioso ad Antonino Pio, quando esso unicamente si può credere di Marco Aurelio Antonino. Guardossi egli sempre dall'imprendere alcun viaggio lungo. Il suo andar più lontano era nella Campania e alle terre che possedeva nelle vicinanze di Roma; perchè diceva di sapere quanto costasse ai popoli la corte d'un imperadore in viaggio, ancorchè egli camminasse con poco seguito. Doveva ben esso Augusto avere inteso i lamenti delle città per li tanti viaggi fatti da Adriano, o pure da [512] Domiziano. E quanto egli fosse alieno dal succiar il sangue de' sudditi, lo fece ben vedere [Capitolin., in Antonino Pio.] con levar via tutti gli accusatori che abbondavano in altri tempi, perchè toccava loro la quarta parte delle condanne. Però sotto di lui il fisco fece poche faccende. Avea questo usato in addietro d'ingojar le sostanze di quei governatori, giudici ed altri ministri, contra de' quali o le comunità o i privati avessero intentate querele per danari indebitamente presi nel loro uffizio; Antonino restituì ai loro figliuoli i beni confiscati, con obbligo nondimeno di rifare ai provinciali il danno ad essi dato. Nè egli fu mai veduto accettar eredità a lui lasciate da chi avea de' figliuoli. Se s'ha da credere a Zonara [Zonar., in Annal.], egli bruciò ed abolì il senatusconsulto fatto da Giulio Cesare, con cui era proibito il far testamento, in cui non fosse lasciata all'erario della repubblica una determinata parte dell'eredità. Parla anche Pausania [Pausanias, lib. 8.] d'una legge, per cui chi avea la cittadinanza romana per privilegio, senza che questa si stendesse ai suoi figliuoli, l'eredità sua dovea passare ad altri cittadini, o pure al fisco, restandone privi essi suoi figliuoli. Ma Antonino più riguardo avendo alle leggi dell'umanità, che all'altre inventate dall'avarizia de' principi cattivi, volle che ne' loro figli passasse l'eredità paterna.
Anno di | Cristo CLII. Indizione V. |
Aniceto papa 3. | |
Antonino Pio imperadore 15. |
Consoli
Marco Acilio Glabrione e Marco Valerio Omulo o sia Omullo.
Questo Omulo o Omullo, console, quel medesimo è che abbiam veduto di sopra, di genio satirico e maligno. Può essere che Antonino non avesse a male la libertà del di lui parlare, anzi prendesse per [513] buffonerie gustose i di lui motti piccanti, o pure che coi benefizii volesse guadagnar la di lui tagliente lingua in suo favore. Da molti letterati vien creduta data in quest'anno la lettera [Eusebius, Hist. Eccles., lib. 4, c. 13.] di Antonino Pio a varie città dell'Asia in favor dei cristiani, comandando di non inferir loro molestia per cagion della loro religione, ma solamente in caso d'altri delitti vietati dalla legge comune. Altri han preteso ch'essa lettera sia di Marco Aurelio Augusto, e però spettante agli anni del suo imperio. Certo è che si parla in essa di vari tremuoti accaduti allora nell'Asia, de' quali i ciechi o nemici Gentili soleano sempre accagionare la religion cristiana. Ora Capitolino [Capitolinus, in Antonino Pio.] lasciò scritto, che, regnando Antonino Pio, varie disavventure pubbliche accaddero, cioè la fame, di cui abbiam parlato, e la rovina del Circo, un fiero tremuoto, per cui molte città e terre dell'isola di Rodi e dell'Asia furono atterrate. In Roma un terribile incendio consumò trecento quaranta tra isole e case. Per isole si crede che gli antichi appellassero le case separate dall'altre; con tale opinione pare che non s'accordi la descrizion di Roma a noi venuta da Publio Vittore, perchè ivi sono attribuite a quella gran città Insulae per totam Urbem XLVI Millia et DCCII, e solamente Domus MDCCXC. Col nome di Domus paiono indicati quei che ora chiamiamo palazzi; col nome d'isole le ordinarie case del popolo romano, l'una dall'altra distinte, ma insieme coi muri unite. Anche le città di Narbona e di Antiochia, e la gran piazza di Cartagine, rimasero maltrattate da un somigliante flagello del fuoco. Parla Ancora Zonara [Zonaras, in Annal.] de' tremuoti succeduti allora, che rovesciarono varie città della Bitinia e dell'Ellesponto, con abbattere specialmente il tempio di Cizico, creduto il più grande e il più bello che fosse allora in Asia. [514] Servirono queste pubbliche sciagure a far maggiormente risplendere la liberalità di Antonino Pio; perchè a sue spese furono rifatte varie di quelle città, o pure contribuì egli non poco per aiutare i popoli a rifarle. Aristide [Aristid., Oration. 16.], sofista celebre, attesta che il gran tempio di Cizico fu poi terminato sotto l'impero di Marco Aurelio Augusto.
Anno di | Cristo CLIII. Indizione VI. |
Aniceto papa 4. | |
Antonino Pio imperad. 16. |
Consoli
Cajo Bruttio Presente e Aulo Giunio Rufino.
Perchè le medaglie [Mediobarbus, in Numism. Imper.] coniate nell'anno presente ci fanno vedere la Vittoria che mette in capo all'imperadore una corona d'alloro, possiamo ben conghietturare che in questi tempi avessero qualche guerra i Romani, benchè non apparisca che Antonino prendesse se non due volte il nome d'imperadore, significante Vincitore. Scrive Capitolino [Capitolinus, in Antonino Pio.], aver egli amata sommamente la pace, con andare in varie occasioni ripetendo quel detto di Scipione, che gli era più caro di salvare un sol cittadino romano, che di uccidere mille nemici. Ma altro è l'amar la pace, ed altro non aver guerra. Anche i principi di genio pacifico sono talvolta, loro malgrado, costretti a guerreggiare, e se Antonino non andò mai in persona alla guerra, vi mandò bene i generali suoi. Già abbiamo accennata di sopra quella della Bretagna, felicemente compiuta da Lollio Urbico. Abbiamo dallo stesso Capitolino, che questo Augusto mandò delle sue milizie in soccorso degli Olbiopoliti, che erano in guerra coi Taurosciti verso il Ponto, e colla forza dell'armi obbligò que' barbari a dar degli ostaggi agli Olbiopoliti. [515] Da san Giustino [Justinus, in Dialog. contra Triphon.] si può inoltre dedurre, che avendo fatto i Giudei qualche nuova ribellion nel loro paese, furono messi in dovere dalle armi di Antonino Augusto. Di maggiori notizie intorno a ciò non abbiamo, perchè son perite le antiche storie. Per altro attesta Capitolino, che questo imperadore non mai volontariamente, ma per non potere di meno, fece moltissime guerre, valendosi in esse de' suoi legati, o sia de' suoi luogotenenti. E a lui pare che si possa più credere che ad Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.], il quale scrive, aver Antonino senza guerra alcuna governato per ventitrè anni il romano imperio.
Anno di | Cristo CLIV. Indizione VII. |
Aniceto papa 5. | |
Antonino Pio imperad. 17. |
Consoli
Lucio Elio Aurelio Commodo e Tito Sestio Laterano.
Il secondo console, cioè Laterano, è chiamato da Capitolino [Capitol., in Lucio Vero.] Sestilio Laterano, e in un'iscrizione greca presso il Grutero, Tito Sestio Laterano. Perchè il cardinal Noris [Noris, Epist. Consulari.] trovò Lucio Sestio Sestino Laterano console trecento sessantasei anni prima dell'Era cristiana, conchiuse egli, che Sestio e non Sestilio fosse il nome ancora di questo console. Ma non toglie ogni dubbio cotale osservazione; e potrebbe anche nascere sospetto, se il marmo greco del Grutero fosse assai esattamente copiato. A buon conto il Panvinio [Panvin., Fast. Consular.] ne cita un altro latino, in cui leggiamo Sestilio Laterano, ed Aquilio Orfito Consoli: il che s'accorda col testo di Capitolino. Vien qui portata dal Relando [Reland., Fast. Consular.] un'iscrizione del Gudio, dove questo console si vede appellato Sestio Sestilio Laterano. Ma [516] non si può far fondamento sopra i marmi del Gudio. Il prenome di Sesto combatte coll'iscrizion gruteriana. Quivi si trovano Cassari, artefici di nome sospetto, e Scambillari, che certo dovrebb'essere Scabilluri. Forse perchè il Gudio, uomo dottissimo, s'avvide che non erano sicuri tutti i marmi ch'egli aveva raccolti, non li volle mai pubblicare in sua vita. S'è poi trovato chi meno scrupoloso di lui gli ha dati dopo la sua morte alle stampe. Il console primo ordinario di quest'anno è Lucio Elio Aurelio Commodo, quel medesimo che fu adottato da Antonino Pio [Capitol., in Lucio Vero.], nè avea altro onorifico titolo, che quello di figliuolo dell'imperadore. L'aveva il padre promosso alla questura nel precedente anno, nella qual carica diede al popolo, ma con denaro paterno, il divertimento di uno spettacolo di gladiatori, ed ebbe l'onore di sedere in mezzo all'imperadore e a Marco Aurelio Cesare suo fratello. Aveva egli passati i verdi suoi anni nello studio delle lettere, non avendo tralasciato il buon Antonino di procurargli tutti i mezzi convenevoli per una buona educazione, affinchè divenisse un valentuomo. Gli assegnò egli per aio Nicomede, e per maestri nella grammatica latina Scauro, figliuolo di quello Scauro ch'era stato grammatico di Adriano; nella grammatica greca Telefo, Efestione ed Arprocazione; nella retorica greca Apollonio Caninio Celere ed Erode Attico, da noi veduto console; nella retorica latina Cornelio Frontone, anch'esso uomo consolare: e nella filosofia stoica Apollonio, della cui albagia si parlò di sopra, e Sesto anch'esso celebre filosofo di que' tempi. Tuttochè Lucio Commodo non avesse gran testa per profittar nelle lettere, egli portò un singolar amore a tutti questi suoi maestri, ed essi non meno amarono lui. Imparò a far versi e a compor delle orazioni; e riuscì miglior oratore che poeta, o, per dir meglio, fu più cattivo poeta che retorico. Dilettavasi egli, più [517] che delle lettere, del lusso, delle delizie, di aver buona conversazione di gente allegra, di andare a caccia, di far altri esercizii cavallereschi, e sopra tutto di assistere ai giuochi circensi ed ai combattimenti de' gladiatori. Tale era Lucio Commodo, che vedremo fra pochi anni imperadore, ed appellato Lucio Vero. Si raccoglie poi dalle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imp.], che in quest'anno l'Augusto Antonino fu liberale per la settima volta verso il popolo romano con qualche conciario, o sia donativo a lui fatto. Questo era l'uso degl'imperadori, per tenerlo contento, e fargli dimenticare di avere una volta avuto tanta parte nel governo e nella padronanza.
Anno di | Cristo CLV. Indizione VIII. |
Aniceto papa 6. | |
Antonino Pio imperad. 18. |
Consoli
Cajo Giulio Severo e Marco Giunio Rufino Sabiniano.
Ho io aggiunto il nome di Giunio al secondo console, fondato sopra un'iscrizione pubblicata dal Doni, e posta ancora nella mia raccolta [Thesaurus Novus Inscript., p. 332, n. 2.]. Molti furono ancora in questi tempi consoli straordinari, o vogliam dire i sostituti agli ordinari; ma quai fossero, e in qual anno maneggiassero i fasci consolari, ci mancano memorie da poterlo chiarire. Pare bensì che si raccolga da un'iscrizione, recata dal Panvinio [Panvinius, in Fastis Consularibus.] e dal Grutero [Gruter., in Thesaur. Inscr., p. 607, n. 1.], che nel dì 5 novembre del presente anno fossero consoli sostituiti Anzio Pollione ed Opimiano. Ma con questo marmo parrebbe che facesse guerra un altro pubblicato dal medesimo Panvinio, in cui nel dì 5 di dicembre si veggono tuttavia consoli Severo e Sabiniano, se non sapessimo che gli atti pubblici erano per lo più segnati col nome de' consoli ordinari, [518] senza far caso de' sostituiti. Una medaglia [Mediobarbus, in Numismat. Imp.] appartenente a quest'anno ci fa veder la Bretagna in abito di donna mesta, sedente presso una rupe con delle spoglie lì presso potrebbe ciò porgere indizio, che qualche torbido fosse stato nella Bretagna, con vantaggio dell'armi romane.
Anno di | Cristo CLVI. Indizione IX. |
Aniceto papa 7. | |
Antonino Pio imperad. 19. |
Consoli
Marco Cejonio Silvano e Cajo Serio Augurino.
Non passano senza disputa i prenomi di questi consoli, come si può vedere negl'Illustratori de' fasti; ma un'iscrizione del Grutero [Gruterus, Thes. Inscr., p. 128, n. 5.], e quanto ha osservato il cardinal Noris [Noris, Epist. Consular.], ci dà assai fondamento per fermarci ne' nomi proposti, e non già in una iscrizione del Gudio, dove compariscono consoli Giulio Silvano e Marco Vibulio Augurino. Torno a dire, che a fontane torbide ha bevuto il Gudio, nè si può far capitale de' suoi marmi, se non quando si veggono presi da buona parte. Monsignor Bianchini [Blanchin., ad Anastas. Biblioth.] in vece di Serio Augurino mette Sestio Augurino, ma senza produrne il perchè. Il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.], che sempre ha nella manica i decennali, quindecennali, etc., degl'imperadori, pretese che in quest'anno Antonino Pio celebrasse i vicennali del suo imperio proconsolare. Il padre Stampa [Stampa, Additament. ad Fast. Sigonii.] ha dimostrato che egli prende abbaglio in citare per prova di tal pretensione una medaglia, dove è notata la tribunizia podestà XXI di Antonino Pio, la quale cominciava solamente nel febbraio dell'anno seguente.
Anno di | Cristo CLVII. Indizione X. |
Aniceto papa 8. | |
Antonino Pio imperad. 20. |
Consoli
Barbaro e Regolo.
Null'altro si sa di questi consoli, se non che il cardinal Noris [Noris, Epist. Consulari.] andò conghietturando che il primo fosse chiamato Vetuleno Barbaro, ma con dubbiosa prova. Il Panvinio [Panvinius, in Fastis Consul.] in vece di Barbaro stimò il di lui nome Barbato. Così pure è scritto nell'edizione d'Idazio [Idacius, Fast.]. Anzi Barbato ancora si legge in una iscrizione trovata in questi ultimi tempi nelle Terme Ercolane della Transilvania, e rapportata dal signor Pasquale Garofalo nel trattato delle medesime Terme, e da me ancora nella mia Raccolta [Thes. Novus Inscript., pag. 332, n. 3.]. Ma avendo gli antichi Fasti, e qualche altra iscrizione, Barbaro e non Barbato, possiamo per ora attenerci ad essi. Sotto questo anno si vede una medaglia [Mediobarbus, in Numism. Imperator, ex Goltzio.] battuta in onore di Antonino Pio, in cui gli è dato il titolo di Romolo Augusto. Ciò sembrar può strano; perciocchè questo pacifico e prudentissimo Augusto, secondochè scrive Capitolino [Capitolinus, in Antonino Pio.], in tutte le sue parti fu lodevole, e tale che, per sentenza di tutti i buoni, e con ragione, veniva paragonato a Numa Pompilio. Era ben d'altro umore Romolo. Eutropio [Eutrop., in Breviar.] ebbe a dire che siccome Trajano fu creduto un altro Romolo, così Antonino Pio un altro Numa Pompilio.
Anno di | Cristo CLVIII. Indizione XI. |
Aniceto papa 9. | |
Antonino Pio imperad. 21. |
Consoli
Tertullo e Claudio Sacerdote.
Il nome di Claudio, dato al console Sacerdote, non è autenticato da memoria alcuna sicura dell'antichità, e solamente si appoggia sopra una ragionevol conghiettura del cardinal Noris [Noris, Epist. Consular.]. In una medaglia [Mediobarbus, in Numism. Imperat.] si fa menzione della Ottava Liberalità usata da Antonino Pio Augusto al popolo romano. Questa dal Mezzabarba è riferita all'anno presente, ma può egualmente appartenere ad altri anni o precedenti o susseguenti; perchè non v'è espresso il numero della podestà tribunizia. Fuor di dubbio è, che questo significa un nuovo congiario, con cui egli rallegrò il popolo romano.
Anno di | Cristo CLIX. Indizione XII. |
Aniceto papa 10. | |
Antonino Pio imperad. 22. |
Consoli
Plautio Quintilio per la seconda volta e Stazio Prisco.
Quintillo è appellato il primo console in vari Fasti. Ho io scritto Quintilio, ed anche colla nota del secondo consolato, non conosciuto dagli altri, in vigore di un'iscrizione esistente nella biblioteca ambrosiana di Milano, e da me inserita nella mia nuova [Thesaurus Novus. Inscr., pag. 333, n. 3.] raccolta. Che il secondo console, cioè Stazio Prisco, portasse il prenome di Marco, fondatamente lo conghietturò il cardinal Noris [Noris, Epist. Consular.]. Ci avvisano le medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imper.], che in questo anno si celebrarono in Roma i vicennali dell'imperio augustale di Antonino Pio, veggendosi i voti pubblici affinchè egli [521] pervenisse al terzo decennio dell'imperio suo. In tal occasione dedicò il tempio d'Augusto con averlo nondimeno solamente ristorato: del che parlano ancora le medesime medaglie. Credesi che in quest'anno fosse celebrato in Roma dal pontefice Aniceto il concilio [Blanch., ad Anast. Bibliothecar.], a cui intervenne il celebre san Policarpo, e dove fu decisa la controversia intorno al giorno in cui si ha da fare la Pasqua.
Anno di | Cristo CLX. Indizione XIII. |
Aniceto papa 11. | |
Antonino Pio imperad. 23. |
Consoli
Appio Annio Atilio Bradua e Tito Clodio Vibio Varo.
È stata disputa fra gli eruditi intorno al cognome e soprannome del secondo console, volendolo alcuni Vero ed altri Varo. In favore degli ultimi è già deciso il punto, stante una riguardevole iscrizione, scoperta in Lione, e da me riferita altrove [Thesaurus Novus Inscript., p. 333, n. 4.], la quale ci dà con sicurezza i nomi e cognomi di questi consoli. Intorno a questi tempi son di parere alcuni letterati che succedesse quanto scrive Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome, edit. Scotti.], cioè che vennero ambascerie de' popoli dell'Ircania, Battriana, e fin dell'India, ad inchinare Antonino Pio. Ma niuna ragion v'ha di riferire un cotal fatto più all'anno presente che ad altri precedenti. Quel che è certo, ancorchè Antonino fosse uomo di pace, e pieno di benignità e mansuetudine [Capitolinus, in Antonino Pio.], pure il credito della sua saviezza, costanza ed equità, gli acquistò tanta autorità e buon nome anche presso le nazioni barbare, che non solamente tutti il rispettarono e temerono, ma anche ricercarono a gara la di lui grazia ed amicizia. Anzi essendo coloro talvolta [522] in guerra fra essi, solevano rimettere in lui le loro differenze, credendo di non poter trovare un giudice più abile e disappassionato di lui. Farasmane re dell'Iberia venne a Roma per conoscere di vista e riverire un così rinomato Augusto, e fece a lui più presenti che al suo predecessore Adriano. Avea il re de' Parti (Vologeso probabilmente) mosse l'armi sue contro l'Armenia. Una sola lettera a lui scritta da Antonino bastò a farlo ritirare e desistere dalle offese. Ed avendo esso re fatta istanza di riavere il trono d'oro, che Trajano già tolse al di lui padre, Antonino, senza far caso delle di lui minacce, continuò a star sulla sua. Comandò parimente esso Augusto, che Abgaro re di Edessa venisse a Roma, e fu ubbidito. Rimandò ancora Rimetalse re del Bosforo al suo regno, dacchè intese nato fra lui e il suo curatore del dissapore. Egli è da stupire, come di queste sue gloriose azioni le medaglie non ci abbiano conservata qualche memoria.
Anno di | Cristo CLXI. Indizione XIV. |
Aniceto papa 12. | |
Marco Aurelio il filosofo imperadore 1. | |
Lucio Vero imperadore 1. |
Consoli
Marco Aurelio Vero Cesare per la terza volta, e Lucio Vero Aurelio Commodo per la seconda.
Promosse Antonino Pio Augusto al consolato di quest'anno i due figliuoli adottivi, cioè Marco Aurelio Cesare e Lucio Commodo. Coi soli suddetti nomi aprirono essi l'anno, come consta ancora da un'iscrizione del Grutero [Gruterus, Thesaurus Inscript., pag. 300, num. 1.]. Ma perchè sopravvenne dipoi la morte del padre, ed amendue furono dichiarati imperadori Augusti; perciò si truovano iscrizioni fatte dopo essa morte, nelle [523] quali son chiamati Consoli insieme ed Augusti. In due leggi del codice di Giustiniano si trova quest'anno notato Divis Fratribus Augustis Consulibus. E fin qui avea Antonino Pio con mirabil saviezza, e con procurar sempre la felicità de' popoli, governato il romano imperio. Venne la morte a privar di sì buon principe i sudditi, allorchè egli entrato nell'anno sessantesimoterzo della sua età, ne avea già passato cinque mesi e mezzo [Eutrop., Breviar. Euseb., in Chron. Aurel. Victor, Epitome.]. Trovavasi egli in Lorio sua villa, dodici miglia lungi da Roma, ed avendo nella cena mangiato del formaggio alpino più del dovere [Capitolinus, in Antonino Pio.], la notte lo rigettò, e fu sorpreso dalla febbre. Sentendosi nel terzo giorno aggravato dal male, alla presenza de' capitani delle guardie raccomandò a Marco Aurelio, suo figliuolo adottivo e genero, la repubblica e Faustina sua figlia, moglie di lui. Fece anche passare alla di lui camera la statuetta d'oro della Fortuna, che soleva sempre stare in quella degl'imperadori. Quindi, dopo di aver dato il nome delle sentinelle al tribuno di guardia, cioè Tranquillità dell'animo, farneticando alquanto, andava parlando del governo e dei re, co' quali era in collera (uno di essi è da credere che fosse il re dei Parti), e poi quietatosi, come se dormisse spirò l'anima, per quanto si crede, nel dì 7 di marzo. Avea egli prevenuto questo colpo, con fare il suo testamento, in cui lasciò tutto il suo patrimonio privato alla figliuola, e legati proporzionati a tutta la sua servitù. Dalle lagrime di ognuno fu accompagnato il suo funerale; il corpo suo collocato nel mausoleo di Adriano; e, secondo gli empii riti del paganesimo, furono decretati a lui dal senato gli onori divini, templi e ministri sacri. Restò tal memoria delle mirabili virtù, e dell'ottimo governo di questo imperadore, che, per lo spazio di quasi un secolo, il popolo e [524] i soldati parea che non sapessero amare e rispettare un imperadore, s'egli non portava il nome di Antonino, come si usò di quello di Augusto: quasi che dal nome e non dai fatti dipendesse l'essere un principe buono. Noi siam per vedere che lo presero anche degl'imperadori cattivi. Nè si dee tralasciare che Gordiano I, fatto imperadore nell'anno dell'era Cristiana 237, quando era giovane [Capitolin., in Gordiano.], compose un poema molto lodevole, intitolato Antoniniade, dove espose tuttavia la vita, le azioni e le guerre di esso Antonino Pio, e di Marco Aurelio Antonino suo successore. Capitolino attesta di averlo veduto a' suoi dì; ma noi ora indarno lo desideriamo. Fiorirono ancora sotto questo imperadore le lettere, e fra gli altri in gran riputazione furono Appiano Alessandrino, delle cui storie ci restano alcuni libri; Tolomeo, di cui abbiamo trattati di astronomia e di geografia; Massimo Tirio, filosofo platonico, del quale tuttavia si conservano i Ragionamenti [Euseb., in Chron.]. Ma si son perdute l'opere di Calvisio Tauro di Berito: di Apollonio da Calcide, filosofo stoico; di Basilide da Scitopoli, filosofo anch'esso; di Erode Attico; di Callinico storico; di Frontone insigne oratore romano, e di altri ch'io tralascio. Han creduto alcuni che Giustino storico, da cui furono ridotte in compendio le storie di Trogo Pompeo, vivesse in questi tempi; ma l'hanno creduto senza alcun fondamento. Sappiamo bensì di sicuro, che allora fiorì s. Giustino, insigne filosofo e martire cristiano. Resta tuttavia un antico itinerario attribuito da alcuni al medesimo Antonino Pio Augusto; ma il Wesslingio, che con erudite annotazioni ha illustrata quell'opera, fa conoscere quanto ne sia incerto l'autore. Ad Antonino Pio succederono nell'imperio Marco Elio Aurelio Antonino, soprannominato il filosofo, e Lucio Elio Aurelio Commodo, appellato poi Vero, amendue [525] di lui figliuoli adottivi, e consoli nell'anno presente.
Abbiamo già accennato che Marco Aurelio fu prima nomato Annio Vero, e nacque nell'anno 121 nel dì 26 di aprile. Adriano Augusto, che per qualche lato era di lui parente [Dio, lib. 71.], all'osservare in lui giovinetto un animo grande, un sommo rispetto ai suoi maggiori, un bel genio alle lettere, ma sopra tutto l'inclinazione sua alla filosofia morale, e non già solamente per mettere nella testa i di lei documenti, ma per praticarla co' fatti; ne concepì un tal amore e stima, che gli passò per pensiero di lasciare a lui, morendo, l'imperio. Tuttavia, perchè non gli parve per anche la di lui età capace di portare un sì grave fardello, elesse poi per suo successore Antonino Pio, ma con obbligarlo ad adottare esso Annio Vero, il quale per tal adozione assunse il nome di Marco Elio Aurelio Vero, ed insieme con lui Lucio Cejonio Commodo, figliuolo di Lucio Elio Cesare, che fu poi nominato Lucio Elio Aurelio Vero. Quanto a Marco Aurelio, divenuto ch'egli fu imperadore, comunemente fu chiamato Marco Aurelio Antonino, o pure Marco Antonino, distinguendosi dal suo predecessore pel solo prenome di Marco, perchè Antonino Pio portava quello di Tito. Molto ancora è conosciuto questo Augusto col soprannome di Filosofo, dall'essersi egli applicato di buon'ora allo studio della filosofia stoica, di cui scrisse ancora alcuni libri, che tuttavia abbiamo, dove egli parla delle cose sue, esponendo ciò che avea imparato, e producendo le riflessioni sue intorno alle azioni umane, alle virtù, ai vizii [Marcus Aurelius, de Rebus suis, lib. 1.]. Ottimi maestri ebbe Marco Aurelio nello studio dell'eloquenza, della poesia e dell'erudizione; ma egli stesso confessa di non avere avuto assai talento per risplendere in sì fatti studi, e ringrazia Dio di non essersi perduto, come i sofisti, in far dei bei discorsi, in [526] formar de' sillogismi, e in contemplare le stelle. Diedesi egli alla conoscenza delle leggi sotto Lucio Volusio Meciano, valente giureconsulto; e questa poi gli servì assaissimo, allorchè imperadore ebbe da far giustizia. Il suo naturale serio, grave, tranquillo e lontano dalle inezie anche nell'età più verde, e il suo genio solamente rivolto al buono e al meglio, per tempo il portarono allo studio, all'amore e alla professione della filosofia de' costumi. Studio, il quale volesse Dio che fosse più in onore e più in pratica a' giorni nostri! Nell'età di dodici anni egli prese l'abito de' filosofi, cioè il mantello alla greca, e fece, per così dire, il suo noviziato con darsi ad una vita sobria ed austera, sino ad avvezzarsi a dormire sulla nuda terra. Per le instanze di Domizia Calvilla sua madre si ridusse poi a dormire in un piccolo letto, coperto nel verno con alcune pelli. Si protesta egli obbligato a Dio di aver così per tempo amata la filosofia, e imparato a mortificar le sue voglie e passioni, perchè ciò il tenne lungi da' vizii, e fece ch'egli anche giovanotto conservasse la castità, e molto più da lì innanzi: cosa ben rara fra i Gentili, professori d'una religione falsa e fomentatrice degli stessi vizii. Giuliano Apostata [Julian, de Caesarib.], che tagliò i panni addosso a tutti gli Augusti suoi antecessori, quando arriva a Marco Aurelio, altro non ne fa che un elogio, e cel dipinge con faccia dolcemente seria, e con barba folta e mal pettinata, con abito semplice e modesto. Furono suoi maestri nella filosofia peripatetica Claudio Severo, che vedremo console in breve; nella stoica amata da lui sopra le altre, Apollonio da Calcide, Sesto da Cheronea, nipote di Plutarco, Giunio Rustico, Claudio Massimo, Cinna Catullo, Basilide Arriano ed altri [Eusebius, in Chron.]. Sul principio de' suoi libri, perchè egli sapeva prendere il buono di tutti, e lasciare il cattivo, va ricordando quali buone ed utili massime avesse [527] imparato da cadaun d'essi, e da Antonino Pio suo padre per adozione, e da vari altri o grammatici, o oratori, o filosofi, fra' quali specialmente amò ed ascoltò il suddetto Giunio Rustico [Capitolinus, in Antonino Pio.]. Abbiam da Capitolino, che Marco Aurelio, allorchè gli morì un di coloro che aveano avuta cura della sua educazione, ne pianse; e perchè i cortigiani si facevano beffe di questa sua tenerezza di cuore, Antonino Pio Augusto disse loro: Lasciatelo fare, perchè anche i saggi sono uomini; nè la filosofia, nè l'imperio estinguono gli affetti nostri. Da tutti questi maestri apprese Marco Aurelio qualche cosa di profittevole per ben vivere, badando ai lor documenti o all'esempio loro: con che giovane ancora si avvezzò a tenere in freno il corpo, menando una vita dura, fuggendo ogni delizia, leggendo, faticando, e attendendo agli affari occorrenti.
Con così bel preparamento adunque, e con tale corteggio di virtù fu Marco Aurelio adottato per figliuolo da Antonino Pio, e divenne suo genero, con isposar Faustina, unica figliuola di lui, da cui ebbe poi varie figliuole. Essa in questo medesimo anno, dacchè il marito era divenuto imperadore, gli partorì due gemelli nel dì 31 d'agosto, l'uno de' quali fu Commodo, figliuolo indegno di sì buon padre, e che avrà luogo fra gli abbominevoli Augusti. Altri maschi nacquero da tal matrimonio, ma niun d'essi sopravvisse al padre. Dappoichè ebbe Antonino Pio fatto fine alla sua vita, il senato dichiarò imperadore Augusto il solo Marco Aurelio; ma egli con un atto di magnanimità, che non avea, e non avrà forse esempio, benchè Lucio Elio Commodo non fosse a lui attinente per alcuna parentela di sangue, ma solamente per titolo di adozione gli fosse fratello; pure il volle [Idem, in Lucio Vero Imper.] per suo collega nello imperio, e gli conferì i titoli d'Imperatore e d'Augusto, e la podestà tribunizia e [528] proconsolare; il che fu cosa non più veduta; cioè due Augusti nel medesimo tempo. Ritenne per sè il pontificato massimo, e il cognome di Antonino, cedendo a lui il suo proprio, cioè quello di Vero; di modo che egli da lì innanzi fu appellato Marco Aurelio Antonino, e l'altro Lucio Aurelio Vero, o Lucio Vero. Il dirsi da Dione [Dio, lib. 71.], o pur da Zonara [Zonaras, in Annal.], che Marco Aurelio s'indusse a risoluzion tale, perchè egli era debole di complessione, e voleva attendere ai suoi studi, laddove Lucio Vero era giovane robusto, e più atto alle fatiche della milizia, nol so io credere vero. Se Marco Aurelio non si attentasse a fare il mestier della guerra, e si perdesse fra i libri, lo vedremo andando innanzi. Aristide [Aristid., Orat. 16.], famoso sofista di questi tempi, in una delle sue orazioni, esalta forte, come un'azione la più grande che potesse mai farsi, l'avere Marco Aurelio spontaneamente, e senza far caso de' figliuoli che poteano nascere da Lucio Vero, voluto eleggerlo per suo collega nell'imperio. Egli sì dice il vero. La virtù sola di Marco Aurelio e la sola grandezza dell'animo suo potè giungere a tanto; e la virtù quella fu che fece poi camminar concordi questi due fratelli Augusti, benchè in Lucio abbondassero i difetti, siccome diremo. A lui promise ancora [Capitolinus, in Marco Aurelio.] Marco Aurelio in moglie Lucilla sua figliuola, non per anche atta alle nozze, che vedremo effettuate a suo tempo. Andarono poscia amendue questi Augusti al quartiere de' soldati pretoriani, promisero ad essi il consueto regalo, e agli altri soldati a proporzione. Vicena millia nummum singulis promiserunt militibus, si legge nel testo di Capitolino. Temo io dello sbaglio in sì fatta espressione, perchè vien creduto che sieno quattrocento scudi romani per testa: somma, che a' dì nostri fa paura, perchè si trattava di [529] molte migliaia di soldati. Che anche al popolo toccasse il suo congiario si raccoglie dalle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imperator.]. Oltre a ciò il donativo del frumento, che si faceva ai fanciulli e alle fanciulle de' poveri cittadini romani, fu steso da loro a quei che nuovamente erano venuti ad abitare in Roma, se pur non vuol dire lo storico [Capitolinus, in Marco Aurelio.], che accrebbero per l'Italia il numero de' fanciulli e delle fanciulle, che, per istituzione di Nerva, Trajano e Adriano, partecipavano della cesarea liberalità.
Anno di | Cristo CLXII. Indizione XV. |
Sotero papa 1. | |
Marco Aurelio imperad. 2. | |
Lucio Vero imperadore 2. |
Consoli
Quinto Giunio Rustico e Cajo Vettio Aquilino.
Rustico quel medesimo è che fu uno de' maestri di Marco Aurelio, sopra gli altri a lui caro. Da un'iscrizione riferita dal Panvinio [Panvinius, in Fastis Consular.], e posta nelle calende di luglio, si deduce che ad Aquilino succedette nel consolato Quinto Flavio Tertullo. Credesi [Blanc., ad Anastasium Bibliothec.] che sant'Aniceto papa nell'anno precedente compiesse gloriosamente il suo pontificato col martirio; ma è intrigata in questi tempi la cronologia de' romani pontefici, e confessa anche la cronica di Damaso, la qual va sotto nome di Anastasio bibliotecario. Tuttavia, secondo essa cronica, Sotero papa cominciò in quest'anno a contare gli anni del suo pontificato. Avea già dato principio al suo governo nell'anno procedente Marco Aurelio Augusto, e si era cominciato a provare quanto sia vero il detto di Platone, che sarebbero felici i popoli, se regnassero solamente i filosofi, ed è lo stesso che dire se i regnanti studiassero, amassero e professassero la [530] sapienza. Seco si univa Lucio Vero Augusto nel comando, e con buona unione, ma con subordinazione a lui, quasi che l'uno fosse padre e l'altro figliuolo [Capitolinus, in Marco Aurelio.]. Studiavasi Lucio Vero di uniformarsi nelle maniere di vivere a lui, per quanto poteva, usando sobrietà, gravità e moderazione in apparenza, perchè nella sostanza troppo era egli diverso dall'altro. Non si desiderò in essi la bontà e la clemenza di Antonino Pio; ed uno de' primi a farne pruova fu Marcello commediante, che in pubblico teatro con qualche equivoco il punse, senza che Marco Aurelio, che lo seppe, ne facesse risentimento alcuno. Ma che? contro dell'imperio romano si cominciarono a scatenar le disgrazie, e se al popolo romano non fosse toccato in tempi sì burrascosi un imperadore di tanta voglia, come fu Marco Aurelio, poteano maggiormente moltiplicarsi i guai. La prima disavventura, onde restò turbata la pubblica felicità, fu l'innondazione del Tevere, che recò un gravissimo danno alle case, alle mercatanzie ed altre robe della città di Roma, affogò gran copia di bestiame, e si tirò una terribil carestia. Le provvisioni fatte in questo bisogno dai due Augusti, tali furono che si rimediò ai disordini, e ritornò la calma nella città. Ma più da pensare davano le turbolenze insorte ai confini dell'imperio, prima eziandio che mancasse di vita Antonino Pio. In Germania i Catti popoli barbari avevano già fatto delle scorrerie nel paese romano. La Bretagna anch'essa minacciata dai barbari non sudditi dell'imperio. Fu dunque inviato in Germania a difendere quelle frontiere Aufidio Vittorino. Cosa ne avvenisse non ne resta memoria nelle storie. Alla difesa della Bretagna fu spedito Calpurnio Agricola, ma di quegli affari parimente è perita la memoria.
Di maggiore importanza senza paragone fu la guerra mossa fin l'anno precedente da Vologeso re de' Parti, non si [531] sa, se perchè Antonino Pio ricusò di rendergli il trono regale, tolto a Cosroe suo padre, o pure perchè anch'egli, al pari de' suoi maggiori, facesse l'amore al regno dell'Armenia, dipendente dall'imperio romano. Dopo la morte di esso, Antonino dichiarò egli la guerra, sollevò quanti re e nazioni potè di là dall'Eufrate e dal Tigri contro ai Romani, e, verisimilmente sul principio, indirizzò l'armi sue addosso alla stessa Armenia. Fu conosciuto in Roma necessario lo spedire un capo di grande autorità con gagliardissime forze, per far fronte a sì potente nemico, e perchè lo stato della repubblica esigeva in Roma la presenza di Marco Aurelio, acciocchè egli accudisse anche agli altri rumori della Bretagna e della Germania; e col consenso del senato fu presa la risoluzion d'inviare in Oriente Lucio Vero Augusto. In fatti, provveduto di tutti gli uffiziali occorrenti si partì questo giovinastro principe da Roma, e fu accompagnato dal fratello Augusto sino a Capoa. Ma appena giunto a Canosa, cadde infermo. Il che inteso da Marco Aurelio, che s'era restituito a Roma, colà si portò di nuovo per visitarlo. Tornatosene poscia a Roma, compiè i voti fatti per la salute d'esso Lucio Vero nel senato. L'andata di esso Vero vien riferita all'anno presente da vari letterati. Il padre Pagi [Pagius, Critic. Baron.] la crede seguita del precedente. Riavuto egli dalla malattia, guadagnata nel viaggio coi disordini e coi piaceri, a' quali si abbandonò, subito che si fu sottratto agli occhi del savio fratello Augusto, continuò per mare il suo viaggio. Abbiamo da Capitolino [Capitolinus, in Lucio Vero.], e lo asserisce anche Eusebio [Eusebius, in Chron.], che Lucio Vero andò a Corinto e ad Atene, sempre accompagnato nella navigazione dalla musica de' cantori e sonatori. In Atene fece de' sagrifizii con augurii, creduti infausti dai visionarii pagani. Poscia, ripigliato [532] il viaggio per mare, andò costeggiando l'Asia Minore, la Pamfilia e la Cilicia, fermandosi qualche giorno per tutte le città più illustri a darsi bel tempo, finchè finalmente arrivò ad Antiochia, dove fece punto fermo. Probabilmente non vi giunse se non nell'anno presente.
Anno di | Cristo CLXIII. Indizione I. |
Sotero papa 2. | |
Marco Aurelio imperad. 3. | |
Lucio Vero imperad. 3. |
Consoli
Leliano e Pastore.
S'è disputato finora, se il primo console sia da nominarsi Lucio Eliano, o pure Leliano. Resta indecisa la lite. Per le ragioni da me addotte altrove, inclino a crederlo Leliano; e un'iscrizione da me prodotta [Thesaurus Novus Inscript., pag. 335.] mi ha somministrato fondamento per conghietturare, che il suo prenome e nome fossero Marco Pontio Leliano. Con esso lui si trova ancora console Quinto Mustio Prisco, che potè essere sostituito a Pastore. Un'iscrizione prodotta dal Reinesio [Reinesius, Inscript., pag. 218.], Cupero e Relando [Reland., Fast. Consular.] ha Marco Aurelio e Lucio Eliano Consoli, iscrizione creduta da me falsa, perchè si solevano notare i consoli col cognome, e non già col solo prenome e nome. Ma essa è presa dai manuscritti del Ligorio, cioè, per quanto ho io accennato nella prefazione alla mia Raccolta, da opere non vere del Ligorio, ma accresciute o adulterate da qualche susseguente impostore, che fabbricò gran copia di antiche iscrizioni, e le spacciò sotto il nome del Ligorio, delle quali poi specialmente s'è fatto bello il Gudio. Ne' legittimi manuscritti del Ligorio da me veduti non si trovano queste merci. Intanto gli affari di Levante male e peggio camminavano per li Romani. Per [533] testimonianza di Dione [Dio, lib. 71.], era stato spedito Severiano, forse governatore della Cappadocia, colle forze ch'egli avea in quelle parti, in aiuto dell'Armenia. Secondo il pazzo rito de' superstiziosi e troppo crudeli d'allora, volle egli prima consultare nella Paflagonia Alessandro, famoso impostore, che in questi tempi si spacciava profeta, ed ebbe poi Luciano [Lucian., in Pseud.] scrittore della di lui infame vita. Il furbo gli predisse delle vittorie. Con questo dolce in bocca andò Severiano, menando seco più d'una legione, a portarsi in Elegia città dell'Armenia. Ma eccoti comparire un nuvolo di Parti, che per tre giorni tennero bloccata da ogni parte l'armata romana, e in fine con una pioggia di strali la disfecero interamente, lasciandovi la vita anche tutti i capitani. Se non falla Capitolino [Capitolin., in Lucio Vero.], questa sciagura arrivò ai Romani, fin quando Lucio Vero Augusto, postosi in cammino verso l'Oriente, si dava bel tempo nella Puglia, andando a caccia, e perdendo il tempo. Per conseguente dovrebbe tal fatto appartenere all'anno precedente 162. Fiero per tal vittoria Vologeso re dei Parti, rivolse le armi contro la Soria, dove era governatore Attidio Corneliano. Quivi ancora venuto alle mani coll'esercito romano, lo mise in rotta, spandendo con ciò il terrore e i saccheggi per tutte quelle contrade. Nè andò esente da sì fatti danni la provincia della Cappadocia. Sembra che tal disavventura accadesse nel precedente anno. Giunto era ad Antiochia, come dicemmo, capitale della Soria, Lucio Vero Augusto [Idem, ibid.]; e invece di attendere all'importante affare, per cui s'era mosso, quivi tutto si diede in preda ai piaceri, anche più infami, nel lusso, nei conviti e in ogni sorta di libidine. Non avea più il maestro a lato che gli tenesse gli occhi addosso, nè gli legasse le mani. Doveva andare in persona, [534] come desiderava l'Augusto suo fratello, a procacciarsi gloria nelle armi, ed egli ad altro non pensava che ad appagare ogni sfrenata sua voglia. Tutto quel che fece, fu spedire gran gente e dei bravi generali contra dei Parti, e questi principalmente furono Stazio Prisco, Avidio Cassio (che vedremo a suo tempo ribello) e Marzio Vero, lodati ancora da Dione [Dio, lib. 71.] pel loro valore. Sembra che si possa dedurre dalle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imp.], che in quest'anno i Romani riportassero qualche vantaggio nell'Armenia, o ne ricuperassero una parte; ma non dovette esser gran cosa. Avea già Marco Aurelio promessa in moglie a Lucio Vero la sua figliuola Lucilla. Secondo i conti del padre Pagi [Pagius, Critic. Baron.], in questo anno se ne effettuarono le nozze [Capitolinus, in Marco Aurel. et in Lucio Vero.]. Condotta questa principessa dal padre sino a Brindisi, fu poi trasferita ad Efeso, dove si portò Lucio Vero a prenderla. E vi si portò per concerto fatto prima; imperciocchè Marco Aurelio avea detto in senato di volerla egli stesso condurre fino in Soria; ma Lucio Vero si esibì di venire a riceverla ad Efeso per timore che se il fratello arrivasse ad Antiochia, non iscoprisse tutti i segreti della scandalosa sua vita. Avea il buon imperadore Marco Aurelio, per esentare i popoli dagli aggravi, spediti prima degli ordini alle provincie, che non si facessero incontri alla figliuola. Ma più verosimile sembrerà che nell'anno susseguente succedesse il viaggio di Lucilla, a cui fu conferito il titolo di Augusta; perchè Marco Aurelio se ne tornò in fretta da Brindisi a Roma, per ismentire le dicerie sparse, ch'egli volesse passare in Soria affin di levare al fratello e genero la gloria di terminar quella guerra. E pure finquì non abbiamo inteso alcun tale prospero successo delle armi romane in quelle [535] parti, onde potesse Marco Aurelio portar invidia a Lucio Vero.
Anno di | Cristo CLXIV. Indizione II. |
Sotero papa 3. | |
Marco Aurelio imperad. 4. | |
Lucio Vero imperad. 4. |
Consoli
Marco Pompeo Macrino e Publio Juvenzio Gelso.
Cangiossi finalmente nel presente anno in ridente il volto finora bieco della fortuna verso de' Romani. A Stazio Prisco riuscì di prendere Artasata città dell'Armenia [Capitol., in Marco Aurelio.], di mettere guarnigione in un luogo, appellato di poi Città-Nuova, perchè Marzio Vero, a cui fu dato il governo di quella provincia, fece di quel luogo la prima città dell'Armenia [Dio, lib. 71.]. Allorchè esso Marzio giunse colà, trovò ammutinate quelle milizie, e colla sua prudenza le pacificò. Nelle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.] di quest'anno si fa menzione dell'Armenia vinta, dell'Armenia presa. E più di una vittoria convien dire che riportassero i Romani in quelle parti, perchè osserviamo che i due Augusti presero in quest'anno per due volte il titolo d'Imperadore, segno appunto di vittoria. Quel che è più, tanto Marco Aurelio, che Lucio Vero, furono proclamati Armeniaci, come consta dalle medesime loro medaglie, o, vogliam dire, monete, inoltre dalle stesse apparisce ch'essi Augusti diedero un re agli Armeni; e questo fu Soemo della razza degli Arsacidi, senza che si sappia s'egli ne fosse dianzi re, e cacciato da Vologeso, o pure s'egli fosse re nuovo, dato dai due imperadori a quei popoli; e Dione [Dio, in excerpt. Valesian.], parlando della somma clemenza di Marco Aurelio, scrive [536] che in questa guerra fu fatto prigione Tiridate Satrapa, il quale era stato cagione de' torbidi nati nell'Armenia, ed avea ucciso il re degli Eniochi, e messa mano alla spada contra di Marzio Vero generale de' Romani, perchè gli rimproverava cotesti suoi eccessi. E pure il buon imperadore altro gastigo non gli diede, se non che il mandò in esilio nella Bretagna. Intanto ridendosi Lucio Vero dei rumori e pericoli della guerra, col pretesto di attendere a provveder le armate romane di viveri e di nuove genti [Capitol., in Lucio Vero.], se ne stava godendo le delizie di Antiochia, e lasciava che i generali romani sudassero ed esponessero le lor vite per lui nelle imprese guerriere. Per quattro anni, ma con soggiorno non fisso, si trattenne egli in quella città: perchè nel verno abitava a Laodicea, nella state a Dafne, amenissimo ed ombroso luogo in vicinanza di Antiochia. Per le tante istanze nondimeno de' suoi consiglieri, si lasciò indurre, durante questa guerra, a portarsi due volte sino all'Eufrate. Ma appena s'era lasciato vedere all'esercito romano (non già a quel de' nemici), che se tornava ai suoi prediletti ed obbrobriosi piaceri di Antiochia. E non gliela perdonavano già que' commedianti, i quali nel pubblico teatro più volte con arguti motti destramente mettevano in canzone ora la di lui codardia, ora la sfrenata sua lussuria; nè v'era persona che non gli ridesse dietro. Truovasi presso il Mezzabarba sotto quest'anno una medaglia, in cui Marco Aurelio è intitolato Germanico, ed espressa una Vittoria d'Augusto. Ma non può stare. Vedremo a suo tempo quando a questo imperadore fu dato il titolo di Germanico. Per ora egli solamente veniva chiamato Armeniaco.
Anno di | Cristo CLXV. Indizione III. |
Sotero papa 4. | |
Marco Aurelio imperad. 5. | |
Lucio Vero imperad. 5. |
Consoli
Lucio Arrio Pudente e Marco Gavio Orfito.
Più strepitosi ancora furono i fatti de' Romani in quest'anno nella guerra contra de' Parti [Dio, lib. 71.]. Avidio Cassio, che comandava la grande armata romana in faccia ai Parti, gittò un ponte sull'Eufrate, come già fece Trajano, e, ad onta loro, passò coll'esercito nella Mesopotamia, inseguì i fuggitivi, e mise quelle contrade sotto l'ubbidienza de' romani Augusti. Fra le sue conquiste massimamente famosa divenne quella di Seleucia, città popolatissima e ricca sul Tigri, tale che, se non abbiam difficultà a credere ad Eutropio [Eutrop., in Breviar.] e a Paolo Orosio [Orosius, in Histor.], era abitata da quattrocento e più mila persone. Si rendè amichevolmente quel popolo a Cassio, senza voler aspettare la forza, ma l'iniquo generale che voleva pur rallegrare l'armata col sacco di sì doviziosa città, trovò de' pretesti ed inventò delle querele, tanto che si effettuò lo scellerato suo disegno colla rovina di quel popolo, e coll'incendio dell'intera città, in cui, anche a' tempi di Ammiano Marcellino [Ammianus Marcellinus, Histor., lib. 23.], si miravano le vestigia di così crudele azione. Nulladimeno attesta Capitolino [Capitolin., in Lucio Vero.], che Asinio Quadrato, scrittore di questa guerra, discolpa Cassio, e rigetta sopra i Seleuciani, come primi a romper la fede, l'origine della loro sciagura. In dubbii tali la presunzione corre contra chi ha l'armi in mano, e facendo quel mestiere per arricchire, ed anche per altri fini obbrobriosi, facilmente dimentica tutte le leggi dell'umanità, per ottenere l'intento. Qui non si [538] fermò la vittoria di Cassio. Passato il fiume Tigri, entrò ancora in Ctesifonte, capitale del regno de' Parti, e in Babilonia, città famosa di quei tempi. Rimasero spianati tutti i palazzi che Vologeso avea in Ctesifonte, acciocchè anch'egli imparasse, al pari di suo padre, a rispettare la maestà del romano imperio. Scrive Luciano [Lucian., de Conscribenda Hist.], autore di questi tempi, una gran battaglia succeduta a Zaugma presso l'Eufrate fra i Romani e i Parti, colla totale disfatta degli ultimi; e poi per deridere gli storici adulatori, aggiugne che vi morirono trecento settantamila Parti, e de' Romani solamente tre furono i morti, e nove i feriti. Secondo il medesimo Luciano, anche Edessa fu assediata dai Romani. Per tal vittoria i due fratelli Augusti presero il titolo d'imperadori per la terza volta, siccome ancora il cognome di Partici. Fu di parere il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.] che si terminasse in quest'anno essa guerra partica, e che Lucio Vero Augusto si restituisse a Roma, fondato sopra la credenza, che nell'anno 161 avesse principio quella guerra: il che non è certo. Alcuni pensano che all'anno seguente s'abbia da riferire tanto il fine d'essa guerra, quanto il ritorno di Lucio Vero, e questa giudico io più probabil opinione.
Anno di | Cristo CLXVI. Indizione IV. |
Sotero papa 5. | |
Marco Aurelio imperad. 6. | |
Lucio Vero imperadore 6. |
Consoli
Quinto Servilio Pudente e Lucio Fufidio Pollione.
Dissi parere a me più probabile, che durasse ancora per molti mesi di questo anno la guerra dei Romani coi Parti. Ci assicurano le medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imp.], che nell'anno presente Marco Aurelio e Lucio Vero furono proclamati per la quarta [539] volta Imperadori. Adunque l'armi loro riportarono qualche vittoria, e questa non potè essere se non contro ai Parti, perchè quella de' Marcomanni fu più tardi. Oltre di che in esse monete si truova espressa la Vittoria Partica. Giusto motivo dunque ci è di credere, che Avidio Cassio generale de' Romani continuasse le conquiste e i saccheggi contra de' Parti nell'anno presente, e fosse allora appunto, ch'egli arrivò sino alla Media, onde poi ai titoli d'Armeniaco e Partico aggiunse Lucio Vero [Capitolin., in Lucio Vero.] quello di Medico, del quale nondimeno non si ha vestigio nelle medaglie. Dovette Cassio internarsi cotanto in que' paesi, che corse voce aver egli infin passato il fiume Indo, benchè si possa ciò credere finto da Luciano [Lucian., de Conscribenda Histor.], per mettere in ridicolo gli storici che scrivevano allora cose spropositate per esaltare i loro eroi. Abbiamo poi da Dione [Dio, Lib. 71.], che Cassio, nel tornare indietro, perdè gran copia de' suoi soldati, parte per mancanza di viveri, e parte per malattie; e che con quei che gli restarono, si ridusse in Soria, la qual vasta provincia a lui fu poscia data in governo. Come finisse l'impresa suddetta, non ne parla la storia. Verisimilmente si venne fra i Romani e Vologeso a qualche trattato di pace; ed apparenza c'è, che della Mesopotamia, o almeno di una parte di essa rimanessero padroni i Romani. Lucio Vero Augusto, che tuttavia dimorava in Antiochia, si gonfiò forte per così prosperosi successi. Avea spedito l'imperador Marco Aurelio in quelle parti [Capitolinus, in Lucio Vero.] Annio Libone suo cugino germano, con titolo di legato, o sia di luogotenente, cioè con molta autorità. Questi non istette molto ad ammalarsi e a morire in fretta. Perchè egli con insolenza avea cominciato ad esercitar la sua carica, e mostrava poca stima di [540] Lucio Vero, con dire nelle cose dubbiose, che ne scriverebbe a Marco Aurelio; vi fu chi credette per ordine d'esso Vero Augusto abbreviata a lui la vita col veleno. Ma o nol credette, o fece finta di non crederlo Marco Aurelio; anzi venuto il fratello a Roma, e volendo dar per moglie ad Agaclito suo liberto la vedova d'esso Libone, Marco Aurelio, benchè se l'avesse a male, pure intervenne al convito di quelle nozze. Sbrigato dunque dalla guerra de' Parti, dopo cinque anni, come dice Capitolino [Capitolinus, in Lucio Vero.], Lucio Vero se ne tornò, prima che terminasse quest'anno, a Roma; menando seco, non già dei re vinti, ma un gregge di commedianti, buffoni, giocolieri, ballerini, sonatori ed altra simil sorta di gentaglia, di cui specialmente si dilettavano i popoli dell'Egitto e della Soria, troppo dediti ai divertimenti; di modo che pareva, ch'egli fosse ritornato non da una vera guerra, ma da un serraglio di persone da lusso e sollazzo. Questi erano i trofei di un tale Augusto, tutto il rovescio del savissimo imperador suo fratello, dimorante in Roma, e solamente intento al pubblico bene.
Anno di | Cristo CLXVII. Indizione V. |
Sotero papa 6. | |
Marco Aurelio imperad. 7. | |
Lucio Vero imperadore 7. |
Consoli
Lucio Elio Aurelio Vero Augusto per la terza volta e Quadrato.
Secondo i conti del padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], Marco Aurelio e Lucio Vero Augusti fecero nell'anno precedente la lor solenne entrata in Roma da trionfanti per la guerra compiuta contro i Parti e gli Armeni. Secondo quei di Mezzabarba [Mediobarbus, in Numism. Imperat.], che sembrano meglio fondati, il trionfo loro succedette nell'anno presente; per la qual suntuosa funzione Lucio Vero [541] prese anche il consolato. Abbiamo memoria di ciò in una medaglia di Marco Aurelio colla di lui Podestà Tribunizia XXI corrente in questo anno, dove si mirano i due imperadori, in cocchio tirato da quattro cavalli, e preceduto dalla pompa trionfale. Per sua modestia non voleva il buon Marco Aurelio [Capitolin., in Marco Aurelio.] partecipare di questo trionfo, dicendolo dovuto al suo Lucio Vero, le cui grandi fatiche per domar que' barbari, già le abbiamo vedute. Ma Lucio Vero fece istanza al senato, che anche il fratello Augusto trionfasse con lui; e inoltre, che i di lui figliuoli Commodo e Vero fossero creati Cesari; il che fu eseguito. Vidersi poscia essi suoi figli, tanto maschi che femmine, andare in carrozza con loro nel trionfo. In tal occasione decretò ad amendue il senato la corona civica, e il titolo di Padri della Patria, ricusato finora da Marco Aurelio, per esser lontano il fratello. Nelle medaglie non s'incontra questo loro glorioso titolo. Si truova bensì nelle iscrizioni legittime, fatte in quest'anno e ne' seguenti, in onore dell'altro imperadore: il che può anche servire ad indicar l'anno preciso del trionfo, da me creduto il presente, e per conoscere ancora se sieno o scorrette o adulterine quelle iscrizioni che prima di questi tempi attribuissero loro un sì fatto titolo. In occasione del suddetto trionfo eziandio fu decretato che fossero fatti pubblici giuochi, a' quali assisterono tutti e due gli Augusti in abito trionfale. Parlano finalmente le medaglie [Mediob., in Numism. Imperat.] del quarto Congiario dato al popolo romano da essi Augusti nell'anno presente, probabilmente per solennizzare con maggior contento d'esso popolo la pubblica allegrezza. Trovaronsi dunque in Roma i due Augusti in quest'anno, e si vide come un prodigio, la bella concordia de' loro animi, tuttochè fossero sì diversi i loro costumi. Quanto a Marco Aurelio, [542] principe per natural saviezza, per inclinazione alle azioni lodevoli, e specialmente per l'aiuto della filosofia pieno di belle massime, egli era tutto rivolto a procurare il ben della repubblica, non meno di quel che sia un saggio padre di famiglia in ben regolare la propria casa [Capitolinus, in Marco Aurelio.]. Ammiravasi in lui l'indefessa applicazione ad amministrar la giustizia, obbligo primario dei regnanti. Voleva ascoltar tutto con pazienza, interrogava egli le parti, esaminava le ragioni, lasciando agli avvocati il convenevol tempo per dedurle: di maniera che talvolta intorno ad un solo affare impiegava più giorni, laonde coloro poi che erano condannati, si persuadevano che giuste fossero le di lui sentenze. Nè in ciò procedeva egli mai senza il consiglio e l'assistenza di valenti giurisconsulti, fra i quali principalmente si contò Scevola, lodatissimo anche oggidì nella scuola de' Legisti. La sua bontà il portava sempre alla clemenza e alla dolcezza, sminuendo per lo più nelle cause criminali il rigor delle pene, se non quando si trattava di atroci delitti, nei quali compariva inesorabile. Teneva gli occhi sopra i giudici, affinchè non si abusassero o per negligenza o per malizia, della loro autorità. Ad un pretore, che non avea ben esaminato un processo, comandò di rileggerlo da capo a piedi. Ad un altro, che peggio operava, non levò già il posto per sua bontà, ma gli sospese la giurisdizione, delegandola al di lui compagno. Lo studio suo maggiore consisteva in distornar dolcemente gli uomini dal male, ed invitarli al bene, ricompensando i buoni colla liberalità e con vari premii, e cercando di guadagnare il cuore de' cattivi con perdonar loro i falli, che si potessero scusare: il che servì a rendere buoni molti, e a far divenire migliori i già buoni.
Nelle liti suo costume fu di non favorire quasi mai il fisco. Piuttosto che [543] far delle leggi nuove, procurava di rimettere in piedi le vecchie. E ben molte ne rinnovò intorno al ristringere il soverchio numero delle ferie; in assegnar tutori e curatori; in ben regolare l'annona, e levarne gli abusi; in tener selciate le vie di Roma e delle provincie, e nette dai malviventi; e in punire chi nelle gabelle avesse esatto più delle tasse; in moderar le spese degli spettacoli e delle commedie; in gastigare i calunniatori, e in simili altri utili. Proibì sopra tutto l'accusar chicchessia, che avesse sparlato della maestà imperiale, sofferendo egli senza punto alterarsi le dicerie de' maligni, fin le insolenze dette in faccia a lui stesso. Un certo Veterano, malamente screditato presso il pubblico, gli faceva premura per ottenere un posto. Rispose il savio imperadore, che studiasse prima di riacquistare il buon nome. Al che colui replicò: Quasi che io non abbia veduto molti nel posto di Pretore, che meco hanno combattuto nell'anfiteatro. Pazientemente sopportò il buon Augusto l'insolente risposta. Il rispetto suo verso il senato incredibile fu. V'interveniva sempre, essendo in Roma, non impedito, ancorchè nulla avesse da riferire. E quando pure, essendo a villeggiar nella Campania, gli occorreva di dover proporre qualche cosa, in vece di scrivere, veniva egli in persona a parlarne. Non aggiugneva a quell'insigne ordine, se non chi egli ben sapeva meritarlo per le sue virtù, con promuovere dipoi alle cariche lucrose i senatori poveri, ma dabbene, per aitarli. Che se talun dei senatori veniva accusato di delitti capitali, ne facea prima prendere segrete informazioni, per non iscreditare alcuno senza un sicuro fondamento. Interveniva anche ai pubblici Comizi, standovi finchè arrivasse la notte; nè mai si partiva dalla Curia, se prima il console non licenziava l'assemblea. Tal era il vivere dell'ottimo imperadore. Qual fosse quello di Lucio Vero Augusto, mi riserbo di accennarlo fra poco. [544] Ma non si vuol qui lasciar di dire che questo giovinetto imperadore tornando dalla Soria [Capitolin., in Lucio Vero. Lucian., de Conscrib. Histor. Ammianus, lib. 23.], un brutto regalo fece alla patria, con condur seco la peste. Era essa insorta, chi dicea nell'Etiopia, chi nell'Egitto e chi nel paese dei Parti. Attaccatasi poi alle milizie romane, ed entrata nella corte di Lucio Vero, dappertutto, dov'egli passava, lasciava la micidial infezione secondo il suo costume, di modo che cominciò a sentirsi terribilmente anche in Roma. Si andò poi a poco a poco dilatando per l'Italia, e per la Gallia sino al Reno, facendo incredibile strage per tutti i paesi, durando anche più anni. Paolo Orosio [Orosius, Histor. lib. 8.] scrive, che rimasero prive di agricoltori le campagne, spopolate le città e castella, e crebbero i boschi e le spine in varie contrade, perchè prive di abitatori. Così feroce si provò essa in Roma [Capitol., in Marco Aurelio.], che i cadaveri de' poveri si mandavano fuori in carrette a seppellire, e mancarono di vita molti illustri personaggi, ai più degni de' quali Marco Aurelio fece innalzar delle statue.
Anno di | Cristo CLXVIII. Indizione VI. |
Sotero papa 7. | |
Marco Aurelio imperad. 8. | |
Lucio Vero imperadore 8. |
Consoli
Aproniano e Lucio Vettio Paolo.
Tutti gli antichi fasti ci danno consoli sotto quest'anno Aproniano e Paolo. Par ben difficile che tutti si sieno ingannati. Una sola iscrizione riferita dal Panvinio [Panvin., Fast. Consul.] e dal Grutero, ci dà consoli Lucio Vettio Paolo e Tito Giunio Montano. Ma verisimilmente un Aproniano sarà stato console ordinario con Paolo, ed a lui, o per morte o per sostituzione, sarà succeduto Montano, parendo poco probabile che Montano fosse lo stesso che [545] Aproniano. Già inclinato al lusso e a tutti gli sfoghi della sensualità Lucio Vero Augusto [Capitol., in Lucio Vero.], maggiormente dacchè si fu allontanato dagli occhi del fratello imperadore, si era abbandonato, siccome di sopra accennammo, ad ogni sorta di piaceri, anche più abbominevoli, deludendo l'intenzion del fratello stesso che l'aveva inviato là, per isperanza che le fatiche militari il guarirebbono: speranza vana, come si conobbe dagli effetti. Ritornato che fu l'Augusto giovane a Roma, andava egli bensì alquanto ritenuto, per nascondere i suoi vizii al saggio imperadore Marco Aurelio, ma in secreto faceva alla peggio. Volle una cucina a parte nel suo appartamento; e, dopo essere stato alla parca cena di Marco Aurelio, passava colà a soddisfare la sua ghiottoneria, con farsi servire a tavola da persone infami, e con volere dei combattimenti di gladiatori a quelle private cene, le quali andavano sì a lungo, che talvolta egli abborracchiato si addormentava sopra i cuscini o letti, sui quali si adagiavano gli antichi stando alla mensa, e conveniva portarlo di peso alla sua stanza. In uso era allora di non far tavola, dove fossero più di sette persone; e diverse tavole verisimilmente si mettevano nelle grandi occasioni, perchè passavano per proverbio: Sette fanno un convito, nove fanno una lite. Lucio Vero fu il primo a voler dodici convitati alla medesima mensa, e con una profusione spropositata di regali; perchè ai paggi, agli scalchi ed ai commensali si donavano piatti, bicchieri d'oro, d'argento e gioiellati, vari animali, vasi d'oro con unguenti, e carrozze con mule guernite di ricchi finimenti. Costava cadauno di questi conviti una tal somma, che nè pure mi arrischio a nominarla: tanto è grande nel testo di Capitolino. Il resto poi della notte si soleva per lo più spendere in giuoco, vizio, oltre a tanti altri, imparato in Soria. Fecesi anche fabbricare una suntuosa villa nella via Clodia, dove se la passava [546] in gozzoviglie co' suoi liberti, e con quegli amici che godeano beni in quelle parti. Marco Aurelio sapea tutti questi disordini, e quantunque se ne rammaricasse non poco, pure fingeva ignorarli, per non romperla col fratello; anzi invitato da lui alla suddetta villa, non ebbe difficultà di andarvi, per insegnargli coll'esempio suo, come si dovea far la villeggiatura. E vi si fermò cinque giorni, attendendo anche allora alla spedizion delle cause, mentre Lucio Vero si perdeva ne' conviti, o era affaccendato per prepararli. Dicono di più, che questo sregolato imperadore passò ad imitare i vergognosi costumi di Caligola, di Nerone e di Vitellio, coll'andar di notte travestito e incappucciato per le bettole e nei bordelli, cenando con dei mascalzoni, attaccando delle risse, dalle quali tornò talvolta colla faccia maltrattata da pugni, e rompendo i bicchieri delle taverne col gittar in aria delle grosse monete di rame. Sopra tutto era egli spasimato dietro alle corse de' cavalli nel Circo, mostrandosi a spada tratta parziale in que' giuochi della fazione Prasina, che portava la divisa verde; di maniera che anche mentr'egli col fratello Augusto assisteva a quegli spettacoli, più volte gli furono dette delle villanie dall'emula fazione Veneta, vestita d'azzurro. Innamorato specialmente di un suo cavallo, appellato Volucre, o sia Uccello, fece fare la statua di esso d'oro, e seco la portava. Invece d'orzo voleva che gli si desse uva passa con pinocchi; e per cagion di esso s'introdusse il dimandare per premio de' vincitori nel corso un cavallo d'oro. Morto questo cavallo, gli fece alzare un sepolcro nel Vaticano. E tali erano i costumi e le capricciose azioni di Lucio Vero Augusto.
Fin quando si facea la guerra de' Parti, se ne preparò un'altra al settentrione contra de' Romani [Capitolinus, in Marco Aurelio. Dio, lib. 71.]. Avevano cominciato i Marcomanni, creduti oggidì abitatori della Boemia, ad infestare il [547] paese romano; ma i generali che custodivano quelle parti, per non esporre l'imperio a questa pericolosa guerra, nel tempo che si facea l'altra più importante coi Parti, andarono sempre temporeggiando e pazientando, finchè venisse un tempo più opportuno da fiaccar loro le corna. Terminata con felicità l'impresa dell'Oriente, maggiormente crebbe l'insolenza di essi Marcomanni; anzi si venne a scorgere che quasi tutte le nazioni barbare abitanti di là dal Rene e dal Danubio, cominciando dall'Oceano, fin quasi al mar Nero, erano in armi ai danni dei Romani, sia che fosse qualche lega fra loro, o pure che l'una imparasse dall'esempio dell'altra a disprezzar le forze della repubblica romana. Fra que' popoli, tutti gente bellicosa e fiera, e che parea congiurata alla rovina de' Romani, oltre ai Marcomanni principali fra essi, si contavano i Narisci, gli Ermonduri, i Quadi, i Suevi, i Sarmati, i Vandali, i Vittovali, i Rossolani, i Basterni, i Costobochi, gli Alani, i Jazigi ed altri, de' quali non si sa il nome. Se dice il vero Dione, i Germani Transrenani vennero fino in Italia, e recarono de' gravissimi danni: il che par difficile a credere. Fra i cadaveri di costoro uccisi, furono ritrovate molte femmine guernite di tutte armi. Così gli altri barbari saccheggiarono varie provincie, presero città, e sembra che s'impadronissero di tutta la Pannonia, o almeno di una parte di essa. Per attestato di Pausania [Pausanias, lib. 10.], i Costobochi fecero delle scorrerie fino in Grecia. Portate così funeste nuove a Roma, riempirono tutta la città di spavento; e tanto più, perchè la peste avea fatto e facea tuttavia un fier macello anche delle milizie romane. Marco Aurelio [Capitolinus, in Marco Aurelio.], che con tutto il suo bel genio alla virtù, e con tutti i suoi studi, non giunse mai a conoscere la falsità della sua religione pagana, nè la verità della cristiana, di cui piuttosto [548] fu persecutore, ricorse allora per aiuto agl'idoli, facendo venir da tutte le parti de' sacerdoti, anche di religioni straniere, moltiplicando i sagrifizii e le preghiere in così gran bisogno alle sorde sue deità. Fece ancora quanti preparamenti potè, per ammassar genti, e per reclutare le quasi disfatte legioni. Restò per un tempo ritardata la sua spedizione dalla peste tuttavia mietitrice delle vite umane; ma finalmente in quest'anno egli si mosse da Roma in persona con quelle forze che potè adunare. Insinuò egli segretamente al senato, essere necessaria l'andata di amendue gli Augusti, trattandosi di una guerra sì strepitosa e di tanta estensione; e questo fu decretato. Non si fidava il saggio imperador Marco Aurelio di mandar solo a cotale impresa il fratello Lucio Vero, perchè ne avea già sperimentata la codardia [Capitolinus, in Lucio Vero.]; e nè pur voleva lasciarlo solo in Roma, affinchè egli in tanta libertà maggiormente non s'immergesse negli eccessi, e crescesse il suo disonore. Si misero dunque in viaggio i due imperadori (ma Lucio Vero con interna ripugnanza e dispiacere) e pervennero sino ad Aquileja. Truovasi nelle medaglie [Mediobarb., in Numism. Imper.] di questo anno, che i due Augusti presero per la quinta volta il titolo d'Imperadori. Non apparendo che vittoria alcuna, di cui questo titolo è indizio, si fosse per anche riportata contra de' Marcomanni, improbabile non è, che sia con ciò significata quella che Avidio Cassio ebbe coi Bucoli, o sia coi pastori egiziani che si erano ribellati. Da Vulcazio Gallicano [Vulcatius, in Avidio Cassio.] abbiamo che Cassio si portò anch'egli alla guerra marcomannica; e però dovrebbe essere succeduta prima la ribellion d'essi pastori e la loro disfatta. Dacchè si sollevarono [Dio, lib. 71.] i suddetti Bucoli, gente barbara e selvaggia, molti ne furono presi; ma gli altri vestiti con [549] abiti donneschi, e fingendosi le mogli de' prigionieri, invitarono un centurione romano a prendere l'oro preparato pel riscatto de' prigionieri. In vece dell'oro, trovò egli le spade nemiche, che gli tolsero la vita. Cresciuto l'ardire in quella gente, e tirata nel suo partito la maggior parte degli Egiziani, con avere per capo un Isidoro, valorosissima persona, rimasero vittima del loro furore molte soldatesche romane; saccheggi senza fine furono fatti; e poco vi mancò che non s'impadronissero della stessa Alessandria, capitale allora dell'Egitto. E sarebbe forse avvenuto, se non vi fosse accorso colle sue genti Avidio Cassio governatore della Soria. Non si attentò egli di venire a giornata campale con quella sterminata copia di gente fiera e disperata; ma gli riuscì bene di seminar fra loro la discordia: il che bastò per opprimere i pertinaci, e per ridurre gli altri alla sommessione. Quando ciò veramente succedesse in questi tempi, potrebbe ciò aver dato motivo agli Augusti di prender di nuovo il titolo d'Imperadori. Ma siccome le azioni e gli avvenimenti dell'imperio di Marco Aurelio sono a noi pervenuti senza distinzioni di tempo, così malagevol cosa è il poter fissarne gli anni precisi, e resta indeciso chi meglio in questa oscurità l'indovini.
Anno di | Cristo CLXIX. Indizione VII. |
Sotero papa 8. | |
Marco Aurelio imperad. 9. | |
Lucio Vero imperadore 9. |
Consoli
Quinto Sosio Prisco Senecione e Publio Celio Apollinare.
Al primo console, cioè a Prisco, ho aggiunto il cognome di Senecione, che si legge in una iscrizione [Thesaurus Novus Inscription., pag. 336, num. 5.], da me altrove riferita, trovandosi nell'altre memorie [550] il solo di Prisco, che dovea essere il più usato. La venuta dei due Augusti ad Aquileja con un copiosissimo esercito, seguita nell'anno precedente, per testimonianza di Capitolino [Capitolinus, in Marco Aurelio.], produsse buoni effetti; imperciocchè la maggior parte dei rei e popoli barbari del Settentrione non solamente cessarono dalle ostilità, ma uccisero ancora gli autori delle sedizioni, mostrando di voler concordia coi Romani. E i Quadi rimasti senza re protestavano di non voler confermare il già eletto, se non precedeva l'approvazion degl'imperadori. Andavano anche arrivando ambasciatori dei più di que' popoli ai luogotenenti generali di essi Augusti, che chiedevano pace. Tal positura d'affari colla giunta della peste che già s'era inoltrata fino Aquileja, ed avea consumata parte dell'armata, e colla morte ancora di Furio Vittorino, prefetto del pretorio, animava Lucio Vero a fare istanza al fratello Augusto per tornarsene a Roma a godervi le solite sue delizie e i consueti passatempi. Ma Marco Aurelio era di contrario parere, insistendo sempre in dire, che l'essersi ritirati i Barbari, e il mostrar tanta voglia di pace, poteano essere loro finzioni e ripieghi presi al vedere un sì grande apparato d'armi dalla parte de' Romani; e che bisognava andar innanzi, e chiarir meglio, se i nemici operavano daddovero, o fingevano. Ch'essi due Augusti passassero il verno in Aquileja, lo pruova il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.] con alcuni passi di Galeno. Fu dunque forzato contro sua voglia Lucio Vero a seguitare il fratello Augusto nella Pannonia e nell'Illirico, dove diedero buon sesto alla quiete di quelle contrade, liberandole, o pure avendole trovate libere dalle nazioni barbare. Le medaglie [Mediobarbus, in Numism. Imper.] ci fan vedere preso da essi Augusti in quest'anno per la sesta volta il titolo d'Imperadori, senza che apparisca dove [551] le lor milizie avessero guadagnata qualche battaglia. Eusebio [Eusebius, in Chron.] circa questi tempi scrive, che i Romani combatterono contra de' Germani, Marcomanni, Quadi, Sarmati e Daci. E nelle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imper.] battute nell'anno presente si trova menzione d'una Vittoria Germanica, e della Germania soggiogata, ed in oltre dato a Marco Aurelio il titolo di Germanico: tutte pruove, che si dovette menar le mani, e che qualche vittoria toccò all'armi romane. Capitolino [Capitol., in Marco Aurelio et Lucio Vero.] ignorò molte particolarità di questa guerra, e più di lui certamente son da apprezzar le medaglie. Ma che in quest'anno Marco Aurelio conseguisse il nome di Germanico, si può dubitarne non poco.
Adunque dappoichè si vide rimessa la tranquillità nella Pannonia e nell'Illirico, se ne tornarono i due Augusti da Aquileja. Lucio Vero [Capit., in Marco Aurelio et Lucio Vero.], a cui parea un'ora mille anni per rivedere le delizie di Roma, tanto fece, tanto disse, che impetrò licenza dal fratello di soddisfar al suo volere verso il fine dell'anno, sebben le parole di Galeno, riferite dal padre Pagi, sembrano indicare che amendue d'accordo s'inviassero alla volta di Roma. Fuor di dubbio è, che viaggiando essi unitamente in carrozza fra Concordia ed Altino, Lucio Vero [Eutrop., in Breviar. Aurelius Victor, in Epitome.] fu improvvisamente colpito da un accidente di apoplessia, per cui perdè la favella. Cavatogli sangue, e portato ad Altino, da lì a tre giorni compiè il corso di sua vita. Le dicerie cagionate da questa improvvisa morte furono infinite, secondo la consuetudine degli oziosi, de' maligni e degli ignoranti, che tutti vogliono far da politici. Vi fu dunque non poca gente, che il credè portato all'altra vita per veleno che dicea fatto a lui dare da Faustina Augusta suocera sua, chi da Lucilla sua moglie per gelosia di Fabia, sorella di [552] lui, ch'era entrata seco in troppa confidenza, o per altri infami intrighi donneschi, o perchè egli con essa sua sorella avesse tramato contro la vita di Marco Aurelio; e che Agaclito suo favorito liberto fosse stato adoperato per levar lui di vita. Altri poi inventarono una favola, cioè che Marco Aurelio con un coltello dall'una parte avvelenato avendo tagliato un pezzo di carne, ne desse a lui la mortifera, e prendesse l'altra per sè: ovvero che per mezzo di Posidipo suo medico il facesse salassar fuor di tempo. Ma così stabilita era la riputazione e il concetto dell'integrità di Marco Aurelio, che niuna onesta persona vi fu, che non conoscesse la falsità di sì fatte immaginazioni. L'aveva egli sempre amato, avea tenuti segreti il più che poteva i di lui difetti, benchè gli dispiacessero al sommo. Comunque passassero quegli affari, abbastanza si raccoglie da Capitolino [Capit., in Marco Aurelio.] che Marco Aurelio venne in quest'anno a Roma, pregò il senato a voler accordare al defunto Lucio Vero gli onori divini, il cui corpo fu posto nel sepolcro di Adriano. Gli assegnò ancora de' Flamini, ed altri sacri ministri, come si costumava con gli Augusti, empiamente deificati. Le zie e le sorelle di esso Lucio Vero furono provvedute di assegni convenevoli al loro stato. Trattò bene, e regalò tutti i di lui liberti, benchè la maggior parte fossero gente cattiva che si era abusata della debolezza del padrone in addietro; ma dopo qualche tempo con apparenza di onorarli, ne liberò la corte, ritenendo solamente Eletto, quel medesimo, che a suo tempo vedremo uccisore di Commodo Augusto, figliuolo del medesimo imperadore. Andò poscia Marco Aurelio in senato per ringraziare i padri degli onori compartiti al defunto fratello, e destramente lasciò capire che tutti i felici successi della guerra partica non erano provenuti dai suoi consigli e provvedimenti, e che da lì innanzi passerebbono meglio gli affari.
Anno di | Cristo CLXX. Indizione VIII. |
Sotero papa 9. | |
Marco Aurelio imperad. 10. |
Consoli
Marco Cornelio Cetego e Cajo Erucio Claro.
Non s'ingannò l'Augusto Marco Aurelio in dubitare che i barbari settentrionali con finto animo avessero trattato di pace nell'anno precedente. In fatti nel presente, ripigliate l'armi, ricominciarono i Marcomanni con gli altri popoli di sopra nominati, e con altri mentovati da Capitolino [Capitol., in Marco Aurelio.], le ostilità contro le provincie romane, forse animati dal sapere quanta strage avesse fatta la pestilenza nelle legioni romane. Il peggio era, che la medesima peste era tornata ad infierire in Roma; e però mancavano i soldati, ed anche l'altro nerbo principale di chi vuole far guerra, cioè il danaro; nè in sì calamitosi tempi sofferiva il cuore al buon imperadore di smugnere con imposture nuove i popoli afflitti. Che fece egli dunque? Ricorse a dei ripieghi riserbati alle gravi angustie della repubblica. Non erano mai ammessi alla milizia i servi, o vogliam dire schiavi; e di questi il numero a que' tempi era incredibile nel romano imperio. Per valersene alla guerra, fece conceder loro la libertà, e ne formò alcune legioni, con dare ad essi il nome di Volontari. Altrettanto si era praticato nelle necessità della guerra Punica a' tempi della repubblica. Volle ancora, che i gladiatori, benchè persone infami, seco venissero alla guerra, e che in vece di scannarsi fra loro, impiegassero la lor destrezza in favor della patria con uso migliore. Prese inoltre al suo soldo i banditi della Dalmazia, della Dardania e molte compagnie di Germani, acciocchè servissero contro gli stessi Germani. In tal guisa mise insieme una poderosissima armata. Ma non reggendo il suo erario a sì gravi spese, nè volendo [554] egli, siccome dissi, aggravar i popoli, si ridusse a vendere al pubblico incanto nella piazza di Trajano gli ornamenti del palazzo imperiale e i vasi preziosi e fin le vesti della moglie e le gemme trovate negli scrigni di Adriano. Durò due mesi questo incanto, e tanto oro se ne ricavò, che bastò al bisogno della guerra. Finita poi essa, mandò fuori un editto, invitando i compratori di que' preziosi arredi a restituirli pel medesimo prezzo. E chi non volle renderli, non ebbe per questo vessazione alcuna. Siccome osservammo di sopra all'anno 151, probabilmente Zonara s'è ingannato con attribuir questo fatto ad Antonino Pio, che non ebbe come Marco Aurelio necessità sì premurose di far danaro. Erasi ritirato il buon imperadore, non so se per godere della villeggiatura, o pure per guardarsi dalla peste, a Palestrina. Quivi la morte gli rapì il suo terzogenito, appellato Vero, per un tumore natogli sotto un orecchio, inutilmente tagliato. Era egli in età di sette anni, ed avea già conseguito il titolo di Cesare. Non più che cinque giorni volle il padre che durasse il suo lutto; consolò i medici che infelicemente l'aveano curato; e tornò fresco al maneggio degli affari pubblici, essendosi sempre osservata in questo imperador filosofo la medesima uguaglianza d'animo e di volto, tanto nella buona che nella avversa fortuna. Non permise egli che s'interrompessero per la morte del figliuolo i giuochi capitolini di Giove, che s'incontrarono in sì funesta occasione: solamente ordinò che si alzassero statue al defunto fanciullo, e l'immagine sua d'oro fosse portata ne' giuochi circensi. Era egli in procinto di muoversi per andare alla guerra, quando pensò di rimaritar la figliuola Lucilla, rimasta vedova del morto Lucio Vero Augusto. Scelse dunque per marito di lei Claudio Pompejano, di origine Antiocheno, e figliuolo d'un cavalier romano, considerata sopra tutto la di lui onoratezza e saviezza. Ma tra perchè egli non era della [555] prima nobiltà, e si trovava molto inoltrato nell'età, tanto essa Lucilla, che portava il titolo di Augusta, ed era figliuola di un Augusto, quanto Faustina imperadrice sua madre, non sapevano dirigere un sì fatto parentado.
Anno di | Cristo CLXXI. Indizione IX. |
Eleuterio papa 1. | |
Marco Aurelio imperad. 11. |
Consoli
Lucio Septimio Severo per la seconda volta e Lucio Aufidio Erenniano.
Sino a questi tempi tenne Sotero il pontificato romano, e nel presente anno sostenne col martirio la verità della Religion Cristiana. Contuttochè Marco Aurelio imperadore tanti lumi avesse dalla filosofia, pure, siccome già dissi, non giunse mai a discernere la vanità de' suoi idoli e la falsità della credenza dei Pagani. Anzi, come zelante dell'onore de' suoi dii, permise che si perseguitassero i Cristiani, di maniera che Eusebio [Eusebius, in Chron. et in Histor. Eccl.] ed altri antichi scrittori mettono sotto di lui la quarta persecuzione del Cristianesimo, per cui nella Gallia e nell'Asia moltissimi eroi della Fede di Cristo riceverono la corona del martirio. Celebri sopra gli altri furono i santi martiri Policarpio e Giustino. Anche in Roma toccò questo glorioso fine a santo Sotero papa. Non accadeva disgrazia al romano imperio, in cui i falsi sacerdoti del gentilesimo non inveissero contra de' Cristiani, attribuendo l'ira dei loro sognati dii allo sprezzo che ne mostravano gli adoratori di un solo Dio. La fierissima peste accaduta in questi tempi dovette maggiormente inasprir la loro rabbia contro i seguaci di Cristo. A Sotero succedette nella cattedra romana Eleuterio. E tuttochè i santi Melitone vescovo di Sardi ed Apollinare vescovo di Jerapoli circa questi tempi esibissero le apologie del Cristianesimo [556] a Marco Aurelio Augusto, nè egli aprì mai gli occhi, nè si rallentò il rigore contro ai Cristiani. Era già marciato in persona esso imperadore verso la Pannonia inondata dai popoli barbari. Siccome questa fu una delle più pericolose e memorande guerre che si avessero i Romani, così sarebbe da desiderare che la storia ce ne avesse conservate le memorie. Ma noi non ne abbiamo che un solo scuro abbozzo, e senza distinzione di tempi. Probabil è, che solamente nell'anno presente Marco Aurelio desse principio alle militari sue imprese; ma cosa egli operasse nol sappiamo. Le medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imper.] non parlano di alcuna sua vittoria, e ci mostrano solamente un ponte, sul quale egli passa con alquanti soldati. Abbiamo bensì, che in Roma si celebrarono i decennali del di lui imperio, cioè che si fecero feste, sagrifizii e giuochi pel decennio compiuto del suo savio governo, con far dei pubblici voti, acciocchè salvo egli giungesse al secondo decennio. Fioriva in questi tempi in Roma il celebre medico Galeno o sia Gallieno, come vien chiamato da altri, nativo di Pergamo in Asia [Galenus, de Prognosticis.]. Di colà Marco Aurelio l'avea fatto venire ad Aquileja, nell'anno 169, e poi condottolo a Roma. Sommamente desiderando di averlo a' suoi fianchi in questa spedizione, gliene scrisse. Ma avendolo istantemente pregato Galeno di lasciarlo a Roma, perchè non gli dovea piacere la vita militare, accompagnata da parecchi incomodi e pericoli, se ne contentò il buono imperadore, ma con obbligarlo ad assistere alla sanità di Commodo Cesare suo figliuolo, il qual fu veramente malato durante la lontananza del padre. Noi sappiamo che fra gli uffiziali, i quali si distinsero nella suddetta spedizione contra de' Marcomanni e degli altri Barbari, si contarono Claudio Pompejano, genero dell'imperadore, ed Avidio Cassio, che poi si ribellò, ed Elvio Pertinace che fu [557] col tempo imperadore. Avea quest'ultimo calcati vari posti militari, e si trovava di quartiere nella Dacia; ma per alcune relazioni de' suoi malevoli Marco Aurelio il levò di là. Pompejano, che ne conosceva il valore e il merito, il volle per suo ajutante, ed egli salì con tal congiuntura in sì fatta riputazione, che meritò di essere creato senatore. Anzi chiaritosi l'imperadore che i sospetti della di lui onoratezza erano proceduti da mere calunnie, maggiormente dipoi l'amò, e il promosse ai primi onori. Attesta Dione [Dio, lib. 71.], che in qualche battaglia i Marcomanni furono superiori ai Romani, e che in una d'esse perdè la vita Marco Vindice prefetto del pretorio, a cui l'Augusto Marco Aurelio fece alzare tre statue in Roma. Un altro de' suoi prefetti del pretorio fu Rufo Basseo, poveramente nato, e che nè pure avea studiato lettere. La sua fortuna, il suo valore, la sua bontà compensarono i difetti della nascita, e l'alzarono in fine a grado così sublime.
Anno di | Cristo CLXXII. Indizione X. |
Eleuterio papa 2. | |
Marco Aurelio imperad. 12. |
Consoli
Massimo e Orfito.
Quai prenomi e nomi avessero questi due consoli, non si è potuto accertatamente scoprire fin qui. Nell'anno presente, per quanto sembra risultar dalle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imper.], la vittoria accompagnò il valore dell'armi romane nella guerra coi Marcomanni. In esse comparisce la Vittoria Germanica, la Germania soggiogata, e truovasi anche il titolo di Germanico dato a Marco Aurelio. Quel solo che non si sa intendere, punto non si vede moltiplicato il titolo d'imperadore ad [558] esso Augusto, come pur solea praticarsi dopo qualche insigne vittoria. Può anche mettersi in dubbio, s'egli per anche ricevesse il cognome di Germanico. Ma se non sappiamo il quando, abbiamo almen sicure notizie da Capitolino [Capitol., in Marco Aurelio.] e da Dione [Dio, lib. 71.], ch'egli ridusse i Marcomanni al Danubio, e che nel voler essi passare quel gran fiume, diede loro una solenne rotta, e liberò la Pannonia dal giogo de' Marcomanni, Sarmati e Vandali. Parte del bottino fatto in quella fortunata azione, siccome composto di roba tolta ai sudditi della Pannonia, volle che fosse restituita ai poveri paesani. Del resto pesatamente procedeva il savio imperadore in sì pericolose congiunture, senza voler azzardare le battaglie a capriccio e sapeva temporeggiare per cogliere i vantaggi. Che se negli affari civili nulla mai determinava senza averli conferiti prima co' suoi consiglieri, molto più ciò praticava in quei della guerra, dove la prudenza ed accortezza ottien più d'ordinario che la forza. Nè s'intestava del suo parere; solendo dire: Più conveniente è ch'io segua il consiglio di tanti e sì saggi amici, che tanti e sì saggi amici seguitino il parere di me solo. Per altro era egli costante nelle fatiche, sebben molti il biasimavano, perchè un filosofo par suo volesse menar la vita fra l'armi e fra i pericoli della guerra: vita che non si accordava punto colle massime degli altri filosofi: pure egli con lettere o colla viva voce facea conoscere giusto e lodevole il suo operare, trattandosi del bene della repubblica, per cui si dee sofferire e sagrificar tutto. Nè per quante lettere gli scrivessero da Roma gli amici, affinchè lasciato il comando ai generali, venisse al riposo, mai non si volle muovere, finchè non ebbe dato fine a questa guerra, che riuscì più lunga di quel che su le prime si credeva.
Anno di | Cristo CLXXIII. Indizione XI. |
Eleuterio papa 5. | |
Marco Aurelio imperad. 13. |
Consoli
Marco Aurelio Severo per la seconda volta e Tiberio Claudio Pompejano.
Il secondo console, cioè Pompejano, non è già il genero di Marco Aurelio, siccome colla sua consueta accuratezza osservò l'incomparabile Noris [Noris, Epist. Consulari.]. Non gli ho io dato il prenome di Tito, come fan gli altri, perchè in un'iscrizione dal Doni e da me riferita [Thesaurus Novus Inscription., pag. 338.], il veggo chiamato Tiberio, con prenome più usitato dalla famiglia Claudia. Le medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.] ancora di quest'anno parlano della Vittoria Germanica e della Germania soggiogata, e nominato Germanico Augusto l'imperator Marco Aurelio; ma senza ch'egli porti altro titolo che d'Imperadore per la sesta volta, com'egli era chiamato negli anni addietro. Non è improbabile, che in questo verno succedesse la vittoria che, per attestato di Dione [Dio, lib. 71.], riportarono i Romani, combattendo coi popoli Jazigi sul Danubio agghiacciato, con far di molte prodezze. Fors'anche potrebbe appartenere all'anno presente ciò che narra Vulcazio Gallicano nella vita di Avidio Cassio [Vulcat., in Avidio Cassio.]. Voleva costui essere rigidissimo custode della disciplina militare, e si pregiava di essere chiamato un altro Marco. Di tal sua severità, che più convenevolmente si dovea chiamare crudeltà, molti esempli si raccontavano. Fra gli altri uno è il seguente. Comandava egli un corpo dell'armata cesarea alle rive del Danubio. Avendo un dì alcuni de' suoi capitani adocchiato di là dal fiume una brigata di tremila Sarmati, che non faceano buona guardia, senza che nè Cassio nè i tribuni lo sapessero, con poca gente passarono [560] improvvisamente il fiume, diedero loro addosso e li disfecero, con far anche un riguardevol bottino. Ritornati al campo que' centurioni, tutti lieti andarono a presentarsi a Cassio, sperando un bel premio per l'impresa felicemente riuscita. Il premio fu, che egli fece immantinente giustiziar tutti, e col gastigo degli schiavi (rigore senza esempio), cioè colla croce, dicendo che si sarebbe potuto dare che i Barbari avessero finta quella negligenza per tirare alla trappola i Romani, e che non s'avea a mettere così a repentaglio la riputazion del romano imperio. E perciocchè a cagion di questa sì rigorosa giustizia l'esercito suo si mosse a sedizione, saltò Cassio fuor della tenda in soli calzoni, gridando: Ammazzate me, se avete tanto ardire, ed aggiugnete questo delitto all'altro della disciplina da voi trasgredita. Questo suo non temere fu cagione che i soldati temessero daddovero, e si quetassero. Ma divolgata una sì fatta azione, mise tal terrore ne' Barbari, che spedirono a Marco Aurelio, lontano allora da quelle contrade, supplicandolo di dar loro la pace per cento anni avvenire. Al rovescio di Cassio era esso imperadore tutto amorevolezza e bontà verso de' soldati, e ben li trattava; ma non volea già che dessero la legge a lui [Dio, lib. 71.]. Dopo una sanguinosa battaglia, riuscita felice all'armi romane, gli dimandarono i soldati paga doppia o altro donativo. Nulla volle dar loro con dire, che il di più del solito che avesse dato, bisognava cavarlo dal sangue de' loro parenti, e ch'egli ne avrebbe renduto conto a Dio. Nè cessava l'infaticabil Augusto, sbrigato ch'era dalle faccende militari, di ascoltare e decidere le cause e liti occorrenti. Si trovava egli nella città di Sirmio, sua ordinaria residenza durante questa guerra; benchè Paolo Orosio [Orosius, in Histor.] scriva ch'egli per tre anni si fermò a Carnunto, città vicina a Vienna d'oggidì, quando arrivò [561] Erode Attico [Philostr., in Herode Attico.] celebre oratore di questi tempi, e stato già console, per cagion di una lite assai calda ch'egli avea con la sua patria Atene. Vi giunse anche il deputato degli Ateniesi, per nome Demostrato, che fu ben accolto da Marco Aurelio, principe naturalmente inclinato a favorir le comunità più che i privati. Prese ancora la protezione della città Faustina Augusta, la quale, secondo l'uso di altre imperadrici, accompagnava il marito Augusto alla guerra; e fino una lor figliuola di tre soli anni, facendo carezze al padre Augusto, gittandosi a' suoi piedi, e balbettando gli raccomandava la causa degli Ateniesi. Di tutto informato Erode Attico, allorchè si dovette trattar la causa davanti all'imperadore, lasciatosi trasportar dall'ira fuori di strada, a visiera calata declamò contro al medesimo imperadore, con giungere fino a rimproverargli, che si lasciasse governar da una donna e da una fanciulla di tre anni. E perchè Ruffo Basseo capitan delle guardie gli disse, che questa maniera di parlare gli potrebbe costar la vita, Erode gli rispose, che un uomo della sua età (era assai vecchio) nulla avea da temere; e voltategli le spalle se ne andò via. Marco Aurelio senza mai scomporsi, senza fare un gesto indicante noia o sdegno, partito che fu Erode, tranquillamente disse all'avvocato degli Ateniesi, che dicesse le loro ragioni. Era Demostrato uomo eloquentissimo, seppe ben vivamente rappresentarle. Ascoltò Marco Aurelio, ed allorchè intese le maniere, colle quali Erode e i suoi liberti opprimevano il popolo di Atene, non potè trattener le lagrime, perchè grande stima professava ad Erode Attico, uomo insigne, e stato suo maestro, ma ben più amava i suoi popoli. Tuttavia non volle pronunziare sentenza alcuna contro di Erode. Solamente decretò alcuni leggeri gastighi contro ai di lui insolenti liberti, e provvide all'indennità degli Ateniesi. Erode da lì a qualche tempo, per tentare [562] se Marco Aurelio, venuto in Asia, era in collera con lui, gli scrisse, come lagnandosi di non ricevere più sue lettere, quando di tante dianzi era favorito; e il buon imperadore gli diede un'ampia risposta, piena di amichevoli espressioni, con far anche scusa dell'essere stato obbligato a condannar persone appartenenti a lui. Certamente (dice qui il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.]) ci saran ben de' Cristiani, ai quali nel dì del giudizio farà vergogna questo dolce operare di un imperadore, ed imperadore pagano.
Anno di | Cristo CLXXIV. Indizione XII. |
Eleuterio papa 4. | |
Marco Aurelio imperad. 14. |
Consoli
Gallo e Flacco.
Nulla di più sappiamo di questi consoli. Ho io prodotta una nobile iscrizione [Thesaurus Novus Inscription., pag. 338.] col C. CALPVRNIO FLACCO, L. TREBIO GERMANO COS., congetturando che questa si potesse riferire all'anno presente, e che quel Germanico forse sostituito a Gallo nelle calende di luglio, o pure ne' mesi seguenti. Se sia o non sia ragionevole tal conghiettura, ne giudicheranno i lettori. Al vedere nelle medaglie [Mediobarb., in Numism. Imperat.] di quest'anno, che l'imperador Marco Aurelio prese per la settima volta il titolo d'Imperadore, senza timor di errare, veniamo a conoscere ch'egli riportò qualche vittoria contra de' Barbari. Secondo tutte le apparenze, questa fu la descritta da Dione [Dio, lib. 71.]. Erasi inoltrata l'armata romana nel paese de' Quadi, e vi era in persona lo stesso imperadore. In un sito svantaggioso fu essa ristretta da innumerabil copia di Barbari che presero tutti i passi, senza che i Romani potessero a lor talento dar la battaglia. Eccessivo era il caldo della stagione, nè acqua si trovava in quella [563] parte. Andavano differendo i Barbari il combattimento sperando di cogliere i nemici snervati ed avviliti per la sete. In fatti, ad un estremo pericolo era ridotta l'armata romana, se un improvviso accidente non avesse provveduto al bisogno. Imperciocchè ecco in un subito annuvolarsi il cielo, e cadere una dirotta pioggia. Ogni soldato allora tutto lieto stese i suoi elmi e scudi per raccoglier l'acqua cadente, abbeverando sè stesso e i cavalli, e tutti si riconfortarono. All'incontro i Barbari, veggendo fallita la loro speranza di vincerli colla sete, e credendoli tuttavia indeboliti pel patimento preceduto, attaccarono la zuffa. Forse anche prima l'aveano attaccata, immaginando troppo spossati i Romani e i lor cavalli, onde non potessero resistere. Generosamente combatterono i Romani rinvigoriti dall'acqua cadente; ma quel che portò loro la vittoria, fu una scappata di fulmini addosso all'esercito barbarico, e un fuoco aereo che cadeva solamente addosso ai medesimi Barbari, confessato miracoloso dallo stesso Dione gentile. In somma rimasero interamente sconfitti i Barbari, liberati i Romani, ed ognuno confessò essere stata prodigiosa così gran vittoria. Era solito Marco Aurelio ad aspettare dal senato il decreto di moltiplicare il titolo d'imperadore, segnale di qualche nuova vittoria. A cagion della suddetta, che riuscì cotanto luminosa, fu egli proclamato Imperatore per la settima volta dal vincitore esercito. Ne scrisse poi egli al senato in occasione di notificargli il felicissimo e mirabil successo delle sue armi: e il senato non solamente approvò il fatto, ma dichiarò anche Faustina Augusta sua moglie madre degli eserciti.
Ora, conoscendo anche i Pagani per miracoloso il descritto avvenimento, chi fra essi ne attribuì la cagione a un incantesimo di Arnufi mago egiziano, chi ad un altro mago caldeo appellato Giuliano, chi alle preghiere del medesimo Marco Aurelio, come si può vedere presso [564] Dione [Dio, lib. 70.], Capitolino [Capitol., in Marco Aurelio.] ed altri antichi scrittori [Themistius, in Oration. ad Imp. Theodosium. Claudianus, in Sexto Consulatu Honorii.]. E nella colonna Antonina effigiato tuttavia si scorge un Giove che manda pioggia e fulmini nello stesso tempo dal cielo: con che s'avvisarono i Pagani di attribuire tal grazia al loro Giove. Ma è ben più da credere agli antichissimi scrittori, i quali attestano che i Cristiani, militanti allora in gran numero nell'oste di Marco, Aurelio, veggendo il comune periglio, ritiratisi in disparte, colle ginocchia a terra implorarono l'aiuto del vero Dio, ed impetrarono quel miracolo. Che poi vi fosse una legione tutta di Cristiani, ch'essa fosse appellata di Melitene, e venisse poi soprannominata la Fulminatrice, questo è dubbioso, e l'ultimo, secondo le osservazioni degli eruditi, non sussiste punto. Un buon fondamento bensì abbiamo di credere ottenuta quella vittoria per intercession de' Cristiani, asserendolo, per testimonianza di Eusebio [Euseb., Histor. Ecclesiast., lib. 5, cap. 5.], santo Apollinare vescovo di Jerapoli, vivente allora, e Tertulliano [Tertullianus, Apologet., c. 5.] vicino a questi tempi, san Girolamo, san Gregorio di Nissa ed altri antichi. Anzi il suddetto Tertulliano scrive aver lo stesso Marco Aurelio in una lettera al senato romano attribuito questo prodigio alle preghiere de' Cristiani, quantunque ne parlasse con qualche dubbio, per non comparir troppo credulo ad una religione cotanto odiata dagl'idolatri Gentili. Parlasi poi nelle medaglie [Mediobarb., in Numism. Imp.] di qualche vittoria riportata da Marco Aurelio sopra i Sarmati. A quanto si è detto di sopra de' costumi di questo imperadore, si vuol ora aggiungere ch'egli ebbe in uso di tenere delle spie dappertutto, non già [Capitol., in Marco Aurelio.] per far danno altrui, ma solamente per saper ciò che si dicea di lui. Niun caso poi facea [565] delle sciocche o maligne dicerie e detrazioni che udiva della sua persona. Ma se trovava ben fondata la lor censura, serviva ciò a lui per emendarsi; chè questo era l'unica mira sua. Trovandosi egli appunto a questa guerra, fu informato dei lamenti che facea il popolo romano, per aver condotto via sì gran brigata di gladiatori, de' sanguinosi combattimenti de' quali viveano spasimati i Romani; e per avere ordinato che le commedie, o vogliam dire le buffonerie de' pantomimi, si facessero in ora più tarda, per non impedire i negozii de' mercatanti. Imperciocchè pareva ai Romani, che l'imperadore, con privarli de' consueti divertimenti e sollazzi, li volesse far tutti diventare filosofi. Ora egli mandò ordine, che si facessero gli usati spettacoli, deputando a ciò i nobili, che aveano miglior borsa, e più degli altri poteano rallegrare il popolazzo.
Anno di | Cristo CLXXV. Indizione XIII. |
Eleuterio papa 5. | |
Marco Aurelio imperad. 15. |
Consoli
Calpurnio Pisone e Marco Salvio Giuliano.
Siccome altrove [Thesaurus Novus Inscript., pag. 338.] ho io accennato, sarebbe da vedere, se questo Giuliano console potesse essere il medesimo che Marco Didio Giuliano Severo, il quale a suo tempo ci comparirà assunto al trono imperiale: giacchè Erodiano attesta ottenuto da lui il consolato prima dell'imperio, e si sa da Sparziano [Spartianus, in Juliano.] aver egli avuto per collega in questa dignità Pertinace, il quale divenne anch'egli imperadore, e forse potrebbe essere stato sostituito a Pisone nell'anno presente. Di Pertinace scrive Capitolino [Capitol., in Pertinace.], che egli liberò la Retia e il Norico dai nemici, ed in ricompensa fu disegnato [566] console da Marco Aurelio, senza che se ne sappia l'anno preciso. Ma, per attestato di Dione [Dio, lib. 71.], molti ne mormorarono, perchè egli era bassamente nato. Nulla più resisteva alle armi vittoriose di Marco Aurelio, a cui era riuscito di ridurre in somme angustie i Marcomanni e i Quadi. Avea egli anche messi di presidio ne' lor paesi ventimila armati in siti ben fortificati; e tuttochè quei popoli ricalcitrassero per qualche tempo ancora, pure forzati furono a sottomettersi, coll'impetrare un accordo, in cui si obbligarono di non abitare per certo tratto in vicinanza del Danubio. I Jazigi, già sconfitti dai Romani, finchè poterono, tennero forte, ed imprigionarono Bonadaspe re loro, perchè avea inviato dei deputati a Marco Aurelio per trattare di pace. Ma, incalzati sempre più dalla armata de' Romani, si ridussero anche essi ad umiliarsi. Nulla poterono impetrare la prima volta, perchè di loro non si fidava l'imperadore; ma in fine venuto Zantico lor nuovo re coi principali della nazione a' piedi di Marco Aurelio, ottenne con alcune condizioni la pace. Una d'esse condizioni era la restituzion de' prigionieri, che ascese a centomila persone, oltre ai fuggiti, morti o venduti. Diedero in oltre a Marco Aurelio ottomila uomini a cavallo di lor nazione, cinquemila de' quali furono spediti nella Bretagna: segni tutti di una gran possanza di que' popoli. Anch'essi furono obbligati ad abitar lungi dal Danubio più ancora de' Marcomanni. Non fecero di meno i Narisci, i Buri, ed altre di quelle barbare nazioni. Tutte implorarono la pace dal temuto Augusto [Capitolinus, in Marco Aurelio.]: e chi si sottomise, chi entrò in lega, chi provvide di soldatesche. A molti di costoro diede egli delle terre nella Dacia, e nella Pannonia, nella Mesia, nella Germania, e gran quantità di Marcomanni rimandò ad abitare in Italia. Ma perchè alcuni di [567] costoro posti a Ravenna [Dio, lib. 71.] tentarono d'impadronirsi di quella città, a tutti costoro diede poi sussistenza di là dall'Alpi. Tale per certo era la bontà e la equità di questo imperadore, che trattava i nemici stessi, prigioni o sottomessi, come amici. Merita anche d'essere osservato nelle iscrizioni raccolte dal Grutero e da me, che molti soldati portavano il nome di Marco Aurelio. Potrebbe credersi che fossero liberti suoi; ma più probabilmente furono persone di nazioni straniere, che venute al suo soldo meritarono in premio il nome dello stesso imperadore.
Con questa felicità avea l'Augusto Marco Aurelio domate quelle barbare genti, e conseguito per questo il titolo di Germanico e Sarmatico [Mediobarbus, in Numismat. Imperator.]. Era anche dietro a dare un nuovo sistema ai conquistati paesi, meditando di far della Marcomannia e della Sarmazia due provincie romane, governate da pretori o proconsoli romani, quando gli convenne interrompere questi disegni per una noiosa novità occorsa nell'anno presente. Avidio Cassio, di cui s'è parlato di sopra, dopo essere intervenuto alla guerra marcomannica [Vulcat., in Avidio Cassio. Dio, lib. 71.], d'ordine di Marco Aurelio se ne tornò al governo della Siria o sia della Soria, e quivi formò una fiera ribellione. Era egli originario di quel paese: il che diede poi motivo allo stesso Augusto di ordinare che da lì innanzi niuno potesse avere il governo di quelle provincie, ove fosse nato, o dalle quali traessero origine i suoi maggiori. Vulcazio Gallicano, che ne scrisse la vita (se pure autor di essa non fu Sparziano), il vuole far credere discendente da Cassio, uno degli uccisori di Giulio Cesare. Ma non è sì facilmente da prestargli fede, nè lo stesso Cassio in una sua lettera riconosce tale la sua nobiltà. Il medesimo scrittore cel rappresenta per rigoroso esattor della disciplina [568] militare, anzi portato alla crudeltà: del che di sopra addussi un esempio. Egli, per ogni menomo trascorso de' suoi soldati, li facea crocifiggere, bruciar vivi, affogare, e a molti de' disertori fece tagliar le mani e le gambe: il che non s'accorda coll'aver Lucio Vero scritto che Cassio era amato assai dai soldati. Certo è bensì, che egli sempre un dì della settimana facea far loro l'esercizio, e che ogni delizia nel mangiare e nel vestire bandì dai loro quartieri. Gran tempo era, che costui dava a conoscere il suo genio di signoreggiare; altro non facendo che dir male di Marco Aurelio, chiamandolo una vecchierella filosofessa, e di Lucio Vero, appellandolo sciocco lussurioso. Derideva le loro azioni, non istimava le loro lettere. Udivasi in ogni occasione compiangere lo stato presente della romana repubblica, dove più non si mirava l'antica disciplina, dove il principe lasciava andar tutto alla peggio, non gastigava i cattivi, e permetteva che si ingrassassero a dismisura i capitani delle guardie e tutti i governatori delle provincie. Aggiugneva, che se toccasse a lui, saprebbe ben tagliar teste e premiare i buoni, con altre simili bravate: dalle quali fu mosso Lucio Vero Augusto, fin quando andò in Soria ad avvisarne Marco Aurelio, acciocchè si guardasse da uomo sì pericoloso, e provvedesse alla sicurezza propria e de' suoi figliuoli. Marco Aurelio gli rispose, che non trovava nella di lui lettera la grandezza d'animo conveniente ad un imperadore; essere tale il governo suo, che non avea da paventar rivoluzioni; e che quando altramente dovesse essere, il destino non si potea schivare; nè potersi condannare un uomo che non era accusato da alcuno; e però che Cassio dicesse quel che volesse, perchè essendo uomo di gran valore, buon capitano e severo, egli era utile alla repubblica, nè gli si dovea recar nocumento. Terminava poi la sua risposta con queste belle parole: [569] Quanto al procurare la salvezza de' miei figliuoli, avrò più caro di vederli perir tutti, quando Cassio meriti d'esser amato più che essi, e quando importi più alla repubblica la vita di Cassio che la loro.
Ma eccoti che nell'aprile di questo anno il medesimo Cassio si ribellò, assunse il titolo d'Imperadore, e creò prefetto del pretorio colui che gli mise addosso il manto imperiale. Dicono ch'egli con lettere finte facesse credere morto Marco Aurelio, e per consolare i soldati, gli desse nome di Divo. Altri giunsero a scrivere, che Faustina Augusta [Dio, lib. 71.] era d'accordo con lui, perchè, vedendo il marito malsano, avrebbe poi sposato esso Cassio: frottola, a mio credere, inventata dagli oziosi, e smentita dalle lettere della medesima Faustina: che son riferite dallo storico Vulcazio Gallicano [Vulcat., in Avidio Cassio.]. Imperocchè essa, udita la ribellion di Cassio, secondo l'esempio di Faustina seniore sua madre riferito di sopra, accese il marito a punir costui e i complici, rappresentandogli che se in tal caso non lasciava in disparte la sua troppa clemenza, e non dava un esempio di giustizia, altri si sarebbono animati a tentar lo stesso, e che non era in sicuro la vita de' lor figliuoli. Intanto Cassio, seguitato dalle sue legioni, ebbe tutta la Soria alla sua ubbidienza. Specialmente gli Antiocheni, che assai l'amavano, si dichiararono per lui. Altrettanto fece la Cilicia; e per tradimento di Flavio Calvisio governatore, anche l'Egitto. Tertulliano [Tertullianus, ad Scap., cap. 2; et Apologet., cap. 35.] osservò, che niuno de' Cristiani si mischiò in questa ribellione, perchè la legge di Cristo vuol che si onorino anche i principi cattivi, non che i buoni. Avvisato di questa inaspettata turbolenza in Germania l'Augusto Marco Aurelio da Publio Marzio governatore della Cappadocia, ne dissimulò, per qualche tempo, il suo affanno. [570] Quel che più gli dispiaceva, era di dover venire ad una guerra civile. Divolgatosi poi l'affare, fece una savia aringa alle legioni che l'aveano sì ben servito nella guerra de' Marcomanni; e ne scrisse ancora al senato, parlando sempre non di vendetta, ma di clemenza. Ordinò a Commodo suo figliuolo [Lampridius, in Commodo.] di venirlo a trovare ai confini della Germania, per dargli la toga virile, essendo in uso di darla ai figliuoli degli Augusti da che erano entrati nell'anno quindicesimo della loro età [Capitolinus, in Marco Aurelio.]. Ciò fu fatto, e per tal festa diede un congiario al popolo romano, se pur non falla Capitolino. Trovandosi in una medaglia menzionata la settima liberalità di Marco Aurelio, crede il Mezzabarba [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.], essere ciò un donativo da lui fatto all'esercito germanico nell'occasione suddetta. Ma forse più tardi succedette quel dono. Dichiarato fu ancora Commodo principe della gioventù. Intanto Marco Aurelio, lasciate ben guernite le frontiere della Germania, diede la marcia alle sue milizie verso la Soria, e tenne poi loro dietro da lì a qualche tempo: sicchè si preparava oramai un'aspra guerra fra lui e il ribellato Cassio. In Roma stessa abbondava lo spavento per timore che Cassio meditasse di venire in Italia, mentre n'era lontano l'imperadore; benchè per questo non si ritenesse il senato dal dichiarar Cassio pubblico nemico, e di confiscare i di lui beni all'erario della repubblica, giacchè Marco Aurelio nulla volle per sè dei beni di costui.
Ma di corta durata fu questo incendio. Erano appena passati tre mesi e sei giorni da che Cassio avea assunto l'imperio [Dio, lib. 71.], quando essendo egli in viaggio, un centurione per nome Antonio, fedele a Marco Aurelio, incontratolo per istrada, gli diede di un fendente al collo. Non fu mortale la ferita, e si [571] sarebbe salvato Cassio colla fuga presa dal cavallo, se sopraggiunto un decurione non l'avesse finito. Spiccatagli la testa dal busto, questi due uffiziali presero le poste per potarla all'imperadore. Altra particolarità più precisa di questo fatto noi non abbiamo dagli storici, se non che pare seguito qualche combattimento fra i soldati di Cassio e quei di Marzio Vero, governatore della Cappadocia, inviato da Cesare nella Soria [Vulcatius, in Avidio Cassio.]. Fu anche ucciso il prefetto del pretorio, creato da lui, siccome ancora Metiano governatore di Alessandria, che avea abbracciato il di lui partito. Capitolino [Capitol., in Marco Aurelio.] il chiama figliuolo di Cassio. Succederono cotali uccisioni senza alcun ordine o saputa di Marco Aurelio, il quale troppa premura avea che non si spandesse il sangue di verun senatore, desiderando di salvar la vita a Cassio stesso, e solamente di potere rinfacciargli la sua infedeltà e ingratitudine. In fatti s'afflisse all'udirlo ucciso per aver perduta l'occasione di esercitar la misericordia. Furono trovate nello scrigno di Pudente molte lettere scritte a Cassio da' suoi parziali. Marzio Vero, dichiarato poi governatore della Soria, tutte le bruciò, con dire che credeva d'incontrar così il genio di Marco Aurelio; e quando pur fosse succeduto il contrario, amava piuttosto di perir solo che di lasciar perir tanti altri [Dio, in Excerptis Valer. Ammianus, Histor., lib. 21.]. Ma più costante fama fu, che portate quelle lettere a Marco Aurelio, senza volerle dissuggellare, le gettò nel fuoco per non conoscere alcuno de' suoi insidiatori, o per non essere, suo malgrado, forzato ad odiarli. Lo stesso fece allorchè gli fu portato il processo formato contra di Cassio, nè volle vedere la di lui testa, avendo comandato di seppellirla, prima che arrivasse chi gliela portava. Nè qui si fermò la di lui clemenza. Si guardò egli dall'imprigionare, o far [572] morire alcuno de' senatori denunziati di aver tenuta mano a cotesta ribellione [Vulcatius, in Avidio Cassio.]. E perciocchè il senato seguitò dipoi le ricerche e i processi contra di tutti i complici, e molti ne condannò, Marco Aurelio, non coll'ipocrisia di Tiberio, ma colla sua sincera umanità, scrisse dalla Asia, dove il vedremo andare, ad esso senato, pregandolo e scongiurandolo di usar piuttosto l'indulgenza che il rigor contra de' delinquenti, e di non condannar a morte chicchessia, e massimamente chi fosse dell'ordine senatorio o equestre: perchè egli desiderava questa gloria al suo regno, che in occasion di ribellione niuno, fuori del calore del tumulto perdesse la vita. Aggiungeva, che avrebbe anzi voluto, se fosse stato possibile, richiamar dal sepolcro gli estinti [Dio, lib. 71.]; e chiudeva in fine tal preghiera con dire, che se altrimenti avessero fatto per conto di alcun senatore o cavaliere, si aspettassero di vedere ancor lui in breve morire. In effetto, a riserva di pochissimi centurioni decapitati, gli altri colpevoli furono solamente gastigati coll'esilio. Flavio Calvisio governator dell'Egitto, benchè partigiano dichiarato della ribellione, fu relegato in un'isola, nè solo ebbe salva la vita, ma anche i beni.
Perdonò Marco Aurelio alla moglie, ai figliuoli, al genero di Cassio, ancorchè sapesse che aveano sparlato di lui. Il solo Eliodoro fu relegato in un'isola. Agli altri figliuoli di Cassio volle che fosse conservata la metà de' beni paterni e materni, con facoltà di andare dovunque loro piacesse (probabilmente lungi da Roma e fuori d'Italia), colla giunta ancora di molti regali, e con divieto di ingiuriarli o rimproverarli per cagion della loro disgrazia. Così poterono essi con sicurezza e comodo vivere da lì innanzi non come figliuoli d'un tiranno, ma come senatori romani, finchè il bestial Commodo, figlio di Marco Aurelio, sotto [573] pretesto d'una congiura, li condannò col tempo ad esser bruciati vivi. Nè andò molto, che Marco Aurelio fece anche richiamar dall'esilio parecchi banditi per questa turbolenza. In somma, ad altro non servì la ribellione di Cassio, che a far maggiormente risaltare la grandezza d'animo e l'incomparabile bontà di Marco Aurelio. Molti nulladimeno vi furono che disapprovarono cotanta indulgenza, perchè era un dar ansa di far del male ad altri, nè era sicura la vita di lui nè di suo figliuolo. Ed uno fra gli altri vi fu che disse allo stesso Augusto: Ma come sarebbe andata, se Cassio avesse vinto? Al che egli rispose: Io non ho sì poco timor degl'iddii, nè vivo in maniera che Cassio avesse da vincere [Vulcat., in Avidio Cass.]. Meritava bene un principe tale di conoscere il vero Dio, giacchè egli avea tanta fiducia nei falsi. E qui si metteva egli a dire, che niun de' principi precedente uccisi v'era, che non sel fosse meritato. Così Caligola, Nerone, Ottone e Vitellio. Galba anch'esso era perito per la sua avarizia. Nel testo di Vulcazio Gallicano v'ha, che egli disse lo stesso di Pertinace: errore massiccio che non può venir dallo storico, ma da qualche saputello, che vi fece quella giunta, perchè Pertinace venne dipoi. Aggiugneva, che non Augusto, non Trajano, Adriano ed Antonio Pio suo padre erano stati sopraffatti dai ribelli o dai congiurati, perchè non si lasciarono mai sopraffare dai vizii. A picciole giornate finalmente marciò l'Augusto Marco Aurelio, con pensiero d'andar in Soria. Per viaggio intese la morte di Cassio, e per viaggio scrisse al senato quanto s'è detto di sopra [Vulcat., in Avidio Cassio.]. Da una lettera ch'egli inviò a Faustina, sua moglie, e dalla risposta di lei, si può raccogliere ch'egli [574] fece la via d'Italia, e venne ad Albano e a Capoa, senza apparire che entrasse in Roma. Gli stava probabilmente a cuore di non interrompere l'incominciato cammino; e in fatti con essa sua moglie e col figliuolo Commodo Cesare lo continuò, imbarcatosi, come credono alcuni, nella flotta del Miseno. Vogliono il cardinal Noris e il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], che nell'agosto di quest'anno, mentre Marco Aurelio tuttavia era in Campania, per le istanze del senato conferisse ad esso suo figlio la potestà tribunizia. Scrittori di tanta autorità si possono seguitare a chiusi occhi. Nulladimeno potrebbe restar qualche sospetto, che più tardi succedesse questo fatto. Certo è che dopo avere il senato ricevuta la lettera d'esso Augusto, sì piena di clemenza verso i partigiani della ribellione cassiana [Vulcat., in Avidio Cassio.], proruppe in allegre acclamazioni verso di lui, chiedendo, fra l'altre cose, che assicurasse l'imperio al figliuolo, e che gli concedesse la tribunizia podestà. Quando e dove fosse scritta quella lettera, non si sa. Da essa impariamo che già alcuni erano stati relegati nell'isole, altri banditi, e seguite altre condanne; e i processi esigevano del tempo e notizie ed esami dalla Soria. Però sembra scritta la lettera, dappoichè l'imperadore era giunto in Levante. E tanto più, perchè Dione [Dio, lib. 71.] assai chiaramente mostra averla egli scritta, dappoichè l'Augusta Faustina era morta; e questa senza fallo, siccome dirò, mancò di vita mentr'egli era in Asia. Ecco dunque sufficiente motivo di sospettare che non sia tanto sicura l'opinion de' suddetti critici, e potersi dubitare che Commodo ottenesse quella insigne prerogativa alquanto più tardi.
Anno di | Cristo CLXXVI. Indizione XIV. |
Eleuterio papa 6. | |
Marco Aurelio imperadore 16. |
Consoli
Tito Vitrasio Pollione per la seconda volta e Marco Flavio Apro per la seconda.
Già dissi passato in Oriente l'Augusto Marco Aurelio nell'anno precedente per dar sesto agli affari sconvolti della Soria e dell'Egitto a cagion della ribellione di Cassio. Era egli giunto ad un borgo chiamato Halala nella Cappadocia, a piè del monte Tauro [Antoninus, in Itinerario. Cellarius, in Geograph.], borgo poscia da lui popolato con una colonia, e fatto divenire una città, cui diede il nome di Faustinopoli. Quivi presa da mortal malattia sua moglie Annia Faustina Augusta minore, finì i suoi giorni, e fu attribuita la sua morte alla gotta, male, a cui era soggetta. Dione [Dio, lib. 71.], intestato ch'essa avesse parte nella sollevazion di Cassio, dubitò ch'ella medesima si lasciasse morire per paura d'essere scoperta complice di quella ribellione: sospetto, come già vedemmo, insussistente e privo affatto di verisimiglianza. Il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] la fa defunta nell'anno precedente. Il Petavio [Petavius, de Doctrin. Temp.], il Mezzabarba [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.] ed altri nell'anno presente. Non è facile il decidere tal quistione. Solamente abbiamo da Filostrato [Philostr., in Sophist., lib. 27.] nella vita di Erode Attico, che Marco Aurelio rispondendo benignamente alla lettera scrittagli da esso Erode, di cui parlammo all'anno 173, esprimeva il suo dolore per la recente morte di Faustina Augusta, dicendo ch'egli si trovava a quartier d'inverno colle soldatesche che l'accompagnavano: il che può convenire al precedente dicembre, e molto più ai primi mesi dell'anno corrente. [576] Si vuol ora avvertire, che questa imperadrice lasciò di sè un nome obbrobrioso per la sua lascivia: vizio troppo usuale in chi adorava delle deità infami pel medesimo eccesso. Per attestato di Capitolino [Capitolinus, in Marco Aurelio.], fama era che Commodo suo figliuolo fosse nato di adulterio, perchè trovandosi ella a Gaeta, scialacquò la sua pudicizia colla feccia dei barcaiuoli e gladiatori. Sapevasi ancora essere stati de' suoi drudi Tertullo, Utilio, Orfito e Moderato; e perchè Marco Aurelio promosse costoro alle cariche, ed alcuni fino al consolato, ne fu anche proverbiato dalla gente e messo in canzone ne' teatri. Corse inoltre voce, ch'essa perdutamente si innamorasse d'un gladiatore; essendo per questo folle amore lungamente inferma, confessò il suo fallo all'Augusto consorte. Consigliatosi egli coi Caldei, ebbe per risposta, che ucciso quel gladiatore, facesse lavar la moglie nel di lui sangue. Il che fatto, essa guarì e concepì poco dappoi Commodo, principe che vedremo impastato di tutti i vizii della canaglia, e abbandonato all'infamia degli spettacoli gladiatorii. Non ignorava già Marco Aurelio, se non tutti, almeno gran parte dei trascorsi della moglie impudica: pure non seppe mai indursi a prendere alcuna risoluzione gagliarda su questo. E a chi gli disse un dì, che se non volea ucciderla, almeno la ripudiasse, rispose: Ma così facendo, converrà anche renderle la dote; e volea dir l'imperio da lui conseguito per cagion d'essa. Nè egli lasciò mai per le sue follie d'amarla e di andar d'accordo con lei. Morta che fu questa donna, certo indegna d'aver avuto per padre un Antonino Pio, per marito un Marco Aurelio, ne fece il senato una ridicola deità per le istanze del marito Augusto, il quale la pianse, e le alzò un tempio, al cui servigio pose anche delle fanciulle appellate Faustiniane. Giuliano Apostata [Julianus, de Caesarib.] [577] gli diede la burla per questo. Fabia, sorella di Lucio Vero, a lui giovine destinata in moglie, si studiò allora per giugnere al di lui talamo. Ma Marco Aurelio, per non dare una matrigna ai figliuoli, se la passò da lì innanzi con una concubina, giacchè ciò s'accordava colle leggi romane.
Abbiamo dalle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imper.], che in quest'anno esso imperadore prese per la ottava volta il titolo d'Imperadore: il che ci fa intendere riportata dai Romani qualche nuova vittoria, e questa in Germania, come traluce dalle stesse monete. Nella lettera, o pure nell'orazione mandata da esso imperadore al senato, e riferita da Vulcazio Gallicano [Vulcat., in Avidio Cassio.], dove tanto raccomanda la piacevolezza verso i congiurati con Cassio, credo io che si parli di questa vittoria, per cui s'era rallegrato il senato con lui. Il che è da osservare, perchè prima di quella lettera Commodo Cesare non era per anche giunto ad ottenere la podestà tribunizia. In essa lettera ancora si parla del consolato dato a Claudio Pompejano suo genero, il cui nome non comparendo ne' fasti, ci fa conoscere non esser egli stato console ordinario. Ora Marco Aurelio in quest'anno visitò la Soria, la Palestina e l'Egitto, lasciando dappertutto segni luminosi della sua clemenza coll'aver perdonato a tutte le città che aveano aderito a Cassio, e prese l'armi in favore di lui. Ma non volle veder quella di Cirro, perchè patria di Cassio, essendo ben più probabile che Capitolino [Capitol., in Marco Aurelio.] scrivesse Cirro, città della Soria, che Cipri. Molto men volle passare in Antiochia, città che con isfacciata alterigia avea sostenuto la ribellion cassiana. Anzi verso questa sola diede a divedere il suo sdegno con privar que' cittadini del diritto di adunarsi, di ascoltar pubbliche orazioni, di fare spettacoli (cosa [578] lor tanto cara), e con levar loro simili altri privilegii, spettanti alle città che si governavano colle proprie leggi. Ma non durò molto la collera del buon imperadore. Fra pochi mesi restituì loro tutto, e, nel tornar dall'Egitto consolò quel popolo con visitare la loro città. Mentre andava in Egitto, abbiamo da Ammiano Marcellino [Ammianus, lib. 23, cap. 5.], che fu sì attediato in passando per la Palestina dai ricorsi e dai rissosi cicalecci dei fetenti Giudei, che in fine esclamò: O Marcomanni, o Quadi, o Sarmati, ho pur una volta trovata gente più inquieta e noiosa di voi! Ancorchè gli abitanti di Alessandria avessero incensato Cassio con grandi elogi [Capitol., in Marco Aurel.], pure non si fece pregare per dar loro il perdono. Quivi anche lasciò una sua figliuola, mentre andò alla visita d'altre città dell'Egitto, per le quali tutte comparve sempre vestito alla moda di quel paese, o pur con abito da filosofo. Durante questo suo pellegrinaggio vennero i re dell'Oriente e gli ambasciatori del re dei Parti ad inchinarlo, e a rinnovare i trattati di pace. In somma lasciò questo Augusto per tutta l'Asia e per l'Egitto un gran nome della sua saviezza e moderazione; nè persona vi fu che non concepisse un grande amore e stima per lui. Venuto alle Smirne, imparò ivi a conoscere il sofista [Philost., in Sophistis., c. 34.] Aristide, di cui restano le orazioni. Arrivò ad Atene, e quivi, per provare la sua innocenza, volle essere ammesso ai misteri di Cerere, e solo entrò in quel sacrario. Accrebbe i privilegii a così illustre città, e specialmente beneficò quelle scuole con assegnar buone pensioni a tutti i maestri delle sette filosofiche, cioè Stoici, Platonici, Peripatetici ed Epicurei. Poscia imbarcatosi, spiegò le vele alla volta di Italia, e soffrì nel viaggio una gravissima tempesta di mare. Sbarcato che fu a Brindisi, prese tosto la toga, cioè l'abito [579] di pace, e con questa ancora volle che marciassero tutte le milizie che lo scortavano. Entrò dipoi in Roma colla solennità del trionfo a lui decretato per le vittorie riportate in Germania [Lampridius, in Commodo.]. Nel dì 27 di novembre, impetrata dal senato la dispensa dell'età per Commodo suo figliuolo, il disegnò console per l'anno prossimo venturo. Ad amendue ancora nel dì 28 di ottobre era stato conferito il titolo d'Imperadori per la vittoria, di cui parlammo di sopra; e se si ha da credere a Capitolino [Capitolin., in Marco Aurelio.], in questa occasione fu che Marco Aurelio conferì al figliuolo la podestà tribunizia. Ma siccome già accennai, in vigore delle medaglie che abbiamo, il Noris e il Pagi pretendono conceduta a Commodo questa podestà nell'anno precedente. Lascerò io qui combattere gli eruditi, con dir solamente che non intendo io qui una regola del padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad hunc annum.]. Egli vuole che gl'imperadori disegnassero prima consoli poi Cesari ed Augusti i lor figliuoli; e pure certo è, che Commodo prima del consolato portò il titolo di Cesare. Lampridio [Lampridius, in Commodo.] scrive, che Commodo trionfò col padre X Kalendas Amazionias nell'anno corrente; e il padre Pagi spiega celebrato questo trionfo X Kalendas januarias, seguendo l'opinion del Salmasio, che credette appellato Amazonio il gennaio; opinione non certa, scrivendo chiaramente Capitolino, che il mese di dicembre fu dal capriccioso Commodo appellato Amazonio; e però quel trionfo, secondo lui, cadde nel dì 23 novembre dell'anno presente. Pretende esso padre Pagi dato in quest'anno il titolo d'Augusto al medesimo Commodo: punto anch'esso imbrogliato dalle medaglie. Non me ne prenderò io altro pensiero; e solamente dirò, che sarebbe da desiderare che tutte le medaglie fossero legittime, e tutte ben attentamente [580] lette ed accuratamente copiate. Perchè appunto son qui imbrogliati i conti, non oserò io di dar principio all'epoca dell'imperio del sopraddetto Commodo. Diede Marco Aurelio in occasion di tali feste un congiario al popolo. In che consistesse questo donativo si ha da Dione [Dio, lib. 71.]. Nella pubblica concione avendo egli detto, che era stato in pellegrinaggio otto anni, il popolo gridò colle mani alzate otto, volendo dire, che aspettava da lui il regalo di otto monete d'oro per persona. Sorrise l'imperadore; e contuttochè non fosse mai giunto alcuno dei suoi predecessori a donar tanto, pure tutta quella somma fece sborsare al popolo. Per attestato di Capitolino [Capitolinus, in Marco Aurelio.], diede anche degli spettacoli maravigliosi: cosa dopo il danaro la maggiormente grata ai Romani.
Anno di | Cristo CLXXVII. Indizione XV. |
Eleuterio papa 7. | |
Marco Aurelio imperad. 17. |
Consoli
Lucio Aurelio Commodo Cesare o pure Augusto e Quintilio.
In una iscrizione del Gudio s'incontrano questi consoli disegnati: M. AVRELIO ANTONINO COMMODO AVGVSTO ET QVINTILIO COS. Ma mi sia lecito il ripetere, che l'appoggiarsi ai marmi gudiani, non è cosa sicura nei punti controversi. Non v'ha dubbio, Commodo portò il prenome di Lucio, e in onore del padre assunse quello di Marco. Vivente il padre, il troviam quasi sempre nominato Lucio; anzi credono uomini [Noris, Epistol. Consular. Pagius, in Critic. Baron. Bimard., Epistol., pag. 122. Tom. 1. Thesaur. Novus. Inscript. Mur.] dottissimi, ch'egli solamente dopo la morte di esso suo padre prendesse l'altro: laddove nel marmo del Gudio comparisce Marco in quest'anno. Quivi parimente vien chiamato Quintilio [581] il secondo console, il cui cognome in tutti i fasti è Quintillo. Vedemmo di sopra all'anno 159 console Marco Plautio Quintillo. Questi forse fu suo figliuolo, e portò i medesimi nomi. S'aggiunge l'aver alquanto del pellegrino nell'iscrizione gudiana quel GENIS DEF. ET HERCVLI CVSTODI DELVBR. CAPIT. Abbiamo dunque il primo consolato di Commodo figliuolo di Marco Aurelio, al quale nell'anno presente (altri credono nel seguente) il padre diede [Capitolinus, in Marco Aurel.] per moglie Crispina figliuola di Bruttio Presente, personaggio stato già console. Le nozze furono celebrate alla maniera de' privati: e, ciò non ostante, egli volle rallegrare il popolo con un nuovo congiario. Di ciò v'ha qualche vestigio in una medaglia [Mediobarb., in Numism. Imperat.], dove è segnata la Liberalità VIII d'esso Augusto, ma può dubitarsi se sia ben copiata. Nel tempo ch'esso imperadore si fermò in Roma, levò via vari abusi civili. Moderò le spese che si faceano nei giuochi dei gladiatori. Osserva Dione [Dio, lib. 71.] una particolarità, sempre più comprovante quanto egli fosse alieno dallo spargimento del sangue. Era impazzito il popolo romano dietro ai gladiatori; quanto più sanguinosi erano i lor combattimenti, tanto maggior piacere ne provavano i Romani. Marco Aurelio ordinò che adoperassero nelle lor battaglie spade senza punta e senza taglio, acciocchè si facessero onore colla destrezza, ma non già coll'ammazzarsi. Fece ancora dei regolamenti per correggere il soverchio lusso e la troppa libertà delle matrone e dei giovani nobili. Stese [Euseb., in Chron.] eziandio la sua liberalità a tutte le provincie, con rimettere ad ognuno i debiti che avevano coll'erario, non men suo che della repubblica, e in mezzo alla piazza maggiore di Roma bruciò le carte delle loro obbligazioni.
Pareva intanto, che per la pace riportata [582] a Roma da Marco Aurelio, tutti si promettessero una durevol serenità, quando si scompigliarono di nuovo gli affari della Germania, se pur questi si erano mai acconciati daddovero. Sappiamo da Dione [Dio, in Excerpt. Vales.], che i Quadi, dappoichè l'imperadore fu passato in Oriente, si burlarono degli accordi fatti con lui. Deposero essi il re, verisimilmente dato loro dal medesimo Augusto, ed alzarono al trono Ariogeso. Al vedere Marco Aurelio sprezzata così l'imperiale autorità, e violati i patti, contra il suo solito andò sì fattamente in collera che mise fuori una taglia, promettendo mille scudi d'oro a chi gli desse vivo in mano Ariogeso, e cinquecento a chi gliene portasse la testa. Vero è nondimeno che essendogli poi riuscito di averlo prigione, altro male non gli fece, che di mandarlo in esilio ad Alessandria. Qualche altra turbolenza maggiore dovette accadere al Danubio, e tale ch'egli spedì (a mio credere nell'anno presente) a que' romori i due Quintilii, uomini amendue di molto volere e di non minore sperienza nella guerra. Ma perchè nulla profittavano essi, anzi doveano camminar poco bene gli affari di essa guerra, nell'anno seguente credette l'infaticabile Augusto necessaria la sua persona a quell'impresa, ed egli stesso vi andò, siccome vedremo. Crede il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] rotta solamente nel seguente anno la pace e ricominciata la guerra; ma ben più verisimile è che ciò avvenisse nell'anno presente, perchè Dione riconosce che i due Quintilii aveano prima comandata in quelle parti l'armata, nè riusciva loro di mettere al dovere que' Barbari: il che non si potè fare in poco tempo. Secondo Dione, questa seconda guerra non fu contro i Germani, ma bensì contro gli Sciti. Capitolino all'incontro asserisce [Capitol., in Marco Aurel.], che Marco Aurelio di nuovo guerreggiò [583] coi Marcomanni, Hermunduri, Sarmati e Quadi.
Anno di | Cristo CLXXVIII. Indizione I. |
Eleuterio papa 8. | |
Marco Aurelio imperad. 18. |
Consoli
Orfito e Rufo.
Il Panvinio [Panvin., in Fast. Consular.] per conghiettura diede i nomi a questi due consoli, de' quali ho io posto il solo cognome, ch'è assicurato dal consenso de' fasti e da Lampridio. Il cardinal Noris [Noris, Epistola Consulari.] li rifiutò, e con ragione. Credette egli poi, conghietturando, che il secondo fosse Gavio Orfito, e il primo Giuliano Rufo, a cagion di una iscrizione in cui i consoli di quest'anno sono Orfito e Giuliano. Ma chi ci assicura che Giuliano non sia stato console sostituito a Rufo? Perciò non ho io osato di scrivere di più. Lampridio [Lampridius, in Commodo.], citando gli atti pubblici, attesta che Commodo imperadore nel dì 3 del mese Commodio, essendo consoli Orfito e Rufo, cioè nell'anno presente, andò di nuovo alla guerra. Pretende il Salmasio che questo fosse il mese di agosto, ma non è ben certo. Potè anche essere luglio. Abbiamo poi da Dione [Dio, lib. 71.] che gl'imperadori per necessità marciarono in Germania. Sicchè a quest'anno si dee riferir l'andata dell'Augusto Marco Aurelio col figliuolo, tuttochè Capitolino [Capitolin., in Marco Aurel.] scriva ch'egli per tre anni guerreggiò di nuovo in quelle parti. Era ben poca la sanità, meschina di molto la complessione di questo principe: tuttavia sì gli stava a cuore il pubblico bene e il dovere dell'uffizio suo, che niun privato riguardo il potè ritenere. Ito egli in senato, propose l'andata sua, e dimandò ai padri aiuto dall'erario pubblico, senza volerlo prendere di sua autorità, come usarono altri imperadori; perchè (siccome egli disse in parlando [584] ai medesimi) quel danaro e tutti gli altri beni sono del senato e popolo romano, in maniera tale, che nulla noi possediamo del proprio, ed è vostra fin quella casa dove abitiamo. Ciò detto, presa l'asta insanguinata, a lui recata dal tempio di Marte, in segno di dichiarar la guerra, la scagliò verso il settentrione. Portossi ancora al Campidoglio, dove protestò con giuramento che da che egli regnava, niun senatore era stato ucciso d'ordine suo, o con sua contezza, e ch'egli avrebbe anche perdonato ai ribelli, se non fossero stati uccisi prima ch'egli lo sapesse. Noi troviamo nelle medaglie [Mediobarbus, in Numism. Imperat.] di quest'anno a lui dato per la nona volta il titolo d'Imperatore, e per la terza a Commodo Augusto suo figliuolo, per qualche vittoria al certo guadagnata dai Romani, e forse da che i due imperadori furono giunti al campo. Ma la storia non ci somministra lume per poterne dire di più. Il console Orfito diede il nome in questo anno al Senatusconsulto [Institut., lib. III, cap. 4.], per cui i figliuoli dell'uno e dell'altro sesso, benchè passati per adozione in altre famiglie, furono ammessi alla successione delle loro madri morte ab intestato. Ciò non si praticava, o era proibito in addietro; e le adozioni, oggidì si rare, ben frequenti erano presso gli antichi Romani.
Anno di | Cristo CLXXIX. Indizione II. |
Eleuterio papa 9. | |
Marco Aurelio imperad. 19. |
Consoli
Lucio Aurelio Commodo Augusto per la seconda volta e Publio Marzio Vero.
Due iscrizioni sono presso il Grutero [Gruterus, Thesaur. Inscript., p. 65, n. 9, et 77, n. 3.], spettanti all'anno presente. Nell'una il secondo console è chiamato Tito Annio Vero per la seconda volta; nell'altra Aurelio Vero per la seconda volta. Perciò [585] il cardinal Noris [Noris, Epist. Consul.], il Pagi [Pagius, in Critic. Baron.], il Relando [Reland., in Fastis.] ed altri gli han dato il nome di Tito Annio Aurelio Vero. Ma da che il sig. Bimard [Bimard, Epist., pag. 120. Tom. 1 Thesaur. Nov. Inscript.], barone della Bastia, ed uno dell'Accademia reale di Parigi, ha prodotto un marmo esistente in Aosta, che si legge nel primo tomo delle mie iscrizioni, e posto IMP. COMMODO II. P. MARTIO VERO II. COS., credo io che si abbia a preferir questo nome, ricavato da un'iscrizione d'indubitata legittimità, alle due del Grutero che son dubbiose e non concordi tra loro. Anzi apocrife le giudica esso Bimard, perchè la famiglia Annia solamente si unì coll'Aurelia in quella degli Antonini; nè alcuno vi era allora che portasse tal nome. All'incontro Publio Marzio Vero celebre fu in questi tempi, come si ha da Capitolino [Capitolin., in Marco Aurelio.] e da Dione [Dio, lib. 71.]; e noi l'abbiamo veduto di sopra il primo mobile di Marco Aurelio Augusto nella ribellione di Cassio. Bolliva intanto la guerra barbarica al Danubio, avvalorata dalla presenza dei due imperadori Marco Aurelio e Commodo. La resistenza dei Barbari era grande [Idem, ibidem.], quando Marco Aurelio ordinò a Paterno di andare ad assalirli con tutto il nerbo delle milizie romane. Di Tarrutenio Paterno, prefetto del pretorio sotto Commodo, parlano Lampridio [Lampridius, in Commodo.] e Dione. Durò l'atroce battaglia, per attestato d'esso Dione, un'intera giornata, e finì colla totale sconfitta delle nazioni nemiche. Per questa insigne vittoria fu proclamato Marco Aurelio Imperadore per la decima volta, e Commodo [586] per la quarta [Mediobarbus, in Numismat. Imper.]. Trovasi questa lor denominazione nelle medaglie coniate nell'anno presente, nel quale, secondo la testimonianza d'Eusebio [Euseb., in Chron.], la città di Smirna restò smantellata da un furioso tremuoto. Dione sembra mettere questa disavventura all'anno precedente. Ne parla ancora Aristide [Aristid., Or. 21.] in una delle sue orazioni, con farci intendere la mirabil carità usata verso quell'illustre città da tutte l'altre della Grecia e dell'Asia, perchè ognuna fece a gara per dare ricetto a quei che erano rimasti in vita. Certamente i Cristiani molto dilatati in quelle contrade, siccome allevati nella scuola della carità, saranno stati i primi e i più abbondanti in recar loro soccorso, ed avran servito di esempio anche ai Gentili. Ne scrisse il suddetto Aristide [Aristid., Or. 20.] ai due Augusti una compassionevol lettera, che tuttavia esiste, pregandoli di risarcire l'infelice città, siccome aveano fatto per tante altre di Italia in somiglianti sciagure. Non potè ritener le lagrime il buon imperador Marco Aurelio in leggendo la catastrofe di così rinomata città [Philost., in Sophist., cap. 35.]; e senza aspettare che arrivassero i di lei deputati a pregarlo d'aiuto, con viscere paterne ne scrisse al popolo rimasto in Smirna una lettera consolatoria; mandò gran somma di danaro, acciocchè rifabbricassero le case; gli esentò per dieci anni dai tributi; raccomandò con sue lettere al senato romano di dar loro altri soccorsi, onde potesse risorgere l'abbattuta città.
Anno di | Cristo CLXXX. Indizione III. |
Eleuterio papa 10. | |
Commodo imperadore 1. |
Consoli
Cajo Bruttio Presente per la seconda volta, e Sesto Quintilio Condiano.
Fondato il cardinal Noris [Noris, Epist. Consul.] sopra un'iscrizione gruteriana [Gruterus, Thes. Inscript., p. 1095, n. 1.], ch'egli nondimeno riconosce per difettosa, diede al primo console il nome di Lucio Fulvio Bruttio Presente per la seconda volta, nel che fu seguitato dal Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], dal Relando [Reland., in Fastis.] e da altri. Ma chiunque esaminerà meglio quel marmo, non avrà difficoltà a chiamarlo un'impostura, e però appoggiati que' nomi ad un fondamento che non regge. Ho io prodotta un'iscrizione [Thesaurus Novus Inscription., p. 339, n. 5.], dove Cajo Bruttio Presente vien detto console per la seconda volta. Era questi padre di Crispina moglie di Commodo Augusto. Se non vogliamo ammettere ch'egli fosse per la prima volta console nell'anno 153, sarà almeno stato in alcuno de' susseguenti anni console straordinario ed ordinario nel presente. Certamente motivo bastevole abbiamo di così credere, finchè si disotterri altra memoria che tolga ogni dubbio. Avea già l'Augusto Marco Aurelio ridotta a buon termine la guerra coi Barbari. Erodiano [Herodianus, Histor., lib. 1.], che qui dà principio alla sua storia, scrive che già alcuni di que' popoli s'erano a lui sottomessi, altri aveano fatta lega con lui, ed altri fuggiti non comparivano più per paura delle di lui vittoriose schiere. Ma non piacque a Dio di lasciargli tanto di tempo per dar compimento all'impresa. Cadde egli infermo [Capitolinus, in Marco Aurelio.] nel marzo dell'anno presente, essendoglisi attaccata la peste o sia l'epidemia, che già s'era introdotta [588] nell'armata [Dio, lib. 71.]. Nel sesto giorno della sua malattia chiamò al suo letto gli amici, e fece loro un discorso intorno alla vanità delle cose umane, facendo assai conoscere di disprezzar la vicina morte. Piangevano essi, ed egli, loro rivolto, disse: Perchè piagnete me, invece di piagnere la peste che va desolando l'armata? Erodiano gli mette in bocca una bella orazione, con cui raccomandò a tutti Commodo, benchè Capitolino scriva che non ne parlò, ma che solamente interrogato a chi egli raccomandasse il figliuolo, rispose: A voi e agli dii immortali, se pur se ne mostrerà degno. L'aveva egli sul principio del male chiamato a sè, pregandolo di non partirsi se prima non era terminata la guerra: al che rispose Commodo che più gli premeva la propria sanità, e desiderar perciò di andarsene. Ma più del male e più dell'imminente morte, si affliggeva l'ottimo imperadore al vedere che lasciava dopo di sè un figlio troppo diverso da' suoi costumi. Ne avea già osservata la perversa inclinazione, e gli correa per mente l'immagine di Nerone, di Domiziano e d'altri principi giovinastri scapestrati, che erano stati la rovina della lor patria. Ma rimedio più non appariva. Egli era già imperadore Augusto, nè si poteva disfare il fatto. Giuliano Apostata nella sua Satira [Julianus, de Caesarib.] scrisse che Marco Aurelio dovea lasciar l'impero a Claudio Pompejano suo genero, personaggio di gran saviezza, più tosto che ad un figlio di natural sì maligno. Ma l'affetto paterno, lusingandosi sempre che nel crescere dell'età crescerebbe il senno del giovane Commodo, prevalse all'amor della repubblica, che in lui certamente era sommo. Fu anche sollecitato a ciò dal senato romano istesso, siccome attesta Vulcazio Gallicano [Vulcat., in Commodo.]. Puossi ancor credere che Marco Aurelio, sperando vita più lunga, si figurasse d'aver tempo da ridirizzar quella pianta, che già minacciava frutti [589] cattivi. Turbato poi da questo rammarico l'infermo Augusto, nè sapendo come quetarlo, desiderò che sollecitamente venisse la sua morte, e stette anche senza voler prendere cibo. Nel settimo dì copertosi il capo, come se volesse dormire [Dio, lib. 71.], spirò nella notte del dì 17 di marzo, secondo Tertulliano [Tertullianus, in Apologetico, cap. 25.], in Sirmio, o pure, secondo Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.], in Vienna d'Austria, mentre era nell'anno cinquantanovesimo dell'età sua. Dione scrive d'aver avuto riscontri accertati, esser egli stato tolto dal mondo, non già dalla malattia, ma dai medici che Commodo avea guadagnati per sì esecrabile azione. Forse l'odio universale, in cui, siccome vedremo, incorse Commodo, diede origine e fomento a questa voce.
L'afflizione dell'armata fu incredibile per la perdita di questo principe, perchè quantunque egli fosse assai ritenuto a regalare i soldati, e lontano da quelle esorbitanti liberalità che altri imperadori aveano usato per tenersi ben affette le milizie; e tuttochè egli volesse una rigida disciplina ed impiegati in continui esercizii i soldati, pure teneramente era amato da tutti: frutto della sua gran bontà e giustizia. Non fu minore l'affanno [Herodianus, Histor., lib. 1.] che ne provò Roma e le provincie, gridando tutti che era morto il lor fortissimo capitano e un principe che non avea pari. Portate a Roma le sue ceneri, furono collocate verisimilmente nel mausoleo di Adriano, e fatta la di lui deificazione secondo l'empio rito di allora. Venne poi riguardato qual sacrilego, chi da lì innanzi non tenne la di lui immagine in casa [Capitolinus, in Marco Aurelio.], e restò sempre anche appresso i posteri in tal onore la di lui memoria, come di principe ottimo, che fino il satirico Giuliano Apostata [Julianus, de Caesarib.] il collocò in cielo sopra Augusto, sopra Trajano e sopra gli altri rinomati regnanti. [590] Non mancarono certamente dei difetti in Marco Aurelio: e chi mai ne va senza? La stessa sua bontà, e l'abborrimento ad ogni severità di gastigo non potò far di meno che non cagionasse qualche disordine con abusarsene i cattivi. E il non aver frenate le dissolutezze della moglie; l'aver eletto per suo collega Lucio Vero, che nol meritava; ma sopra tutto l'aver voluto o permesso che fosse successor suo nell'imperio chi n'era sì indegno, recò non poca taccia al suo nome. Contuttociò tali e tante furono le virtù sue, che tutti gli antichi scrittori s'accordano in iscusare que' pochi difetti che in lui si osservarono. Imperocchè, oltre al molto che ne ho già detto di sopra, il solo esempio del grave, onesto e virtuoso suo vivere, servì, a riformar non poco i costumi sregolati de' Romani. Suo uso fu anche di mettere negli uffizii chi egli credeva più dabbene e più utile al pubblico; e perchè niuno ordinariamente si trovava che fosse perfetto, diceva [Dio, in Excerptis Vales.]: Essere impossibile a noi il fare gli uomini, come noi li vorremmo; e che però conveniva valersi di loro, come sono, cercando solamente i men difettosi fra gli altri. Gli diede veramente la natura un corpo debole, o pure il provvide bensì di assai vigore, perchè in gioventù era robusto, facea gli esercizii militari, uccideva alla caccia i cignali; ma poi creduto fu che l'applicazione agli studi l'indebolisse e gli cagionasse molti incomodi di salute. Contuttociò al pari de' più vigorosi tollerava le fatiche; e già si è veduto quanti viaggi egli facesse, e quanto tempo restasse esposto agl'incomodi della guerra. La beneficenza gli stette sopra tutto a cuore; a questa sognata deità eresse anche un tempio in Roma. Da alcuni si desiderò in lui la magnificenza, e si sarebbe voluto più liberale; ma con censura indebita, perchè egli non ammassò mai pecunia per sè; ed era bensì buon economo del danaro, ma per valersene solamente [591] in bene del pubblico, senza mai accrescere gli aggravi ai popoli, con isminuirli alle occorrenze e con soccorrere sempre ne' bisogni le persone di merito. Non la finirebbe mai chi volesse riandar le belle massime ch'ebbe questo principe per regolare non men sè stesso che gli altri. Ne lasciò egli anche una perenne memoria in dodici libri, che abbiam tuttavia, delle cose sue, commentati da Merico Casaubono e da Tommaso Gatachero. Sono memorie delle meditazioni sue, concernenti il meglio della filosofia stoica, scritte in greco, come gli venivano in mente, con istile semplice, ma purissimo, ed altamente commendato dagl'intendenti. Per questi libri, ma più per la vita e per le azioni sue, egli si meritò il titolo di filosofo, ed è specialmente conosciuto sotto nome di Marco Aurelio Antonino il Filosofo. La vita, che si legge di lui, composta da Antonio da Guevara, vescovo spagnuolo di Mondognetto, è un'impostura, che nondimeno può esser utile a chi ne voglia far la lettura. Fiorirono poi [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] sotto questo letterato principe molte persone dottissime, fra le quali io solamente rammenterò Luciano Samosatense, il cui faceto, erudito e vivacissimo stile si ammira nei suoi libri, ma che più sarebbe degno di stima, s'egli non facesse un'aperta professione d'empietà. Lucio Apulejo, scrittore della medesima tempra, si crede che fiorisse in questi tempi; ed è certo che Galeno, o sia Gallieno, medico rinomatissimo, gran tempo visse nella corte di Marco Aurelio. Così Pausania, Aristide, Polieno, Artemidoro, Aulo Gellio, e forse Sesto Empirico, fiorirono in questi tempi, e di loro ci restano libri, per tacere di tanti altri, de' quali l'opere si son perdute. Restò dunque dopo la morte di Marco Aurelio al governo dell'imperio romano Lucio Aurelio Antonino Commodo, molto prima dichiarato imperadore augusto, di cui parlerò all'anno seguente. [592] Ed io comincio ora a contare gli anni del suo imperio, non avendo osato di farlo finora, perchè non parmi per anche ben certo il principio del suo imperio augustale. Trovasi egli, siccome già accennai, da qui innanzi nominato per lo più Marco Aurelio Commodo, avendo egli assunto il prenome del padre, ma senza avere ereditata alcuna delle di lui virtù che nel mostrassero degno suo figlio.
Anno di | Cristo CLXXXI. Indizione IV. |
Eleuterio papa 11. | |
Commodo imperadore 2. |
Consoli
Marco Aurelio Antonino Commodo Augusto per la terza volta, e Lucio Antistio Burro.
Antistio Burro console in quest'anno era cognato di Commodo Augusto, perchè marito di una di lui sorella. Imperciocchè Marco Aurelio avea procreato da Faustina, oltre a Commodo, due o tre altri maschi, che mancarono in tenera età, e varie femmine, cioè Lucilla maritata a Lucio Vero, poscia a Claudio Pompejano, e Fadilla e Vibia Aurelia e Domizia Faustina, e forse alcun'altra. Una di esse fu data in moglie al suddetto Burro, ed un'altra a Petronio Mamertino, personaggi tutti scelti dal padre per generi in riguardo della loro sperimentata saviezza. Assunse nell'anno precedente Commodo Augusto il governo della romana repubblica. Era egli nato [Vulcat., in Commodo.] nel dì 31 d'agosto dell'anno 161, giorno natalizio anche del bestiale e crudel Cajo Caligola, sul cui modello tagliato fu parimente quest'altro. Non avea mancato il di lui buon padre di procurargli tutti i possibili mezzi, affinchè fosse ben educato ne' costumi ed istradato nelle buone arti e nelle lettere. Suo maestro fu nella lingua ed erudizione greca Onesicrato; nella latina Antistio Capella, e [593] nell'eloquenza Attejo Santo o Santio. Non ne ricavò egli profitto alcuno: tanto potè l'indole cattiva; imperciocchè egli nulla ebbe dell'ottimo suo padre, e solamente in lui passarono le magagne della madre infame, con essersi fin creduto, siccome già accennai, averlo essa conceputo da un gladiatore, nel cui amore era perduta. In fatti di buon'ora comparve inclinato alla crudeltà, alla libidine, e dedito solamente a discorsi osceni, a saltare, a fare il buffone e il gladiatore, con altri costumi propri della vil canaglia. Non avea che dodici anni, quando in villeggiare a Centocelle, oggidì Cività Vecchia, perchè non trovò assai calda l'acqua del bagno, ordinò che il deputato del bagno fosse gittato in una fornace; e bisognò che il suo aio Pitolao fingesse di ubbidirlo non far bruciare una pelle di castrone. Non poteva egli sofferir le persone dotate di probità, che il padre gli avea messo appresso; solamente gli davano nel genio i cattivi; e perchè il padre glieli levò d'attorno, si ammalò di rabbia. Il troppo indulgente genitore non tenne saldo; laonde egli cominciò di buon'ora a far bettola in sua camera, e praticar giuochi d'azzardo, ad ammettere donne di vita cattiva, ad essere sboccato di lingua. Con questo bell'apparato di vizii, coperti nondimeno fin qui, e non passati alla vista del popolo, si trovò egli solo sul trono. Tuttavia si può credere che non tanti allora fossero i suoi difetti, o certamente che fossero coperti, e non passati agli occhi del popolo, perchè Erodiano [Herodianus, Histor., lib. 1.], più vicino di lunga mano a questi tempi, non ci fa un sì brutto ritratto della gioventù di Commodo.
Era egli, siccome dissi, in Ungheria coll'armata. Dopo i funerali del padre, per consiglio de' parenti ed amici fece una bella allocuzione all'esercito, e gli dispensò un abbondante donativo. Ma perciocchè presso lui gran potere avea chi era più cattivo e sapea più adulare, costoro non tardarono ad esagerar le [594] delizie di Roma, e a dir quanto male sapeano del brutto soggiorno del Danubio, tanto che l'indussero a determinare di abbandonar l'armata e di venirsene in Italia. Preso il pretesto di temere che alcuno in Roma si facesse dichiarare imperadore, pubblicò il suo disegno. Tante ragioni nondimeno gli addusse Pompejano suo cognato, che il fermò per qualche tempo in quelle parti, per terminare con qualche onore la guerra. Secondochè s'ha da Erodiano, riuscì ai suoi generali di domar qualcheduno di quei popoli barbari. Condusse Commodo gli altri alla pace, con regalarli ben bene impiegando l'erario ch'egli avea trovato ben provveduto. Se si vuol credere ad Eutropio [Eutrop., in Breviar.], felicemente egli combattè contro ai Germani; ma non apparendo dalle medaglie ch'egli prendesse nuovo titolo d'Imperadore nell'anno precedente, o niuno o di poco rilievo dovettero essere le sue vittorie. Certo è bensì, che egli con condizioni anche svantaggiose, e a forza di danaro, comperò la pace, perchè troppo gli stava a cuore di cangiare quell'aspro cielo nel delizioso di Roma. Venn'egli finalmente accolto per tutte le città dove passò con solenne allegria; e il senato e, per così dire, tutta Roma con corone di alloro gli fece un festoso incontro. I più considerandolo figliuolo di sì buon padre, veggendolo sì bel giovane, con occhi vivi, con bionda zazzera, tale che parea sparsa sul suo capo una pioggia d'oro, si figuravano maraviglie di lui; e però tra le infinite acclamazioni, accompagnato da gran profusione di fiori e di corone, entrò Commodo in Roma. Fu al senato, e recitò un'orazione che contenea solamente delle inezie. Dione [Dio, lib. 72.], il quale comincia qui a raccontar cose da lui stesso vedute, scrive ch'egli fece gran pompa dell'aver dato soccorso al padre Augusto, che era caduto in una fossa fangosa. Se il mese romano fu, come pensa [595] il Salmasio, novembre, l'arrivo a Roma di Commodo seguì nel dì 22 di ottobre [Lampridius, in Commodo.]; ma è cosa dubbiosa. Fece egli un ragionamento anche ai soldati di Roma, con lodare la lor fedeltà. E che desse loro il consueto regalo e al popolo un congiario, pare che si ricavi dalle medaglie. Procedente egli console per la terza volta nell'anno presente; ed in questo ancora, per attestato d'Eusebio [Euseb., in Chronic. Edition. Pont.], egli trionfò dei Germani, ma con dare una bella mostra dell'animo suo corrotto: perchè nello stesso cocchio trionfale dietro a sè condusse un infame suo liberto, appellato Antero, e l'andò baciando più volte pubblicamente, volgendo la faccia indietro. Lo stesso praticò nell'orchestra a vista d'ognuno. Vivente anche il padre, avea Commodo senza alcun merito conseguito il bel titolo di Padre della Patria. In quest'anno l'adulazione gli conferì ancor quello di Pio, che s'incontra nelle medaglie [Mediobarb., in Numism. Imperator.], ma non già quello di Felice, come va credendo il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.].
Anno di | Cristo CLXXXII. Indizione V. |
Eleuterio papa 12. | |
Commodo imperadore 3. |
Consoli
Pomponio Mamertino e Rufo.
Non ho io osato di chiamare altrimenti questi due consoli, perchè non veggo sicurezza negli altri nomi. Certo è che il primo fu cognato di Commodo Augusto, perchè avea per moglie una di lui sorella. Il Panvinio [Panvin., in Fast. Consular.], seguitato da molti altri, chiamò il secondo console Trebellio Rufo. Perchè il Relando [Reland., Fast. Cons.] pubblicò un'iscrizione gudiana, posta nelle calende di marzo, C. PETRONIO MAMERTINO ET CORNELIO RUFO [596] COS., tanto esso Relando che il Bianchini [Blanchin., ad Anast. Bibliot.] e lo Stampa [Stamp., Fast. Cons. Sigon.], stabilirono con tali nomi i consoli dell'anno presente. Ma sarebbe prima da vedere se si possa riposar sulla fede de' marmi riferiti dal Gudio. Il Fabretti [Fabrettus, Inscript., pag. 511.] porta un mattone, dove egli lesse VETTIO RUFO ET POMP. MATER. COS. Probabilmente ivi si dee leggere POMP. MAMER., cioè Pomponio Mamertino: il che se fosse, l'altro console sarebbe stato Vettio Rufo, e non già Trabellio, o Cornelio Rufo. Velio Rufo vien posto fra i consoli da Lampridio [Lampr., in Commodo.]. Probabilmente egli scrisse Vettio Rufo. Crede poi il suddetto Panvinio, che nelle calende di luglio fossero sostituiti nel consolato Emilio Junto o Junzio, ed Atilio Severo. Abbiam di certo, che amendue furono consoli, ma non apparisce già che in quest'anno. Anzi essendo essi stati esiliati, in tempo che Commodo si abbandonò alla crudeltà, si dee credere che il lor consolato accadesse molto più tardi. In questi primi tempi, secondo ciò che s'è anche veduto di Tiberio, di Caligola, di Nerone e di Domiziano, anche l'Augusto Commodo fece un buon governo. Onorava egli i consiglieri ed amici del padre [Herodianus, Histor., lib. 1.], nulla risolveva senza il loro parere. L'autorità di questi savi personaggi teneva in qualche freno le sregolate passioni di questo giovinastro. E probabilmente è da riferire all'anno presente ciò che racconta Dione [Dio, in Excerptis Valesianis.], cioè che Manilio, il qual era stalo segretario delle lettere latine di Avidio Cassio, della cui ribellione parlammo di sopra, e molta possanza avea avuto sotto di lui, finalmente fu scoperto e condotto a Roma. Prometteva egli di rivelar molti segreti; ma Commodo, per consiglio, come possiam credere, de' saggi suoi ministri, non solamente non volle ascoltarlo, ma fece anche bruciar tutte le di lui lettere [597] o carte, senza curarsi di leggerne pur una. Questa bella azione diede speranza al senato e al popolo, ch'egli non volesse essere da meno del padre. E perciocchè Commodo compariva in pubblico con gran magnificenza, e faceva spiccare dappertutto la sua leggiadria, l'ignorante popolo dicea oh bello! e si rallegrava d'avere un principe sì grazioso. Ma non così la sentivano quei che il praticavano, ed aveano miglior conoscenza delle di lui perverse inclinazioni, che di giorno in giorno s'andavano meglio spiegando. Truovasi egli in qualche medaglia [Mediobarbus, in Numism. Imperator.] dell'anno presente proclamato Imperadore per la quinta volta. Dione [Dio, lib. 72.] parla della guerra fatta contra de' Barbari di là della Dacia. E Lampridio [Lampridius, in Commodo.] scrive che quei popoli rimasero sconfitti dai legati, cioè dai luogotenenti generali dell'imperadore. Questi furono Albino e Negro, de' quali si parlerà a' tempi di Severo imperadore. Ciò probabilmente succedette nell'anno presente, e per qualche loro vittoria si accrebbero i titoli a Commodo senza sua fatica.
Anno di | Cristo CLXXXIII. Indizione VI. |
Eleuterio papa 13. | |
Commodo imperadore 4. |
Consoli
Marco Aurelio Antonino Commodo Augusto per la quarta volta, e Cajo Aufidio Vittorino per la seconda.
Perchè abbiamo una nobile iscrizione, già pubblicata da monsignor della Torre, che si legge anche nella mia raccolta [Thesaur. Novus Inscript., pag. 340, n. 2.], luogo non resta a disputare dei nomi di questi consoli. E di qui ancora può risultare qual fede si possa avere alle iscrizioni del Gudio. Una di esse, riferita anche dal Relando [Reland., in Fastis.], si [598] dice posta IDIBVS OCTOBRIS M. AVRELIO COMMODO IIII. ET M. AVRELIO VICTORINO COS. Ecco qual capitale si possa far di quelle merci. Da un marmo, di cui non si può trovare un più autentico, siamo assicurati che quel console si chiamava Cajo Aufidio, ed esso nell'emporio gudiano ci comparisce Marco Aurelio. Ora questo Cajo Aufidio Vittorino [Capitol., in Marco Aurelio.] fu uno de' più insigni senatori ed oratori del suo tempo, carissimo già a Marco Aurelio Augusto, di modo che giunse ad essere non solamente prefetto di Roma, ma console due volte. Di lui racconta Dione [Dio, in Excerpt. Valesianis.], che essendo governatore della Germania molti anni prima, certificato che il suo legato, o sia luogotenente, prendeva de' regali, l'ammonì in segreto di desistere da quell'abuso. Veggendo di non far frutto, un dì assiso sul tribunale alla vista di ognuno, si fece citar dall'araldo a giurare di non aver mai preso regali, e di non essere per prenderne, finchè vivesse. Appresso fu esibito il giuramento medesimo al legato, il quale convinto dalla coscienza e dal timore di chi potea deporre contra di lui, ricusò il giurare. Vittorino immantinente il licenziò. Essendo anche proconsole in Africa, trovò un altro legato, che zoppicava dello stesso piede. Ed egli, senza far altre cerimonie, il fece imbarcare, e rimandollo a Roma. Da che, siccome vedremo, Commodo cominciò ne' tempi seguenti a mietere le vite de' più accreditati senatori, più volte fu detto che anch'egli era in lista. Mosso da questa voce Vittorino, francamente andò a trovar Perenne, prefetto allora del pretorio, e gli disse d'aver inteso che si volea farlo morire, ed aggiunse: Se è così, che state a fare? Ora è il tempo. Fu lasciato in vita, e morto poi di morte naturale, ebbe l'onore di una statua. Quanto a Perenne poco fa nominato, costui [Herodianus, Histor., lib. 1.] per la sua perizia [599] della disciplina militare, fu alzato da Commodo al grado di prefetto del pretorio, o sia di capitano delle guardie, quale ancora Tarrutino o sia Tarrutenio Paterno [Lampridius, in Commodo.]. Costui fu la rovina del padrone, perchè andò tanto innanzi nella confidenza e grazia di lui che diventò poi l'arbitro del governo. La sete di accumular tesori si potè dire in lui inesausta. Quasi che un nulla fossero i già guadagnati, tutto era egli sempre ansante a procacciarne de' nuovi. E gli se ne presentò ben presto l'occasione, siccome vedremo. Intanto convien avvertire i lettori, che gli avvenimenti in questi tempi non si possono compartire per gli loro precisi anni, perchè le storie che restano raccontano bensì i fatti, ma senza indicarne la cronologia. Però solamente a tentone si andran riferendo le cose sotto gli anni seguenti. Nel presente le medaglie [Mediobarb., in Numism. Imper.] ci avvisano che Commodo Augusto fu proclamato per la sesta volta Imperadore, ma senza apparire per qual vittoria. Il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] la crede riportata nella guerra che si accese nella Bretagna; ma questa vittoria, per quel che dirò, sembra più tosto appartenere all'anno seguente. Verisimile è più tosto, che in quest'anno ancora i generali cesarei in Germania, come conghietturò il Mezzabarba, dessero qualche rotta ai Barbari di quelle contrade. Parlano le stesse monete di un viaggio di Commodo, di cui niun vestigio s'ha nella storia; siccome ancora di una sua munificenza: indizio di qualche congiario dato al popolo. Ma delle stesse monete si incontrano degl'imbrogli, o perchè non sincere, o perchè non assai attentamente copiate.
Anno di | Cristo CLXXXIV. Indizione VII. |
Eleuterio papa 14. | |
Commodo imperadore 5. |
Consoli
Lucio Cossonio Eggio Marullo e Gneo Papirio Eliano.
Al primo console Marullo ho io aggiunto il nome di Cossonio, ricavato da un'iscrizione, esistente nel Museo Capitolino, data alla luce da monsignor Torre, e prodotta anche nella mia raccolta [Thesaurus Novus Inscription., pag. 342.]. In una iscrizione del Gudio, rapportata dal Relando [Reland., in Fastis.], il primo console si vede chiamato Marco Marullo, quando è certissimo che il suo prenome fu Lucio. Il secondo comparisce ivi col nome di Giunio Eliano; e pure nell'altre iscrizioni troviamo costantemente Gneo Papirio Eliano: tutte pruove che i fasti e l'erudizione antica debbono aspettar dal Gudio, in vece di un sicuro rinforzo, della confusione. Era, dissi, insorta una fiera guerra nella Bretagna [Dio, lib. 72.], guerra la più lunga che si avesse Commodo ai suoi dì. Aveano i Barbari passato il muro, posto da Antonino Pio ai confini, e tagliato a pezzi il general romano con tutte le milizie che erano ivi di guardia. Portata questa funesta nuova a Roma, il vile Commodo tutto impaurito spedì tosto colà Ulpio Marcello, uomo di grand'animo, e di raro valore; chè di tali persone non era già perduto il seminario in Roma. Questi, per attestato di Dione, uomo modesto e severo, ma di una severità che si accostava all'asprezza, fece più volte conoscere la sua bravura ne' combattimenti, nè mai si lasciò invischiare dall'amor de' regali e della pecunia. Era vigilantissimo, e per maggiormente comparir tale, e tener anche vigilanti gli uffiziali di guerra, solea qualche sera scrivere dodici biglietti, con ordine ai suoi servi di portarli in varie [601] ore della notte a diversi d'essi ufficiali, acciocchè credessero ch'egli allora vegliasse. Non si distingueva egli nel mangiare e vestire dai semplici soldati; anzi, per mangiar meno, si facea venire con bizzarria quasi incredibile fin da Roma il pane, come ognun può credere, ben secco e duro. Questo bravo uomo adunque gravissimi danni recò a que' Barbari, e dovette dar loro una gran rotta, per cui si osserva nelle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imper.] che Commodo Augusto conseguì in questo anno non solamente per la settima volta il titolo d'Imperadore, ma anche quello di Britannico [Lampridius, in Commodo.]. Era egli già stato appellato Pio, adulatoriamente senza fallo, perchè egli nulla mai fece, per cui meritasse così bell'elogio. Nell'anno presente si aggiunse a' suoi titoli quello di Felice. L'esempio suo servì poi ai susseguenti Augusti per più secoli, acciocchè cadaun d'essi fosse chiamato Pio Felice.
Se non succedette nell'anno precedente, si dovrà almeno attribuire al presente la prima congiura tramata contra di Commodo. Abbiamo da Erodiano [Herodianus, Histor., lib. 1.] ch'egli per pochi anni stette in dovere, e però probabil cosa è che in questo si sovvertisse il di lui ingegno, e che cominciasse il suo precipizio. Merita ben più di Lampridio d'essere qui ascoltato Erodiano, siccome storico che visse in que' tempi e soggiornò in Roma. Quel mal arnese adunque di Perenne prefetto del pretorio, per dominar solo, avea già staccati dal fianco del giovane Augusto i migliori suoi consiglieri, con far subentrare in lor luogo una frotta di persone vili, e maneggiava già solo tutti gli affari: dal che può essere che prendesse origine l'odiosità dei buoni contra di Commodo. Comunque sia, la prima pietra dei disordini fu posta da Lucilla figliuola di Marco Aurelio, e sorella dello stesso Commodo. Per essere stata moglie di Lucio Vero imperadore, il padre, tuttochè la rimaritasse [602] con Claudio Pompejano, pure le lasciò il titolo e gli onori di Augusta; ed essa nel teatro soleva assidersi in una sedia imperatoria, ed uscendo fuor di casa, le era portato innanzi il fuoco, come si faceva agli Augusti. Sposata che fu Crispina da Commodo, si vide obbligata Lucilla a cederle il primo luogo; ma gliel cedette con immensa rabbia, credendo fatto a sè stessa un gran torto per la sua anzianità in quell'onore, e da lì innanzi ne cercò sempre la vendetta. Non si arrischiò mai a parlarne con Pompejano suo marito, perchè sapeva quant'egli amasse Commodo. Passava fra lei e Quadrato, giovane nobilissimo e ricchissimo, appellato mastro di camera di Commodo da Dione [Dio, l. 72.], una stretta ed anche peccaminosa amicizia. Le tante querele di Lucilla trassero questo giovane a formar una cospirazione contro la vita di Commodo, in cui entrarono alcuni senatori ancora. Scelto fu per eseguir l'impresa un giovane di grande ardire per nome Quinziano. Lampridio il chiama Claudio Pompejano: sbaglio probabilmente suo o de' copisti, benchè anco lo stesso scriva Zonara [Zonaras, in Annalib.], anzi dice che fu lo stesso marito di Lucilla: errore massiccio. Ora Quinziano ito a postarsi in luogo stretto e scuro dell'entrata dell'anfiteatro, stette aspettando che arrivasse Commodo; ed allorchè il vide, sfoderato un pugnale, che tenea sotto nascosto, mattescamente gliel fece vedere con dire: Questo te lo manda il senato, e gli si avventò addosso. Se crediamo ad Ammiano [Ammianus, lib. 29.], gli diede qualche ferita. Erodiano e Lampridio nol dicono. Certo è che lasciò tempo a Commodo di difendersi o di scappare. Preso dunque dalle guardie lo sconsigliato Quinziano, e messo ai tormenti da Perenne, rivelò i complici. Fu perciò relegata Lucilla nell'isola di Capri, e quivi da lì a qualche tempo uccisa. Tolta fu [603] la vita a Quinziano, a Quadrato, ad Eletto, mastro anch'esso di camera di Commodo [Dio, lib. 72.]; e per attestato di Lampridio [Lampridius, in Commodo.], fecero il medesimo fine Norbana, Norbano e, Parelio colla madre sua. Il peggio fu, che il pugnale e l'assalto di Quinziano, e più le parole da lui proferite, restarono talmente impresse nella mente di Commodo, che sempre gli parea d'aver davanti agli occhi quello spettacolo, e da lì innanzi cominciò ad odiar tutti i senatori, come se veramente tutti avessero cospirato contra di lui, ed ordinato a Quinziano di fargli quel brutto complimento. Seppe ben prevalersi di questa congiuntura Perenne, per empiere di paura l'incauto principe, ed accrescere i suoi odii contra de' più ricchi e potenti, con lavorar poi di calunnie a fine di processarli, e di arricchir sè stesso coi loro beni.
Anno di | Cristo CLXXXV. Indizione VIII. |
Eleuterio papa 15. | |
Commodo imperadore 6. |
Consoli
Marco Cornelio Negrino Curiazio Materno e Marco Attilio Bradua.
Il Relando [Reland., in Fastis.] non mette se non i cognomi di Materno e Bradua. Al Panvinio [Panvin., in Fast.], seguitato dal padre Pagi [Pagius, Critic. Baron.], parve il primo Triario Materno, solamente perchè sotto Pertinace si trovava un senatore di tal nome: pruova troppo fievole. Gli ho io dato que' nomi, mosso da un'iscrizione da me pubblicata nella mia raccolta [Thesaurus Novus Inscript., p. 343.]. Il nome dell'altro console Bradua si raccoglie da un'iscrizione dello Smirne, che pur ivi si legge. Trovandosene un'altra posta MATERNO ET ATTICO COS., potrebbe essere che questo Attico fosso stato sostituito a Bradua. [604] Sino all'anno presente arrivò la vita di santo Eleuterio romano pontefice, secondo la cronica di Damaso [Anast., Bibliot.]. Nel martirologio egli porta il titolo di Martire; ma non è certo ch'egli desse il capo per la confessione della religion di Cristo. Saggiamente osservò il cardinal Baronio [Baronius, Annal. Eccles. ad annum 194.], che ne' primi secoli il nome di Martire fu conferito a coloro eziandio che sofferirono vessazioni o tormenti per la fede di Cristo, benchè non morissero ne' tormenti. San Cipriano non ce ne lascia dubitare. Al che si dee avere riguardo anche per altri primi romani pontefici, tutti ornati di sì glorioso titolo, senza che resti più precisa memoria della lor morte nel martirio. Per questa cagione alcuni d'essi da santo Ireneo, celebre vescovo di Lione, che fiorì in questi tempi, sono considerati solamente come Confessori. A santo Eleuterio fu sostituito Vittore nella cattedra di san Pietro, i cui anni cominceremo a contare nell'anno seguente, seguendo la cronologia del padre Pagi e del Bianchini. A me sia lecito di riferire a quest'anno altri sconcerti della corte di Commodo e della nobiltà romana. Gran riputazione e potenza godeva in quella corte Antero, infame suo liberto [Lampridius, in Commodo.]. Era costui stato alzato al grado di mastro di camera da Commodo, a cui nello stesso tempo serviva per ministro nelle disonestà. L'odio universale contra di questo cattivo strumento cresceva ogni dì più, e andava poi a terminare contra dello stesso Commodo, il quale spasimava per lui. Sofferì un pezzo Tarrutino o sia Tarrutenio Paterno, prefetto del pretorio, costui; ma finalmente un dì rotta la pazienza, fattolo con galanteria uscir di palazzo col pretesto d'un sagrificio, nel tornare che egli faceva a casa, il fece assassinare ed uccidere da alquanti sgherri. Diede nelle smanie Commodo per questo, e ne fu più cruccioso di quel che fosse stato nel [605] pericolo della vita ch'egli avea corso per l'assalto di Quinziano. Avuto sufficiente sentore che Paterno era stato autore del colpo, col consiglio di Tigidio, e fors'anche di Perenne, il quale prese questa congiuntura per tagliar le gambe al compagno, il creò senatore, levandolo in tal guisa dal pretorio, sotto specie di promuoverlo a grado più cospicuo. Ma non andò molto che fece accusare Paterno di una congiura, apponendogli d'aver promessa sua figliuola a Salvio Giuliano, nipote di Giuliano celebre giurisconsulto, per farne poscia un imperadore [Dio, lib. 72.]. Se avessero avuto questo disegno Paterno e Giuliano, nulla mancava loro per eseguirlo, comandando il primo alle guardie e l'altro a qualche migliaio di soldati. Perciò amendue perderono la vita, e con esso loro Vitruvio Secondo, segretario delle lettere dell'imperadore, perchè era confidentissimo di Paterno. Nella stessa disgrazia rimasero involti Velio o sia Vettio Rufo ed Egnazio Capitone, stati consoli amendue. Emilio Junto ed Atilio Severo, consoli sostituiti (se pure in quest'anno succedette la morte di Antero), furono mandati in esilio. Anche Quintilio Massimo e Quintilio Condiano, già stato console, due de' più riguardevoli personaggi che si avesse il senato, amatissimi per la lor singolare saviezza da Marco Aurelio, e adoperati nei primi posti militari e civili, furono in tal occasione tolti dal mondo, e finì la lor casa. Narra Dione che fu condannato anche Sesto Quintilio figliuolo di Massimo. Precorsa a lui questa nuova, mentre era in Soria, fece finta di cader da cavallo, e d'essere morto, e da' suoi famigliari invece fu portato alla sepoltura un montone. Andò egli dipoi, mutando sempre abito, vagabondo per vari paesi, nè più si seppe nuova di lui, e ciò fu la rovina di molti, perchè essendo ricercato dappertutto, le teste di non pochi innocenti furono portate a Roma, pretese quella di Sesto, e rimasero altri spogliati [606] di beni col pretesto che gli avessero dato ricovero. Mancato poi di vita Commodo, comparve persona a Roma che sosteneva d'essere Sesto, e rispondeva a proposito a tutti gli esami. Pertinace scoprì la furberia, facendogli delle interrogazioni in greco, lingua ch'egli sapeva essere già ben intesa da Sesto; e qui s'imbrogliò l'impostore, perchè non capiva le interrogazioni. V'era presente Dione. Didio Giuliano, che fu poi imperadore, corse anch'egli pericolo della vita, per l'accusa datagli d'aver tenuta mano alla congiura con Salvio Giuliano. Commodo il fece assolvere, e condannar l'accusatore [Spartianus, in Juliano.]. Dopo la caduta di Paterno, restò prefetto del pretorio il solo Perenne [Lampridius, in Commodo.], con divenir padrone totale della corte. Seppe egli persuadere a Commodo, giovane timidissimo, che non si fidasse d'alcuno, e se ne stesse in ritiro, attendendo ai piaceri mentre egli assumerebbe in sè le cure spinose del governo. Così fu fatto. Commodo rade volte da lì innanzi si lasciò vedere in pubblico, e chiuso come in un turchesco serraglio, s'immerse affatto nel baratro della lussuria con trecento concubine, scelte parte dalla nobiltà, parte dai postriboli, e con altra non minor turba anche più infame. I conviti e i bagni erano una continua scuola di intemperanza e di disonestà; faceva egli ancora de' combattimenti in abito da gladiatore, co' suoi camerieri, e talvolta ancora con ispada nuda, uccidendo alcun d'essi armati solamente di spade colla punta impiombata. E intanto Perenne aggirava tutti gli affari, uccidendo quei che voleva, altri assaissimi spogliando dei loro beni non solo in Roma, ma anche per le provincie, conculcando tutte leggi, ed ammassando senza ritegno alcuno tesori immensi. In questo misero stato si trovava allora l'augusta città per la balordaggine e sfrenatezza del suo regnante.
Anno di | Cristo CLXXXVI. Indizione IX. |
Vittore papa 1. | |
Commodo imperadore 7. |
Consoli
Marco Aurelio Commodo Augusto per la quinta volta, e Manio Acilio Gabrione per la seconda.
Era già pervenuta al sommo la potenza di Perenne prefetto del pretorio, e l'abuso ch'egli ne faceva. Le tante ricchezze da lui accumulate pareva che tendessero a guadagnarsi l'amore dei pretoriani, qualora egli volesse tentar qualche tradimento contro la vita di Commodo [Herodianus, Histor., lib. 1.]. Allo stesso fine sembrava che cospirassero le macchine de' suoi giovani figliuoli, i quali portati da lui al governo dell'Illirico, altro non faceano che ammassar gente. Può essere che in mente sua non bollissero così alti disegni; certo è nondimeno, che l'odio universale dava questa interpretazione a tutte le azioni di lui e de' suoi figli. Di qua venne la rovina sua, narrata diversamente nelle particolarità da Erodiano e da Dione [Dio, lib. 72.]. Abbiamo dal primo, che celebrandosi in quest'anno i sontuosissimi giuochi capitolini, i quali si solevano fare ad ogni quattro anni con immenso concorso di popolo, ed assistendovi Commodo nella sedia imperatoria, prima che gl'istrioni cominciassero le loro fatiche, comparve in iscena uno vestito da filosofo con tasca al fianco, bastone in mano. Costui, fatto silenzio colla mano, ad alta voce gridò verso Commodo, dicendogli, quello non essere tempo da divertirsi in giuochi, perchè Perenne era in procinto di levargli la vita; per questo aver egli adunate tante ricchezze; per questo i di lui figliuoli tante soldatesche; e che se non vi provvedeva prontamente, egli era spedito. Sperava fosse costui di veder subito una commozion del popolo contra di Perenne, [608] e poscia un bel premio dall'imperadore. Ma Commodo restò solamente sbalordito, nè disse parola; il popolo, benchè gli prestasse fede, nè pur esso fece movimento alcuno; e intanto Perenne, fatto prendere il finto filosofo, ordinò che fosse bruciato vivo. Tuttavia questo accidente diede campo a chi era presso all'imperadore, e volea male a Perenne per la sua intollerabile alterigia, di far credere forse più di quel ch'era, a Commodo. Gli mostrarono in oltre alcune monete battute coll'immagine del figliuolo di esso Perenne, benchè si credesse ciò fatto senza notizia del padre, e forse per manifattura de' suoi emuli. In somma andò tanto innanzi la mena, che Commodo una notte mandò alcuni a levar la testa a Perenne, e immediatamente spedì gente a far venire in Italia dall'Illirico il di lui figlio maggiore, prima che gli arrivasse l'avviso della morte del padre. Chiamato egli con dolci lettere dall'imperadore, benchè mal volentieri, venne, ed appena toccò l'Italia, che gli fu reciso il capo. Dione [Dio, lib. 72.] e Lampridio [Lampridius, in Commodo.], il cui testo è qui imbrogliato, ben diversamente scrivono, essere nata una sedizione nell'armata britannica, comandata da Ulpio Marcello, perchè Perenne, levati via gli uffiziali dell'ordine senatorio, ne avea mandati là degli altri dell'ordine equestre. Ammutinatisi quei soldati, stavano sul duro, nè volendosi quetare, giunsero a scegliere dal corpo loro mille e cinquecento armati, e gl'inviarono a Roma a dir le loro ragioni. Commodo, allorchè intese l'arrivo di essi, siccome era un coniglio, andò loro incontro per saper la cagione di questa novità. Gli risposero di essere venuti apposta per liberarlo dalle insidie di Perenne, ch'era dietro a far imperadore un suo figliuolo. Commodo, quantunque non gli mancasse tanta forza di pretoriani da assorbir questi pochi soldati, non gli sprezzò; anzi prestò loro [609] fede per istigazione principalmente di Cleandro suo mastro di camera, che odiava forte Perenne, come remora all'adempimento di tutte le sue voglie. Però, tolta a Perenne la carica di prefetto del pretorio, la diede ad altri e permise che i soldati britannici tagliassero a pezzi Perenne, e non lui solo, ma anche la moglie, la sorella e i due figliuoli di lui. Chi sia più veritiero degli storici suddetti, non è in nostra mano il deciderlo. Strano è che Dione, lungi dall'accordarsi con Erodiano e con Lampridio nell'imputare a Perenne gli eccessi e disegni sopra narrati, ne faccia un ritratto vantaggioso, con rappresentarlo continente, modesto, non sitibondo di gloria e di danaro, buon custode della persona dell'imperadore, in una parola indegno di quella morte: se non che il confessa reo della caduta di Paterno suo collega, procurata per restar solo nel comando delle guardie principesche. Ci fan le medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.] vedere in quest'anno Commodo Augusto non solamente console per la quinta volta, ma anche proclamato Imperadore per l'ottava volta. Pensano alcuni [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] ciò fatto per una vittoria riportata da Clodio Albino contra i popoli della Frisia di là del Reno, mentovata da Capitolino [Capitolin., in Clodio Albino.]. Il Mezzabarba anch'egli si credette di ricavar da esse medaglie un viaggio di Commodo, fatto in quest'anno contra de' Mori, ovvero nella Pannonia, e una allocuzione all'esercito colla vittoria pel ritorno e col congiario sesto dato al popolo. Ma nulla di questo si ha dalle antiche storie, e però conviene andar cauto a crederlo. Abbiam solamente da Lampridio [Lampridius, in Commodo.], ch'egli fece mostra una volta di voler andare alla guerra in Africa a fin di esigere le spese del viaggio. Esatte che l'ebbe, tutte se le consumò in tanti banchetti e giuochi d'azzardo.
Anno di | Cristo CLXXXVII. Indizione X. |
Vittore papa 2. | |
Commodo imperadore 8. |
Consoli
Crispino ed Eliano.
Abbiamo di certo i soli cognomi di questi consoli. Incerti sono i lor nomi. Il Panvinio [Panvin., in Fast. Consular.] li credette Tullio Crispino e Papirio Eliano, ma con troppo fievoli conghietture. Da che estinta rimase la possanza e vita di Perenne, saltò su un altro dominante nella corte imperiale, peggiore ancora dell'altro; e questi fu Cleandro [Dio, lib. 72.]. Costui, per attestato di Dione, era nato servo, cioè, come ora diciamo, schiavo; e fra i servi venduto, fu condotto a Roma, dove s'applicò al mestier di facchino. Tanto seppe fare costui introdotto in corte, tanto seppe piacere alla testa sventata di Commodo, perchè questi da fanciullo seco praticò, che a poco a poco salendo, arrivò ad essere suo mastro di camera, con isposare Damostrazia, una delle meretrici di esso imperadore. Prima di lui sosteneva questa carica Saoterio da Nicomedia con grande autorità, e quegli fu che ai suoi compatriotti ottenne di poter celebrare i giuochi de' gladiatori, e di alzar un tempio a chi sopra gli altri n'era indegno, cioè al medesimo Commodo. Cleandro buttò giù questo Saoterio, e il fece ammazzare, entrando dopo sì bel fatto nel posto di lui. Il Salmasio [Salmasius, in Notis ad Lampridium.] sospettò che questo Saoterio fosse il medesimo che Antero, da noi veduto di sopra mastro di camera di Commodo, ed ucciso. Ma lo stesso Lampridio lo attesta assassinato per ordine dei prefetti del pretorio, e non già di Cleandro. Ora, dopo la morte di Perenne, la padronanza della corte si mirò unita in esso Cleandro. Ancorchè Commodo cassasse molte cose fatte come senza ordine suo da [611] Perenne [Lampridius, in Commodo.], non passarono trenta giorni, che lasciò far di peggio a Cleandro; laonde tuttodì si vedeano mutazioni in Corte. Negro, succeduto a Perenne nel posto di prefetto del pretorio, nol tenne che sole sei ore; Marzio Quarto cinque giorni solamente. E così a proporzione altri, che furono di mano in mano o imprigionati o uccisi per ordine di Cleandro. L'ultimo di questi tolti dal mondo fu Ebuziano; ed allora fu che Cleandro si fece crear prefetto del pretorio con due altri scelti da sè, portando nondimeno egli solo la spada nuda davanti all'imperadore. Questa fu la prima volta che si videro tre prefetti del pretorio nello stesso tempo [Dio, lib. 72.]. Essendo alla testa di essi pretoriani Cleandro, non vi fu scelleraggine che da loro e dalle altre soldatesche romane non si commettesse. Uccidevano, bruciavano, ingiuriavano chiunque loro piaceva, e riparo non vi era. Commodo non aveva orecchi, unicamente intento alle sue infami dissolutezze, a far correre cavalli, a guidar egli stesso le carrette, ai combattimenti di gladiatori, e a cacce di fiere, per lo più nel suo ritiro, talvolta ancora in pubblico.
Aveva egli dopo la morte di Perenne inviato in Bretagna Elvio Pertinace [Capitolin., in Pertinac.], siccome persona di gran credito e rigido osservatore della disciplina militare, acciocchè riducesse al dovere quei soldati tuttavia ammutinati e sediziosi. Perenne l'avea dianzi cacciato di Roma dopo vari illustri suoi impieghi, ed egli si era ridotto alla villa di Marte sullo Apennino nella Liguria, dov'era nato, e dove si fermò per tre anni. Commodo, per risarcire il di lui onore, e valersi in congiuntura di tanto bisogno di un uomo di tanta vaglia, richiamatolo, il mandò colà per calmare que' torbidi con titolo di legato. Andò, e trovò quelle milizie sì mal animate contro di Commodo, che se un solo avesse alzato [612] il dito, ed egli avesse acconsentito alle loro istanze, l'avrebbono proclamato imperadore. Il tentarono in fatti su questo, ma il trovarono uomo d'onore. Tenne egli per qualche tempo in freno quelle milizie; ma un dì sollevatasi una legione, si venne alle mani, e poco mancò ch'egli non restasse ucciso. Certamente fu creduto morto, perchè con più ferite restò mischiato fra i cadaveri degli uccisi; del che fece egli a suo tempo, cioè divenuto imperadore, aspra vendetta. Dovrebbe appartenere all'anno presente un fatto raccontato da Erodiano [Herodian., Histor., lib. 1.], ed avvenuto non molto tempo dopo la morte di Perenne. Un certo Materno soldato, uomo di mirabil ardire, essendo disertato, si unì con altri disertori, e formò un corpo di gente accresciuto di mano in mano da chiunque avea voglia di far del male, sino ad alcune migliaia. Con costoro cominciò egli a scorrere per la Gallia e per la Spagna, dando il sacco non solamente alla campagna, ma anche alle città, con poi abbruciarle, e mettendo in libertà tutti i prigioni che si univano tosto con lui. Commodo scrisse lettere di fuoco a quelle provincie; spedì colà Pescennio Negro [Spartianus, in Pescennio Nigro.], uomo di coraggio, il quale con Settimio Severo, allora governatore di Lione, messo insieme un esercito, disperse quella canaglia. Ma qui non si fermò Materno. Per varie strade, egli e le sue genti, chi per una parte e chi per altra, calarono in Italia. Era saltato in capo ad esso Materno di fare un gran colpo, cioè, giacchè non potea competere colle forze di Commodo in aperta campagna, pensò di ammazzarlo insidiosamente in Roma stessa. Gran festa si solea dai Romani far nella primavera in onor di Cibele, chiamata madre degli dii, dove tanto l'imperadore, quanto i particolari esponevano le più preziose lor masserizie, ed era permesso ad ognuno di andar travestito e mascherato. [613] Il disegno di Materno era di frammischiarsi con vari dei suoi fra le guardie di Commodo vestito alla stessa maniera, e di svenarlo. Ma tradito prima del tempo da qualche suo compagno, fu preso e giustiziato con gli altri. Pare che tal fatto succedesse nella primavera di quest'anno; ma il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] lo differisce sino all'anno 190, del che nondimeno egli non reca pruova sufficiente. Commodo, ammaestrato da questo pericolo, tanto meno da lì innanzi comparve in pubblico, e la maggior parte del tempo soggiornò nelle ville fuori di città, senza prendersi alcun pensiero di amministrar giustizia, nè far l'altre azioni pubbliche convenienti ad un imperadore o necessarie al governo. In sua vece tutto faceva l'iniquo Cleandro.
Anno di | Cristo CLXXXVIII. Indizione XI. |
Vittore papa 3. | |
Commodo imperadore 9. |
Consoli
Cajo Allio Fusciano per la seconda volta, e Duillio Silano per la seconda.
Di male in peggio andavano gli affari di Roma per la disattenzione e pazza condotta di Commodo [Lampr., in Commodo.], ma più per la crudeltà ed avarizia del suddetto Cleandro, già arbitro della corte. Costui vendeva tutte le grazie e tutte le dignità tanto militari che civili. Per andare al governo delle provincie, bisognava comperar le cariche. Per denaro le persone di condizion libertina ottenevano la nobiltà, giungevano anche a divenir senatori. I banditi, purchè spendessero, tornavano alla patria, ed erano promossi agli onori; nè si portava rispetto alle sentenze date dal senato e dai giudici. L'oro le faceva abolire. Perchè Antistio Burro, uno de' primi senatori, coll'autorità e [614] confidenza che gli dava l'essere marito di una sorella di Commodo, volle avvertire il cognato Augusto di tanti disordini, si tirò addosso l'ira di Cleandro. Nè andò molto che costui contra di un uomo sì degno fece saltar fuori un processo, quasi che egli aspirasse all'imperio. Ciò bastò per togliere la vita a lui e a molti altri che impresero la di lui difesa. Avvenne tal iniquità prima ancora che Cleandro occupasse il posto di prefetto del pretorio: al che egli probabilmente pervenne circa questi tempi. Tante avanie, concussioni ed uccisioni faceva costui a fine di ammassar tesori, non solamente in suo pro, ma anche per regalar le bagasce dell'imperador suo padrone, e molto più lui stesso [Dio, in Excerptis Vales.], perciocchè egli col tanto scialacquare in ispese o inutili od obbrobriose, si trovava sempre smunto o coll'erario voto. Ma nè pur bastando al di lui bisogno i tanti rinforzi che gli somministrava la malvagità di Cleandro, si ricorse al ripiego di minacciar dei processi anche alle matrone romane, con inventati e finti delitti, atterrendole in maniera, che conveniva venire a composizioni, e a riscattarsi con buona somma di danari. Inventò Commodo inoltre di mettere una tassa di due scudi d'oro a cadaun senatore, loro mogli e figliuoli, da pagarsegli ogni anno nel giorno suo natalizio, e di cinque denari ad ogni decurione della città. Pure tutto questo era una goccia al mare, perchè malamente si consumava tanto oro in cacce, in combattimenti di gladiatori e in altri divertimenti peggiori. Abbiamo da Lampridio [Lampr., in Commod.], che sotto questi consoli furono fatti dei voti pubblici per la salute e prosperità di Commodo; e nelle monete [Mediobarbus, in Numismat. Imp.] si parla della pubblica Felicità, quando altro non si provava che miserie ed affanni. Ma non mai si esercita tanto l'adulazione, che sotto i principi cattivi, ai quali si fa plauso per timore di peggio. [615] Scrive ancora Eusebio [Eusebius, in Chron.], che in quest'anno cadde un fulmine nel Campidoglio, per cui rimase bruciata la biblioteca colle case vicine. Non può già stare il dirsi da lui, che le Terme di Commodo fossero fabbricate nell'anno IV del suo imperio, avendo noi, non meno da Lampridio [Lamprid., in Commodo.] che da Erodiano [Herodianus, Histor., lib. 1.], essere quella stata una fabbrica fatta da Cleandro, il quale molto più tardi salì in alto. Queste terme e un ginnasio, ossia una scuola di atleti e di scherma, opere anch'esse di lui, furono bensì dedicate sotto nome di Commodo; ma Cleandro avea caro che si sapesse esserne egli stato l'autore per guadagnarsi l'amor del popolo a tenore d'alcuni suoi grandiosi disegni, de' quali parleremo fra poco.
Anno di | Cristo CLXXXIX. Indizione XII. |
Vittore papa 4. | |
Commodo imperadore 10. |
Consoli
Silano e Silano
Siamo assicurati dai fasti antichi, essere stati in quest'anno consoli ordinari due Silani. Che il primo si chiamasse Giunio Silano, lo conghiettura il Panvinio [Panvin., in Fastis.], ma non è certo. Vogliono che l'altro si chiamasse Servilio Silano, e con più ragione, sapendosi da Lampridio [Lampridius, in Commodo.], che Commodo tolse di poi la vita ad un consolare di questo nome. Una iscrizione riferita dal Fabretti [Fabrettus, Inscript., pag. 635.] si vede posta C. ATILIO, Q. SERVILIO COS., ma non si può arrivar a sapere se appartenga all'anno presente. In questo sì giudicò il padre Pagi [Pagius, Critic. Baron. ad hunc annum.] che accadesse quanto narrano Dione [Dio, lib. 72.] e Lampridio [Lampr., in Commodo.], cioè che si contarono venticinque [616] consoli in un anno solo. Il Panvinio credette questa deforme scena nell'anno 185, senza badare che Cleandro, salito molto più tardi in auge, ne fu l'autore, e per cogliere verisimilmente un grosso regalo da tanti soggetti vogliosi di quell'onore. Quando ciò sia avvenuto nell'anno presente, certo sarà che nel medesimo giunse al consolato anche Settimio Severo, il qual fu poi imperadore, scrivendo Sparziano [Spartianus, in Septimio Sev.] ch'egli sostenne il primo consolato con Apulejo Rufino, disegnato da Commodo a quella dignità insieme con molti altri. Strano poi sembra che il medesimo Sparziano [Spart., in Geta.] dica nato Geta, figliuolo di Settimio Severo, mentre erano consoli Severo e Vitellio, quando avea dato Rufino per collega a Severo. Seguitava intanto Cleandro [Dio, lib. 72.] a far delle estorsioni, e a vendere gli onori, impoverendo la sciocca gente che correva a comperare da lui il fumo. Uno di questi fu Giulio Solone, uomo ignobile, che per la vanità di salire al grado di senatore, consumò quasi tutte le sue facoltà, di modo che fu detto argutamente, che Solone, a guisa de' condannati, era stato spogliato de' suoi beni, e relegato nel senato. Ma quando men se l'aspettava, arrivò ancora Cleandro al fine dovuto ai pari suoi. Il precipizio suo vien differito dal padre Pagi all'anno seguente; dal Tillemont vien riferito [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] al presente. In tale incertezza credo io meglio di parlarne qui. Entrò in questi tempi [Dio, lib. 72.] una fierissima peste in Italia [Herodianus, lib. 1.], e per le poche precauzioni che si costumavano allora, si diffuse ben tosto per tutte le città, e passò anche oltramonti. Questo di raro avea essa, che non men gli uomini che le bestie perivano. In casi tali, quanto più vaste e popolate son le città, tanto maggiormente infierisce il malore nella folta misera plebe. Così fu [617] in Roma. Dione, testimonio di veduta, asserisce che per lo più ogni dì vi morivano duemila persone. Rinnovossi inoltre allora l'uso di certi aghi attossicati, co' quali fu data la morte a non pochi. Commodo, per consiglio de' medici, si ritirò a Laurento, luogo fresco alla marina, e pieno di lauri, creduti allora per l'odor loro un possente scudo contro la peste. A questo gravissimo male s'aggiunse la carestia, facile disgrazia, massimamente alle grandi città, dove immenso è il popolo, e dove allorchè infierisce la peste, molti si guardano dall'accostarvisi per timor della vita. Dicono che Dionisio Papirio, presidente dell'annona, accrebbe maggiormente la penuria dei viveri, colla mira che il popolo già irritato contra di Cleandro, per le tante ruberie, ne attribuisse a lui la colpa, e si alzasse a rumore contra di lui, siccome in fatti avvenne. Sapevasi ch'egli avea comperata gran quantità di grano, nè lo lasciava uscire de' suoi granai. In mezzo a sì calamitosi tempi mirabile è la facilità, con cui può sorgere e prender piede una voce ed opinione anche più spallata. Fu dunque detto che Cleandro tendesse ad occupar il trono imperiale. Le ricchezze da lui adunate, e il grano ammassato avea da servire a guadagnar in suo favore i pretoriani e l'altre milizie romane. Di più non occorse, perchè si facesse una sollevazione. Non vanno ben d'accordo Dione ed Erodiano in raccontar le circostanze del fatto. Molto meno Lampridio [Lampr., in Commodo.], che attribuisce la odiosità del popolo contro Cleandro all'aver costui fatto morire Arrio Antonino, personaggio di gran credito, a forza di calunnie, perchè, essendo egli proconsole dell'Asia, avea condannato un certo Attalo, probabilmente creatura del medesimo Cleandro. Confessano poi, tanto Erodiano quanto Dione, che Commodo in tempo di questa sollevazione si trovava nella villa di Quintilio poco lungi da Roma, dove attendeva a' suoi infami piaceri. [618] Aggiugne Dione, che si fecero in quel tempo le corse de' cavalli nel circo: il che mi fa sospettare che fosse già terminata in Roma la peste, e solamente allora si provasse il flagello della carestia.
Comunque sia, parte del popolo spronato dalla fame, e mosso dalle grida di moltissimi fanciulli attruppati, condotti da una fanciulla d'alta statura, e di terribile aspetto, creduta dalla buona gente una dea, si mosse in furia, e andò al palazzo di villa, dove dimorava coll'imperadore Cleandro. Quindi, dopo aver gridato: Viva il nostro Augusto! dimandarono di aver in mano il traditore Cleandro, caricandolo intanto d'infinite villanie. Nulla ne intese Commodo, immerso nei suoi divertimenti. Cleandro allora ordinò che il corpo di cavalleria di guardia dissipasse quella gentaglia, e fu puntualmente ubbidito. Misero que' cavalieri in fuga il popolo disarmato, ne uccisero o ferirono molti, inseguendoli fin dentro le porte di Roma. Mossesi allora a rumore tutto il popolo, e correndo ai balconi e su per gli tetti, cominciò a tempestar con sassi e tegole i cavalieri; unissi ancora col popolo parte de' soldati a piedi della città: e tutti con armi e grida cominciarono una fiera battaglia colla peggio de' cavalieri, parte scavalcati o feriti, o morti, e gl'inseguirono sino al palazzo suburbano dell'imperadore. Niuno si attentava a far motto di ciò a Commodo. Marzia, già concubina di Quadrato, che non era già stata uccisa, come si legge in Sifilino, quella fu che ne avvisò l'imperadore. Erodiano, all'incontro, scrive essere stata Fadilla sorella del medesimo Augusto, che, atterrita dal rumore, corse scapigliata a' piedi del fratello, e l'avvertì del pericolo, in cui egli con tutti i suoi si trovava, se non sagrificava allo sdegno del popolo quel suo scelleratissimo ministro. Altri, che ivi si trovavano, calcarono la mano, accrescendogli la paura talmente, ch'egli in fine, fatto chiamar Cleandro, ordinò [619] che gli fosse tagliato il capo, e consegnato sopra un'asta al popolo. Spettacolo di gran letizia fu la testa di costui a chi l'odiava, e strascinò poscia il di lui cadavero per la città. Due piccoli figliuoli suoi vi perderono anch'essi la vita; nè finì questa turbolenza, che anche molti familiari o favoriti di esso Cleandro vennero uccisi: con che restò quieto il tumulto. Lampridio aggiugne che Apolausto ed altri liberti di corte in tal congiuntura rimasero anch'essi vittima del furore popolare; e Commodo, per testimonianza di Dione, fece poi morire il sopra mentovato presidente dell'annona Papirio, dando probabilmente a lui tutta la colpa del nato sconcerto. In luogo di Cleandro creati furono prefetti del pretorio Giuliano e Regillo, e la presidenza dell'annona fu conferita ad Elvio Pertinace, il quale doveva essere poco prima tornato dalla Bretagna, con fama d'aver anch'egli di là incitato Commodo contro di Antistio Burro e di Arrio Antonino, imputando loro che aspirassero all'imperio. Commodo non si attentava più, siccome timidissimo, di rientrare in Roma. Tanto cuore gli fecero i suoi confidenti [Herodianus, Histor., l. 1.], che comparve colà, e fu accolto con grandi acclamazioni del popolo: del che si consolò non poco. Eusebio [Euseb., in Chron.] sotto il presente anno scrive che Commodo fece levar la testa al colosso fabbricato da Nerone, per mettervi la sua. Vedremo ben altri più ridicoli eccessi della di lui vanità.
Anno di | Cristo CXC. Indizione XIII. |
Vittore papa 5. | |
Commodo imperadore 11. |
Consoli
Marco Aurelio Commodo Augusto per la sesta volta, e Marco Petronio Settimiano.
Fu ben calmata la sedizione popolare descritta di sopra, e ritornossene Commodo [620] Augusto alla sua residenza in Roma [Herodianus, Histor., lib. 1.], ma non si quietò già l'animo suo; anzi il fresco esempio fece in lui crescere le diffidenze e i sospetti. Personaggio non v'era di qualche abilità e credito che non fosse mirato di mal occhio da Commodo, e di cui egli non desiderasse la morte; e, quel ch'è peggio, non la procurasse o col veleno o col ferro. Ogni sinistra relazione o calunnia sufficiente era perchè egli levasse dal mondo i nobili, e massimamente i più amati dal popolo e i più potenti. Ognuno gli facea ombra, perchè non ignorava già quanto fosse l'odio del pubblico contra di lui. Credesi dunque [Lampridius, in Commodo.] che in questi tempi egli privasse di vita Petronio Mamertino suo cognato, cioè marito di una sua sorella, ed Antonino di lui figlio, ed Annia Faustina cugina di suo padre, che stava in Grecia. La sua crudeltà principalmente prendeva di mira chi era stato console. Tali furono Duillio e Servilio Silani, Allio Fosco, Celio Felice, Lucejo Torquato, Larzio Euripiano, Valerio Bassiano e Patulejo Magno co' suoi figliuoli, Sulpizio Crasso proconsole dell'Asia, Claudio Lucano, Giulio Procolo colla sua prole, ed altri infiniti, come dice Lampridio, a' quali tutti o in una maniera o in un'altra procurò la morte. Fece anche bruciar vivi tutti i figliuoli e nipoti del già ribello Avidio Cassio [Vulcat., in Avidio Cassio.], nulla servendo loro il perdono ottenuto dal di lui buon padre Marco Aurelio; e ciò con imputar loro che macchinassero delle novità. Probabil cosa è che non tutte in quest'anno succedessero tali stragi, e che alcune appartengano all'anno seguente. Giuliano e Regillo, già creati prefetti del pretorio, poco la durarono con questa bestia, ed amendue furono ammazzati. E pur Giuliano godea sì forte della grazia di Commodo, che pubblicamente era da lui abbracciato, baciato, e chiamato suo padre. Quinto Emilio [621] Leto ottenne allora il grado di prefetto del pretorio. Accadde ancora verso questi tempi [Dio, lib. 72.] la morte di Giulio Alessandro, personaggio di maraviglioso ardire, uno de' nobili cittadini di Emesa nella Soria, che stando a cavallo avea colla lancia passato da parte a parte un lione. Se crediamo a Lampridio, s'era egli ribellato. Altro non dice Dione, se non che all'udire l'arrivo di un centurione, spedito con una truppa di soldati per ammazzarlo, di notte andò a trovarli, e tutti li tagliò a pezzi. Lo stesso brutto giuoco fece appresso ad alcuni suoi concittadini, coi quali manteneva nimicizia; e poi montato a cavallo con un ragazzo ch'egli amava, se ne fuggì. Si sarebbe egli ridotto in salvo, ma non potendo più reggere il ragazzo alla corsa, nè volendolo egli abbandonare, fu raggiunto dai corridori, che il venivano seguitando. Diede egli allora la morte al ragazzo e a sè stesso, e così terminò la sua tragedia.
Tali erano in questi tempi le barbariche azioni di Commodo. E merita ben d'essere osservato che sotto questo crudel regnante la religion cristiana non patì per conto suo persecuzione veruna; e chi morì martire a que' tempi, non già da lui, ma dai governatori delle provincie, nemici del nome cristiano, riportarono una gloriosa morte. E però, lui regnante, crebbe e sempre più si dilatò il numero de' Cristiani. Questa indulgenza di Commodo vien attribuita da Sifilino [Xiphilinus, in Commodo.] a Marzia, donna di bassa nascita, ch'era stata concubina di Quadrato. Dopo la morte di Quadrato entrò essa talmente in grazia di Commodo, il quale avea relegato a Capri, e poi fatta morire Crispina sua moglie, che, a riserva del nome di Augusta [Dio, lib. 72.], conseguì gli onori delle imperadrici. Poteva ella molto nel cuor di Commodo; e però si pretende che amando essa molto, benchè non cristiana, i cristiani, procurasse loro un [622] buon trattamento ed altri benefizii. Vuole il padre Pagi [Pagius, Critic. Baron. ad hunc annum.] che la peste e la fame, di cui parlammo all'anno precedente, infierissero in questo; e non men Dione che le medaglie sembrano dar peso a così fatta opinione. Ma, secondo Erodiano, sembra più verosimile che fossero preceduti questi flagelli. Parlasi ancora nelle monete [Mediobarbus, in Numismat. Imp.] della Liberalità Settima di Commodo, cioè di qualche congiario dato al popolo per tenerselo amico. E Dione, fra l'altre cose, lasciò scritto che Commodo più volte donò al popolo cinque scudi d'oro e quindici denari per testa.
Anno di | Cristo CXCI. Indizione XIV. |
Vittore papa 6. | |
Commodo imperadore 12. |
Consoli
Cassio Aproniano e Bradua.
Se il primo console Aproniano portò veramente il nome di Cassio, egli fu padre di Dione Cassio, storico celebratissimo; ma ciò non è senza qualche dubbio. Alle disgrazie che andava provando Roma pel governo tirannico di Commodo e per gli altri mali di sopra accennati, si aggiunse nel presente anno quello di un fiero incendio [Herodianus, lib. 1, et Dio, lib. 72.]. Attaccatosi il fuoco al tempio della Pace, fabbricato da Vespasiano, interamente lo consumò colle botteghe ricchissime delle specierie contigue: tempio il più magnifico che si fosse allora in Roma. Imperciocchè quivi erano conservate le più preziose spoglie del tempio di Gerusalemme; quivi si faceano le assemblee dei letterati; e pare che vi si conservassero anche i loro scritti, giacchè Galeno [Galenus, de libris suis.] il medico si duole che un gran numero de' suoi vi perisse in tal congiuntura. Ma, quel che è più, colà si portavano in deposito i danari e le cose più preziose de' Romani, [623] come in luogo il più sicuro d'ogni altro. Perciò, essendo succeduto di notte quel gravissimo incendio, moltissimi, venuto il giorno, si trovarono poveri di ricchi che erano la sera innanzi. Nè ivi si fermarono le fiamme, perchè passarono ad altri assaissimi nobili edifizii romani, e fra gli altri il tempio di Vesta col palazzo rimase anch'esso consunto. Durò molti giorni il fuoco, dilatandosi qua e là, senza potersi fermare con arte umana, finchè un'improvvisa dirotta pioggia gli troncò i passi. Eusebio [Euseb., in Chronic.] dice che gran parte della città di Roma restò preda delle fiamme. Salvarono le Vestali il palladio, cioè la statua di Pallade, la quale fama era che fosse stata portata da Troja. Dione anch'egli attesta che il fuoco arrivò al palazzo, e vi bruciò la maggior parte delle scritture spettanti al principato. Questa gravissima sciagura moltiplicò l'odio di ognuno contra di Commodo, credendo tale incendio un'ira palese del cielo per le di lui iniquità: e giacchè era ito in rovina il tempio della Pace, giudicarono tutti questa una predizion di guerra vicina per tutto il romano imperio. Intanto la vanità di Commodo cominciava a degenerare in pazzia. Perchè niuno l'uguagliava nella destrezza in uccidere le fiere, e molte e grandi pruove di ciò aveva egli dato in Lanuvio, gli saltò in testa di farsi appellare l'Ercole Romano [Lamprid., in Commodo. Dio, lib. 72. Herodianus Histor., lib. 1.], gloriandosi di essere figliuolo non più dell'ottimo imperadore Marco Aurelio, ma di Giove. In abito d'Ercole volle che gli fossero alzate le statue. Una pelle di lione e una clava gli erano portate innanzi, allorchè faceva viaggio; e queste ne' teatri, intervenendovi egli o non intervenendovi, si mettevano sopra la sedia d'oro imperatoria. Veggonsi ancora molte medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.] dell'anno presente e susseguente, dov'è nominato Ercole Romano, Ercole [624] Commodiano. Oltre a ciò comandò che da lì innanzi Roma si chiamasse Commodiana, e il senato istesso dovette assumere il cognome di Commodiano. Per comandamento suo ancora furono mutati i nomi a tutti i mesi, e si adattarono ad essi quei che esprimevano titoli e nomi del medesimo folle Augusto. Dione [Dio, lib. 72.] gli annovera con quest'ordine: Amazonio, Invitto, Felice, Pio, Lucio, Elio, Aurelio, Commodo, Augusto, Ercole, Romano e Superante. Se crediamo a Lampridio [Lampridius, in Commodo.], il mese di agosto si appellò Commodo: settembre Ercole: ottobre Invitto: novembre Superante o Superatorio: e dicembre Amazonio. Questi due ultimi specialmente se gli teneva egli ben cari; quasichè egli in ogni cosa superasse il resto degli uomini; tanto gli frullava il capo. Qui il Casaubono e il Salmasio insorgono con allontanarsi dalla sentenza di Lampridio, e pretendendo che ad altri mesi si applicassero que' nomi. Poco a noi importa la frenesia del pazzo Augusto, volendo che si formasse un decreto [Dio, lib. 72.], per cui da lì innanzi tutto il tempo ch'egli regnasse, si appellasse il Secolo d'oro, e di questo si facesse menzione in tutte le lettere del senato. Certo è che a sì fatti ordini strignevano le labbra, inarcavano le ciglia i senatori; ma conveniva chinare la testa. Altre pazzie mischiate colle crudeltà e varie disonestà di questo principe si possono raccogliere da Lampridio, che ne fa un lungo catalogo. Ma non si può tacere che debbono parerci falsità la maggior parte degli elogi a lui dati nelle monete. Sopra tutto in esse è chiamato Pio, ed anche Autore e Ristoratore della Pietà. Quando con questo nome si voglia significare il culto della falsa religione gentile, abbiamo in fatti da esso Lampridio [Lampridius, in Commodo.] che col capo raso nella festa d'Iside egli [625] portò la statua di Anubi, ma ridicolosamente, perchè con quella medesima andava gravemente percotendo le teste dei sacerdoti vicini; e voleva che que' sacri ministri d'Iside si battessero maledettamente il petto colle pigne che portavano in mano. Non la perdonò poi la sua sfrenata libidine nè pure ai templi: eccesso detestabile anche presso i Gentili. Nei sagrifizii ancora di Mitra uccise un uomo. Ecco qual fosse la religione di questo forsennato Augusto.
Anno di | Cristo CXCII. Indizione XV. |
Vittore papa 7. | |
Commodo imperadore 13. |
Consoli
Marco Aurelio Commodo Augusto per la settima volta e Publio Elvio Pertinace per la seconda.
Guastandosi ogni dì più il cervello a Commodo imperadore, andavano crescendo le sue perverse azioni e, per conseguente ancora, l'odio del popolo, e specialmente de' buoni contra di lui. A capriccio egli faceva uccidere le persone. Alcuni tolse dal mondo, perchè incontratosi in loro, osservò ch'erano vestiti di abito straniero [Lampr., in Commodo.]; altri perchè parevano più belli di lui. Saputo che certuno avea letta la vita di Caligola, scritta da Svetonio, il diede in preda alle fiere, perchè egli era nato lo stesso dì che Caligola. Tralascio altre simili sue crudeltà, narrate da Lampridio. Nè minori di numero erano le sue inezie, che si tiravano dietro le risate di ognuno. Guai nondimeno, se si accorgeva di chi il burlasse e deridesse, perchè tosto il faceva consegnare alle bestie feroci. E pur egli non si guardava dal comparire ridicolo in faccia di tutti, lasciandosi vedere in pubblico vestito ora da donna, ora da Ercole colla clava, ora da Mercurio col caduceo in mano. Ma il colmo delle sue pazzie quel fu d'intestarsi di essere il [626] più bravo ed esperto gladiatore e cacciatore che fosse sopra l'universa terra [Herodianus, Histor., lib. 1. Dio, lib. 72.]. E veramente confessano tutti gli storici, maravigliosa essere stata la destrezza sua nell'uccidere le fiere o lanciando l'asta contra di esse, o scagliando frecce e dardi. Con tal giustezza scaricava i colpi che feriva quasi sempre dove avea presa la mira. Questo fu il solo de' pregi ch'egli ebbe: che per altro differenza non si scorgeva tra lui e un vero coniglio. S'era egli avvezzato a queste cacce in Lanuvio, e ne' suoi palazzi di villa, dove dicono che ammazzò in varii tempi migliaja di esse fiere. Per conto dei gladiatori infinite pruove avea fatto in quell'infame mestiere, combattendo con essi armato di spada e scudo, nudo o pur vestito, facendo anche tutti i giuochi de' reziarii e dei secutori, ch'erano specie di gladiatori. Di sua mano uccise egli talvolta i competitori, senza che alcun di essi ardisse di torcere a lui un capello. Ordinariamente dopo aver quella canaglia sostenuto alquanto gli assalti e riportata talora qualche ferita, se gli dava per vinto, chiedendogli la vita in dono, ed acclamandolo pel più forte imperadore che Roma avesse mai prodotto. S'invanì tanto per tante sue lodi e per la stupenda sua bravura il folle Commodo, che, per attestato di Mario Massimo, le cui storie si sono perdute, ma esistevano a' tempi di Lampridio, ordinò che negli atti pubblici si registrassero queste sue ridicole vittorie, come già si facea delle campali riportate dagli eserciti romani; e queste ascendevano a migliaja e migliaja. Arrivò egli sì oltre (cotanto si era ubbriacato di questa vergognosa gloria), che più non curando il nome di Ercole, s'invogliò di quello di primo fra i gladiatori, con prendere anche il nome di un Paolo già defunto, e stato mirabile a' suoi dì nell'arte obbrobriosa de' gladiatori.
Ma troppa lieve parve in fine quella gloria a Commodo, perchè ristretta nei [627] suoi privati palagi e nelle scuole gladiatorie. Gli venne in capriccio di farsi anche ammirare da tutto il popolo romano; e però fece precorrer voce, che nei giuochi saturnali, soliti a celebrarsi nel dicembre [Herodianus, Histor., lib. 1. Dio, lib. 72.], egli solo volea uccidere tutte le fiere, e combattere coi più bravi dell'arena. All'avviso di questa gran novità, incredibile fu il concorso, non solo del popolo romano, ma anche da varie parti d'Italia. Quattordici dì durarono questi spettacoli. Innumerabili e di varie specie furono le fiere e le bestie, fatte venir dall'India, dall'Africa e da altre contrade, che comparvero nell'anfiteatro, e molte di esse conosciute dianzi solamente in pittura. Si aspettava poi la gente di mirare il valoroso Augusto affrontar nell'arena lioni, pantere, tigri, orsi e somiglianti feroci animali. Ma il per altro pazzo Commodo ebbe tanto senno di far guerra a tali fiere da un corridore alquanto alto, che girava intorno alla platea dell'anfiteatro. Vero è nondimeno, ch'egli di là con tanta maestria e forza scagliava aste e dardi che feriva e trapassava gli animali, cogliendo nella fronte e nel cuor de' medesimi senza fallare. Cento lioni in questa guisa per mano di lui rimasero estinti sul campo. Il popolo tutto andava gridando Bravo e Viva; per lo che si ringalluzziva sempre più il balordo Augusto. E qualora egli si sentiva stanco, Marzia, sua cara concubina, era pronta a porgergli una tazza di buon vino rinfrescato; e il popolo, e i senatori stessi, uno de' quali era lo stesso Dione storico, come si fa nei conviti, gli auguravano salute e vita. Un altro dì lo spettacolo fu di lepri, cervi, daini, tori e di altre bestie da corno. Commodo, calato nella piazza dell'anfiteatro, ne fece una grande strage. In altri giorni uccise una tigre, un cavallo marino, un elefante ed altre bestie. E fin qui se gli potea pur perdonare. Ma da che spiegò di voler anche [628] combattere da gladiatore, non si potè contenere Marzia dal buttarsegli ai piedi, e dal supplicarlo colle lagrime agli occhi di non isvergognare la dignità di un imperadore con quell'infame mestiere. Se la levò egli d'attorno con dirle delle villanie. Chiamati poi Quinto Emilio Leto prefetto del pretorio, ed Eletto mastro di camera, ordinò loro di preparar tutto il bisognevole. Anch'essi con forti ragioni lo scongiurarono di non andarvi; ma indarno sempre. Ad altro non servì la loro resistenza, se non a suscitargli un odio grave contra di loro, quasi che gl'invidiassero la gloria che era per acquistarsi. Erodiano non iscrive che Commodo andasse al combattimento; ma Dione, che v'era presente, ci assicura che vi comparve più volte, e combattè in quella indecente figura; e che i gladiatori fecero battaglia fra loro colla morte di molti di essi, ed anche di parecchi spettatori, che per la gran folla non poteano tirarsi indietro. I senatori, siccome era stato loro imposto erano forzati a gridare: Viva il Signore: Viva il vincitor di tutti: Viva l'Amazonio. Per altro molti della plebe non si azzardarono d'intervenire a quegli spettacoli, parte per l'orrore di mirar un Augusto sì delirante ed avvilito, e parte per una voce corsa, che Commodo volea regalarli di colpi di frecce, come Ercole avea fatto alle Stinfalidi; e tanto più perchè ne' giorni addietro esso Augusto raunati tutti i poveri mancanti di piedi, e fattili vestir da giganti, colla clava gli avea tutti morti, per rassomigliarsi ad Ercole anche in questo. Puossi egli immaginare un più bestiale ed impazzito principe? Confessa Dione, che nè pur egli co' suoi colleghi senatori andò esente da paura; imperciocchè Commodo, dopo aver tagliata la testa ad un passero (se pur tale fu), con essa in mano, e colla spada nell'altra andò alla volta dei senatori con torvo aspetto, ma senza aprir bocca, volendo forse far intendere che potea far loro altrettanto. A tutta [629] prima molti di que' senatori non sapeano contener la risa, ed erano perduti se Commodo se ne accorgea. Dione, col mettersi a masticar delle foglie di lauro, insegnò agli altri di moderarsi, e poco poi stettero ad avvedersi del corso pericolo. L'aver Commodo in appresso comandato che i senatori venissero all'anfiteatro nell'abito che solamente si usava nello scorruccio del principe, e l'essere stata nell'ultimo dì dei giuochi portata la di lui celata alla porta, per dove uscivano i morti, diede a pensare a tutti, che fosse imminente il fine della di lui vita; e così fu. Altri augurii, a' quali badavano forte i superstiziosi Romani, racconta Lampridio [Lampridius, in Commodo.], ch'io tralascio come cose vane.
Non van d'accordo [Herodianus, Histor., lib. 3.] Erodiano e Dione [Dio, lib. 72.] in assegnare i motivi e le circostanze della morte di Commodo. Scrive il primo, che irritato il pazzo Augusto contro Marzia, Leto ed Eletto, perchè gli aveano contrastata la sconvenevol comparsa nel campo de' gladiatori, scrisse in un biglietto l'ordine della lor morte, colla giunta di parecchi altri, e pose la carta sul letto. Entrato un nano suo carissimo in camera, avendo preso quello scritto, uscì fuori, ed incontratosi in Marzia, questa gliel tolse di mano, imaginandosi che fosse cosa d'importanza. Vi trovò quel che non voleva. Avvisatine Leto ed Eletto, concertarono tutti e tre di esentarsi da quel temporale con prevenire la mala volontà dell'iniquo principe. Nulla dice Dione di questa particolarità, ed intanto il lettore si ricorderà, aver quello storico narrato un simil fatto nella morte di Domiziano. Certamente uno di questi due racconti ha da essere falso; ed il presente ha qualche più di verisimiglianza. Dione e Lampridio scrivono che Leto ed Eletto, per timore della propria vita, sì perchè aveano davanti più specchi della somma [630] facilità con cui Commodo la toglieva ai capitani delle sue guardie e a' suoi mastri di camera, e sì ancora perchè conoscevano di averlo disgustato colla ripugnanza alle sue bestialità, unitisi a Marzia, tentarono prima la via del veleno, con darglielo in una tazza di vino ch'egli soleva prendere dopo il bagno. Occupato da lì a poco da gravezza di capo e da sonnolenza, Commodo entrò in letto. Era l'ultimo dì dell'anno. Venuta la notte, si svegliò, e fosse la sua robusta complessione, o pure il molto mangiar e bere dianzi da lui fatto, che l'aiutasse, cominciò a vomitare, e per secesso ancora ad alleggerirsi dell'interno nemico. Allora i congiurati, apprendendo più che mai il rischio loro, introdussero Narciso robustissimo atleta, comperato con promessa di gran regalo, che serrategli le canne del fiato, il soffocò. Sparsero poi voce, ch'egli fosse morto per accidente apopletico. In questa maniera terminò Commodo la vita sua sì malamente menata, in età non più che di trentadue anni, senza lasciar dopo di sè figliuoli. Fu poi detto, ch'egli avea comandato di bruciar Roma, e che ne sarebbe seguito l'effetto, se Leto non lo avesse trattenuto. Sparsero inoltre voce aver egli avuto in animo di uccidere Erucio Claro e Socio Falcone, consoli disegnati, che doveano far l'entrata nel giorno seguente, e di proceder egli console con prendere per collega uno dei gladiatori. Dione par che lo creda; ma morto chi è odiato da tutti, nè più può far paura, a mille ciarle si scioglie la lingua. In quest'anno probabilmente avvenne ciò che narra Capitolino [Capitolin., in Clodio Albino.]. Comandava Clodio Albino alle armi romane nella Bretagna. Fu portata colà una falsa nuova che Commodo era morto; Commodo, dissi, quale il tanta fede avea in lui, che gli avea dianzi mandato il titolo di Cesare, cioè un segno di volerlo per successore. Albino non l'accettò; venuta poi quella [631] falsa voce, egli parlò all'esercito britannico, esortando tutti a ritornare la repubblica romana nell'antico suo stato, e ad abolir la monarchia, con toccar i disordini venuti per cagion degl'imperadori, senza risparmiare lo stesso Commodo. Di questa sua disposizione ed aringa avvertito Commodo, ch'era ancor vivo, mandò Giulio Severo al comando dell'armata britannica, e richiamò Albino; ma per la morte d'esso Commodo non dovette aver esecuzione quell'ordine. Gran credito con ciò Albino si guadagnò presso il senato. Nè si dee tacere, che quando poi da Roma furono spediti pubblici messaggeri alle provincie per dar avviso che più non viveva Commodo, quasi tutti furono messi in prigione dai governatori, per paura che questa fosse una nuova falsa a fine di tentar la lor fede, quantunque tutti sospirassero che fosse vera, siccome dipoi si trovò.
Anno di | Cristo CXCIII. Indizione I. |
Vittore papa 8. | |
Elvio Pertinace imperad. 1. | |
Didio Giuliano imperad. 1. | |
Settimio Severo imperad. 1. |
Consoli
Quinto Sosio Falcone e Cajo Giulio Erucio Claro.
Nella notte precedente al dì primo di gennaio, siccome dissi, accadde la morte di Commodo. Prima nondimeno che si divulgasse il fatto, Leto ed Eletto [Dio, lib. 73.] furono a trovar Publio Elvio Pertinace, che tuttavia era console [Herodianus, Histor., lib. 2.]. Egli dormiva, e sentendo che veniva a lui il prefetto del pretorio, s'immaginò quella essere l'ultima sua ora, perchè se lo aspettava, dicendosi che gli era stata predetta in quest'anno. Intrepidamente accolse i due ministri, e rimase ben sorpreso all'intendere che in vece della [632] morte gli esibivano l'impero. La credette a tutta prima una furberia; ma giurando essi, che Commodo non era più vivo, se ne volle chiarire, con inviar uno de' suoi più confidenti a mirar coi suoi occhi il cadavere dall'estinto principe. Allora egli cedette alle lor persuasioni, e con essi andò al quartiere dei pretoriani. Era molto inoltrata la notte, e fuorchè le sentinelle, tutti riposavano. Leto, esposta la morte di Commodo, presentò loro Pertinace, che dal canto suo promise il consueto regalo; e però tutti, almeno in apparenza, consentirono; ma restarono amareggiati, perchè egli, nell'arringa che fece loro, si lasciò scappar di bocca, che v'erano molti abusi, i quali sperava di levar via collo aiuto di essi. Sospettarono coloro, che volesse spogliarli di quanto avea loro prodigamente donato il morto imperadore. Oltre di che, avvezzi colla briglia sul collo sotto un principe giovinastro cattivo, che lor permetteva di far quanto cadeva loro in capriccio, non potevano mirar di buon occhio Pertinace, cioè un vecchio [Capitol., in Pertinace.], di costumi tanto diversi dal precedente Augusto. Imperocchè è da sapere che Elvio Pertinace, nato da povero padre nella villa di Marte del territorio d'Alba Pompea, città oggidì del Monferrato, insegnò grammatica da giovane; ma perchè gli fruttava poco il mestiere, si rivolse alla milizia, e salendo di grado in grado con riputazione, sostenne de' riguardevoli impieghi nella Mesia e nella Dacia. Per calunnie perdè la grazia di Marco Aurelio Augusto, ma per opera di Claudio Pompejano, genero d'esso imperadore, scoperta la falsità delle accuse, fu Pertinace promosso all'ordine senatorio, ed anche al consolato. Ebbe poscia il governo di varie provincie, e massimamente di Soria, dove attese ad empiere la borsa. Sotto Commodo, abbassato dal prepotente Perenne, si ritirò alla sua patria, dove comperò di molti stabili. [633] Dopo la morte di Perenne, siccome accennai di sopra, fu spedito da Commodo in Bretagna, e di là passò al governo dell'Africa. Finalmente tornato a Roma, vi esercitò, dopo Fusciano, uomo severo, la carica di prefetto della città, con tale umanità e piacevolezza, che piacque maggiormente a Commodo, e meritò di procedere di nuovo console con esso lui [Herodianus, Histor., lib. 2.]. Passava Pertinace in questi tempi l'età di anni sessantasei, perchè nato nell'anno 126 della nostra Era; ma era in concetto d'uomo di onore, di molta saviezza ed amorevolezza, e sperimentato nelle cose della guerra. Per attestato di Erodiano [Ibidem.], la sua gravità ed anche la povertà il salvarono sotto Commodo, perchè fra gli altri pregi si contava ancor questo, d'esser egli il più povero dei senatori, ancorchè avesse esercitato molti riguardevoli uffizii. Ma, secondo Capitolino [Capitol., in Pertinace.], si diceva aver egli sempre atteso a raccogliere molto e spendere poco. Un uomo di tal probità, ma insieme poco inclinato alla liberalità, non potea piacere ai soldati, troppo male avvezzati sotto Commodo.
Durava tuttavia la notte, quando si fece sparger voce per la città, che Commodo era morto, ed eletto imperador Pertinace. Saltò fuori tutto il popolo con incredibil festa ed incessanti grida, caricando di maladizioni e villanie il defunto Augusto, cantando i suoi vituperii, e dandogli i nomi di tiranno, di gladiatore, di ernioso, perchè egli patì di una ernia, ch'era visibile agli occhi del pubblico. Anche i senatori, balzati dal letto, corsero, non sapendo dove stare per la gioia, alla curia: e quivi si presentò loro Pertinace, ma senza insegna alcuna d'imperadore e coll'animo assai agitato, perchè sapendo la bassa sua condizione in confronto di tanti altri senatori delle prime e nobili casate di Roma, sembrava a lui un'indecenza, ed anche un passo pericoloso, [634] il prendere un posto più ragionevolmente dovuto ad altri. Però assiso in senato nella solita sua sedia, disse che egli veramente era stato riconosciuto imperadore dai soldati, ma che vecchio inabile ed immeritevole, rinunziava a quell'onore, e che eleggessero chi loro piacesse, essendovi tanti nobili degni più di lui del trono. Secondo Erodiano, prese anche pel braccio Aulo Glabrione, creduto il più nobile de' Romani, e l'esortò a voler egli assumere la dignità imperiale. Capitolino aggiunge, che fece lo stesso con Claudio Pompejano, genero già di Marco Aurelio, e cognato di Commodo; ma che anch'egli si scusò. E qui dee aver luogo ciò che racconta Dione [Dio, in Excerpt. Valesianis.], cioè che Pompejano, siccome persona di gran prudenza, osservato ch'ebbe qual mala bestia fosse Commodo suo cognato, di buon'ora si ritirò in villa, nè si lasciava se non rade volte vedere in città, adducendo per iscusa varie sue indisposizioni, e specialmente la vista sua troppo indebolita. Nè volle già egli venire agli ultimi spettacoli di Commodo, per non essere spettator del disonore della maestà imperatoria, essendosi solamente contentato che v'intervenissero i suoi figliuoli. Creato poi Pertinace imperadore, gli tornò la vista, svanirono i suoi malori; e Pertinace a lui e a Glabrione fece sempre un distinto onore, nè risoluzione imprendeva senza il loro consiglio. Lo stesso Pompejano poi, da che fu morto Pertinace, e si videro imbrogliati forte gli affari, tornò ad ammalarsi, a vedervi poco, e a battere la ritirata. Da ciò si raccoglie essere adulterato il testo di Dione presso Zonara [Zonaras, in Annal.] e Sifilino, là dove è detto, che Claudio Pompejano, genero di Marco Aurelio fu quegli che presentò a Commodo il pugnale per ammazzarlo. Ora i senatori, veduta la umiltà e l'onorato procedere di Pertinace, quasi tutti di buon cuore il confermarono imperadore, e convenne anche [635] fargli forza perchè accettasse l'imperio [Capitol., in Pertinac.], se non che Falcone, il quale dovea la mattina seguente entrar console, gli si mostrò ora, e peggio poi nel progresso, assai contrario, con dirgli di non sapere come avesse da riuscire il di lui governo, da che il mirava sì favorevole a Marzia e a Leto, stati ministri delle iniquità di Commodo. Al che rispose quietamente Pertinace: Voi siete console giovane, nè sapete che cosa sia la necessità di ubbidire. Costoro hanno ubbidito fin qui loro malgrado a Commodo. Subito che han potuto, han dato a conoscere la lor buona volontà.
Quindi proruppe il senato in acclamazioni festose verso il novello regnante, in detestazioni di Commodo, che si leggono a parola per parola presso Lampridio [Lampr., in Commod.], prese dalla storia perduta di Mario Massimo. Soprattutto dimandavano i senatori, che si facesse al cadavero di Commodo il trattamento conveniente a chi era stato nemico degli dii, boia del senato, parricida, nemico della patria, cioè che fosse strascinato coll'uncino per la città, e gittato nel Tevere, siccome si usava co' malfattori più esecrandi. Ma quel corpo, di permissione di Pertinace, era già stato segretamente seppellito in qualche sepolcro, e di là fra qualche tempo Pertinace lo fece trasportare nel mausoleo d'Adriano, perchè non gli piaceva d'irritare i pretoriani, troppo innamorati dell'estinto regnante. Fatta fu anche istanza dal senato, che si rompessero tutte le statue di Commodo, e si abolissero tutte le sue memorie. Non perdè tempo il popolo ad eseguirne il decreto. A Pertinace furono nello stesso tempo accordati tutti i titoli consueti degl'imperadori. Scrive Capitolino [Capitolin., in Pertinac.], che a Flavia Taziana di lui moglie fu dato il titolo di Augusta; ma sì egli, che Dione senatore, presente allora a tutti quegli affari, aggiungono averle bensì il senato [636] decretato questo onore, siccome ancora al di lui figliuolo il titolo di Cesare; ma che Pertinace ricusò l'uno e l'altro, perchè non mirava per anche abbastanza assodato il suo imperio, conosceva l'umor petulante della moglie, nè gli pareva che il figliuolo di età anche tenera fosse capace di tanto onore. Diede egli principio al suo governo con ottime idee e rettissima volontà. Dovea pagarsi il regalo promesso ai pretoriani e agli altri soldati di Roma, e nell'erario non si trovò più di venticinquemila scudi. Mise perciò [Dio, lib. 73.] in vendita le statue, l'armi gioiellate, i cavalli, le carrozze, gli schiavi, le concubine, e tutte le altre vane suppellettili di Commodo, tanto che ne ricavò danaro da pagare in parte il regalo pattuito coi soldati, e da fare un donativo al popolo di cento danari per testa. Emilio Leto nello stesso tempo spogliò d'ordine suo tanti buffoni, che Commodo avea smisuratamente arricchiti coi beni dei senatori uccisi. Trattava il buon Pertinace, uomo senza fasto, cortesemente con tutti, ed affabile era massimamente coi senatori, ciascun de' quali potea liberamente dire il suo parere; e dicea anche egli il suo, ma con tranquillità e rispetto a quello degli altri. Or questi or quelli voleva alla sua tavola, tavola propria di un principe, ma frugale. Per questa frugalità v'erano de' ricchi e magnifici che il mettevano in burla; ma da tutta la gente savia ne veniva egli ben commendato. Applicossi a riformar le spese superflue, a levare gli abusi introdotti, a pagare i debiti del pubblico. Ai pretoriani e alle altre milizie non fu più permesso di rubare nè il far insolenze ed ingiurie a chicchessia. Cessarono le spie e gli accusatori, furono cassate le ingiuste condanne; restituiti i beni indebitamente confiscati; richiamati i banditi; e si potè dar sepoltura convenevole a chi in addietro non la potè conseguire. Abolì per le provincie vari dazi imposti dai cattivi principi alle rive de' fiumi, ai ponti, [637] alle strade. Promosse l'agricoltura per tutta l'Italia, donando le terre abbandonate ed incolte, acciocchè si coltivassero. In somma, sotto sì moderato e buon principe [Herodianus, Histor., lib. 2.] cominciava a rifiorir Roma, ed ogni saggia persona benediceva il tempo presente; ma questo tempo, che pareva così sereno, stette ben poco a rannuvolarsi.
Malcontenti già erano, siccome dissi, del nuovo governo i soldati [Capitol., in Pertinace.]; e molto più se ne disgustarono, da che si videro imbrigliati e ritenuti dal far que' mali che solevano. Aveano insino ne' primi giorni tentato di esaltare al trono Triario Materno Lascivio senatore; ma egli scappò lor dalle mani, e andato a trovar Pertinace, si ritirò poi fuori di Roma. Mirarono ancor i pretoriani di mal occhio l'abbattimento delle statue di Commodo, e ne fremevano. Intanto aspettava Pertinace il giorno natalizio di Roma, per mutar la famiglia di corte, che dianzi serviva a Commodo, non l'avendo egli licenziata finora. Da tutti costoro ancora era egli odiato a morte, e specialmente dai liberti, a' quali avea già tagliate le unghie sul vivo. Il saper poi quanto egli fosse guardingo nelle spese, e in concetto d'avaro, e che per ristorare l'erario fallito esigeva imposte messe da Commodo, contro le promesse fatte; e la voce corsa, che per far danaro si cominciassero a vendere le grazie e la giustizia; e che quei d'Alba Pompea corsi, credendo di toccare il cielo col dito sotto un Augusto lor compatriotto, s'erano trovati delusi: tutto ciò cagion fu che dalla maggior parte del popolazzo egli fosse poco amato, e che nella commedia sotto nome d'altre persone si sparlasse di lui, con dire fra le altre cose, ch'egli aveva bei detti, ma pochi fatti. Ai soldati e alla plebe non solevano piacere se non quegl'imperadori che largamente spendevano e più largamente donavano. Così [638] la discorre Capitolino [Capitol., in Pertinace.], il quale cento anni dipoi scrisse alla rifusa la di lui vita, nè dovea aver qui buone memorie. Imperocchè Dione [Dio, lib. 73.] ed Erodiano [Herod., Histor., lib. 2.], meglio informati di questi affari, ci lasciarono un diverso, cioè un bellissimo ritratto di Pertinace, dicendone amendue un gran bene, ed assicurandoci tale essere stata la clemenza, la saviezza, la modestia, l'illibatezza sua, tanta la sua premura pel pubblico bene, a cui principalmente tendevano le mire sue, che già Roma si potea dire tornata in un tranquillissimo e felicissimo stato. Lo stesso Capitolino attesta di poi anch'egli, che il popolo andò nelle smanie, udita la di lui morte, perchè tutti speravano di veder sotto di lui tornare ad un bel mezzogiorno l'imperio romano: segno dunque che l'amavano molto, e che non ha sussistenza quanto egli ha detto di sopra. Solamente confessa Dione, ch'egli fallò nello aver voluto con troppa fretta correggere tutti i disordini, parte de' quali era inveterati; e molto più nell'aver dato ai soldati men regalo di quel che avessero ricevuto da Marco Aurelio e da Commodo; perchè sebben egli nel senato protestò di averlo fatto, la verità nondimeno era che que' due Augusti aveano loro donati venti sesterzii per testa, laddove Pertinace non ne diede che dodici. Ma la rovina di questo recente imperadore si dee principalmente attribuire ad Emilio Leto prefetto del pretorio, che o per qualche riprensione a lui fatta da Pertinace [Capitolinus, in Pertinace.], o perchè non potea conseguir quella padronanza che avea dianzi immaginato, si pentì d'averlo promosso all'imperio, e congiurò coi pretoriani contra di lui. Scoprissi intanto che Sosio Falcone console personaggio di gran credito per la sua nobiltà ed opulenza, trattava con essi pretoriani per occupare il trono cesareo, e ne fu portata l'accusa colle [639] pruove al senato. Pretesero nondimeno alcuni ch'egli fosse innocente di questo fatto. Trovandosi allora Pertinace al mare, per provvedere all'abbondanza della annona, corse subito a Roma, e nel senato avendo inteso che già s'era in procinto di condannar Falcone [Dio, lib. 73.]: Non sia mai vero, gridò, che sotto il mio principato alcuno senatore anche per giusta cagione abbia da perdere la vita. Ma Emilio Leto [Zonaras, in Annalib.], benchè niun ordine ne avesse da Pertinace, e solamente per renderlo odioso, prese di qua il pretesto di far ammazzare alcuni soldati quasi complici di Falcone, con ispargere anche il terrore sopra gli altri, quasi che tutti avessero da perire. Attizzati perciò dugento de' più arditi pretoriani, colle spade sguainate a dirittura di mezzodì andarono al palazzo, e, senza che alcun si opponesse, furiosamente salirono le scale. Capitolino scrive ch'essi erano di guardia, e che parte degli stessi servitori di corte, che odiava Pertinace in suo cuore, li vide volentieri venire, e spalancò le porte. Essendo volata la moglie ad avvisar l'Augusto marito di questa novità, egli ordinò a Leto di correre a frenar la sedizione; ma Leto, uscito per altra via, se n'andò, lasciando agli ammutinati di eseguir quello che pensavano. Nulla dice Dione di questo; ma bensì, che avrebbe potuto Pertinace salvarsi, se avesse voluto, perchè v'era una squadra di cavalleria con altre guardie, e molta gente di corte, bastante a tagliar a pezzi coloro; ed almeno poteva nascondersi, e far serrare le porte. Signor no: gli cadde in pensiero d'affacciarsi egli stesso, figurandosi d'atterrirli col suo venerabil aspetto, e di placarli a forza di buone parole. In fatti loro parlò con tal gravità ed amore, che molti già deposte l'armi, colla testa bassa si ritirarono; quando un d'essi più temerario degli altri, Liegese di patria, per nome Tausio, se gli avventò col ferro dicendo: Questo tel mandano i [640] soldati, e il ferì nel petto; gli altri il finirono. Eletto, mastro di camera, che gli stava al fianco, dopo aver ucciso due di quegli scellerati, e feriti molt'altri, con gran fedeltà lasciò anch'egli la vita fra le loro spade. Accadde questa tragedia nel dì 28 di marzo, essendo appena corsi ottantasette giorni da che Pertinace reggeva l'imperio. Il capo dell'infelice Augusto, posto sopra una picca, fu portato al quartiere dai soldati, i quali tosto armarono i lor posti, cioè il castello pretorio, per paura del popolo.
Sparsa infatti in Roma così funesta nuova, non potea il popolo darsi pace per la perdita di sì buon principe, che tante cose in sì poco tempo avea fatto in servigio del pubblico, e più si conosceva che avrebbe fatto, se più lungamente fosse vivuto. Ognun fremeva, tutti piangevano, e smaniando uscirono per le piazze, per le strade, cercando gli assassini, gridando vendetta. Ma i senatori veggendo in tanta confusion la città, chi si ritirò alle sue case, e chi anche in villa per timore di peggio. Se crediamo ad Erodiano [Herod., Histor., lib. 2.], due dì passarono in questo ondeggiamento e turbolenza, senza che il popolo potesse vendicar la morte dell'infelice principe, e senza che i pretoriani movessero piede dalla loro fortezza. Dopo di che costoro, osservato che nulla si facea dal senato e dal popolo, misero in vendita il romano imperio. Merita nondimeno più fede Dione [Dio, lib. 73.], da cui impariamo, che essendo stato mandato da Pertinace per placare i pretoriani Flavio o sia Flacco Sulpiciano, suocero suo, già da lui creato prefetto di Roma e personaggio assai degno di quell'impiego: questi appena intese la morte del genero Augusto, che si diede a far brighe per divenire successore di lui nel trono. Ma Didio Severo Giuliano, che intese messa all'incanto l'imperial dignità, corse anch'egli al mercato, e stando alle mura del quartiere de' pretoriani, cominciò ad [641] esibir danari più dell'altro [Spartianus, in Jul.]. Era Giuliano, di nobil casa nativo di Milano. Dione [Dio, lib. 73.] chiama quella città patria di lui, e vi fu relegato da Commodo per sospetto che fosse complice della pretesa congiura di Salvio Giuliano. Discendeva, per via di padre o pur di madre, dal celebre giurisconsulto Giuliano. Nato nell'anno 133 di Cristo, avea passati i suoi anni in vari impieghi civili e militari con riputazione, governate provincie, ottenuto il consolato in compagnia di Pertinace. Parlano indifferentemente dei di lui costumi gli scrittori [Herodianus, lib. 2.], facendolo gli uni un avaro, altri un crapulone. Dione, ch'era forte in collera contra di lui, giugne fino a dire, che fu dedito alla magia. Convengono poi tutti in dire, ch'egli era sommamente denaroso, e che con tal fiducia si fece innanzi per comperar l'imperio da chi volea venderlo. Entro il quartiere de' pretoriani si trovava anche Sulpiciano, siccome dissi, a questo traffico. Andavano innanzi indietro sensali per vedere chi più offeriva; ed era già a buon segno Sulpiciano, coll'aver promesso ventimila nummi per testa, che da alcuno son figurati quattrocento scudi romani, o filippi, ed a me paiono somma eccessiva. Ma restò superiore Giuliano con prometterne venticinquemila, dicendo anche di averli in cassa e con far conoscere ai pretoriani, che facevano un mal contratto accordandosi coll'altro, il quale, siccome suocero di Pertinace, avrebbe saputo ben vendicarlo. Viva dunque l'imperador Giuliano, gridarono allora i pretoriani, tanto più inclinati a costui, perchè prese il nome di Commodo, e si mostrò amico della di lui memoria. Dopo aver promesso, secondo le loro istanze, di non nuocere a Sulpiciano, creò prefetti del pretorio Flavio Geniale e Tullio Crispino.
Verso la sera s'inviò Giuliano alla [642] volta del senato [Dio, lib. 73.], scortato più del solito da una copiosa masnada di pretoriani, tutti in armi, come se andassero a battaglia per timore del popolo. Allora i senatori, ancorchè in lor cuore detestassero questo mercatante della dignità imperiale, e fra gli altri Dione sapesse di non essere molto in grazia di lui, perchè caro già a Pertinace, e perchè in trattar varie cause avea aringato forte contra del medesimo Giuliano; pure ognun di essi, accomodandosi al tempo, andò frettolosamente alla curia. Comparso colà Giuliano, parlò senza giudizio, chiamando sè stesso degnissimo dell'imperio, dicendo di essere venuto solo, acciocchè il confermassero imperadore, quando seco avea tante schiere d'armi, e molti di essi soldati nello stesso senato, che poteano dar polso a tali preghiere. Mostrò ancora di conoscere ch'essi l'odiavano. Ciò non ostante fu confermato e passò al palazzo. Prima di cena fece dar sepoltura al corpo di Pertinace. Non avea detto una parola di lui nel senato, e non ne disse mai più per non dispiacere ai pretoriani. Vuole Sparziano ch'egli cenasse con della malinconia. Dione, all'incontro, ch'egli si mostrò allegro, giocò ai dadi, e fece entrare in sua camera Pilade ballerino con altri buffoni. Furono la mattina seguente senatori e cavalieri ad inchinarlo e a rallegrarsi, ed egli con somma cortesia accolse ognuno. Una mascherata era quella, perchè gli uni da burla si congratulavano, ed egli fingeva di credere ciò che sapea non essere vero [Spartianus, Dio, Herodian.]. Si portò egli dipoi al senato, ed allorchè era per fare un sagrifizio, il popolo cominciò con alte voci a gridare ch'egli era un parricida, un usurpatore dell'imperio. Giuliano, senza alterarsi, mostrò loro la borsa come promettendo loro un donativo, o pur colle dita accennò quante migliaia volea donar loro. Ed essi più che mai incolleriti gridavano: Non ne vogliamo; no, che non ne vogliamo, [643] e gli gittarono de' sassi. Perdè allora la pazienza Giuliano, ed ordinò ai soldati di guardia di ammazzare i più vicini. Il che fatto, il popolo più che mai andò caricando di villanie lui, ma più i soldati. Indi corse a pigliar l'armi, e si ridusse nel circo, dove si fermò tutta la notte senza prender cibo, e nè pure un sorso d'acqua, facendo intanto istanza, che si chiamasse a Roma Pescennio Negro, governator di Soria, colle sue legioni. Nel dì seguente deposte l'armi, se ne tornarono alle lor case, e cessò la tempesta. Ora se il senato, se il popolo romano non sapea sofferire un imperadore, per via sì ignominiosa portato al trono, aveano ben ragione. Questo funestissimo esempio insegnò a tanti altri indegni e tiranni di occupar da lì innanzi l'augusto soglio di Roma; aprì la porta ad infinite guerre civili, che andremo raccontando, e fu infine la rovina dell'imperio romano, col prevalere i Barbari, e soperchiare il corpo, che a poco a poco si andò disciogliendo, della romana repubblica. Nè si vergognò Giuliano di prendere tutti i titoli più onorevoli degli altri imperadori; fece anche dar quello di Augusta a Mallia Scantilla sua moglie e a Didia Clara sua figliuola, maritata con Cornelio Repentino, a cui conferì la prefettura di Roma. Per attestato di Erodiano [Herodian., Hist., lib. 2.] con tutto il votare de' suoi scrigni, e col ricorrere allo smunto erario imperiale, non trovò tanto da pagare tutto il promesso regalo ai pretoriani, i quali perciò rimasero disgustati di lui: laddove Sparziano [Spartian., in Jul.] slargando la bocca, scrive che avea promesso a cadauno venticinquemila nummi, e ne pagò trentamila. Non si sa ch'egli fosse crudele; le finezze e carezze che facea a tutti erano incredibili; ma specialmente le praticava coi senatori, che vi trovavano dell'affettazione. I conviti suoi furono frequenti; le tavole superbamente [644] imbandite; ma il cuore de' grandi e del popolo era sempre lo stesso.
Tre principali eserciti si contavano allora nel romano imperio comandati da tre insigni generali. Quello dell'Illirico e della Pannonia ubbidiva a Lucio Settimio Severo: quello della Bretagna a Decimo Clodio Albino: e quello della Soria, il governo della qual provincia era in que' tempi il più riguardevole di tutti, a Cajo Pescennio Negro. Perchè a Pescennio arrivò ben tosto l'avviso di essere chiamato in aiuto del popolo romano, altro non occorse, perchè egli si facesse proclamar Imperadore dal suo esercito, e dal numerosissimo popolo della città di Antiochia. Ma Settimio Severo, verisimilmente mosso con segrete lettere da qualche senatore, che lui considerava miglior testa, che gli altri due, oltre all'esser egli più vicino, e all'aver più forze al suo comando, nè pur egli tardò ad assumere il titolo d'Imperatore Augusto in Carnunto città della Pannonia. Per non aver poi da contendere con due avversarii nel medesimo tempo, prese il partito di guadagnar Albino, dichiarandolo Cesare, con una specie di adozione: trappola, che a lui ben servì, perchè Albino ricevute le lettere di Severo, le quali non si poteano scrivere più tenere da un padre ad un figliuolo, non pensò più a far novità e movimento alcuno. Secondo alcuni autori sembra che tale risoluzion di Severo verso Albino succedesse più tardi. Dione [Dio, lib. 73.] attesta, che si videro in questi tempi tre stelle intorno al sole, cospicuo a tutti, ed egli stesso chiaramente le osservò, o ne fu formato un cattivo presagio agli affari di Giuliano. Intanto tutte le città dell'Illirico sino a Bisanzio (cioè sino ad una città che avea riconosciuto Pescennio Negro) e le Gallie, e la Germania romana, si dichiararono per Settimio Severo; laonde egli senza perdere tempo si mosse coll'armata sua, per venire a dirittura a Roma, da dove prima di prendere la porpora [645] imperiale, aveva egli destramente ritirati i suoi figliuoli. All'avviso di tante novità a non pochi batteva forte il cuore in Roma, ma i più brillavano per l'allegrezza, nondimeno celata, per desiderio e speranza di veder a terra l'odiato Giuliano. Fu di parere il Relando [Reland., Fast. Consul.], che nelle calende di marzo agli ordinari consoli fossero sostituiti Flavio Claudio Sulpiciano e Fabio Cilone Septimiano. Pare che ciò dovesse succedere più tardi, citando egli un'iscrizione del Fabretti [Fabret., Inscript., p. 688.], posta nel dì 19 di marzo di quest'anno FALCONE ET CLARO COS. Anzi si vede un altro marmo presso il Grutero [Gruterus, Thesaur. Inscr., p. 475, n. 4.], dove a dì 5 di settembre sono mentovati gli stessi consoli. Ma non è ben certo, perchè molti non ne faceano caso dei consoli sostituiti. Per conto di Cilone una altra iscrizione pubblicata dal Doni, e riferita anche da me [Thesaurus Novus Inscription., pag. 345.], c'insegna essere stato il suo nome Lucio Fabio Cilone Septimiano. Ma nè pur apparisce che questi due fossero sostituiti; ed è malamente citato, in pruova di ciò, Erodiano. Abbiamo bensì da Dione [Dio, lib. 73.], che Silio Messala, verisimilmente sustituito a Falcone, dappoichè cadde di posto per l'accusa narrata di sopra, era console sul principio di giugno. D'altri consoli sostituiti in quest'anno parla il Relando, senza che se ne veggano le pruove.
Non si credeva Giuliano di aver a contendere se non con Pescennio Negro, quando gli arrivò la nuova, che anche Settimio Severo, avea alzata bandiera contra di lui. Allora si vide perduto. Precauzioni da ridere furono quelle ch'ei prese con fare che il senato dichiarasse nemici pubblici Severo e Negro con terribil bando ai soldati che loro ubbidissero; ma Severo assai informato era del cuore de' senatori. Spedì il senato anche dei deputati all'uno e all'altro, per esortarli ad ubbidire; ma Severo [646] guadagnò gli spediti a lui, e gl'indusse a parlare in suo favore all'armata. Aquilio Centurione, ed altri mandati da Giuliano, per assassinar i due nuovi imperadori, trovarono di aver che fare con gente più accorta di loro. Mise esso Giuliano in armi i suoi pretoriani, fece fare un trincieramento fuori di Roma con fosse; e mise delle buone porte e dei cancelli al palazzo imperiale. Dione presente a tutto confessa che non potea trattener le risa al mirare i pretoriani, avvezzi alle delizie, intrigati a ripigliare il mestier della guerra; meno ancora le soldatesche ne sapeano, che Giuliano avea fatto venire dall'armata navale di Miseno; e per gli elefanti, co' quali si sperava di atterrire i cavalli de' nemici, non si trovava chi li sapesse condurre. Roma sembrava oramai una città assediata, non vedendosi andar innanzi indietro altro che armi, cavalli ed attrezzi di guerra. Giuliano in questi tempi fece uccidere Emilio Leto, prefetto del pretorio, e Marzia, autori della morte di Commodo, sapendo che Severo era creatura di Leto, e temendo perciò di vedergli uniti contra di sè. Ma Severo, senza mettersi pensiero de' vani preparamenti di Giuliano, veniva a gran giornate verso l'Italia. A lui si davano tutte le città. Senza opposizione entrò in Ravenna, e s'impadronì della flotta solita a stare in quel porto. Tullio Crispino creato nuovamente prefetto del pretorio, e mandato da Giuliano per occupar quella flotta, se ne tornò indietro con poco gusto. Allora Giuliano non sapendo dove volgersi, ordinò che le vestali, i sacerdoti e il senato andassero incontro a Severo per fermarlo; e perchè trovò in ciò della contraddizione, avea disegnato di spingere i soldati nel senato, per isforzare i senatori ad ubbidire; e non ubbidendo, di fargli tagliare a pezzi. Tanto gli fu detto, che desistè da sì maligno pensiero, e mandò poi ordine al senato di dichiarar Severo collega dell'imperio, pensando con ciò di comperarsi la di lui [647] grazia. Il decreto fu fatto ed inviato a Severo, il quale per consiglio de' suoi lo rifiutò, perchè le sue forze e la conoscenza di quel che bolliva in Roma, gli prometteano molto più. Aveva egli fatto sapere ai pretoriani, che se stessero quieti, e gli dessero in mano gli uccisori di Pertinace, non farebbe lor male; e ne scrisse a Veturio Macrino, con dargli speranza di crearlo prefetto del pretorio. S'egli poi mantenesse la parola, nol so dire; certo è bensì, che promosse a tal carica Flavio Giovenale. Continuato poscia il viaggio, le milizie dell'Umbria, che doveano guardare i passi dell'Apennino, si unirono con esso lui, ed intanto i pretoriani abbandonarono Giuliano. Allora costui restò in isola, e in braccio alla disperazione [Dio, lib. 73. Spartianus, in Jul. Herodian., lib. 2.]. Indarno avea tentato di rinunziar l'imperio a Claudio Pompejano, personaggio di gran senno, che si scusò colla sua vecchiaia; indarno fece scannar molti fanciulli, credendo per magia di conoscere il suo destino. Il senato adunque, subito che fu assicurato da Silio Messala console, che non vi era più da temere de' pretoriani, proferì la sentenza di morte contra di Giuliano, usurpator dell'imperio; dichiarò imperadore Severo, con far una deputazione di cento senatori che andassero ad incontrarlo, e decretò gli onori divini a Pertinace. Probabilmente ciò fu sul fine di maggio, o in un dei primi due giorni di giugno. Furono inviati alcuni a tagliar la testa a Giuliano, che restò ben servito, nè altro seppe dire, se non: Che male ho io fatto? a chi ho io tolta la vita? tardi conoscendo di aver impiegati i suoi tesori per comperarsi un fine sì miserabile. Permise poi Severo, che il di lui corpo trovasse riposo nella sepoltura de' suoi antenati.
Ora Severo, uomo sommamente guardingo e diffidente, massimamente dopo avere scoperto le già mandate persone per assassinarlo, era dalla Pannonia [648] marciato fin qui in mezzo ad una guardia di secento soldati scelti, i quali mai non si cavarono la corazza, ed accompagnato dall'armata sua, come se fosse in paese nemico. A Narni se gli presentarono i cento senatori deputati che prima della udienza furono ben ricercati se aveano armi sotto [Spartianus, in Sev. Herodian., lib. 3.]. Li ricevè Severo con della maestà, e nel dì seguente, dopo averli regalati, diede loro licenza di ritornarsene a Roma, con facoltà nondimeno di restar chi volesse con lui. Vicino a Roma mandò ordine ai pretoriani di venire ad incontrarlo senz'armi, e in abito di pace e di festa. Aveva egli fatto giustiziare gli uccisori di Pertinace. Venuti che furono, fattili attorniare dalle sue genti armate, all'improvviso ordinò che fossero presi tutti, e dopo aver loro fatto un aspro rimprovero per le iniquità commesse in addietro, volle che fossero spogliati dei lor pugnali, o spade che fossero, delle vesti, e fin della camicia; e che sotto pena capitale stessero cento miglia lungi da Roma, con riconoscere da lui per grazia grande, se donava loro la vita. Svergognati e colla testa bassa se ne andarono costoro, ben pentiti di essere capitati colà disarmati. Furono loro tolti anche i cavalli; e Dione [Dio, lib. 72.] racconta che un di questi cavalli scappò per tener dietro al suo padrone nitrendo. Accortosi il soldato di questo, tanto era turbato l'animo suo, che rivoltosi uccise il cavallo, e poi sè stesso. Nè tardò Severo a mandar guernigione nella fortezza dei pretoriani, e ad impossessarsi di tutte le lor armi ed arnesi. Fece dipoi l'entrata sua in Roma, se crediamo a Sparziano, armato di tutte armi. Dione che ne sapea più di lui, siccome presente a tutto, scrive ch'egli venne a cavallo sino alla porta, e quivi smontato si vestì da città, e a piedi vi entrò. Era tutta la città in festa, e i cittadini coronati di lauro e di fiori, ornate le strade di preziosi addobbi, lumi e [649] profumi dappertutto; e tutti i senatori magnificamente coi loro roboni il corteggiavano col popolo affollato, che assordava il cielo con viva e con alte acclamazioni, gareggiando ognuno per mirar questo novello padrone. Con tal pompa andò Severo al Campidoglio, dove nel tempio di Giove fece i sacrifizii; e dopo aver visitato altri templi, passò a riposar nello imperial palazzo. Il resto delle azioni sue spettanti a quest'anno mi sia lecito di riserbarlo al seguente.
Anno di | Cristo CXCIV. Indizione II. |
Vittore papa 9. | |
Settimio Severo imperad. 2. |
Consoli
Lucio Settimio Severo Augusto per la seconda volta, e Decimo Clodio Settimio Albino Cesare per la seconda.
Si sa che Severo Augusto era stato ornato di un consolato straordinario, con avere avuto per suo collega Apulejo Rufino; ma non se ne sa l'anno. Molto meno ci è noto quando Albino fosse console la prima volta. Ci assicurano le medaglie [Mediobarbus, in Numism. Imper.] che anch'egli procedette in quest'anno console per la seconda volta. Severo, che con questi onori voleva addormentarlo, fece anche battere monete ad onor suo; sicchè ognun lo avrebbe creduto il Beniamino di Severo. Il nome di Settimio a lui dato nelle stesse medaglie ci fa intendere che Severo lo avea adottato per figliuolo; se con retto cuore poi, non istaremo molto ad avvedercene. In una iscrizione riferita dal Cupero e dal Relando [Reland., in Fastis Consul.], Albino console è chiamato Lucio Postumiano. Ma venendo quel marmo dal magazzino fallace del Gudio, non se ne può far capitale; quando pur non volessimo che ad Albino Cesare, appellato nelle medaglie Decimo Clodio, fosse sostituito un altro Albino: il che non è credibile. Venga ora meco il lettore a conoscere chi fosse Lucio [650] Settimio Severo nuovo Augusto [Spartianus, in Sever.]. Era egli per nascita Africano, perchè venuto alla luce in Leptis, città della provincia Tripolitana, nell'anno 146 della nostra Era, a dì undici d'aprile. Senatoria fu la sua famiglia. Due suoi zii paterni erano stati consoli. Suo padre portò il nome di Marco Settimio Gela. Esso Settimio Severo giovinetto studiò lettere latine e greche in Africa [Eutrop., in Breviar.]; gran profitto fece nell'eloquenza e nella filosofia de' costumi; e venuto dipoi in età di diciotto anni a Roma fu condiscepolo di Papiniano [Spartianus, in Caracalla.], studiando la giurisprudenza sotto Scevola, insigne legista di questi tempi. Nondimeno Dione [Dio, in Excerptis Vales.], che intimamente il conosceva, trovò in lui un buon genio, ma non molta abilità per l'eloquenza e per le scienze. Diedesi anche a far l'avvocato, ma con poca fortuna. Aveva egli portato seco a Roma il fuoco africano [Spartianus, in Caracalla.]; e però la sua gioventù fu piena di furore, ed anche di delitti, ed accusato una volta d'adulterio, la scappò netta per grazia di Salvio Giuliano, di cui poscia procurò la rovina. Sotto Marco Aurelio entrò negli impieghi civili, poscia nei governi; e trovandosi in Africa legato del proconsole, si racconta che, camminando egli a piedi un giorno colle insegne avanti della sua dignità, un uomo plebeo della sua patria Leptis, vedutolo in così nobil carica ed accompagnamento, per allegrezza corse buonamente ad abbracciarlo, dicendogli: O paesano caro. Severo gli fece dare una man di bastonate per esempio agli altri, affinchè più rispettassero i magistrati romani. Scrivono ancora ch'egli consultò uno strologo africano, il quale, veduta ch'ebbe la di lui genitura, gliela restituì dicendo: Dammi la tua, e non quella degli altri. Giurò Severo, che era la sua; ed allora gli fu predetto quanto poscia avvenne. Di sì fatte predizioni e [651] di augurii presi da' sogni e da varii accidenti, nel che non poco deliravano una volta i Gentili, parlano molto gli storici antichi. Io, siccome vanità o fole, non le reputo degne di menzione. Passò poi Severo per impieghi militari al governo della Gallia Lionese. Fu console, proconsole della Pannonia, della Sicilia, e finalmente dell'Illirico, dove stando, le rivoluzioni di Roma aprirono a lui strada per salire sul trono.
Cominciarono di buonora i Romani a provare che duro maestro fosse questo padrone [Spartianus, in Severo.]. Da che egli fu entrato in Roma, i soldati suoi co' cavalli presero alloggio, e fecero stalla ne' templi, ne' portici, e dovunque loro piacque; e a buon mercato comperavano quel che loro occorreva, perchè non volevano pagare un soldo. Un gran dire e paura per questo era nella città. S'aggiunse che ito nel giorno seguente Severo in senato, quei soldati cominciarono con alte grida a pretendere un'esorbitante somma di regalo da esso senato, cioè quella stessa che fu pagata all'esercito, allorchè s'introdusse in Roma Ottavio Augusto: quasi che fosse costato loro assai di pena il far entrare in Roma il loro imperadore. Durò fatica lo stesso Severo a quetar quel tumulto, con far loro pagare, o promettere una somma minore, cioè dugento cinquanta dracme per testa. Era poi inveterato costume [Dio, lib. 74.], che le guardie degli Augusti si prendessero dalla Italia, Spagna, Macedonia e Norico, siccome persone di bell'aspetto e trattabili ne' costumi. Gran mormorazione insorse, perchè Severo a formar quelle compagnie badò solamente alla fortezza, scegliendo perciò gente tutta di orrido aspetto, di linguaggio che facea paura, di costumi salvatici e bestiali. Accrebbe anche il numero d'esse compagnie con grave spesa del pubblico. Ma questo fu rose e viole in paragon di quello che vedremo nell'andare innanzi. Sapeva [652] Severo quanto fosse caro ai Romani Pertinace, quanto lodata la forma del suo governo; e però da uomo accorto, per lusingar il popolo, unì ai suoi nomi quello ancora di Pertinace [Herodianus, lib. 2.]. Allorchè fu nel senato parlò con assai cortesia e bontà, promettendo di gran cose, e sopra tutto di voler prendere per suo modello Marco Aurelio e Pertinace. Nè solamente promise e giurò di non far mai morire alcun senatore [Dio, lib. 74.], ma ordinò ancora, che si formasse un decreto che quello imperadore, il quale altramente operasse, e chiunque a ciò gli prestasse mano, eglino coi lor figliuoli fossero tenuti per nemici della repubblica. Si poteva egli desiderar di più? Ma se ne dimenticò ben presto Severo. Giulio Solone, che avea steso quel decreto, fu il primo a provarne l'inosservanza, e dopo lui tanti altri, siccome vedremo. Contuttociò al basso popolo le prime azioni di Severo fecero concepire molta stima ed affetto per lui; ma quei che conoscevano qual volpe si nascondesse sotto quella pelle d'agnello, andavano l'un all'altro dicendo all'orecchio: E sarà poi così? In fatti fu Severo fornito di mirabili doti per governar bene un imperio, ma insieme di terribili difetti per far un gran male; fra i quali due specialmente toccherò qui, cioè non solamente la severità corrispondente al suo cognome, ma la crudeltà e la poca fede ch'egli non osservava giammai, se non quando gli tornava il conto.
Per guadagnarsi maggiormente l'affetto popolare, diede Severo un congiario, e volle far il funerale e l'Apoteosi di Pertinace. Questa magnifica funzione vien descritta da Dione [Ibidem.] con tutte le sue circostanze. L'orazion funebre in lode di lui la recitò il medesimo Severo. I lamenti e i pianti per la rinnovata memoria di sì buon principe furono infiniti: che non gli elogi fatti in vita dei [653] regnanti, ma l'amore e il desiderio dei popoli dopo la lor morte son la vera pruova del merito d'essi. Con questa pompa i Romani pretesero di formare un dio di Pertinace; pure non ne stette egli certamente meglio nel mondo di là. Parimente a Severo furono accordati o confermati tutti i titoli e l'autorità consueta degli altri imperadori; e probabilmente non si tardò a conferire il titolo di Augusta a Giulia sua moglie, di nazione soriana, da lui sposata prima dell'anno di Cristo 175, la quale gli avea partorito Bassiano, che fu poi Caracalla imperatore, e Geta, de' quali si parlerà a suo tempo. Maritò anche Severo due sue figlie, l'una a Probo, l'altra ad Aezio, i quali egli arricchì dipoi e promosse al consolato, non si sa in qual anno. La prefettura di Roma fu da lui appoggiata a Domizio Destro. Diede ancora buon sesto all'annona, sbrigò molte cause, e quelle principalmente di alcuni governatori accusati di avanie ed ingiustizie, gastigando rigorosamente che si provò delinquente. Non si fermò egli in Roma se non un mese, ed in quel tempo usò una mirabil diligenza e fretta nel prepararsi per far guerra a Pescennio Negro, che avea preso il titolo d'Imperadore in Soria, comandando già a tutte le provincie dell'Asia ed anche a Bisanzio. Avea Severo avuta l'attenzione, prima di arrivare a Roma, di spedire Fulvio Plauziano a far prigioni i figliuoli di Negro [Spartianus, in Severo. Herodianus, lib. 2.]; ed egli poi giunto a Roma fece ritenere gli altri di qualunque magistrato ed uffiziale che fosse in Soria, comandando nondimeno che fossero tutti ben trattati. In Roma non si udì mai Severo dir parola di esso Negro. Solamente studiò egli indefessamente di far leva di gente da tutte le provincie, di adunare una possente flotta da ogni parte d'Italia, e di ordinare alle soldatesche lasciate nell'Illirico di marciare verso il Levante. Non si può assai dire, che spirito vivo e vigoroso fosse quel di Severo; [654] quanta la di lui attività, l'ardire e la prontezza nel concepir le imprese, non meno che nell'eseguirle; quanta la penetrazion della sua mente, per cui prevedeva acutamente l'avvenire, e trovar ripieghi e spedienti, senza guardare a spesa ne' bisogni, senza curarsi punto di quel che si dicesse di lui, purchè riuscisse ne' suoi disegni. Però quando men se l'aspettava la gente, mise in marcia il raunato esercito, e verisimilmente nel luglio dell'anno precedente, partendo egli in persona da Roma, per non lasciar tempo a Pescennio Negro di maggiormente assodarsi in Asia. Provvide nello stesso tempo alla sicurezza dell'Africa. Una malattia dipoi sopraggiuntagli in cammino, la lunghezza del viaggio necessario per condurre sì lontano una poderosa armata per terra, perchè non potea tanta gente per mare passar a dirittura in Soria, e il tempo occorrente per unir tante forze da varie parti, pare che non gli lasciassero tempo da far progressi nell'anno suddetto, se non che alcune medaglie (dubbiose nondimeno) cel rappresentano Imperadore per la seconda volta [Mediobarb., in Numism. Imperat.], benchè non apparisca quando tale foss'egli proclamato per la prima.
Cajo Pescennio Negro, soprannominato Giusto nelle monete, contra di cui Severo faceva questi preparamenti [Spartianus, in Pescennio Negro.], e che fu creduto nativo da Aquino, di famiglia equestre, da giovane si svergognò colla sfrenata sua libidine; ma impiegato nella milizia, da tutti sempre fu riconosciuto e lodato per uomo di raro coraggio, e sopra gli altri geloso della disciplina militare, senza mai sofferire che i suoi soldati facessero estorsione alcuna ne' paesi per dove passavano o dove si fermavano. Arrivò sotto Commodo ad essere console, ed inoltre, per intercessione di quel Narciso atleta, che strangolò poi lo stesso Commodo, cioè d'uno che in quella sfacciata corte avea, come tant'altra canaglia, gran polso, ottenne [655] il governo della Soria, dove si affezionò que' popoli con permettere loro quanti spettacoli voleano, dietro a' quali era quella gente perduta, e dove, in fine, benchè vecchio, vestì la porpora imperiale. Tuttochè egli sapesse di essere desiderato dal popolo romano, e probabilmente anche da una parte de' senatori, pure niuna fretta giammai si fece per venir alla volta di Roma. Le delizie e i divertimenti di Antiochia l'aveano troppo incantato [Dio, in Excerptis Vales.]. Quivi si pavoneggiava egli dell'alta sua dignità, si riputava un novello Alessandro, e intanto nulla facea, persuadendosi forse che senza fatica sua cederebbe Giuliano Augusto, ed allora con tutta pace egli se ne anderebbe a sedere sul trono cesareo in Roma stessa. Restò egli dipoi sommamente sorpreso all'intendere ad un punto stesso ucciso Giuliano, e Severo pervenuto a Roma, e concorsi in lui i voti del senato e popolo romano. Allora si svegliò dal sonno, allora diede ad ammassar gente, ad implorar soccorsi dai re vicini, e guernir di milizie i passi massimamente del monte Tauro. In persona andò egli a Bisanzio, per ben munire di gente e di fortificazioni quella città, troppo importante, attesa la sua situazione, e più perchè solamente pel suo stretto si soleva passare dalle armate romane in Asia [Spart., in Severo et Pescennio.]. Andò anche a Perinto, dove seguì un combattimento svantaggioso per la parte di Severo, e da cui prese motivo il senato romano di dichiarare Pescennio Negro nemico della repubblica. Se sussiste ciò che narra Sparziano, dopo quella vittoria vennero in poter di Negro la Tracia, la Macedonia e la Grecia; ed egli allora andò ad offerir a Severo, che il prenderebbe per collega nell'imperio: al che altra risposta non diede Severo se non una risata. Ma non è facilmente da credere che Pescennio stendesse tanto l'ali, perchè Severo non gliene lasciò il tempo. Arrivò in quest'anno l'Augusto Severo sotto Bisanzio [656] col grosso dell'armata sua, e ne imprese l'assedio [Herodianus, lib. 3.]; ma conosciuto essere troppo duro quell'osso, dopo aver lasciata ivi gente bastante a tenerla assediata o bloccata, passò col rimanente dell'esercito suo lo stretto, valendosi della flotta seco condotta. Appena arrivò a Cizico città della Misia [Dio, in Excerptis Valesianis.], che gli fu a fronte Emiliano, stato governator della Soria prima di Negro, e, presentemente proconsole dell'Asia, che, sposato il partito di esso Negro, era divenuto suo generale. Godeva questi il credito di essere una delle migliori teste di allora; ma perchè n'era persuaso anch'esso, ed, oltre a ciò, passava parentela fra lui e Pescennio Negro, l'insolenza e superbia sua dava negli occhi a tutti. Ma gli calò ben presto il fumo. Andò in rotta l'esercito suo, ed egli da lì a non molto fatto prigione, per ordine de' generali di Severo perdè la vita [Spartianus, in Pescennio.]. Questa vittoria portò all'ubbidienza di Severo Nicomedia con altre città della Bitinia; ma Nicea ed altre tennero forte per Negro, il quale arrivato di poi con un gran nerbo di armati e raccolti gli sbanditi, fra essa Nicea e la città di Cio venne ad un secondo fatto d'armi [Dio, lib. 74.], che fu assai sanguinoso e dubbioso, con dichiararsi in fine la vittoria in favor di Candido generale di Severo. Dopo di che fece il vincitore Augusto esibire a Negro un onorato e sicuro esilio, se volea deporre l'armi; ma prevalendo i consigli di Severo Aureliano, che avea promesso le sue figliuole ai figli di Negro, quasi rigettò ogni offerta [Spartianus, in Pescennio.]. Ridottosi poi Pescennio Negro al monte Tauro, afforzò tutti quei passi; e perchè gli venne nuova che Laodicea e Tiro, per odio ed invidia che portavano ad Antiochia, aveano alzate le bandiere di Severo, spedì contra di esse città alquante brigate di Mori, che dopo un fiero sacco fecero del resto con incendiarle. [657] Severo dipoi le rimise in piedi. Allorchè giunse al Tauro fra la Cappadocia e la Cilicia l'armata di Severo [Herodianus, lib. 3.] trovò chiusi talmente que' passi, che impossibil era l'inoltrarsi. Fermatisi ivi i soldati tutti per qualche giorno, aveano già smarrito il coraggio, si trovavano anche disperati, quando ecco all'improvviso una dirottissima pioggia con neve (segno che si avvicinava il fine dell'anno) la quale, formati dei torrenti, schiantò e distrusse tutte le sbarre e fortificazioni fatte in que' passaggi dall'oste nemica, la quale a tal vista prese la fuga, e lasciò all'armi di Severo comodità di valicar quelle montagne, e di calar nella Cilicia. Fu creduto, secondo il costume, questo avvenimento un chiaro segno del cielo favorevole a Severo. Perchè vo io conghietturando che il fine di questa guerra appartenga all'anno seguente, altro per ora non soggiugnerò, se non che Severo Augusto si truova nelle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.] battute nel presente, Imperadore per la terza volta, e ciò a cagion delle vittorie riportate da' suoi generali, come abbiam veduto di sopra.
Anno di | Cristo CXCV. Indizione III. |
Vittore papa 10. | |
Settimio Severo Imperad. 3. |
Consoli
Scapola Tertullo e Tinejo Clemente.
Questo Scapola console vien creduto quel medesimo che fu poi proconsole dell'Africa, fiero persecutor de' Cristiani, a cui Tertulliano scrisse il suo Apologetico. Sufficiente motivo di credere ci è, che al presente anno sia da riferire il fin della guerra di Severo contra di Pescennio Negro, perchè il miriamo nelle medaglie [Ibid.] dichiarato Imperadore per la quarta e quinta volta. Avea Negro avuto tempo di mettere in piedi una ben numerosa armata, essendovi concorsa in [658] gran copia la gioventù antiochena, armata nondimeno di poca sperienza ne' fatti della guerra. Si venne egli a postare alle porte della Cilicia vicino al mare, e alla città d'Isso, oggidì Lajazzo, ad un passo strettissimo, dove Dario ne' secoli avanti rimase sconfitto da Alessandro. Attaccossi [Herodian., lib. 3.] aspra battaglia un giorno fra i suoi e l'esercito di Severo, comandato da Valeriano ed Anullino suoi generali, di cui si vede la descrizione in Dione [Dio, lib. 74.]. Lungo ed ostinato riuscì il conflitto, ed erano già per restar vincitori quei di Negro nel vantaggio del sito, quando, turbatosi il cielo con tuoni e folgori, cadde un'impetuosa pioggia, che dando in faccia ad essi, non incomodava quei di Severo, perchè ricevuta alle spalle. Fu interpretato ancor questo avvenimento per una dichiarazione del volere del cielo, con accrescere il coraggio all'esercito di Severo, e scorare il nemico. In somma fu rotto il campo di Pescennio Negro con tale strage che vi restarono estinti ventimila de' suoi. Salvossi Negro ad Antiochia; ma poco stettero ad arrivar colà anche i vittoriosi Severiani; nè fidandosi egli di star ivi rinserrato, prese la fuga, disegnando di portarsi all'Eufrate. Ma essendosi renduta immediatamente Antiochia, fu con tal sollecitudine inseguito da' corridori nemici, che restò preso. Tagliatogli il capo, fu portato a Severo; ma, secondo Sparziano [Spartianus, in Pescennio.], fece egli quanta difesa potè, e ferito venne condotto a Severo, davanti al quale spirò. La vendetta che fece dipoi Severo de' partigiani di Pescennio Negro [Dio, in Excerpt. Valesianis.], gli acquistò il titolo di crudele, perchè non levò già la vita ad alcuno de' senatori che aveano seguitato l'emulo suo, per attestato di Dione autor più sicuro che Sparziano [Spartianus, in Severo.], il quale ne vuole uno ucciso, ma la maggior parte d'essi spogliò de' lor beni, e li relegò nell'isole. Fra questi si distinse pel suo [659] coraggio Cassio Clemente [Dio, lib. 74.], perchè condotto in faccia allo stesso Severo, francamente gli disse, che s'era unito con Negro, non per far contro a Severo, di cui non sapeva i disegni, ma bensì contro a Giuliano usurpator dell'imperio; e se non avea peccato chi avea preso il partito di Severo, per ottenere il medesimo fine, nè pur egli si dovea credere reo. Che se Severo avrebbe tenuto per traditore chi si fosse partito da lui per seguitar Negro, militava in favor suo la medesima ragione. Non dispiacque a Severo questa libertà di parlare, e gli lasciò la metà de' suoi beni. Per altro fece Severo privar di vita molti degli uffiziali di Pescennio Negro. Costoro, se pur vero ciò è che narra Erodiano [Herod., lib. 3.], per suggestione dello stesso Severo che teneva in suo potere i loro figliuoli, aveano tradito Pescennio; pure, ciò non ostante, Severo, dopo la vittoria, fece morir non meno essi che i loro figliuoli.
Stesesi l'inumanità di Severo alle città che aveano aderito a Negro. Quattro volte più volle del danaro, che anche per forza aveano ad esso Negro contribuito. Ma principalmente sfogò egli il suo sdegno contro ad Antiochia, privandola d'ogni suo diritto e privilegio, e sottomettendola a Laodicea, città che lo avea ben servito in questa occasione, ed emula già dell'altra; la qual prese allora il cognome di Settimia e di Severiana. Nulladimeno poco tempo passò, che alle preghiere di Caracalla [Spart., in Caracal.] suo primogenito restituì ad essa Antiochia il primiero onore. Molti, che niuna parte aveano avuto nell'affare di Pescennio Negro, nè l'aveano mai veduto, nè fatto alcun passo per lui, si trovarono involti in questa persecuzione, perchè Severo abbisognava di danaro, e ne volea per ogni verso: il che odioso il rendè in tutto l'Oriente. Ma egli facea e lasciava dire. Vero è che buona parte di cotali contribuzioni [660] impiegò in ristorar le altre città, che per tener la sua parte aveano patito gravissime sciagure. E il bello fu che anche Albino Cesare [Capitol., in Clodio Albino.] inviò colà soccorsi di danaro, senza fallo per mostrare di secondar le idee di Severo, ma insieme colla mira di guadagnarsi l'affetto di quei popoli per li suoi fini. Accadde ancora che assaissimi, per sottrarsi alla fierezza di Severo, fuggirono nel paese dei Parti [Herod., lib. 3.]; e quantunque da lì a qualche tempo Severo pubblicasse il perdono per tutti, non pochi restarono fra i Parti, insegnando loro di fabbricar armi e di combattere alla maniera romana con danno poi del romano imperio. Rade volte la clemenza nocque ai regnanti; spessissimo la crudeltà: vizio tanto più sconvenevole a Severo in tal congiuntura, perchè scusabil era la risoluzion presa da quei popoli. Quanto alla moglie e ai figliuoli di Pescennio Negro, dopo la di lui morte furono mandati da Severo in esilio [Spartianus, in Severo et in Nigro.]; ma da che insorse la guerra con Albino, per timore che questi non facessero delle novità, Severo gli spedì tutti al paese dei più. Noi miriamo nelle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.] appellato Severo in questo anno Imperadore per la quinta volta, a cagione, come si può credere, della sconfitta di esso Negro.
Anno di | Cristo CXCVI. Indizione IV. |
Vittore papa 11. | |
Settimio Severo imperad. 4. |
Consoli
Cajo Domizio Destro per la seconda volta, e Lucio Valerio Messala Trasia Prisco.
Porta il Relando [Reland., in Fastis Consular.] sotto quest'anno delle leggi date Fusco II et Dextro Cos. Ma quelle appartengono all'anno 225. Una iscrizione bensì ho prodotto [661] io [Thesaurus Novus Inscription., p. 346, n. 2.], posta DEXTRO II ET FVSCO COS., la quale si dee, a mio credere, riferire al presente anno, in cui al console ordinario Prisco dovette essere prima delle calende di giugno sostituito Fosco; e questi poi probabilmente nel suddetto anno 225 arrivò al secondo consolato. Correva già il terzo anno che la città di Bizanzio era assediata dalle milizie di Severo Augusto. Colà dopo la rovina di Pescennio Negro si era rifuggita gran copia dei di lui uffiziali e soldati che maggiormente accesero gli animi di quegli abitanti alla difesa. Dione [Dio, lib. 74.] assai ampiamente descrive le fortificazioni di quella città munita di buone mura, perchè di marmo, guernita di alte torri, di bastioni e di ogni sorta di macchine da guerra, mirabili essendo fra l'altre le fabbricate da Prisco da Nicea, ingegnosissimo architetto. Circa cinquecento barchette aveano gli assediati, colle quali infestavano continuamente la gran flotta spedita colà da Severo. A nulla servì per atterrire ed esortare alla resa quei cittadini e soldati l'aver Severo inviata colà la testa di Pescennio Negro. Essi ostinati più che mai resisterono con far delle maraviglie che pareran di valore, ma che son piuttosto da dire di pazzia. Imperciocchè, in vece di procurare il perdono e qualche tollerabil capitolazione, quando niuna speranza restava lor di soccorso, amarono piuttosto di ridursi agli estremi, che di cedere. Ciò che non potè ottenere la forza operò la fame. Giunsero quegli abitanti, dappoichè ebbero consumati tutti i viveri, anche più schifosi, a mangiarsi l'un l'altro. Nè restando più altro scampo, gran parte d'essi volle tentar la fuga colle loro barchette. Aspettato dunque un gagliardo vento, s'imbarcarono; ma le navi romane furono loro addosso, fracassarono i loro piccioli legni, di modo che il dì seguente nel porto di Bisanzio altro non si vide che [662] cadaveri e pezzi di barche rotte. Allora le grida e i pianti di chiunque restato era nella città, furono oggetti di gran compassione, nè si tardò più a rendere la città. Entrativi i Severiani tagliarono a pezzi tutti i soldati che vi trovarono, e chiunque avea esercitato gli uffizii pubblici. Furono poi d'ordine di Severo smantellate tutte le mura e fortificazioni di quella riguardevol città, le terme, i teatri ed ogni altro più bello edifizio [Herodianus, lib. 3.]. Di peggio non avrebbono potuto fare i Barbari. Dione [Dio, lib. 74.], che dianzi avea veduta in tanta forza ed onore quella città, al mirarla poi ridotta a sì miserabile stato, non seppe già tacciar d'ingiustizia un tanto rigor di Severo, dappoichè con tanta ostinazione quel popolo volle cozzar col suo sovrano; ma non gli seppe già perdonare, che lo sdegno suo avesse privato l'imperio romano di un sì forte antemurale contro i tentativi de' Barbari. Confiscò Severo i beni di tutti gli abitanti; non solamente li privò di ogni privilegio, ma anche del titolo di città la lor patria, sottomettendo Bisanzio a guisa d'un borgo alla città di Perinto, che insolentemente dipoi esercitò la sua autorità sopra i Bizantini. Al valente ingegnere Prisco fu salvata la vita, e Severo di lui poscia utilmente si servì da lì innanzi nelle guerre.
Allorchè accadde la resa di Bisanzio, si trovava Severo nella Mesopotamia, voglioso di acquistarsi gloria in guerreggiare coi Parti e con altre di quelle nazioni. Per la grande allegrezza esclamò: Abbiamo in fine preso Bisanzio. Aveano i popoli dell'Osroene, e dell'Adiabene, gli Arabi e i Parti o prestato aiuto nella passata guerra a Pescennio Negro, o pure tentato di profittar della discordia di lui con Severo, saccheggiando il paese romano, e prendendo ancora alquante castella [Ibidem.]. Severo, a cui premeva di far rispettare in quelle parti il nome romano, [663] mosse guerra a que' popoli. Ma ritrovandosi di là dall'Eufrate in stagione bollente, in campagne prive d'acqua, e come soffocate dal gran polverio che facea la marcia dell'esercito, fu vicino a veder perire tutti i suoi. Trovata finalmente acqua, tornò ad ognuno il cuore in corpo. Sappiamo inoltre che Severo spedì Laterano, Candido e Leto a mettere a sacco e a fuoco le nemiche nazioni; nel che fu ben egli ubbidito, con aver eglino anche prese alcune città. Per tali successi non poco s'invanì Severo; ma dovette restar alquanto mortificata la di lui vanità, perchè nel mentre che si cercava con gran premura un certo Claudio, che faceva continue scorrerie e ruberie per la Giudea e per la Soria, costui con una mano de' suoi, come se fosse stato un tribuno delle armate romane, venne a trovar Severo nel campo, l'inchinò e gli baciò la mano, e poi se n'andò senza che mai riuscisse a Severo di averlo nelle mani. Da queste prodezze e da tali poco a noi note vittorie di Severo, si trova a lui dato nelle medaglie il titolo d'Imperadore per la sesta, settima ed ottava volta [Mediobarb., in Numism. Imp.]. Oltre a ciò il senato romano gli accordò i titoli di Adiabenico, Partico ed Arabico: il qual ultimo ci guida a credere ch'egli facesse guerra anche contra degli Arabi. Decretogli ancora un trionfo; ma, secondo Sparziano [Spartianus, in Severo.], Severo ricusò il trionfo, per non parere di voler gloria da una guerra e vittoria civile. Nè pur volle accettare il titolo di Partico, per non irritar maggiormente quella possente nazione. Nientedimeno in alcune medaglie di quest'anno il troviamo ornato di tutti e tre i suddetti titoli. Lo stesso si può osservare in varie iscrizioni. Andò poscia Severo a Nisibi, e dopo aver onorata quella città di molti privilegi, ne diede il governo a un cavaliere romano. Osserva Dione [Dio, lib. 74.] che Severo [664] si facea bello di aver accresciuto notabilmente in quelle parti il romano imperio, e provvedutolo di un forte baluardo colla città di Nisibi; la verità nondimeno era che Nisibi non costava se non ispese e guerre per cagion de' Medi e Parti che non la lasciavano mai in pace: il che in vece d'utile, portava seco un gran danno e dispendio. Ma nel mentre che Severo attendeva a guerreggiar in Oriente, se gli preparò un più pericoloso cimento in Occidente per la guerra a lui mossa nella Bretagna da Clodio Albino Cesare, di cui parlerò all'anno seguente. Per ora basterà di sapere che questo incendio minacciava anche la Gallia; e però all'Augusto Severo fu d'uopo di abbandonar la Soria, e di ricondurre in Europa per terra la grande armata divisa in più corpi, dopo averla ben rallegrata con un magnifico donativo. Racconta Erodiano [Herodianus, lib. 3.] ch'egli marciava con diligenza senza riposo, non distinguendo i dì delle feste da quei da lavoro. Non l'aggravava fatica alcuna, nè caldo, nè freddo, passando sovente per montagne piene di nevi, e colla neve che fioccava, camminando col capo scoperto, per animar i soldati alla fatica e alla pazienza; ed essi in effetto non per paura, nè per forza, ma per una bella gara al vedere l'esempio del principe, marciavano allegri. Era in somma nato Severo per fare il generale di armata. Allorchè egli pervenne [Spartianus, in Severo.] a Viminacio nella Mesia Superiore sulla ripa del Danubio, quivi dichiarò Cesare il suo figliuolo primogenito Bassiano, a cui mutò il nome, con farlo chiamar da lì innanzi Marco Aurelio Antonino. Questi è da noi ora più conosciuto pel soprannome di Caracalla, che gli fu dato dagli storici dopo morte, a cagion d'un abito di nuova invenzione ch'egli portò.
Anno di | Cristo CXCVII. Indizione V. |
Zefirino papa 1. | |
Settimio Severo imperad. 5. |
Consoli
Appio Claudio Laterano e Rufino.
La cagione per cui si sconcertò la buona armonia fra Severo Augusto e Decimo Clodio Albino Cesare, secondo il costume l'uno la rifondeva sull'altro. A Severo veniva riferito [Herodianus, lib. 3.] che Albino nella Bretagna si abusava dell'autorità a lui data, facendola più da imperadore che da Cesare. Anzi Dione aggiugne aver egli scritte lettere a Severo, con pretensione d'essere dichiarato Augusto. Dicevasi inoltre che alcuni de' principali del senato segretamente scriveano ad Albino, esortandolo a venirsene a Roma, mentre Severo soggiornava in Levante, con sicurezza d'essere ben accolto. Nè si potea negare che tutta la nobiltà romana inclinasse più ad Albino, per esser egli nato da nobilissima famiglia in Africa: almeno così pretendeva egli, benchè Severo ciò tenesse per falso. Era anche creduto d'indole mansueta ed amabile, contuttochè Capitolino [Capitolinus, in Albino.] diversamente ne parli. Certo è altresì che a Severo mancava il pregio della nobiltà, e l'opere sue spiravano solamente crudeltà. Dall'altro canto poi in cuor di Albino stavano non poche spine, perchè gli amici suoi gli andavano picchiando in capo che non si fidasse di Severo, uomo di niuna fede, pieno di frodi e d'insidie, il quale avendo due figliuoli, non si potea mai presumere che intendesse di esaltare e preferir Albino in pregiudizio d'essi. La diffidenza conceputa da Albino passò dipoi in certezza; imperciocchè Severo alterato contro di lui, sulle prime pensò di sbrigarsene con ricorrere ad inganni, e fingere ottima volontà verso [666] di lui in iscrivendo al senato e a lui, per poterlo assassinare. Spedì in Bretagna corrieri fidati con ordine di parlargli in segreto, e di ammazzarlo, se potevano; o pure di levarlo di vita col veleno. Albino, che stava all'erta, e prima di dar udienza facea ben indagare se le persone portavano armi addosso, accortosi di questa mena [Capitolinus, in Albino.], fece pigliar quei corrieri, e ricavata co' tormenti la verità, ordinò che fossero impiccati. Ed ecco manifestamente in rotta Albino e Severo. Allora, per consiglio de' suoi, Albino prese il titolo e le insegne d'Imperadore, e raunata gran copia di soldatesche, passò nel presente anno nella Gallia, dove si studiò di tirar nel suo partito quante città mai potè. S'ebbero ben a pentirne quelle che il seguitarono. Severo, che già era in marcia coll'esercito suo venendo dalla Soria, premise ordini pressanti, affinchè si fornissero di armati i passi dell'Alpi, per sospetto che Albino tentasse di penetrar in Italia. Racconta Dione [Dio, lib. 75.], che saltata fuori questa nuova guerra civile, gran bisbiglio e mormorazione ne fu in Roma. Amavano Albino, loro dispiacevano le conseguenze funeste della guerra per le tante spese e per lo spargimento del sangue de' cittadini; e però in pieno teatro se ne lamentarono. Venne intanto ordine al senato di pubblicar il bando contra di Albino, e tosto fu eseguito.
Anche nell'anno precedente si può credere che seguisse qualche conflitto nella Gallia fra le genti di Albino e quegli uffiziali che tuttavia conservavano la fedeltà a Severo, scrivendo Capitolino che i capitani d'esso Severo ebbero delle busse. Ed abbiam qui un'avventura curiosa narrata da Dione [Ibidem.]. Un certo Numeriano, che insegnava grammatica ai fanciulli in Roma, essendogli salito al capo un pensier bizzarro, se n'andò nella Gallia, e facendosi credere alla gente [667] un senatore spedito da Severo per mettere insieme un corpo d'armata, raccolse a tutta prima alcune poche truppe, colle quali diede la mala pasqua ad alquanta cavalleria d'Albino, e fece dipoi altri bei fatti in favor di Severo. Ne andò l'avviso ad esso Severo, che credendolo veramente senatore, gli scrisse lodandolo, e comandando che accrescesse il suo esercito. L'ubbidì Numeriano, nè solamente fece varie prodezze contra di Albino, ma inviò anche a Severo un milione e mezzo di danaro adunato in quelle contrade. Finita poi la guerra, si presentò a Severo, nè gli tacque cosa alcuna. Avrebbe potuto ottener molta roba ed onorevoli posti, ma altro non accettò che una lieve pension da Severo, bastante a farlo vivere in villa con tutta quiete. Stavasi anche Albino come in pace nella Gallia, godendo di quelle delizie, quando gli giunse la disgustosa nuova che Severo coll'esercito suo era già dietro a passar l'Alpi per entrar nella Gallia. Allora venne a postarsi a Lione con tutta l'oste sua. Succederono varie scaramucce [Dio, lib. 75.], e in un fatto d'armi riuscì alle genti di Albino di sconfiggere Lupo generai di Severo con istrage di molti soldati. Era impaziente Severo, e voleva una giornata campale, decisoria della gran lite, fidandosi molto nelle sue agguerrite milizie, avvezze già alle vittorie, che ascendevano a cinquantamila combattenti. Un egual numero si pretende che ne avesse anche Albino, gente di non minor valore e sperienza nel suo mestiere. Però attaccatasi la feroce e sanguinosa battaglia in vicinanza di poche miglia a Lione [Capitolinus, in Severo.] nel dì 19 di febbraio, amendue le parti combatterono con incredibil bravura ed ostinazione. Stette lungamente in bilancio la fortuna dell'armi, quando l'ala sinistra di Albino piegò, e fu interamente rovesciata sino alle sue tende, intorno allo spoglio delle quali si perderono i vincitori. Per lo contrario l'ala [668] destra diede una terribile percossa alle genti di Severo. Secondo lo stratagemma usato non poco allora, aveano quei di Albino fabbricate delle fosse coperte di terra, dietro alle quali stavano saettando mostrando paura. Inoltratisi i Severiani precipitarono dentro, laonde di essi e dei cavalli fu fatto un gran macello. Retrocedendo gli altri spaventati, misero in confusione ogni schiera. Allora accorse Severo coi pretoriani; ma fu così ben ricevuto da quei di Albino, che uccisogli sotto il cavallo, corse pericolo di restar morto o prigione. Erano già in rotta tutti i suoi, quando egli, stracciatasi la sopravveste e collo stocco nudo in mano, si mise innanzi a' suoi fuggitivi. La sua voce e presenza bastò a farli voltar faccia, e a ripulsare i nemici. Non s'era mosso finora Leto col suo corpo di riserva, e fu detto dipoi per isperanza che amendue gl'imperadori perissero, e che susseguentemente l'una e l'altra fazione desse a lui lo scettro imperiale, oppure che egli differisse tanto, per unirsi con chi fosse vincitore. Questa ciarla vien da Erodiano [Herodianus, lib. 3.], il quale aggiugne, da ciò essere proceduto che Severo, invece di ricompensar Leto, come gli altri generali, gli levasse nell'anno seguente la vita. Ora Leto, veggendo superiore Severo, con sì duro assalto piombò anch'egli addosso alle squadre di Albino, che finì di sconfiggerle. Ma immenso fu il numero de' morti e feriti non men dall'una che dall'altra parte; e se vogliam credere ad un'usata maniera di dire degli storici, il sangue scorreva a ruscelli nei fiumi, di maniera che se i vinti piansero, nè pure risero i vincitori. Il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron., ad annum 198.] riferisce all'anno seguente tutta questa tragedia; ma è ben più verisimile ch'essa appartenga all'anno presente.
La città di Lione, dopo la vittoria di Severo, divenne il teatro della crudeltà. Fin colà inseguì Severo i fuggitivi [Dio, lib. 71.], ed [669] entrate le sue genti in quella città, la misero a sacco, e poi la bruciarono. Erasi ritirato Albino in una casa sulle rive del Rodano. Allorchè prese la risoluzion di fuggire, non fu più tempo, perchè erano occupati i passi; però diede fine alla sua tragedia con uccidersi di propria mano [Capitolinus, in Albino.]. Altri il dissero ucciso da' soldati, o pure da un servo, e condotto mezzo morto davanti a Severo, il quale ne mandò il capo a Roma, con lettere al senato, dolendosi forte in esse, perchè tanti de' senatori avessero portato amore a costui, e desiderato di vederlo vincitore: il che atterrì non poco quell'augusto corpo. Sfogò poscia Severo la rabbia sua contro il cadavero dell'estinto Albino [Spartianus, in Severo.]; perdonò bensì a tutta prima alla moglie e a due figliuoli di lui; ma da lì a poco li fece svenare e gittare nel Rodano. Aveva egli avuta l'attenzione di far occupar tutta la segreteria d'Albino, per conoscere i di lui corrispondenti. Quanti ne trovò fece di poi morire. Tutta la famiglia d'Albino, e i suoi nobili amici della Gallia e della Spagna, perderono la vita, sì uomini che donne. Altrettanto avvenne appresso in Italia, perchè non si perdonò a persona scoperta parziale dell'estinto Albino. Era implacabil Severo contro a tutti; e perchè uno de' nobili infelici, che suo malgrado si trovò involto nel partito contrario, gli dimandò [Aurelius Victor., in Breviario.], cosa desidererebbe egli, se la fortuna gli fosse stata contraria, e si trovasse ora ne' panni di lui: crudelmente gli rispose: Soffrirei con pazienza quello che tu hai ora da sofferire [Spartianus, in Severo.], e il fece ammazzare. Tutti i beni di coloro che Severo condannò a morte, furono confiscati ed applicati all'erario privato d'esso imperadore, a cui riuscì facile di premiare ed arricchire tutti i suoi soldati e i lor figliuoli, perchè si trattò d'incredibil confisco. Non tornò poi così tosto [670] la quiete nella Gallia, essendovi restati dei partigiani d'Albino, che fecero testa, finchè poterono, con prevaler infine la maggior forza di Severo, il quale in questi tempi divise in due provincie la Bretagna, non la volendo più sotto il governo d'un solo. Poscia mossosi dalla Gallia a gran giornate, siccome suo costume era, sen venne a Roma, menando seco tutta l'armata per maggiormente atterrire i Romani, che tutti già tremavano, conoscendo che mal uomo fosse questo, e specialmente per le terribili lettere mandate innanzi. Entrò nella gran città, accolto con incessanti Viva dal popolo tutto laureato e in gala, e dal senato in corpo: acclamazioni nondimeno uscite dalla bocca, ma non dal cuore.
Furono lieti questi primi giorni, perchè egli diede un suntuoso regalo al popolo [Herodianus, lib. 3.], ed allargò la sua liberalità sopra i soldati, donando loro più di quello che mai avesse fatto alcuno de' suoi predecessori, con accrescere loro la porzione del grano, e conceder anche ad essi di poter portare anelli d'oro, e il tener mogli o pur donne in casa: cose non permesse dianzi dalla militar disciplina, e che servirono poi al loro lusso, e a snervar il vigore della milizia romana. Ma Severo, purchè si facesse amar dai soldati, null'altro curava, esigendo solamente d'esser temuto dagli altri. Andò poscia al senato, e confessa Dione [Dio, lib. 75. Herodianus, lib. 3.] che un gran ribrezzo corse per l'ossa sue e di tutt'i suoi colleghi, allorchè lo udirono entrar nelle lodi di Commodo Augusto, di cui avea già cominciato ad intitolarsi fratello [Spartianus, in Severo.], inveendo contro al senato perchè avea caricato esso Commodo d'ignominia, e dicendo che la maggior parte d'essi senatori menavano una vita più scandalosa di lui, e al pari di lui facevano da gladiatori. Passò ad esaltare Silla, Mario e i primi anni del governo d'Augusto, ne' quali di gran [671] faccende ebbero le mannaie e le scuri, pretendendo che questa fosse la maniera più sicura di quetare l'imperio, di estinguere le fazioni, di prevenir le ribellioni, e non già quella troppo dolce e pietosa di Pompeo e di Giulio Cesare, che fu la loro rovina [Aurelius Victor, in Breviario.]. Massime detestabili e contrarie alla vera politica; imperciocchè la crudeltà e l'eccessivo rigore fanno divenir segreti nemici anche gli amici; laddove la clemenza, adoperata a tempo, muta i nemici in amici, ed util pruova ne aveano sempre fatto i principi e buoni e saggi. Andarono a terminar questi tuoni in fulmini, perchè messe fuori le lettere scritte da vari senatori ad Albino, contò per grave delitto ogni menoma espression d'amicizia verso di lui. Perdonò, è vero, a trentacinque d'essi senatori per farsi credere clemente, e li trattò sempre da lì innanzi come amici; ma ne condannò senza processo a morte ventinove altri, fra' quali Sulpiciano suocero di Pertinace Augusto. Sparziano [Spartianus, in Severo.] ne nomina fin quarantadue della principal nobiltà di Roma, la maggior parte stati consoli, o pretori, o in altre riguardevoli cariche. Erodiano dice di più [Herodianus, lib. 3.], cioè ch'egli levò dal mondo i più nobili e ricchi delle provincie, sotto pretesto che fossero fautori d'Albino, ma effettivamente per sete dei lor beni, perchè egli era non mai sazio di raunar tesori. Tra i fatti morire, uno fu Erucio Claro [Dio, in Excerptis Vales.], già stato console. Gli prometteva Severo la vita, purchè volesse rivelare ed accusare chi aveva tenuto la parte d'Albino; ma egli protestò che morrebbe più tosto mille volte, che di far sì brutto mestiere, e si lasciò in fatti uccidere. Non così operò Giuliano, che s'indusse a far quanto volle Severo, e si salvò. Caro nondimeno gli costò questa vile ubbidienza, perchè Severo il fece ben ben tormentare, acciocchè più giuridiche [672] comparissero le di lui deposizioni. Osserva il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] che Tertulliano [Tertull., ad Martyres.] vivente in Africa in questi tempi animava i martiri cristiani a sofferir i tormenti e la morte coll'esempio di tanti nobili romani che Severo avea sagrificati al suo furore, nè merito alcuno acquistavano colla lor pazienza. Imperciocchè sotto Severo infierì di nuovo la persecuzion de' Pagani contro chi professava la fede di Cristo. Ed appunto si crede che in quest'anno san Vittore papa celebre terminasse col martirio, e che a lui succedesse Zefirino.
Ad una specie di frenesia attribuì Sparziano [Spartian., in Sev.] l'avere l'Augusto Severo preso ad onorar la memoria di Commodo Imperatore, con dichiararsi, come accennai, suo fratello: del che si truova memoria in qualche iscrizione. Volle egli inoltre che il senato suo malgrado decretasse gli onori divini a sì screditato Augusto: il che sempre più fa scorgere la pazzia di una religion tale, che dovea tener per dio un principe lordo di tutti i vizii. E fin qui era vivuto in pace quel Narciso atleta che strangolò Commodo. Severo, divenuto protettore e panegirista di Commodo, fece in quest'anno gittare costui nel serraglio dei lioni. Per essersi egli dichiarato fratello d'esso Commodo e figliuolo di Marco Aurelio [Dio, lib. 71.], Pollenio Sebennio, uomo avvezzo a proferir dei motti arguti, ebbe tanto animo di dire a Severo, che si rallegrava con lui, perchè avesse trovato il padre, quasi che il vero suo padre per la bassezza de' suoi natali non si sapesse. Pure il sì accorto Severo non si avvide della burla. Venne [Spartianus, in Severo.] appunto a trovarlo, non so dove, una sua sorella, maritata già poveramente in Leptis città dell'Africa, con un suo figliuolo; Severo la regalò da par suo, e creò anche senatore suo figlio; ma, vergognandosi ch'ella [673] nè men sapesse parlar latino, la rimandò a casa. In breve tempo quel figliuolo terminò i suoi giorni. Secondo i conti di Sparziano, accrebbe Severo in quest'anno gli onori a Bassiano suo primogenito, appellato già Marco Aurelio Antonino, e da noi chiamato Caracalla, disegnandolo suo successore, e facendogli dare dal senato gli ornamenti imperiali. Erodiano [Herod., lib. 3.] vuole che il dichiarasse anche collega nell'imperio; intorno a che hanno disputato gli eruditi, e i più convengono doversi riferire all'anno seguente cotesti onori, non essendo già probabile, come vorrebbe il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron., ad hunc annum.], che Severo concedesse in quest'anno la tribunizia podestà a Caracalla, e che solo nel seguente gli fosse confermata dal senato. Gran tempo era che il senato faceva tutto quanto comandavano i dominanti Augusti, e bastava che aprissero la bocca per essere tosto ubbiditi. Sembra poi, secondo il suddetto Erodiano, che in quest'anno l'Augusto Severo, dopo essersi fermato per qualche tempo in Roma, marciasse di nuovo coll'armata in Oriente: del che mi riserbo di parlare nell'anno seguente.
Anno di | Cristo CXCVIII. Indizione VI. |
Zefirino papa 2. | |
Settimio Severo imperad. 6. | |
Caracalla imperadore 1. |
Consoli
Saturnino e Gallo.
Perchè non paiono ben sicuri i prenomi di Tiberio e di Cajo, dati da taluno a questi due consoli, io non ho posto se non i loro cognomi. Certamente non era molto in uso di notare i consoli col prenome e cognome, lasciando andare i lor nomi. O sia che l'Augusto Severo nell'anno precedente, o pure nel presente s'inviasse in Levante, certo è che egli si mosse per fare una nuova guerra in [674] quelle parti. Sì Erodiano [Herodian., Histor., lib. 3.] che Sparziano [Spartianus, in Severo.] pretendono che niuna necessità vi fosse in questa guerra, ed averla Severo intrapresa unicamente per la sua capricciosa voglia di volere un trionfo, giacchè i Romani non solevano trionfare per le vittorie ottenute nelle guerre civili. Ma qui si truova la storia in gravi imbrogli, non tanto per determinare i tempi di tali imprese, che sono scuri e controversi fra gli scrittori moderni, quanto per esporre le imprese medesime, essendo troppo discordi fra loro Dione, Erodiano e Sparziano, cioè le uniche nostre scorte per gli affari di questi tempi. Dall'ultimo di questi scrittori abbiamo che Severo da Brindisi traghettò l'esercito in Grecia, e per terra continuando la marcia, arrivò in Soria. E qui Dione [Dio, lib. 75.] vien dicendo che, trovandosi occupato Severo nella guerra contro d'Albino, i Parti aveano agevolmente occupata la Mesopotamia, ed anche messo l'assedio alla città di Nisibi. Leto, che verisimilmente dopo la rotta data ad Albino, era stato spedito da Severo in quelle contrade, quegli fu che difese Nisibi. Però ecco contraddizione fra questo fatto e il dirsi da Erodiano e Sparziano che Severo, senza bisogno alcuno e per sola sete di gloria, entrò in questo nuovo cimento. E pur ciò è poco rispetto a quello che aggiugnerò. Scrive lo stesso Erodiano che il pretesto preso da Severo per tal guerra fu di vendicarsi del re d'Atra, che s'era dichiarato in favor di Pescennio Negro nella precedente guerra. Si partì egli dunque con pensiero di malmettere l'Armenia; ma prevenuto da quel re con regali, ostaggi e preghiere, comparve poi come amico in quel paese. Anche il re dell'Osroene Abgaro gli diede per pegno della sua fede i suoi figliuoli, e somministrò una gran copia di arcieri all'esercito romano. Poscia Severo, passato il paese degli Albeni, [675] entrò nell'Arabia Felice (cosa dura da credere), e dopo aver espugnate molte città e castella, e dato il guasto a quelle contrade, si portò all'assedio di Atra, città fortissima, sì per le sue mura, come per essere situata sopra una montagna e guernita di bravi arcieri. Fecero una terribil difesa gli Atreni, bruciarono le macchine degli assedianti; perì quivi gran quantità di Romani per le spade e saette de' nimici, ma più per le malattie che entrarono nel loro campo. Però fu forzato l'imperadore a levar l'assedio con rabbia e confusione incredibile, perchè, essendo avvezzo alle vittorie, ora gli parve d'essere vinto, perchè non avea vinto. Dipoi voltò l'armi contra dei Parti. Così Erodiano [Herodianus, lib. 3.]. Dione, all'incontro, scrive [Dio, lib. 75.], che i Parti, senza aspettar l'arrivo di Severo, se n'erano tornati alle case loro: e che Severo giunse a Nisibi, dove trovò che un grossissimo cignale avea buttato giù da cavallo ed ucciso un cavaliere. Trenta soldati appresso tanto fecero che uccisero quella bestia, e la presentarono a Severo, il quale non tardò a portar la guerra addosso ai Parti, chiamando Vologeso quel re che da Erodiano vien appellato Artabano. Succedette dipoi, secondo Dione, l'assedio infelice d'Atra. Ma perchè il medesimo storico mette due assedii di quella città, situata non so dire se nella Mesopotamia non lungi da Nisibi, o pur nell'Arabia, come vuole lo stesso Dione, pare che il primo si possa riferire all'anno presente; e tanto più perchè quell'autore lo mette intrapreso dappoichè Severo fu entrato in essa Mesopotamia. Noi abbiam le storie di Dione troppo accorciate e sconvolte da Sifilino.
Staccatosi da Atra l'Augusto Severo, se pur sussiste l'assedio suddetto nell'anno presente, mosse l'armi contra de' Parti. Vuole Erodiano [Herodianus, lib. 3.], che imbarcatesi le di lui soldatesche, fossero [676] per accidente trasportate dall'empito dell'acque nel paese d'essi Parti, mentre quel re se ne stava con tutta pace senza aspettare ostilità alcuna dai Romani; laddove Dione [Dio, lib. 75.] attesta che i Parti aveano poco prima fatto guerra nella Mesopotamia, e che Severo fece gran preparamento di barche leggere da mettere nell'Eufrate per assalire i medesimi Parti. Allorchè fu in ordine l'armamento navale, marciò l'armata romana, ed entrò in Seleucia e in Babilonia, abbandonate dai nemici, e poco appresso sorprese, o pur colla forza acquistò Ctesifonte, reggia in que' tempi de' Parti. Secondo Sparziano [Spartianus, in Severo.], ciò accade sul fin dell'autunno. Ne fuggì il re Vologeso, o sia Artabano, con pochi cavalli; furono presi i di lui tesori; permesso il sacco della città ai soldati, i quali, dopo un gran macello di persone, vi fecero centomila prigioni. Ma non si fermò molto l'imperadore in quella città per mancanza di viveri, e tornossene coll'armata piena di bottino indietro. Se non falla Sparziano [Spartianus, ibidem.], fu in questa occasione che gli allegri soldati proclamarono collega nell'imperio, cioè Imperadore Augusto, Marco Aurelio Antonino Caracalla, primogenito d'esso imperador Severo, e Cesare Geta suo secondogenito. Ora dai più si crede che solamente nel presente anno Caracalla conseguisse questo onore, e, per conseguente, il differire la presa di Ctesifonte all'anno di Cristo 200, come han fatto il Petavio, il Mezzabarba e il Bianchini, non sembra appoggiato ad assai forti fondamenti. Ho io rapportata [Thes. Novus Inscript., Clas. XV, p. 1035, num. 6.] un'iscrizione dedicata XIII. KAL. OCTOBR. SATVRNINO ET GALLO COS., cioè in quest'anno in cui Caracalla si vede appellato Imperadore Augusto, e dotato dell'autorità tribunizia e proconsolare. V'ha qualche medaglia [Mediobarbus, in Numismat. imperat.] che [677] ci rappresenta Severo sotto quest'anno Imperadore per la decima volta; il che è segno (quando ciò sussista) della vittoria riportata contra de' Parti. Con magnifiche parole diede Severo [Herodianus, lib. 4.] un distinto ragguaglio di queste sue vittorie al senato e popolo romano, e ne mandò anche la descrizione dipinta in varie tavolette che furono esposte in Roma. Nè fu minore la diligenza del senato in accordargli tutt'i più onorevoli titoli delle nazioni ch'egli diceva d'aver soggiogate; e l'adulazione inventò allora quello di Partico Massimo, che si comincia a trovar nelle iscrizioni e medaglie. A lui fu decretato il trionfo. Se crediamo al suddetto Sparziano [Spartianus, in Severo.], senza saputa, non che consenso di Severo, seguì la proclamazione di Caracalla Augusto; e perchè il padre o seppe o s'immaginò ciò fatto perchè egli pativa delle doglie articolari, o pur delle gotte ne' piedi, nè potea ben soddisfare ai bisogni della guerra, salito sul trono, e fatti venir tutti gli uffiziali dell'armata, volea gastigar chiunque era stato autore di quella novità. Ognun d'essi si gittò ginocchioni, chiedendo perdono. Terminò questa scena solamente in dir egli: Avete da conoscere in fine, essere la testa che comanda, e non i piedi. Al Salmasio questa parve una frottola di Sparziano. Il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] cerca di renderla verisimile con dire che Caracalla dovette far questo maneggio per escludere Geta suo fratello: il che dispiacque a Severo. O pure che ciò potè accadere nell'ultima guerra da lui fatta nella Bretagna, siccome vedremo. Son plausibili le di lui riflessioni; ma come sarà poi vero che Caracalla acquistasse nell'anno presente il titolo d'Augusto?
Anno di | Cristo CXCIX. Indizione VII. |
Zefirino papa 3. | |
Settimio Severo imperad. 7. | |
Caracalla imperadore 2. |
Consoli
Publio Cornelio Anulino per la seconda volta, e Marco Aufidio Frontone.
Di due assedii della città di Atra, siccome accennai, fatti dall'Augusto Severo, noi siamo accertati dallo storico Dione [Dio, lib. 75.]. Il primo, per attestato di Erodiano [Herodianus, lib. 3.], dovrebbe appartenere all'anno precedente, assedio calamitoso ed insieme frustraneo all'armata romana. Funesto riuscì sopra tutto il medesimo a due de' primi e più valorosi uffiziali. L'uno fu Giulio Crispo, tribuno de' soldati pretoriani. Questi, perchè si trovava stanco per le fatiche militari, e in collera al vedere che l'imperadore, per l'ostinata sua ambizione e vanità, consumava tante truppe intorno a quell'inespugnabil fortezza, cominciò a cantar quei versi di Virgilio nel libro undecimo dell'Eneide, dove Drance si duole che Turno fa perir senza ragione tanti de' suoi soldati. Riferito ciò a Severo, non vi volle altro, perchè egli il facesse tosto ammazzare, con dar poi quel posto ad un semplice soldato appellato Valerio, stato accusatore dello stesso Crispo. L'altro fu Leto, quel medesimo che già vedemmo principal autore della vittoria riportata da Severo contra di Albino; L'amavano forte i soldati, e perchè un dì non voleano combattere, se non erano guidati da lui, tal gelosia prese Severo per cagione di tanta parzialità mostrata da quella gente al suo generale, che a lui fece torre la vita. Dione ci rappresenta questo personaggio per uomo di rara prudenza negli affari civili, e di non minor prodezza nei militari, con attribuire l'indegna sua morte, non già all'aver egli meditato de' tradimenti [679] nella battaglia di Lione, come asserisce Erodiano e il suo seguace Sparziano, ma solamente all'abbominevole invidia ed inumanità di Severo. Ne ebbe poi tal rossore lo stesso Severo [Spartianus, in Severo.], che si diede a volere far credere che Leto contra sua volontà era stato ucciso dai soldati. Tornò dunque [Dio, lib. 75.] nell'anno presente esso imperadore all'assedio di Atra, dopo aver fatta gran provvisione di viveri e di macchine, perchè nulla a lui parea di aver fatto, se non superava quella forte rocca. Ma Iddio avea destinato questa medesima città per umiliare l'orgoglio di Severo. Vi perdè egli intorno anche questa volta un numero grande di milizie, e i nemici con bitume acceso fecero un falò di tutte le di lui macchine di legno, a riserva delle fabbricate da Prisco, ingegnere famoso di Nicea. Contuttociò essendo caduta una parte del muro esteriore, allorchè l'esercito a tal vista incoraggito dimandava di andare all'assalto, Severo nol volle, e fece sonar la ritirata. Ne fu data la colpa alla somma sua avarizia, perchè voce correa che in quella città si chiudessero immensi tesori, e massimamente in un tempio del Sole, che quivi era in gran venerazione; e Severo si figurava, che esponendo gli Atreni bandiera bianca, si avrebbe egli ingoiate tutte quelle ricchezze. Ma gli Atreni niun segno fecero di volersi dare; anzi la notte rifabbricarono, il meglio che poterono, la caduta muraglia. Venuto il dì seguente, Severo, trovate fallite le sue idee e fumando di collera, comandò all'esercito di dar l'assalto, ma niuno de' soldati europei il volle ubbidire, amareggiati troppo dalla vittoria loro tolta di mano nel dì innanzi dalla [680] insaziabilità di Severo. Per forza v'andarono i Soriani; ma gran sangue costò loro l'ubbidienza, e la città tenne forte. Tanta fu allora l'agitazion di Severo al vedere l'ammutinamento nei soldati, che essendo venuto uno de' suoi capitani a domandargli solamente cinquecento cinquanta soldati, co' quali si prometteva di entrar nella città, non potè contenersi dal dire a sentita d'ognuno: Ma onde prenderemo noi tanta gente? Sicchè, dopo venti giorni d'infelice assedio egli più che prima malcontento di sè stesso lasciò Atra in pace. Potrebbe essere che questo assedio appartenesse ad uno dei seguenti anni: a buon conto qui ne ho fatta menzione. Che fossero o pur fossero stati dei rumori di guerra anche in Palestina verso questi tempi, si può dedurre da Eusebio [Euseb., in Chron.], il quale all'anno quinto di Severo mette il cominciamento di una guerra nella Giudea e nella Samaria. E che guerra appunto facessero quivi i Romani, possiam raccoglierlo da Sparziano [Spartianus, in Sev.], il quale scrive avere il senato romano accordato a Caracalla Augusto di lui figliuolo il Trionfo Giudaico, a contemplazione ancora delle felici imprese della Soria. Qual altra azione facesse in Oriente l'Augusto Severo, nol saprei dire, restando esse in troppa caligine involte, e senza poter noi accertare i tempi, ne' quali accaddero. Ma essendovi qualche medaglia [Mediobarbus, in Numismat. Imper.], in cui esso Severo comparisce nell'anno presente acclamato Imperadore per l'undecima volta, questo ci reca indizio di qualche vittoria riportata in esso anno. Nella Cronica di Eusebio è scritto che Severo in questi tempi talmente domò anche gli Arabi interiori, che formò una provincia romana del loro paese.
Anno di | Cristo CC. Indizione VIII. |
Zefirino papa 4. | |
Settimio Severo imperad. 8. | |
Caracalla imperadore 3. |
Consoli
Tiberio Claudio Severo e Cajo Aufidio Vittorino.
Una bella iscrizione si vede in Roma, scoperta negli anni addietro, e da me rapportata nella mia Raccolta [Thesaurus Novus Inscript., pag. 347.]. Fu essa dedicata nel primo dì di aprile, SEVERO ET VICTORINO COS., cioè nell'anno presente, da una compagnia di soldati ritornata dalla spedizione contro i Parti, per la salute, per l'andare e ritornare, e per la vittoria degl'imperadori Severo, il qual si chiama dotato della podestà tribunizia VIII, ed imperadore per l'undecima volta, e di Marco Aurelio Antonino cioè Caracalla, al quale si attribuisce la Podestà Tribunizia III. Dal che apparisce che prima delle calende dell'anno 198, Caracalla avea conseguita la podestà tribunizia. Fu di parere il Petavio, seguitato dal Mezzabarba [Mediobarbus, in Numismat. Imperator.] e dal Bianchini, che in quest'anno si facesse la guerra partica, e succedesse ora solamente la presa di Seleucia, Babilonia e Ctesifonte. E veramente rapporta esso Mezzabarba monete, dove si legge VICTORIA PARTHICA MAXIMA, da lui credute spettanti a questo anno. Ma, oltre all'osservarsi che alcune di esse possono appartenere anche agli anni precedenti, perchè accompagnate dal numero della podestà tribunizia, conviene avvertire che non nelle sole monete dell'anno, in cui succedeano le vittorie degli imperadori, si truova menzione delle medesime vittorie, ma in alcune ancora degli anni susseguenti, e però non si può far capitale di sì fatta nozione. All'incontro a dimostrare che prima di quest'anno succedessero le imprese suddette contra de' Parti, bastar dovrebbe l'osservare
[682] che Severo anche nel precedente anno era Imperadore per l'undecima volta, e nel presente non più che tale comparisce nelle monete: laonde non è da credere che a quest'anno sia da riferir la guerra e la vittoria riportata contra dei Parti. Ma e che operò Severo in Oriente in questi tempi? Noi non troviamo che oscurità. A me dunque sia lecito di riferir qui ciò che forse non disconviene al presente anno. Una delle applicazioni di Severo [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], allorchè andava girando per le città d'Oriente, era d'indagare chiunque fosse stato amico o parziale di Pescennio Negro, tanto tempo prima ucciso, sempre con la mira d'occupar le loro sostanze: perchè in ciò non si dava mai posa la di lui avarizia. Dico ciò, seguitando Sparziano [Spartianus, in Sever.], che per altro Dione [Dio, in Excerpt. Valesianis.] storico più fidato attesta, non aver Severo fatto ammazzare alcuno per avidità della roba loro. Certo è che in questi tempi molte persone, accusate della parzialità suddetta, furono da lui private di vita, graspugliando egli dopo la vendemmia, come dice Tertulliano [Tertullianus, in Apologet., cap. 35.]. Plauziano, prefetto del pretorio, della cui malvagità parleremo fra poco, o era l'autore di tutte queste iniquità, o almeno andava maggiormente attizzando alla crudeltà Severo; e verisimilmente le stesse ricerche non si ometteano in Roma e nelle provincie europee [Spart., in Sev. et in Geta.]. Raccontasi, che mentre si facea cotal persecuzione ai partigiani di Negro e di Albino, per la quale diceva Severo ai suoi figliuoli di liberarli dai nemici; il giovine Caracalla ne mostrava piacere ed aggiugneva, doversi anche far morire i figli di costoro. Allora Geta, minor suo fratello, dimandò se costoro aveano de' parenti. Molti, rispose Severo. E Geta: Molti ancora avremo che ci odieranno. Poi voltatosi a Caracalla, gli disse: Se voi non perdonate a chi [683] che sia, potrete benanco ammazzar vostro fratello; il che fu una predizione di quel che poscia avvenne. Notò il padre queste savie parole del fanciullo, e gli piacquero; ma profittar non seppe per la prepotenza del suddetto Plauziano e di Giuvenale prefetti del pretorio, intenti troppo a far buona borsa colle altrui calamità. Perderono ancora molti la vita, accusati di aver interrogato gl'indovini caldei intorno alla salute degl'imperadori. A quest'anno scrive Eusebio [Euseb., in Chronic.], che furono fabbricate in Antiochia e in Roma le Terme di Severo Augusto e il Settizonio. Sparziano [Spartianus, in Sever.] non parla se non delle Terme romane e del Settizonio, fabbrica di gran magnificenza, intorno al sito e all'impiego della quale disputano tuttavia gli eruditi, credendolo alcuni un mausoleo, ed altri un edifizio ad uso civile.
Anno di | Cristo CCI. Indizione IX. |
Zefirino papa 5. | |
Settimio Severo imperad. 9. | |
Caracalla imperadore 4. |
Consoli
Lucio Annio Fabiano e Marco Nonio Arrio Muciano.
Che così s'abbia a scrivere il nome del secondo console, apparisce da una iscrizione della mia Raccolta [Thesaurus Novus Inscript., p. 348, n. 5.]. Nè pur sappiamo qual cose si andasse facendo in Levante l'Augusto Severo nell'anno presente. Dalle medaglie [Mediobarbus, in Numism. Imperat.] risulta, che egli circa questi tempi cominciò ad usare il titolo di Pio, che frequente poi si osserva da lì innanzi. Stava pur male ad un imperador sì crudele e spietato un sì bel titolo. Quello di Pertinace, perchè egli era proverbiato a cagion d'esso, andò a poco a poco in disuso. Abbiamo inoltre da Sparziano [Spartianus, in Sever.], che soggiornando esso Severo in Antiochia, diede la toga [684] virile a Caracalla Augusto suo figliuolo. S'è vero, come pretende il padre Pagi, che Caracalla [Pagius, in Critic. Baron.] fosse nato nell'anno 188, nel dì 6 d'aprile, egli anticipò d'un anno questa funzione, non solendo i Romani prendere essa toga se non compiuto l'anno quattordicesimo della loro età. Disegnò ancora sè stesso console per l'anno prossimo venturo, prendendo per collega in esso consolato il medesimo Caracalla. So io molto bene che Sparziano riferisce all'anno seguente l'andata di Severo Augusto in Egitto: nel che è seguito da insigni scrittori. Ma non essendo Sparziano in tanti altri punti uno scrittore sì esatto, come ognun confessa, io chieggo licenza di riferir questo viaggio all'anno presente, perchè vo credendo che gl'imperadori nel seguente anno ritornassero a Roma più presto di quel che credono alcuni. Abbiamo dunque da Dione [Dio, lib. 75.], che terminato infelicemente l'assedio di Atra, lo Augusto Severo andò in Palestina. Quivi perdonò ai Giudei ch'erano stati parziali di Pescennio Negro [Spartianus, in Severo.], e fece molti regolamenti pel governo di quel paese; ma con proibire sotto rigorose pene che alcuno potesse abbracciare la religione giudaica, e stese questo divieto anche alla cristiana. Eusebio [Eusebius, in Chron.] nell'anno seguente mette la quinta persecuzion de' Cristiani. Il resto nondimeno, come fu pubblicato da Gioseffo Scaligero, non è sicuro; imperciocchè nella Cronica Alessandrina [Chronic. Paschal., Tom. II, Hist. Byz.] sotto questi consoli, e non già sotto i seguenti, vien riferita la suddetta persecuzione, per cui moltissimi fedeli riceverono la corona del martirio. Per altro può essere che la medesima cominciasse in quest'anno, e crescesse di poi nel seguente. Quindi passò Severo in Egitto, dove, dopo aver visitato il sepolcro di Pompeo, si portò [685] ad Alessandria. Abbiamo da Suida [In Excerpt. Suidae, Tom. I, Hist. Byz.], che, nell'entrare in quella città, egli osservò un'iscrizione con queste parole in greco, che qui rapporto in latino: DOMINI NIGRI EST HAEC CIVITAS. Se ne turbò egli forte, ma gli spiritosi Alessandrini risposero tosto, contener essa iscrizione verità, perchè quella città era del signore di Pescennio Negro; e Severo se ne contentò. Lo creda chi vuole. Poco verisimile è quella iscrizione, e troppo stiracchiata l'interpretazione. Trattò Severo gli Alessandrini assai bene. Nei tempi addietro il solo governatore cesareo amministrava quivi la giustizia. Concedette loro [Spartianus, in Severo.] che avessero da lì innanzi il loro senato, e che giudicassero delle cause, a mio credere, civili. Fece anche altre mutazioni in lor favore. Poscia imbarcatosi sul Nilo, volle visitar tutte le città ed i luoghi più celebri di quella fortunata provincia, e massimamente Menfi, le Piramidi, il Labirinto e la statua di Mennone. Soleva poi ricordarsi con piacere di questo suo pellegrinaggio, per aver veduto tante belle memorie, tanti diversi animali, e il culto di quelle deità, massimamente ne' templi memorabili di Serapide. Nulla vi fu di cose sacre o profane [Dio, lib. 75.], e specialmente delle più recondite, delle quali non volesse essere ben informato: ma portò via da essi templi quanti libri potè mai trovare, contenenti dei segreti. Fece chiudere il sepolcro di Alessandro, in maniera che niuno da lì innanzi potesse mirare il di lui corpo, nè leggere le iscrizioni ivi contenute. Sul supposto intanto che tal suo viaggio si facesse nell'anno presente, egli di là partito verso il principio del verno, arrivò ad Antiochia, e quivi passò la seguente fredda stagione. Che poi in questo anno Caracalla, come vuole il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron., ad hunc annum.], celebrasse il suo trionfo giudaico, allora [686] c'indurremo a crederlo che ci sarà dimostrato che gli Augusti trionfassero fuori di Roma. A Roma certamente non tornarono in quest'anno gl'imperadori.
Anno di | Cristo CCII. Indizione X. |
Zefirino papa 6. | |
Settimio Severo imperad. 10. | |
Caracalla imperad. 5. |
Consoli
Lucio Settimio Severo Augusto per la terza volta, e Marco Aurelio Antonino Caracalla Augusto.
Perchè sul principio di quest'anno soggiornavano tuttavia in Antiochia i due Augusti, quivi perciò diedero principio al loro consolato. Di là poi, secondo Sparziano [Spartianus, in Severo.], andò Severo in Egitto; ma, a tenore della mia supposizione, egli non aspettò la primavera a mettersi in viaggio per tornare dopo tanto tempo in Europa e a Roma. Certo è ch'egli fece questo viaggio per terra nella Bitinia, arrivò a Nicea, e passò il mare allo stretto del Bosforo Tracio. Perciò potrebbe essere che succedesse allora ciò che racconta Suida [Excerpt. Suidae, Tom. I, Histor. Byz.], cioè che arrivato a Bisanzio, gli vennero incontro quei cittadini con corone di ulivo in capo gridando: Viva, e dimandando loro vita e grazia. Li sottopose ben egli di nuovo a Perinto, ma perdonò loro, ed ordinò che quivi si fabbricasse l'anfiteatro coi portici per le cacce, e un circo magnifico con dei bagni nel tempio di Giove appellato Seusippo. Rifabbricò ancora il pretorio. Tutte queste fabbriche furono bensì cominciate sotto Severo, ma Caracalla suo figliuolo quegli fu poi che le perfezionò. Passando per la Tracia, si può credere che allora Massimino, il qual fu poi imperadore, fosse conosciuto per la prima volta da Severo Augusto [Capitol., in Maximino.]; perchè celebrandosi il dì natalizio di Geta suo figliuolo nel dì 27 di maggio, Massimino [687] allora pastore fece di gran pruove nei giuochi, allora celebrati dall'armata per ordine dell'imperadore. Abbiamo da Erodiano [Herodian., lib. 3.] che Severo, in transitando per la Mesia e per la Pannonia, diede la mostra a quegli eserciti; e di là poi continuando il viaggio, pervenne in Italia, e finalmente in Roma. Entrò nell'augusta città, secondo Sparziano [Spartianus, in Severo.], colla sola ovazione, cioè con una solennità minore del trionfo; ma Erodiano ci fa abbastanza intendere, ch'egli col figliuolo Caracalla veramente trionfò fra gl'incessanti viva e plausi del popolo; fece anche delle magnifiche feste, dei sagrifizii e spettacoli suntuosissimi, e diede ad esso popolo un ricchissimo congiario.
Prima nondimeno di spiegar meglio in che consistessero quelle grandiose feste, convien avvertire che il Mezzabarba [Mediobarbus, in Numismat. Imper.] in questo medesimo anno mette insieme l'andata di Severo Augusto da Antiochia in Egitto, il suo ritorno in Italia, il trionfo e le nozze di Caracalla: il che non può mai stare, considerato il tempo che si dovette spendere in tante ricerche fatte da Severo in Egitto, e la sterminata lunghezza de' viaggi fatti tutti per terra, e coll'accompagnamento di un'armata. Però il Pagi [Pagius, Critic. Baronii ad annum seq.] e il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] differirono all'anno seguente l'arrivo a Roma di Severo e il suo trionfo, con riferir al presente il suo viaggio e la sua dimora in Egitto. Crede anche esso padre Pagi di ricavar ciò da più di una medaglia, dove si legge ADVENT. AVGVSTOR., correndo la Podestà Tribunizia X di Severo, che terminava nel dì 13 d'aprile dell'anno seguente. A me all'incontro più verisimile sembra che nel precedente anno Severo fosse in Egitto, e nel presente arrivasse a Roma. Quelle stesse medaglie convengono più al presente che al susseguente anno, come ancora conghietturò [688] il Mezzabarba, giacchè la tribunizia podestà decima di Severo ebbe, per confession del Pagi, principio nel dì 13 di aprile di quest'anno. Quel che è più, riconosce il Pagi preso il consolato dagli Augusti in quest'anno, perchè Severo era entrato nel decennio del suo imperio, e Caracalla nel quinquennio, volendo poi, contra le stesse sue regole, ch'essi Augusti differissero le feste e i voti decennali e quinquennali nel seguente anno. Se avessero voluto differir tali feste, doveano anche riserbare il consolato al seguente anno. Però è da credere più tosto che tali solennità si facessero in questo, essendo essi consoli. Inoltre Dione [Dio, lib. 75.] scrive che Severo, allorchè fu entrato nel decimo anno del suo imperio, diede al popolo quel superbo congiario, e questo senza dubbio gliel diede in Roma. Ma avendo noi veduto che nell'aprile di quest'anno cominciava l'anno suo decimo, in esso ancora dovettero succedere le feste suddette. Il Tillemont pensa che Severo arrivasse a Roma verso il fine di maggio dell'anno seguente. Ma se lo ADVENT. AUGUSTOR., segnato nelle medaglie significa l'arrivo succeduto, correndo la podestà tribunizia decima, non può sussistere tale opinione, perchè, secondo i conti del padre Pagi, allora Severo godeva dell'undecima. Ora noi abbiamo da Dione, che in questi tempi si vide nel pubblico anfiteatro un crudel combattimento di donne; ed avendo esse dipoi caricato di villanie le nobili matrone romane, uscì un proclama, che da lì innanzi non fosse permesso alle donne il far da gladiatori. Aggiugne esso storico, che pel ritorno di Severo, pel suo decennio e per le sue vittorie si fecero varii spettacoli in Roma, cioè di combattimenti e cacce di fiere. Sessanta cignali di Plauziano in un dì si azzuffarono insieme, e furono uccise altre bestie, fra le quali un elefante e una crocota, non mai più veduta in Roma. Fattasi una macchina nell'anfiteatro a guisa di nave, questa si [689] sciolse, e ne uscirono orsi, lionesse, pantere, struzzoli, asini selvatici e bissonti. Per sette dì durarono le feste, e in cadaun giorno cento fiere uccise diedero sollazzo al popolo. Il congiario dato da Severo al popolo, e il donativo ai soldati, fu di dieci monete d'oro per cadauno a misura degli anni del suo principato: del che si compiaceva egli, perchè niuno dei suoi predecessori era giunto a sì eminente liberalità. A queste feste accrebbe decoro l'aver anche l'Augusto Caracalla presa in moglie Fulvia Plautilla, figliuola di Plauziano, favorito di Severo, di cui parlerò nell'anno seguente. Diede egli tanto in dote ad essa sua figliuola, che, per attestato di Dione, sarebbe stato sufficiente a maritar cinquanta regine. E si videro passar per la piazza le portate degli arredi ed ornamenti, che empierono tutti di maraviglia. Un convito di magnificenza incredibile fu dato nel palazzo, dove non si potè immaginar vivanda, o romana o barbarica, che vi si desiderasse [Dio, lib. 75.]. Per tali nozze Severo disegnò console per l'anno venturo Plauziano. Adunque le medesime si celebrarono nell'anno presente, e non già nel seguente. Una cometa e un terribil incendio del monte Vesuvio, che si videro in questi tempi, siccome poco usati effetti della natura, somministrarono occasione di predir novità e malanni, a chi ridicolosamente vuol pescare ne' libri dello avvenire. In quest'anno ancora i due Augusti ristorarono l'insigne fabbrica del Pantheon, come si raccoglie dalla iscrizione riferita dal Panvinio [Panvin., Fast. Consular.], dal Grutero e da altri [Vignolius, Dissert. II.].
Anno di | Cristo CCIII. Indizione XI. |
Zefirino papa 7. | |
Settimio Severo imperad. 11. | |
Caracalla imperadore 6. |
Consoli
Lucio Fulvio Plauziano per la seconda volta e Publio Settimio Geta.
Geta, secondo fra questi consoli, vien comunemente creduto, non già il figliuolo, ma il fratello dell'imperador Severo. Quanto a Plauziano, egli era suocero di Caracalla Augusto, e il primo mobile della corte cesarea. Hassi dunque a sapere che costui, riputato da alcuni parente del medesimo imperadore, ma certamente nativo della stessa città di Leptis in Africa [Dio, lib. 75. Herodianus, lib. 3.], cioè della patria dello stesso Augusto, benchè uscito dalla feccia del popolo, talmente s'andò insinuando nella grazia di Severo, ch'egli non mirava con altri occhi che con quei di Plauziano. Si dà un certo ascendente di persone nel mondo, per cui arrivano anche persone vili e di niun merito a farla da signori sopra le teste de' migliori, e dei più grandi ed intendenti. N'era Severo così innamorato, che non sapea vivere senza di lui, e considerava di morir prima egli che Plauziano. Il creò prefetto del pretorio, e senza di lui nulla faceva; pareva anzi che Plauziano fosse l'imperadore (tanto era la di lui potenza), e che Severo la facesse da prefetto del pretorio. Non v'era segreto dell'imperadore che Plauziano nol sapesse; e, per lo contrario, niun arrivava a sapere i segreti di Plauziano. Nei viaggi fatti in Oriente da Severo, anch'egli si trovò sempre ai fianchi dell'imperadore; a lui toccava di ordinario il miglior alloggio, a lui i cibi più squisiti, di modo che, essendo Severo in Nicea di Bitinia, se volle un pesce mugile (cefalo creduto da alcuni), mandò a dimandarlo a Plauziano. E nella città di Tiane in Cappadocia essendosi infermato esso Plauziano, fu a visitarlo Severo, ma [691] senza che le guardie dello stesso Plauziano permettessero d'entrare a quei del suo seguito. Della sua ribalderia non si può dire abbastanza. Era giunto costui ad un'immensa ricchezza per li tanti beni confiscati, a lui donati da Severo; e pure non sapendo mai saziarsi l'insaziabil sua avarizia, ad altro non attendeva che a far sempre nuovi bottini. Per istigazione principalmente di lui furono fatti morir da Severo tanti benestanti, nè v'era provincia o città, dov'egli fosse capitato, che non restasse spogliata del meglio da costui, senza perdonarla nè pure ai templi, contandosi fra le altre sue ruberie, che egli portò via i cavalli del Sole dall'isole del mar Rosso. Credevasi, in una parola, che egli possedesse più roba che lo stesso imperadore e i suoi figliuoli. Dello orgoglio suo non occorrerebbe dire. Quando usciva per città, andavano innanzi i suoi col bastone alla mano a far ritirare ognun dalla strada, ordinando che tutti tenessero gli occhi bassi, nè il riguardassero, come si fa alle sultane in Levante. Perciò egli era più temuto che lo stesso imperadore; e i soldati e i senatori non giuravano che per la di lui fortuna. Pubbliche preghiere si faceano per la di lui conservazione; e più statue a lui furono alzate in tutte le provincie, che allo stesso Severo, e fino in Roma, ed anche coll'autorità del senato. Severo o non sapeva tutto, o sofferiva tutto; tanto era il predominio che costui aveva preso sopra di lui.
Già abbiam detto che Severo fece sposar Plautilla, figliuola d'esso Plauziano, a Caracalla Augusto suo figlio; e per maggiormente onorar questo suo favorito, il creò console nell'anno presente, con far due novità. L'una fu, che avendolo dianzi dichiarato console onorario, con solamente conferire a lui gli ornamenti consolari, quantunque non fosse stato veramente console, pur volle che venisse chiamato console per la seconda volta. L'altro fu, che il grado di prefetto del pretorio non si concedeva allora, se [692] non a' cavalieri, cioè a quei dell'ordine equestre: il consolato solamente a chi era senatore. Volle Severo che Plauziano nello stesso tempo procedesse console, e ritenesse anche il posto di prefetto del pretorio. Due erano allora i prefetti di esso pretorio [Dio, in Excerpt. Vales.], cioè l'uno esso Plauziano e l'altro Emilio Saturnino. Plauziano, a cui non piaceva d'aver compagni in quella importante carica, fece ammazzar l'altro. Cotanto si teneva egli sicuro del suo potere e padrone dell'imperadore, che niun rispetto mostrava per Giulia Augusta; anzi la maltrattava, e ne diceva male tuttodì allo stesso imperadore, con aver anche tormentate delle nobili donne, per ricavar loro qualche trascorso della medesima; di maniera che Giulia, abbandonati tutti i divertimenti, cominciò allora a studiar la filosofia morale, e a conversar solamente con persone dotte. Ci vien anche dipinto costui da Dione per uomo di sfrenata libidine, col non voler nello stesso tempo che sua moglie conversasse con alcuno, e nè pur fosse visitata dall'imperadore o dall'imperadrice. Aggiugnevasi a sì fatti vizi anche una intemperanza somma, perchè empieva così forte il sacco, che non potendo digerir tanta copia di cibo e di vino, ricorreva per lo più al recipe di rigettarlo. Per tali eccessi nondimeno, ma più per la paura di Caracalla suo genero, questo sì potente personaggio, questo gran favorito si vedeva sempre pallido e tremante. Motivo di gravi dicerie contra di lui fu ancora l'aver egli contra le leggi romane fatto castrare cento buoni cittadini romani, parte fanciulli e giovinetti, parte ancora ammogliati, acciocchè servissero da eunuchi a Plautilla sua figliuola, maritata, come dicemmo, all'Augusto Caracalla. Tale era in questi tempi Plauziano prefetto del pretorio e console. Il Panvinio [Panvin., in Fast. Cons.] e il Relando [Reland., Fast. Cons.] crederono [693] che costui nell'anno presente fosse ucciso, perchè si trova una legge data sotto il solo Geta console. Ma non può stare, da che sappiamo ch'esso Geta morì prima di Plauziano. Certo è bensì che in quest'anno fu dedicato in Roma il superbo arco trionfale di Severo, tuttavia esistente, ma corroso dal tempo. Nella iscrizione [Panvinius, Gruterus, Bellorius et alii.] ivi posta, Severo ha l'undecima, e Caracalla la sesta tribunizia podestà.
Anno di | Cristo CCIV. Indizione XII. |
Zefirino papa 8. | |
Settimio Severo imperad. 12. | |
Caracalla imperad. 7. |
Consoli
Lucio Fabio Settimio Cilone per la seconda volta e Flavio Libone.
Gran figura fece sotto Severo e sotto Caracalla questo Libone console. Egli fu prefetto di Roma, ed ebbe molti altri impieghi, come c'insegna un'iscrizione a lui posta e riferita dal Panvinio [Panvin., in Fast. Cons.] e dal Grutero. Ancorchè poi non apparisca chiaro, se a questo o al seguente anno appartenga la morte di Plauziano favorito di Severo, mi fo lecito io di rammentarla qui. Un anno prima che succedesse la di lui caduta, Severo finalmente avea cominciato a mirar di mal occhio tante statue poste a costui in Roma stessa; e perciò ne fece fondere alcune che doveano essere di bronzo. Un gran dire ne fu; volò questa voce per le provincie [Dio, lib. 75.], ingrandita, secondo il solito, per istrada: Plauziano non è più in grazia, Plauziano è morto. Di qui avvenne che molti atterrarono le di lui statue, e male per loro, perchè Severo volea ben abbassare alquanto l'albagia di Plauziano, ma non dargli il tracollo; e perciò que' tali processati, perderono la vita. Ed uno d'essi fu Racio Costante, governatore allora della Sardegna, ch'era corso [694] troppo presto a creder vera quella voce. Trattossi la di lui causa in Roma alla presenza di Severo e di molti senatori, uno de' quali era Dione. E fu allora che si sentì dire l'avvocato che arringava contra d'esso Costante, qualmente sarebbe più tosto caduto il cielo, che l'imperador Severo facesse alcun male a Plauziano; e Severo stesso confermò con altre parole quanto avea detto quell'oratore. Parea dunque sopra un'immobil base assicurata la fortuna di costui. Ma venne all'ultimo della vita, probabilmente in questo anno, Settimio Geta, fratello dell'imperadore, uomo che odiava forte Plauziano; ed avendogli fatta una visita l'Augusto fratello, trovandosi Geta in istato di non temer da lì innanzi di quell'empio ministro, ne disse quanto male potè a Severo, scoprendogli quel che ne diceva il pubblico, e qual disonore a lui venisse dal tener sì caro un sì cattivo arnese. Aprì allora Severo alquanto gli occhi, e, dopo aver fatto mettere nella piazza la statua del defunto fratello, cominciò a non far più tanto onore a Plauziano, anzi si diede a sminuire la di lui potenza. Non avvezzo a questi bocconi di corte Plauziano, ne attribuiva la cagione ai mali uffizii di Caracalla Augusto suo genero. Imperocchè avendo Caracalla, contro suo genio e solamente per ubbidire al padre [Herodianus, lib. 3.], sposata la figliuola di Plauziano, non mai andò d'accordo con lei; e tanto più perchè la trovò femmina insolentissima: laonde, oltre al non aver con lei comunione alcuna di letto e di abitazione, odiava a morte non men lei, che il padre di lei, con essergli anche più di una volta scappato di bocca, che arrivando a comandare, saprebbe bene schiantar dal mondo radici così cattive. Tutto riferiva Plautilla al padre; e però l'altero ed irritato Plauziano aspramente trattava il genero, gli facea delle riprensioni assai disgustose, e gli tenea continuamente delle spie attorno per indagare [695] i di lui andamenti, affine di screditarlo appresso l'Augusto di lui genitore.
Perdè infine la pazienza Caracalla, e cominciò a studiar la maniera di rovinar Plauziano [Dio, lib. 75.]; e la maniera fu di fingere che costui avesse ordita una congiura contro la vita di Severo Augusto e dello stesso Caracalla. Erodiano [Herodianus, lib. 3.], seguitato in ciò da Ammiano [Ammianus Marcellinus, lib. 29.], pretendono che la congiura fosse vera, e il primo ne racconta varie circostanze; ma Dione, che meglio di loro seppe esaminar questo fatto, la tenne per un'invenzion di Caracalla e di chi l'assisteva coi consigli. Il concerto dunque fu che Saturnino, uno dei centurioni del pretorio, con due altri uffiziali suoi eguali, guadagnato da Evodo, balio di Caracalla, finiti che fossero certi spettacoli fatti nel palazzo, dimandasse udienza all'imperador Severo, e gli rivelasse la trama, e dicesse venuto l'ordine a dieci centurioni di fare il fatto: in pruova di che mise fuori gli ordini in iscritto dati, per quanto dicevano, da Plauziano medesimo ad essi uffiziali. Prestò qualche fede Severo a tale accusa, perchè i Romani d'allora erano sommamente superstiziosi, con trovar dappertutto dei presagi dell'avvenire; e Severo appunto nella notte precedente avea veduto in sogno Albino vivente che tendeva insidie alla di lui vita. O sia che egli facesse tosto chiamare a corte Plauziano, oppure che questi non chiamato vi andasse, scrive Dione che vicino al palazzo caddero le mule della carrozza, in cui egli veniva; ed entrante egli per la prima porta, non permisero le guardie che alcun altro del seguito suo entrasse: cosa che l'intimorì e riempiè di molti sospetti. Contuttociò perchè non potea più tornare indietro, animosamente si presentò a Severo, il quale assai placidamente gli domandò come gli fosse saltato in testa di voler ammazzare i suoi principi; e si preparava ad ascoltar le [696] sue ragioni e discolpe. Mentre Plauziano comincia a mostrarsi maravigliato di un tal ragionamento e a negare, eccoti avvantarsegli Caracalla addosso, torgli la spada dal fianco e dargli un gran pugno. Era dietro lo stesso Caracalla a volerlo uccidere di sua mano; ma Severo diede ordine ad uno de' famigli di corte che gli togliesse la vita. Così fu fatto, ed alcuni de' cortigiani, strappatigli alcuni peli della barba, corsero a mostrargli a Giulia Augusta, che si abbattè ad essere allora con Plautilla sua nuora. Ne sentì ella gran piacere, gran dolore all'incontro la misera nuora. Gittato fu in istrada il corpo di Plauziano, ma permise dipoi Severo che gli fosse data sepoltura. Nel seguente giorno raunato il senato, Severo senza entrare in alcun reato di Plauziano, ne espose la morte, e parlò della deplorabil condizione del genere umano, che si lascia sovvertire dalla felicità, accusando nello stesso tempo sè stesso, per aver troppo amato e favorito chi nol meritava. Quindi ritiratosi fece entrare gli accusatori di Plauziano a render ragione dei lor detti al senato. Corsero molti da lì innanzi pericolo della vita, per essere stati adulatori dell'estinto ministro, ed alcuni ancora perirono per questo. Fra gli altri Cocrano, che più degli altri affettava di comparir confidente di Plauziano, benchè in fatti tale non fosse, convinto d'avergli, colla ridicola interpretazione d'un sogno, predetto l'imperio, fu mandato in esilio. Ma ritornato dopo sette anni, ottenne il grado senatorio, ed arrivò anche ad esser console. Furono allora premiati Saturnino ed Evodo, autori della morte di Plauziano; ma col tempo Caracalla non li lasciò vivere; nè Severo permise che il senato lodasse Evodo, dicendo che non conveniva far insuperbire i liberti della corte. Suo costume veramente fu di tenerli bassi. Plautilla Augusta e Plauto, o Plauzio, figli di esso Plauziano, relegati nell'isola di Lipari, quivi per qualche anno mangiarono il pan del dolore, privi anche delle cose [697] necessarie, e sempre colla morte davanti agli occhi. Erodiano scrive ch'erano ben trattati. Caracalla poi quando arrivò alla signoria, li liberò appunto da quei guai con fargli uccidere. E tale fu il fine di Plauziano, che sel comperò a danari contanti colla sua incredibil avarizia, non meno che colla crudeltà e coll'alterigia. Abbiamo da Censorino [Censorinus, de Die Natali, cap. 17.] e da Zosimo [Zosimus, Histor., lib. 2.], che furono in quest'anno celebrati con gran suntuosità i giuochi secolari in Roma e di ciò è fatta anche menzione nelle medaglie [Mediobarbus, in Numism. Imperat.]. La descrizion d'essi si può vedere nella Storia di Zosimo.
Anno di | Cristo CCV. Indizione XIII. |
Zefirino papa 9. | |
Settimio Severo imperad. 13. | |
Caracalla imperadore 8. |
Consoli
Marco Aurelio Antonino Caracalla Augusto per la seconda volta, e Publio Settimio Geta Cesare.
Sbrigato Severo del pessimo suo ministro Plauziano, regolò ne' tempi susseguenti con bell'ordine la vita sua, giacchè si godeva gran quiete in Roma, e da niuna guerra in questi tempi era molestato l'imperio romano [Dio, lib. 76. Herodianus, lib. 3.]. Andava egli spesso a villeggiar nella Campania; ma o fosse quivi, o pure in Roma, soleva levarsi di buon mattino, e tosto ascoltava i processi delle cause, poi faceva una buona passeggiata a piedi, ascoltando e dicendo intanto quello che riguardava l'utilità del pubblico. Andava appresso al senato e al consiglio, per udire i contraddittorii, e decidere le cause, concedendo il tempo prescritto agli avvocati per dedurre le ragioni delle parti litiganti, e lasciando una piena libertà ai senatori di esporre il lor sentimento. Venuto il mezzodì, montava [698] a cavallo, per far di nuovo quello esercizio di corpo, e dipoi andava al bagno. Pranzava solo o pur co' suoi figliuoli, e con lentezza, ma senza invitarvi senatori, come in addietro costumarono di far vari imperadori. Vi intervenivano essi solamente in certe feste solenni dell'anno, ed allora ne' di lui conviti non si desiderava punto la magnificenza. Dopo il pranzo dormiva, e non poco. Svegliato, passeggiava, dilettandosi in quel mentre di studiar lettere, o sia l'erudizion latina e greca. Tornava al bagno verso la sera, e poi cenava coi suoi domestici. Le applicazioni sue pel buon governo di Roma si stendevano anche nelle provincie, sapendo egli scegliere le persone più abili a ben reggere i popoli [Aurelius Victor, in Epitome. Spartianus, in Severo.]; e più volentieri dava quei governi a chi vi era stato dianzi luogotenente, e s'era acquistato credito, siccome persone più pratiche di quei paesi; nè permetteva che si vendessero le cariche. Per l'amministrazione della giustizia si serviva egli di eccellenti giurisconsulti. Uno di essi fu Papiniano, celebre anche oggidì pel suo profondo saper nelle leggi, che giunse ad essere prefetto del pretorio. Questi prese per suoi assessori o consiglieri Paolo ed Ulpiano, personaggi anch'essi rinomatissimi nella scienza legale. Però molte leggi utili di esso Severo si leggono nei testi di Giustiniano. Una ve n'ha, in cui permette ai Giudei di poter essere promossi agli uffizii ed onori [Lib. 3, ff. de Decur.]. Sotto questo nome si pensò il cardinal Baronio, dopo l'Alciato, che fossero compresi anche i Cristiani: il che, quantunque cosa dubbiosa, non è però inverisimile. Ben certo è che quella legge non venne da Marco Aurelio e Lucio Vero, come fu creduto, ma bensì da Severo ed Antonino, cioè Caracalla, Augusti. Odiava Severo sopra tutto i ladri ed assassini, e li perseguitava dappertutto. La libertà della [699] lascivia era giunta all'eccesso in Roma. Severo non solamente ci vien descritto per uomo continente, ma che abborriva in altrui gli adulterii. Però abbiamo leggi da lui pubblicate contro questo vizio. E Dione [Dio, lib. 76.] confessa di aver trovato nei registri criminali d'allora, che furono accusate di adulterio tremila persone; ma perchè non si proseguivano poi i processi, si ridussero a nulla le provvisioni fatte per questo dall'imperadore. E, a ben conoscere quanto fossero in ciò depravati i costumi de' Romani gentili, servirà una risposta data dalla moglie di un nobile della Bretagna, probabilmente allorchè Severo Augusto, siccome diremo, fu in quelle parti. Giulia Augusta l'andava motteggiando pel libertinaggio che praticavano allora le femmine britanne con gli uomini: Almeno, disse quella gentildonna, se noi trapassiamo i limiti dell'onestà, lo facciamo con persone nobili; ma voi altre romane segretamente vi valete della canaglia per soddisfare alle vostre voglie. Starei a vedere che persona ci fosse a' tempi nostri, la qual credesse con così magra scusa difendere l'intemperanza sua. Forse non fu la stessa Giulia imperatrice esente da sì fatto discredito. Anzi, se crediamo a Sparziano [Spartianus, in Severo.], anch'ella si rendè famosa per l'impudicizia: vizio troppo facile a chi non conosce o non teme il vero Dio, amatore della sola virtù, e punitore de' vizii, o pure troppo lascia la libertà del conversare all'uno e all'altro sesso. Ma perchè Dione ed Erodiano non riconoscono in lei questo vizio, e vedremo che Sparziano altre favole raccontò di questa imperatrice, possiam credere, rapportar egli qui piuttosto le dicerie del volgo che la verità della storia.
Anno di | Cristo CCVI. Indizione XIV. |
Zefirino papa 10. | |
Settimio Severo imperad. 14. | |
Caracalla imperadore 9. |
Consoli
Lucio Fulvio Rustico Emiliano e Marco Nummio Primo Senecione Albino.
Tali nomi ho io dato a questi consoli, fondato sulle iscrizioni che si leggono nella mia raccolta [Thesaurus Novus Inscription., p. 352.]. Quei del secondo console ci fanno abbastanza intendere che non dovea punto passar parentela fra lui e Clodio Albino, da noi veduto imperadore, ma di poco tempo. Ora da che tolto fu dal mondo Plauziano, cioè il superbo favorito di Severo Augusto, Caracalla e Geta figliuoli di esso imperadore, come se allora fossero rimasti liberi dal timore di quell'aguzzino, lasciarono la briglia ai loro giovanili appetiti. Tanto Dione [Dio, lib. 76.] che Erodiano [Herodianus, lib. 3.] confessano che amendue si diedero in preda alla libidine, con isvergognar le case de' nobili, e senza guardarsi da ciò ch'è più infame in quel vizio. Se loro mancava danaro, non mancavano già delle inique vie per raccoglierne. I lor principali impieghi e divertimenti consistevano in assistere a tutt'i combattimenti e a tutte le corse dei cavalli, ed anch'essi in carrette gareggiavano insieme a chi correa più forte. E sì male un dì terminò la lor carriera, che Caracalla, caduto dal carro, si ruppe una gamba. Ma questa gara da gran tempo dava a conoscere qual grave antipatia ed invidia bollisse fra loro, perchè passava sempre in discordia. Ancora quando erano in minore età, o vedessero i combattimenti delle coturnici o dei galli, o pur le battagliuole de' fanciulli, o si trovassero ai pubblici giuochi, si scoprivano sempre differenti di genio; e quel che piaceva all'uno, dispiaceva all'altro. [701] S'introdussero anche fra loro degli adulatori e mali arnesi che, in vece di metter acqua al fuoco, lo fomentavano, aggiugnendovi anche dell'olio. Quanto più crescevano in età, tanto più sbrigliati correvano dietro ai piaceri ed alle iniquità, e la loro vicendevole avversione prendeva sempre più piede. Non avea già lasciato l'Augusto Severo lor padre di provvederli di eccellenti governatori e maestri, e scorgendoli poi sì discordi fra loro, or colle dolci, or colle brusche si studiava di correggere questa lor malnata passione, mostrando loro i beni della concordia, e il felice stato, in cui era per lasciarli, e in cui si manterrebbono, se sapessero andar ben uniti. Tolse anche di vita alcuni che seminavano zizzanie fra loro. Ma indarno era tutto. Geta, siccome di umor più mansueto ed umile, dal suo canto ubbidiva; ma Caracalla, divenuto dopo la morte del suocero più orgoglioso e fiero che mai, ascoltava le parole del padre, ma fremendo in suo cuore, e poi seguitava ad operar come prima. Accadde probabilmente in questi tempi ciò che narra Dione [Dio, lib. 76.] della crudeltà di Severo, non soddisfatta peranche. Il perchè non si sa, ma egli fece morir varie persone, e fra l'altre Quintillo Plauziano, senator nobilissimo: morte che fu creduta ingiustissima. Altri senatori [Dio, in Excerpt. Valesianis.] da lui tolti dal mondo erano stati convinti di reità; ma questi in età assai decrepita, standosene da gran tempo ritirato in villa, pensando non già a far delle novità, ma bensì alla morte vicina, per soli sospetti e per mere calunnie fu condannato a morte. Recatagli la funesta nuova, si fece portare gli arredi che avea molti anni prima preparati pel suo funerale, e trovatili guasti dalle tignuole, disse: Ho anche tardato troppo a morire. E fatto venir del fuoco, sopra di esso sparse l'incenso in segno di sagrifizio a' suoi falsi dii, pregandoli che avvenisse [702] a Severo quel tanto che Severiano in simil congiuntura augurò ad Adriano. Era in questi tempi proconsole dell'Asia Aproniano. Contro ancora di lui fu proferita la sentenza di morte, perchè avendo la sua nudrice sognato ch'egli dovea regnare un giorno, si pretendeva che Aproniano avesse intorno a ciò consultato i maghi. Ed ecco un amaro frutto della sciocchezza di que' tempi, che prestavano tanta fede ai sogni, agli augurii e alle arti vane piene d'imposture. Nel leggersi in senato il processo, si trovò avere un testimonio deposto, che mentre si facea quella consultazione da Aproniano, un senator calvo, veduto così di passaggio da esso testimonio, v'era presente. Corse allora un ghiaccio per le vene di chiunque in senato era, o cominciava a divenir calvo; Dione confessa che egli e tanti altri, che avevano buona capigliatura, restarono sì turbati, che non seppero ritenersi dal tastar colla mano se avevano tuttora i lor capelli in capo. Il sospetto cadde principalmente sopra Bebio Marcellino, il qual fece istanza che fosse introdotto il testimonio, acciocchè costui, se gli dava l'animo, riconoscesse il senatore calvo. Entrato costui, andò girando un pezzo con gli occhi senza parlare. Verisimilmente gli fece un cenno Pollenio Sebennio senatore, uomo di lingua mordace, da me rammentato di sopra, perchè Dione a lui attribuisce la disgrazia dell'infelice Marcellino, il quale fu mostrato a dito dal testimonio suddetto e condotto immediatamente al patibolo. Quando fu in piazza, diede l'ultimo addio a quattro suoi figliuoli con un discorso patetico, conchiudendo, che solamente gli dispiaceva di lasciarli in vita in tempi così cattivi. Gli fu mozzato il capo, prima ancora che Severo Augusto sapesse la di lui condanna; tanto era allora avvilito il senato, e tanta era la paura che si avea dello sdegno di Severo. Gran disgrazia di dover vivere sotto principi tali! e pur se ne trovarono tanti [703] altri di lunga mano più fieri e crudeli di questo!
Anno di | Cristo CXVII. Indizione XV. |
Zefirino papa 11. | |
Settimio Severo imper. 15. | |
Caracalla imperadore 10. |
Consoli
Apro e Massimo.
Altro non sappiamo dei nomi di questi consoli fin ora. Al presente anno sembra che si possa riferire un avvenimento raccontato da Dione [Dio, lib. 76.]. Era divenuto un certo Bulla, cognominato Felice, capo dei ladri e banditi nelle parti di quel che ora è regno di Napoli. Secento uomini teneva egli al suo servigio, parte dei quali erano schiavi dell'imperadore fuggiti; ed infestava tutte quelle contrade. Non gli mancavano spie in Roma stessa ed altrove, che l'andavano avvisando di chiunque si metteva in viaggio, e con qual compagnia, con quali robe. Della gente che prendeva, molti lasciava andare, contentandosi di qualche parte delle lor sostanze; gli artefici li riteneva alcun tempo per farli lavorare, e li rimandava poi regalati. Per due anni continuò costui il suo detestabil mestiere, e tanta era la sua accortezza, che quantunque perseguitato da molti e con pressanti ordini da Severo Augusto cercato dappertutto, pure quasi sugli occhi di lui e di tanti suoi soldati commetteva quelle ruberie; niuno il vedeva, benchè l'avessero davanti; niuno il prendeva, benchè potessero averlo in mano: tutto per industria sua, perchè giocava di grosso con regali. Presi furono due de' suoi masnadieri, e si stava per condannarli ad essere il pascolo delle fiere. Bulla, fingendosi governatore del paese, fu a trovare il carceriere, e mostrando di aver bisogno di quegli uomini, li liberò e condusse via. Quindi in persona andò a trovare il centurione posto alla [704] guardia di quei contorni, e si esibì di dargli in mano quell'infame di Bulla, se voleva seguitarlo. Il seguitò con alcuni de' suoi il centurione; ma allorchè fu in una valle attorniata da dirupi, Bulla, dopo averlo preso, gli fece radere il capo a guisa degli schiavi, e il lasciò andare, dicendogli che facesse sapere ai suoi padroni nudrir meglio i loro schiavi, affinchè non fossero obbligati a fare gli assassini da strada. All'udir queste insolenze Severo Augusto andava nelle smanie, dolendosi, che mentre i suoi nella Bretagna riportavano vittorie e tenevano in freno popoli intieri, egli non fosse da tanto da potersi liberar da un ladrone che, in faccia sua commettendo tante iniquità, si rideva di lui. Finalmente spedì in traccia di costui un tribuno con un corpo di fanteria e cavalleria, minacciando forte quest'uffiziale, se non gliel conduceva morto e vivo. Andò il tribuno, e per mezzo di una donna, con cui Bulla avea commercio, il colse in una grotta, e menollo vivo a Roma. Interrogato Bulla dal celebre giurisconsulto Papiniano, prefetto allora del pretorio, perchè si fosse dato al mestier del rubare: E tu, rispose, perchè fai il mestier di prefetto? volendo dire, che anche quell'uffizio era per rubare. Fu egli condannato alle bestie, e si dissipò tutta la ciurma de' suoi seguaci. Dione [Dio, lib. 76.] ci ha detto che in questi tempi Severo ebbe qualche vittoria nella Bretagna. Trovasi in fatti circa questi tempi ch'egli è chiamato in qualche medaglia [Mediobarbus, in Numism. Imperat.] Imperadore per la dodicesima volta. Il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.], pieno sempre delle sue idee di quinquennali, decennali, ec., sospettò ch'egli prendesse questo nome per cagion de' suoi quindecennali; ma con opinione da non abbracciare, certo essendo, che solamente per cagion di qualche vera o finta vittoria gli Augusti replicavano il titolo d'Imperadore. [705] Abbiamo assai lume da Dione per credere che avendo i generali di Severo riportato qualche considerabil vantaggio nella Bretagna, dove si era risvegliata la guerra, gli accrescesse il suo titolario. Anche suo figliuolo Caracalla Augusto si comincia a vedere Imperadore per la seconda volta.
Anno di | Cristo CCVIII. Indizione I. |
Zefirino papa 12. | |
Settimio Severo imper. 16. | |
Caracalla imperadore 11. | |
Settimio Geta imperad. 1. |
Consoli
Marco Aurelio Antonino Caracalla Augusto per la terza volta e Publio Settimio Geta Cesare per la seconda.
Allorchè Geta entrò console nell'anno presente, egli non era fregiato di altro titolo che di quello di Cesare. Che a lui in quest'anno fosse conferita dal padre Augusto la podestà tribunizia, sufficientemente si raccoglie delle medaglie [Mediobarbus, in Numism. Imp.]. Che anche ricevesse il titolo e l'autorità d'Imperadore Augusto, l'ho io bene scritto nel titolo dall'anno presente, per conformarmi al Pagi e ad altri che tengono tale opinione, ma con crederla nondimeno non esente da dubbi, perchè qui compariscono imbrogli nelle medaglie. E il volere il Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] dedur ciò dai decennali di Caracalla Augusto celebrati in quest'anno, sembrerà un lavorare sopra fondamenti non riconosciuti finora stabili. Potrebbe nondimeno essere ch'egli fosse nell'anno presente promosso a così eccelsa dignità; e certamente noi il troviamo Augusto nel seguente. Erasi, come accennai, riaccesa la guerra nella Bretagna, dove nondimeno niuna pace almen durevole era stata negli anni addietro [Herodianus, lib. 3.]. Vennero lettere a Severo Augusto da quel cesareo [706] governatore, che i Britanni non sudditi faceano grande massa di armati e scorrerie e saccheggi pel paese romano, e ch'egli abbisognava di rinforzi e soccorsi, e parergli anche necessaria la presenza dello stesso regnante. Già toccava l'imperador Severo gli anni della vecchiaia, stava anche male ne' piedi o per la podagra, o per doglie d'altra fatta. Contuttociò, a guisa di un baldanzoso e fresco giovinetto, accolse con piacere questo invito, e determinò di portarsi a quel ballo. Troppo di forza in lui avea l'appetito della gloria. Avea trionfato de' popoli dell'Oriente, sospirava di poter anche trionfare di quei dell'Occidente, e di procacciarsi il titolo di Britannico. Oltre a ciò gli premeva forte di levare i figliuoli dal lusso pericoloso di Roma, e dai soverchi divertimenti, per avvezzarli alla frugalità e temperanza usata nelle armate, siccome di non lasciar più lungamente marcir nell'ozio le milizie, le quali, al pari dei cavalli, se non son tenute in esercizio, diventano rozze. Però in quest'anno egli imprese il viaggio coi figliuoli, colla moglie Giulia e coll'esercito a quella volta. Per lo più si fece condurre in lettiga, e volle far posate, perchè la sollecitudine nelle marcie fu un suo ordinario costume, corrispondente al natural focoso, che in tutte le azioni sue dava a conoscere. Dione [Dio, lib. 76.], secondo il suo stile, anzi secondo l'uso universale degli storici di allora, vien dicendo ch'egli andò, benchè con sicurezza di non dover tornare; e qui sfodera una mano di augurii, e la di lui genitura che prediceva quanto dipoi avvenne. Possiamo ben credere ch'egli, prima che terminasse il corrente anno, passato felicemente il mare, arrivasse nella Bretagna, dove cominciò a far dei preparamenti grandiosi, per far pentire quei Barbari della loro insolenza.
Anno di | Cristo CCIX. Indizione II. |
Zefirino papa 13. | |
Settimio Severo imperad. 17. | |
Caracalla imperadore 12. | |
Settimio Geta imperad. 2. |
Consoli
Pompejano ed Avito.
Il Relando [Reland., in Consul.] e il padre Stampa [Stampa, Fast. Consul.] chiamano questi consoli Civica Pompejano e Lolliano Avito, fondati sopra una iscrizione rapportata dal Gudio. Ma io, che non so fidarmi delle merci gudiane, meglio ho riputato di mettere solamente i loro indubitati cognomi. Nè serve il dire che Capitolino [Capitolin., in Pertinace.] fa menzione di Lolliano Avito consolare, in parlando di Pertinace. Quell'Avito, se di lui si parlasse qui, il mireremmo appellato console per la seconda volta. Arrivato [Herodian., lib. 5.] che fu Severo Augusto nell'Isola Britannica, la sua presenza e le poderose forze ch'egli avea condotto seco, misero lo spavento in cuor di que' Barbari; e però non tardarono a spedirgli degli ambasciatori, per giustificarsi e per chiedergli pace. Ma Severo, che tanto s'era scomodato per andargli a trovare affin di conseguire la gloria d'essere intitolato Britannico, non volea già pace, ed unicamente cercava la guerra; perciò li rimandò colle mani vuote, ed attese a mettersi in ordine con tutti gli attrezzi militari, con ponti ed altri ordigni, per sottomettere il loro paese [Dio, lib. 76.]. Possedevano allora i Romani più della metà della Bretagna presa nella sua lunghezza, che vuoi dire, tutta la parte meridionale, cioè il più e il meglio di quella che oggidì appelliamo Inghilterra e Scozia, giugnendo il dominio loro almen sino allo stretto di Edemburgo. Dione ed Erodiano ci lasciarono una descrizione de' popoli che restavano tuttavia [708] esenti dal giogo romano, i principali de' quali erano i Meati e i Calidonii, gente di costumi barbari, feroce e bellicosa, nudi dalla cintura in su, col corpo dipinto, andando alla guerra armati solamente d'una corta lancia, d'uno scudo e di spada da punta. Le loro abitazioni erano sotto le tende fra aspre montagne e fra paludi, perchè niuna città o borgo si trovava fra essi. Lasciò Severo il minor suo figlino lo Geta per governatore del paese romano, con formargli un consiglio di alcune savie persone; ed egli col figliuolo maggiore Caracalla marciò alla guerra. Delle imprese sue dirò quel poco che sappiamo all'anno seguente.
Anno di | Cristo CCX. Indizione III. |
Zefirino papa 14. | |
Settimio Severo imperad. 18. | |
Caracalla imperad. 13. | |
Settimio Geta imperad. 3. |
Consoli
Manio Acilio Faustino e Triario Rufino.
Intorno alla guerra fatta dall'Augusto Severo nella Bretagna, altro non abbiamo da Erodiano [Herodian., lib. 3.], se non che seguirono varie scaramucce con quei Barbari, sfavorevoli per lo più ai Romani, perchè quella gente non si univa giammai per venire ad una regolata battaglia, e lavorava solamente d'insidie, ritirandosi ben tosto in salvo ne' folti boschi e nelle frequenti paludi. Lo stesso viene attestato da Dione [Dio, lib. 76.], scrivendo che Severo non diede in quelle parti battaglia alcuna, nè vide mai schierati nemici, per far fatto d'armi: laonde non si sa vedere, come il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] parli di molte vittorie da lui riportate in questa spedizione. La maniera tenuta da quei Barbari consisteva in esporre buoi o pecore, per tirare i soldati romani alla preda, ed opprimerli all'improvviso; e [709] guai se alcuno di essi Romani si dilungava punto dal corpo dell'armata o restava indietro: era tosto dai nemici ucciso o preso. Tra per questa guerra, e per le acque malsane di quelle contrade, e le tante fatiche, ci assicura esso Dione che vi perirono circa cinquantamila soldati romani. Nulladimeno l'indefesso Severo volea andare innanzi. Le selve, che si opponevano, le faceva tagliare; per le paludi apriva passaggi con terra portata; e gittando ponti sui fiumi, li valicava, facendosi portar sempre in lettiga a cagion della debolezza del corpo. Così arrivò sino al fine della parte settentrionale di quella grand'isola, con osservar ivi la diversità di quel clima dal nostro. Ma quivi le campagne erano incolte [Dio, lib. 76.]; niuna fortezza, niuna città si trovava per via; sicchè gli convenne tornar indietro alla fine con poco piacere. Pur queste sue bravure cagion furono che i Britanni barbari tornarono a dimandar pace, e l'ottennero con cedere una certa parte del paese ai Romani. Allora fu che Severo [Spartianus, in Severo.] tirò un nuovo muro, o pur rifece il vecchio al confine del dominio romano, disputando tuttavia gli eruditi Inglesi, per assegnare il sito d'esso muro e d'essi confini. Nulla di ciò dice Dione, e neppur Erodiano. Per questi felici avvenimenti tanto lo imperador Severo, quanto i suoi due figliuoli presero il titolo di Britannici, ma senza ch'eglino fossero di nuovo imperadori, perchè in fatti alcuna vittoria in battaglia campale non riportarono.
Ma queste felicità esteriori di Severo Augusto erano di soverchio amareggiate da vari suoi interni disgusti ed affanni. Mirava egli nel maggior de' suoi figli, cioè in Caracalla, che sempre più i vizii gli toglievano la mano; imperciocchè anche in mezzo alle fatiche della guerra egli si dava in preda alla libidine, e cresceva ogni dì più la sua insolenza e petulanza. Quel che più l'affliggeva, si era potersi [710] oramai prevedere che il bisbetico umore di questo suo maggior figliuolo avrebbe tolta la vita al minore, subito che avesse potuto. E tanto più se ne persuase, da che s'avvide che Caracalla nudriva dei neri pensieri contra la persona dello stesso suo padre, e se n'erano anche veduti due brutti cenni. Un dì uscì Caracalla dalla tenda del padre, gridando che Castore l'avea ingiuriato. Era Castore il migliore dei liberti di corte, mastro di camera del medesimo imperador Severo, che in lui depositava tutti i suoi segreti. Stavano appostati alcuni soldati al di fuori, che cominciarono anch'essi ad alzar la voce contra di Castore, e a chiamar altri. Forse aveano qualche mal animo, quando Severo, creduto da essi obbligato al letto, uscì fuori, e fattili prendere, fece morire i più sediziosi. Ma questo fu un nulla rispetto a ciò che avvenne nell'andar Caracalla col padre a trattar coi nemici caledonii, già disposti a cedere e capitolare. Benchè malconcio ne' piedi, marciava a cavallo Severo; e già si trovava quasi in faccia ai nemici, quando Caracalla, che cavalcava a lato del padre, fermò il cavallo, e sguainò la spada, per quanto fu creduto, con disegno di cacciarla nelle reni al padre. Chi veniva dietro alzò allora un grido, da cui atterrito Caracalla rimise tosto la spada nel fodero: e Severo, che si voltò indietro a quel grido, ebbe tempo di vedergliela in mano, ma allora non disse nè pure una parola. Fatto ch'ebbe l'accordo coi Barbari, se ne tornò al campo, e chiamato Caracalla nel suo padiglione, alla presenza di Papiniano prefetto del pretorio, e del suddetto Castore, fece portar una spada nuda; e poi cominciò a sgridare il figliuolo dell'orrido misfatto ch'egli avea tentato, e in faccia de' nemici; aggiugnendo in fine, che se tale era l'animo suo, se ne cavasse allora la voglia, giacchè egli era vecchio ed infermo, e vivuto abbastanza. Che se non ardiva di ammazzarlo di sua mano, lo ordinasse, siccome imperadore, a Papiniano prefetto, [711] che l'ubbidirebbe. Dovette Caracalla palliare, come potè, l'iniquo attentato, e se la passò senza che il padre gli torcesse un capello. E pur, soggiugne lo storico Dione, Severo più volte fu udito dir male di Marco Aurelio, perchè non avea tolto dal mondo quella mala bestia di Commodo; ed egli stesso talvolta si lasciò scappar di bocca, che farebbe a Caracalla ciò che non volle far Marco Aurelio a Commodo. Ma queste minacce gli uscivano dai denti, allorchè era in collera; e passata questa, si trovava ch'egli volea più bene ai suoi figliuoli che a tutta la repubblica romana. Con tuttociò neppur Severo amò i suoi figliuoli come dovea, perchè assassinò il men cattivo figliuolo, lasciandolo alla discrezion dello altro cattivissimo, tuttochè si credesse ch'egli prevedesse di certo la di lui rovina.
Anno di | Cristo CCXI. Indizione IV. |
Zefirino papa 15. | |
Caracalla imperad. 14 e 1. | |
Settimio Geta imperad. 4. |
Consoli
Genziano e Basso.
Abbiamo veramente una iscrizione presso il Panvinio [Panvin., in Fast. Consul.], riferita anche dal Grutero [Gruterus, Thes. Inscr., pag. 304, n. 6.], che ci fa vedere Quinto Epidio Rufo Lolliano Genziano, augure, console, proconsole della provincia di Lione, e conte (cioè consigliere ed assessore) degl'imperatori Severo ed Antonino Caracalla. Perciò il Relando [Reland., Fast. Cons.] diede tutti questi nomi a Genziano console di questo anno. Io non mi sono attentato a seguirlo. Imperocchè Capitolino [Capitolin., in Pertinace.] ci fa vedere sotto Pertinace Lolliano Genziano consolare, a cui verisimilmente appartiene il marmo gruteriano; nè questi può essere il console dell'anno presente, perchè sarebbe stato appellato console per la seconda [712] volta. Perciò più sicuro partito reputo io il non proporre se non i loro indubitati cognomi. Di corta durata fu l'accordo stabilito coi Britanni barbari. Tornarono essi alle primiere insolenze; Severo tanto bollente di collera, fatte raunar le sue schiere, inumanamente comandò loro l'esterminio di que' popoli, senza perdonar neppure alle lor donne e fanciulli. Trovavasi già da qualche tempo esso Augusto indisposto di corpo, più pel crepacuore di mirare i presenti disordini di Caracalla e di presagirne dei più gravi, che per gli soliti suoi malori. Andò sempre più declinando la di lui sanità, in guisa che restò confinato in letto [Dio, lib. 76. Herodian., lib. 3.]. Allora sì che il malvagio Caracalla più che mai si diede a guadagnare gli animi de' soldati, per escludere, se potea, il fratello Geta dal succedere nel comando. Studiossi ancora di accelerar la morte del padre, col corrompere quei medici che trovò privi di onore: e corse fama ancora, ch'egli aiutasse il male a sbrigarlo da questa vita. Si disse inoltre che Severo sugli estremi del vivere chiamati i figliuoli, gli esortò a camminar di concordia, e ad arricchire e tener ben contenti i soldati, senza poi far conto degli altri tutti [Aurelius Victor, in Epitome. Eutropius, in Breviario.]. Diede egli fine ai suoi giorni nel dì 4 di febbraio dell'anno presente nella città di Jorch, in età di sessantacinque e quasi sei mesi. Al di lui corpo furono fatte solenni esequie da tutta la milizia, e le ceneri riposte in un'urna di porfido o pur d'oro. Se è vero ch'egli prima di morire, fattasi portar quell'urna, tastandola con le mani, dicesse: In te capirà un uomo, a capir cui non era bastante tutto il mondo, fu questo un vanto sconvenevole a chi era sull'orlo della vita senza essere per anche giunto a conoscere sè stesso. Fu poi portata quell'urna a Roma, e con grande onore posta nel mausoleo di Adriano, ed egli dalla stolta Gentiltà deificato. Ed [713] ecco terminate le grandezze di Settimio Severo imperadore, che di bassa fortuna giunse al governo di un vastissimo impero, di mirabil penetrazion di mente, principe lodato anche all'eccesso pel suo raro valore, e per tante sue vittorie, implacabile verso chi cadeva dalla sua grazia, grato e liberale verso gli amici, amator delle lettere, avido del danaro che raccoglieva per tutte le vie, per ispenderlo poi non già per sè, poichè egli si contentava di poco, ma pel pubblico. Avea egli rifatte tutte le più insigni fabbriche di Roma [Spartianus, in Sev.], con rimettervi il nome dei primi fondatori. Dione [Dio, in Excerptis Vales.] diversamente scrive ch'egli vi mise il suo. Altre fabbriche suntuose fece di pianta, e liberale fu verso il popolo, ma più verso i soldati; e pure con tante spese lasciò un gran tesoro in cassa ai figliuoli, tanto frumento ne' pubblici granai, che potea bastar per sette anni a mantener i soldati, e chi del popolo ricevea gratis il grano, e tanto olio nei magazzini della repubblica, che per cinque anni potea soddisfare al bisogno, non dirò solamente di Roma, ma di tutta l'Italia. La sua rapacità nondimeno, e più la sua crudeltà guastarono ogni suo merito e pregio. E pure vennero tempi sì cattivi, che fu desiderato il suo governo, e si disse, come d'Augusto, che egli o non dovea mai nascere, o non mai morire. Sotto di lui fiorirono le lettere, e visse il maggiore dei Filostrati; e si crede che vivesse anche Diogene Laerzio, autore della bella opera delle Vite de' filosofi, oltre alcuni altri, de' quali abbiamo perduto i libri.
Morto dunque Severo Augusto, Marco Aurelio Antonino suo maggior figliuolo, soprannominato dipoi Caracalla, che si trovava all'armata, in tempo che i Britanni barbari aveano ricominciata la guerra [Herodian., lib. 3.], marciò contra di loro, non già per disertarli, ma per mettere tal terrore in essi, che abbracciassero la pace, altra [714] voglia non allignando in suo cuore, che quella di tornare il più presto possibile alle delizie di Roma. Stabilì dunque una pace, non quale si conveniva ad un romano imperadore, ma quale la prescrissero que' Barbari, con restituir loro il paese ceduto, ed abbandonare i luoghi fortificati dal padre. I suoi iniqui maneggi, perchè i soldati riconoscessero lui solo per imperadore ad esclusione di Publio Settimio Geta, suo minor fratello, dichiarato, siccome vedemmo, anch'esso Imperadore Augusto, non sortirono l'effetto ch'egli desiderava. Giurarono i soldati fedeltà all'uno e all'altro; e tanto si adoperò Giulia Augusta lor madre, e tanto dissero i comuni amici, che i due fratelli si unirono insieme, in apparenza nondimeno; perciocchè Caracalla, il qual pure godea se non tutta l'autorità del comando, certamente la maggior parte, da gran tempo covava in cuore il maligno pensiero di voler sedere solo sul trono cesareo. Ma finchè Geta si trovò in mezzo all'esercito, che l'amava forte, non osò mai di levargli la vita. Abbiamo bensì da Dione [Dio, lib. 76.], ch'egli tolse a Papiniano la carica di prefetto del pretorio, alzandolo forse al grado senatorio, e fece ammazzare Evodo che era stato suo balio, ed avea prestato a lui grande aiuto per levar di vita Plauziano. Del pari tolse di vita Castore, che già vedemmo mastro di camera di suo padre. Mandò poscia ordini, perchè fosse uccisa Plautilla sua moglie, e Plauto o Plauzio di lei fratello, relegati nell'isola di Lipari. Erodiano aggiugne che fece anche morir que' medici che non l'aveano voluto ubbidire per sollecitar la morte del padre; e molti altri ch'erano stati de' più cari ed onorati appresso il medesimo suo genitore. Con tali scene di crudeltà diede principio Caracalla al suo governo, e passato dipoi il mare colla madre, col fratello e coll'armata, accompagnato dai voti degli adulatori, sen venne a Roma, dove fu ricevuto con gran [715] festa e solennità [Herodianus, lib. 4.], e rendè gli ultimi doveri alla memoria del padre. Vedesi descritto da Dione il solennissimo funerale e l'empia deificazion di Severo fatta allora. Io mi dispenso dall'entrarvi. Può il lettore informarsene ancora, se vuole, da Onofrio Panvinio [Panvin., in Fast. Consul.].
Anno di | Cristo CCXII. Indizione V. |
Zefirino papa 16. | |
Caracalla imperad. 15 e 2. |
Consoli
Caio Giulio Aspro per la seconda volta e Cajo Giulio Aspro.
Erano fratelli questi due consoli, e, per attestato di Dione [Dio, in Excerpt. Valesianis.], figliuoli di Giuliano Aspro, personaggio pel suo sapere e per la grandezza d'animo assai rinomato, e tanto amato da Caracalla, che tanto egli che i suoi figliuoli furono esaltati da lui a' primi onori. Ma poca sussistenza ebbe il favore di questo bestiale Augusto. Giuliano da qui a non molto fu vituperosamente cacciato fuori di Roma ed obbligato a tornarsene alla sua patria. Un'iscrizione pubblicata dal Fabretti [Fabretti, Inscript., pag. 494.] ci fa vedere che sì l'un come l'altro portava il nome di Cajo Giulio Aspro: cosa nondimeno assai rara, e Dio sa se vera, non veggendosi distinto per alcun segno, come si usava, l'uno dallo altro. Nel viaggio a Roma dei due fratelli Augusti, Caracalla e Geta, diede negli occhi ad ognuno la comune lor diffidenza e discordia, perchè non alloggiavano mai nè mangiavano insieme; temendo cadaun d'essi di veleno. Più visibile riuscì poi in Roma il lor contraggenio, anzi l'odio vicendevole che l'un covava contro dell'altro, quantunque Geta, giovane di miglior cuore, solamente per necessità stesse in guardia, perchè assai persuaso del cuor fellone di suo fratello [Herodianus, lib. 4.]. Questa fiera diffidenza cagion fu ch'essi fecero [716] due parti del palazzo cesareo, per istar ben separati l'uno dall'altro, con far chiudere le porte frapposte fra i loro appartamenti, e tenendo solamente aperte quelle delle sale, dove amendue davano pubblica udienza. Nè già ad alcun d'essi mancava veruna delle comodità, perchè il palazzo imperiale era più vasto, se Erodiano dice il vero, del resto di Roma stessa: il che un gran dire a me sembra, e nol so digerire. Andò tanto innanzi questa contrarietà e mutola guerra fraterna, che ognun d'essi s'ingegnava di tirar più gente nel suo partito; nel che Geta avea più destrezza e fortuna, perchè generalmente più amato che l'altro, a cagion d'essere giovane placido, cortese verso tutti, in una parola assai diverso dal barbaro suo fratello. Cadauno intanto volle la sua guardia separata, lasciandosi vedere di rado insieme, e questo nelle sole pubbliche funzioni. Fu dunque proposto da qualche amico e consigliere, per prevenir maggiori disordini, che si dividesse fra loro l'imperio. Erano come d'accordo i due fratelli su questo. Contentavasi Geta di aver in sua parte l'Asia, la Soria e l'Egitto, lasciando tutto il resto nell'Europa e nell'Africa al fratello, con pensiero di mettere la sua residenza o in Antiochia o in Alessandria, città che allora poteano gareggiare in grandezza con Roma. I senatori di nazione europea resterebbono in Roma; gli altri potrebbono seguitar Geta. Nel consiglio degli amici del padre, e alla presenza di Giulia Augusta lor madre, spiegarono i due Augusti questa loro risoluzione. Con ribrezzo e con gli occhi fitti nel suolo ciascuno gli ascoltò, nè alcuno osava di aprir bocca, quando saltò su Giulia, e pateticamente loro parlò dicendo, che potrebbono ben partire gli Stati, ma come poi partirebbono fra loro la madre? e qui con singhiozzi e con lagrime li pregò di piuttosto uccidere lei, che di lasciarla sopravvivere a questo sì lagrimevole spettacolo. Correndo poi ad abbracciarli teneramente amendue, gli scongiurò di [717] vivere uniti in pace. Questo bastò perchè anche gli altri disapprovassero un tal fatto, troppo orrore sentendo ciascuno all'udire che s'avesse a dividere, e per conseguente da indebolir cotanto il romano imperio. Però nulla se ne fece.
Ma le dissensioni, le gare e i sospetti andarono sempre più crescendo, ed ognun d'essi fratelli pensava alla maniera di opprimere l'altro [Dio, lib. 77.]. Venne in mente a Caracalla di sbrigarsi di Geta nelle feste Saturnali dell'anno presente, perchè in esse una gran licenza si concedeva agli schiavi; ma perchè ebbe paura che troppo pubblico fosse il misfatto, se ne astenne. Tutte le strade ch'egli andò meditando, parendogli sempre pericolose, perchè Geta stava molto bene in guardia, ed era ben voluto, massimamente dai soldati, dai quali, siccome anche da buon numero di gladiatori, veniva custodito, prese in fine il partito di valersi dell'inganno, che che gliene potesse avvenire. Fece dunque credere a Giulia sua madre di volersi riconciliar da dovero col fratello, e che si abboccherebbe con lui nella di lei camera segreta. Chiamato Geta dalla madre, buonamente corse colà. Quando fu dentro, secondo Erodiano [Herodian., lib. 4.], lo stesso Caracalla di sua man lo scannò. Dione [Dio, lib. 78.], che scrive i fatti de' suoi giorni, confessa che Caracalla dipoi consacrò a Serapide la spada con cui avea ucciso il fratello; ma con aggiugnere che sbucarono fuori alcuni centurioni, già messi da Caracalla in agguato, che gli si avventarono anch'essi coi ferri nudi addosso. Altro non potè fare l'infelice giovane, che correre ad abbracciare strettamente l'atterrita Giulia, gridando: Mamma, mamma, aiutatemi, che mi ammazzano. L'ammazzarono in fatti nel seno dell'ingannata madre, che restò tutta coperta del sangue del misero figlio, e ne riportò anch'essa una ferita nella [718] mano, per averla stesa affin di trattener que' colpi. Questo fu il miserabil fine di Geta Augusto, nell'età sua di ventidue anni e nove mesi, probabilmente negli ultimi giorni di febbraio, o pur ne' primi di marzo, essendo egli nato nell'anno 189 della nostr'Era. Erodiano non men che Sparziano [Spart., in Geta.] cel descrivono per giovane non esente già da difetti, ma pure alieno dalla crudeltà, amabile, e che teneva a mente tutti i buoni documenti del padre. L'indegno Caracalla, dopo così enorme misfatto, corse qua e là pel palazzo, facendo lo spaventato [Herod., lib. 4. Dio, lib. 78.], e gridando di essere scampato dal più gran pericolo del mondo, e fingendo di non tenersi sicuro ivi, a gran passi (ed era la sera) marciò verso il quartiere de' pretoriani. I soldati, che erano di guardia del palazzo, non sapendo come fosse l'affare, gli tennero dietro anch'essi, passando per mezzo alla città con ispargere un gravissimo terrore fra il popolo, che non intendeva il soggetto di tanto rumore. Allorchè arrivò Caracalla alla fortezza de' pretoriani, andò diritto al luogo, dove stavano le insegne e gl'idoletti loro, fatto a guisa di cappella; e quivi prostrato a terra, fece vista di ringraziar il cielo che gli avesse salvata la vita. Corsero colà tutti i soldati, ansiosi di sapere che novità era quella; ed egli sempre parlando con parole ambigue di pericoli, d'insidie a lui tese, a poco a poco finalmente arrivò a far loro intendere che non aveano più se non un padrone. Poscia, per amicarseli, promise loro un regalo di duemila e cinquecento dracme per testa, e la metà di più del grano solito darsi loro: di maniera che in un sol dì egli dissipò tutti i tesori ammassati in diciotto anni colla crudeltà e rapacità da suo padre. Permise anche ai soldati di andare a spogliar vari templi delle cose preziose. Tanta prodigalità di Caracalla, ancorchè si venisse da lì a poco a scoprire il fratricidio, quetò gli animi di coloro, che [719] non solamente proclamarono lui Imperadore, ma dichiararono nemico pubblico l'estinto Geta.
Fermossi tutta la notte Caracalla nel campo dei pretoriani [Spartianus, in Caracalla.], e la mattina seguente accompagnato da tutto l'esercito in armi più del solito, portando egli stesso la corazza sotto le vesti, si portò al senato, facendovi anche entrare parecchi soldati con volere che sedessero. Parlò delle insidie in varie guise a lui tese dal nemico fratello, da cui anche ultimamente poco era mancato che non fosse stato ucciso a tradimento; ma che egli, in difendendo sè stesso, aveva ammazzato l'altro. Se crediamo ad Erodiano [Herodian., lib. 4.], parlò anche con asprezza e volto fiero contro gli amici di Geta. Dione [Dio, lib. 77.] nol dice, e nè pure Sparziano. Amendue bensì attestano, che all'uscir della curia rivolto a senatori: Ascoltate, disse, una cosa che rallegrerà tutto il mondo. Io fo grazia a tutti i banditi e relegati nelle isole. Con che egli venne a riempiere Roma di scellerati e malviventi, per poi popolar quelle medesime isole di persone innocenti. Tornossene Caracalla dal senato al palazzo, accompagnato di qua e di là da Papiniano e da Fabio Cilone, che gli davano di braccio, e sembravano due suoi cari fratelli, ma per far in breve un'altra ben diversa figura. Comandò poi che al cadavero dell'ucciso Geta fosse fatto un solenne funerale [Spartianus, in Geta.], e che gli fosse data sepoltura nel sepolcro dei Settimii nella via Appia. Di là fu poi esso trasportato nel mausoleo di Adriano. Che egli allora fosse deificato, lo scrive taluno, ma non se ne trovano sufficienti prove. Tutto ciò fece Caracalla per isminuir, se poteva, l'universale odiosità che [720] egli s'era tirata addosso con sì nero misfatto. Non istarò io qui a raccontare i presagii della morte violenta di Geta, che Sparziano, fecondo di tali osservazioni, poco per lo più degne di fede, lasciò scritti. Dirò bensì che Dio anche in vita punì Caracalla, perchè egli ebbe sempre davanti agli occhi l'orrido aspetto del fratello svenato [Dio, in Excerpt. Valesianis.], e dormendo se gli presentavano sempre, degli oggetti spaventevoli, e pareagli di vedere or esso suo fratello, ed ora il padre, che colla spada sguainata gli venivano alla vita. Scrive Dione, che, per trovar rimedio a questo interno flagello, ricorse fino alla magia, e che gli comparvero l'ombre di molti, fra le quali solamente quella di Commodo gli disse: Va, che t'aspetta il patibolo. Ne creda il lettor quel che vuole. Certo è bensì che questi tetri fantasmi gli guastarono a poco a poco la fantasia, talmente che il vedremo furioso. Ed egli non mancò di visitar i templi de' suoi dii, dovunque egli andava, e di mandarvi dei doni per quetar pure tante interne agitazioni; ma tutto fu indarno. Il bello era [Spartianus, in Geta.] che non udiva mai ricordarsi il nome di Geta, non ne mirava mai il ritratto, o le statue di lui, che non gli venissero le lagrime agli occhi. Ma o egli fingeva questo dolore, o pur egli ad ogni soffio di vento mutava affetti e voleri. Io mi riserbo di parlare all'anno seguente dell'incredibil sua crudeltà contro la memoria del fratello, benchè più propriamente appartengano al presente anno tutte quelle sue barbare azioni. E qui dirò unicamente ch'egli fece rompere tutte le statue di lui, ed anche fondere la moneta, dove era il suo nome.
Anno di | Cristo CCXIII. Indizione VI. |
Zefirino papa 17. | |
Caracalla imperad. 16 e 3. |
Consoli
Marco Aurelio Antonino Caracalla Augusto per la quarta volta e Decimo Celio Balbino per la seconda.
Per alcune ragioni da me altrove [Thesaur. Novus Inscript., pag. 356.] accennate, sufficiente motivo abbiamo di dubitare se il secondo console fosse Balbino o pure Albino. Che Marco Antonino Gordiano, il qual fu poi imperadore, venisse nel presente anno sostituito console a Balbino, pare che si ricavi da Capitolino [Capitol., in Giordano.]. Ma un'iscrizione scorretta del Grutero [Gruterus, Thesaur. Inscript., p. 44, n. 2.] ci fa veder Balbino tuttavia console nel dì 3 di novembre; e però resta dubbiosa la cosa. Che Elvio Pertinace, figliuolo del fu Pertinace Augusto, fosse anch'egli promosso in quest'anno al consolato, come stimarono il Panvinio [Panvin., in Fastis Cons.] e il Relando [Reland., in Fastis Consular.], molto più dubbioso, per non dir falso, a me comparisce. Debbo io qui ora accennare le immense crudeltà esercitate dall'inumano Caracalla nel precedente anno, e parte ancora in questo; ma quasi mi cade di mano la penna per l'orrore: tanto fu il sangue innocente sparso da quel mostro Augusto. Vanno concordi gli antichi storici [Dio, lib. 77. Herodianus, lib. 4. Spartianus, in Caracalla.] in asserire ch'egli sfogò la bestiale sua rabbia contro chiunque era stato o domestico o amico o in qualsivoglia maniera parziale allo ucciso fratello. Quanti nella numerosa corte di esso Geta, o liberti, o schiavi, o cortigiani d'altra specie, si trovarono, tutti furono messi a fil di spada; nè si perdonò a donne e fanciulli. Fino gli atleti, gl'istrioni, i gladiatori e qualunque altra persona che avesse servito al [722] divertimento degli occhi o degli orecchi di Geta, e fin que' soldati che stettero alla sua guardia, perderono la vita. Questo macello si andava facendo di notte, e, venuto il dì, si portavano i lor cadaveri fuori della città. Dione conta venti mila persone sacrificate in questa maniera dal furore tirannico di Caracalla. Sparziano aggiugne che furono innumerabili. Bastava che s'indicasse un qualche filo di attaccamento avuto con Geta, vero o falso che fosse, perchè si desse la sentenza di morte. Nè i suoi fulmini si fermarono senza percuotere anche l'alte torri. Era in que' tempi riputato l'arca del sapere legale il celebre Papiniano, stato già prefetto del pretorio, verso il quale poco fa vedemmo usate tante finezze da Caracalla. Non altro reato di lui si trovava che il glorioso di aver fatto il possibile per rimettere la concordia fra i due fratelli Augusti. V'ha nondimeno chi scrive [Zosimus., Histor., lib. 1.], esser egli caduto in disgrazia di Caracalla, perchè, chiestagli un'orazione da recitare in senato per sua discolpa, egli generosamente rispondesse che non era tanto facile lo scusare un fratricidio, come il commetterlo; ed essere un secondo delitto l'accusare un innocente, dopo avergli tolta la vita. Sparziano [Spartianus, in Caracalla.] crede ciò un sogno de' politici. Fuori bensì di dubbio è che Papiniano fu ammazzato per ordine di Caracalla, il qual poi riprese l'uccisore, perchè, nell'ucciderlo, si fosse servito della scure in vece della spada, strumento di morte riservato per la gente nobile. Un figliuolo di esso Papiniano, che era allora questore, e tre giorni prima avea fatto grande spesa in alcuni magnifici spettacoli, fu anch'egli tolto dal mondo. Abbiam veduto ancora Lucio Fabio Cilone, stato due volte console e prefetto di Roma, in auge di gran credito e fortuna. Caracalla il chiamava suo padre, perchè lo avea avuto per suo aio in gioventù; era [723] anche creduto il suo braccio diritto; ma niun si potea fidare del capo stravolto di un tale imperadore [Spartianus, in Caracalla. Dio, lib. 77.]. Perchè anch'egli avea persuasa l'union de' fratelli, Caracalla mandò un tribuno con alcuni soldati per tagliargli il capo. Costoro nol trovarono tosto; e si perderono a svaligiar le argenterie, i danari e gli altri preziosi mobili delle sue stanze. Coltolo poi al bagno, così com'era in camicia e in pianelle, il menarono per mezzo la città con disegno di ucciderlo nel palazzo, maltrattandolo intanto con pugni sul viso per la strada. La plebe e i soldati della città, al vedere in sì compassionevole stato un personaggio di tanta stima, alzarono un gran rumore e fecero sedizione. Avvisatone Caracalla, per quietare il tumulto, avendo paura di peggio, gli venne incontro, e, cavatasi la sopravveste militare, la pose indosso al quasi nudo Cilone, gridando: Lasciate stare mio padre; non vogliate toccare il mio aio. Fece poi morire quel tribuno co' soldati ch'erano iti per ucciderlo, fingendoli rei, per avere insidiato alla vita di un sì degno personaggio, ma con essersi comunemente creduto che li gastigasse per non averlo ucciso. Di altri nobili e senatori uccisi parlano Dione, Erodiano e Sparziano, facendone un fascio; ma verisimilmente non tulle quelle stragi appartengono ai due suoi primi anni. E qui non si dee tacer quella di Quinto Sereno Sammonico, uno de' più insigni letterati uomini di questi tempi, compositore di moltissimi libri, che son quasi tutti periti [Spartianus, in Caracalla. Capitolinus, in Giordano.], e che possedeva una biblioteca di sessantadue mila volumi, donati poi da suo figliuolo al secondo dei Giordani Augusti. Forse perchè Geta si dilettava forte della lettura dei di lui libri, Caracalla la prese con lui. Si trovava l'infelice Sammonico a cena quando gli arrivarono i sicarii che gli spiccarono la testa dal busto.
Anno di | Cristo CCXIV. Indizione VII. |
Zefirino papa 18. | |
Caracalla imperad. 17 e 4. |
Consoli
Messalla e Sabino.
Non è certo, come vuole il Relando [Reland., Fast. Cons.], che Messalla portasse il nome di Silio; nè questi potè essere quel Silia Messalla che Dione mette console nell'anno 193 sotto Giuliano, perchè sarebbe appellato console per la seconda volta. Tornando ora a Caracalla, volle egli, non so ben dire se in questo o nel precedente anno, rallegrare il popolo romano con degli spettacoli [Herod., lib. 4. Dio, lib. 77.], cioè con cacce di fiere, combattimenti di gladiatori e corse di cavalli. Ma quivi ancora ebbe luogo la sua crudeltà, mostrando il suo piacere nel vedere i gladiatori scannarsi l'un l'altro. Si sa [Spartianus, in Caracalla.] che, quando egli era fanciullo, pareva così inclinato alla clemenza, che non si poteva immaginare di più; perchè, vedendo uomini esposti alle fiere, si metteva a piangere, e voltava il viso altrove. E un dì, perchè uno de' fanciulli che giocavano seco fu aspramente battuto, per essersi scoperto attaccato alla religion giudaica (probabilmente vuoi dire Sparziano la cristiana), egli non guardò mai più di buon occhio il padre di esso fanciullo, o pur colui che l'avea sferzato. Ma, fatto grande, cangiò ben costumi e natura, e sua delizia divenne lo spargimento e la vista del sangue. Fra gli altri gladiatori che in que' giuochi perirono, uno fu Batone, forzato da lui a combattere nello stesso dì con tre altri di fila. Restò egli ucciso dall'ultimo, ma ebbe la consolazione che il pazzo imperadore gli fece una magnifica sepoltura. Un altro di essi gladiatori, appellato Alessandro, gli fu sì caro, che a lui innalzò molte statue in Roma ed altrove. Nelle corse poi dei [725] cavalli, perchè alcuni del popolo dissero qualche burla contro ad uno de' carrettieri da lui favoriti, ordinò a tutti i soldati di ammazzar chiunque avea parlato. Non conoscendosi i rei di questo gran delitto, restarono molti innocenti uccisi, e gli altri con denari riscattarono la lor vita. Ma perciocchè Roma era divenuta per lui un teatro di nere immaginazioni, se ne partì Caracalla, non già nel precedente, ma nel presente anno, perchè si ha una sua legge [L. Si hi quos servos., C. de libera causa.] data in Roma nel dì 5 di febbraio. Prese il pretesto di visitar le provincie, e di levar dall'ozio le milizie [Spartianus, in Caracalla.]. Andò nella Gallia, ed appena arrivato colà, fece morir il proconsole della provincia narbonese, sconvolse tutti quei popoli, guastò i privilegii delle città, e si comperò l'odio di ognuno. Ammalatosi quivi, guarì, e trattò poi crudelmente que' medici che l'aveano curato. Di là passò nella Germania. Che prodezze egli facesse in quelle parti, non è ben noto. Scrive Sparziano ch'egli verso la Rezia ammazzò molti Barbari, e soggiogò i Germani. Certo è [Dio, in Excerptis Valesianis.] che una specie di guerra fu da lui fatta contra dei Catti e degli Alemanni o Alamanni, il nome de' quali si comincia ad udire in questi tempi. Se crediamo ad Erodiano [Erodian., lib. 4.], fece Caracalla una bellissima figura fra i suoi soldati, perchè andava vestito da fantaccino, era de' primi ad alzar terreno, a far ponte, marciava a piedi coll'armi, mangiava poveramente al pari di essi, con altre simili scene di bravura. Dione [Dio, lib. 77, et in Excerp. Valesianis.] confessa anch'egli che la funzion di soldato seppe farla, fingendo nondimeno più di quel che era; ma non già quella di generale; e ch'egli in quella spedizione si fece assai ridere dietro dai popoli della Germania. Venivano i lor deputati fin dall'Elba per dimandar pace, ma nello stesso tempo dimandavano danaro; e Caracalla, dopo aver [726] fatta qualche rodomontata, li pagava bene, ed accordava loro delle pensioni, comperando a questo prezzo la loro amicizia. Anzi si cominciò ad affratellar cotanto con loro, che si vestiva alla lor moda, portava parrucca bionda, per assomigliar i loro capelli, e venne fino ad arrolar nelle sue schiere, ed anche nelle sue guardie, moltissimi di loro, con fidarsi da lì innanzi più di essi che dei soldati romani. Trattava anche in segreto alle volte con quei deputati, non essendovi presenti che gl'interpreti, a' quali fece poi levar la vita, affinchè non rivelassero le sue conferenze. In somma, o per diritto o per rovescio, tanto egli fece, che prese il titolo di Germanico, il quale comincia a vedersi nelle monete [Mediobarbus, in Numismat. Imperator.] di questi tempi. Truovasi anche appellato Imperadore per la terza volta, che non dà un sicuro indizio di vittoria, trattandosi di questo general da commedia.
Anno di | Cristo CCXV. Indizione VIII. |
Zefirino papa 19. | |
Caracalla imperad. 18 e 5. |
Consoli
Leto per la seconda volta e Cereale.
Un'iscrizione, probabilmente spettante a questo Leto console, e da me riferita nella mia Raccolta [Thesaurus Novus Inscription., pag. 353, num. 4.], se fosse a noi pervenuta ben intera, forse ci scoprirebbe ch'egli fu della famiglia Catia. Altri nomi loro dati dagl'illustratori de' Fasti, per essere dubbiosi, io li tralascio. Sparziano scrive [Spartianus, in Caracalla.] che un Leto, il quale era stato il primo a consigliar Caracalla di uccidere Geta, fu anche il primo forzato a morir col veleno, a lui inviato dallo stesso Caracalla; e però non dovrebbe essere questo che fu ora console. Dalla Germania, secondo il medesimo Sparziano, passò Caracalla nella Dacia, oggidì Transilvania, e vi si [727] fermò qualche tempo; con far ivi qualche scaramuccia coi Geti, appellati poi più comunemente Goti, e pare che ne riportasse vittoria. Elvio Pertinace, figlio del fu Pertinace Augusto, prese di qua motivo nell'anno seguente di dire un motto pungente; perchè, nominandosi i titoli dati a Caracalla di Germanico, Partico, Arabico ed Alemannico; aggiugnetevi, diss'egli, anche quello di Getico Massimo, come a lui dovuto per aver debellato i Geti, tacitamente nondimeno alludendo alla morte da lui data a Geta suo fratello. Forse non è vero ch'egli facesse guerra coi Geti, ma è ben da credere vero quel motto. Sappiamo che questo Pertinace fu fatto morire da Caracalla, e non già per questa puntura a lui riferita. Spanciano scrive che gli tolse la vita perchè era figliuolo di un imperadore. Ma come mai aspettò egli tanto? Forse fu in que' medesimi tempi che egli mandò all'altro mondo Claudio Pompeiano, nato da Lucilla, figliuola di Marco Aurelio Augusto, e da Pompeiano, cioè da un padre stato due volte console, e bravo generale di armate [Herodianus, lib. 4.]. Incamminossi poi Caracalla per la Mesia nella Tracia. La vicinanza della Macedonia produsse un mirabil effetto, perchè fece diventar questo Augusto un novello Alessandro. Se gli mancò il capo e il valore di quel gran conquistatore, non gli mancò già l'esterno di lui portamento. Si vestì egli alla macedonica, e poi scrisse al senato che gli era entrata in corpo l'anima di Alessandro, e per questo volea essere chiamato Alessandro Orientale. Da tali azioni che conseguenza sia per tirare il lettore, io non istarò a cercarlo. Inoltre della più scelta gioventù della Macedonia formò una brigata di fanteria, a cui diede il nome di falange macedonica, di sedici mila persone, tutte armate nella guisa che anticamente furono le truppe di Alessandro. Volle inoltre che si alzassero statue per tutte le città in onor di esso Alessandro, [728] e massimamente nel Campidoglio e in ogni tempio di Roma. Moveva il riso il vedere in varii luoghi immagini dipinte che con un sol corpo in due differenti viste rappresentavano la faccia di Alessandro il Macedone e di Caracalla.
Volendo poi passare il Bosforo di Tracia per entrar nell'Asia [Spartianus, in Caracalla.], fu in pericolo di fare naufragio, essendosi rotta l'antenna della sua nave; ma si salvò nello schifo. Racconta Dione [Dio, lib. 77.], che essendo giunto a Nicomedia, dove passò il verno di quest'anno, la sua vita era questa. Facea sapere ai senatori che l'accompagnavano (uno de' quali era lo stesso Dione) che alla levata del sole fossero pronti, perchè volea tener ragione e trattar degli affari spettanti al pubblico bene; e li facea aspettar fino a mezzodì, e talvolta fino a sera, senza mai lasciarsi vedere. Ed egli intanto si dava bel tempo col carrozzare, ammazzar bestie, addestrarsi ai combattimenti de' gladiatori, e col bere ed ubbriacarsi. Alla presenza degli stessi senatori mandava piatti di vivande e bicchieri di vino ai soldati ch'erano di guardia. Finalmente si lasciava pur vedere per isbrigar qualche causa, per lo più mezzo ubbriaco ed appena udite poche parole, voleva che si decidesse. Teneva in sua corte un eunuco spagnuolo, deforme al maggior segno non men di corpo che di costumi, creduto uno stregone, e fabbricator di veleni, che facea da padrone sopra il senato. Dappertutto manteneva spie che gli riferivano quel di vero o di falso che lor piaceva, senza parteciparlo al suo consiglio; volendo egli gastigar le persone senza saputa de' ministri: il che cagionava una somma confusion di cose, ed era seminario di molte ingiustizie. In tutti poi questi suoi viaggi pareva che avesse tolto di mira i senatori, per ridurli in camicia, volendo che a loro spese (cioè, per quanto io credo, della repubblica) fabbricassero per istrada [729] alloggi e case di molto costo, la maggior parte delle quali a nulla servirono, e nè pur erano da lui vedute. E dovunque egli s'immaginava di dover dimorare nel verno, esigeva che gli si edificassero anfiteatri e circhi; e questi appresso si distruggevano. Che s'egli impoveriva il senato e maltrattava i senatori, era poi tutto cortesia verso i soldati, e consisteva la sua gran premura in regalarli con prodigalità incredibile. Nelle monete [Mediobarb., in Numismat. Imper.] di quest'anno si vede esaltata la di lui liberalità VII, VIII e IX, senza fallo usata verso le milizie. Largamente poi spendeva in bestie fiere o mansuete, e in cavalli [Dio, lib. 77.], per far la caccia di quelle, o per correre alla disperata con gli altri in cocchio. Volta vi fu ch'egli uccise di sua mano cento cignali. E facendo le sue carriere, diceva d'imitare il sole, gloriandosi forte di non esser da meno di lui. Costrigneva poscia i suoi cortigiani e gli altri ricchi a rappresentar degli spettacoli con gravissima loro spesa, e vigliaccamente ancora dimandava ad essi del danaro quando n'era senza. Tale fu la sua maniera di vivere finchè regnò; e per questo suo scialacquare non si può dire quante gabelle nuove egli mettesse, quante estorsioni facesse; di maniera che egli in quei pochi anni diede il guasto a tutto l'imperio romano, e desolò le provincie. E diceva spesso di non abbisognar di cosa alcuna, fuorchè di danaro, da impiegarsi poi, non già in gratificar chi lo meritava, ma solamente per arricchir soldati e regalar adulatori. A Giunio Paolino donò egli un dì dieci mila scudi d'oro, perchè gli disse, che quando anche fingeva d'essere in collera, sapea farlo sì bene, che si credea veramente incollerito. Giulia Augusta sua madre, che gli tenne sempre compagnia in questi viaggi, non si guardò dal riprenderlo, perchè gittasse tanti tesori [730] in seno ai soldati, con essersi ridotto a non aver più un soldo di tanti danari giustamente o ingiustamente esatti; ed egli: Non dubitate, o madre (rispose mostrandole la spada), finchè questa durerà, non mancheranno danari. Tanto poi si mostrò spasimato per la memoria di Alessandro il Grande questo nuovo Alessandro, che, essendosi compiaciuto un dì in vedere un tribuno di soldati saltar molto snello a cavallo, gli dimandò di che paese fosse: Macedone, rispose egli. E il vostro nome? Antigono. E quello del padre? Filippo. Allora disse Caracalla: Ho tutto quel ch'io voleva; e il fece salire a più alto posto, e da lì a poco il creò senatore e pretore. Fu proposta davanti a lui la causa d'un certo Alessandro, non già Macedone, reo di molti misfatti. Perchè l'accusatore di tanto in tanto andava dicendo: Alessandro omicida; Alessandro odiato dagli dii. Caracalla, quasi che si parlasse di lui, saltò su gridando: Se non la dismetti di trattar così il nome di Alessandro, ti farò andar per le poste all'altro mondo. Conduceva anche seco molti elefanti, perchè ancor questo conveniva ad un vero imitator d'Alessandro e di Bacco. Ed ecco in quali mani era caduto in questi tempi il misero imperio romano. Furono nell'anno presente, se dice il vero Eusebio [Eusebius, in Chron.], terminate in Roma le terme antoniane, fabbricate d'ordine d'esso Caracalla. Sparziano [Spartianus, in Severo.] fa un bell'elogio di quell'edifizio, mirabile non meno per la magnificenza che per la bellezza dell'architettura. Resta ancora accertato, che laddove in addietro si contava per grazia grande il conseguire la cittadinanza di Roma, questo imperadore con suo decreto la diede a tutte le città del romano imperio: intorno a che molto hanno parlato i letterati illustratori delle cose romane.
Anno di | Cristo CCXVI. Indizione IX. |
Zefirino papa 20. | |
Caracalla imperad. 19 e 6. |
Consoli
Catio Sabino per la seconda volta e Cornelio Anulino.
Certi sono i cognomi de' consoli di quest'anno, cioè Sabino ed Anulino. Per conto dei nomi, un'iscrizione riferita dal Panvinio [Panvin., in Fast. Consular.] e dal Grutero [Gruterus, Thesaurus Inscript., p. 183, n. 4.], si dice posta Q. AQVILLIO SABINO II. SEX. AVRELIO ANVLLINO COS. Ma essa dee essere falsa; o, se è legittima, appartiene a qualche altro anno. Perciocchè un'altra presso il medesimo Grutero [Idem, pag. 261.] fu alzata CATTO SABINO II. ET CO. ANVLLINO COS., ed una parimente presso il Fabretti [Fabrettus, Inscript., pag. 682.], C. ATIO SABINO II. ET CORNELIO ANVLINO COS. In vece di C. ATIO, credo io che s'abbia a leggere CATIO SABINO II., perchè, se questo primo console fosse ornato del prenome, anche il prenome dell'altro apparirebbe. Dopo avere [Dio, lib. 77.] l'Augusto Caracalla passato il verno in Nicomedia, dove celebrò il suo giorno natalizio nel dì 4 di aprile, ripigliò il suo viaggio [Herodianus, lib. 4.]; ed arrivato alla città di Pergamo, celebre fra i Gentili pel tempio di Esculapio, dove si facea credere alla buona gente che quel falso dio in sogno rivelasse il rimedio dei mali del corpo: quivi Caracalla si raccomandò, e di cuore, a quella ridicola divinità, che pur non avea orecchi. Egli era malsano, e pativa varii mali, parte evidenti, parte occulti: effetti dell'intemperanza sua nella gola e nella libidine, per cui anche era divenuto inabile alla generazione [Dio, in Excerptis Valesianis.]. Sognò quanto volle; ma niun sollievo trovò a' suoi malori. Visitò la città d'Ilio, e benchè i [732] Romani si tenessero per discendenti dai Troiani, pure più onor fece, al sepolcro di Achille. Non si trovava chi facesse la figura di Patroclo. O di morte naturale o di veleno morì allora Festo, il più caro de' suoi liberti; e quella vana testa di Caracalla gli fece far le esequie con tutte quelle cerimonie che sono descritte da Omero per Patroclo del suo poema. Di là passò ad Antiochia, dove per qualche tempo attese alle delizie, e dichiarò guerra al re de' Parti. Ne prese motivo, perchè Tiridate ed Antioco, due de' suoi uffiziali, erano disertati e passati al servigio di quel re, il quale, non ostante che da Caracalla ne fossero fatte più istanze, non li volle mai rendere. Trovavasi allora quel re in dispari, perchè in guerra con un suo fratello, e Caracalla si gloriava di aver seminato fra loro la discordia; però, per non tirarsi addosso anche la potenza romana, fu costretto a restitur que' due uffiziali. Caracalla allora si quietò, al vedersi così rispettato e temuto; e fatto poi sapere ad Abgaro re di Edessa, o sia dell'Osroene, con amichevoli lettere, che desiderava di vederlo, questi sen venne; ma, credendo di trovare in Caracalla un imperador romano, vi trovò un traditore [Dio, in Excerpt. Valesianis.]. Abgaro fu messo in prigione, e Caracalla s'impadronì di quella provincia, dove in fatti lo stesso Abgaro per la sua crudeltà era forte odiato da quella nobiltà. Confessano tutti gli storici che la simulazione e il mancar di fede non fu l'ultimo dei vizii di Caracalla. Anche nella guerra fatta in Germania avea lavorato di frodi, gloriandosi poi di aver colle sue arti messa rottura fra i Vandali e Marcomanni, ed attrappolato Gaiovomaro re de' Quadi, con torgli anche la vita. Inoltre, avendo finto di voler arrolar nelle sue guardie moltissimi giovani di nazion germanica, gli avea poi fatti tagliare a pezzi.
In questi tempi ancora bolliva la discordia tra il re dell'Armenia e i suoi figliuoli. Caracalla colla sua consueta infedeltà chiamò cadaun d'essi alla corte, facendo loro credere di volerli accordare insieme. L'accordo fu, che tutti li ritenne prigioni, figurandosi di poter fare il medesimo giuoco dell'Armenia che avea fatto dell'Osroene; ma s'ingannò. Que' popoli presero l'armi per difendersi, senza volersi punto fidare di un principe che s'era troppo screditato colla sua perfidia. Avea Caracalla alzato al grado di prefetto del pretorio Teocrito, uomo vilmente nato, già ballerino nei teatri, e divenuto a lui caro, perchè stato suo maestro nel ballo, e che per ammassar roba commise varie crudeltà [Dio, lib. 77.], e facea anche sotto mano il mercatante. Presso Sifilino è detto essere stato tanta la di lui autorità nella corte, che la facea da superiore ai due prefetti del pretorio. Questo degnissimo generale fu da lui inviato con un corpo d'armata per sottomettere l'Armenia; ma da quei popoli rimase intieramente disfatto. Scrisse in questi tempi Caracalla al senato, con dire di saper bene ch'esso non sarebbe contento delle di lui imprese; ma che, tenendo egli una buona armata al servigio suo, avea in fastidio chiunque sparlasse di lui. Quindi volle passar in Egitto, con ispargere voce d'essere spinto da divozione verso Serapide, e da desiderio di veder la fiorita città di Alessandria, fabbricata dal suo caro Alessandro Magno [Herodianus, lib. 4.]. Arrivata questa nuova in quella città, gli Alessandrini, gente vana, non cupando in sè stessi per l'allegrezza, si diedero a far mirabili preparamenti di addobbi, di musiche, di profumi per accogliere con gran solennità il regnante. Ma Caracalla, secondo il suo costume, doppio di cuore, si portava colà non per rallegrar que' cittadini, ma per disertarli. Il natural di quel popolo era inclinato forte alla maldicenza, ed [734] avea sempre in bocca motti frizzanti, specialmente contro ai potenti. In fatti, senza nè pur risparmiare l'imperador stesso, misero in canzone la morte da lui data al fratello, attribuendogli anche un disonesto commercio colla madre, e deridendo la piccola di lui statura, non ostante la quale egli si credeva un altro Alessandro e un nuovo Achille. I principi saggi, che non prendono mosche, non fan più caso di simili ciarle, di quel che si faccia delle ingiurie de' pappagalli e delle gazze. Ma all'iracondo e bestial Caracalla esse trapassavano il cuore, e però ne volea far gran vendetta. Giunto ad Alessandria, visitato con divozione il tempio di Serapide, vi fece molti sagrifizii; andò al sepolcro di Alessandro, e vi lasciò de' preziosi ornamenti. Gridavano gli Alessandrini: Viva il buon Imperadore; e lo sdegno sanguinario di Caracalla stava allora per piombar sulle loro teste. Erodiano scrive che, fatta raunar la gioventù di Alessandria fuori della città, che ascendeva a migliaia, fingendo di voler formare un falange ancora di Alessandrini, dopo averli fatti attorniare dal suo esercito, tutti ordinò che fossero messi a fil di spada. Orridissima fu quella strage. Dione [Dio, lib. 77.] scrive che il macello seguì nella città di notte e di giorno, ed essere stato sì grande il numero degli uccisi, che impossibile fu il raccoglierlo [Spartianus, in Severo.]. Vi perì gran copia ancora di forestieri venuti per veder quelle feste; il sacco fu dato ai fondachi a alle case, nè andarono esenti dalla rapacità militare que' templi. E questi furono i nemici che il detestabil Augusto andò a cercare in Oriente per gastigarli. Divise poi la città in due parti, la privò di tutti i privilegii, e lasciovvi presidio, con divieto ai cittadini di far adunanze in avvenire. Perseguitò ancora i seguaci di Aristotile, con dire che quel filosofo era stato cagion della morte di Alessandro, e levò loro le scuole che godevano [735] in quella città. Da uno di quegli oracoli Caracalla fu chiamato una fiera; ma chi v'ha che non l'abbia a chiamar tale, e vedute crudeltà sì enormi? Anch'egli nondimeno si gloriava di questo, benchè molti poi facesse uccidere, perchè divulgavano l'oracolo suddetto.
Tornossene questa fiera Augusta ad Antiochia, con animo di far una delle sue frodi anche ad Artabano re dei Parti. Se crediamo ad Erodiano [Herodianus, lib. 4.], gli dimandò per moglie una di lui figliuola, proponendo nello stesso tempo di far una specie di unione delle due monarchie, sufficiente ad assoggettar tutto il mondo allora conosciuto. Non ne volea sentir parlare a tutta prima Artabano, ma poscia, accettato il partito, lasciò campo a Caracalla d'inoltrarsi nel suo regno, come s'egli andasse a prendere la sposa, e a visitar il re suocero. Venne da una certa città ad incontrarlo Artabano con immensa quantità di gente tutta inghirlandata e senz'armi. Allora Caracalla comandò a' suoi di menar le mani contra de' Parti, che, trovandosi privi di cavalli e d'armi, ed imbrogliati dalle vesti lunghe, nè poteano punto difendersi, nè speditamente fuggire. Gran carnificina vi fu fatta; il re ebbe tempo di scappare; restò il paese in preda ai Romani, i quali, stanchi del tanto uccidere e rubare, se ne tornarono finalmente nella Mesopotamia colla gloria di essere insigni traditori. Dione [Dio, lib. 78.], all'incontro, lasciò scritto (ed è ben più verisimile il suo racconto) che avendo Artabano promesso la figliuola a Caracalla, e poi negatala, perchè s'avvide avere un sì perfido Augusto dei perniciosi disegni sopra il suo regno, e che non era uomo da fidarsi di lui; allora Caracalla ostilmente entrò nella Media, saccheggiò e smantellò varie città, e fra l'altre Arbela, e distrusse i sepolcri dei re parti. Si servì ancora di lioni, mandandoli a quelle [736] genti [Spartianus, in Severo.]. Dione nondimeno scrive che fu un solo lione, che, calato all'improvviso dal monte, fece del male ai Parti. Ora, quantunque niuna battaglia seguisse, perchè i Parti scapparono alle montagne, e di là dal fiume Tigri, pure il vano imperadore scrisse al senato magnifiche lettere di queste sue vittorie, colle quali avea conquistato tutto l'Oriente, e volle il titolo di Partico. Si sapeva a Roma quel ch'era, ma convenne far vista di credere illustri e memorande quelle imprese. Nelle monete [Mediobarbus, in Numismat. Imp.] dell'anno seguente si trova menzionata la vittoria partica, ma non si vide già che egli prendesse il titolo di Imperadore per la quarta volta, benchè al Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] sia sembrato di vederlo. Venne [Spartianus, in Severo.] poscia Caracalla coll'armata a prendere la stanza di verno nella città di Edessa, assai contento delle sue strepitose prodezze.
Anno di | Cristo CCXVII. Indizione X. |
Callisto papa 1. | |
Macrino imperadore 1. |
Consoli
Caio Bruttio Presente e Tito Messio Extricato per la seconda volta.
Ricevette in quest'anno la corona del martirio san Zefirino papa, e fu in suo luogo posto nella cattedra di san Pietro Callisto. Svernò, come già accennai, l'Augusto Caracalla in Edessa [Anastasius Bibliothecar.], dove tanto egli che i soldati suoi viveano nelle delizie senza disciplina alcuna nelle case de' cittadini, e prendendo come proprie tutte le loro sostanze; quando, secondo i regolamenti de' tempi addietro, i soldati anche in tempo di verno abitavano sotto le pelli, cioè sotto le tende fatte di pelli. Lo stesso imperadore avea mutata la forma delle vesti militari, avendo presa dai Galli la foggia di un [737] abito talare, appellato Caracalla, con cappuccio, di cui andava egli vestito [Spartianus. Dio. Aurelius Victor.], e voleva che andassero vestiti anche i soldati. Di là venne il soprannome a lui dato di Caracalla. Si avvidero allora i Parti che non erano poi lioni i Romani; anzi, in sapere che la vita molle del quartiere di verno e le fatiche dell'anno precedente aveano snervata la milizia romana, facean dei gran preparamenti per vendicarsi. Ma nè pur Caracalla si teneva le mani alla cintola, ammassando anche egli gente, e quanto occorreva per tornare in campagna contra di loro; quando Iddio volle mettere fine alle iniquità di questo indegno imperadore o piuttosto esecrabil tiranno. Esercitava in questi tempi l'uffizio di prefetto del pretorio, o sia capitan delle guardie, Marco Opellio Macrino, nativo d'Africa, i cui natali furono vilissimi. Era in età di circa cinquantatrè anni. Capitolino [Capitol., in Macrino.], nella Vita di lui, ne parla assai male. Dione, all'incontro, scrive [Dio, lib. 78.] aver egli con alcune buone qualità compensati i difetti della sua bassa nascita, essendo stato competentemente dotto nello studio legale, uomo moderato, avvezzo a giudicare con molta equità, e che si facea amare. Avvenne che un indovino in Africa chiaramente disse ch'esso Macrino e Diaduminiano suo figlio, in età allora di circa nove anni, aveano da essere imperadori [Herodianus, lib. 2.]. Costui, mandato a Roma, confessò questo medesimo a Flavio Materniano, comandante delle milizie lasciate in Roma, il qual tosto ne spedì l'avviso a Caracalla Augusto. Ma, per attestato di Dione, non andò la lettera direttamente a lui, perchè ordine v'era di portar le lettere provenienti da Roma a Giulia Augusta, la quale, dimorando in Antiochia con grande autorità, avea l'incumbenza di accudire a tutti gli affari, per non isturbare il figliuolo occupato [738] nella guerra coi Parti. Intanto avendo Ulpiano Giuliano, allora censore, inviato frettolosamente a Macrino un altr'uomo coll'avviso di quanto bolliva in Roma contra di lui, Macrino venne prima di Caracalla a risapere il pericolo a cui egli era esposto, perchè in simili casi vi andava la vita. Si aggiunse che un certo Serapione Egiziano pochi dì prima avea predetto a Caracalla che poco restava a lui di vita, e che gli succederebbe Macrino. Fu ben pagata la di lui predizione, con essere dato in cibo ai lioni. Imperciocchè Caracalla conduceva sempre seco una man di lioni, e specialmente ne amava uno assai dimestico, appellato Acinace (noi diremmo scimitarra), e il teneva a guisa d'un cane alla tavola, al letto od alla porta, con baciarlo sovente pubblicamente. Per tali accidenti determinò Macrino di prevenir la morte propria con procurar quella di Caracalla. Erodiano [Herodianus, lib. 2.] aggiunge che Caracalla anche talvolta aspramente motteggiava Macrino, trattandolo da uomo da nulla nel mestier dell'armi, con giungere ancora a minacciargli la morte. Secondochè s'ha dal medesimo storico, arrivato il plico delle lettere spedite da Materniano, Caracalla, che in cocchio era dietro a far correre i suoi cavalli, lo diede a Macrino, come era suo costume alle volte, con ordine di riferirgli dipoi le cose importanti, e di eseguir intanto quelle che esigessero risoluzione. Trovò [Dio, in Excerptis Vales.] per questo fortunato accidente Macrino il brutto avviso che di sua persona era dato a Caracalla. Osservi qui il lettore che mali effetti producesse una volta la troppa credenza agl'impostori indovini. Caracalla avea gli oroscopi e le geniture di tutti i nobili romani, credendo di conoscere chi l'amava o l'odiava, e chi gli potesse tendere insidie. Si folle credenza o produsse o almeno accelerò la di lui rovina.
Macrino adunque, senza perdere tempo, giacchè credeva perduto sè stesso, qualora Materniano avesse con altre lettere replicato l'avviso, segretamente trattò con un tribuno delle guardie, appellato Giulio Marziale, della maniera di levar dal mondo l'iniquo Caracalla. Oltre all'essere Marziale uno de' maggiori suoi amici, nudriva ancora un odio gravissimo contra di esso Augusto, perchè avea fatto morir, qualche tempo prima, indubitamente un di lui fratello. Promise egli di fare il colpo alla prima buona congiuntura. Infatti, nel dì 8 di aprile, essendo montato a cavallo Caracalla con poche guardie [Dio, lib. 78. Herod., lib. 4. Spartianus, in Severo.], per andare alla città di Carre a fare il sacrifizio alla dea Luna, appellata da quel popolo il dio Luno, essendo smontato per una necessità del corpo, e ritiratesi per riverenza le guardie; Marziale, che stava attento ad ogni momento per isvenarlo, se gli accostò con qualche pretesto, quando egli ebbe soddisfatto al bisogno, ovvero per aiutargli a risalire a cavallo, perchè non erano in uso allora le staffe. Quel che è certo, con un pugnale gli diede una ferita nella gola, e morto lo distese per terra. Perchè l'altre guardie non si avvidero così tosto del colpo fatto, avrebbe potuto salvarsi Marziale, se avesse lasciato indietro il pugnale. Ma riconosciuto da uno de' Tedeschi, o pure Sciti, che scortavano Caracalla, gli scagliarono dietro delle freccie e l'uccisero. Divulgata la morte dell'imperadore, corse colà tutto l'esercito, e più degli altri Macrino si mostrò dolente d'una sciagura, per cui internamente facea gran festa il suo cuore. Ma a chi era morto nulla giovavano i lamenti altrui. Così Marco Aurelio Antonino, non meritevole d'essere da noi rammentato se non col soprannome di Caracalla, terminò i suoi giorni in età di ventinove anni, dopo aver regnato solo sei anni, due mesi ed [740] alcuni giorni. Egli [Dio, lib. 78.] era anche soprannominato Tarante, dal nome di un gladiatore, il più sparuto e scellerato uomo che vivesse sopra la terra. E morì odiato da tutti, ma non già dai soldati, ancorchè non pochi sofferissero mal volentieri che egli nelle sue guardie anteponesse i Germani e gli Sciti ai Romani. Macrino, fatto dipoi bruciare il di lui corpo, e riposte le ceneri in un'urna, le mandò ad Antiochia a Giulia sua madre. Dopo qualche tempo le fece egli stesso portare a Roma a seppellire nel mausoleo d'Adriano. Allorchè arrivò a Roma la nuova della morte di Caracalla, non si attentava la gente a mostrare di crederla vera, finchè, venuti più corrieri ed accertato il fatto, ognuno lasciò la briglia all'allegrezza, ma specialmente il senato e la nobiltà, a' quali parve di ritornar in vita [Capitolinus, in Macrino.], perchè in addietro lor sempre parea di aver la spada pendente sul capo. Caricarono i senatori il nome e la memoria di lui dei più obbrobriosi titoli, ma per paura de' soldati non ardirono di chiamarlo nemico pubblico. Anzi, creato che fu imperadore Macrino, vennero sue lettere, colle quali pregava il senato di decretare gli onori divini ad esso Caracalla, e bisognò ubbidire. E si vide allora, come osserva fin lo stesso Sparziano di professione pagano [Spartianus, in Caracalla.], questa orrida deformità, che un uccisore del padre e del fratello, un boia del senato e del popolo di Roma e d'Alessandria, l'orrore in somma del genere umano, presso il quale dopo morte si trovò una incredibile copia di varii veleni, per valersene a soddisfare le sue voglie crudeli: questo mostro, diss'io, conseguì il titolo di dio, e per ordine di un Macrino, che l'avea fatto uccidere, con aver da li innanzi tempio, sacerdoti e cultori. Saran pure stati contenti ed allegri di sì nobil compagnia gli dii della Gentilità! avran pure ottenuto delle belle [741] grazie da questo nuovo dio i Pagani! Io tralascio i presagii della di lui morte riferiti da Dione [Dio, lib. 68.], gran cacciatore di somiglianti augurii, ai quali per lo più si facea mente dopo il fatto.
Quanto a Giulia Augusta, madre di esso Caracalla, si vuol ora avvertire che essa era nata in Soria, e probabilmente ella fu che condusse colà il figliuolo, forse per non partirne mai più. Grande era stata sotto Severo Augusto suo marito la di lei autorità, maggiore fu sotto il figlio Caracalla, di modo che comunemente veniva appellata Julia Domna, cioè Giulia signora e padrona. L'adulazione inoltre inventò per lei i titoli di madre degli Augusti, della patria, del senato, delle armate. Sparziano [Spartianus, in Severo.] le dà taccia di donna infame per gli adulterii, ed aggiunge anche un fatto più nero, cioè che il figliuolo, dopo la morte di Severo, la prese per moglie nella seguente maniera. Essendo ella bellissima femmina, si lasciò un dì vedere a Caracalla quasi affatto ignuda. Miratala in quell'atto Caracalla, disse: Io vorrei se fosse lecito...! Ed ella rispose: Purchè vi piaccia, è lecito. Non siete voi imperadore? A voi tocca di dar le leggi, e non di riceverle. Ed egli allora la sposò. Così orrido è il fatto, che lo stesso Sparziano tenne Giulia per matrigna, e non già per madre di Caracalla; e, da lui addottrinati, scrissero lo stesso anche Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.], Eutropio [Eutrop., in Breviar.], Eusebio [Eusebius, in Chron.] ed altri; ma queste son tutte fandonie e calunnie. Dione, che fu famigliare di essa Giulia Augusta, ed Erodiano, che fiorì almeno in vicinanza di questi tempi, concordemente asseriscono che essa Giulia fu vera madre di Caracalla e di Geta [Dio, lib. 78. Herodianus, lib. 4.], e ce la descrivono per donna savia ed applicata alla filosofia. Nè all'età di lei, che si dovea accostare ai [742] cinquant'anni, conviene l'eccesso narrato da Sparziano. Oltre di che, se Caracalla l'avesse presa per moglie, non avrebbe trattato col re dei Parti di prender una di lui figliuola. Dalle dicerie degli Alessandrini venne questa calunniosa voce. Già vedemmo che la maldicenza la trattava da Giocasta. Contra chi è odiato nulla è più facile che l'inventare delitti oltre al vero. Non può già negarsi che Giulia non fosse donna di rara avvedutezza e disinvoltura. Ancorchè il barbaro Caracalla le avesse ammazzato in grembo il figliuolo Geta [Dio, lib. 78.], pure seppe ella contener le sue lagrime, per non accusare ed irritare il bestial fratricida; anzi contraffaceva in pubblico a dispetto del suo dolore il volto sereno ed allegro, perchè era notata ogni sua parola ed ogni menomo gesto. Non si accorda ciò col dirsi da Sparziano [Spartianus, in Geta.], che avendo ella sparse alcune lagrime in compagnia di alcune dame, poco mancò che Caracalla non facesse morir lei e tutte quelle sue confidenti. Ci assicura Dione ch'ella da lì innanzi fu sommamente rispettata dal figliuolo Augusto, e che a lei diede l'incumbenza di rispondere alle lettere e di fare i rescritti ai memoriali, con dover solo riferire a lui le cose più importanti. Stavasene in Antiochia allorchè arrivò la nuova certa che il figliuolo Caracalla era stato tolto dal mondo [Dio, lib. 78.]. Sopraffatta dal dolore, più pugni si diede sul petto, che irritarono forte un cancro che già l'affliggeva. Scaricando ancora la sua bile contra di Macrino, altro non desiderava che di morire; non già che ella amasse il perduto figliuolo, ma perchè colla morte di lui era spirata la somma di lei autorità. Tuttavia, perchè Macrino le scrisse con assai civiltà, lasciandole tutti i suoi uffiziali e fin le guardie, anche ella lasciò andare il pensiero di non più vivere. Informato poi Macrino del suo sparlare, e ch'ella facea dei segreti [743] maneggi per rendersi padrona dell'imperio, le mandò ordine di levarsi da Antiochia. Tra per questo, e per la nuova a lei pervenuta degli strapazzi fatti in Roma alla memoria e al nome di Caracalla, si lasciò essa dipoi morire col non volere cibarsi; benchè Erodiano [Herodianus, lib. 4.] scrive, essere incerto se spontanea o forzata fu la di lei morte.
Due giorni stette vacante l'imperio, perchè l'armata cesarea di Soria non sapea a chi conferirlo; e pur conveniva affrettarsi, perchè con poderoso sforzo di armati era già in campagna Artabano re de' Parti, voglioso di vendicar le ingiurie e i danni a lui recati da Caracalla [Dio, lib. 78.]. Macrino esternamente parea non ricercare quella sublime dignità, per non dar sospetto all'armata di aver tenuta mano alla morte di Caracalla, ma segretamente faceva i suoi maneggi coi primi uffiziali, affinchè in lui cadesse la elezione. Per suggestione appunto di essi, nel dì 11 d'aprile, e non già per inclinazione che ne avessero, i pretoriani proclamarono Macrino imperadore: al che consentì il restante dell'esercito. Aveano prima tentato di alzare al trono Advento, prefetto anch'esso del pretorio; ma egli non avea voluto accettare, con allegar la troppo avanzata età. Anche Macrino fece alquanto lo schifoso, pure in fine mostrò di cedere alla lor premura [Capitolin., in Macrino.]. Diede un regalo ai soldati, e molto più ne promise. Per farsi anche credito presso i medesimi, assunse il nome di Severo; e però nelle monete [Mediobarbus, in Numismat. Imp.] si trova chiamato Marco Opellio Severo Macrino: per lo che fu deriso, niuna attinenza avendo egli con Severo già Augusto. Vuol Capitolino che fosse da lui preso anche il nome d'Antonino; ma di ciò niun vestigio apparendo nelle monete e nelle iscrizioni, si crede un fallo di quello storico. Il nome bensì di Antonino, troppo caro all'esercito, diede [744] egli a Diadumeniano suo figliuolo, con dichiararlo Cesare e principe della gioventù. Comparisce egli nelle monete [Mediobarb., in Numismat. Imper.] col nome di Marco Opellio Antonino Diadumeniano. Ha creduto il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.] che dal padre sul principio del suo imperio gli fosse conferita la podestà tribunizia, e che amendue prendessero il consolato dell'anno presente, sostituiti ai due consoli ordinarii. Ma questa opinione è appoggiata solamente a qualche medaglia [Mediobarbus, in Numismat. Imperator.], che sarà adulterata o falsa. Tale specialmente è, a mio credere, una, in cui Diadumeniano è chiamato all'anno seguente console per la seconda volta, ornato della tribunizia podestà per la seconda, imperadore, pontefice massimo e padre della patria. Dio sa se Diadumeniano fu nè pure imperadore Augusto. Erodiano [Herodianus, Histor., lib. 4.], Dione [Dio, lib. 78.], Capitolino [Capitol., in Macrino.] e Lampridio [Lampridius, in Diadumeniano.] o ne dubitano, o chiaramente il riconoscono non più che Cesare. Il che risulta ancora da una iscrizione esistente nel museo cesareo, e da altre nell'appendice da me [Thesaur. Novus Inscript., pag. 469, n. 1.] pubblicate, dove nell'anno seguente Diadumeniano tuttavia vien detto Cesare e principe della gioventù, e non già imperadore, nè console, e tanto meno console per la seconda volta. Ivi ancora s'incontra Macrino console, ma senza segno alcuno di aver egli altra volta tenuta la dignità consolare. Impostori di medaglie, non men che d'iscrizioni antiche, non sono mancati negli ultimi secoli.
Scrisse poi Macrino lettere di molta sommessione al senato, il quale non fece difficoltà di accettarlo, qualunque egli fosse: tanto era il piacere di vedersi liberato dal carnefice Caracalla. Perciò il proclamarono patrizio romano [Capitolinus, in Macrino.], che [745] nè pur tale era egli in addietro; e gli conferirono la podestà tribunizia e l'autorità proconsolare con tutti gli altri onori. Trovavasi imbrogliato Macrino, perchè dall'un canto, per non dispiacere ai soldati, dovea mostrare di amar la memoria di Caracalla: e, ciò facendo, disgustava il senato ed innumerabili altri. Tuttavia cassò alcune leggi ingiuste di Caracalla, levò via le esorbitanti pensioni da lui accordate [Dio, lib. 78.], relegò ancora in un'isola Lucio Priscilliano, famoso per gli combattimenti da lui bravamente fatti con assaissime fiere, ma più per le sue calunnie, che aveano cagionata la morte di moltissimi cavalieri e senatori, allorchè era favorito di Caracalla [Herodianus, lib. 4.]. Anche tre senatori, spie d'esso Caracalla, ebbero il medesimo gastigo, con altri non pochi di minore sfera. Intanto il re dei Parti Artabano, messo insieme un formidabile esercito di fanti e cavalli, entrò nella Mesopotamia, e veniva a bandiere spiegate per vendicarsi de' torti a lui fatti dal perfido Caracalla. Macrino, uomo di poco cuore, spedì ambasciatori per placarlo e per trattar di pace. Ma Artabano mise ad alto prezzo questa pace, con pretendere il rifacimento delle terre e città rovinate da' Romani, ed eccessive somme di danaro in compenso de' sepolcri guasti e di tanti altri danni recati al suo paese. Appena ebbe data questa risposta, che comparve con tutte le sue forze in faccia ai Romani nelle vicinanze di Nisibi [Dio, lib. 78.]. Due sanguinosissime battaglie si fecero, dove perì innumerabil gente, e sempre con isvantaggio de' Romani. Allora il tremante Macrino più che mai rinforzò le preghiere per la pace, ed Artabano ebbe anch'egli i suoi motivi di concorrere in essa, ma con venderla ben cara. Scrive Dione, aver Macrino spesi cinque milioni di ducatoni per far cessare questa guerra, con aver anche restituiti i prigionieri e [746] quel bottino che si potè. Se merita in ciò fede Capitolino [Capitol., in Macrino.], Macrino ebbe da combattere ancora coi popoli dell'Armenia e dell'Arabia Felice, ed in ciò mostrò valore, e fu fortunato. Abbiamo solamente da Dione ch'egli stabilì la pace con quel re Tiridate. Sembra poco verisimile l'altro punto dell'Arabia Felice. Andarono queste nuove a Roma, e tuttochè sia da credere che il senato avesse delle informazioni fedeli de' sinistri successi, pure serrò gli occhi, e alle lettere di Macrino, che parlavano di vittoria, e promettevano ottimo governo, rispose con pienezza di civiltà e di congratulazioni, accordandogli il titolo di Partico e il trionfo, ch'egli nondimeno ricusò, per non sentire i rimproveri della sua coscienza. Avvicinandosi poi il verno, egli sen venne ad Antiochia, e compartì l'armata per la Soria.
Anno di | Cristo CCXVIII. Indizione XI. |
Callisto papa 2. | |
Macrino imperadore 2. | |
Elagabalo imperadore 1. |
Consoli
Marco Opellio Severo Macrino Augusto ed Oclatino Advento.
Questo Advento console quel medesimo è che in compagnia di Macrino era dianzi prefetto del pretorio, ed avea ricusato l'imperio. Macrino il compensò con quest'onore, benchè fosse anch'egli di bassissima sfera. Non si può ben chiarire il di lui prenome e nome. Il Relando [Reland., Fast. Cons.], con produrre una iscrizione assai logora del Fabretti, il nomina Q. M. Coclatino Advento per la seconda volta. Non è da credere ch'egli usasse due prenomi, o che il suo nome fosse disegnato con un solo M. Molto meno sussiste ch'egli fosse stato console un'altra volta [Noris, Epist. Cons.]. Dai frammenti di Dione abbiamo che fu [747] ripreso Macrino per aver creato senatore, collega nel consolato e prefetto di Roma Advento, uomo già soldato gregario, poscia corriere e, poco fa, procuratore. In vigore di due iscrizioni, da me [Thesaurus Novus Inscript., pag. 354.] altrove pubblicate, è sembrato a me più verisimile il suo nome Oclatino che Coclatino. Almen dubbioso, se non falso, parimente sembra che Macrino fosse chiamato console per la seconda volta, come giudicò il Relando. Ci sono medaglie [Mediobarb., in Numism. Imperator.] che il nominano solamente console in quest'anno; però è da vedere se legittime sieno l'altre che ci rappresentano il secondo suo consolato. Passò Macrino Augusto il verno in Antiochia, ma senza prender ben le sue misure per assodar la sua fortuna sul trono. Era desiderato, era sollecitato a venirsene a Roma, dove, non ostante i difetti della sua nascita, si era conceputa non lieve stima ed amore per lui, sapendo ch'era uomo di genio moderato ed inclinato alla giustizia e a far del bene. Fallò egli non poco [Herodianus, lib. 5.] col perdersi tanto nelle delizie di Antiochia [Dio, lib. 78.]. Ad errore ancora gli fu attribuito l'aver lasciato troppo tempo unita l'armata senza dividerla, e senza mandare i differenti corpi alle loro provincie, giacchè più non si parlava di guerra. Oltre a ciò, in vece di studiar la maniera di farsi amare, affettava una aria di gravità e di altura non convenevole a chi era salito tant'alto dal basso; nè si mostrava assai cortese verso i soldati. Capitolino [Capitolin., in Macrino.], che unì tutto quel che seppe per iscreditare la di lui memoria, cel rappresenta crudele anche nello stesso far la giustizia, e troppo rigoroso nell'esigere la militar disciplina. Diedesi inoltre a far degli eccessi di gola, e divertirsi nei teatri, e dar poche udienze. Può essere che tale storico alterasse la verità in più d'un capo. Oltre di che, [748] Lampridio [Lampridius, in Elagabalo.] scrive che Elagabalo fece dire dagli storici d'allora quanto male mai seppe di esso Macrino. Tuttavia, per attestato di Dione [Dio, lib. 78.], noi sappiamo che esso Macrino conferiva i magistrati a persone inabili ed indegne, e che le sue parole, al pari dei fatti, non mostravano ch'egli avesse mai testa e spalle per sostener con decoro e con utile del pubblico una sì gran dignità. Ma quello che finalmente diede il tracollo alla di lui fortuna, fu che, a riserva de' pretoriani, il resto dell'armata, la quale mal volentieri aveva accettato dalle mani di essi pretoriani questo nuovo Augusto, sempre più si andò alienando da lui; perchè osservava in Macrino uno spietato rigore nel voler rimettere l'antica disciplina nelle truppe, costringendoli ad alloggiar sotto le tende anche nel verno, e sì perchè non cadevano più le frequenti rugiade di regali, usate verso di loro dal prodigo Caracalla; ed aveva anche preso piede il sospetto ch'egli avesse tolto dal mondo quell'Augusto loro sì caro. Con questo cuor guasto andavano fra loro sparlando di Macrino, e trapelava dalle parole della maggior parte d'essi una inclinazione a ribellarsi. Solamente mancava chi alzasse il dito e si facesse capo; ma questo tale non tardò a presentarsi.
Ebbe Giulia Domna Augusta, madre di Caracalla, Soriana, siccome già vedemmo, di nazione, una sorella in quelle parti, appellata Giulia Mesa, da cui erano nate due figliuole, l'una Giulia Soemia, e l'altra Giulia Mammea [Herod., lib. 4. Dio, Lib. 78. Capitol., in Macrino.]. Fu maritata la prima di esse con Vario Marcello, la seconda con Genesio Marziano, amendue ricchi signori in Soria, e già mancati di vita. Giulia Mesa, che tuttavia era in buona età, stando in addietro alla corte in compagnia di Giulia Augusta sua sorella, vi aveva ammassata [749] gran copia di ricchezza; e siccome donna accorta e spiritosa, gran provvisione avea fatta di disinvoltura e sperienza negli affari del mondo. Lasciolla Macrino in pace, nè tolse un soldo dei tesori da lei accumulati: laonde ella, dappoichè fu morta la sorella Augusta, si ritirò nella città di Emesa, patria sua, colle due sue figliuole vedove, e con due nepoti, figliuoli delle medesime. Quello di Giulia Soemia si appellava Vario Avito Bassiano (Dione, non so perchè, lo chiama Lupo: fors'era un soprannome), che noi vedremo fra poco imperadore col soprannome di Elagabalo. L'altro, nato da Giulia Mammea, portava il nome di Alessiano, il quale, giunto anch'esso all'imperio, sarà da noi conosciuto col nome di Severo Alessandro. Bassiano, giunto all'età di quattordici anni [Herodianus, lib. 4.], era bellissimo giovinetto, e sacerdote del tempio del dio Elagabalo, cioè del Sole, benchè altri dicano di Giove o di Serapide, adorato in quella città, non già in qualche immagine o statua, ma in una pietra che avea la figura di cono o sia di un pane di zucchero, pietra caduta dal cielo per felicità di quel popolo. I soldati acquartierati fuori di Emesa, coll'andare a quel tempio, e veder in esso e fuori di esso in superbe vesti e con corona gioiellata in capo il vaghissimo sacerdote Bassiano, se n'erano mezzo innamorati. Crebbe poi a dismisura questo amore, da che l'accorta Giulia Mesa fece spargere voce [Capitol., in Macrino.] che questo bel giovine era figliuolo di Caracalla Augusto, mercè del commercio da lui avuto con Giulia Soemia figliuola di lei, allorchè dimoravano tutte in corte. Vera o falsa che fosse questa voce, commosse non poco i soldati tra per lo amore che tuttavia nudrivano verso Caracalla, e per l'odio che portavano a Macrino. Si aggiunse la fama delle grandi ricchezze di Giulia Mesa, la quale ne facea loro una generosa offerta, se volevano promuovere al trono il giovine [750] Bassiano. Fatto il concerto, ed uscita ella una notte di Emesa, condusse il nipote al campo de' soldati, che immediatamente lo acclamarono Imperadore, e vestirono di porpora nel dì 16 di maggio, dandogli il nome di Marco Aurelio Antonino, soprannominato dipoi Elagabalo per cagione del suddetto suo sacerdozio. Da Capitolino e da altri è chiamato Heliogabalo; sono d'accordo ora gli eruditi in appellarlo Elagabalo. Dione [Dio, lib. 78.], all'incontro, lasciò scritto, essere stata l'esaltazione di questo mentito figlio di Caracalla opera e maneggio solamente di Eutichiano, soprannominato Comazonte a cagion del suo umore allegro e buffone, già figliuolo di uno schiavo, e poi liberto degl'imperadori, uomo screditato al maggior segno per varii vizii. Costui (seguita a dire Dione) arditamente trattò l'affare senza che lo sapessero nè la madre, nè l'avola di Elagabalo; ma sembra ben più verosimile il racconto di Erodiano, che mette incitati i soldati alle sedizione specialmente per la speranza de' tesori loro esibiti da Giulia Mesa.
Portata a Macrino questa nuova, mostrò egli nel di fuori di non farne conto, anzi di ridersene, considerato per uno scioccherello e ragazzo Elagabalo, ed atteso particolarmente il nerbo de' suoi pretoriani e delle altre milizie che il fiancheggiavano. Scrisse nondimeno questa novità al senato, e con lettera appellata puerile da Dione. S'egli fosse stato uomo di testa e provveduto di coraggio, nulla più facile era che di affogar quella ribellione, marciando tosto con tutte le sue forze contro quel corpo di armata ribelle, troppo inferiore alla sua, e col promettere ai soldati il bottino delle ricchezze di Giulia Mesa. Gli parve sufficiente rimedio al male lo spedir colà Ulpio Giuliano perfetto del pretorio con parte delle milizie [Herod., lib. 5. Dio, lib. 78.]. Appena arrivato colà questo uffiziale, ruppe alcune porte [751] della città, dove si erano ritirati e fortificati i ribelli; ma non vi volle entrar per forza, sperando di veder di momento in momento esposta bandiera bianca. Questa bandiera non comparve, e durante la notte si fortificarono così bene i soldati di dentro, che quando Giuliano, venuta la mattina, fece dare l'assalto alle mura, trovò una insuperabile resistenza negli assediati. Inoltre, si lasciò vedere quel bel fantoccio di Elagabalo magnificamente abbigliato sui merli delle mura e delle torri, gridando i suoi soldati: Ecco il figliuolo di Antonino, cioè di Caracalla, e mostrando nel medesimo tempo i sacchi dell'oro e dell'argento loro dati da Giulia Mesa. Quella bella vista, passando in cuore di chi tanto bene avea ricevuto da Caracalla, servì d'incanto ai soldati di Macrino, che, ammutinati anch'essi, trucidarono i più dei loro uffiziali, e si unirono con quei di Elagabalo. Giuliano fuggì, ma raggiunto perdè la vita; e fu così ardito un soldato, che, posta la di lui testa entro un sacchetto sigillato col sigillo del medesimo Giuliano, la portò a Macrino, fingendo che fosse il capo di Elagabalo; e mentre quella si sviluppava, destramente se ne fuggì. Erasi inoltrato Macrino Augusto sino ad Apamea, aspettando l'esito della spedizion di Giuliano. Uditolo sinistro, credono alcuni [Goltzius. Mediobarb. Tillemont. Pagius.] ch'egli creasse allora Augusto il figliuolo Diadumeniano. Altro non dice Dione [Dio, lib. 78.], se non che il disegnò Imperadore, e promise un grosso regalo ai soldati. Però le monete che ci rappresentano Diadumeniano Augusto prima di quel tempo e le lettere citate da Capitolino, o son false o non vanno esenti da sospetto. Anzi non pare che vi restasse tempo di battere nè pur monete in onore di questo nuovo Augusto, oltre al dirsi da Dione ch'egli fu disegnato solamente, per aspettarne probabilmente il consenso dal senato. [752] Erodiano il riconosce fregiato unicamente col titolo di Cesare.
Non si fidò Macrino di fermarsi dopo la disgrazia di Giuliano in Apamea, e si mise in viaggio per ritornarsene ad Antiochia. Ma l'esercito di Elagabalo, ch'era per tanti desertori cresciuto a segno di poter fare paura a Macrino, uscì in campagna, e con isforzate marcie il raggiunse in un luogo distante circa trenta miglia da Antiochia [Herodianus, lib. 5. Dio, lib. 78.]. Bisognò venire ad un fatto d'armi correndo il dì 7 di giugno. I pretoriani, siccome bei pezzi di uomini e gente scelta, erano superiori di forze; ma i nemici con più furore combattevano, perchè, perdendo, si aspettavano la pena della lor ribellione. Contuttociò, prevalendo i primi, cominciarono a piegare e a prendere la fuga gli altri; se non che, scesa dal cocchio Giulia Mesa colla figlia Soemia, con lagrime e preghiere tanto fece, che li rispinse nella mischia. Lo stesso Elagabalo, il più vile uomo del mondo, comparve in questa occasione un Marte, perchè a cavallo e col brando in mano maggiormente animò i suoi alla pugna. Nulladimeno si sarebbe anche dichiarata la vittoria per Macrino, s'egli non fosse stato figliuolo della paura. Allorchè vide dubbioso il combattimento, per timore di essere preso, se restava rotto il suo campo, abbandonò i suoi per salvarsi ad Antiochia. Tennero saldo, ciò non ostante, i pretoriani, finchè Elagabalo, informato della fuga di Macrino, lo fece loro sapere, con promettere nello stesso tempo di conservare ad essi il grado loro, e di regalargli se si dichiaravano per lui, siccome seguì. Ciò saputosi da Macrino, travestito prese le poste alla volta di Bisanzio, dove se potea giugnere, facea poi conto di passare a Roma, e di rimettere in piedi la cadente sua fortuna. Si mise a passar lo stretto, ed era già presso a Bisanzio, quando un vento furioso il rigettò a Calcedonia, dove stette [753] nascoso alcun poco, finchè giunti i corridori spediti da Elagabalo coll'avviso della vittoria, fu scoperto e messo in una carretta per condurlo vivo al vincitore; ma gittatosi dal carro, e rottasi una spalla ad Archelaide, città della Cappadocia, gli fu mozzato il capo e portato ad Elagabalo, che lo fece porre sopra una lancia, e girar per tutto il campo alla vista di ognuno. Terminò Macrino i suoi giorni in età di cinquantaquattro anni, dopo aver regnato quasi quattordici mesi. Mentre Diadumeniano suo figliuolo era in viaggio, sperando di salvarsi nel paese de' Parti, raccomandato dal padre ad Artabano, fu preso anch'egli [Lamprid., in Diadumeniano. Herod., lib. 5. Dio, lib. 78.], ed ucciso in età di circa dieci anni, con che restò solo padrone del romano imperio Marco Aurelio Antonino, soprannominato Elagabalo, in cui andiamo a vedere il più vergognoso ed abbominevol uomo che sedesse mai sul trono de' Cesari. Dopo l'union degli eserciti proclamato di nuovo Imperadore, entrò come trionfante in Antiochia. Pretendevano i soldati il sacco di quella innocente città: la salvò Elagabalo, con promettere loro cinquecento dramme per testa; somma che la dovettero pagare per loro men male i cittadini.
Dai frammenti di Dione, pubblicati dal Valesio [Dio, in Excerptis Valesianis.], abbiamo che esso Elagabalo, ovvero chi faceva per lui, scrisse al senato, mandando la lettera a Pollione console. S'intitolava egli imperadore Cesare Augusto, figliuolo di Antonino (cioè di Caracalla), nipote di Severo, Pio, Felice, dotato della podestà tribunizia e proconsolare; cosa contraria all'ordine e all'uso, perchè gli altri principi aveano aspettata questa autorità dal senato, almen per un atto di convenienza. Si può argomentare da ciò quanto abbiam detto di Diadumeniano creduto Augusto, perchè non vi fu tempo da poter ricevere questo titolo dal senato. In essa lettera [754] Elagabalo sparlava forte di Macrino, prometteva gran cose di sè stesso, protestando di prendere per suo modello Augusto e Marco Aurelio. Tutte spampanate di lui o di chi dettò a lui quella lettera. Staremo poco ad avvedercene. E se ne accorsero allora i senatori, perchè egli a parte scrisse al console Pollione, che se alcuno facesse opposizione o resistenza, egli si servisse della forza e dei soldati ch'erano in Roma. Già erano afflitti essi senatori per aver perduto Macrino, principe che non doveva essere quel tanto sciagurato che Capitolino ci vuole far credere; e molto più per dover essere governati da uno sbarbatello Soriano, non conosciuto da alcuno, o almen da pochi: il quale senza verun legittimo titolo, e per una vergognosa finzione di bastardismo, si era intruso nel trono cesareo. Tuttavia bisognò chinare il capo, insegnare alla lor lingua le acclamazioni e gli elogi ad Elagabalo, e fino all'odiato Caracalla, vantato suo padre, e dichiarar nemico pubblico Macrino. Trovasi qualche iscrizione spettante a quest'anno in cui si veggono consoli Antonino ed Advento. Una specialmente ne produce il Fabretti [Fabrettus, Inscript., pag. 637.]: il che fa intendere, e lo conferma anche Dione, che Elagabalo, chiamato Marco Aurelio Antonino, di sua autorità si fece console in quest'anno, e ciò senza licenza del senato, con far anche radere dagli atti pubblici il nome di Macrino, e mettervi il suo, quasichè egli fin dalle calende di gennaio fosse stato console con Advento. Ma noi poco fa abbiam veduto console in quest'anno anche Pollione. Forse nelle calende di maggio era egli stato sostituito a Macrino in quella insigne dignità. Ardevano intanto di voglia Mesa e Giulia Soemia, madre del nuovo Augusto, di rivedere Roma, dove erano state in delizie ne' tempi addietro, e però affrettarono verso quella parte Elagabalo [Herodianus, lib. 6.]. Giunto egli coll'armata a [755] Nicomedia, per la stagion troppo avanzata, quivi si fermò, per proseguire il viaggio nella prossima ventura primavera.
Anno di | Cristo CCXIX. Indizione XII. |
Callisto papa 3. | |
Elagabalo imperadore 2. |
Consoli
Marco Aurelio Antonino, soprannominato Elagabalo, per la seconda volta e Sacerdote per la seconda.
Una iscrizione da me [Thesaurus Novus Inscription., pag. 355.] riferita porge qualche barlume per credere che il secondo console fosse appellato Tiberio Claudio Sacerdote. Ora mentre tuttavia dimorava in Oriente l'Augusto Elagabalo, Dione [Dio, lib. 79.] accenna alcuni torbidi, che dovettero essere di poca conseguenza, cagionati da chi, avendo veduto salire all'imperio un Macrino ed un Elagabalo, benchè sprovveduto di nobiltà, si diede a tentar delle novità negli eserciti. Furono costoro ben tosto oppressi. Nè tardò il nuovo Augusto a dar segni della sua crudeltà, con uccidere di man propria il suo aio, pel cui senno e valore avea conseguita la vittoria di Macrino ed ottenuto l'imperio: solamente perchè lo esortava a lasciar le ragazzate. Fece anche uccidere Giuliano Nestore, già prefetto del pretorio sotto Macrino, Fabio Agrippino governatore della Soria, Reano governator dell'Arabia, Claudio Attalo presidente di Cipri, e Decio Trajano governator della Pannonia, non per altro delitto, che per essersi eglino sottomessi con prontezza all'usurpato imperio suo [Herodian., lib. 5.]. Durante il verno, ch'egli passò in Nicomedia, cominciò di buon'ora a farsi conoscere quel mostro non solo di crudeltà, come ho già detto, ma anche di libidine, di capriccio e di leggerezza di senno, che poi da tutto il mondo fu conosciuto e detestato. La prima sua pazzia, [756] principio di molte altre, fu l'esser egli perduto dietro al suo dio Elagabalo, di cui era stato e pretendeva di voler essere tuttavia sacerdote. Ne cominciò in essa Nicomedia a promuovere il culto con varie feste, portando veste sacerdotale tessuta di porpora e d'oro, e maniglie e gioielli, e corona a guisa di mitra o tiara fregiata d'oro e di gemme. Questo abito all'orientale, pieno di lusso, era il suo favorito; gli facea nausea il vestire alla romana o alla greca, chiamando i lor abiti troppo vili, perchè fatti di lana; laddove egli li voleva di seta: cosa assai rara e preziosa in que' tempi. Lasciavasi anche vedere fra i sonatori di timpani e di pive, e faceva il ballerino nei sacrifizii a quel ridicolo dio. Giulia Mesa sua nonna, a cui dispiacevano forte queste sue puerilità, non mancò di riprenderlo, col mettergli davanti il discredito in cui incorrerebbe con sì straniere vesti comparendo a Roma. Più che mai si ostinò a volerla a suo modo, perch'egli non badava se non a chi gli stava intorno per adularlo. Affine poi di provare quanto egli si potesse promettere dalla sommession de' Romani ad ogni suo volere, fattosi dipingere in quel l'abito sfarzoso e forestiere di sacerdote insieme col dio da lui adorato, mandò a Roma quel ritratto, comandando che si appendesse nella sala del senato, e che ad ogni assemblea de' padri s'incensasse, con ordine ancora a tutti i ministri sacri di Roma che nei loro sacrifizii prima degli altri dii nominassero il suo dio Elagabalo. Fu ubbidito, e questo servì a far conoscere in Roma il di lui esterior portamento, prima che vi arrivasse; ed, arrivato che fu, a non maravigliarsene.
Comparve dunque il folle giovinastro in quella gran città, e l'unica cosa che fece meritevol di lode [Dio, in Excerpt. Valesianis.], fu l'attener la promessa da lui fatta di non punir chicchessia che avesse operato o parlato contra di lui finchè Macrino visse. Diede [757] al popolo il congiario solito a darsi dai novelli regnanti; ed è da credere che allora, se non prima, impetrasse dal senato il titolo di Augusta a Giulia Mesa avola sua, ed a Giulia Soemia sua madre, che a noi vien dipinta da Lampridio [Lampridius, in Elagabalo.] per donna avvezza a mettersi sotto i piedi l'onestà e l'onore. Volle appunto Elagabalo, nella sua prima comparsa in senato, che i senatori pregassero la medesima sua madre di sedere presso i consoli, e di dire il suo parere a guisa degli altri senatori: novità non più veduta ne' tempi addietro, e che non si praticò se non sotto questo capriccioso giovane Augusto. Costituì anche un senato di donne nel monte Quirinale, capo di cui era la stessa Soemia, acciocchè quivi si trattassero e decidessero gl'importantissimi affari della repubblica femminina. Quivi poi furono fatti dal senato consulti ridicoli intorno alle precedenze e mode donnesche; e fu deciso qual foggia di vesti s'avesse a portare; quale delle dame precedere, quale baciar l'altra, ed a chi competesse carrozza colle mule, a chi coi buoi. Ad alcune era conceduto l'andare a cavallo, ad altre solamente il cavalcare asinelli, e ad altre il farsi portare in seggetta. Fra queste seggette ancora fu decretato chi la potesse avere intarsiata di avorio, e chi di argento, e chi coperta di pelle; e si determinò a chi fosse lecito il portar oro e gemme nelle scarpette. Quanto allo stesso Elagabalo [Dio, lib. 79. Herodianus, lib. 5. Lamprid., in Elag.], i suoi gran pensieri cominciarono ad impiegarsi tutti per introdurre ed ampliare il culto del suo dio in Roma. Fece venir da Emesa quel pezzo di pietra a guisa di cono, in cui si facea credere ai popoli insensati che si adorava il dio Sole; e fabbricò per questo un suntuosissimo tempio. Noi il troviamo nelle medaglie [Goltzius, Numism. Mediobarb., in Numism. Imper.] intitolato sacerdote [758] dote del dio Sole Elagabalo. Si era egli messo in capo di ridurre tutta la religione, cioè tutte le superstizioni dei Gentili Romani, al culto di questo solo favorito suo nume. Pretendeva in oltre, come lasciò scritto Lampridio pagano, di tirare ad onorar questo dio anche la religion de' Giudei e de' Samaritani, e infin la divozion de' Cristiani: dal che certo erano ben lontani i nemici dell'idolatria, e massimamente gli adoratori di Gesù Cristo. Pensava ancora di trasportare in quel tempio, e forse anche trasportò, tutto quello che di più sacro e raro si trovava negli altri tempi, come il fuoco di Vesta, la statua di Cibele, lo scudo di Marte, il Palladio, e simili altre superstiziose memorie della divozion de' Gentili. Se queste novità e violenze dispiacessero ai Romani, amanti degli antichi falsi loro dii e delle inveterate loro superstizioni, facilmente ognuno sel può figurare. E un gran dire dovea essere in Roma, al mirare tolta la mano al suo Giove altitonante da questa forestiera divinità. Abbiamo ancora da Erodiano che Elagabalo intorno a quel suo tempio fece ergere molti altari, ne' quali ogni dì sagrificava una gran copia di buoi e di pecore, e si spandevano infiniti fiaschi di vino del migliore e più vecchio che fosse in Roma, vedendosi scorrere a ruscelli quel vino e quel sangue per terra. Bisognava che di tanto in tanto i senatori e cavalieri assistessero a quei sagrifizii, e vi facessero anche le funzioni più vili, con tener sulla testa i piatti d'oro e d'argento dorato, ne' quali si mettevano le viscere delle vittime, e coll'andar vestiti alla forma dei sacerdoti orientali. Intanto l'imperadore conduceva i cori intorno agli altari fra lo strepito d'innumerabili musicali strumenti, e colle donne di Fenicia che ballavano battendo cembali e timpani. Ed ecco ove era giunta la maestà di un imperadore e di un senato romano.
Anno di | Cristo CCXX. Indizione XIII. |
Callisto papa 4. | |
Elagabalo imperadore 3. |
Consoli
Marco Aurelio Antonino Elagabalo per la terza volta ed Eutichiano Comazonte.
Questo Eutichiano, soprannominato Comazonte, quel medesimo è che, secondo Dione, cooperò più degli altri alla esaltazione di Elagabalo. Per ricompensa fu creato prefetto del pretorio e poi console, benchè di razza abbietta, per essere di condizion servile e libertina. Pretendono alcuni ch'egli in quest'anno si abbia ad appellar console per la seconda volta; ma non ne abbiamo sicuri fondamenti. Scrive bensì Dione [Dio, lib. 79.], aver egli ottenuto tre volte il consolato: il che si può credere seguito ne' due seguenti anni per sostituzione. Altresì fuor di dubbio è ch'egli esercitò tre volte la carica di prefetto di Roma. Niun'altra applicazione si prendeva il folle Elagabalo dei pubblici affari di Roma e delle provincie, se non per vendere le cariche e i magistrati a persone talvolta vili ed infami. Quel tempo che gli restava dopo le sue grandi occupazioni in promuovere il culto del suo caro nume, tutto lo impiegava in isfogar la sua libidine, che forse non ebbe pari nel mondo. Il regno suo non giunse a quattro anni, e pure più e più mogli prese [Herodian., lib. 5. Dio, lib. 79.]. La prima fu Giulia Cornelia Paola, delle più illustri famiglie di Roma, sposata con gran solennità e con regali al popolo e ai soldati, ma ripudiata ben presto ed anche spogliata del titolo di Augusta e degli altri onori di chi era stata moglie di un imperadore. Sposò egli dipoi Giulia Aquilia Severa, vergine Vestale, con iscandalo e mormorazion grande dei Romani, dicendo egli di aver ciò fatto, affinchè da lui pontefice e da una sacerdotessa di [760] Vesta nascessero dei figliuoli divini. Se ne stufò dopo ben poco tempo, perchè rivolse gli occhi ad Annia Faustina, bellissima donna, nipote di Marco Aurelio Augusto, e moglie allora di Pomponio Basso. Per averla in libertà, fece sotto altro pretesto morire il di lei marito, e sposolla. Discacciò ancor questa, e ne prese poi delle altre, delle quali non sappiamo il nome con tornare in fine ad Aquilia Severa. Ma questo fu il meno delle bestiali sue stravaganze. Abbandonossi egli ad ogni eccesso ed infamia di impudicizia. Nè a me convien di entrare in sì fatta cloaca, nè onesto cristiano lettore potrebbe aver piacere d'intendere tutto ciò che in questo genere lasciarono scritto gli storici Dione e Lampridio, ma non senza orrore di lor medesimi. Basta dire che la malizia unita colla pazzia arrivò a tali sozzure, che non cadrebbono ora in mente di persone anche le più pratiche dell'infame regno della disonestà. Arrivò egli in fine a sposar pubblicamente l'un dopo l'altro due vilissimi giovani, con far mille pazzie, cioè Jerocle carrozziere ed Aurelio Zotico, figliuolo di un cuoco; e però egli vestiva da donna, e voleva essere appellato la signora Regina. Di più non occorre per ravvisare che pezzo di forsennato e d'infame fosse Elagabalo Augusto. E pure con questi effemminati costumi si vedeva unita anche la crudeltà [Dio, lib. 79.]. Solamente perchè con qualche cenno mostrarono di non approvare le di lui bestiali operazioni, egli fece levar la vita a Peto Valeriano e a Silio Messalla. Lo stesso fine ebbero altri ancora dei suoi più amici e confidenti, perchè osarono di esortarlo a vivere con più onestà e moderazione. In onore ancora del suo dio fece scannar molti garzoni nobili [Lampridius, in Elagabalo.], scelti da tutta l'Italia, nella guisa che si faceva delle bestie, per osservar le viscere loro.
Anno di | Cristo CCXXI. Indizione XIV. |
Callisto papa 5. | |
Elagabalo imperadore 4. |
Consoli
Grato Sabiniano e Claudio Seleuco.
Più che mai andò continuando le sue sordidezze e follie l'Augusto Elagabalo [Dio, in Excerptis Vales.], nelle quali consumò gran copia d'oro trovato nell'erario principesco, e nè pur bastavano al lusso e alla lussuria sua le rendite del pubblico. Ne' borghi di Roma [Herod., lib. 5.] avea fatto fabbricare un altro tempio di gran magnificenza. Venuto il settembre, conduceva colà a spasso il suo dio, cioè quella pietra, di cui abbiam parlato, posta sopra di un carro tutto ornato di oro e di pietre preziose, e tirato da candidissimi cavalli. Andava innanzi il folle Augusto, tenendo le briglie in mano, colla testa volta all'idolo, e camminando sempre all'indietro. Era composta la processione di tutto il popolo, che portava le statue degli dii di Roma, ed ogni cosa più rara de' templi, con fiaccole accese in mano e corone in capo; e veniva fiancheggiato dalla cavalleria e fanteria di Roma. Finita poi la solenne funzione, saliva l'imperadore nelle altissime torri del tempio, e di là gittava alla plebe vasi d'oro e d'argento, e vesti e panni di varie sorte: il che finiva colla morte di parecchi affogati nella calca, o trapassati dalle lance dei soldati. Passò poi la sua sfrenatezza più oltre, perchè, non volendo essere da meno di Nerone e degli altri abbominevoli suoi predecessori, la notte travestito e con un cappellino in capo girava per le osterie e pei bordelli, facendo delle insolenze. Aprì anche un postribolo nello stesso palazzo. Sovente facea il carrozziere alla presenza di tutti i cortigiani e di molti senatori: de' senatori, dico, ch'egli nulla stimava, solendo chiamarli schiavi togati. Più spesso facea il ballerino, [762] non solamente nell'orchestra, ma ne' sagrifizii ed in altre pubbliche funzioni. Di questo passo camminava lo scapestrato Augusto, perduta affatto ogni riverenza al suo grado, e divenuto, per le sue infami lascivie, l'obbrobrio del mondo: quando gli saltò in capo di dar moglie al suo dio Elagabalo. Scelse a questo effetto [Herod., lib. 5.] la statua della dea Urania, o sia Celeste, venerata in Cartagine, oggetto di gran divozione ad ogni città dell'Africa. Era essa dea creduta la Luna; e però il pazzo imperadore diceva, ch'essendo quel suo dio il Sole, non potea darsi matrimonio più proprio e convenevol di questo. Quant'oro e cose preziose si trovarono in quel tempio di Cartagine, tutto volle portato a Roma, acciocchè servisse di dote al suo dio. Giunta poi quella statua, ordinò che in Roma e per tutta l'Italia si facessero feste ed allegrezze, affin di onorar le nozze di questi numi. Non era egli un imperador da legare?
Qui racconta Dione [Dio, lib. 75.] uno strano avvenimento, appartenente a questi tempi, di cui potè egli essere ben informato, trovandosi allora in Bitinia. Sulle rive del Danubio comparve un personaggio, creduto da esso Dione un dio, cioè un demonio, che diceva di essere Alessandro il Grande, quale veramente pareva all'aspetto ed all'abbigliamento. Seco menava quattrocento persone, portanti in mano dei tirsi, e addosso pelli, come si solea dipignere Bacco, ed imitanti quel dio e le baccanti colle lor danze e follie. Passò per la Mesia e per la Tracia, senza far male ad alcuno; nè i pubblici ministri nè i soldati gli si opposero mai; anzi tutte le città, per dove andò, gli preparavano l'alloggio, e somministravano quanto gli bisognava. Arrivato a Bisanzio, passò lo stretto, e venuto a Calcedonia, dopo aver quivi creato un sacerdote, disparve, senza apparire che ne fosse divenuto. [763] Ma un altro Alessandro, non già immaginario come questo, si vide in questi medesimi tempi in Roma [Herod., lib. 5. Dio, lib. 79.]. Giulia Mammea, figliuola anch'essa di Giulia Mesa, siccome di sopra accennammo, avea un figliuolo appellato Alessiano, cugino, per conseguente, dell'Augusto Elagabalo, ma giovinetto di ottimi costumi ed affatto diversi da quel mostro regnante. Già dicemmo che donna accorta fosse Giulia Mesa. Costei, osservando le tante pazzie ed infamie del nipote Augusto, per le quali cominciò anch'ella ad odiarlo, ben considerò ch'egli non potea durare sul trono, e che presto o tardi farebbe il fine degli altri troppo screditati imperadori, e ch'ella con esso rimarrebbe spogliata dell'autorità, con pericolo anche di peggio. Prese dunque ad esaltar l'altro nipote Alessiano; e per ben condurre il disegno, destramente insinuò ad Elagabalo, che giacchè egli era occupato nella divozione verso il suo gran dio, ben sarebbe lo scegliere persona che per lui accudisse ai pubblici affari; e questo doversi prendere dalla casa propria, e non altronde, proponendogli infine il cugino Alessiano. Piacque ad Elagabalo questa proposizione, e però entrato un dì in senato coll'avola Mesa e con la madre Soemia, dichiarò che adottava per suo figliuolo Alessiano, dandogli il titolo di Cesare ed il nome di Alessandro, spacciando che ciò faceva per ordine del suo dio Elagabalo. Disegnollo ancora console per l'anno prossimo venturo. Risero i Romani al vedere ch'egli in età di circa diciassette anni voleva intitolarsi il padre del cugino, che già era in età di tredici o quattordici anni. Dione gli dà anche più età che allo stesso Elagabalo. Tuttavia tanto i senatori che i soldati di buon cuore accettarono il novello Cesare, già consapevoli del di lui buon naturale. E l'astuta Mesa, per renderlo vieppiù caro a' soldati, divulgò dappertutto, che anche questo suo nipote era figliuolo di Antonino Caracalla: finzione, la quale poi prese un sì fatto [764] piede, che laddove si tenea Elagabalo per un falso figliuolo di esso Caracalla, Alessandro comunemente veniva creduto nato da lui.
Anno di | Cristo CCXXII. Indizione XV. |
Urbano papa 1. | |
Alessandro imperadore 1. |
Consoli
Marco Aurelio Antonino detto Elagabalo per la quarta volta e Marco Aurelio Alessandro Severo.
Terminò in quest'anno il pontificato e la vita san Callisto papa, con riportare la gloriosa corona del martirio, ed ebbe per successore nella cattedra pontificia Urbano. Da che Elagabalo ebbe alzato alla dignità cesarea il cugino Alessandro [Dio, lib. 79. Herod., lib. 5.], per qualche tempo continuò a favorirlo ed amarlo. Ma cominciò a poco a poco a raffreddarsi questo amore, e giunse egli ancora a mirarlo di mal occhio e a pentirsi dell'adozione fatta. E ciò per due motivi. L'uno, perchè voleva addestrarlo ai suoi infami costumi, e pretendeva che seco si unisse a ballare, e a far da sacerdote con quelle sue barbariche fogge di vestiti. Alessandro, di natural grave, e di mente ormai capace di ben discernere il ridicolo e l'indecente nelle azioni del cugino Augusto, non si sentiva voglia d'imitarlo. Oltre a ciò, Mammea, donna savia, sua madre, il distornava da somiglianti eccessi [Lamprid., in Alexandro.]. Lo aveva essa allevato con gran cura fin da' primi anni, provvedendolo di ottimi maestri sì per le lettere che per gli esercizii cavallereschi e militari, senza lasciar passare un giorno in cui nol facesse studiare. Per maestro della lingua greca avea avuto Nebone, per la rettorica Serapione, per la filosofia Stilione. Ebbe poi in Roma per maestro della lingua latina Scaurino, uomo rinomatissimo nella sua professione, per la rettorica Giulio Frontino, [765] Bebio Macrino e Giulio Graniano. Servirono ancora ad ammaestrarlo nell'erudizione Valerio Cordo, Lucio Veturio ed Aurelio Filippo, che scrisse poscia la di lui vita. L'altro motivo, per cui si svegliò o crebbe il mal animo e lo sdegno di Elagabalo contro il cugino Alessandro, fu il cominciar ad avvedersi che i soldati più genio ed amore mostravano al figlio adottato che al padre. Era in fatti succeduto che le tante pazzie e l'infame vita di questo sfrenato Augusto aveano generata nausea fino negli stessi soldati, gente per altro di buono stomaco. E, all'incontro, mirando essi la saviezza e moderazione del giovinetto Alessandro, quanto sprezzavano e già odiavano il folle Augusto, altrettanto di stima ed amore aveano conceputo pel sì ben costumato Cesare. Pertanto la nata gelosia in cuor di Elagabalo il portò a tentar varie vie di levarlo dal mondo col veleno, col ferro o in altre guise. A questa indegna azione sollecitò chiunque gli stava appresso con promesse di grandi ricompense [Herodianus, lib. 5.]. Tutti osservarono una fedeltà onorata verso di Alessandro, e tutti i tentativi del barbaro imperadore ad altro non servirono che a rendere più cauta per la conservazion del figliuolo Giulia Mammea sua madre, la quale lo istruì di non prendere alcun cibo o bevanda che venisse dalla parte di Elagabalo, e facevagli preparar la mensa solamente da persone di sperimentata onoratezza. Fece Elagabalo levargli d'appresso tutti i maestri, esiliandone alcuni, ed altri uccidendoli; e pur questo a nulla servì. Potevano le spade dei suoi soldati appagar la crudel voglia di Elagabalo; ma, oltre al professar essi dell'amore per Alessandro, e all'avergli verisimilmente giurata anche fede in riconoscerlo per figliuolo dell'imperadore, Alessandro segretamente li regalava; e però niun d'essi volea macchiarsi le mani nel di lui sangue innocente. Giulia Mesa anch'ella andava scoprendo tutti i [766] disegni e le trame del cattivo nipote, e destramente preservava il buono, con non lasciarlo uscire in pubblico [Dio, lib. 79.]. Accortosi finalmente Elagabalo della inutilità di queste occulte macchine, determinò di venire a guerra aperta. Mandò pertanto ordine al senato di togliere ad Alessandro il titolo e la dignità di Cesare, e di cassare la di lui adozione. Allorchè in senato fu letta questa polizza [Lamprid., in Elagabalo.], niuno de' padri seppe trovar parola da dire. Se ubbidissero, nol so; ben so che tutti amavano Alessandro, e detestavano in lor cuore la violenza dell'indegno regnante. Certo niun male avvenne ad Alessandro dalla parte de' soldati. Spedì loro Elagabalo lo stesso ordine, per cui cominciarono a fremere non meno i pretoriani che le altre milizie [Herod., lib. 5. Dio, lib. 79.]; e perchè videro arrivar gente che cominciò a cancellar le iscrizioni poste alle statue d'esso Alessandro, già erano vicini a prorompere in una sedizione. Vi fu anche una man d'essi soldati che corse al palazzo, con apparenza di voler uccidere Elagabalo [Lampridius, in Elagabalo.]. Avvisatone il coniglio imperadore, si nascose in un cantone dietro ad una tappezzeria, ed inviò Antiochiano prefetto del pretorio a pacificarli. Poscia, perchè durava la commozione nel quartier de' pretoriani, colà si portò Elagabalo in persona, per quetare il rumore, insieme col suddetto prefetto. Non si vollero mai arrendere i soldati, finchè Elagabalo non diede parola di cacciare dal palazzo e gastigar colla morte Jerocle, Gordo ed altri scellerati suoi cortigiani, che lui di stolto aveano fatto diventare stoltissimo. Arrivò [Dio, lib. 79.] a tanta viltà Elagabalo, che piangendo dimandò loro in grazia Jerocle, cioè colui che portava il nome infame di suo marito, dicendo che più tosto uccidessero lui stesso che quel suo caro ministro. [767] L'accordo in fine fu conchiuso, con patto che Elagabalo mutasse vita, e fosse assicurata la vita di Alessandro, nè alcuno degli amici di Elagabalo andasse a visitarlo, per timore che non gli nuocessero o nol conducessero ad imitare gli sregolati costumi del corrotto Augusto. Secondo Lampridio [Lamprid., in Elagabalo.], succederono queste cose nell'anno precedente.
Era restato pien di veleno per tali avvenimenti l'indegno Elagabalo, e però, venuto il primo dì di questo anno, in cui doveva egli col cugino Alessandro procedere console, non si volle muovere di camera, se non che l'avola e la madre tanto dissero, con fargli temer imminente una sollevazion delle milizie, che solamente a mezzodì con esso Alessandro andò a prendere il possesso della dignità consolare. Ma non volle passar al Campidoglio a compiere la funzione, e convenne che il prefetto di Roma la compiesse, come se non vi fossero consoli. Non sapea digerire Elagabalo il veder così limitata l'autorità sua imperiale, e molto meno che al dispetto suo e sugli occhi suoi vivesse l'odiato Alessandro. Però andava cercando nuove maniere di levarlo di vita; ed ora solamente fu, secondo Erodiano [Herod., lib. 5.], che tentò di torgli il titolo e la dignità di Cesare. Fece partir di Roma all'improvviso tutti i senatori [Lamprid., in Elagabalo.], acciocchè non osassero opporsi ai suoi malvagi disegni. E perchè Sabino, senator gravissimo, era restato in città, diede ordine ad un centurione che andasse ad ammazzarlo. Per buona fortuna costui pativa di sordità, e credendo che l'ordine fosse per l'esilio, non ne fece di più. Per comandamento poi di esso Elagabalo, era ridotto Alessandro a starsene chiuso in casa, nè ammetteva udienze. Da lì a poco tempo, volendo il folle ed insieme furbo imperadore scandagliare qual disposizione si potesse aspettar dai soldati, qualora facesse [768] ammazzar Alessandro, fece correr voce ch'esso Cesare era vicino per malattia a mancar di vita. Grande fu il bisbiglio, maggiore dipoi la commozion delle milizie, gridando moltissimi di essi che volevano vedere Alessandro Cesare. Perciò si chiusero ne' lor quartieri, nè più volevano far le guardie al palazzo cesareo. Imminente era una terribil sollevazione, se Elagabalo, preso seco in carrozza Alessandro, non fosse ito al loro campo. Apertegli le porte, il condussero al loro tempio, unendosi intanto molti strepitosi viva per Alessandro, pochi per Elagabalo. L'ultima pazzia di questo imperadore fu che, essendosi egli trattenuto in quel tempio la notte, nella mattina seguente, che fu il dì 7 (altri vogliono nel dì 9 di marzo, altri più tardi, ma Lampridio chiaramente sta colla prima opinione), fece istanza che fossero ammazzati alcuni di coloro che aveano gridato: Viva Alessandro. Così irritati da questo pazzo ordine rimasero i soldati, che a furia si sollevarono contra di lui. Fuggì Elagabalo, e si nascose in una cloaca, luogo degno di lui; ma, avendolo trovato, lo uccisero, e seco Soemia sua madre, ch'era in sua compagnia, e molti dei suoi iniqui ministri. Fra questi si contarono i due prefetti del pretorio ed Aurelio Eubulo da Emesa, presidente della sua camera, scorticator della gente, che dalla plebe, sollevata anch'essa, e dai soldati tagliato fu a pezzi. Nella stessa rovina restò involto Fulvio prefetto di Roma, e l'infame Jerocle. Di tanti suoi obbrobriosi cortigiani, potenti presso di lui, non si salvò che uno. Furono trascinati per la città i cadaveri dell'ucciso Augusto e di sua madre; poi quello di esso Elagabalo gittato fu nel Tevere. Fece il senato radere dalle iscrizioni a lui poste il nome di Antonino, cotanto da lui disonorato, ed egli da lì innanzi non con altro nome fu menzionato che di falso Antonino, di Sardanapalo e di Tiberino, o pur di Vario Elagabalo. Così, dopo aver questo scapestrato giovine regnato tre anni, [769] nove mesi e qualche giorno, colla più vituperosa vita che mai si udisse, ricevette una più vituperosa morte, pena convenevole ai suoi molti delitti. E in questa maniera restò libera da un famoso mostro Roma e l'imperio. Lampridio [Lampridius, in Elagabalo.] vien poi descrivendo le strane invenzioni della golosità di Elagabalo, nelle quali impiegava egli grosse somme d'oro, perchè superò le cene di Apicio e di Vitellio. Le altre pazzie della sua lussuria si mette egli ancora ad annoverare che non meritano luogo nella presente storia; e però passo a ragionare del novello imperador de' Romani, cioè di Alessandro, che immediatamente dopo la morte di Elagabalo fu riconosciuto imperadore, per parlarne nondimeno solamente all'anno seguente.
Anno di | Cristo CCXXIII. Indizione I. |
Urbano papa 2. | |
Alessandro imperadore 2. |
Consoli
Lucio Mario Massimo per la seconda volta e Lucio Roscio Eliano.
Dappoichè tolta dal mondo fu la peste dell'impuro Elagabalo nell'anno precedente, Marco Aurelio Severo Alessandro, che si trovava nel quartiere dei pretoriani, con alte voci fu da essi proclamato Imperadore Augusto [Idem, in Alexandro.], e condotto fra i viva del popolo al palazzo cesareo. Di là passò egli al senato, dove con allegrissimi concordi voti fu confermato a lui l'imperio, e conferita la podestà tribunizia e proconsolare col nome di padre della patria. Tutto ciò fatto ad un tempo stesso, parte perchè il titolo di Cesare già a lui dato gli avea acquistato il diritto a questi onori, e parte perchè la conosciuta sua morigeratezza gli avea preventivamente conciliato l'amore d'ognuno. L'essere egli stato perseguitato da Elagabalo avea servito a renderlo più caro tanto ai soldati che ai [770] senatori, tutti oramai troppo stomacati della sozza e pazza vita di quell'Augusto animale. Leggonsi in Lampridio le nobili acclamazioni fatte dal senato ad Alessandro, unite alle detestazioni dell'infame suo predecessore. Volevano quei padri ch'egli assumesse il nome di Antonino assai conveniente al suo buon naturale; ma egli con bella grazia si mostrò non ancor degno di portare un sì venerabil nome. Molto più ricusò il titolo di Grande, esibitogli dal senato, per unirlo a quel di Alessandro, con dire di meritarlo molto meno, perchè nulla di grande avea operato fin qui: la qual moderazione di animo gli acquistò più credito che se lo avesse accettato. Il nome di Marco Aurelio non si sa bene se lo assumesse perchè fu adottato da Elagabalo che usava quel nome, o pure perchè fu creduto figliuolo di Caracalla, appellato anch'esso Marco Aurelio. Quanto al nome di Severo, verisimilmente lo prese egli per essere (falso o vero che fosse) nipote di Severo Augusto, e non già, come vuole il suddetto Lampridio, pel suo vigore e costanza nell'esigere la militar disciplina dai soldati. Di questa sua fermezza e rigore egli diede i segni, non già sui principii del suo governo, ma nel progresso del tempo; e noi abbiam le monete [Mediobarbus, in Numismat. Imper. I.] anche nell'anno precedente, nelle quali è chiamato Marco Aurelio Alessandro Imperadore. Che età avesse egli allorchè fu assunto al trono, non si può decidere. Erodiano [Herodian., lib. 5.] gli dà circa tredici anni. Dione [Dio, lib. 79.], siccome già accennai, il fa maggiore di età di Elagabalo: il che se si accorda, egli avrebbe avuto più dieciotto anni. Quel che sappiam di certo, era egli molto giovinetto, e perciò tanto più dee comparire mirabil cosa ch'egli sì lodevolmente cominciasse, e più gloriosamente proseguisse il governo del romano imperio. Certo l'età sua e la [771] poca sperienza del mondo non erano sul principio bastevoli a sostener con onore un tal peso; e il senato avea già fatto un decreto che niuna donna potesse da lì innanzi sedere in senato. Perciò la vecchia sua avola Giulia Mesa, e la madre sua Giulia Mammea, desiderose della vera gloria del nipote e figliuolo, o scelsero esse, o pur vollero [Herodianus, lib. 6.] che il senato eleggesse sedici senatori, i più riguardevoli per l'età, per la saviezza e dottrina, e per probità dei costumi, che si trovassero in Roma, i quali servissero di assessori e consiglieri al giovinetto principe. Così fu fatto [Lamprid., in Alexandro.]. Fra gli altri scelti si contano Ulpiano, Celso, Modestino, Paolo, Pomponio e Venuleio, insigni giurisconsulti; Fabio Sabino, Catone dei suoi tempi; Gordiano, che fu poi imperadore, Catilio Severo, Elio Sereniano, Quintilio Marcello ed altri, tutti personaggi di sperimentata integrità. Nè il savio giovine Augusto da lì innanzi solea dire o far cosa alcuna in pubblico senza la loro approvazione: maniera di governo quanto lontana dalla tirannica precedente, tanto più cara al senato, al popolo ed ai soldati. Dal consiglio di uomini tanto onorati e saggi fu creduto che procedesse la gloria del suo principe, e la felicità da lui procurata ai suoi popoli. La prima plausibil azione sua fu di restituire ai templi le statue e robe preziose tolte loro dal capriccioso predecessore, e di bandire da Roma il dio Elagabalo, o sia quella ridicola pietra, con rimandarla al suo paese di Emesa. Quindi nettò la corte da un prodigioso numero di persone inutili o ridicole, o la maggior parte infami, che aveano in addietro servito all'oscena ed abbominevol vita di Elagabalo. Tutti i di lui nani, buffoni, musici, commedianti, eunuchi ed altri di peggior condizione, si videro esposti alle fischiate del popolo, o donati agli amici, o venduti come schiavi o banditi. Si stese il medesimo [772] espurgo al senato e a tutte le cariche e ministeri civili conferiti dal malvagio Elagabalo ad uomini vili, inabili ed anche infami. Tutti costoro tornarono alla lor primiera bassa fortuna, e furono a quella dignità e a quegli uffizii promosse persone dabbene, intendenti delle leggi e gelose del proprio onore. Si vide rifiorire anche la milizia, con darsi gl'impieghi più onorevoli a chi avea dato maggiori pruove del suo valore e della sua prudenza nelle passate congiunture. In questa maniera non andò molto che si vide risorgere ad un tranquillo e felicissimo stato Roma e l'imperio romano, tanto sconvolto e svergognato in addietro dal ribaldo e stolto Elagabalo.
Anno di | Cristo CCXXIV. Indizione II. |
Urbano papa 3. | |
Alessandro imperadore 3. |
Consoli
Giuliano per la seconda volta e Crispino.
Forse non è ben certo che Giuliano fosse console per la seconda volta, essendovi leggi, fasti ed un marmo [Thesaurus Novus Inscription., pag. 355, num. 3.] che non vi mettono questa giunta. Camminava con felicità il governo di Roma tra per l'inclinazione al bene e alle opere virtuose che seco portava il giovane imperador Alessandro, e per la saviezza e vigilanza de' suoi ministri e consiglieri, principalmente di Domizio Ulpiano, celebratissimo giurisconsulto, creato poscia da lui prefetto del pretorio. Non lasciavano Giulia Mesa sua avola e Giulia Mammea sua madre, amendue decorate del titolo di Auguste [Lampridius, in Alexandro.], di vegliare alla buona condotta e preservazion dai vizii di esso lor nipote e figliuolo, studiandosi sopra tutto di tener lontani gli adulatori, gran peste delle corti, e chiunque potea guastar il cuore del ben educato principe. E pur [773] con tutta la loro attenzione s'introdussero presso di lui alcune persone di questa mala razza, le quali colle lor persuasioni e cabale cotanto gli screditarono, come un giogo intollerabile, la dipendenza sua da quei consiglieri, che lo indussero a non più ascoltarli. Ma durò poco questo suo sviamento, perchè, conosciuta la lor malizia, li cacciò, e feceli anche gastigar dal senato secondo il merito loro, con attaccarsi più di prima a coloro che poteano farlo regnare con giustizia ed onore. Ancorchè fosse di buon'ora ispirato ad Alessandro l'abborrimento alla disonestà, e servissero a lui di un vivo specchio della deformità di questo vizio gli eccessi di suo cugino Elagabalo; e tuttochè egli in fatti avesse sempre in orrore i delitti contra della castità, talmente che la storia non fa giammai menzione ch'egli trasgredisse le leggi prescritte in ciò dagli stessi Gentili: pure avrebbe potuto il bollore della gioventù tirarlo fuor di cammino. Per questo gli fu data in moglie una dama della primaria nobiltà di Roma, a cui prese affetto, e rendeva ogni conveniente onore, con favorire assaissimo nel medesimo tempo il suocero suo. Erodiano [Herod., lib. 5.] non ne lasciò a noi il nome, nè sappiamo il tempo in cui egli si ammogliò per la prima volta, e nè pur le seguenti. Ma che? Mammea sua madre, che dopo la morte di Giulia Mesa, mancata di vecchiaia, voleva essere l'arbitra del figliuolo, non soffrì lungo tempo che la nuora si fosse impossessata cotanto del cuore del figliuolo, e godesse al pari di lui il titolo di Augusta; e però cominciò a maltrattarla sì fattamente, e seco il di lei padre, che questi, benchè amato non poco da Alessandro, si ritirò un dì nel quartier dei soldati dicendo di render grazie all'imperadore dei benefizii a lui compartiti, ma senza voler più comparire alla corte; e qui sfogò la sua collera contro di Mammea, divolgando tutte le ingiurie a lui fatte e alla figliuola. Tal fu di poi la prepotenza [774] di Mammea, che fece ammazzar lui, e relegare in Africa la infelice nuora. Se questo è vero, non è da credere che Mammea fosse cristiana, come han pensato alcuni [Orosius. Cedrenus. Vincentius Lirinensis. Casaubonus et alii.], perchè ella veramente ebbe del latte cristiano, ed ascoltò Origene, come attesta Eusebio [Eusebius, Histor. Eccles., lib. 6. cap. 16,]. Ma potrebbe essere che Erodiano non sapesse tutte le particolarità ed i motivi di quel fallo. Lampridio [Lampridius, in Alexandro.] certamente scrive, coll'autorità di Desippo istorico, che Marziano suocero di Alessandro gli tese delle insidie per ammazzarlo; ma che, scoperto il fatto, costui fu ucciso, e scacciata la moglie Augusta. Aggiunge altrove il medesimo Lampridio che un Ovinio Camillo, senatore di antica famiglia, tramò una ribellione, e se n'ebbero le pruove. Il buon imperadore, in vece di punirlo, il fece chiamar a palazzo, lodò il suo zelo pel pubblico bene, e poi nel senato il dichiarò partecipe dell'imperio, cioè gli diede il nome di Cesare e gli ornamenti imperiali. Avea detto prima lo storico stesso che al suddetto Marziano suocero fu dato il titolo di Cesare. Quel Camillo dipoi nella spedizione di Alessandro contro i Barbari rinunziò, e gli fu permesso di ritirarsi in villa, dove lungo tempo visse; ma in fine fu fatto uccidere dall'imperadore, perchè era uomo militare ed amato assai dai soldati. Truovasi del buio in questi fatti; ma vi è tanto barlume che basta a far dubitare che giusto motivo non mancasse a Mammea di atterrare il suocero del figliuolo, e la nuora ancora, caso che anch'essa fosse stata partecipe della fellonia del padre. Oltre di che, lo stesso Lampridio scrive che un tal avvenimento vien da alcuni riferito ai tempi di Traiano. Che Alessandro sposasse Memmia, figliuola di Sulpizio stato console, lo abbiamo [775] dal suddetto Lampridio. Forse questa fu la seconda sua moglie. Trovasi anche nelle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.] una Sallustia Barbia Orbiana Augusta, ed hanno inclinato alcuni letterati [Spanhemius, de Praestantia et Usu Numismatum.] a crederla moglie del medesimo Alessandro imperadore. Ma trovandosi in quelle medaglie CONCORDIA AVGVSTORVM, parole significanti l'esistenza allora di più di un Augusto, a me non sembra verisimile la loro opinione.
et cap. 21.
Anno di | Cristo CCXXV. Indizione III. |
Urbano papa 4. | |
Alessandro imperadore 4. |
Consoli
Fosco per la seconda volta e Destro.
Sempre più andavano riconoscendo i Romani la felicità propria nell'essere loro toccato un sì buono imperadore, qual fu Severo Alessandro. Ed era tale principalmente, perchè si erano ben radicati nel cuore di lui i principii della religione: virtù, di cui se sono scarsi, e peggio se mancanti i rettori dei popoli, troppo facile è, per non dir certo, che la lor vita abbonderà d'iniquità e di azioni malfatte. Falsa, non v'ha dubbio, era quella religione che non conosceva il vero Dio, e adorava insensati dii e creature o demonii. Tuttavia non può negarsi che questo principe, quantunque nato ed allevato nella idolatria, non avesse in sè dei lodevoli principii, perchè amava, temeva ed onorava, per quanto poteva, la divinità, e tutto ciò che si credeva allora che avesse qualche cosa di Dio [Lampridius, in Alexandro.]. Appena era egli levato, che nel tempio del palazzo andava a rendere il culto ai suoi dii con dei sacrifizii. Quivi teneva le statue di essi e delle anime credute sante dai ciechi Gentili, come Orfeo, Alessandro il Grande, Apollonio Tianeo. Quel che più merita la [776] nostra attenzione, si è che vi conservava anche la statua di Gesù Cristo, e colle altre l'adorava. Può ben credersi che Mammea Augusta sua madre, la quale avea imparato a conoscere in Soria la santità della religion cristiana, ma senza mai abbandonare la falsità dell'etnica, ne avesse inspirato del rispetto ed amore anche al figliuolo. Per questo venerava egli Cristo, ed anche Abramo. Anzi, siccome attesta Lampridio scrittore pagano, egli meditava di alzare un tempio al medesimo Cristo, e di farlo ricevere per Dio; ma gli si opposero i zelanti del Paganesimo, con dire di aver consultato intorno a ciò gli oracoli, e riportato per risposta, che, se ciò si facesse, tutti abbraccerebbono il Cristianesimo, e converrebbe chiudere ogni altro tempio. Mai più non disse il demonio, padre della bugia, una verità più luminosa di questa. Avea ancora Alessandro sovente in bocca quella insigne massima, imparata più probabilmente dai Cristiani che dai Giudei: Non fare agli altri quello che non vorresti fatto a te stesso. E questa fece anche scrivere nel palazzo cesareo e in varie fabbriche a lettere maiuscole. Avendo anche i Cristiani occupato un luogo pubblico, per farvi una chiesa, e pretendendolo gli osti di lor ragione, con suo rescritto dichiarò l'imperadore: Essere meglio che Dio ivi in qualunque maniera si adorasse, che se ne servissero gli osti: segno che già in Roma si fabbricavano e si tolleravano templi al vero Dio. Di qui poi venne, ch'egli lasciò in pace i Cristiani, e sotto di lui crebbe molto di fedeli la Chiesa. Quei che morirono martiri in questi tempi furono vittime de' malvagi governatori delle provincie, che senza saputa e permissione del principe [Eusebius, Histor. Eccles., lib. 6, cap. 28.] non lasciavano di trovar pretesti per uccidere gli odiati Cristiani.
Sempre ancora professò l'Augusto Alessandro a sua madre Mammea un [777] rispetto singolare, anzi tale che passò all'eccesso. Se crediamo ed Erodiano [Herodian., lib 6.], questo solo difetto gli si potè opporre, cioè che troppo amava la madre, sino ad ubbidirla, suo malgrado, in cose che non trovava ben fatte. Perciò potente era ella nel governo, e fu al pari di Giulia di Severo intitolata madre delle armate, del senato e della patria. Certo non mancò essa giammai di dar dei buoni avvertimenti al figliuolo; fu nulladimeno tacciata di avidità della roba altrui: il che andava ella scusando presso il figliuolo, con dirgli che accumulava quell'oro per di lui servigio, affinchè avesse di che regalare i soldati. Ma accumulandone talvolta per vie illecite, ed empiendone i proprii scrigni, se ne lagnava poi Alessandro, senza potervi nondimeno rimediare: tanta era la riverenza che professava a chi gli avea data la vita. Onesti poi erano i divertimenti suoi. Amava la musica, si dilettava della geometria, dipingeva assai bene, sonava varii strumenti, cantava, ancora con bella voce e con garbo, ma solamente in camera sua e nella privata conversazion degli amici. Talvolta a cavallo, talora a piè facea delle buone passeggiate; gli piaceva anche la caccia e la pesca. Una delle cure di sua madre fu sempre quella di tenerlo occupato e lontano dall'ozio. Nè pregiudicavano punto i divertimenti suoi al pubblico governo [Lampridius, in Alexandro.]. Gli erano portati gli affari smaltiti prima dai saggi suoi consiglieri, ed era facile lo sbrigarli. Ma quando occorrevano cose di molta importanza e premura, vi assisteva, levandosi anche prima del sole, e stava nel consiglio le ore intere senza mai annoiarsi o stancarsi. Impiegava anche talvolta il tempo che gli restava dopo gli affari in leggere libri, essendogli spezialmente piaciuti in greco quel di Platone della Repubblica, e in latino quei di Cicerone degli Uffizii, o sia dei Doveri e della Repubblica. [778] Dilettavasi ancora di leggere degli oratori e dei poeti, e massimamente le poesie di Orazio e di Sereno Sammonico, da lui conosciuto ed amato. Ma sopra le altre letture era a lui cara quella della vita di Alessandro il Macedone, per istudiarsi d'imitarlo dove potea, condannando nondimeno in lui l'ubbriachezza e la crudeltà verso gli amici. Dopo la lettura esercitava il corpo in tirar di spada, in lotte discrete, in giuochi ch'esigevano del moto: tutte maniere proprie per conservar la sanità. Andava anche, secondo l'uso d'allora, al bagno, dopo il quale faceva un po' di colezione, differendo talvolta il prender cibo dipoi sino alla cena. Nulladimeno l'ordinario suo stile era di pranzare; e ne' pranzi suoi non compariva nè sordidezza nè lusso, ma bensì un bell'ordine, cibi semplici, piatti ben puliti, e quel che occorreva per satollare e non per aggravare lo stomaco. Solamente nei dì di festa si accresceva alla tavola un papero, e nelle maggiori solennità, tutto il grande sfarzo era la giunta di uno o due fagiani o di due polli. Oro non volle mai nella sua mensa, e tutto il suo vasellamento d'argento consisteva in ducento libbre. Occorrendone di più nelle occasioni, se ne facea prestar dagli amici. Se solo si cibava, teneva un libro a tavola, e leggeva, se pur non facea leggere. Ma più spesso voleva seco a pranzo degli uomini dotti, e particolarmente Ulpiano, dicendo che più gli faceano pro i ragionamenti loro eruditi, che le vivande. Allorchè dovea far de' pubblici banchetti, anche da questi volea bandito lo sfoggio, portandosi solamente i piatti consueti, ma aumentati a proporzione dei convitati. Per altro non gli piacea quella gran turba, perchè dicea di parergli di mangiar nel teatro o nel circo. Costumarono alcuni Augusti, ed era anche in uso presso i grandi, di aver commedianti o buffoni intorno alle lor tavole per divertirsi. L'innocente suo trastullo [779] era di veder combattimenti di pernici e di altri piccioli animaletti. Una sola, per altro innocente, particolarità di lui parve strana, cioè ch'egli sommamente si dilettò di aver nel suo palazzo varie uccelliere di fagiani, paoni, galline, anitre e pernici, e spezialmente di colombi, dicendosi che ne nudrisse fin venti mila. Dopo le applicazioni si ricreava in veder questi volatili; ed affinchè non gli fosse attribuito a scialacquamento, tenea dei servi, che colle nova, coi polli e coi piccioni cavavano tanto da far le spese a tanto uccellame. Ma qui non è finito il ritratto di questo buon imperadore. Il resto lo riserbo all'anno seguente, giacchè il pacifico felice stato dell'imperio romano in que' tempi non somministra avvenimento alcuno alla storia.
Anno di | Cristo CCXXVI. Indizione IV. |
Urbano papa 5. | |
Alessandro imperadore 5. |
Consoli
Marco Aurelio Severo Alessandro Augusto per la seconda volta e Lucio Aufidio Marcello anch'egli per la seconda.
Il Relando [Reland., in Fastis Consul.], il Bianchini [Blanchin., ad Anastas. Biblioth.] e il padre Stampa [Stampa, in Fastis.] chiamano il secondo console Caio Marcella Quintiliano per la seconda volta, fidandosi di una iscrizione pubblicata dal Gudio. Dispiacemi sempre di dovere ripetere che le merci gudiane son dubbiose, nè possono prestar sicuro fondamento alla erudizione. Una iscrizione stampata dal marchese Maffei [Maffejus, Antiquit. Gall.], e da me riferita nella mia Raccolta [Thesaurus Novus Inscript., pag. 356, n. 2.], benchè corrosa, vo io credendo che ci abbia conservato il vero nome di esso console. Tutti i fasti e varie leggi ci danno Marcello console in quest'anno. S'egli avesse portato il [780] cognome di Quintiliano, non Marcello, ma Quintiliano lo avrebbono appellato gli antichi. Miriamo ora l'Augusto Alessandro nella vita civile. Mirabil cosa fu il vedere com'egli odiasse il fasto, e quasi dimentico del sublime suo grado, amasse di uguagliarsi a' suoi cittadini. Spesso andava ai pubblici bagni a lavarsi dove concorreva anche il resto del popolo; e nel suo palazzo si facea servire unicamente dai suoi servi. A chiunque dimandava udienza, e a chi de' nobili di buona fama veniva per salutarlo, era sempre la porta aperta; nè voleva egli che s'inginocchiassero davanti a lui, come dianzi esigeva il vanissimo Elagabalo, ma che gli facessero quello stesso saluto che si usava co' senatori, chiamandolo col proprio nome, e senza nè pur chinare il capo. Il fare altrimenti veniva da lui interpretato per adulazione, e metteva in burla chi faceva troppi complimenti o eccedeva in ossequio. Talvolta ancora licenziò in collera taluno di questi falsi adoratori. Per la stessa ragione non potea soffrire, e teneva per una pazzia, coll'esempio di Pescennio Negro, l'ascoltar poeti ed oratori che facessero il di lui panegirico. Volentieri bensì porgea le orecchie a coloro che contavano i fatti degli uomini illustri [Lampridius, in Alexandro.], e sopra tutti di Alessandro il Macedone, de' buoni imperadori e de' famosi Romani. Vietò il dare a lui il titolo di Signore, ed ordinò che si scrivesse alla sua persona come si faceva ai particolari, colla giunta del solo nome d'Imperadore, cioè, come già si stilava ne' tempi di Cicerone. Fece pubblicare che non entrasse a salutarlo chi sapeva di non essere innocente. Specialmente ciò era detto per gli ministri e nobili ladri. La maniera di trattar co' suoi amici era di molta familiarità e franchezza, pregandoli sempre di sedere presso di sè: il che indispensabilmente praticava coi senatori. Quanta fosse le sua moderazione, principalmente si riconosceva nelle udienze, perchè si [781] mostrava cortese ed affabile verso di ognuno. Niuno partiva da lui malcontento, nè passava mai giorno senza che egli facesse qualche atto di bontà. Ed ammalandosi chi era amato da lui, ancorchè di basso ordine, amorevolmente andava a visitarlo. Perchè poi Mammea la madre e Memmia sua moglie gli dicevano che quella tanta cortesia esponeva allo sprezzo la sublime sua dignità: Può essere, rispondeva, ma certo la rende più sicura e di maggior durata. Alcuni de' suoi più cari obbligava a venire a pranzo con lui; e di chi non veniva, dimandava conto con bella grazia. Tanto alla tavola che alle udienze si trovava sempre di buon umore, e non mai in collera; e diceva le sue burle, ma senza punture. Esigeva che gli amici gli dicessero liberamente il lor sentimento; e dicendolo, gli ascoltava con attenzione, correggendo poscia proprii i difetti. Colla stessa libertà diceva anch'egli dov'essi mancavano; e ciò non mai con fasto ed asprezza.
Il suo vestire era semplice e modesto, senza oro e senza perle, imitando in ciò la moderazion di Severo, ed abborrendo la vanità di Elagabalo, che voleva guernite di perle infino le scarpe. Soleano essere gli abiti suoi di color bianco, e non di seta, che costava allora assaissimo. Dicea che le gemme convenivano solo alle donne; e che le stesse donne, senza eccettuarne l'imperadrice, doveano essere contente di poche. Avendo un ambasciador d'Oriente donate due perle di mirabil grossezza e bellezza all'Augusta sua moglie, cercò di venderle; e perchè non si trovò compratore, ne formò due orecchini alla statua di Venere, con dire che l'imperadrice darebbe troppo cattivo esempio portando addosso cose di tanto prezzo. Con questo esempio arrivò egli a correggere il lusso degli uomini, siccome anche l'Augusta consorte quello delle donne. Fece inoltre Alessandro ristorar molte fabbriche di Traiano, ma con rimettere dappertutto il nome di esso [782] primo autore. Quanto affetto poi egli sempre ebbe ai buoni, altrettanto odio, o, per dir meglio, abborrimento, portava ai cattivi. Un certo Settimio, che scrisse la vita di questo impareggiabile Augusto, attestava che egli specialmente si sentiva tutto commovere, e s'infiammava in volto, incontrandosi in giudici che fossero in concetto di ladri. Accadde che un Settimio Arabino, senatore famoso per sì fatto vizio, e liberato sotto Elagabalo, comparve un dì con gli altri a salutarlo. O dii immortali! gridò allora Alessandro, Arabino non solamente vive, ma vien anche in senato! Spera forse costui da me un buon trattamento? Mi dee ben egli tenere per un pazzo e scimunito. Non vi era parente o amico ch'egli potesse tollerare, se si lasciavano trasportare ad azioni disonorate, e massimamente se per interesse vendevano la giustizia, riguardando egli costoro come i più perniciosi nimici del pubblico. Però li faceva processare e punire: o se pur s'induceva a far loro la grazia, la godevano con patto che si ritirassero; perchè, siccome egli diceva, a lui più cara era la repubblica che qualsivoglia privata persona. Così ad un suo segretario, perchè portò al consiglio il sommario falso di un processo, egli fece tagliare i nervi delle dita, acciocchè più non potesse scrivere, e relegollo in un'isola. Venne in mente ad un nobile, altre volte processato per le sue mani poco nette, di farsi raccomandar caldamente da alcuni re o principi stranieri che erano alla corte, per ottenere una carica militare. Tali furono le loro istanze, che l'Augusto Alessandro non seppe negar la grazia. Ma da lì innanzi tenne così ben gli occhi addosso a costui, che fra poco si scoprì una sua ruberia. Fece egli esaminar lo affare in presenza di que' medesimi principi, tuttavia dimoranti in Roma, e il reo fu convinto e confesso. Dimandò allora a que' principi che gastigo si desse nel loro paese a sì fatte persone: La croce, risposero essi; ed in effetto, [783] per sentenza de' suoi medesimi protettori, fu colui condannato alla croce, senza che alcuno si potesse lagnare del rigor di Alessandro. E non è già che questo buon imperadore non fosse inclinato alla clemenza. Certamente niun senatore a' tempi suoi, benchè delinquente, perdè la vita; ed egli incaricava i giudici di procedere il più di rado che si potesse contra dei rei alla pena della morte e al confisco dei beni. Ma, premendogli il pubblico bene, voleva che la giustizia avesse il luogo nei casi bisognosi di esempio. E perchè Erodiano [Herodian., lib. 6.] scrive che il suo imperio fu senza sangue, Lampridio [Lampridius, in Alexandro.] ragionevolmente lo interpreta de' soli senatori; e tanto più attestando il medesimo Erodiano, che a niuno sotto di lui fu levata la vita, senza essere stato prima conosciuto giuridicamente dai tribunali il suo delitto, ed emanata la condanna.
Anno di | Cristo CCXXVII. Indizione V. |
Urbano papa 6. | |
Alessandro imperadore 6. |
Consoli
Albino e Massimo.
Di gravi dispute sono state fra gli eruditi intorno al prenome e nome di questi consoli. Inclinò il cardinal Noris [Reland., Fast. Cons.] a credere il primo Marco o Numerio Nummio Albino, ma con conghiettura priva di forza. Il Relando [Idem, ibid.] e il padre Stampa [Stampa, in Fastis.], recata in mezzo una iscrizione del Gudio, appellarono questi consoli Lucio Albino e Massimo Emilio Emiliano. Ma possiamo noi fidarci dei marmi gudiani? Impropria cosa è che in quella iscrizione abbia il prenome Albino, e non lo abbia l'altro console. Più improprio è che il secondo console sia chiamato Massimo Emilio Emiliano. Non è nome [784] di famiglia Massimo. E se l'ultimo suo cognome fosse stato Emiliano, le leggi e i fasti lo avrebbono notato con esso, e non già con quello di Massimo. Tre leggi, che hanno Albino ed Emiliano, non son da contrapporre a tante altre, che portano Albino et Maximo. Si potrebbe solamente sospettare che quell'Emiliano fosse sustituito a Massimo. Sempre nei decreti del senato si riteneva uno stile, nè si mutava, se non si cambiava console. Continuiamo ora a vedere come si regolasse verso del pubblico il buon imperadore Alessandro. Merita ben più la vita sua che quella del Macedone di esser letta dai principi, per imparar ciò che talvolta non sanno [Lampridius, in Alexandro.]. Procurava egli a tutto suo potere la felicità de' popoli, non solo coll'astenersi dall'imporre nuovi aggravii, ma con istudiarsi di sminuire i già imposti. In fatti ridusse ad un terzo quel che si pagava sotto Elagabalo per le gabelle, di maniera che dieci in vece di trenta si cominciò a pagare. Pensava anche di fare di più, ma non glielo permisero le necessità del pubblico. Non si sa ch'egli istituisse altro dazio che sopra i banchieri, orefici, pellicciai e quei delle altre arti. Questo nondimeno dovea essere leggiera cosa, perchè Lampridio lo chiama vectigal pulcherrimum. E questo non per farlo colar nella sua borsa, ma perchè il ricavato servisse al mantenimento delle terme, cioè dei pubblici bagni, che erano allora in gran credito ed uso; il che vuoi dire che tal dazio tornava in comodo solamente del pubblico stesso. Volle si aggiugnesse olio ad esse terme, acciocchè anche di notte se ne potesse valere il popolo: il che dianzi non si faceva; e fu poi abolito da Tacito imperadore, perchè se ne abusava la gente cattiva. Levò anche affatto interamente qualche dazio, solito a pagarsi in Roma. Nè già favoriva egli il fisco in pregiudizio del popolo e della giustizia; anzi odiava tutti i ministri del fisco e [785] delle dogane, e li chiamava un male necessario. Uso suo fu di cambiarli spesso, sperando forse che i nuovi sulle prime opererebbono con più discretezza e meno ingiustizia. In beneficio de' poveri sminuì le usure; e se i senatori prestavano per cavarne frutto, ne' primi anni del suo governo, voleva che loro non si pagasse usura, ma solamente un regalo, ad arbitrio di chi prendeva in prestanza il danaro. Poscia ridusse al sei per cento le usure di essi senatori, e senza altro regalo; laddove gli altri per lo più esigevano il dodici. Dava egli stesso danari a prestanza a' poveri, e senza volerne frutto; anzi si contentava che coi frutti ch'essi ricavavano degli stabili comperati col di lui danaro, gli fosse restituito il capitale. Teneva egli esatto registro di tutto. E se gli veniva a notizia che talun de' suoi conoscenti in bisogno di pecunia gli avesse o nulla o poco chiesto in prestito, il faceva chiamare per dimandargli conto di sì poca speranza e confidenza in lui.
Del resto non era egli di coloro che non credono l'economia e il risparmio una virtù da principe. Anche in essi è virtù, se ciò non fanno per risparmiare ai suoi popoli gli aggravii, e per impiegare in benefizio e sollievo del pubblico stesso il loro risparmio. Regolavasi appunto così l'Augusto Alessandro, il quale era assai persuaso che il principe dee far da economo del danaro che si cava dai sudori de' sudditi, e non già da padrone per impiegarlo ne' suoi capricci e divertimenti. Perciò egli risecò tutte le spese e i salariati inutili della corte, ritenendo solamente la servitù necessaria con decenti e non isfoggiate paghe. Solea dire che la gloria e grandezza di un imperio consiste non già nella magnificenza, ma nelle buone forze, cioè, a mio credere, nell'aver ricchi sudditi e valorose milizie. Quanto ai soldati ne parleremo più a basso. Per conto de' sudditi, favorì Alessandro non poco la mercatura, concedendo esenzioni a tutti i trafficanti. [786] Attese all'accrescimento e all'abbondanza dell'annona, mandata in malora dall'impuro Elagabalo, e la rimise in piedi colla sua borsa. Il donativo dell'olio, che Severo Augusto ogni anno faceva al popolo, e che il suddetto Elagabalo avea molto assottigliato, fu da lui rimesso nel primiero suo essere. Era anche il popolo romano a parte una volta del governo e delle rendite della repubblica. Dappoichè si alzarono gl'imperadori, siccome di sopra accennammo, gran tempo durò il dare alla plebe di tanto in tanto qualche congiario, ed ogni anno tante misure di grano per testa, e vi si aggiunse anche il dono dell'olio e della carne. All'incontro condonò Alessandro alle provincie e ai mercatanti quella contribuzione che aveva a titolo di regalo, ma era forzata, solita a pagarsi all'entrare del nuovo principe, chiamata l'Oro Coronario. Per altro non lasciò Lampridio [Lampridius, in Alexandro.] di osservare che questo principe non ometteva diligenza alcuna per ammassar pecunia, e per custodirla ancora; ma non ne cercò mai egli per le vie illecite, nè con aggravio indebito d'altrui. Mai non diede per danari le giudicature, solendo dire: Chi compera bisogna che venda. Io mai non soffrirò questi mercatanti di cariche, e se li promettessi, non potrei poi ragionevolmente gastigarli. Mi vergognerei di punire un uomo che ha comperato, s'egli poi vende. Ma non donava oro nè argento a commedianti, carrozzieri e ad altri che davano divertimento al pubblico, ancorchè si dilettasse non poco degli spettacoli. Diceva che costoro andavano trattati come i famigli, cioè con paghe tenui. E tuttochè egli avesse un gran rispetto per la sua falsa religione, pure non offeriva ai templi pagani più di quattro o cinque libbre d'argento, e mai nulla d'oro, con ripetere un verso di Persio, indicante, che gli dii non aveano bisogno d'oro, nè servir esso per fare star bene gli dii, ma sì bene i loro ministri. Dissi con [787] Lampridio che questo Augusto sapea ben custodire il danaro. Ciò non vuoi dire ch'egli, a guisa degli avari, il covasse. Solamente significa ch'egli non sel lasciava uscir delle mani per ispese di vanità, di gola o di lussuria. Che per altro egli largamente spendeva, e tutto in opere lodevoli, cioè in fabbriche ed altre imprese di utile, o di ornamento alla città di Roma, o per far guadagnare gli operai e il basso popolo.
Istituì scuole di rettorica, grammatica, medicina, aruspicina, matematica, architettura e di macchine, con salarii fissi ai maestri, e vitto ai discepoli figliuoli di poveri, purchè liberi. Stese anche la sua liberalità agli oratori nelle provincia. A molte città deformate dai tremuoti rilasciò parte del danaro delle gabelle, acciocchè rimettessero in piedi gli edifizii pubblici e privati. A chi trovava de' tesori li lasciava godere. Solamente s'erano di molto valore, ne faceva dar qualche parte ai suoi uffiziali. Fece fabbricar dei pubblici granai per cadaun rione di Roma, acciocchè chi n'era senza potesse quivi rinserrare i suoi grani. Diede compimento alle terme magnifiche, cioè ai bagni di Caracalla, e ne fabbricò ancora delle suntuose, che portarono il suo nome. Aggiunse inoltre varii altri bagni a que' rioni di Roma che n'erano privi. Altri edifizii fece in quella città e a Baia, con risarcire i ponti fabbricati da Traiano, e con ristorar anche molte antiche memorie di Roma, e adornar quella città di assaissimi colossi, o sia di statue sopra l'usata misura, specialmente per li più rinomati imperadori, colle loro iscrizioni e con colonne di bronzo, dove erano descritte le loro imprese. Fabbricò eziandio molte case bellissime, e le donò a quegli amici suoi ch'erano in concetto di maggior probità. Non invidiava, non uccellava le ricchezze altrui, come usarono i cattivi principi; all'incontro stendeva la mano in aiuto de' poveri; e massimamente le rugiade della sua beneficenza si spandevano sopra i nobili [788] caduti in povertà non per loro colpa, e in povertà non finta, con donare ad essi delle terre, de' servi, degli animali e degli utensili contadineschi; diede anche tre congiarii al popolo, e fece tre donativi alle milizie. Il danaro che ricavava dal dazio delle meretrici, dei ruffiani e di altre peggiori pesti, siccome pecunia infame, non volle che passasse nell'erario suo o pure del pubblico, ma che s'impiegasse nel mantenimento del teatro, del circo e dell'anfiteatro. Sua intenzione era parimente di proibire un detestabil vizio, che dalla sporca Gentilità si permetteva al pari di quel delle pubbliche donne; ma vi trovò tali difficoltà, che gli convenne desistere, e Dio riserbava alla santa Religione di Cristo una tal vittoria. Contuttociò fece confiscar i beni alle donne infami [Lampridius, in Alexandro.], delle quali trovò un infinito numero in Roma pagana piena di lordure, e mandò in esilio tutta la gran ciurma de' nefandi garzoni, parte de' quali nel viaggio, naufragando, perì.
Anno di | Cristo CCXXVIII. Indizione VI. |
Urbano papa 7. | |
Alessandro imperad. 7. |
Consoli
Modesto e Probo.
Le conghietture del cardinal Noris [Noris, Epist. Consul.], seguitate da' susseguenti scrittori, sono che questi consoli portassero i nomi di Tiberio Manlio Modesto e Servio (non Sergio) Calpurnio Probo, perchè una iscrizione del Grutero [Gruterus, Thesaur. Inscript., p. 300, n. 1.] rammemora il consolato di Marco Acilio Faustino, e Triario Rufino, spettante all'anno di Cristo 210, poi quello di Tiberio Manilio ... e Servio Calpurnio ... poi quello di Alessandro Augusto, appartenente all'anno 229, e poi quello di Lucio Virio Agricola e Sesto Catto Clementino nell'anno 230. Ma non resta a tal conghiettura quieta la mente nostra per la tanta distanza de' consoli [789] dell'anno 210 all'anno presente 228, potendo nel tempo di mezzo, ed in altro anno che nel corrente, essere stati consoli que' due Tiberio Manilio e Servio Calpurnio, per le rivoluzioni succedute allora. Però più sicuro partito ho creduto di mettere solamente i lor cognomi, de' quali niuno può dubitare. Difficil cosa è, per non dire di più, il mettere ai lor siti gli avvenimenti di questi tempi, perciocchè o ci mancano le storie, o son confusi o dubbiosi i lor testi. Sia a me dunque lecito di riferirne qui alcuni di molta importanza, che certamente dovettero accadere prima dell'anno seguente 229, quando sia fuor di dubbio che Dione istorico [Dio, lib. 80.] terminasse la storia sua in esso anno 229. Quantunque regnasse un sì buon imperadore, pure avvenne che per una cagione assai lieve insorse una rissa fra il popolo di Roma e i pretoriani, voglio dire i soldati delle guardie. Crebbe tanto questo fuoco, che prese le armi, per tre dì si combattè aspramente fra loro colla mortalità di assaissime persone dall'un canto e dall'altro. Per la sua gran copia era in istato il popolo di opprimere i soldati; ma avendo costoro cominciato ad attaccar il fuoco alle case, esso popolo, per timore che tutta la città andasse in fiamme, fu forzato di trattar di accordo, e così ebbe fine quella guerra civile. Non si sa se prima o dopo di questo accidente succedesse l'altro della morte di Domizio Ulpiano, insigne giureconsulto di questi tempi e celebre nella storia delle leggi. Egli, siccome il più dotto e saggio dei senatori di allora, era come capo del consiglio cesareo [Lampridius, in Alexandro.], e più di lui che di altri si serviva l'Augusto Alessandro nel governo degli stati, facendo egli la funzione di segretario de' memoriali e delle lettere. Arrivò anche ad essere prefetto del pretorio [Dio, lib. 80.], dopo aver fatto ammazzare (probabilmente con processo e condanna [790] giudiciaria) Flaviano e Cresio prefetti, per succedere loro in quella carica. Certamente dagli antichi storici vien molto esaltato il sapere, la prudenza e lo zelo di Ulpiano; e sappiamo che egli corresse non pochi abusi introdotti da Elagabalo; ma forse colla sua gran dottrina egli sapeva accoppiar l'ambizione ed altri vizii, credendosi ancora ch'egli odiasse di molto i Cristiani. O sia dunque che la morte data ai suddetti due prefetti irritasse forse gli animi de' pretoriani, o pure che il loro sdegno provenisse dall'aver egli voluto riformare la scaduta lor disciplina, e trattarli con asprezza: certo è che essi pretoriani si sollevarono un giorno contra di lui, e dimandarono la sua morte ad Alessandro Augusto, che lungi dall'acconsentire alla loro dimanda, colla stessa sua porpora coprì e difese più di una volta Ulpiano. Ma questo nulla giovò. Una notte lo assalirono, ed egli scappò al palazzo, implorando la protezion dell'imperadore e dell'augusta Mammea sua madre: il che non ritenne gl'infuriati soldati dallo scannare sugli occhi dello stesso Augusto il misero Ulpiano. Ci viene bensì dicendo Lampridio che Alessandro si fece rispettar dalle sue milizie; e pure noi non sentiamo ch'egli facesse altro risentimento per così grave insulto fatto alla sua dignità, che di gastigare Epagato stato la principal cagione della morte di Ulpiano [Dio, lib. 80.]. Convenne ancora camminar in ciò con gran riguardo, cioè mandarlo prima per prefetto in Egitto, e poi in Candia, dove fu condannato e spogliato della vita: non essendosi attentata la corte di punirlo in Roma per timore di una nuova sedizione. Non si sa bene il netto e i motivi di quel torbido; e Zosimo [Zosimus, Histor., lib. 1.] scrive che ne parlavano differentemente gli scrittori di questi tempi.
Abbiamo nondimeno da questo medesimo storico, che i pretoriani, per timor della pena, proclamarono imperadore un [791] Antonino, il quale destramente si ritirò, non volendo servir di giuoco alla lor pazza ribellione, nè più si lasciò vedere. Parla lo stesso Zosimo anche di un Urano schiavo, il quale proclamato Augusto, fu ben tosto preso e condotto ad Alessandro colla porpora che gli aveano messa indosso. Di un Urano appunto, che usurpò l'imperio in Edessa nella Osroena, e fu abbattuto da Alessandro, favella Giorgio Sincello [Syncellus, Histor.]; siccome ancora Vittore, di un Taurino (lo stesso forse che Urano) il quale acclamato dai soldati imperadore [Aurelius Victor, in Epitome.], per orrore di ciò si precipitò nell'Eufrate. Oscuri fatti son questi. Tuttavia che varie ribellioni si facessero, tutte nondimeno di poca durata, e tutte verisimilmente per colpa de' soli pretoriani e degli altri soldati che sotto Caracalla ed Elagabalo si erano troppo male avvezzati, e per poco insolentivano, ne siamo assicurati da Dione [Dio, lib. 80.]. Aggiunge egli stesso, ch'essendo insorta la guerra in Mesopotamia, per le conquiste fatte da Artaserse re dei Persiani contra de' Parti (del che parlerò andando innanzi), molti dell'armata romana, ch'era in quelle parti, desertando passavano ai Persiani, e più furono gli altri che non voleano combattere, e giunsero ad ammazzare Flavio Eracleone lor generale: tanto grande era divenuta la effeminatezza, sbrigliatezza ed impunità. Trovasi ancora nelle monete di questo anno [Mediobarb., in Numismat. Imper.] fatta menzione di una vittoria, senza che se ne sappia il perchè, e senza che Alessandro prendesse il titolo d'imperadore. Intanto non lasciava esso Augusto le applicazioni al governo de' popoli con prudenza superiore alla sua età [Lampridius, in Alexandro.]. Si ridusse nondimeno a non ammettere alcuno a ragionamenti di familiarità e confidenza, se non v'era presente il prefetto del pretorio ed altri [792] de' suoi ministri. E ciò avvenne perchè un Vetronio Turino, con cui egli trattava assai alla domestica, parlava di lui, come se fosse suo favorito, vantandosi di ottener tutto quanto voleva da lui. Passò più oltre, perchè cominciò a far bottega di questo suo mentito favore, e per le grazie fatte dall'imperadore esigeva de' buoni regali dai corrivi, facendole credere impetrate da sè, contuttochè nè pure ne avesse detta una parola. Informato di ciò Alessandro, e che costui vendendo il fumo, screditava lo stesso Augusto, quasi che fosse un ragazzo e uno scioccherello che si lasciasse da lui menare pel naso: volle prima chiarirsi della verità del fatto, mandando sotto mano persona a raccomandarsi a Turino, per impetrar una grazia di molta importanza. Promise Turino di assistere; e dopo avergliela fatta saper buona col mostrare la difficoltà, e di aver parlato più volte, finalmente dappoichè fu spedita la grazia, in presenza di testimonii, si spacciò mezzano di essa, e volle un grosso pagamento, ancorchè nè pure una sillaba avesse detto di ciò all'imperadore. Allora Alessandro il fece accusare, e convinto, fu attaccato ad un palo con paglia umida e legne verdi intorno, che il soffocarono col fumo, gridando intanto il banditore: Col fumo è punito chi vendeva il fumo. Ciò avvenne prima che fosse ucciso Ulpiano. Veggonsi molti savii decreti di questo principe nel corpo delle leggi romane. Costituì egli dei corpi di cadauna arte, con dar loro dei difensori. Proibì l'andare gli uomini e le donne al medesimo bagno. Aveva anche formato il disegno che ogni ordine di cittadini avesse l'abito suo particolare, acciocchè si distinguesse dagli altri, e specialmente si riconoscessero gli schiavi. Ulpiano il distornò da questa risoluzione, perchè ne sarebbero insorte molte dispute fra le persone, e gli schiavi si sarebbono avveduti di essere in troppo maggior numero che la gente libera. Lamentandosi il popolo [793] che la carne di bue e porco era troppo cara, in vece di calarne il prezzo, ordinò che non si ammazzassero vitelli, vacche, porchette e troie gravide: e in meno di due anni la carne suddetta venne a costare un solo quarto di quello che si vendeva in addietro.
Anno di | Cristo CCXXIX. Indizione VII. |
Urbano papa 8. | |
Alessandro imperadore 8. |
Consoli
Marco Aurelio Severo Alessandro per la terza volta, Dione Cassio per la seconda.
Lo stesso Dione, che terminò in questi tempi la sua storia, confessa che Alessandro Augusto lui volle per collega nel suo consolato, essendo egli stato console sostituito in alcuno degli anni precedenti. Però sembra scorretta una legge riferita dal Relando [Reland., in Fast. Cons.], siccome ancora una iscrizione pubblicata dal Panvinio [Panvin., in Fast. Consular.] e dal Grutero [Gruterus, Thesaurus Inscript., pag. 1079, num. 11.], ed un'altra dal Doni, dove in vece di Dione si legge Dionysio, quando a Dione non fosse stato sostituito un console appellato Dionisio, il che non par da credere. Ne' Fasti ancora del Cuspiniano si legge Dyonisio. Racconta il medesimo Dione [Dio, lib. 80.] d'avere avuto negli anni addietro il governo dell'Africa da Alessandro Augusto, e poi quello della Dalmazia, e successivamente quello dell'Alta Pannonia, dove con vigore cercò di rimettere sul piede dell'antica disciplina quelle milizie. Venuto poscia a Roma nell'anno precedente, gl'insolenti pretoriani, siccome aveano fatto ad Ulpiano, accusarono anche lui, perchè paventavano ch'egli volesse rimettere fra loro stessi la militar disciplina. Alessandro, che ben conosceva il merito di Dione, in vece di [794] fargli del male, per dar gusto a quegli scellerati, il disegnò console per l'anno presente in sua compagnia. Ma perciocchè dubitò che i pretoriani, al vederlo in quella dignità, facessero maggior tumulto e lo uccidessero, credette meglio che Dione stesse per qualche tempo fuori di Roma in quelle vicinanze. Portossi poi Alessandro nella Campania, e colà fu a trovarlo Dione, e stette qualche giorno con lui alla vista dei soldati, che non dissero una parola. Ed egli allora ottenne licenza di potersi ritirare a Nicea di Bitinia patria sua, per quivi passare quel che gli restava di vita, trovandosi già vecchio e mal sano, e probabilmente colla paura in corpo di non finir male, come era succeduto ad Ulpiano. Che a lui nel consolato succedesse Marco Antonio Gordiano in questo medesimo anno si ricava da Capitolino [Capitolinus, in Gordian.], colà, dove scrive essere stato il più vecchio de' Gordiani console in compagnia di Alessandro Augusto, e ch'egli dipoi fu mandato proconsole al governo dell'Africa, con tal piacere di esso Augusto, che con sua lettera ringraziò molto il senato di sì fatta elezione, stante l'essere Gordiano uomo nobile, magnanimo, eloquente, giusto, continente e dabbene. Se ne ricordi il lettore, perchè a suo tempo vedremo il medesimo Gordiano portare il titolo di Augusto.
Fu appunto una delle belle doti dell'imperadore Alessandro quella di scegliere, e di volere che si scegliessero per le cariche e pel governo delle provincie coloro, ne' quali concorreva più abilità a governar altri e maggior probità [Lampridius, in Alexandro.]. Nulla si dava al favore, nulla alle raccomandazioni, molto meno al danaro. Gli eunuchi, i quali erano stati in addietro potentissimi in corte, e venivano chiamati da lui una terza specie del genere umano, tutti furono rimossi dal di lui servigio, ed appena si contentò egli, [795] che di alcuni pochi si servisse la imperadrice, ed in uffizii bassi, e con abito de notante la bassezza del loro stato, togliendo con ciò tanti disordini cagionati per lo passato dalla soverchia autorità che godeano o faceano credere di godere. Alessandro col parer del senato eleggeva i consoli, i prefetti del pretorio ed altri magistrati, lasciando la elezion degli altri al senato medesimo. Diceva egli, meglio essere per lo più il dare gli uffizii a chi non li ricerca, che a chi tante premure usa per ottenerli. Niun senatore nuovo creava egli, se persone di credito prima non rendevano buona testimonianza del merito suo, e non veniva approvato da' senatori suoi consiglieri. E guai se trovava che lo avessero in ciò ingannato: colui era cacciato dal senato, e i suoi fautori gastigati. Una rarissima ed ammirabil maniera ebbe ancora nella elezion de' presidenti delle provincie e di altri magistrati meno importanti. Prima di conferir que' posti, faceva esporre in pubblico i nomi de' proposti per essi, esortando ognuno a scoprire se costoro avessero commesso qualche delitto, purchè ne potessero dar le pruove; poichè nello stesso tempo proibiva sotto pena della vita l'accusare senza poter provare l'accusa. Lampridio [Lampridius, in Alexandro.], storico pagano, attesta aver egli appreso questo rito dai Cristiani ch'esaminavano diligentemente prima chi si avea da ammettere al sacerdozio. E solea dire Alessandro, parergli strano come non si usasse la diligenza medesima, allorchè si voleva eleggere chi dovea avere in mano i beni di fortuna e le vite dei popoli, quando ciò si praticava dai suddetti Cristiani per la elezione de' sacerdoti. Avrebbe egli desiderato che ogni governator delle provincie avesse saputo esercitare il suo uffizio senza bisogno di assessore, tuttavia soffrì sempre l'uso di tali assessori; e diede anche loro buoni salarii. Provvedeva egli in oltre le persone, nel mandarle ai governi, di danaro, [796] servi, mule, cavalli e di altre robe necessarie, dandole poi a' medesimi, se con lode esercitavano i loro impieghi. Se male, voleva che rendessero quattro volte più di quello che avea loro somministrato. In somma, la vita di questo Augusto, tanto più mirabile, quanto ch'egli era assai giovane, sarebbe un bellissimo modello per qualunque principe che amasse la vera gloria, ed imparar volesse il meglio degli esempi altrui, con leggere le vite di que' principi buoni ed uomini illustri, dei quali forse niuna età e nazione è stata priva.
Anno di | Cristo CCXXX. Indizione VIII. |
Ponziano papa 1. | |
Alessandro imperadore 9. |
Consoli
Lucio Virio Agricola e Sesto Catio Clementino.
Il secondo console in qualche testo è chiamato Clemente [Thesaurus Novus Inscription., pag. 357, num. 2.], e in una iscrizione riferita del Cupero, Clemenziano. Se questa è legittima, può essa prevalere agli antichi codici. Credesi che in questi tempi santo Urbano papa gloriosamente compiesse i suoi giorni con ricevere la corona del martirio. Ebbe per successore Ponziano. Tempo è ora di parlare di una strepitosa rivoluzion di cose accaduta in Oriente. La Persia, conquistata alcuni secoli prima da Alessandro il Grande, durò per qualche tempo sotto il dominio dei re della Siria, ossia della Soria, successori del Macedone. Arsace, famoso re de' Parti, loro la tolse circa ducento cinquant'anni prima dell'era cristiana, e continuò ivi a signoreggiare la schiatta degli Arsacidi sino ad Artabano re di quelle contrade, e regnante a' tempi dell'Augusto Alessandro [Dio. Herod. Lamprid. Agathias et alii.]. Contra di Artabano si ribellò un uomo di basso affare, ma di gran coraggio, chiamalo Artaserse, discendente dagli [797] antichi Persiani; il quale messa in armi la nazione sua, e collegato con altri popoli vicini, tre volte diede battaglia ad Artabano, ed altrettante ancora lo sconfisse, ed in fine gli levò la vita. Abbattuto dunque il regno de' Parti, ritornò la corona in capo ed Artaserse Persiano, e si rinnovò la potenza di quella nazione, la quale troveremo, andando innanzi, terribile ai Romani, poi soggiogata dagli Arabi, e di tal possanza anche oggidì dopo incredibili peripezie che fa paura al potentissimo Sultano de' Turchi, e più che paura ha fatto, pochi anni sono, al Mogol, grande imperadore delle Indie orientali. Mise [Dio, in Excerpt. Valesianis.] il vittorioso Artaserse l'assedio alla fortezza di Atra; ma perdutavi indarno molta gente, passò nella Media, e ne conquistò la maggior parte. Rivolse poi le sue forze contro l'Armenia, dove quel popolo assistito dai Medi e dai figliuoli di Artabano, colà rifugiati, il costrinse con suo poco gusto a battere la ritirata. Pretende il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] che nell'anno di Cristo 226, Artaserse sulle rovine del regno de' Parti piantasse il trono de' Persiani, citando in pruova di ciò lo storico Agatia; e che nel seguente anno, o pure nel 228, egli incominciasse la guerra contra dei Romani. Non è Agatia uno scrittore sicuro per tempi sì lontani da lui. Abbiamo di certo da Dione [Dio, in Excerptis Valesianis.] che nell'anno 229 grande apprensione recava Artaserse ai Romani, con minacciare di assalir la Mesopotamia e la stessa Soria, pretendendo di voler ricuperar tutto quanto appartenne una volta ai re di Persia [Herod., lib. 6.], l'imperio de' quali arrivava sino al Mediterraneo e all'Egeo. Vuole il suddetto Pagi che nell'anno precedente l'Augusto Alessandro, per frenare questo minaccioso torrente, si portasse coll'esercito ad Antiochia. Monsignor Bianchini [Blanchinius, ad Anastas. Bibliothecar.] differisce la di lui andata al presente [798] anno, il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] sino all'anno 232. A me sembra più probabile che in quest'anno Alessandro si mettesse in viaggio, giacchè abbiamo una moneta [Mediobarbus, in Numismat. Imperator.], spettante all'anno IX della di lui podestà tribunizia, dove si legge PROFECTIO AVGVSTI.
Scrive Erodiano [Herodianus, lib. 6.], che arrivato Alessandro all'anno tredicesimo del suo imperio (numero senza fallo scorretto), si svegliò la guerra coi Persiani, ed avere esso Augusto sulle prime creduto bene di scrivere lettere ad Artaserse, per esortarlo a desistere dalle novità, e a contentarsi del suo, perchè non gli andrebbe così ben fatta, volendo combattere coi Romani, come gli era accaduto con altri popoli, ricordandogli le imprese di Augusto, Lucio Vero e Settimio Severo in quelle parti. Si rise l'orgoglioso Artaserse di queste lettere, e la risposta che diede, fu coll'entrare armato nella Mesopotamia, e dar principio ad assedii e saccheggi nel paese romano. Venute queste nuove a Roma, benchè Alessandro fosse allevato nella pace, pure, per parere ancora de' suoi consiglieri, fu creduta necessaria la di lui presenza alle frontiere della Soria. Gran leva dunque di gente si fece per l'Italia e per tutte le altre provincie; e formato un poderosissimo esercito coll'unione de' pretoriani ed altri soldati di Roma, si congedò Alessandro dal senato, ed imprese il viaggio alla volta di Levante. Attesta il medesimo Erodiano che niuno vi fu dei senatori e de' cittadini romani che potesse ritener le lagrime al vedere allontanarsi da loro un principe sì buono, sì amato ed adorato da tutti. Fece il viaggio per terra coll'armata, e data nell'Illirico la revista a quelle legioni seco le prese. Passato poscia lo stretto della Tracia, continuò il suo viaggio sino ad Antiochia, capitale della Soria, dove attese a far i preparativi necessarii per così pericolosa guerra. [799] Racconta Lampridio [Lampridius, in Alexandro.] la bella maniera tenuta da lui nella marcia dell'esercito suo. Prima di muoversi di Roma, fece attaccare ne' pubblici luoghi in iscritto la disposizione del viaggio, indicando il giorno della partenza, e di mano in mano assegnando i luoghi, dove l'armata dovea far alto nelle notti, o prendere il riposo di un giorno. Mandati innanzi tali avvisi, si trovava dappertutto preparata la tappa, cioè la provvisione de' viveri; nè vi fu verso ch'egli volesse mai mutare alcuna delle posate prescritte, per paura che i suoi uffiziali non facessero traffico delle marcie, per guadagnar danaro. Non altro cibo prendeva egli che l'usato dagli altri soldati, pranzando e cenando colla tenda aperta, affinchè ognuno il potesse vedere. Gran cura si prendeva egli perchè nulla mancasse di vettovaglia, di armi, di abiti, di selle e di altri arnesi alle soldatesche; ed in tutto esigeva la pulizia, di maniera che si concepiva, in mirar quelle truppe sì ben guarnite, un'alta idea del nome romano. Più di ogni altra cosa poi gli stava a cuore la disciplina militare, e che niun danno fosse inferito agli abitanti e alle campagne per dove passava l'armata. Visitava egli in persona le tende, nè permetteva che nella marcia alcuno, anche degli uffiziali non che de' soldati, uscisse di cammino. Se taluno trasgrediva l'ordine, le bastonate o altre convenevoli pene erano in pronto. E ai principali dell'esercito, che avessero mancato in questo, e danneggiato il paese, faceva una severa correzione, con intonar loro la massima imparata da' Cristiani, cioè con dire: Avreste voi caro che gli altri facessero alle terre vostre quel che voi fate alle loro? Perchè un soldato maltrattò una povera vecchia, il cassò e il diede per ischiavo ad essa donna, acciocchè col mestiere di falegname, ch'egli esercitava, la mantenesse. Ed avendo fatta doglianza di ciò gli altri soldati, fece lor [800] conoscere la giustizia di questo gastigo, che servì a tenere gli altri in freno. Per così bei regolamenti, e col tenere sì forte in briglia le milizie, dappertutto dove queste passavano, si dicea, che non già de' soldati, ma dei senatori erano in viaggio; ed ognuno, in vece di fuggirli, gli amava, vedendo tanta modestia e sì bell'ordine in gente non avvezza se non a far del male, con benedire Alessandro, come se fosse stato un dio.
Veramente Zosimo [Zosimus, lib. 1.] scrive che i soldati erano malcontenti di Alessandro per questo rigore di disciplina; e vedremo in fine che fu così. E pure Lampridio, scrittore più antico, e che avea bene studiato le precedenti storie, attesta ch'egli era amato da essi, come lor fratello e lor padre. Aggiugne questo medesimo storico [Lampridius, in Alexandro.], che arrivato il giovine imperadore ad Antiochia, e trovato che alcuni soldati di una legione si perdevano nelle delizie, e andavano ai bagni colle donne, li fece tosto mettere in prigione. Cominciò per questo tutta la legione a far tumulto e doglianze. Allora Alessandro salito sul tribunale, si fece condurre davanti quei prigioni alla presenza di tutti gli altri ch'erano in armi, e parlò con vigore intorno alla necessità di mantener la disciplina, e che il supplicio di coloro dovea insegnare agli altri. Grande schiamazzo allora insorse; ed egli più franco che mai ricordò loro, dover essi alzar le grida contra dei Persiani, e non contra il proprio imperadore, che cava il sangue dai popoli per vestire, nudrire ed arricchir le milizie. Li minacciò ancora, se non dimettevano, di cassarli tutti, e che forse non si contenterebbe di questo, rimproverando loro, che dimenticavano di essere cittadini romani. Più forte cominciarono essi allora a gridare ed a muovere l'armi, come minacciandolo. Ma egli, non istate, soggiunse, a bravare. L'armi vostre han da essere contro i nemici di Roma. Nè [801] vi avvisaste di farmi paura. Quand'anche uccideste un par mio, alla repubblica non mancherà un nuovo Augusto per governar lei e punire voi altri. E perciocchè non si quetavano, con gran voce gridò: Cittadini romani, deponete l'armi e andatevene con Dio. Allora (e par cosa da non credere) tutti, posate l'armi, le casacche militari e le insegne, si ritirarono. Gli altri soldati e il popolo raccolsero quelle armi e bandiere, e portarono tutto al palazzo. Di là poi ad un mese, pregato, rendè loro l'armi, con far nondimeno morire i lor tribuni, per negligenza de' quali erano caduti in tanta effeminatezza quei soldati. Questa legione dipoi si segnalò sopra le altre nella guerra contro i Persiani. Formò Alessandro di sei legioni una falange di trenta mila combattenti: il che ci fa intendere che allora ogni legione era composta di cinque mila armati. Altre guardie ancora avea con gli scudi intarsiati d'oro e d'argento. A tutti dopo la guerra di Persia fu data maggior paga che agli altri soldati.
Anno di | Cristo CCXXXI. Indizione IX. |
Ponziano papa 2. | |
Alessandro imperadore 10. |
Consoli
Pompeiano e Peligniano.
Non mi son io attentato a chiamare il primo di questi consoli Civica Pompeiano, perchè quel Civica viene da una sola iscrizione del Gudio, le cui merci sono a me sospette. Nell'anno 209 era stato console Civica Pompeiano. Un altro ne troveremo all'anno 241. Ma certo non è che ancor questo Pompeiano fosse appellato Civica. Il secondo console vien chiamato da Cassiodoro, dal Panvinio e da altri Feliciano; ma più è sicuro il cognome di Peligniano. L'Augusto Alessandro, prima di mettersi in campagna, volle tentar di nuovo se colle buone si potea frenar l'alterigia del Persiano Artaserse [Herodianus, lib. 6.], e gli spedì nuovi ambasciatori [802] lusingandosi che la presenza sua, sostenuta da sì poderoso esercito, avesse da inspirare al Barbaro pensieri più ragionevoli. Se ne tornarono essi senza risoluzione alcuna. All'incontro, inviò Artaserse ad Alessandro quattrocento dei suoi, tutti di alta statura, con vesti fregiate d'oro ed archi sfarzosi, credendo con tal comparsa di atterrire i Romani. Consistè la loro ambasciata in comandare orgogliosamente all'imperador dei Romani di uscire quanto prima di tutta la Soria e di ogni altra provincia di là dal mare, perchè tutto quel paese apparteneva ai Persiani, come antica dipendenza della loro corona. Da così insolente comando irritato Alessandro, col parere del suo consiglio, ordinò che tutti quegli ambasciadori, spogliati de' loro arnesi, fossero relegati nella Frigia, con dar loro campagne da coltivare. Nè volle fargli uccidere, perchè una iniquità sarebbe stata il punir colla morte gente non presa in battaglia, e che eseguiva gli ordini del suo re; quasi che non fosse anche una iniquità e un violare il diritto delle genti quel privarli di libertà, e il non lasciarli ritornare al loro signore. Si venne dunque all'armi. Se crediamo ad Erodiano [Herodian., lib. 6.], tre corpi fece Alessandro delle sue genti, come gli fu suggerito da' suoi generali, e da chi meglio sapeva il mestier della guerra, perchè egli nulla mai faceva di sua testa nelle spedizioni militari [Lamprid., in Alexandro.]; ma voleva prima udire il sentimento de' più vecchi e sperimentati nell'arte della milizia. Uno ne spinse nella Media per via dell'Armenia; un altro nel paese de' Parti, e riserbò per sè il terzo, per condurlo egli stesso. Ma o perchè Alessandro fosse di sua natura e per l'educazione alquanto timido, o perchè l'Augusta Mammea sua madre nol volesse vedere esposto ai pericoli, o perchè succederono diserzioni e tumulti in Soria, egli non s'inoltrò punto contro i nemici; e cagion fu che [803] il secondo corpo fu disfatto dai Persiani, con vittoria nondimeno che costò loro ben caro; e che il primo, dopo aver ben resistito alle forze de' Persiani, nel ritornare in Armenia, per gli disagi perisse. Aggiugne lo stesso Erodiano che il corpo di riserva di Alessandro per le malattie calò di molto, e fu a rischio di lasciarvi la vita il suddetto imperadore per una grave infermità che il sorprese. Ma perchè la grande armata de' Persiani notabilmente anch'essa si sminuì, cessò dipoi la guerra; e per tre o quattro anni stettero que' Barbari in pace. Così Erodiano. Non così Lampridio, il quale, più che al racconto di quello storico, prestando fede a ciò che tanti altri aveano scritto de' fatti di questo imperadore, da lui ben esaminati, gli attribuisce una insigne vittoria riportata contra dei Persiani. E maggiormente lo pruova, coll'aver veduto gli atti del senato e la relazione dell'avvenimento glorioso fatta dal medesimo Alessandro al senato, dopo il suo ritorno a Roma nel dì 25 di settembre. Non si può sì facilmente credere che le parole di Alessandro fossero soli vanti e menzogne, sì perchè non fu egli di carattere millantatore, sì perchè poco sarebbe occorso per ismentirle. Disse dunque Alessandro di avere sconfitto i Persiani, nell'armata dei quali bella e terribil mostra faceano settecento elefanti colle lor torri guernite di arcieri. Trecento di questi essere stati presi, ducento morti, e diciotto venivano condotti a Roma. Vi erano mille carri falcati. Cento venti mila cavalli si contavano parimente nell'esercito nemico; dieci mila di essi rimasero sul campo; gli altri si salvarono colla fuga. Molti erano stati i Persiani presi, e poscia venduti per ischiavi. Si erano ricuperate le città perdute della Mesopotamia; Artaserse, colla perdita delle bandiere, avea presa la fuga. I soldati romani se ne ritornavano ben ricchi, nè sentivano più le fatiche della guerra dopo sì felice vittoria. A questa relazione tennero [804] dietro le acclamazioni del senato. Aggiugne Lampridio che in quella calda azione Alessandro correva per le file della sua armata, animando i soldati, lodando chi meglio combatteva, combattendo anch'egli, e trovandosi esposto alle freccie nemiche. Dopo sì segnalata vittoria se ne tornò Alessandro ad Antiochia, per passare, come io vo credendo, il verno colla sua armata. E che in quest'anno esso Augusto fiaccasse le corna al superbo Artaserse, e non già nel precedente, come volle il padre Pagi, e non nel seguente, come pensò il Tillemont, bastantemente si raccoglie dalle monete [Mediobarb., in Numism. Imperat.] rapportate dal Mezzabarba, correndo la di lui tribunizia podestà X, cioè nell'anno presente, perchè ivi si vede menzionata VICTORIA AVGVSTI. Solamente non si sa intendere come Alessandro non prendesse il titolo d'Imperadore per questa vittoria. Forse lo impedì la sua modestia. Dal senato ancora fu acclamato Persico Massimo: e pure questo suo titolo non s'incontra nelle medaglie. Ha poi un bel dire Erodiano che i Persiani da sè stessi desisterono dalla guerra; perchè se così felicemente, com'egli vuole, fossero proceduti i loro affari, e le armate romane fossero rimaste disfatte, inverisimil cosa è come i medesimi non avessero proseguita la vittoria, ed occupata ai Romani la Mesopotamia.
Anno di | Cristo CCXXXII. Indizione X. |
Ponziano papa 3. | |
Alessandro imperadore 11. |
Consoli
Lupo e Massimo.
Abbiamo anche da Erodiano [Herodianus, lib. 5.] che l'imperadore Alessandro si fermò molto tempo in Antiochia: il che ci serve di fondamento per credere che vi passasse il verno insieme coll'esercito distribuito in quei quartieri. Lungo tempo si esigeva [805] a ricondurre per terra le legioni destinate per l'Europa; però sembra verisimile che succedesse in quest'anno il suo arrivo a Roma nel tempo assegnato da Lampridio [Lampridius, in Alexandro.], cioè nel dì 25 di settembre, in cui egli comparve in senato a rendere conto della sua spedizione. Fece la sua entrata da trionfante, corteggiato da tutto il senato e dall'ordine equestre, fra i plausi e l'indicibil allegrezza di tutto il popolo. Non entrò sul cocchio, come si costumava ne' trionfi, ma bensì a piedi, venendogli dietro il carro trionfale tirato da quattro elefanti. A piedi ancora andò al palazzo, e tanta era la folla, che appena in quattr'ore potè compiere il viaggio, tutti gridando intanto: Se salvo è Alessandro, salva è Roma. Nel dì seguente si fecero le corse dei cavalli e i giuochi scenici, dopo de' quali toccò un congiario al popolo. Allora fu che si cominciarono a vedere presso i Romani degli schiavi persiani; ma, non sofferendo allora la superbia dei re di Persia che alcuno de' suoi sudditi restasse in ischiavitù, fu pregato Alessandro di rimetterli in libertà col pagamento del riscatto, ed egli non mancò di far loro questa grazia con rendere ai padroni il danaro pagato in comperarli, o pure col metterlo nell'erario, se non erano venduti. Questi servi adunque e gli elefanti condotti sempre più ci vengono ad assicurare che l'Augusto Alessandro non vinto, ma vincitore, ritornò dalla guerra di Persia. Seguita a dire Lampridio che anche nella Mauritana Tingitana felicemente procederono gli affari della guerra per la buona condotta di Furio Celso. Similmente nell'Illirico Vario Macrino, parente d'esso Alessandro, riportò de' vantaggi contro i nemici del popolo romano; e nell'Armenia Giunio Palmato diede anch'egli qualche buona lezione ai Persiani. Da tutti quei luoghi probabilmente in questi tempi giunsero a Roma le laureate lettere di avviso di que' prosperosi avvenimenti, le quali, [806] lette in senato e al popolo, rallegrarono ognuno, ed esaltarono sempre più il nome e la gloria dell'Augusto Alessandro.
Anno di | Cristo CCXXXIII. Indizione XI. |
Ponziano papa 4. | |
Alessandro imperadore 12. |
Consoli
Massimo e Paterno.
Un'iscrizione, che si legge nella mia Raccolta [Thesaurus Novus Inscription., pag. 358, num. 3.], in vece di Paterno, ha Paterio. Così ancora egli è chiamato in alcune leggi raccolte dal Relando [Reland., in Fast. Cons.]. Però, quantunque io abbia ritenuto Paterno, gran dubbio mi resta che il suo vero cognome fosse Paterio. In quattro leggi ancora Massimo vien detto console per la seconda volta; ma ciò meglio starà nell'anno seguente. Instituì [Lampridius, in Alexandro.] in questi tempi l'Augusto Alessandro in onore di Mammea imperatrice sua madre un collegio di fanciulli e un altro di fanciulle, con chiamarli Mammeani e Mammeane, siccome Antonino Pio avea dato il nome di Faustiniane alle fanciulle instituite in onore di Faustina sua moglie. Parimente attese a premiare chiunque s'era segnalato nel governo civile e militare della repubblica. Ai senatori più meritevoli accordò gli ornamenti consolari, con aggiugnere dei sacerdozii e dei poderi a quei ch'erano poveri o vecchi. Agli amici donò i prigionieri di varie nazioni, ritenendo solamente i nobili fra essi, che furono arrolati nella milizia. Le terre prese ai nemici donò egli ai capitani e soldati posti alla guardia de' confini, con permettere che passassero ancora in dominio de' loro eredi, purchè anch'essi facessero il mestier dei soldati; non volendo che quei beni restassero in proprietà di persona alcuna privata, con dire che quei tali con più attenzione militerebbono, ove si trattasse di difendere le [807] cose concedute loro con questo patto. Ed ecco, se non il principio, almeno un segno assai chiaro di quei che poscia furono chiamati benefizii, cioè stabili dati a godere ai soldati con obbligo di militare in favor del donante, con riservarsene i principi il diretto dominio. Passò, dico, questo nome anche nella Chiesa, dispensatrice di sì fatti beni a chi si consacra alla milizia ecclesiastica. Oltre alle terre, donò ai medesimi soldati degli animali e dei servi, acciocchè potessero coltivarle, e non le lasciassero abbandonate all'invasion de' nemici; il che riputava egli gran vergogna della repubblica. Mentre si godeva tanta felicità in Roma, ecco nuove spiacevoli dalle contrade germaniche [Lamprid., in Alexandro. Zosim., Hist., l. 1.], cioè avere i Germani passato il Reno, mettere in conquasso la Gallia in quelle parti con potenti armate, saccheggiar borghi e campagne, e far paura alle stesse città. Se crediamo ad Erodiano [Herodianus, lib. 6.], fin quando Alessandro dimorava in Antiochia, cominciò questa brutta danza, e portatine colà gli avvisi, colla giunta di aver essi Germani passato non solo il Reno, ma anche il Danubio, ed essere in grave rischio le confinanti provincie dell'Illirico e l'Italia stessa. Per questo si affrettò egli di lasciar la Soria, e di volgere i passi e l'armi colà dove il chiamava il bisogno. Se vero fosse il racconto di Erodiano, converrebbe dire che Alessandro si fermasse un anno di più in Antiochia; o pure ch'egli, un anno dopo quel che abbiam supposto, imprendesse la guerra coi Persiani. Ma non è sì facilmente da acquetarsi in ciò a quello storico greco, da che gli viene a fronte Lampridio, certo inferiore a lui di tempo, ma più di lui informato degli affari di Roma. Secondo Erodiano, l'Augusto Alessandro marciò a dirittura dalla Soria in Germania, nè più ritornò a Roma; laddove Lampridio, citando gli atti del senato, ci assicura esser egli dall'Oriente rivenuto [808] a Roma, ed aver ottenuto il trionfo, e che quivi si godeva una mirabil quiete, quando sopraggiunse la novità dei Germani. Se questa giugnesse nell'anno presente, o pure nel susseguente, non so dirlo. Caso che nel presente, attese Alessandro a far dei preparamenti per andar in persona a dimandar conto ai Germani dei danni inferiti alle contrade romane.
Anno di | Cristo CCXXXIV. Indizione XII. |
Ponziano papa 5. | |
Alessandro imperadore 13. |
Consoli
Massimo per la seconda volta e Caio Celio Urbano.
Già ardeva la guerra tanto ai confini della Gallia quanto a quei della Pannonia, con terrore non lieve dell'Italia stessa. Però in quest'anno l'Augusto Alessandro, messo insieme un potente esercito, s'inviò alla volta della Gallia, dove maggiore era il pericolo [Herodianus, lib. 6.]. Conduceva egli seco un gran corpo di Mori e di arcieri presi dalla provincia della Osroena, o pure disertori parti, guadagnati con buono stipendio. Di costoro pensava egli di valersi con vantaggio in questa nuova guerra, perchè tal sorta di gente saettava più lontano che i Germani, e coglieva più facilmente nel bersaglio de' loro corpi. Si partì Alessandro da Roma, quantunque il senato e i migliori, mal volentieri vedendolo disposto alla partenza, si studiassero di ritenerlo [Lampridius, in Alexandro.]: tanto era l'amore che gli portavano, tanta la premura che non si esponesse a pericolo alcuno e ai dubbiosi successi della guerra. Ma egli avea fisso il chiodo di andare, perchè non potea sofferire che, dopo aver vinto i Persiani, venissero ad insultare l'imperio romano i Germani, gente che altri imperadori da meno di sè aveano saputo mettere in dovere. Seco andò Mammea sua madre; [809] e, se crediamo a Lampridio, tutti i senatori l'accompagnarono per centocinquanta miglia. Nel fare a gran giornate il suo viaggio, incontratosi con una donna della razza de' Druidi sacerdoti della Gallia, questa gli disse: Va pure, ma non isperar vittoria; e fidati poco de' tuoi soldati. Egli non l'ascoltò, o pure non se ne mise pensiero, perchè sprezzava la morte. E Lampridio aggiugne, che avendogli predetto un celebre astrologo ch'egli dovea morire per mano d'un Barbaro, se ne rallegrò, credendo di aver da morire in qualche battaglia, e di far quel fine glorioso ch'era toccato ad altri generali famosi. Arrivato alle rive del Reno [Herodianus, lib. 6.], quivi si fermò a disporre tutto l'occorrente per portare la guerra addosso a' Germani; ed intanto fece fabbricar un ponte su quel fiume, acciocchè vi potesse transitar tutta la armata. Vuole Erodiano, scrittore che solamente ci descrive Alessandro per un imperador timoroso e privo di coraggio, ch'egli tentasse prima, se potea, colle buone intavolar pace coi Germani; e loro a questo fine inviò suoi ambasciatori, con esibire gran copia di danaro, assai consapevole della forza che ha l'oro fra quei popoli. Forse che se avesse tenuta questa via non gli sarebbe mancata la pace. Ma Lampridio nulla parla di ciò, e nè meno di varii combattimenti accennati dal suddetto Erodiano, nei quali scrive che bene spesso i Germani comparvero non men forti dei Romani. Certo è che non abbiam vestigio di alcuna bella militare impresa da lui fatta in essa guerra, ancorchè il numeroso e prode esercito suo promettesse di molto in sì fatta spedizione.
Anno di | Cristo CCXXXV. Indizione XIII. |
Antero papa 1. | |
Massimino imperadore 1. |
Consoli
Severo e Quinziano.
Altro non abbiam di certo di questi consoli che il loro cognome, e il secondo vien anche chiamato Quintiliano. Ho io prodotta un'iscrizione [Thesaur. Novus Inscript., pag. 358, n. 2.], dove ci comparisce Gneo Pinario Severo console, ma senza poter dire se appartenga all'anno presente. Il Panvinio [Panvin., in Fast. Consul.] avea citata un'iscrizione posta per la salute di Lucio Ragonio Urinazio Larcio Quinziano console, credendo che ivi si parlasse del secondo console. Un'altra [Thesaur. Novus Inscript., pag. 359, n. 1.], a lui pure spettante, ho dato io, ma con farmi a credere che questo Quinziano molto prima dell'anno presente fosse sostituito nel consolato. In un altro marmo [Idem, ibid., p. 358, n. 4.], rapportato anche nella mia Raccolta, s'incontra Tito Cesernio Macedone Quinziano console; ma senza che resti alcun lume se appartenga all'anno presente. Una grande scossa ebbe in quest'anno il romano imperio per la morte del buon imperadore Alessandro, tolto di vita dagli empii ed iniqui suoi soldati. Non se ne sa bene il luogo e la maniera. Lampridio [Lampridius, in Alexandro.] ne fu anch'egli allo scuro, mentre scrive che l'Augusto giovane, trovandosi nella gran Bretagna, da noi chiamata Inghilterra, fu ucciso, e che altri scrissero essere ciò avvenuto nella Gallia in un villaggio appellato Sicila, nel distretto di Magonza, come vuole Eusebio [Eusebius, in Chron.], oppure in quel di Treveri. Espone bensì Erodiano [Herodianus, lib. 6.] con varie particolarità questo avvenimento, ma le circostanze da lui narrate non hanno assai del verisimile. Secondo lui, [811] Massimino, uffiziale, che avea la cura di insegnar l'arte militare ai soldati di nuova leva, per la maggior parte presi dalla Pannonia, era amato non poco da esse milizie. Sparlavano costoro di Alessandro, come di un principe troppo timoroso, che non lasciava fare alcuna bella impresa contra dei nemici, e stava tuttavia sotto l'ali della madre, donna, secondo essi, intenta solamente ad ammassar danaro, e che colla sua parsimonia rendeva odioso a tutti il figliuolo; essere perciò da eleggersi per imperadore un uomo forte e pratico della guerra, e che meglio premiasse i soldati. Lamentavansi eglino in fatti anche di Alessandro, perchè non profondeva sopra di loro i tesori, siccome aveano praticato Caracalla ed Elagabalo, scialacquatori delle pubbliche sostanze, per guadagnarsi l'affetto delle milizie; e per questo sclamavano contro di Mammea, attribuendo ad avarizia di lei ciò che si negava alla loro insaziabile avidità. Posti dunque gli occhi sopra Massimino, all'improvviso il vestirono di porpora, e l'acclamarono Imperadore. Fosse egli o non fosse consapevole del loro disegno, almen finse di resistere; ma, minacciato colle spade, accettò come forzato l'augustal dignità. Promesso dipoi un grosso donativo, e di raddoppiar loro la provianda, concertò subito la maniera di opprimere Alessandro. Avvisato questi di sì pericolosa novità, tremando, piangendo, e simile ad un furioso, uscì dalla tenda, e raccomandossi a' suoi soldati, con promettere quanto volessero, purchè il difendessero. Con grandi acclamazioni promisero essi di farlo. Passata la notte, eccoti l'avviso che vengono i soldati di Massimino; e di nuovo Alessandro, uscito in pubblico, implorò l'aiuto de' suoi, i quali replicarono le promesse; ma, all'arrivo delle truppe di Massimino, lasciatisi sovvertire da lui, il riconobbero anch'essi per Imperadore. Ciò fatto, diede Massimino ordine ai tribuni e centurioni di levar la vita ad Alessandro, a Mammea [812] sua madre e a chiunque si volesse opporre. Fu il barbaro comandamento immediatamente eseguito, e, a riserva di chi era fuggito, tutti rimasero vittima delle loro spade. Così Erodiano.
Ma non è probabile che Massimino fosse proclamato Imperadore, perchè si sa ch'egli studiò in tutte le forme di comparir innocente della morte di Alessandro; nè che Alessandro sapesse l'esaltazion di Massimino, nè che dopo tal notizia passasse anche una notte, prima di essere ucciso, perchè o egli sarebbe fuggito, o, avendo tante persone che l'amavano, non è da credere che tutti lo avessero abbandonato. Ha ben più apparenza di verità ciò che scrivono Lampridio [Lampridius, in Alexandro.] e Capitolino [Capitolin., in Maximino.]: cioè che molti de' soldati, massimamente della Gallia, erano disgustati di Alessandro, perchè egli, avendoli trovati male avvezzati sotto Elagabalo, voleva rimetterli con vigore nell'antica disciplina. E che, segretamente intesisi con Massimino, molti di essi, inviati alla tenda di Alessandro nel dopo pranzo allorchè vi era poca gente ed egli dormiva, il trucidassero colla madre. Comunque ciò accadesse, fuor di dubbio è che il buono, ma infelice imperadore, per mano di que' sicarii, e con intelligenza e per comando di Massimino, uomo ingratissimo ai tanti benefizii che avea da lui ricevuto, terminò i suoi giorni. Si è disputato da varii letterati, cioè dal padre Pagi, dal Tillemont, dall'abbate Vignoli, da monsignor della Torre e dal padre Valsecchi abbate benedettino, intorno alla di lui età, intorno alla durazion del suo imperio e al giorno della sua morte. Credesi con più probabilità ch'egli fosse ucciso non nel marzo, ma nella state dell'anno presente, in età di ventisei anni e di alquanti mesi, e non già di 29 anni, mesi 3 e giorni 7, come ha il testo, che si tiene per iscorretto, di Lampridio; e dopo [813] tredici anni ed alquanti giorni o pur mesi d'imperio. A me non convien di entrare in sì fatte dispute, bastando al lettore d'intendere ciò che più importa al filo della storia. Intanto le ammirabili cose da noi udite di questo novello Alessandro, tanto più degne di stupore e di lode, quanto che operate da un sì giovinetto Augusto, in cui lo stesso Erodiano, che pur gli è poco favorevole, altro non seppe trovar di difetto, se non la troppa dipendenza da sua madre, ci han già fatto detestare l'esecrabil azione di Massimino, o pure di que' barbari soldati che gli tolsero la vita contra tutte le leggi umane e divine, e ci danno a conoscere qual grave perdita fecero in lui il senato e popolo romano, e tutte le provincie del romano imperio. Un fulmine, che scoppiasse contra di ognuno, parve l'avviso della sua morte. Se ne mostrò dolente, in apparenza, fin lo stesso Massimino, e volle che nella Gallia gli fosse alzato un magnifico monumento [Lampridius, in Alexandro.]. Più riguardevole fu l'altro che il senato gli fece fabbricare in Roma, dove furono portate le sue ceneri, e dove non mancarono nè a lui nè a Mammea sua madre gli onori divini, coll'assegno di alcuni sacerdoti: e gran tempo durò in Roma la festa nel dì natalizio di lui e di sua madre. Gli stessi soldati, e fin quelli ch'egli avea cassati in Soria, tagliarono poscia a pezzi quegli assassini che si erano bagnate le mani nel di lui sangue: segno che non lo aveano abbandonato, come vuole Erodiano, ma che improvvisa dovette essere l'uccisione di lui. Fu da molti scritta la vita di questo insigne Augusto; e Lampridio cita quella di Settimio, Acolio ed Encolpo, che oggidì perdute, servirono a lui da scorta per tramandarci le notizie che abbiamo di esso imperadore. Verisimilmente, [814] se non si fossero perduti tanti libri della storia nobilissima di Dione Cassio, sebben presso Sifilino egli poco parla delle azioni di Alessandro, noi avremmo qualche altro lume del suo governo: governo incomparabile, perchè, oltre all'esser egli stato di gran mente e di ottima intenzione, volle sempre nel suo consiglio i più saggi, i più giusti e disinteressati senatori e giureconsulti che allora si trovassero. Ma a questo adorabil regnante, degno di lunghissima vita, succedette Massimino di carattere tutto contrario, dedito solamente alla crudeltà, e, fuorchè dai soldati, universalmente odiato ed abborrito qual manigoldo del migliore di tutti i principi. Da che costui, tolto di mezzo il buon Alessandro, fu proclamato Imperadore, partecipò al senato l'elezione sua. Bisognò approvarla, perchè non si potea di meno, avendo egli dalla sua le forze maggiori del romano imperio. Non sappiamo se da sè o pure se per decreto del senato egli prendesse la podestà tribunizia e il titolo di padre della patria, che non fu mai sì indegnamente impiegato che questa fiata. E se immenso fu il dolore de' Romani e degli altri popoli, perchè privati di un ottimo Augusto, questo molto più crebbe, perchè un uomo pessimo a lui succedeva, il quale dal secolo d'oro fece in breve passare ad un secolo di ferro l'imperio romano. Ma l'ambizione, che cotanto lo acciecò, siccome vedremo, ebbe dopo tre anni il meritato supplizio. Chi fosse Massimino, e quale nella privata fortuna, mi riserbo io di esporlo all'anno seguente. Nel presente trovandosi san Ponziano papa in esilio [Blanchinius, ad Anastas. Bibliothec.] per la fede di Gesù Cristo, gloriosamente compiè il suo pontificato, ed in vece sua fu eletto Antero, e posto nella sedia di san Pietro.
Anno di | Cristo CCXXXVI. Indizione XIV. |
Fabiano papa 1. | |
Massimino imperadore 2. |
Consoli
Caio Giulio Massimino Augusto ed Africano.
Il nome di Giulio, dato dai compilatori de' Fasti ad Africano, dipende da una conghiettura del Panvinio [Panvin., in Fast. Consul.], senza che se ne vegga pruova alcuna; e però non mi son io attentato e darglielo, siccome cosa dubbiosa. In vece di Massimino, noi troviamo Massimo [Reland., Fast. Consul.] in varii Fasti: il che potrebbe far dubitare se Massimino prendesse il consolato. Ma essendo stati soliti i novelli Augusti nel primo nuovo anno a prenderlo, ed essendovi altri lumi, ragionevolmente possiam credere che Massimino procedesse console nell'anno presente. Poco più di un mese tenne santo Antero papa il pontificato romano, e diede fine alla sua vita col martirio [Blanchinius, ad Anastas.]. Succedette a lui nell'apostolica sede Fabiano. Andiamo ora a vedere chi fosse colui che nell'enorme delitto della morte data al buon Alessandro Augusto, si aprì la strada al trono cesareo. Caio Giulio Vero Massimino (che così egli si fece chiamare) era di nazione barbara [Capitolin., in Maximino seniore.], perchè figlio di Micea o Micca, uomo goto, e di Ababa o Abala, donna alana. Nacque in un villaggio ai confini della Tracia, e però veniva considerato come Trace d'origine. Dicono che fosse terribile d'aspetto; che la sua statura eccedesse otto piedi; che la sua forza fosse prodigiosa; che in un sol pasto mangiasse quaranta ed anche sessanta libbre di carne: il che se sia da credere, lascerò giudicare agli altri. Essendo egli in sua gioventù pastore di professione, lo sceglievano gli altri per loro capo a fine d'opporsi ai ladri. Conosciuto [816] costui da Severo Augusto, allorchè era nella Tracia, per uomo di straordinaria robustezza, fu arrolato nella cavalleria, poscia nelle guardie del corpo, e promosso dipoi a varie cariche militari, spezialmente sotto Caracalla, nelle quali si acquistò molto credito, perchè infaticabile, perchè non mangiava addosso ai soldati; anzi, ricompensandoli, e gran cura prendendo di loro, si facea amare da tutti. Per odio che portava a Macrino, siccome distruttore della casa di Severo, si ritirò al suo paese, e con difficoltà tornò alla milizia sotto l'impuro Elagabalo, creato tribuno, ma senza comparire per tre anni a salutarlo, nè a baciargli la mano. Morto Elagabalo, venne a Roma, accolto con grande allegrezza da Alessandro Augusto, da lui lodato al senato, e creato tribuno della legione quarta, composta di giovani di nuova leva, acciocchè loro insegnasse la milizia. Chi per la sua forza il chiamava Ercole, chi Milone Crotoniate, Achille, ec. In questo concetto era Massimino, quando, senza nè pur essere senatore, usurpò il trono de' Cesari, in età d'anni settantadue, se si ha da credere alla Cronica Alessandrina [Chronicon Alexandrinum.] e a Zonara [Zonaras, in Annalibus.]. Aveva egli un figliuolo giovinetto, per nome Caio Giulio Vero Massimino, come s'ha dalle medaglie [Mediob., in Numism. Imperator.]. Massimino, ancor egli è chiamato da alcuni storici, giovane di rara bellezza, di alta statura, e più pulito del padre rozzo e barbaro, ma creduto più superbo di lui stesso benchè Capitolino [Capitolinus, in Maxim. juniore.], che ciò scrive, dica altrove ch'egli era di un natural buono, e che Alessandro Augusto gli avrebbe data in moglie Teoclia sua sorella, se non fosse stato ritenuto dai barbari costumi del di lui padre Massimino. Scrive il suddetto Capitolino che gli fu da esso suo padre conferito il titolo d'Imperadore. Nelle iscrizioni e medaglie che restano di lui, [817] il troviamo ornato solamente del titolo di Cesare e di principe della gioventù. Però è da dire che quello storico s'inganna, o pur, come vuole il Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], imperadori erano anche chiamati allora i Cesari.
Creato imperadore Massimino, siccome non gli era ignoto d'essere mirato di mal occhio da chi considerava nella viltà dei di lui natali troppo avvilita l'imperial dignità, e teneva per vittima delle di lui ambiziose voglie l'ucciso Augusto, si rivolse ad assodar, se potea, col terrore il suo trono, giacchè coll'amore non sapea sperarlo [Capitolin., in Maxim. seniore. Herodianus, lib. 7.]. Tosto dunque sotto varii pretesti congedò gli amici e consiglieri d'Alessandro, eletti già dal senato, col rimandar parte d'essi a Roma, e con privare gli altri delle loro cariche. Era la sua mira di far alto e basso senza dipendere da alcuno, per poter più liberamente esercitare la sua tirannia. Tutta la servitù e i cortigiani del passato governo mandò con Dio; moltissimi ancora ne fece uccidere, non d'altro colpevoli che di mostrarsi afflitti per la morte del buon padrone. Tiene Eusebio [Euseb., Histor. Eccles., lib. 6, cap. 28.] che, in odio appunto di Alessandro, nella cui corte si trovavano assaissimi Cristiani, egli movesse una fiera persecuzione contro la Chiesa, per cui crebbe in terra e in cielo il numero de' santi martiri. Tremavano già i Romani per le frequenti nuove [Capitol., in Maximino seniore.] che andavano arrivando della di lui crudeltà, mentre chi faceva crocifiggere, chi dar in preda alle fiere, chi chiuder vivo nelle bestie uccise, chi lasciar la vita sotto le bastonate. Altro nome già non gli si dava, che di Ciclope, di Busiride, di Falari, ec. Cacciossi perciò, coll'andar innanzi tal timore nel senato e popolo romano, che o pubblicamente o privatamente ognun facea dei voti affinchè Massimino mai non vedesse Roma. Fosse [818] la verità, o pure una finzione [Herodianus, lib. 6.], si scoprì una trama ordita contro di lui da Magno, uomo consolare e di gran nobiltà. Dicono ch'egli, avendo prima guadagnati molti uffiziali e le guardie del ponte di barche fatte sul Reno, allorchè Massimino era passato di là, avesse disegnato di far rompere lo stesso ponte, acciocchè Massimino restasse fra le branche de' Germani, e nello stesso tempo pensasse di far proclamare sè stesso Imperadore. Tutti coloro che furono sospetti di tal cospirazione perderono la vita senz'altro esame o processo, di modo che non si potè mai venire in chiaro se fosse vera o falsa, e molti la crederono un'invenzione di Massimino per liberarsi da chi non gli era in grazia. Si fa conto che quattro mila persone rimasero per tal cagione private di vita. Dopo questa tragedia, il corpo dei soldati osroeni ch'era all'armata, siccome gente persuasa che il tanto amato da loro Alessandro Augusto fosse perito per ordine del crudel Massimino, si rivoltarono contra di lui; e trovato per accidente Tito Quartino [Capitolin., in Maximin. seniore. Herod., lib. 6.], già stato console ed amico di Alessandro, ma congedato dal campo, con tutto il suo gridare e resistere, chiamatolo Imperadore, il vestirono di porpora. Ma da lì a poco questi fu assassinato da Macedonio suo amico, che era stato promotor della sedizione, o per rabbia d'essere stato posposto a lui, o per isperanza di qualche gran ricompensa da Massimino, a chi ne portò il capo. La ricompensa fu che Massimino allora il ringraziò, ma poco dipoi il fece ammazzare, come autor della ribellione e traditor dell'amico. Non s'accorda con questi scrittori Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Tito.], mentre scrive che questo Tito era tribuno de' Mori, e che imperò sei mesi, contraddicendo a sè stesso per aver detto prima ch'egli fra pochi giorni fu ucciso. [819] Secondo questo autore, era sua moglie Calpurnia della nobil famiglia de' Gensorini, cioè de' Pisoni, sacerdotessa, che per l'insigne sua castità fu adorata dai Romani. Gran tempo stette la di lei statua in luogo ben improprio, perchè nel tempio di Venere.
All'anno presente mi sia permesso di riferire la guerra fatta da Massimino ai Germani, quantunque si possa dubitare che appartenga al precedente. Un poderosissimo esercito avea condotto seco Alessandro Augusto in quella spedizione, perchè, oltre a molte legioni di soldati occidentali, s'era studiato, siccome ho detto, di avere gran copia di Osroeni, Armeni, Parti e Mori; e credevasi che il maggior nerbo dell'armata consistesse in costoro, per far quella guerra, perchè erano tutti gente sperta nel saettare: mestier poco praticato dai Germani. Massimino a tanti combattenti ne aggiunse degli altri, e in persona attese ad esercitarli tutti e disciplinarli. Ardeva egli di voglia di far delle grandi prodezze, acciocchè venisse ad intendere il mondo l'importante vantaggio di avere un imperador bellicoso, e dimenticasse, s'era possibile, il suo timido predecessore. Quindi, passato il Reno, diede addosso ai Barbari. Niun d'essi sulle prime osò di venirgli a fronte; tutti si ritirarono nei boschi e nelle paludi, con fare dipoi, il meglio che poteano, la guerra con insidie. Diversi combattimenti seguirono in quelle selve e paludi. Tanta era la temerità di Massimino, che, al pari d'ogni soldato, entrava anch'egli nelle mischie, e menava le mani. Ma corse una volta pericolo della vita; perchè, inviluppato col cavallo nel fango di una palude, fu attorniato da' nemici; e se non erano i suoi, che accorsero in aiuto, si vedeva il fine della sua tirannia. Scrisse egli poscia al senato [Capitolinus, in Maxim. seniore.] d'essere entrato nel paese germanico, d'averne corso ben quattrocento miglia, con uccidere molti de' nemici, farne assai più [820] prigioni, con incendiare i loro villaggi, tutti fabbricati di legno, e col condur via un immenso bottino di bestiami e d'altre robe, che tutte lasciò ai soldati. Erodiano [Herodianus, lib. 7.] aggiugne aver egli dato il guasto ai raccolti di quelle contrade: il che fa intendere aver egli guerreggiato nel giugno e luglio. Mandò anche Massimino a Roma dipinte in alcune tavole le battaglie dai lui fatte in quelle parti, acciocchè anche gl'ignoranti leggessero quivi i trofei del suo valore. Par tali vittorie fu non meno a lui che al figlio Cesare dato il titolo di Germanico; e questo si legge nelle monete battute [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] correndo la tribunizia podestà seconda di lui, cioè nell'anno presente, col motto di VICTORIA GERMANICA. Giacchè non si trovavano più nemici da combattere, e si accostava il verno [Herodianus, lib. 7.], coll'armata passò nella Pannonia, e prese il suo alloggio nella città di Sirmio, capitale di quelle contrade, meditando maggiori imprese nell'anno vegnente contra dei Sarmati. Minacciava egli di voler sottomettere al romano imperio tutte le nazioni germaniche; e fatto verisimilmente l'avrebbe: tanta era la sua bravura e l'indefesso operare nel mestier dell'armi, s'egli nello stesso tempo non avesse fatta ai sudditi suoi una guerra anche più cruda che ai Barbari stessi: del che parleremo all'anno seguente.
Anno di | Cristo CCXXXVII. Indizione XV. |
Fabiano papa 2. | |
Massimino imperadore 3. |
Consoli
Perpetuo e Corneliano.
In due iscrizioni riferite dal Panvinio [Panvin., in Fast. Consular.] si truova un Lucio Ovinio Rustico Corneliano console disegnato, e un Publio Tizio perpetuo consolare della Toscana e dell'Umbria. Perciò i più han [821] creduto che tali fossero i prenomi e nomi di questi consoli. Perchè non è esente da dubbii sì fatta partita, ho creduto meglio di star col Relando [Reland., in Fast. Cons.], che solamente accenna i loro cognomi. Quali imprese in quest'anno facesse Massimino, dopo avere svernato nella Pannonia, resta a noi molto scuro. Truovansi nondimeno iscrizioni [Gruterus, Inscript., pag. 151 et 158. Sponius, pag. 186. Thes. Novus Inscript., p. 250, n. 5.] a lui poste nel susseguente anno dalle provincie che continuarono ad ubbidirlo, nelle quali è chiamato Dacico Massimo, Sarmatico Massimo ed Imperadore fin sette volte: tutti indizii di battaglie date e di vittorie riportate contra de' Sarmati e Daci. Capitolino [Capitolin., in Maxim. seniore.] attesta anch'egli che Massimino ebbe moltissime guerre, dalle quali ritornò sempre vincitore e con gran copia di prigionieri e di bottino. Nulladimeno ha ciera di una rodomontata l'aver egli scritto al senato. Tante essere state le guerre da lui fatte in poco tempo, quante mai altri ne facesse in vita sua: tanta la preda, che avea superata la speranza di ognuno; tanti i prigionieri, che non bastava il paese romano a contenerli tutti. Dissi che intanto egli peggio trattava i sudditi suoi. Abbisognava di danaro per sostenere quel diluvio di armati; e per cavarne da tutti i lati, si concedeva ad ognuno licenza d'accusare [Herod., lib. 7.]. Stavano sempre aperti gli orecchi di Massimino alle spie e a qualunque giusta o calunniosa relazione, bastando che comparisse l'accusa, perchè ne succedesse tosto la carcerazion delle persone, senza distinzione alcuna di grado o di età. Laonde notte e dì si vedevano da ogni parte anche più lontana del romano imperio condotti sopra carrette in Pannonia uomini incatenati di qualsivoglia dignità civile o militare, cominciando da coloro che erano stati consoli [Capitol., in Maxim. seniore.]; e tutti poi o innocenti o [822] rei venivano condannati alla morte o all'esilio, col confisco de' loro beni e colla rovina delle lor famiglie. Gran disavventura, o almen gran pericolo e batticuore era allora l'essere ricco, coll'esempio di tanti e tanti, i quali, di ricchissimi ch'erano, erano ridotti a limosinar il pane. Nè qui terminò l'insaziabil crudeltà e avidità del tiranno. Mise anche le mani sopra tutte le rendite proprie della città, destinate per mantenimento della pubblica annona, per aiuto della povera plebe, per le feste e per li giuochi allora usati. Passò inoltre a spogliare i templi di tutte le statue, e d'ogni altro ornamento d'oro, d'argento o di rame: che tutto, portato alle zecche, si convertiva in moneta. Per tanti spogli e violenze veggendosi i popoli sì conculcati e tanagliati dal proprio principe, non si può dire come fossero malcontenti ed amareggiati; ma le lor doglianze consistevano in sole parole, in maledizioni, in implorar l'aiuto de' sordi numi offesi, a riserva d'alcuni, che, non potendo soffrire gl'insulti fatti ai lor templi, nel difenderli, si lasciarono piuttosto scannar presso gli altari. Ne mormoravano forte fin gli stessi soldati, perchè tutto dì veniva rimproverato loro dai parenti ed amici che per colpa d'essi tante iniquità erano commesse da Massimino. Sotto quest'anno la corrente dei moderni storici mette la sollevazion dell'Africa contro dell'indegno Massimino, e l'assunzione al trono augustale dei due Gordiani, e la lor caduta, con altri accidenti; ma con restare involti in molte tenebre i fatti d'allora. Quanto a me, credo tutto ciò avvenuto solamente nell'anno seguente, siccome dirò: e che Massimino passasse il presente in far guerra ai Daci e Sarmati, e svernasse dipoi quietamente nella Pannonia.
Anno di | Cristo CCXXXVIII. Indizione I. |
Fabiano papa 3. | |
Massimino imperadore 4. | |
due Gordiani, imperadori 1. | |
Pupieno e Balbino imp. 1. | |
Gordiano III imperadore 1. |
Consoli
Pio e Ponziano.
Gran lite è qui fra gl'illustratori [Pagius. Relandus. Stampa et alii.] de' Fasti in assegnare i prenomi e nomi di questi consoli. Il primo vien chiamato non Pio, ma Ulpio in alcune leggi e da Censorino; altri gli danno il nome di Annio Pio, ed altri di Marco Ulpio Crinito. Il secondo vien creduto Procolo Ponziano, ovvero Ponziano Procolo, perchè in alcuni fasti, in vece di Ponziano, si trova Procolo. Il nodo è tuttavia qual era prima. Ho io prodotto altrove due inscrizioni [Thesaurus Novus Inscription., pag. 360.] che parlano di due consoli Procoli coi loro prenomi e nomi, senza poter attestare se al presente anno alcuna di esse appartenga. Penso bensì che solamente in questo accadessero le novità dell'Africa [Herodianus, lib. 7. Capitol., in Maximino seniore et in Gordian.]. Le continue condanne ed estorsioni che facea nelle provincie africane il procuratore del fisco per ben somministrar della pecunia a Massimino (che questa era la via di guadagnarsi merito presso di lui) cagion furono che alcuni nobili giovani, capo de' quali fu un Maurizio nella città di Tisdoro, raunata una gran frotta di loro servi e concittadini coll'armi sotto, andarono a trovar costui, per pagare una condanna. Il pagamento fu, che lo ammazzarono. Fecero bensì i soldati della guardia molta resistenza, ma furono messi in fuga. Fatto il colpo, allora meglio che prima conobbero il proprio pericolo, e però pensarono ad un colpo maggiore. Sapendo in quanto odio de' popoli fosse Massimino, mossero assai gente a sedizione, [824] e poi si portarono a trovare Marco Antonio Gordiano proconsole di quella contrada, e, per quanta opposizione e ripugnanza egli mostrasse, lo acclamarono Imperadore Augusto, e il vestirono di porpora, minacciandogli la morte se non accettava. Era Gordiano un venerabil vecchio di ottant'anni, ornato di tutte le più luminose virtù. Mezio Marullo suo padre tirava l'origine dai Gracchi; Ulpia Gordiana sua madre da Traiano imperadore. Pareva ereditario in casa di lui il consolato, avendolo avuto il padre, l'avolo e il bisavolo, oltre ad altri dalla parte di sua moglie. Stato era anch'egli console due volte, l'una con Caracalla imperadore nell'anno di Cristo 215, e nell'anno 229 con Alessandro imperadore. Pochi si contavano che gli andassero avanti in abbondanza di comodi e di facoltà. Da giovinetto si applicò a far dei poemi, e specialmente mise in versi e in prosa le azioni degl'imperadori Antonini, de' quali era innamorato. La pretura e le altre pubbliche cariche da lui furono sostenute con tal magnificenza di giuochi e di altri pubblici solazzi, che si tirò dietro in Roma e per le provincie l'amore e il plauso di tutti i popoli. Ma specialmente divenuto proconsole dell'Africa, a tal segno si diede a conoscere la di lui giustizia, moderazione e prudenza, che quei popoli il riguardavano come lor padre, nè mai cotanto amore aveano portato ad alcuno dei suoi antecessori. Gli davano il nome di Catone, di Scipione e di altri insigni Romani.
Ora il buon vecchio, ancorchè, contra sua voglia, e per non poter di meno, avesse accettate le imperiali insegne, pure, considerando che sbrigata era la sua vita sotto il crudel Massimino, a cui non parrebbe mai innocente un tal fatto, altro ripiego non seppe trovare che quello di cercare di assodarsi il meglio che poteva sul trono, giacchè troppo pericolo era il discenderne. Dichiarato dunque Augusto Marco Antonio Gordiano [825] suo figliuolo, che da alcuni vien creduto chiamato Marco Antonino, s'inviò a Cartagine, dove fu solennemente riconosciuto Imperadore. Fra le ragioni che muovono me a credere succeduta in quest'anno la di lui assunzione al trono, a me par decisiva quella di Erodiano [Herodianus, lib. 7.], che asserisce accaduta tal novità terminato l'anno terzo dell'imperio di Massimino; il che solamente accadde nel presente anno. Fu ben di parere il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] che tal frase si abbia da intendere mentre correva il terzo anno di Massimino; ma conveniva recar esempli chiari comprovanti il suo assunto: il che egli non ha fatto. Secondo la comune significazione, Erodiano parla di un terzo anno finito, e non già cominciato o corrente. Furono dagli Africani abbattute le statue di Massimino, ed alzate quelle de' due Gordiani Augusti, i quali furono e son tuttavia chiamati Africani. Spedirono essi immediatamente a Roma un'ambasciata. Non so se fra gli ambasciatori si trovasse Valeriano, uno de' primarii senatori, che fu poi imperadore, o pure s'egli fu quello che accolse in Roma quegli ambasciatori. Esponevano essi quanto era succeduto, e pregavano il senato di confermar la loro elezione [Capitolin., in Maximino seniore. Herodian., lib. 7.]. Nel tempio de' Castori raunato il senato nel dì 27 di maggio, furono lette le lettere dei Gordiani da Giunio Sillano console, sostituito insieme con Gallicano nel presente anno, e non già nel precedente, ai due consoli ordinarii. Con sonore acclamazioni riconosciuti furono Imperadori essi due Gordiani, e dichiarato nemico pubblico Massimino col figliuolo. Prima nondimeno di divolgar le lettere, e di tener la suddetta assemblea, finto fu che venissero spediti da Massimino alcuni sgherri a Vitaliano prefetto del pretorio, uomo crudelissimo, con lettere ed ordine di dirgli a bocca in segreto [826] cose d'importanza. Ammessi costoro nel di lui gabinetto, mentre egli osservava i sigilli delle lettere, lo ammazzarono, con far poi credere ai soldati, ciò essere stato comandamento di Massimino, solito a far di questi servigi a' suoi ministri. Renduto poi pubblico il decreto del senato, e sparsa voce fra il popolo che Massimino era stato ucciso, che i Gordiani promettano un gran congiario alla plebe e un suntuoso donativo ai soldati, si levò esso popolo a rumore, abbattè le statue e le immagini di Massimino, e scaricò il suo furore addosso a varii suoi uffiziali ed amici, e specialmente infierì contro le spie e gli accusatori che si baldanzosamente esercitavano in addietro l'infame lor mestiere. Molli innocenti ancora vi perirono; e perchè Sabino, prefetto di Roma, volle mettervi freno, restò anch'egli ucciso. Diede poscia il senato incumbenza a venti senatori, già stati consoli, di andar a difendere i confini dell'Italia contro gli sforzi che potesse far Massimino. Scrissero a tutte le provincie, anche fuori d'Italia, esortando ognuno di prender l'armi in favor de' Gordiani e contra di Massimino. I più ubbidirono; altri per paura se ne guardarono, ed uccisero o mandarono a Massimino i messi del senato.
Appena la novità dell'Africa accadde, che per corrieri espressi ne fu portato il doloroso avviso a Massimino [Capitolinus, in Maximino seniore.]. Sopraggiunse poi l'altra di quanto era accaduto in Roma. Allora uscì così fattamente in ismanie quel fiero Augusto, con dar del capo nelle pareti, gittarsi in terra, stracciarsi le vesti, imbrandire la spada, come se volesse uccidere il senato: che non più uomo, ma un forsennato, una bestia parea. Se non usciva di là suo figliuolo, fu creduto che gli avrebbe cavato gli occhi, tanto era infuriato anche contra di lui, perchè sul principio del suo governo volle mandarlo a Roma, ed egli, per l'amore [827] che portava al padre, non si seppe mai staccare da lui. Se foss'ito, dicea Massimino, non sarebbe avvenuto quel che ora intendiamo. Affogata poi col vino la conceputa rabbia, nel dì seguente arringò i soldati [Herod., lib. 5.], vomitando quante ingiurie mai seppe contra dei Gordiani e del senato romano; ed ordinò la marcia dell'esercito verso l'Italia con tal fretta, che appena diede un sol dì di tempo per prepararsi al viaggio. Oltre alla poderosa armata dei Romani, seco ancora menò assaissime schiere di Tedeschi presi al suo servigio, e mandò innanzi le coorti della Pannonia. Marciaron tutti, quando arrivarono dall'Africa nuove di gran consolazione per Massimino. Era suo procuratore nella Numidia Capelliano dell'ordine senatorio. Gli venne ordine fuor di tempo dal vecchio Gordiano di dimettere la carica. Irritato costui pensò tosto a vendicarsene. Aveva egli sotto il suo comando un corpo di brave soldatesche, assai pratiche del loro mestiere, perchè affinate nella guerra continuamente fatta coi Barbari di quelle contrade. Con questa gente, accresciuta da un possente rinforzo di Numidi, tutti spertissimi arcieri, s'inviò alla volta di Cartagine. Grande fu lo spavento non men de' Gordiani che di quel popolo, perchè non aveano truppe regolate da opporre. Tuttavia diede all'armi quella gran città, uscirono a folla i cittadini, per assalire i nemici, avendo alla lor testa Gordiano minore Augusto. Si venne ad un'aspra battaglia, in cui, quantunque i Cartaginesi fossero di lunga mano superiori di numero ai nemici, pure, per la poca loro perizia nei combattimenti, furono sconfitti con grave loro strage. Vi perì lo stesso Gordiano secondo in età di quarantasei anni, e fra la moltitudine dei cadaveri il suo non si potè poi rinvenire. Ciò inteso dal vecchio Gordiano suo padre, per disperazione, e per non cadere in man de' nemici, secondo Capitolino [Capitol., in Gordiano seniore.], [828] si strangolò, dando fino anch'egli alla vita e all'imperio. Vuole Erodiano [Herod., lib. 7.] che egli morisse prima del figliuolo; ma più probabile sembra su questo punto il racconto di Capitolino. Entrato in Cartagine Capelliano, con gran macello di gente, spogliò i templi, e fece un mondo di mali anche in altre città. All'avviso di così inaspettata mutazion di cose, Massimino, ch'era in viaggio, si rincorò forte. Chiunque poi ben prenderà il filo di tali avvenimenti, conoscerà essere guasto il testo di Capitolino, dove scrive che questi due Gordiani tennero l'imperio un anno e sei mesi. Se Massimino, appena udita la loro esaltazione, si mise in viaggio per venire in Italia, e prima di giugnere ad Aquileia ne intese la lor caduta, come può mai stare che sì lungamente regnassero i Gordiani? Però saggiamente il Panvinio [Panvin., Fast. Cons.] ed altri han tenuto che il loro imperio non durasse più d'un mese e sei dì, ed altri han creduto due mesi e qualche giorno.
Allorchè si seppe in Roma l'infelice morte dei due Gordiani, incredibil fu la agitazione degli animi e lo spavento di ognuno al vedersi tolti coloro, nei quali era riposta la comune speranza, e al prevedere gl'immensi mali che si poteano aspettare da Massimino, principe di sua natura sì sanguinario, e tanto più perchè irritato dalla ribellione di Roma. Era fatto il primo passo, convenne fare il secondo, per difendersi fino all'ultimo [Herodian., lib. 7. Capitol., in Maxim. et Balbin.]. Raunato dunque il senato nel tempio di Giove Capitolino a porte chiuse, oppure in quello della Concordia, elesse due nuovi imperadori, cioè Marco Clodio Pupieno Massimo e Decimo Celio Balbino, senatori di gran credito ed abilità. Il primo, cioè Massimo, chiamato Pupieno da altri, perchè avea tutti e due questi cognomi, era di bassa nascita; ma il merito acquistato da lui col valore e colla [829] prudenza nel mestiere della guerra lo avea fatto salire di grado in grado fino a quel di generale, esercitando il quale nell'Illirico e nella Germania, quanto si era renduto formidabile ai Sarmati e Germani, altrettanto s'era fatto amar dai soldati. Alzato al posto di senatore, fu pretore, console, poi proconsole nella Bitinia, nella Grecia e nella Gallia Narbonese, e finalmente era stato prefetto di Roma; personaggio savio, attivo e severo non poco, anzi creduto di genio aspro, e rigoroso esattore del giusto. Balbino, all'incontro, discendeva da famiglia antica e nobilissima: era stato due volte console; avea governato con lode varie provincie; amato da ognuno pel suo natural buono, per la sua affabilità e pel buon uso delle morte sue ricchezze [Capitol., in Maxim. et Balbin.]. Erano allora consoli sostituiti Claudio Giuliano e Celso Eliano, il consolato de' quali, secondo me, appartiene all'anno presente, e non già al precedente, come altri ha creduto. Un altro errore è corso nella vita di questi due imperadori, descritta da Capitolino [Capitol., in Maximin. seniore.]. Sul principio di essa si legge che la loro elezione seguì septimo kalendas junii, cioè nel dì 26 di maggio, mentre si facevano i giuochi apollinari. Noi abbiam veduto di sopra dirsi da lui che i Gordiani furono confermati Augusti dal senato romano nel dì 27 di maggio di questo anno; ed essendo succeduta nel medesimo anno la morte de' Gordiani, e l'innalzamento di Pupieno Massimo e di Celio Balbino, perchè la nuova ne fu portata a Massimino durante il suo viaggio, e prima ch'egli entrasse in Italia, per conseguente è fallato il testo di Capitolino. Oltre a ciò, ha osservato il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron., ad annum 236.] che i giuochi apollinari si celebravano septimo idus julii; e però si dee credere che Capitolino asserisse eletti questi due novelli Augusti nel dì 9 di luglio, non già dell'anno antecedente, [830] come si figurò esso padre Pagi, ma bensì del presente. Proposta dipoi al popolo la loro elezione, grande apprensione ebbe la plebe del genio severo di Pupieno Massimo, e però coll'armi e con le grida si opposero. Trovato fu il ripiego di quetarli con crear Cesare Marco Antonio Gordiano, che alcuni dicono nipote del vecchio Gordiano, e figliuolo del secondo, ed altri nato da una figliuola del primo Gordiano. Erodiano è di questo ultimo parere. L'età di questo terzo Gordiano, il quale si trovava allora in Roma, e fu accolto con giulive acclamazioni, restò dubbiosa anche presso gli antichi. La più verisimile opinione è ch'egli fosse in età di circa dodici anni.
Non si perdè tempo in Roma ad unire quante milizie si potè per marciar contra di Massimino [Capitol., in Maximo et Balbin.]; e Pupieno Massimo Augusto, siccome persona di sperimentata buona condotta nel comando dell'armi, fu prescelto per capo della armata. Ma, prima di muoversi, convenne soddisfare alla superstizion de' Romani, presso i quali non solevano andare alla guerra gl'imperadori, se prima non aveano dato al popolo un combattimento di gladiatori, acciocchè i soldati si avvezzassero al sangue, o si ottenesse il favore della dea Nemesi. Questo fu fatto, siccome ancora altri giuochi nei teatri e nel circo. Dopo di che Pupieno Massimo s'inviò contra di Massimino, e si fermò a Ravenna, per far quivi maggior massa di gente e preparamenti per resistere al ciclope [Idem, ibid.]: così egli nominava Massimino [Herodian., lib. 5.]. Mandò ancora il senato per tutte le provincie e città che aveano alzata bandiera contra del tiranno, personaggi consolari, ed altri già stati pretori, questori, edili, ec., con ordine di fortificar le città capaci di difesa, provvederle d'armi e vettovaglie, e d'introdurvi tutto il grano delle campagne, acciocchè mancasse la sussistenza allo [831] arrivo di Massimino. Allorchè pervenne ad esso Massimino la nuova dei novelli due imperadori, conobbe chiaro che l'odio del popolo romano era irreconciliabile contra di lui, e però doversi riporre tutte le sue speranze nella forza. Sollecitata dunque più che mai la marcia del suo esercito, che tuttavia era fuori della Italia, giunse ad Emona città dell'Istria, e la trovò abbandonata da quegli abitanti. Il non aver essi lasciata ivi vettovaglia alcuna diede da mormorare ai di lui soldati, i quali, dopo tante marcie sforzate e patimenti del viaggio, si erano lusingati di trovar le tavole imbandite, anzi le delizie ai confini dell'Italia. Il peggio fu, che, continuato il viaggio, ebbero avviso, qualmente Aquileia, città allora assai vasta, ricca e popolata, ed una delle più riguardevoli del romano imperio, avea chiuse le porte, e s'era accinta alla difesa. Prima d'imprendere l'assedio di quella città, mandò Massimino uffiziali a parlare a quel popolo, per esortarlo alla pace: al qual fine furono adoperate promesse e parole le più belle del mondo. Ma dentro v'erano Menofilo e Crespino, uomini consolari, che meglio seppero parlare e ritenere il vacillante popolo dall'aprir le porte al nemico, con avere spezialmente finto che Apollo Beleno, singolarmente ivi onorato, avesse, per mezzo degli aruspici, predetto che Massimino resterebbe vinto. Fu di avviso il padre Pagi che questo assedio si facesse in tempo di verno: e il cardinal Noris cita Erodiano [Herodianus, lib. 8.] là dove scrive che il fiume Isonzo era grosso per le nevi delle montagne, le quali dopo un lungo verno si disfacevano, deducendo da ciò che l'assedio si facesse nel principio del mese di marzo. Ma le nevi delle alte montagne più tardi si disfanno, e tanto più dovettero tardare dopo un lungo verno, e però nè pure al giugno e luglio non disconviene l'essere tuttavia ricchi d'acque i fiumi. Passò [832] Massimino coll'armata quel fiume,, volendosi di botti vuote, o pur di quei vasi, ne' quali si portano l'uve alla città; e poi strinse d'assedio Aquileia.
Mentre queste cose succedeano, un lagrimevole accidente occorse in Roma diffusamente narrato da Erodiano [Herodianus, lib. 8.]. Due soldati pretoriani di que' pochi che restavano in Roma, mossi da curiosità d'intendere ciò che si trattava nel senato, entrarono dentro, e s'inoltrarono sino all'altare della Vittoria. Giuliano, che poco fa era stato console (non so se diverso dai due sostituiti soprannominati, o pure l'un d'essi), e Mecenate, uno de' senatori, piantati nel petto di que' due soldati i lor pugnali, li stesero morti a terra. Fuggirono gli altri pretoriani al quartiere, e quivi rinserrati aspettavano il tempo di vendicarsi. Uscito Giuliano, commosse il popolo e i gladiatori all'armi contra de' pretoriani: laonde tutti in folla corsero al castello pretorio, credendosi di poterlo superare, e di ingoiare i pretoriani. Ma furono ben ricevuti dalle lor freccie e picche, in maniera tale, che, vegnendo la sera, se ne tornarono confusamente entro la città, riportando solamente delle ferite da quel conflitto. Allora, spalancate le porte del pretorio, ne uscirono i soldati, e diedero addosso a quella disordinata moltitudine, con farne grande strage, e massimamente de' gladiatori. Irritato sempre più il popolo romano per questa grave percossa, cercò aiuto, e continuò pei più giorni a far guerra al pretorio, non sapendo sofferire che un mucchio di soldati tanto inferiori di numero facesse sì lunga resistenza. Tolsero anche gli acquidotti al pretorio, ma allora que' soldati, mossi dalla disperazione, tornarono fuori, e colle spade alle reni inseguirono il popolo fin dentro la città, con ucciderne molti. Trovandosi ivi con isvantaggio, perchè dalle finestre e dai tetti fioccavano i sassi e le tegole, s'avvisarono di [833] mettere il fuoco a varie case. Per disavventura s'andò sì fattamente dilatando l'incendio, che non poca parte della città ne rimase disfatta: ed unitasi coi soldati tutta la feccia de' cattivi, diede un fiero saccheggio alle case de' benestanti. Non v'era giorno che Balbino Augusto, rimasto al governo di Roma, non mandasse fuori qualche editto, per quetare, se mai era possibile, sì gran turbolenza, e pacificare il popolo coi pretoriani; ma nè gli uni nè gli altri l'ubbidivano. E benchè in persona molte volte si sforzasse di fermar quel furore, nulla ottenne, anzi gli fu gittato un sasso; ed altri scrisse che gli arrivò una bastonata addosso [Capitol., in Maximo et Balbino.]. L'unico mezzo per ismorzar quell'izza fu di condurre in pubblico il giovinetto Gordiano Cesare, alla cui visita tanto il popolo che i soldati (perchè era amato da ognuno) si placarono, e formarono una specie di concordia, o, per dir meglio, di tregua, perchè vera pace non fu.
Avea ben Massimino cominciato l'assedio di Aquileia, perchè gli pareva troppo disonore il continuar il viaggio verso Roma, lasciando indietro disubbidiente la prima città d'Italia ch'egli incontrava, e città di tanto riguardo [Herodianus, lib. 7. Capitol., in Maximino seniore.]. Ma ebbe ben tosto ad arrabbiare al vedere la valorosa difesa dei cittadini sì uomini che donne e fanciulli, i quali con bitumi accesi accoglievano chiunque veniva all'assalto, bruciavano le macchine nemiche, e magagnavano continuamente con sassi e fuoco i più arditi del campo nemico. Però quanto più cresceva il coraggio agli assediati, sino a farsi dalle mura le più grande beffe di Massimino, tanto più calava l'animo agli assedianti. Poteano ben quanto voleano i due Massimini montati a cavallo girar per le schiere, animando ciascuno alla bravura e agli assalti: tutto era indarno. Allora l'iniquo Massimino, giacchè non potea [834] infierir contro gli Aquileiesi, sfogò il suo sdegno contra di alcuni dei proprii capitani, imputando loro di mantener intelligenza co' nemici, e di non far molto, perchè nulla intendeano di fare; e li fece morire. Questa ingiustizia alienò da lui l'animo di moltissimi soldati. Si aggiunse che mancava la vettovaglia al campo per gli uomini e cavalli, dappoichè Pupieno Massimo avea fatto ridurre nelle città forti tutti i viveri, e vietatone per mare e pe' fiumi il trasporto. Bestemmiava per questi patimenti la sua armata, ed erano anche tutti mesti e scorati per le nuove, probabilmente da Pupieno Massimo fatte spargere, che tutto il popolo romano era in armi, tutte le provincie romane, e fino i Barbari congiurati contra di Massimino. Pertanto una brigata di soldati, solita ad aver quartiere vicino a Roma nel monte Albano, e che militava allora nel campo di Massimino, ricordevole delle mogli e de' figliuoli lasciati nella stessa Roma, determinò di finir la tragedia. Verso il mezzodì tutti attruppati andarono al padiglione di Massimino, ed essendo di accordo colle guardie, levarono dalle bandiere le immagini di lui. Usciti Massimino e il figliuolo per placarli, rimasero tagliati a pezzi, correndo il quarto anno del loro imperio. Lo stesso trattamento fu fatto al prefetto, e a qualunque altro de' confidenti de' Massimini. Furono i lor cadaveri lasciati ai cani; le sole teste inviate per alcuni corridori a Roma. Dispiacque forte la morte di questi due tiranni ai soldati della Tracia; ma il fatto era fatto. Trattò allora l'esercito di entrare amichevolmente in Aquileia; ma quel popolo non amando ospiti tali, solamente dalle mura gli andava somministrando de' viveri, e seguitò a tener chiuse le porte. Intanto i corridori destinati a portar le teste dei tiranni a Roma, passarono in barca le paludi formate dall'Adige, dal Po e da altri fiumi da Altino sino a Ravenna, e chiamate Sette Mari, e con altro nome [835] la Padusa. Trovato in Ravenna Pupieno Massimo Augusto, che ivi attendeva ad ingrossarsi di gente, recarono a lui e a tutti i Ravegnani un immenso giubilo colla inaspettata felicissima nuova di essere liberato il romano imperio dai due formidabili tiranni. Allora Pupieno Massimo volò ad Aquileia, ricevuto da quella città con indicibil plauso. Concorsero a lui ambascerie dalle città vicine, tutte per congratularsi, e l'armata stessa di Massimino in abito di pace e con corone di alloro in capo, mostrò di accomodarsi alla presente fortuna, prorompendo in liete acclamazioni, ma internamente covando del veleno, per vedersi assoggettata ad un imperadore eletto dal senato, e non da loro. Fece Pupieno Massimo una bella aringa a costoro con promessa di un grosso regalo; e diviso quell'esercito, mandò ogni legione alla sua provincia, e pochi dì fermatosi in Aquileia con varie schiere, colla guardia de' Germani, ne' quali più confidava, si rimise in viaggio, e tornossene a Roma.
Fu così sollecito per le poste il viaggio di coloro che portavano le teste dei due Massimini, che da Aquileia in quattro dì giunsero a Roma [Capitol., in Maximino seniore.]. Perchè era giorno di giuochi, si trovavano allora al teatro Balbino Augusto, il giovine Gordiano Cesare, e il popolo; ed appena comparvero que' messi, che il popolo gridò: Massimino è ucciso. Verificatosi il fatto, ebbero tutti ad impazzir per la gioia. Tosto si raunò il senato, furono fatte le acclamazioni agl'Imperadori; determinato che Pupieno Massimo e Balbino Augusti fossero consoli nel resto dell'anno, e che in luogo di Massimino fosse sostituito Gordiano Cesare. Riconosce lo stesso padre Pagi [Pagius, Crit. Baron., ad annum 239.], voler dire queste parole che Massimino avea prima della ribellione disegnato sè stesso console per l'anno venturo 239, e che, venuta la nuova di sua morte, il senato [836] disegnò console per esso anno Gordiano terzo. Adunque egli dovea riconoscere ancora che non era per anche nata la ribellione dei due Gordiani Africani nel principio dell'anno presente, in cui si soleano disegnare i consoli per l'anno prossimo; nè doversi riferire al precedente anno la esaltazione e morte di essi due Gordiani, e la creazione di Pupieno Massimo e di Balbino. Tutte queste scene nel solo presente anno avvennero; e chi inoltre ben rifletterà ai frettolosi passi di Massimino, troverà confermata la medesima verità. Arrivato vicino a Roma Pupieno Massimo, ebbe l'incontro di Balbino, di Gordiano terzo, e del senato e popolo romano, e gran festa fu fatta; ma in faccia ai soldati altro non si leggeva che malinconia; e per altro verso cominciò ad apparire nebbia di dissensione fra gli stessi regnanti. Cioè, quantunque i due Augusti attendessero con somma moderazione e zelo al buon governo sì civile che militare, pure fra loro si scorgeva della gelosia e poco buona armonia. Balbino sprezzava Pupieno Massimo, perchè bassamente nato; e Massimo non istimava l'altro, perchè non era suo pari nel valore dell'armi. Di questa discordia avvedutisi gl'infelloniti soldati, specialmente i pretoriani, conobbero che non era tanto difficile l'atterrar due imperadori da loro mal voluti, perchè alzati senza di loro al trono, e perchè sempre erano in sospetto di essere degradati, come avvenne a' tempi di Severo Augusto [Capitol., in Maximo et Balbino.]. Ora, allorchè si celebrarono i giuochi scenici, o pure, come vuole Erodiano [Herodianus, lib. 8.], i capitolini, furiosamente vennero i pretoriani al palazzo. Pupieno Massimo, che fu il primo ad accorgersi di questo nuvolo minaccioso, mandò, e dipoi andò anche in persona a Balbino, perchè si facessero venire in aiuto loro i soldati germani. Qui saltò di nuovo in campo [837] la gelosia. Balbino, per sospetto che l'altro li chiamasse per farsi solo imperatore, non acconsentì, e vennero a parole fra loro: quando ecco, forzate le porte e le guardie, arrivar loro addosso i pretoriani, spogliarli, e menarli fuori, con istrappar loro la barba, batterli e caricarli d'ingiurie. Volevano condurli al loro quartiere, per quivi finirli; ma inteso che i Germani prendevano l'armi per soccorrerli, in mezzo alla strada gli svenarono amendue (non ne sappiamo nè il giorno nè il mese), e preso seco il giovanetto Gordiano terzo acclamato Imperadore da essi, andarono a rinserrarsi nella fortezza pretoria. E tal fu l'infelice fine di questi due Augusti, degni certamente per le belle doti loro di miglior fortuna, colla morte dei quali Erodiano termina la storia sua. Rimasto Gordiano III Cesare, dopo tante tragiche scene, solo ed amato non men dal popolo che dai soldati, tuttochè, secondo Erodiano [Herodianus, lib. 8.], egli non avesse che tredici anni di età, fu riconosciuto da tutti Imperadore romano.
Anno di | Cristo CCXXXIX. Indizione II. |
Fabiano papa 4. | |
Gordiano III imperadore 2. |
Consoli
Marco Antonio Gordiano Augusto e Manio Acilio Aviola.
In una iscrizione riferita dal Doni e da me [Thes. Inscript., p. 361, n. 1.] apparisce che tal fu il prenome e nome del secondo console, cioè di Aviola. Già dicemmo che Gordiano III era stato nell'anno precedente disegnato console. Portava egli lo stesso nome dell'avolo e del padre Augusto, cioè Marco Antonio Gordiano; perchè nato da una figliuola di Gordiano I, fu verisimilmente adottato da lui, o pure da Gordiano II suo zio materno, benchè Desippo e un altro antico storico il facciano figliuolo di Gordiano II. Il che se fosse, [838] sarebbe stato solamente figlio naturale; perchè, per attestato di Capitolino [Capitol., in Gordiano III.], il secondo dei Gordiani non ebbe mai moglie legittima, e se la passava con ventidue concubine. Il vedere che sua madre, tuttavia vivente dopo l'esaltazion del figliuolo, non vien nominata da alcuno Augusta, potrebbe servire per farla credere di bassa sfera, e non sorella, ma concubina di Gordiano II. Questo principe vi fu alcun degli antichi [Lampridius, in Elagabalo.] che il pretese nominato Antonino; opinione che pare confermata da qualche marmo; ma il più sicuro suo nome è quello di Antonio. Era questo giovinetto principe bello di aspetto, di umore allegro, affabile con tutti, amabilissimo; avea studiato lettere; tante in somma erano le sue belle doti, che faceano a gara il senato, il popolo ed i soldati ad amarlo, dandogli il titolo di lor figliuolo, e chiamandolo la lor delizia. Altro non gli mancava, per ben governar l'imperio, che l'età e la sperienza degli affari; poichè per la buona volontà non la cedeva ad alcuno. Creato dunque che egli fu Augusto, cessarono tutti i tumulti e le brighe di Roma, si pacificarono i soldati col popolo, e cominciò ognuno a goder del riposo e dei solazzi, studiandosi di dimenticare i tanti affanni patiti dopo la morte del buon imperadore Alessandro. Racconta il suddetto Capitolino [Capitolin., in Maxim. et Balbino.], che, tolto di vita il crudo Massimino, i Parti, cioè i Persiani, minacciavano guerra in Oriente; e che i Carpi e gli Sciti l'aveano già mossa contro le due Mesie, provincie dell'imperio romano, con farvi gran danno. Perciò nel precedente anno era già stabilito che Pupieno Massimo andrebbe in Levante per opporsi ai tentativi de' Persiani, e che Balbino con altra armata passerebbe il Danubio, per far fronte ai Barbari, con lasciare il giovane Gordiano al governo di Roma. Ma Iddio altramente dispose, e [839] convien pensare che non fosse grande nè il pericolo, nè il bisogno, perchè in questo anno si godè buona pace in Roma, nè si sa che l'imperio romano patisse scossa o molestia alcuna in quelle contrade. Che questo novello Augusto Gordiano, per maggiormente procacciarsi l'amore del popolo e delle milizie, usasse loro un gran regalo, come si praticava dai nuovi principi, si ricava dalle monete [Mediobarb., in Numism. Imperator.] d'allora, nelle quali è mentovata la prima liberalità di questo Augusto.
Anno di | Cristo CCXL. Indizione III. |
Fabiano papa 5. | |
Gordiano III imperadore 3. |
Consoli
Sabino per la seconda volta e Venusto.
Questo Sabino console verisimilmente è quello che, dopo la morte dei due Gordiani, propose in senato di eleggere imperadori Pupieno Massimo e Balbino, ed appresso fu creato prefetto di Roma. Quando ciò si ammettesse, dicendo Capitolino [Capitolin., in Maximo et Balbino.] ch'egli era della famiglia degli Ulpii, la stessa che quella di Traiano, converrebbe chiamarlo Ulpio Vettio Sabino. Godevasi in Roma una invidiabil tranquillità, quando vennero nuove dall'Africa [Capitol., in Gordiano III.] che s'era fatta ivi un'unione di malcontenti e ribelli contra dell'Augusto Gordiano, e capo di essi era un certo Sabiniano. Colà inviò Gordiano un rinforzo di gente, con cui il governatore della Mauritania, dianzi assediato dai congiurati, talmente ristrinse coloro, che gli obbligò a venire a Cartagine, a dargli legato il lor condottiero Sabiniano e a chieder perdono: il che loro conceduto, si quietò tutto il rumore. Ma il testo di Capitolino alquanto confuso non ci lascia ben discernere come passasse quella faccenda, nè s'accorda con Zosimo [Zosimus, Hist., lib. 1.], quale pretende che il popolo di Cartagine [840] avesse proclamato Imperadore lo stesso Sabiniano, senza che altro si sappia di lui. Da una legge di Gordiano si ricava che in questi tempi era prefetto del pretorio un Domizio.
Anno di | Cristo CCXLI. Indizione IV. |
Fabiano papa 6. | |
Gordiano III imperadore 4. |
Consoli
Marco Antonio Gordiano Augusto per la seconda volta e Civica Pompeiano.
Se non mi ritenesse una iscrizione greca rapportata dal Reinesio [Reinesius, Inscript., pag. 633.] e presa da quelle del Ligorio, in cui si legge console con Gordiano Augusto Pompeiano Civica, io non gli darei il nome di Civica, nè mi fiderei di un'altra del Gudio, dove questo console è appellato Civica Pompeiano. Posto nondimeno ch'egli usasse questi due cognomi, almen certo sarà che fu personaggio diverso da Pompeiano veduto da noi console nell'anno 231, perchè qui non vien chiamato console per la seconda volta. Guasto sarà il testo di Capitolino [Capitolinus, in Gordiano III.], dove ha il nome di Popiniano, avendo noi troppe testimonianze di leggi e di marmi che Pompeiano fu il suo cognome. Abbiam già veduto di sopra come Artaserse avea ristabilito la monarchia de' Persiani. Dopo la guerra a lui fatta da Alessandro Augusto stettero per qualche tempo quieti quei popoli; ma, defunto Artaserse, divenne Sapore suo figliuolo successore non men dei regni che dell'ambizione del padre. La Mesopotamia posseduta dai Romani, siccome sottoposta una volta al dominio persiano, tosto fu l'oggetto delle superbe sue mire. Eutichio [Eutichius, Annal. Eccles.] il loda per la sua giustizia; Agatia [Agathias, Histor., lib. 4.] cel descrive tutto il rovescio, uomo crudele, sanguinario, implacabile e di maniere affatto tiranniche. Entrò costui con [841] formidabil esercito sui principii del suo governo nella Mesopotamia; prese Carre ed altre città circonvicine, e mise l'assedio a quella di Nisibi. Fabbricato quivi un castello alto presso le mura di quella città, continuamente infestava quegli abitanti, i quali erano già vicini a rendersi, quando gli convenne per urgente bisogno ritornar coll'armata nelle sue contrade. S'accordò co' cittadini di Nisibi, che se promettessero di lasciare in piedi quel castello fino al suo ritorno, egli se ne andrebbe. Ma non sì tosto fu partito, che i Nisibini con fossa e muro nuovo chiusero quel castello nella città. Tornato poi Sapore, e rinnovato l'assedio con impadronirsi di Nisibi, fiera strage fece di parte di quel popolo, e il resto condusse in ischiavitù con immenso bottino. I progressi di questo ferocissimo re fecero paura fino all'Italia. Applicossi perciò con tutto vigore il senato romano ad ammassar gente e danaro per reprimere il borioso nemico, e fu determinato che il giovine imperador Gordiano in persona andrebbe a comandar l'armata, o, per dir meglio, ad apprendere il mestier della guerra [Capitolin., in Gordiano III.]. Intanto si pensò ad accasarlo, ancorchè, secondo i conti di Erodiano, non fosse giunto per anche all'età di diciotto anni. La madre sua, da noi poco conosciuta, probabilmente fu quella che gli trovò la moglie, cioè Furia Tranquillina Sabina, così appellata nelle medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] e in alcune iscrizioni [Thesaurus Novus Inscription., pag. 251.], ma Sabina in altre. Era essa figliuola di Misiteo, uomo di competente nobiltà, ed allora solamente noto pel suo sapere, per la sua eloquenza e prudenza, e non per impiego alcuno. Altro non sappiamo di essa Tranquillina, se non che portò il titolo di Augusta, senza apparire che da lei nascesse prole alcuna. Fu bensì celebre Misiteo suo padre, perchè divenuto suocero dell'imperadore e creato prefetto [842] del pretorio. Nè tardò egli a valersi della sua autorità per dar sesto alla corte e mettere sul buon cammino lo Augusto suo genero. Fin qui era stato il giovine Gordiano sotto il governo della madre, che, poco avvertita, il lasciava aggirare a lor talento dagli eunuchi della corte. Costoro lo allevarono in divertimenti fanciulleschi e in bagattelle, e insieme d'accordo vendevano la giustizia e i posti. Proponeva Mauro, uno di essi, qualche risoluzione in lode o in biasimo di taluno. Sopra ciò chiedeva Gordiano il loro parere a Gaudiano, Reverendo e Montano; ed approvando questi la proposizion dell'altro, tutto si faceva. Per consiglio di essi avea creato Felice prefetto del pretorio, e data la quarta legione a Sarapammone, uomini indegni di sì fatte cariche. L'erario del principe caduto nelle griffe di queste arpie si trovava affatto senza sangue. Venne a tempo il saggio Misiteo per liberar da peste sì abbominevole l'Augusto suo genero. Abbiamo da Capitolino [Capitol., in Gordiano III.] una lettera da lui scritta ad esso Gordiano, in cui si rallegra di aver medicate quelle piaghe, e di aver Gordiano allontanati da sè tali ministri, congiurati contro l'onore di lui e contro il pubblico bene. E Gordiano in altra lettera riconosce d'avere operato in addietro cose che non erano da fare, dicendo, fra le altre cose, di conoscere oramai quanto sia infelice il principe posto in mano di gente, la quale gli taccia il vero, e lo inganni col falso. Però da lì innanzi Gordiano volea saper tutto; e siccome principe di buon intendimento e di miglior volontà, non lasciò indietro disordine alcuno conosciuto, a cui non rimediasse, valendosi in tutto de' consigli del savio suo suocero, a cui dava il titolo di padre. Per tale, e per tutore della repubblica voleva che fosse riconosciuto anche dal senato: e pubblicamente protestava che quel di bene che si faceva, tutto si doveva attribuire a quel ministro d'onore [843] ch'era toccato a lui per suocero. In questa maniera non parve più governo di un giovane il suo; e andò sempre crescendo l'amore del pubblico verso di esso Augusto. Un gran tremuoto in questi tempi si fece udire, per cui traballarono varie città, e si aprirono voragini con inghiottire gli abitatori.
Anno di | Cristo CCXLII. Indizione V. |
Fabiano papa 7. | |
Gordiano III imperadore 5. |
Consoli
Caio Vettio Attico e Caio Asinio Pretestato.
Caio Aufidio Attico si truova nominato il primo console in una iscrizione del Grutero [Gruterus, Inscript., pag. 309, n. 7.]. Più ne restano dove è nominato Vettio, e non Aufidio, e così pure si legge in un marmo riferito nella mia Raccolta [Thesaurus Novus Inscription., pag. 361, num. 3.]. Però è scorretta quella iscrizione, o pur egli portò amendue quei nomi. Gran tempo era che non si praticava in Roma la cerimonia di aprire e chiudere le porte del tempio di Giano, allorchè si dava principio o fine alle guerre [Capitolinus, in Gordiano III.]. Gordiano, già risoluto di passare in Levante per opporre le forze romane a quelle de' Persiani, le fece spalancare sul principio di quest'anno in segno di guerra. Venuta poi la primavera, provveduto di una fiorita armata e di assai danaro, imprese il viaggio per terra alla volta di Bisanzio, per di là traghettare in Asia. Passato per la Mesia, trovò nella Tracia molti nemici del romano imperio, verisimilmente Sarmati, Alani o altra simil gente barbara: tutti, o gli sterminò, o li fece ritirar colla fuga ai loro paesi. Seco era Misiteo suo suocero, prefetto del pretorio, e suo braccio diritto. La provvidenza e l'indefessa vigilanza di questo uffizial comandante si facea ammirar da tutti. Non v'era alcuna [844] città considerabile ne' confini dell'imperio romano che non fosse provveduta di tanto grano, aceto, lardo, orzo e paglia da poter mantenere per un anno l'imperadore col suo esercito, se pure s'han così da interpretar le parole di Capitolino: il che a me par difficile a credersi. Altre aveano provvisione per due mesi, ed altre meno, a proporzione delle lor forze. Essendo prefetto del pretorio, spessissimo visitava l'armi dei suoi soldati; non permetteva che i vecchi militassero, nè si arrolassero fanciulli. Ovunque si accampava l'armata, volea che il campo fosse cinto di fosse, e di notte facea sovente la ronda. Questo suo zelo pel pubblico bene riportava in premio l'amore di tutti, ed era così amato e rispettato dagli uffiziali subalterni, che niun di essi osava di mancare al suo dovere. Dopo l'acquisto della Mesopotamia, Sapore re di Persia più altiero che mai era entrato colle sue armi nella Soria, e forse gli sarebbe riuscito agevole di conquistarla interamente, se non fosse giunto l'Augusto Gordiano a reprimere un sì potente avversario. Secondo le parole di Capitolino, sembra che Antiochia fosse caduta in potere del re barbaro; e ne fa dubitare anche una lettera scritta dal medesimo Gordiano al senato; ma potrebbe essere che quella gran città solamente fosse assediata dai Persiani, e ridotta agli estremi. Certo è almeno, che arrivato colà Gordiano, la liberò dalle lor mani. Seguirono varii combattimenti: in tutti cantarono la vittoria i Romani. Tal terrore misero questi fortunati successi in cuor di Sapore e de' Persiani, che il più frettolosamente che poterono si ritirarono di là dall'Eufrate. Ed esser può che succedesse allora quanto racconta Pietro Patrizio [Petrus Patricius, Legation. Tom. I Hist. Byzant.] ne' frammenti delle ambascerie, cioè, che, avendo Sapore passato l'Eufrate, si abbracciavano l'un l'altro i di lui soldati: tanta era la lor gioia di [845] avere scappato il gran pericolo, in cui si trovavano, credendo ad ogni momento d'avere alle spalle le spade romane. Dovette egli passare quel fiume verso Edessa posta di là; e però mandò messi alla guarnigion romana di quella città, offerendo loro un grosso regalo della sua moneta, se il volevano lasciar passare, fingendo d'andare al suo paese, non per paura, ma per solennizzarvi una festa, non sapendo probabilmente quei soldati che Gordiano avesse data ai Persiani la mala ventura, o pure per la gola del regalo, il lasciarono passare senza molestia alcuna. Il resto delle imprese di Gordiano io riferirò all'anno seguente, perchè non ci consta se nel presente o nel susseguente egli ripigliasse la fortezza di Carre, e vittorioso arrivasse fino alla città di Nisibi, città della Mesopotamia, la quale ritornò anch'essa sotto l'aquile romane. Basterà per ora di dire con Capitolino [Capitolinus, in Gordiano III.], tale essere stata la paura del re persiano, che, senza farsi pregare, abbandonò tutte le città tolte ai Romani, con ritirarne i suoi presidii, consegnandole ai cittadini, senza usar saccheggi o far loro altro danno.
Anno di | Cristo CCXLIII. Indizione VI. |
Fabiano papa 8. | |
Gordiano III imperadore 6. |
Consoli
Arriano e Papo.
O nell'anno precedente o in questo l'Augusto Gordiano finì di rimettere sotto il comando suo e della repubblica romana le città perdute della Soria e Mesopotamia [Idem, ibid.]. Ed allorchè fu a Nisibi, scrisse al senato, ragguagliandolo de' suoi prosperosi avvenimenti, e che sperava di far una visita al re Sapore nella stessa di lui capitale, cioè in Ctesifonte; che perciò fosse lor cura di far dei sacrifizii e delle processioni, di raccomandar lui agli dii, e di ringraziar [846] Misiteo prefetto e padre suo, perchè dalla buona e saggia condotta di lui egli riconosceva tutta la felicità di quella impresa. Perciò dal senato fu decretato il trionfo a Gordiano, e ch'egli entrasse in Roma con cocchio tirato dagli elefanti, e potesse entrarvi anche Misiteo in carrozza trionfale tirata da cavalli, a cui fu inoltre fatto incidere in marmo l'elogio suo. Ma eccoti ammalarsi Misiteo per una dissenteria, e venir men la sua vita. Fu creduto dai più che Filippo, il qual fu dipoi imperadore, ed avea gran paura della severità di Misiteo, gli affrettasse la morte, coll'aver guadagnati i medici che lo assistevano, e fattogli dare una medicina contraria al di lui bisogno. Lasciò Misiteo erede di tutto il suo la repubblica romana, e se ne morì, e con lui venne anche a morir la fortuna del genero Augusto, perchè rimase senza guida ed appoggio. In luogo suo fu creato prefetto del pretorio il suddetto Marco Giulio Filippo, il quale poco tardò ad aprirsi la strada al trono imperiale colla più detestabil ingratitudine, siccome vedremo all'anno seguente. In questi tempi fiorì Plotino, insigne filosofo platonico, di cui restano molte opere, e la sua vita compilata da Porfirio [Porphyrius, in vita Plotini.], cioè da un altro celebre filosofo, seguace anch'esso di Platone. Si mise Plotino nell'esercito di Gordiano, allorchè fu per entrar nelle terre di Persia, condotto dal desiderio di conferire i sentimenti suoi coi filosofi persiani, ed era allora in età di trentanove anni.
Anno di | Cristo CCXLIV. Indizione VII. |
Fabiano papa 9. | |
Filippo imperadore 1. |
Consoli
Pellegrino ed Emiliano.
Trovandosi all'anno 249 Marco Emiliano console per la seconda volta, verisimil cosa è ch'egli stesso procedesse console per la prima nell'anno presente. [847] Alla smoderata ambizion di Marco Giulio Filippo parve poco la dignità di prefetto del pretorio. I suoi voti tendevano all'imperio, e l'arte, con cui egli vi arrivò, fu la seguente [Capitolin., in Gordiano III. Zosimus, Hist., lib. 1, cap. 18.]. Mentre si trovava il romano esercito fra Nisibi e Carre, in procinto di entrar nelle terre de' Persiani, segretamente fece andare innanzi le navi che portavano i viveri destinati all'armata, affinchè, mancando la sussistenza, nascesse qualche sedizione contra del principe, siccome in fatti avvenne. Si trovavano i soldati in luoghi privi d'ogni sussidio per la bocca; molti di essi erano anche stati guadagnati ed istruiti da Filippo; e però cominciò a trapelare, e poscia a prendere sempre più piede, la mormorazione contra Gordiano, con dire che stava male l'imperio e l'esercito in mano di un giovinetto inesperto, e doversi provvedere di un imperadore che avesse testa e braccio. Passarono i sediziosi fino a chiedere che Filippo fosse posto sul trono. Per quanta resistenza facessero gli amici di Gordiano, convenne cedere al ripiego proposto dagli altri, cioè che Filippo anch'egli fosse dichiarato Augusto, e regnasse come tutore di Gordiano. Così fu fatto. Resta qui molto scura la storia. Fuor che Capitolino, niun altro scrittore fa menzione di questa associazion dell'imperio. Si truovano le leggi date [Reland., Fast. Cons.] sul principio di quest'anno da Gordiano solo: una di Filippo solo data nel dì 14 marzo si vede. E pur ne comparisce un'altra del medesimo Gordiano solo nel dì 25 di aprile, la cui data dal Doduello [Dodwellus, in Annalibus Cyprian.] è creduta guasta. Pretende il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] ciò succeduto perchè non andavano insieme d'accordo Gordiano e Filippo, e cadaun comandava e faceva leggi da sè: il che par difficile a credere, perchè tutti e due si truovavano nel medesimo esercito, e bisognava che l'infelice Gordiano stesse [848] di sotto. Capitolino poi si contraddice, scrivendo che Filippo, dopo di aver tolto di vita Gordiano, notificò al senato con sue lettere la di lui morte, come succeduta per malattia, ed insieme la elezion di sè fatta dai soldati; e che il senato, da queste lettere ingannato, il riconobbe per Imperadore. Se prima egli fu dato collega a Gordiano nella dignità imperiale, come non iscrisse allora al senato per ottenerne l'approvazione? Si può perciò dubitare del racconto di Capitolino, ed anche di altre particolarità ch'egli aggiugne. Cioè che non potendo Gordiano sofferire di esser trattato con tanta alterigia dal nuovo suo collega Filippo, uomo vilmente nato dalla pessima gente degli Arabi [Capitolin., in Gordiano III. Aurelius Victor, in Epitome. Zosimus, Hist., lib. 1, cap. 18.], e salito colle sue furberie tanto alto, quando esso Gordiano era di nobilissima schiatta romana, nipote d'imperadori, ed imperadore prima di lui: montò un dì sul tribunale, assisto da Mezio Gordiano suo parente, creato prefetto del pretorio, e fece un'aringa ai soldati, sperando d'indurli a deporlo, con rappresentare loro la stomachevole ingratitudine di costui. Furono gettate al vento le di lui parole, perchè prevaleva la fazion di Filippo. Fece istanza che fosse eguale fra loro l'autorità, ma ne pur questo ottenne. Si ridusse a chieder di usar solamente il titolo di Cesare: poi di esser prefetto del pretorio; ed in fine di calcare almeno il posto di uno de' generali, purchè fosse salva la sua vita. Pareva che Filippo si mostrasse inclinato a quest'ultimo partito; ma, riflettendo che un dì o l'altro potrebbe risorgere l'amore portato dal senato e popolo romano, anzi da tutto l'imperio, a questo giovane principe, e che i soldati, ora adirati contro di lui per la fame, non istarebbono sempre del medesimo umore; fece venire alla presenza sua il misero giovane, spogliarlo ed ucciderlo. Certamente non si accorda questo racconto di Capitolino coll'amore ch'egli dice portato da tutti e dai soldati medesimi a Gordiano. E se Filippo [849] era già imperadore, perchè non provvide tosto alla fame dell'armata? Più perciò verisimile sembra che Filippo fosse non imperadore, ma bensì tutore di Gordiano in luogo di Misiteo, e ch'egli di poi barbaramente all'improvviso il privasse di vita. Giuliano Apostata presso Ammiano Marcellino [Ammianus, lib. 23, cap. 54.] in una sua aringa scrive, che avendo Gordiano data presso Resena, città dell'Osroena, una rotta al re persiano, se ne tornava vittorioso, quando fu oppresso da Filippo prefetto del pretorio. Non dice da Filippo già creato imperadore. Anche Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 19.] lasciò scritto, che trovandosi Gordiano fra Nisibi e Carre, Filippo fraudolentemente lasciò affamare l'esercito, con disegno di abbattere Gordiano, quasichè per colpa di lui avvenisse quel disordine, e di salir egli poscia sul trono: il che gli venne fatto, con restare scannato l'infelice Gordiano. Sembra più verisimile il racconto di questi ultimi scrittori. Pare che la di lui morte accadesse verso il principio di marzo, correndo il sesto anno del suo imperio. Una o due medaglie [Occo et Mediobarbus, Numism. Imper.] parlano della di lui tribunizia podestà VII, il che, secondo i conti del Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], basta a far credere che egli toccasse l'anno settimo dell'imperio. Ma queste possono essere state battute prima che si sapesse la di lui morte in Europa; però il punto non è chiaro, siccome ancora resta dubbiosa la di lui età, che alcuni fanno di diecinove anni, ed altri fino di ventitrè. Fu poi onorevolmente seppellito nel luogo della sua morte il di lui corpo. Eusebio [Eusebius, in Chron.] scrive che questo fu portato a Roma. Accordogli il senato gli onori divini. Lo stesso Filippo, per farsi credere innocente del sangue di lui, l'onorava sempre col titolo di divo. Coloro che l'uccisero, tutti poi, per attestato di Capitolino, perirono di mala morte, e vedremo a suo tempo che non [850] andò esente dai gastighi di Dio l'infedele ed ingrato Filippo. Fiorirono sotto Gordiano, Censorino, che scrisse del Giorno Natalizio, ed Erodiano storico, della cui storia mi sono servito in addietro, oltre ad altri scrittori, de' quali son perite le memorie. Di Filippo, che succedette nel romano imperio, mi riserbo di parlare all'anno seguente.
Anno di | Cristo CCXLV. Indizione VIII. |
Fabiano papa 10. | |
Filippo imperadore 2. |
Consoli
Marco Giulio Filippo Augusto e Tiziano.
Il secondo console, cioè Tiziano, verisimilmente quegli è che vien chiamato in una iscrizion del Fabretti [Fabrettus, Inscript., pag. 119.] Caio Messio Aquillio Fabio Tiziano. Il Relando [Reland., in Fast. Consul.] e il padre Stampa [Stampa, Fast. Consul.], fidandosi di una iscrizione del Gudio, gli danno il nome di Giunio Didiano, o sia Tiziano. Per me non oserei fabbricare coi materiali a noi lasciati dal Gudio. Trovasi ancora in un'iscrizione del Grutero [Gruterus, Inscript., pag. 407, n. 8.] Fabio Tiziano Console. A cagion di tale incertezza ho io posto il solo cognome. Da che nell'anno precedente, dopo l'assassinio fatto a Gordiano (e non prima, come sembra più probabile), Marco Giulio Filippo fu proclamato Imperadore Augusto dall'armata romana, significò egli con sue lettere al senato di Roma l'assunzione sua al trono, con fingere morto di malattia Gordiano [Capitolin., in Gordian. III.]. Il senato, già avvezzo a cedere alla forza ed usurpazione de' soldati, chinò il capo, ed accettollo. Era sua moglie Marcia Otacilia Severa, così nominata nelle medaglie [Vaillant et Mediobarb., in Numismat.], a cui fu dato il titolo d'Augusta. Aveva egli anche un figliuolo che, secondo Aurelio [851] Vittore [Aurelius Victor, in Brev.], era chiamato Caio Giulio Saturnino, ma nelle iscrizioni e nelle medaglie comparisce col solo nome paterno di Caio Giulio Filippo, dichiarato immantinente Cesare dal padre. Eusebio Cesariense [Euseb., Histor. Eccles., lib. 6, cap. 36.], seguitato poi da san Girolamo, da san Giovanni Grisostomo, da Paolo Orosio e da altri, scrisse essere fama che amendue i Filippi, padre e figliuolo, fossero cristiani, e i primi Augusti che professassero la fede di Gesù Cristo. In pruova di che narra che, venuto l'imperadore Filippo ad Antiochia per la festa di Pasqua, volendo egli intervenire la notte avanti alle sacre funzioni della Chiesa colla moglie Otacilia, san Babila vescovo di quella città, consapevole dell'eccesso commesso contra del suo legittimo principe, animosamente li rispinse, protestando che non entrerebbono in chiesa, se non faceano la confession de' lor falli e non prendeano luogo fra i pubblici penitenti: il che da loro fu con somma umiltà eseguito. Ma l'autorità per altro grande d'Eusebio e degli autori sopraccitati non ha ottenuto dai critici degli ultimi tempi che se gli creda in questo. Pare che fin Zonara [Zonaras, in Annalibus.] ne dubitasse a' suoi dì. Il tradimento fatto da Filippo a Gordiano non convien mai ad un cristiano. Per ciò giudiziosamente il cardinal Baronio [Baron., in Annal. Eccles.] coll'autorità di Origene osservò ch'egli almeno ne' principii del suo imperio non potè professar la religion di Cristo. Oltre di che, Lattanzio, contemporaneo di Eusebio, Sulpicio Severo, Teodoreto ed altri hanno riconosciuto che Costantino il Grande fu il primo che abbracciasse la fede cristiana. Quel sì, che ragionevolmente si può credere, e l'afferma anche san Dionisio vescovo d'Alessandria, furono i due Filippi molto favorevoli ai cristiani, e crebbe di molto sotto di loro la Chiesa di Dio. E chi sa che la [852] Augusta Otacilia non fosse quella che nudrisse nel marito sì buon cuore verso la santa religion de' cristiani? È perita la vita dei due Filippi, che verisimilmente fu scritta da alcuno degli scrittori della Storia Augusta; laonde poco abbiamo di lui per meglio conoscere il sistema delle sue operazioni. Ora noi sappiamo da Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 19.] che Filippo fece pace con Sapore re della Persia; ed è privo di verisimile ciò che narra Giovanni Zonara [Zonaras, in Annalibus.], cioè ch'egli comperò questa pace con cedere al re persiano la Mesopotamia e l'Armenia, ma che, mormorando non poco i Romani di questo, egli poi difese e conservò quelle provincie. Sapore, già vinto da Gordiano, vedea minacciata fin la sua capitale, nè è credibile che in un trattato riportasse cotali vantaggi. Che questa pace esigesse qualche tempo per conchiuderla, si può giustamente immaginare; e però sembra conchiusa in questo, e non già nell'antecedente anno. Quando poi fosse da credere il fatto attribuito a san Babila vescovo d'Antiochia, ed accaduto nel tempo della Pasqua, la quale nell'antecedente anno cadde nel dì 14 d'aprile, si avrebbe assai argomento di credere che Filippo dalle vicinanze di Ctesifonte non potesse arrivare a quel tempo in Antiochia, e sarebbe da riferire all'anno presente il suo arrivo ad essa città. Ma quel fatto, per le cose dette, ha ciera di favola. Che poi Filippo, mossosi dalla Soria, arrivasse nell'anno precedente a Roma, se lo persuase il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], ma senza pruove sicure. Le monete rapportate dal Mezzabarba [Mediobarbus, in Numism. Imperator.] sembrano piuttosto indicare ch'egli vi giugnesse nell'anno presente, sotto il quale appunto altro non so io riferire, se non la suddetta pace, e l'aver Filippo fatto il viaggio assai lungo dalla Soria a Roma.
Anno di | Cristo CCXLVI. Indizione IX. |
Fabiano papa 11. | |
Filippo imperadore 3. |
Consoli
Presente ed Albino.
Da che fu giunto Filippo a Roma, ben sapendo, altro non meritar le azioni sue che l'odio universale [Zosimus, lib. 1, cap. 19.], si studiò in tutte le forme di guadagnar l'affezione delle milizie e del senato. Nelle monete [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] dell'anno precedente si parla della sua liberalità, e Zosimo attesta ch'egli con gran profusione d'oro rallegrò l'avidità de' soldati. Al senato romano parlò con somma benignità, promettendo gran cose; e certo quel poco che resta di notizie a lui spettanti, ci rappresenta ben questo principe ambizioso ed anche superbo, ma non già crudele. Parlava egli sempre di Gordiano con onore, nè alcun oltraggio mai fece alle di lui statue e memorie. Solamente abbiamo da Capitolino [Capitolinus, in Gordiano seniore.] che la magnifica casa di Gneo Pompeo, posseduta dai Gordiani, fu occupata sotto Filippo dal fisco imperiale. Tuttavia, non fidandosi de' Romani, i principali impieghi conferiva egli ai proprii parenti. Per questo diede il comando dell'armi in Soria a Prisco suo fratello, e quello della Mesia e Macedonia a Severino padre di sua moglie, persone poco atte a farsi ubbidire e rispettare: il che influì col tempo alla di lui rovina. Credettero il Mezzabarba [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] e il Bianchini [Blanchinius, ad Anastas.] che Filippo in quest'anno rompesse la pace co' Persiani, e non deponesse l'armi, se non dappoichè la Mesopotamia e l'Armenia furono restituite [854] al romano imperio. Ma, siccome vedemmo, questa partita è presa di peso da Zonara, storico di poca esattezza. Era la potenza de' Persiani tale da non lasciarsi far paura da grosse armate, non che dalle poche milizie che furono lasciate allora di guarnigione nella Soria. Però questa guerra seconda col re di Persia siam dispensati dal crederla vera. Quel sì, che sopra buon fondamento si truova appoggiato, ma che io non so dire se appartenga all'anno presente o pure al seguente, si è il movimento de' Carpi, popoli barbari forse dalla Sarmazia [Zosimus, lib. 1, cap. 20.]. Costoro, fatta un'irruzione da' luoghi vicini al Danubio, portavano la desolazione in quelle parti. Filippo, per farsi credito co' Romani, in persona passò colà con un buon esercito, e venuto con quei Barbari alle mani, gli sconfisse. Ritiraronsi molti d'essi in un castello, a cui fu posto l'assedio. Ma raccolte di nuovo le lor forze, tentarono un altro combattimento, che non fu per loro più felice del primo, per l'empito de' Mori militanti nell'armata romana. Però fecero istanza di pace e lega: al che avendo, senza farsi molto pregare, acconsentito Filippo, restituita la quiete a quelle provincie, se ne ritornò tosto a Roma. Alcune medaglie, portate dal Mezzabarba [Mediob., Numism. Imper.] sotto il presente anno, parlano di una allocuzione fatta da Filippo all'esercito, e di una sua vittoria, che ragionevolmente si può riferire alla suddetta impresa. Ma io non me ne assicuro, perchè in un'iscrizione del Fabretti [Fabrettus, Inscript., pag. 687.], spettante all'anno seguente, Filippo Augusto è chiamato proconsole: titolo dato agl'imperadori allorchè erano in qualche spedizion militare.
Anno di | Cristo CCXLVII. Indizione X. |
Fabiano papa 12. | |
Filippo imperadore 4. | |
Filippo juniore imperad. 1. |
Consoli
Marco Giulio Filippo Augusto per la seconda volta e Marco Giulio Filippo Cesare.
Il giovane Filippo, figliuolo di Filippo Augusto, che procedette console col padre in quest'anno, non era che Cesare nelle calende di gennaio. Fu di parere il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.] ch'egli dipoi in questo medesimo anno fosse dichiarato collega dell'imperio da esso suo padre, cioè Imperadore Augusto. Molta oscurità s'incontra nella storia di questi tempi, e crescono ancora per cagione di marmi finti e di medaglie false, o non assai attentamente lette. Se noi prestassimo fede ad una iscrizione del Gudio, rapportata anche dal Relando [Reland., Fast. Consul.], il giovane Filippo nè pure nell'anno seguente era fregiato del titolo d'imperadore, usando il solo di Cesare, leggendosi ivi: IMP. CAES. PHILIPPO III. ET IVLIO PHILIPPO CAESARE II. COS. Ma cento volte ripeterò che le merci del Gudio non ci possono servire per iscorta sicura all'erudizione. Lo Spon [Spon, Miscellan. Erudit., pag. 244.], il Bellorio e il Fabretti [Fabrettus, Inscription., pag. 687.] ci han fatto vedere un decreto emanato in favore de' soldati dell'armata navale del Miseno, in cui Filippo il padre vien detto IMP. CAESAR M. IVLIVS PHILIPPVS PIVS FELIX AVG. PONT. MAX. TRIB. POT. IIII. CONSVL. III. DESIG. P. P. PROCONSVL; e il figliuolo IMP. CAESAR M. IVLIVS PHILIPPUS PIVS FELIX AVG. PONT. MAX. TRIB. POT. IIII. COS. DESIGNAT. P. P. Più sotto si legge IMP. M. IVLIO PHILIPPO COS. DES. III. ET IMP. M. IVLIO PHILIPPO [856] COS. II. DES. COS. Sarebbe da desiderare che avessimo più iscrizioni dei due Filippi, per confrontarle insieme ed assicurarci che niun inganno s'incontri nelle memorie antiche o credute antiche. Da questo monumento, fatto mentre correa la quarta tribunizia podestà di Filippo seniore, cioè nell'anno presente, deducono alcuni che il giovane Filippo, subito che fu creato Cesare, ottenne dal padre la podestà tribunizia nell'anno 244, e ch'egli nel presente fu promosso al sommo grado d'Imperadore Augusto. Ma il padre Harduino avrebbe trovato da dir contra di tal decreto, perchè, secondo lui, non si comunicava ad altri, ed era ritenuto per sè dall'imperador seniore il grado di pontefice massimo, che pur qui si mira goduto anche da Filippo juniore. Potrebbe parimente comparir della confusione nell'appellar esso Filippo COS. II. DES. COS., benchè sia certo ch'egli fu console per la prima volta in quest'anno, e disegnato console per la seconda nel seguente. Certamente può credersi non assai esattamente copiato quel decreto, e tanto più perchè con esso convien confrontarne un altro simile, che si legge nella mia Raccolta [Thesaurus Novus Inscript., pag. 362, n. 1.], ed appartiene all'anno seguente. Quivi anche il giovane Filippo si trova appellato Augusto, ciò servendo a farci riconoscere per falsa l'iscrizione del Gudio. Similmente Filippo juniore porta il titolo di pontefice massimo al pari del padre; e però cade a terra la regola proposta dal padre Harduino. Quivi inoltre si dà al medesimo Filippo juniore la seconda tribunizia podestà, e, per conseguente, l'ottenne egli nell'anno presente, allorchè fu promosso alla dignità imperatoria, e non già allorchè venne creato Cesare, come voleva il padre Pagi. Con tal notizia s'accordano ancora varie monete rapportate dal Goltzio, e indarno credute false da esso, perchè discordi dalla sua opinione. Un riguardevol punto di storia è l'essersi sotto [857] i Filippi Augusti celebrato l'anno millesimo della creduta fondazion di Roma, ma senza che apparisca chiaro se a questo anno o pure al seguente si debba riferire la gran festa, di cui fanno menzione gli storici antichi. Io ne parlerò al seguente anno. Abbiamo da Aurelio Vittore [Aurel. Victor, in Breviar.] che Filippo fece fare di là dal Tevere un lago, perchè quel paese penuriava troppo d'acqua. Ciò verisimilmente succedette in questi tempi.
Anno di | Cristo CCXLVIII. Indizione XI. |
Fabiano papa 13. | |
Filippo imperadore 5. | |
Filippo juniore imperad. 2. |
Consoli
Marco Giulio Filippo seniore Augusto per la terza volta e Marco Giulio Filippo juniore Augusto per la seconda.
Due son l'epoche della fondazion di Roma; l'una di Marco Varrone, secondo la quale nell'anno precedente correva l'anno millesimo d'essa fondazione; l'altra dei Fasti capitolini, e secondo questa cominciava a correre nel presente anno esso millesimo. Il giorno natalizio di Roma comunemente si credeva il dì 21 aprile. Fuor di dubbio è che questo millesimo s'incontrò sotto l'imperio dei due Filippi Augusti, e fu con somma magnificenza di giuochi e solazzi solennizzato. Stimarono il cardinal Noris [Noris, Epist. Consul.] e il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.] cominciato questo millesimo nell'aprile del precedente anno; il Petavio [Petavius, de Doctrin. Temp.], il Mezzabarba [Mediobarb., in Numismat. Imper.], il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], il Bianchini [Blanchinius, ad Anastas. Bibliothec.] e il Relando [Reland., in Fast. Consular.] riferirono esso millesimo all'anno presente. Si credono alcuni di poter conciliare insieme queste due opinioni [858] con dire, ma senza pruova, che essendo durata la solennità dal dì 21 aprile dell'anno precedente sino al dì 21 d'esso mese del presente anno, si verifica che in amendue i suddetti anni si celebrò l'anno millesimo della fondazione di Roma. Contuttociò, se noi miriam le monete [Mediob., in Numismat. Imperator.] rapportate dai varii scrittori, ci sembrerà accostarsi più al vero l'opinione di chi mette il principio d'esso millesimo nell'anno presente, perciocchè i giuochi secolari e il secolo millenario son qui enunziati colla tribunizia podestà V di Filippo seniore, cominciata nel marzo di quest'anno, e mentr'egli esercitava il terzo consolato, che parimente significa l'anno presente. Niuna memoria di ciò si trova nelle monete battute, correndo la quarta tribunizia podestà di Filippo. E però quando non si pruovi che tutte le feste allora fatte si ridussero ai soli ultimi giorni dell'anno millesimo, a noi resta giusto motivo di credere cominciato esso anno nell'aprile del presente. Abbiamo da Zosimo [Zosimus, Histor., lib. 2, cap. 5.] la descrizione de' giuochi secolari, e da Capitolino [Capitolinus, in Gordiano III.] la notizia degli animali forestieri che comparvero nei combattimenti fatti allora nell'anfiteatro e nel circo: cioè elefanti XXXII, alci X, tigri X, leoni mansueti LX, un cavallo marino, un rinoceronte, X lioni bianchi, X cammelopardali, X asini selvatici, XL cavalli fieri, ed innumerabili altri diversi animali. Servì questa gran folla di fiere ai divertimenti del popolo romano, oltre ai giuochi circensi, ed oltre a mille paia di gladiatori mantenuti dal fisco. Eusebio [Euseb., in Chronic.] anch'egli racconta che in questa solennità furono uccise innumerabili bestie nel circo magno, e che nel campo Marzio per tre dì e tre notti si fecero i giuochi teatrali. Aggiugne dipoi che in esso anno millesimo bruciò in Roma il teatro di Pompeo, e l'edifizio [859] chiamato Cento Colonne, sontuoso portico di quella incomparabil città. In Roma pagana, anzi dovunque dominava la falsa religion degli dii viziosi [Aurelius Victor, in Breviar.], si lasciava da molti secoli il passaporto a quell'infame vizio per cui Sodoma e Gomorra perirono. V'erano abbominevoli scuole di questo, e il fisco ne ricavava un tributo. Avea tentato, siccome già osservammo, anche il buon imperadore Alessandro di rimediare a questa infamia. Non meno di lui fece conoscere l'Augusto Filippo il suo buon genio, perchè con editto pubblico vietò questa nefanda lussuria. E contuttochè Aurelio Vittore confessi l'obbrobriosa corruzion de' Romani gentili, con aggiugnere che la proibizione, in vece di estinguere tal pestilenza, maggiormente l'attizzò, dovuta nondimeno è la sua lode a questo imperadore, siccome quegli che dal canto suo non lasciò di perseguitare il vizio, ancorchè gli mancassero poi le forze e il tempo per isradicarlo.
Anno di | Cristo CCXLIX. Indizione XII. |
Fabiano papa 14. | |
Filippo imperadore 6. | |
Filippo juniore imperad. 3. | |
Decio imperadore 1. |
Consoli
Marco Emiliano per la seconda volta e Giunio Aquilino.
Cominciarono a sconcertarsi, se non nell'anno antecedente, certo nel presente, gli affari di Filippo imperadore, non già per colpa di lui, perchè era buon uomo, nè facea male ad alcuno, e però fu creduto da alcuni che fosse cristiano; ma per le gravi imposte, motivo sempre di doglianze ai popoli, e perchè i governatori ed uffiziali da lui posti nelle provincie, o non sapeano governare, o troppo voleano governare; perlochè erano odiati dai soldati e dai popoli. Essendo governatore della Soria Prisco fratello di Filippo Augusto, e rendutosi egli oramai [860] insoffribile, si fece in quelle parti una sedizione [Zosimus, lib. 1, cap. 20.], e fu proclamato Imperadore un certo Papiano, di cui perì tosto la memoria, perchè fu ucciso. Fa menzione Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Breviar.] sotto l'imperio di Decio successor di Filippo di un Jotapiano che aspirò all'imperio in quelle parti, per essere, diceva egli, parente di Alessandro. Verisimilmente costui è il medesimo che presso Zosimo porta il nome di Papiano, e come un fungo fece la comparsa d'imperadore sotto Filippo. Ne' medesimi tempi nella Mesia e Pannonia, governate allora da Severiano suocero di Filippo, succedette un'altra sedizione, per cui alquanti di quei popoli e soldati acclamarono Imperadore un certo Marino centurione, o qualche cosa di più in quelle armate, che si crede chiamato in alcune medaglie (se di sicura antichità, non so) Publio Carvilio Marino [Goltzius et Mediobarb., in Numism. Imp.]. Portate queste nuove a Roma, alterossi forte l'Augusto Filippo, sì pel timore che l'incendio crescesse, e sì perchè amava la quiete per sè stesso, e la lasciava godere agli altri. Andossene al senato per pregarlo di aiuto in sì gravi congiunture, e disse ancora, se dispiaceva il suo governo, di esser pronto a deporre l'augusto suo ministero. Parevano legate le lingue di cadaun senatore, ma in fine Decio, un di essi, per nobiltà di sangue e per molte belle doti personaggio assai riguardevole, si alzò e disse che non v'era motivo di tremare per quelle novità, perchè fatte da persone mancanti di nobiltà, di seguito e di mezzi per sostenersi; e che perciò avesse un po' di pazienza, perchè non tarderebbono a svanire quei fantasmi d'imperadori. Così fu: anche a Marino s'intese fra poco tolta la vita. Ma non cessando in Filippo la paura di altri simili sconcerti, perchè sapea quanto mal animo nudrissero i soldati verso dei loro uffiziali, gli cadde [861] in mente di spedir nella Mesia e Pannonia per governatore un uomo di vaglia, e mise gli occhi addosso al suddetto Decio. Questi si scusò per quanto potè; ma cotanto Filippo il pregò, e quasi lo sforzò, che, benchè contra sua voglia, accettò quell'impiego, ed andò [Zosimus, lib. 1, cap. 21.]. All'arrivo suo rimasero ben confuse e turbate quelle milizie, giudicando non per altro essere stato mandato Decio colà che per dare un esemplar gastigo a chi avea avuta mano nella ribellione. Furono a consiglio, e tanto per esentarsi dal di lui rigore, quanto per precautarsi all'avvenire, determinarono di crear Imperadore il medesimo Decio, in cui riconoscevano tutte le doti convenevoli per sì eccelsa dignità. Se senza saputa di lui, Dio lo sa. Presentatisi dunque all'improvviso a Decio, con alte voci lo acclamarono Imperadore, e gli misero addosso la porpora. Non mancò egli di fare ogni possibil resistenza a questa novità, parlando, per quanto si crede, di cuore, a fine di scuotere quella nobilissima sì, ma pericolosa soma; nulladimeno per le minaccie de' soldati, che misero mano alle spade, gli convenne quetarsi.
Per attestato di Zonara [Zonaras, in Annalib.], scrisse Decio delle lettere segrete a Filippo, adducendo in sua scusa la violenza a lui fatta, ed assicurandolo che verrebbe a Roma, e deporrebbe la porpora. Ma Filippo Augusto punto non si fidò di queste parole, credute da lui trappole, perchè persuaso che Decio avesse tramata d'accordo la ribellione ed esaltazione sua [Aurelius Victor, in Breviario.]. Raunata perciò una poderosa armata, ancorchè la sua età e la poca sanità potessero dissuadergli l'andare, pure, lasciato il figliuolo Augusto al governo di Roma, s'inviò in persona contra di Decio, il quale colle sue soldatesche s'era già messo in viaggio alla volta dell'Italia. Restarono in Roma tanti [862] pretoriani che bastassero alla difesa del figlio [Eutrop., in Epitome Histor. Roman.], Incontraronsi le due nemiche armate nelle campagne di Verona; superiore era di numero e di forze quella di Filippo; ciò non ostante, il valore e la buona condotta di Decio fecero piegar la vittoria in suo favore. Zosimo e Zonara scrivono che nel calore di quella battaglia restò ucciso Filippo; Eutropio, Aurelio Vittore ed Eusebio [Eusebius, in Chronic.] il fanno trucidato in Verona, mettendo forse la città per denotare il territorio. Fu inviata la di lui testa a Roma, dove i soldati non tardarono ad uccider anche il giovinetto Filippo Augusto, il quale, per testimonianza di Aurelio Vittore, si trovava allora in età di dodici anni, di naturale sì severo e malinconico, che dopo i primi suoi cinque anni per qualunque spettacolo o facezia non fu mai veduto ridere; e perchè ne' giuochi secolari avea osservato il padre imperadore sbardellatamente ridere, con volto corruccioso il guatò. Spropositato racconto è quello della Cronica Alessandrina [Chronicon Paschale, tom. II Histor. Byzantin.], dove si narra che il giovine Filippo, rappresentato vivente anche sotto Gallo e Volusiano, con felicità fece molte guerre, finchè combattendo contra ai Gepidi cade da cavallo, e si ruppe una costa: laonde portato a Roma, quivi terminò i i suoi dì in età di quarantacinque anni. Ma io ho osservato altrove [Antiquit. Italicar.] che abbiam quella cronica di mano di Andrea Darmario greco impostore. Forse in vece di Filippo, si dee scrivere Decio juniore, benchè nè pur ciò si accordi colla vera storia. Si accorda bensì colla verità quanto è ivi scritto intorno all'avere Filippo seniore istituite alcune compagnie di giovani scelti per le guardie del corpo. Nella iscrizione da me pubblicata [Thesaur. Novus Inscript., pag. 362.], di cui feci menzione di sopra, si vede che erano dieci coorti appellate filippiane. [863] L'anno, in cui restò abbreviata la vita a questi due imperadori, è senza fallo il presente: il mese e il giorno sono incerti. Si può stare all'opinione del padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] che mette la lor morte circa il mese di luglio, giacchè abbiamo una legge di Filippo, data nel dì 19 di giugno sotto questi consoli, e un'altra di Decio suo successore, data nel dì 19 di ottobre parimente nel presente anno. Parlerò di esso Decio nell'anno seguente. Nè si dee tacere che, regnando i due Filippi Augusti [Euseb., Hist. Eccles., lib. 6, cap. 41.], si suscitò in Alessandria, probabilmente nell'anno precedente, una persecuzione contra de' cristiani, mossa non già per ordine o editto alcuno di essi imperadori, ma per la malignità di que' cittadini pagani, facili ai tumulti, e che miravano sempre di mal occhio i seguaci di Gesù Cristo. Ne fa menzione san Dionisio, vescovo celebre di quella gran città, che fioriva in questi tempi, siccome ancora fiorì Origene, scrittore di gran nome, ma non egualmente glorioso nella Chiesa di Dio. In quest'anno ancora, ovvero nel precedente, fu creato vescovo di Cartagine l'insigne martire e scrittore sacro san Cipriano.
Anno di | Cristo CCL. Indizione XIII. |
Cornelio papa 1. | |
Decio imperadore 2. |
Consoli
Caio Messio Quinto Traiano Decio Augusto per la seconda volta e Massimo Grato.
Essendo perite le vite dei due Filippi, dei Decii, e di Gallo e di Volusiano, già scritte da Trebellio Pollione, la storia di questi tempi resta troppo smunta ed involta in molte tenebre, di maniera che si stenta a distinguere le persone e i fatti d'allora. Decio, che dopo la caduta dei due Filippi restò solo imperadore, si trova ne' marmi e nelle monete appellato [864] Caio Messio Quinto Traiano Decio. Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 21.], storico pagano e nemico dichiarato de' cristiani, cel rappresenta personaggio di molta nobiltà ed ornato di tutte le virtù. Tale principalmente dovette sembrare a lui, perchè trovò in questo Augusto un fiero persecutore della religion di Cristo. Era egli nato nel borgo di Bubalia o Budalia del territorio di Sirmio nella Pannonia inferiore, il qual luogo ci difficulta di credere tanta nobiltà, quanta gliene dà Zosimo. Secondo Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Breviario.], potea egli allora essere in età di circa quarantasette anni. Anche Eutropio [Eutrop., in Epitome.], pagano al pari di Zosimo, cel descrive per uomo ornato di tutte le virtù, mansueto, placido, che vivea senza fasto, che nell'armi era bravissimo. Quali onorevoli impieghi avesse egli prima esercitati, nol dice la storia. Certo è ch'egli era dell'ordine senatorio. Benchè poi non si sappia con evidenza, pure si tien comunemente che moglie di Decio fosse Erennia Etruscilla Augusta, di cui resta memoria nelle medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imper.]; e il nome di un figliuolo di Decio serve a confermarlo; imperciocchè il primogenito suo portava il nome di Quinto Erennio Etrusco Messio Decio, e questi fu dal padre Augusto nell'anno precedente fregiato col titolo di Cesare. Un altro suo figliuolo, per nome Caio Valente Hostiliano Messio Quinto Decio, conseguì anch'esso il nome e la dignità cesarea. Che Decio avesse due altri figliuoli appellati Etrusco e Traiano, l'hanno creduto alcuni, ma senza pruove valevoli a riportarne il comune assenso. Ora Decio imperadore, secondo lo stile de' nuovi imperadori, prese il consolato nelle prime calende di gennaio dell'imperio suo. Perchè egli si truova in alcune antiche memorie chiamato CONSUL II, perciò si crede che in alcuno dei precedenti anni egli fosse stato console sostituito. [865] Se alcuna riguardevol impresa, se verun utile regolamento facesse questo novello Augusto ne' primi tempi del suo governo, non v'ha storia, non v'ha iscrizione od altra memoria che ce l'insegni. Quel solo detestabil fatto spettante all'anno presente, di cui s'hanno parecchi insigni contemporanei testimoni nella storia ecclesiastica, fu la fiera persecuzione da lui mossa contro del Cristianesimo, per la quale stranamente restò sconvolta la Chiesa di Dio, ed innumerabili Cristiani lasciarono gloriosamente la vita nei tormenti e sotto le scuri.
Correvano già trentotto anni dopo la morte di Severo imperadore, che i Cristiani universalmente godevano pace, ancorchè non mancassero de' mali ministri e governatori, che or qua or là infierissero contra di chi professava la legge di Cristo. Alcuni degli stessi imperadori erano stati favorevoli a questa santa religione, con essersi per ciò diffusa e mirabilmente moltiplicata per la terra la semente evangelica, e il numero de' fedeli divenuta innumerabile; quando l'imperador Decio, quel descritto sì placido da Aurelio Vittore, prese a perseguitar apertamente chiunque nemico si scopriva degl'idoli ed adorava il vero Creatore e Salvatore del mondo, con editti crudeli che furono sparsi per tutto l'imperio romano e più barbaramente eseguiti dove maggior copia di fedeli si trovava. Altro io non dirò di questo gran flagello della Chiesa di Dio, per cui nelle antiche storie e memorie dei Cristiani Decio si acquistò il nome d'uno de' più cattivi principi di Roma. Son da vedere intorno a ciò l'opere di san Cipriano allora vivente, Eusebio Cesariense, Lattanzio, Orosio, gli Annali del Baronio, gli Atti de' Bollandisti e le Memorie del Tillemont. Quel solo che a me conviene di ricordar qui, si è essere stato uno de' primi a far pruova della crudeltà di Decio san Fabiano papa, il quale nell'anno presente, con ricevere la corona [866] del martirio, passò a miglior vita. Suo successore nella sedia di san Pietro, ma dopo molte difficultà, fu Cornelio, uno dei più insigni pontefici della Chiesa di Dio. Intanto Decio sen venne a Roma, dove altro non si sa ch'egli facesse, se non un bagno, di cui parla Eutropio [Eutrop., Epitome Hist. Rom.]. Ma s'egli mosse guerra al popolo cristiano, Dio permise che nè pur egli godesse, pel poco tempo che visse e regnò, pace nell'imperio. Sotto di lui cominciò a rinvigorirsi la potenza dei barbari, e a rendersi familiari nel romano imperio la sedizione e rivoluzion degli stati. Giordano storico [Jordan., De Rebus Geticis, cap. 19.], corrottamente appellato Giornande, benchè scrittore a cui non mancavano favole, pure si può credere che ci abbia conservata qualche verità in un racconto spettante a questi tempi. Scrive egli adunque che Cniva re dei Goti, avendo diviso l'armata sua in due corpi, spinse il minore contro la Mesia romana; ed egli coll'altro consistente in settantamila combattenti, andò per assediare Eustesio, chiamato Novi, città della Mesia alle rive del Danubio. Ne fu respinto da Gallo comandante dell'armi romane. Passò a Nicopoli, città fabbricata da Traiano presso quel fiume; e sopravvenendo Decio imperadore, anche di là fu costretto a ritirarsi. Forse nell'anno precedente, trovandosi Decio Augusto in quelle parti, succedette questa irruzion de' Goti: o pure, se fu nel presente, parrebbe che Giordano col nome di Decio imperadore significar volesse Decio Cesare di lui figliuolo, il quale verisimilmente fu lasciato o mandato dal padre per opporsi ai tentativi di que' barbari. Passò Cniva il monte Emo, con disegno di assediar Filippopoli, città della Tracia, che alcuni credono fabbricata da Filippo imperadore, ma che più anticamente portò questo nome. Per soccorrere questa città, anche Decio passò l'Emo, e [867] venne a postarsi a Berea. Cniva all'improvviso gli piombò addosso, e gli diede tale spelazzata, che Decio fuggendo si ricoverò in Italia, restando al comando di quell'armi Gallo, il quale si studiò di riparar le perdite fatte dai Romani. In alcune medaglie, rapportate dal Mezzabarba [Mediobarbus, in Numismat. Imp.] sotto questo anno, si truova DACIA CAPTA, DACIA FELIX; ma senza che si sappia qual guerra sia questa, e nè pure se al presente anno o al precedente appartengano queste medaglie.
Anno di | Cristo CCLI. Indizione XIV. |
Cornelio papa 2. | |
Decio imperadore 3. | |
Treboniano Gallo imper. 1. | |
Hostiliano Decio imper. 1. |
Consoli
Caio Messio Quinto Traiano Decio Augusto per la terza volta e Quinto Herennio Etrusco Decio Cesare.
Non so ben dire se nel precedente o nel presente anno i Goti, senza dubbio quegli stessi che da Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 23.] son chiamati Sciti, o vogliamo dire Tartari, assediassero la città di Filippopoli nella Tracia. Quel che è certo, per testimonianza non men di esso Zosimo che di Giordano [Jordan., de Rebus Geticis, cap. 18.], s'impadronirono quei barbari dopo lungo assedio di quella città; e, se scrive il vero Ammiano [Ammianus Marcellinus, Hist., lib. 31.], vi passarono a fil di spada centomila persone. Zosimo e Giordano non parlano se non di una gran copia di prigioni fatta nell'acquisto d'essa città. O sia che Lucio Prisco (forse fratello del già Filippo imperadore) fosse governatore di Filippopoli, o pure ch'egli fosse presidente della Macedonia, nella qual provincia si stesero i rapaci vincitori Goti: noi abbiamo da Giordano e da Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome. Zonaras, in Annalibus.] che [868] costui, unitosi con essi Goti, prese il titolo d'imperadore, volgendo l'armi contra dei Decii. E sembra che san Cipriano [Cyprian., Epistola 52.] avesse conoscenza di lui. Ma costui, dichiarato pubblico nemico dal senato romano, stette poco ad essere ucciso. Noi qui certamente ci troviamo in folte nebbie di storia, essendovi altri che credono preso questo titolo da Prisco solamente dopo la morte dei medesimi Decii, e restando una gran confusione nell'assegnare i successori e i tiranni insorti dopo di loro. Intanto non si mette in dubbio il funesto fine dei Decii, benchè le circostanze del medesimo sieno varie e discordi presso gli antichi scrittori. I fortunati progressi adunque dei Goti, e l'innalzamento, se pure è vero, di Prisco, fecero che Decio seniore giudicò necessaria la sua presenza nella Mesia e Macedonia per liberar dai Barbari quelle provincie. Se in quelle parti non era già il figliuolo Erennio Etrusco Decio, seco andò nel presente; e trovandosi qualche medaglia [Mediob., Numism. Imper.], in cui esso si vede appellato Augusto, credesi che in tal congiuntura egli fosse dichiarato imperadore e collega nell'imperio dal padre. Marciarono i due Augusti Decii contra dei Goti con esercito poderoso, e, secondo Zonara [Zonaras, in Annalibus.], gl'incalzarono sì valorosamente, che li fecero ritirar nel loro paese. Alcuni vogliono [Aurelius Victor. Eutropius.] che Decio gl'inseguisse di là dal Danubio; ma più verisimile sembra che di qua da esso fiume egli venisse con loro alle mani. In quel conflitto il giovane Decio, per quanto s'ha da Giordano [Jordan., de Rebus Geticis, cap. 18.], trafitto dalle frecce gotiche, perì: il che disanimò lo esercito romano [Eutrop., in Epitome.]. Ma il vecchio Decio fece loro coraggio, con dire che la perdita di un solo soldato nulla era alla potenza romana: dopo di che alla disperata si spinse contra de' Barbari, [869] cercando o morte o vendetta. Trovò appunto la morte, circondato ed oppresso da' nemici.
Ma Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 23.] ci vorrebbe far credere che Gallo, generale de' medesimi Decii, per ingordigia dell'imperio, segretamente se l'intendesse coi Goti, e per mezzo loro arrivasse ad atterrar questi due regnanti. Per consiglio d'esso Gallo, dice esso Zosimo, si misero essi Goti in battaglia dietro una palude; ed allorchè Decio ebbe poste in fuga e sconfitte le due prime loro schiere, volendo dar addosso alla terza, s'inoltrò col figliuolo nella palude, dove amendue impantanati ed esposti alle frecce de' Barbari, insieme col loro seguito perirono. Secondo Vittore Zonara, nè pur furono trovati, non che seppelliti, i loro cadaveri; e ciò espressamente vien confermato da Lattanzio [Lactantius, de Mortibus Persecutor.] nel suo trattato delle morti de' persecutori della religione di Cristo. Certamente tutti gli antichi [Cyprianus, Epist. ad Demetr. Eusebius, Orat. Constantin., cap. 24. Hieronym., Commentar. in Zachar., cap. 14.] cristiani riconobbero per un colpo della mano di Dio la presta ed ignominiosa morte di Decio, nemico dichiarato dei seguaci di Gesù Cristo: gastigo toccato anche prima e di poi a qualunque principe romano che apertamente volle muover guerra ad una religione santa, che Dio volea al loro dispetto piantata e dilatata sulla terra. Il luogo della morte dei due Decii resta tuttavia dubbioso, o, per meglio dire, ignoto. Costantino il Grande in una sua orazione presso Eusebio sembra tenerlo morto nel paese dei Goti, e di là dal Danubio; altri di qua; alcuni nella Mesia, ed altri nella Tracia. Danno il nome di Abirto o Abritto a quel sito; e Giordano attesta che tuttavia restava un luogo, chiamato Altare di Decio, dov'egli sagrificò prima di far quella giornata. Ma niuno ora sa additare in qual provincia e territorio fosse tal luogo. Si [870] disputa ancora intorno al tempo, in cui perirono i due Decii. V'ha [Blanchinius, ad Anastas.] chi crede ciò succeduto circa il mese di giugno [Pagius, in Critic. Baron.], ed altri negli ultimi due mesi dell'anno presente. Abbiamo da Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Valerian.], che essendo consoli i due Decii (adunque nell'anno corrente), vennero al senato romano lettere ed ordini di Decio, di eleggere un censore, uffizio da gran tempo dimesso in Roma. Il pretore, giacchè amendue i consoli, cioè i due Augusti Decii, erano assenti, nel dì 27 di ottobre propose l'affare, e di comune consentimento fu eletto censore per la sua rara probità Valeriano, il qual poi divenne imperadore. Trovavasi questi coll'imperadore all'armata nella Tracia e nella Mesia, come io credo, e non già in Roma, come pensò il padre Pagi. Informato Decio del senatusconsulto, fece chiamar Valeriano, ed in piena assemblea il dichiarò censore, con ispiegare la di lui autorità che era amplissima. Cioè poteva egli determinare chi dovea aver luogo in senato; ridurre all'antico stato l'ordine equestre; modificare o confermare i tributi e i dazii; far nuove leggi; riformar le milizie, e giudicar tutte le cause de' palatini, de' giudici e dei prefetti, a riserva dei consoli ordinarii, del prefetto di Roma e del re delle cose sacre, e della primaria vergine vestale, se pur essa conservava illesa la pudicizia. Ma Valeriano, alzatosi in piedi, pregò l'Augusto Decio di averlo per iscusato, se non poteva accettar questo carico, perchè questo apparteneva a chi godeva il grado d'imperadore, ed erano venuti tempi, nei quali niuna persona privata potea promettersi tal forza da farsi ubbidire, e così andò in nulla il disegno. Ma se nel dì 27 di ottobre Decio tuttavia regnava, e se noi vedremo Gallo suo successore Augusto nelle calende seguenti di gennaio, vegniamo insieme a scorgere che nel novembre o dicembre di quest'anno [871] dovettero i due Decii perdere la vita e lo imperio. Quel che succedesse dopo la lor morte, sarà accennato all'anno seguente.
Anno di | Cristo CCLII. Indizione XV. |
Cornelio papa 3. | |
Lucio papa 1. | |
Treboniano Gallo imp. 2. | |
Hostiliano Decio imp. 2. | |
Volusiano Gallo imp. 1. |
Consoli
Caio Treboniano Gallo Augusto per la seconda volta e Caio Vibio Volusiano Cesare.
Divulgata la morte dei due Decii, le armate della Mesia e della Tracia poco stettero a proclamar Imperadore Caio Treboniano Gallo lor generale, a cui forse indebitamente fu attribuito da Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 23.] il tradimento fatto ai due Decii. Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Breviar.] scrive, essere stato il traditore un Bruto. Di che paese fosse il suddetto Treboniano Gallo, nol sappiamo, se non che, al dir di Vittore, sembra nato nell'isola delle Gerbe sulle coste dell'Africa. Perchè egli avendo preso, secondo lo stile degli altri nuovi Augusti, il consolato in quest'anno [Reland., in Fast. Consul.], si trova in un'iscrizione e in alcuni fasti console per la seconda volta, da ciò, si argomenta esser egli stato console sustituito in alcuno degli anni addietro. Il grado di generale dell'armi, che dicemmo sostenuto da lui, gli facilitò quello di imperadore. Aveva egli un figliuolo, appellato Caio Vibio Gallo Volusiano, cui diede immediatamente il titolo di Cesare. Ma affinchè non nascesse o già nato si smorzasse il sospetto ch'egli avesse tenuta mano all'obbrobriosa morte dei Decii, si mostrò amantissimo della lor memoria, parlandone sempre con lode e riverenza; volle ancora o pure acconsentì che amendue fossero, secondo la stolta persuasione del gentilesimo, deificati. [872] Vi restava un altro figliuolo di Decio seniore, cioè Caio Valente Hostiliano Messio Quinto Decio, già dichiarato Cesare dal padre. Gallo, non tanto per farsi sempre più credere ben affetto alla memoria di esso Decio, quanto per timore che questo di lui figliuolo, spalleggiato dai soldati, potesse prorompere in qualche sedizione, spontaneamente il dichiarò Augusto e collega suo nell'imperio, aspettando più proprio tempo per liberarsi da lui. Disegnò ancora sè stesso console col figliuolo Volusiano per l'anno presente. Di tutto questo, accaduto nell'anno addietro, spedì egli l'avviso a Roma, e il senato niuna difficoltà mostrò ad approvarlo.
Noi troviamo circa questi tempi varii altri imperadori o tiranni, senza poterne ben chiaramente distinguere l'innalzamento e i luoghi, dove fecero la loro breve comparsa e caddero. Di un Giulio Valente, che usurpò la porpora imperiale, parla Aurelio Vittore, con dir appena partito da Roma Decio, che costui occupò il trono, e fu in breve punita la sua temerità colla morte. Ma Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 19.], che merita qui maggior fede, asserisce che costui per pochi giorni fece la figura d'imperadore, non in Roma o in Italia, ma nell'Illirico, e quivi fu ucciso. E forse il movimento suo accadde dappoichè i due Decii avevano cessato di vivere. Vedesi tuttavia una medaglia [Mediobarbus, in Numism. Imperator.], felicemente, se pur è vero, disotterrata, in cui vien fatta menzione di Marco Aufidio Perpenna Liciniano imperadore Augusto, confuso da Vittore ora con Valente ed ora con Hostiliano. Il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] è di parere che costui, vivente Decio, formasse la sua cospirazione, e, preso il nome d'Augusto nelle Gallie, quivi da esso Decio restasse soffocato, scrivendo Eutropio [Eutrop., in Epitome.] ch'esso [873] Decio, prima di portar l'armi contra dei Goti, estinse una guerra civile insorta nelle Gallie. È plausibile la di lui conghiettura, ma non esente da dubbii. Torniamo ora a Treboniano Gallo, riconosciuto imperadore anche dal senato romano. Le prime sue occupazioni furono quelle di stabilir pace coi Goti, comperandola nondimeno con vergognose condizioni [Zosimus, lib. 1, cap. 24.]; perchè non solamente permise loro di tornarsene alle loro contrade di là dal Danubio con tutto il bottino fatto sulle terre romane, e senza prendersi cura di riscattare, o far rilasciare gran copia di Romani, anche nobili, fatti prigioni nella presa di Filippopoli; ma eziandio si obbligò di pagar da lì innanzi un certo tributo annuale a quei Barbari, affinchè non inquietassero lo imperio romano. Non fu però Gallo il primo ad avvilir la maestà romana con simili patti. L'esempio gliene avea dato Domiziano, e probabilmente altri debili Augusti aveano fatto lo stesso. Dopo di che, come s'egli avesse con tali prodezze meritato il trionfo, se ne venne probabilmente nella primavera di quest'anno a Roma, tutto spirante gloria ed assai contento di sè stesso. Forse perchè i sacerdoti pagani o il senato zelante della conservazione de' suoi falsi dii, fecero nuove istanze anche a Gallo, certo è che la persecuzion de' cristiani, alquanto rallentata, e fors'anche cessata negli ultimi mesi dell'anno precedente e nei primi del corrente, si rinnovellò; e per tutte le provincie si attese ad infierire contro i cristiani che ricusavano di sagrificare agli abborriti numi della gentilità. Son qui da vedere le nobilissime lettere e gli opuscoli di san Cipriano [SS. Cyprian. et Cornel., in Epistolis.] e di san Cornelio papa, il qual ultimo, per cagione di tal persecuzione, fu mandato in esilio, e poi coronato col martirio. Al governo della Chiesa romana fu sustituito Lucio papa, il quale dovette anche egli da lì a qualche tempo sofferire l'esilio. [874] Ma Iddio non cessò di flagellar con nuovi gastighi questi principi nemici del popolo suo eletto, cominciando con una delle più terribili e lunghe pestilenze che mai passeggiassero sulla terra. Si andò essa stendendo a poco a poco per tutte le provincie del romano imperio [Eutrop. Eusebius. Sanctus Cyprianus, et alii.], facendo dappertutto una fiera strage. Se crediamo ad Augusto Vittore [Aurelius Victor, in Brev.], Hostiliano Augusto, già figliuolo di Decio imperadore, colto da questa infezione, terminò i suoi giorni. Ma Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 25.] pretende che Gallo imperadore, sospettando che questo collega, da chi amava la memoria del di lui padre Decio, fosse un dì portato troppo innanzi con pericolo della propria dignità, il facesse a tradimento levare dal mondo, fingendo verisimilmente che fosse morto di peste. Dopo la cui morte egli dichiarò Augusto il suo figliuolo Gallo Volusiano, il quale nelle iscrizioni [Thesaurus Novus Inscript., pag. 253.] è chiamato Caio Vibio Affinio Gallo Veldumiano Volusiano.
Anno di | Cristo CCLIII. Indizione I. |
Lucio papa 2. | |
Treboniano Gallo imp. 3. | |
Gallo Volusiano imp. 1. | |
Valeriano imperadore 1. | |
Gallieno imperadore 1. |
Consoli
Caio Vibio Volusiano Gallo Augusto per la seconda volta, e Massimo.
Il secondo console vien chiamato da alcuni Marco Valerio Massimo. Perchè non ne ho veduto finora le prove, io m' attengo a chi solamente l'appella Massimo [Aurelius Victor, Syncellus et alii.]. Sembra che il Governo di Gallo Augusto fosse assai dolce, e ch'egli, usando maniere popolari e placide, si studiasse di farsi amare da ognuno, fuorchè da' cristiani. Ma l'essersi tanto egli che [875] il figliuolo dati al lusso e alle delizie [Zosimus, lib. 1, cap. 16.], li faceva disprezzar dalla gente; e la loro negligenza e poca applicazione al governo incoraggi di molto i Barbari, per assalire e malmenare le provincia del romano imperio. Finalmente l'ira di Dio stava addosso ad un principe che mossa avea anch'esso guerra ai cristiani, i quali pure erano i migliori de' sudditi suoi. Durando dunque l'orrido flagello della peste, s'aggiunse ai mali la irruzion degli Sciti, cioè de' Goti, Carpi, Borani, o sieno Burgondi, e d' altre nazioni tartare, nella Mesia, Tracia, Macedonia e Grecia sino al mare Adriatico. Inesplicabili furono i saccheggi da lor fatti, le città non fortificate, ed alcune ancora delle forti si videro soccombere al loro furore; ed intanto Gallo in Roma si dava bel tempo. Comandava in questi tempi l'armi romane nella Pannonia Marco Giulio Emiliano. Aurelio Vittore [Aurel. Victor, in Epitome.] gli dà il nome di Emilio Emiliano. Questi, secondo che racconta Zosimo, animati i suoi soldati, diede addosso agli a Sciti, e gli riuscì di sconfiggerli e d'incalzarli fin dentro ai loro paesi. Questa vittoria cagion fu che l'esercito suo il proclamò imperadore. Giordano [Jordan., de Rebus Geticis, cap. 19. Eutropius, in Breviar. Aurelius Victor, ibid.] solamente scrive che Emiliano, considerati i gravissimi danni recati allora dai Barbari alle terre romane, e la trascuratezza di Gallo e di Volusiano Augusti, fece conoscere alle sue milizie la necessità di aver un imperadore di petto da opporre all'insolenza de' Goti: dal che venne (per suggestione certo di lui) che quell'armata si accordò a crearlo imperadore. Ch'egli ripulsasse, o avesse già ripulsati i Barbari, o pure ch'egli facesse qualche tregua con loro, si potrebbe argomentar dal sapere che egli s'incamminò a gran giornate verso l'Italia, senza far caso d'essi. Ma forse ciò avvenne perchè, secondo Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 16.], [876] que' Barbari, rivolte le loro scorrerie verso l'Asia, arrivarono ad Efeso, e desertarono poi tutta la Cappadocia. Allora fu che si svegliò Gallo, e raunate quelle forze che potè nell'angustia del tempo, marciò contra di Emiliano, non solamente entrato nell'Italia, ma anche giunto nell'Umbria. Furono a fronte le due armate a Terni, secondo l'asserzione di Vittore [Aurelius Victor, in Epit.] e di Eutropio [Eutrop., in Brev.], o pure al foro di Flaminio, città da gran tempo distrutta, e posta allora ai confini di Foligno, come si ha da Eusebio [Euseb., in Chronic. Syncellus, Chronogr.]. Ma le soldatesche di Gallo, snervate dalle delizie di Roma, non poteano competere con quelle di Emiliano, il quale ebbe anche l'avvertenza di subornarle con far correre secretamente fra loro la promessa di un gran regalo. Il perchè i due imperadori Treboniano Gallo e Volusiano Gallo furono dai lor proprii soldati privati di vita.
Credesi che Gallo fosse allora in età di quarantasette anni, e gran disputa è intorno alla durata del suo imperio. Fu di avviso il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] che verso il mese di Maggio Gallo fosse ucciso. Ambedue si videro poi nell'anno seguente aggregati al numero degli dii da Valeriano Augusto, ch'era loro amico fedele, ma non aveva già l'autorità di fare dei veri dii. Rimasto vincitore Emiliano, e rinforzato anche dall'armata di Gallo, che si unì alla sua, altro non gli restava per essere assodato sul trono imperiale che l'approvazion del senato. Questa la ottenne senza difficoltà, perchè niuno osava di negarla; ed egli [Zonaras, in Annalib.] promise di scacciare i Barbari dalla Mesia, e di far guerra ai Persiani, che mettevano a sacco la Mesopotamia. Si sa [Aurelius Victor, in Epitome.] che Emiliano era Moro di nazione, e nato di bassa famiglia; ma il suo valore gli avea spianata la strada ai posti più sublimi. Se si [877] dee credere ad una moneta di lui rapportata dall'Angelloni [Angellonius, Hist. August.], egli fu due volte console. Potrebbe essere che in uno degli anni addietro fosse stato console sostituito, e che dopo la morte di Volusiano Augusto, console nell'anno presente, avesse preso il consolato. Ma nulla di ciò apparendo in tante altre medaglie che restano di esso Emiliano [Mediobarb., in Numismat. Imper.], si può dubitar della legittimità di questa. Ebbero poco effetto le promesse del novello imperadore, perchè poco stette a scoppiar contra di lui un fulmine, che si andava fabbricando nella Rezia e nel Norico. In quelle provincie Publio Licinio Valeriano era dietro a far gran massa di gente da tutte le parti con disegno di venire in soccorso di Gallo e di Volusiano: quand'ecco giugnergli l'avviso di essere questi stati uccisi, e che regnava il nemico loro Emiliano. O sia che Valeriano sdegnasse di sottomettersi all'usurpator dell'imperio, o che i soldati suoi ne concepissero anch'essi dell'abborrimento, andò a terminar la faccenda nell'essere Valeriano acclamato Imperadore [Aurelius Victor, et alii.] dal medesimo esercito suo, benchè Zosimo [Zosimus, l. 1, cap. 28.] sembri avere creduto che solamente dopo la morte di Emiliano, egli per consentimento di tutti, fosse alzato al trono. Allora dunque che egli si trovò ben in forze calò in Italia, e prese il cammino alla volta di Roma. Già correva il terzo mese che Emiliano signoreggiava, ma in maniera tale, che se Zonara [Zonaras, in Annalibus.] dice il vero, fino gli stessi soldati suoi il riputavano indegno di regnare. Perciò uscito anch'egli in campagna per andare ad affrontarsi con Valeriano, allorchè fu nelle vicinanze di Spoleti (verisimilmente verso il mese di agosto) fu quivi da' suoi proprii soldati svenato. La morte sua confermò Valeriano senza spargimento di sangue nel pieno possesso [878] della dignità imperiale. Che Valeriano, riconosciuto da tutti imperadore, desse dipoi in quest'anno il titolo di Augusto a Publio Licinio Gallieno suo figliuol primogenito, e il creasse collega nell'imperio, lo scorgeremo dagli atti dell'anno seguente. Credesi che Origene, celebre ma combattuto scrittore della Chiesa di Dio, terminasse [Pagius, in Crit. Baron.] anch'egli i suoi giorni nell'anno presente.
Anno di | Cristo CCLIV. Indizione II. |
Stefano papa 1. | |
Valeriano imperadore 2. | |
Gallieno imperadore 2. |
Consoli
Publio Licinio Valeriano Augusto per la seconda volta e Publio Licinio Gallieno Augusto.
Secondo la Cronica di Damaso, o sia secondo Anastasio bibliotecario [Anastasius Bibliothecarius.], il romano pontefice san Lucio, richiamato dall'esilio, regnando Valeriano Augusto, coll'esser decapitato per la fede di Gesù Cristo, compiè gloriosamente il corso della sua vita. E che ciò succedesse in quest'anno alli 3 di marzo, fu opinione di monsignor Bianchini [Blanchin., ad Anast.], laddove il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron., ad annum 253.] riferì la di lui morte all'anno precedente. Quel che è certo, nella cattedra di san Pietro succedette Stefano; ma è ben difficile il provar concludentemente che in tale e tal giorno succedesse l'elezion di questo e di altri antichi romani pontefici. Del resto il fare martirizzato san Lucio sotto di Valeriano nell'anno presente non si accorda con quanto abbiamo da Eusebio Cesariense [Euseb., Histor. Eccles., lib. 7, cap. 10.], cioè avere san Dionisio, vescovo in questo tempo di Alessandria, scritto ad Ermammone, che Valeriano si mostrò sì mansueto e benigno verso de' cristiani ne' principii, o sia [879] ne' primi anni del suo governo, che niuno de' precedenti Augusti, anche di quei che furono creduti cristiani (cioè dei Filippi), avea mai praticata tanta cortesia e benevolenza verso i seguaci di Gesù Cristo, come egli fece. La sua stessa corte era piena di cristiani, e pareva una chiesa di Dio. Come dunque pretendere ch'egli levasse la vita a san Lucio papa in questi principii del suo regno? E questa fu la ragione, per cui il cardinal Baronio differì la di lui morte sino ai tempi della persecuzione, succeduta solamente nel quinto anno del di lui imperio. Sarebbe pertanto da vedere se san Lucio, riconosciuto martire anche vivente da Eusebio, tale fosse stato, perchè sostenne l'esilio ed altri strapazzi per la fede di Cristo, senza poi lasciare il capo sotto la spada dei persecutori. Quanto ho poi ricordato della benignità di Valeriano verso de' cristiani, ci fa per tempo conoscere la bellezza e dirittura dell'animo suo, e la probità dei suoi costumi. Abbiamo anche veduto di sopra, come egli era stato scelto dal senato romano censore [Trebellius Pollio, in Vita Valeriani.], per essere in concetto del più savio ed onorato senatore che allora si trovasse in Roma. Contava egli fra i suoi pregi la nobiltà del sangue, ma più una vita fin qui menata con gran prudenza e modestia. Giovanni Malala [Joannes Malala, in Chronogr.] cel descrive per uomo di statura corta, gracile, canuto, col naso alquanto schiacciato, con barba folta, pupille nere, occhi grandi, timido e di molta parsimonia. Pare certamente ch'egli avesse più di sessanta anni allorchè fu acclamato imperadore. Due mogli, per attestato di Trebellio Pollione, ebbe egli, amendue a noi ignote. La prima gli partorì Gallieno suo collega e successore; l'altra Valeriano [880] juniore. Era passato Valeriano Augusto lor padre per tutti i gradi della dignità sino al consolato, in cui si conosce sostituito in alcuno de' precedenti anni, giacchè avendolo preso in quest'anno, come soleano fare tutti i novelli Augusti, vien registrato ne' Fasti console per la seconda volta. Da che Valeriano fu con gran plauso riconosciuto da tutti imperadore, il senato dichiarò Cesare il di lui primogenito [Eutrop., in Breviar. Aurelius Victor, in Epitome.], cioè Publio Licinio Gallieno. Ciò fu nell'anno precedente, dopo di che essendo di molto inoltrata la state, cioè, per quanto si può conghietturare, passata la metà di agosto, o sul principio di settembre, il Tevere gonfio oltre misura inondò la città di Roma: il che fu preso per un presagio di disgrazie. Ma non molto dovette stare l'imperador Valeriano a dar anche il titolo di Augusto al figliuolo Gallieno, ancorchè Zosimo ciò riferisca più tardi; perchè in tante monete [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] che restano di lui, egli si truova chiamato solamente imperadore Augusto e non mai Cesare. Passarono dunque a Roma i due novelli Augusti, accolti con istraordinaria gioia dal senato e popolo romano, perchè Valeriano era riputato il più meritevole di tutti di quella eccelsa dignità [Trebellius Pollio, in Vita Valeriani.]: e se si fosse data al mondo tutta la facoltà di eleggere un buon imperadore, sarebbe ognuno concorso ad eleggere questo. Era pertanto grande la speranza e l'aspettazione di tutti, che Valeriano avesse da rimettere in fiore l'impero romano. Come ciò si verificasse, lo andremo a poco a poco vedendo. Entrarono consoli nelle calende di gennaio i due Augusti; ma ciò che operassero nell'anno presente a nostra notizia non è fin qui pervenuto.
Anno di | Cristo CCLV. Indizione III. |
Stefano papa 2. | |
Valeriano imperadore 3. | |
Gallieno imperadore 3. |
Consoli
Publio Licinio Valeriano Augusto per la terza volta e Publio Gallieno Augusto per la seconda.
Certo è che in Valeriano Augusto concorrevano moltissime di quelle belle doti e qualità che possono rendere gloriosi i regnanti, come la prudenza, l'affabilità, la gravità, e la lontananza dalla superbia e dal fasto. Il desiderio suo di accertar nelle buone risoluzioni, di rimediare ai disordini e di giovare al pubblico, per quanto era in sua mano, gli rendea cari tutti gli avvisi di chiunque suggeriva avvertimenti e regole di buon governo. Resta tuttavia una sua lettera [Trebel. Pollio, in Triginta Tyrannis, c. 17.] scritta a Balista, forse prefetto del pretorio, che gli aveva insinuato delle buone massime intorno al non permettere uffiziali inutili e soldati nelle guardie, che non fossero uomini sperimentati nel mestier della guerra. Raro giudizio ancora traspirava dalle elezioni ch'egli faceva degli uffiziali della milizia; e tutti coloro, che noi andremo vedendo ribellarsi a Gallieno suo figliuolo, e furono in concetto di personaggi dotati di molto valore e merito, erano creature di lui. Così Aureliano e Probo, che riuscirono dipoi insigni imperadori, da lui riconobbero il principio dell'alta loro fortuna. Secondo il catalogo del Bucherio [Cuspinianus Bucherii.], Lolliano fu da lui creato prefetto di Roma nell'anno precedente; Valerio Massimo nel presente. Contuttociò mancava di molto a Valeriano per divenire un eccellente imperadore. Egli non avea petto, nè quella forza di mente e di coraggio che serve ai principi grandi, per operare intrepidamente gran cose ne' proprii regni, e per mettere il cervello [882] a partito ai nemici de' suoi regni [Zosimus, lib. 1, cap. 36. Aurelius Victor, in Epitome.]. La prudenza sua scompagnata da questo vigore il rendeva diffidente e troppo guardingo, per timor sempre di non errare. L'inoltrata sua età contribuiva non poco ad indebolir ancora l'animo suo. Contuttociò s'applicò egli bravamente agli affari; ed in vero sotto di lui egregiamente procedeva il governo civile dei popoli. Ma si cominciarono a scatenar disastri da ogni parte. Durava tuttavia la peste; le nazioni germaniche verso il Reno facevano frequenti scorrerie nella Gallia; le scitiche, passato il Danubio, andavano desolando la Tracia, Mesia e Macedonia; e i Persiani dal canto loro non cessavano d'infestar la Mesopotamia e la Soria. Mancano a noi storie che mettano per ordine e riferiscano ai lor anni proprii que' fatti. Troviamo anche nelle medaglie di quest'anno [Mediobarbus, in Numismat. Imper.] mentovata una vittoria degli Augusti, ma senza che apparisca in qual paese e contra chi fosse riportata. In una lettera [Vopiscus, in Aurel.] scritta da Valeriano Augusto a Ceionio Albino prefetto di Roma nell'anno seguente, e in alcuni altri dipoi, egli chiama Aureliano, che fu dipoi imperadore, liberatore dell'Illirico e ristoratore delle Gallie. Potrebbe essere che questi nell'anno presente desse qualche buona percossa ai Goti che malmenavano l'Illirico, ovvero ai Germani che sconciamente infestavano le galliche contrade. Abbiamo ancora nel Codice [Leg. 11 de Fideicommisso, tit. 4, C. de Transaction.] un rescritto fatto in quest'anno dagli imperadori Valeriano e Gallieno, e da Valeriano nobilissimo Cesare. Chi sia questo Valeriano Cesare, s'è disputato fra gli eruditi, e resta tuttavia indecisa la lite. I più l'hanno creduto Publio Licinio Valeriano, secondogenito di Valeriano Augusto; ma il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] [883] pretende ch'egli fosse Publio Licinio Cornelio Salonino Valeriano, figliuolo di Gallieno Augusto, e nipote di Valeriano seniore Augusto, il quale si sa di certo che ebbe il titolo di Cesare e di principe della gioventù. Certamente a' tempi ancora di Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in duobus Gallienis.] punto controverso era, se Valeriano secondogenito di Valeriano seniore avesse avuto il titolo di Cesare ed anche d'Augusto; nè le medaglie decidono questo punto. Esse bensì, e in molta copia, ci assicurano che Salonino Valeriano figliuolo di Gallieno fu ornato del titolo cesareo. Ma una nobile iscrizione, da me pubblicata [Trebellius, Novus Inscript., pag. 360, n. 5.], spettante all'anno 259 può qui togliere ogni dubbio, veggendosi ivi registrati Valeriano e Gallieno Augusti, ed insieme con loro Publio Cornelio Salonino Valeriano Nobilissimo Cesare. Se Valeriano fratello di Gallieno fosse stato Cesare allora, di lui ancora si sarebbe fatta menzione. Tale era bensì Salonino. E però le medaglie [Mediobarbus, ibidem.] che parlano di Valeriano Cesare, e sono attribuite al figlio secondogenito di Valeriano Augusto, abbiam giusto motivo di credere che appartengano a Salonino Valeriano Cesare figlio di Gallieno. Di qui finalmente apprendiamo che la dignità di chi era solamente Cesare, e non imperadore Augusto, portava seco molta autorità, da che il nome loro si comincia a veder negli editti.
Anno di | Cristo CCLVI. Indizione IV. |
Stefano papa 3. | |
Valeriano imperadore 4. | |
Gallieno imperadore 4. |
Consoli
Massimo e Glarrione.
V' ha chi dà il nome di Valerio al primo di questi consoli, cioè a Massimo, senza che se ne veggano buone prove. Il medesimo ancora vien detto console [884] per la seconda volta, quasichè egli lo stesso fosse ch'era stato promosso al consolato nell'anno 253, o pure ch'egli fosse quel Massimo che nel precedente anno esercitò la carica di prefetto di Roma. Perchè qui si lavora solamente di conghietture, amo io meglio di mettere il solo suo certo cognome, che di proporlo con nomi dubbiosi. Già dissi non essere agevol cosa lo sbrogliare i tempi e le avventure di questi imperadori per penuria di memorie. Però, camminando a tentone, l'Occone e il Mezzabarba [Occo et Mediob., Numism. Imperator.] rapportano all'anno presente alcune medaglie, dove si parla di una vittoria germanica; e pure in niuna di esse troviamo la tribunizia podestà terza o quarta di Valeriano, che ci assicuri dell'anno presente. Tuttavia, essendovene una di Gallieno Augusto, in cui si legge la di lui tribunizia podestà quarta, e la stessa vittoria germanica, bastante fondamento ci resta di credere vittoriose in quest'anno l'armi romane contra dei Germani. E probabilmente il giovane Gallieno Augusto quegli fu ch'ebbe l'onore di tal vittoria. Nel rovescio di una medaglia di Valeriano suo padre, attribuita dal Mezzabarba all'anno presente, si legge: GALLIENVS CVM EXERCITV SVO, in un'altra ad esso Gallieno è dato in questi medesimi tempi il titolo di Germanico. Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] ed Eutropio [Eutrop., in Breviar.] scrivono che Gallieno ne' primi anni del suo imperio fece alcune imprese con valore e fortuna nelle Gallie, da dove scacciò i Germani. Abbiamo parimente da Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 30.], che vedendo Valeriano desolato l'Oriente dai Barbari, determinò di correre a quelle parti con un esercito, lasciando al figliuolo Gallieno la cura di opporsi agli altri Barbari che maltrattavano le provincie romane dell'Europa. Però Gallieno, siccome quegli che conosceva maggiore il [885] bisogno contra dei Germani, popoli fieri, i quali calpestavano tutto dì gli abitatori delle Gallie, passò in persona al Reno, dando ad altri capitani ordine di opporsi ai Borani, Carpi, Goti e Burgundi, che recavano continui travagli alla Tracia e alla Mesia. Postatosi Gallieno alle ripe del Reno, talvolta impediva ai nemici il passaggio, e, se pur passavano, dava loro addosso. Ma non avea egli tali forze da poter fare lungo e vigoroso contrasto a que' nuvoli di gente che da varie parti della Germania, allettati dalla gola del bottino, calavano alla distruzion delle Gallie. Perciò ricorse al ripiego di far lega con uno di quei principi della Germania, lavorando, come si può credere, di regali, di contanti e di promesse per l'avvenire; ed essi da lì innanzi quei furono che impedirono agli altri Germani il passare il Reno; e se pur passavano, tosto moveano loro guerra. Ed è da notare [Vopiscus, in Aurelian.] che in questi tempi si comincia ad udire il nome de' Franchi, popolo della Germania anch'esso, che unito con altri infestava le terre de' Romani.
Anno di | Cristo CCLVII. Indizione V. |
Stefano papa 4. | |
Sisto papa 1. | |
Valeriano imperadore 5. | |
Gallieno imperadore 5. |
Consoli
Publio Licinio Valeriano Augusto per la quarta volta e Publio Licinio Gallieno Augusto per la terza.
Fin qui potè lodarsi della mansuetudine e clemenza di Valeriano Augusto il popolo cristiano, avendolo egli favorito, non che lasciato vivere in pace; ma in quest'anno si cangiò sì fattamente il cuor d'esso imperadore, che divenne persecutor mortifero e fiero degli adoratori di Gesù Cristo [Euseb., Histor. Eccles., lib. 7, cap. 10.]. Macriano, che dal fango s'era alzato ai primi onori [886] della corte, e godeva spezial confidenza e possesso nel cuor di Valeriano, quegli fu che, per attestato di san Dionisio, vescovo allora d'Alessandria, sovvertì il regnante, facendogli credere che fra le tante disavventure, ond'era allora oppresso l'imperio romano, conveniva valersi della magia e della invocazione de' demonii: al che essendo troppo contraria la religion de' cristiani, bisognava sterminarla. Nè probabilmente dimenticò di attribuire ad essa religion la folla delle pubbliche disgrazie: che così erano soliti di fare i pagani [Baron., in Annalib. Pagius, Critic. Baron. Tillemont, Mémoires des Empereurs.]. Vedremo poscia costui aspirar all'imperio, e ricevere da Dio per mano degli uomini il gastigo delle sue iniquità. Ebbe dunque principio in quest'anno la persecuzion di Valeriano, che andò poi crescendo, e solamente cessò allorchè la mano di Dio si fece sentire anche sopra questo crudel nemico del suo nome, con restar egli prigion de' Persiani. Intorno a ciò è da vedere la storia ecclesiastica [Anastasius. Baronius. Pagius. Tillemont. Blanchinius et alii.]; nè altro ora dirò io, se non che santo Stefano romano pontefice nell'anno presente gloriosamente sostenne la morte, confessando la fede di Gesù Cristo, ed ebbe per successore Sisto nel pontificato. Furono anche in pericolo, e perciò si ritirarono, due insigni campioni della Chiesa di Dio, cioè i santi Dionisio vescovo d'Alessandria, e Cipriano vescovo di Cartagine, per tacere degli altri. Si moltiplicavano intanto le guerre, e da ogni parte si trovava angustiato dai Barbari nemici il romano imperio. Era già qualche tempo che Sapore re de' Persiani non lasciava passar anno che non iscorresse coll'esercito suo a danni della Mesopotamia e della Soria. Maggiori ancora furono i rumori e danni che si sentirono dalla parte della Tracia e della Mesia, perchè i Goti con altre nazioni abitanti di là dal Danubio vi faceano [887] delle frequenti incursioni. Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 31.] arriva a dire che i Borani, i Goti, i Carpi, i Burgundi non lasciarono parte dell'Illirico, dove non facessero delle scorrerie e saccheggi, che giunsero fino in Italia, senza trovarvi chi loro facesse resistenza. Comandava allora l'armi romane nella Tracia [Vopiscus, in Aurelian.] Marco Ulpio Crinito, uomo di gran vaglia, creduto della casa di Traiano imperadore, e già stato console nell'anno 258. Quali imprese egli facesse per reprimere la petulanza di que' Barbari, nol sappiamo. Tale nondimeno era il di lui credito, che fu creduto inclinar Valeriano a dargli il titolo di Cesare: cosa nondimeno poco verisimile per le conseguenze che ne poteano avvenire in danno dei proprii figliuoli e nipoti. Giunio Donato fu prefetto di Roma in quest'anno.
Anno di | Cristo CCLVIII. Indizione VI. |
Sisto papa 2. | |
Valeriano imperadore 6. | |
Gallieno imperadore 6. |
Consoli
Memmio Tosco e Basso.
Sempre più s'inaspriva la persecuzione mossa da Valeriano Augusto contra dei seguaci di Gesù Cristo; e però in quest'anno fu nobilitata la Chiesa dal martirio di san Sisto sommo pontefice, e del suo glorioso diacono san Lorenzo. Vide anche l'Africa morir nella confessione della vera fede l'immortal vescovo di Cartagine san Cipriano, oltre a tanti altri martiri che si possono leggere nella storia ecclesiastica. Accadde che Ulpio Crinito, governatore della Tracia e di tutto l'Illirico [Idem, ibid.], si ammalò in tempo appunto che le continue vessazioni date dai Goti e dalle altre barbare nazioni a quelle contrade maggiormente esigevano [888] l'assistenza d'un bravo generale. Valeriano imperadore, verisimilmente ne' primi mesi di quest'anno, spedì colà per vicario o luogotenente di lui Lucio Domizio Aureliano, che fu col tempo imperadore. Ci ha conservata Vopisco la lettera scrittagli dal medesimo Augusto piena di stima del valore e della saviezza d'esso Aureliano; col registro delle truppe che doveano militare sotto di lui, fra le quali si può credere che si contassero alcune compagnie di gente germanica, perchè i lor capitani si veggono chiamati Hartomondo, Haldegaste, Hidemondo e Cariovisco. I Francesi moderni si figurano che questi fossero della nazion franca, conquistatrice dipoi delle Gallie, quasichè nomi tali non convenissero anche ad altre nazioni germaniche. In essa lettera Valeriano promette il consolato ad Aureliano e ad Ulpio Crinito pel dì 22 maggio dell'anno seguente. E perchè di grandi spese doveano fare i nuovi consoli, prendendo quell'insigne dignità, con fare i giuochi circensi, e dar dei magnifici conviti ai senatori e cavalieri romani; e la povertà di Aureliano disegnato console non era atta a sì grosse spese, Valeriano ordinò che l'erario pubblico gli somministrasse tutto il danaro e gli utensili occorrenti, affinchè egli non comparisse da meno degli altri. Andò Aureliano al comando dell'armi in quelle parti, e con tal sollecitudine e bravura diede la caccia ai Barbari, e con varii combattimenti gli atterrì, che chi non restò vittima delle spade romane, si ritirò di là dal Danubio, restando con ciò libera la Tracia e l'Illirico da quella mala gente. A sì liete nuove dovette ben esultare il cuore di Valeriano e del senato e popolo romano; ma probabilmente a turbar questa gioia giunsero altri corrieri dall'Oriente coll'avviso di funestissimi guai. Sapore re della Persia, se crediamo ad Eusebio [Euseb., in Chronic.], in quest'anno venne più furiosamente di prima a [889] saccheggiar la Soria. Potrebbe nondimeno essere che al precedente anno appartenessero le disavventure di quelle contrade. Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 1.] ci dà fondamento di credere ch'egli occupasse e spogliasse anche la nobilissima città d'Antiochia. E in fatti Giovanni Malala [Joannes Malala, in Chronogr.], storico antiocheno, scrive che un certo Mariade, uno dei magistrati d'Antiochia, cacciato per le ruberie ch'egli faceva al pubblico, andò a trovare il re di Persia, e si esibì di fargli prendere a man salva la patria sua. Non lasciò il re cader in terra una sì bella offerta, e messo in ordine l'esercito, per la via di Calcide s'inviò colà. Per testimonianza di Ammiano [Ammianus, lib. 23, cap. 5.], e di Egesippo [Hegesippus, lib. 3, cap. 5.], se ne stava un dì il popolo d'Antiochia, siccome gente perduta dietro ai solazzi, con gran festa ed attenzione mirando un istrione e sua moglie, che colle lor buffonerie cavava il riso da tutti: quando essa dopo una girata d'occhi disse ad alta voce: Marito, o io sogno, o vengono i Persiani. Rivolse ognuno gli occhi alla montagna, e videro in fatti calar l'esercito persiano. Tutti allora a gambe, e a studiarsi di salvar quello che poteano. Entrati nella città, che niuna difesa fece, i Persiani, dopo la strage di molti cittadini, misero a sacco tutta quella ricca città, poscia ad essa e a' circonvicini luoghi dato il fuoco, se ne andarono carichi di bottino. Volle il re Sapore, prima di partirsi, far godere il premio dovuto al traditore Mariade, con ordinare che fosse bruciato vivo, come si ha da Ammiano, o decapitato, come scrive il Malala.
Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 1.] racconta che un Ciriade ricco e nobile, avendo svaligiato il padre, si ritirò in Persia, e mosse [890] il re Sapore e Odenato re della Fenicia contra de' Romani; e che avendo Sapore presa Antiochia e Cesarea, costui si fece proclamar Cesare, e prese dipoi anche il nome d'Augusto, ed empiè di terrore tutto l'Oriente. Ma non andò molto che fu ucciso a tradimento dai suoi stessi soldati, in tempo appunto che Valeriano Augusto era in viaggio per far guerra ai Persiani. Troppo verisimil sembra che questo Ciriade lo stesso sia che Mariade mentovato da Giovanni Malala, e che o l'uno o l'altro di quegli storici abbia alterate le circostanze del fatto. Fulvio Orsino [Ursinus, in Numism. Imp.] e il Mezzabarba [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] portano una medaglia di questo Ciriade. Quanto a me, allorchè miro una o due medaglie di simili effimeri tiranni, sempre tremo per paura che qualche impostore abbia burlato chi si affanna per formar raccolta di medaglie. Zonara [Zonaras, in Annalib.] fa accaduta la disgrazia d'Antiochia dopo la prigionia di Valeriano imperadore; ma, come abbiam veduto, Trebellio Pollione ce la rappresenta succeduta prima ch'egli arrivasse in Oriente; e così pare da credere, perchè appunto Valeriano si mise nell'anno presente in campagna per tagliar il corso ai progressi de' Persiani nella Soria. Ammiano, che riferisce cotal fatto a Gallieno, non discorda punto, perchè Gallieno fu imperadore col padre. Di queste sciagure adunque accadute in Oriente informato Valeriano Augusto, non penò a giudicar necessaria la sua presenza in quelle parti; e perciò, raunato un gran corpo d'armata, mosse da Roma per andar a passare, secondo l'uso d'allora, il mare a Bisanzio. Ch'egli si trovasse in quella città nell'anno presente, si ha con sicurezza da Vopisco [Vopiscus, in Aurelian.], nel rapportare ch'egli fa un atto pubblico quivi fatto. Cioè, essendo [891] assiso nelle terme di Bisanzio l'imperador Valeriano alla presenza dell'esercito e degli uffiziali del palazzo, sedendo alla destra sua Memmio Fosco (vuole dire Tosco) console ordinario di quest'anno, Bebio Macro prefetto del pretorio e Quinto Ancario presidente dell'Oriente; ed essendo assisi dalla sinistra Avulnio, ossia Amulio oppure Anolino, Saturnino duce posto ai confini della Scizia, Maurenzio destinato governator dell'Egitto, ed altri dei primarii uffiziali, l'imperadore a nome della repubblica ringraziò Aureliano, perchè avesse liberate dai Goti le provincie romane di quelle parti, e il regalò di quattro corone murali, di cinque vallari e di due navali, di due civiche, di dieci aste pure, di quattro bandiere di due colori, di quattro tonache ducali rosse, di due mantelli proconsolari, di una pretesta, di una tonaca palmata, di una toga dipinta, ec. Il disegnò ancora console sostituito per l'anno seguente, con promessa di scrivere al senato che gli desse il bastone e i fasci consolari. Per tanta benignità anche Aureliano rendè umili grazie al generoso Augusto; dopo di che levatosi in piedi Ulpio Crinito duce dell'Illirico e della Tracia, destinato console in compagnia d'esso Aureliano per l'anno seguente, venne dicendo che, trovandosi egli senza successione, adottava per suo figliuolo il suddetto Aureliano, siccome persona meritevole d'ogni onore per la sua prudenza e valore, con fare istanza che l'atto suo fosse approvato e corroborato dall'imperadore presente: siccome fu fatto. Se ne ricordino i lettori, perchè vedranno a suo tempo esso Aureliano alzato alla dignità imperiale. Da Bisanzio passò poi l'Augusto Valeriano ad Antiochia, ma senza che apparisca s'egli vi arrivasse nel presente anno, o pur nel seguente. Intanto i Persiani, dopo il gran flagello recato ad Antiochia [Euseb., in Chronic.], passarono nella Cilicia e Cappadocia, dando [892] il sacco e tutto quel paese. Aggiunge Giovanni Malala [Joannes Malala, Chronogr.] che le loro scorrerie si stesero per tutto l'Oriente sino alla città di Emesa, non vi lasciando paese che non devastassero e bruciassero. Altri malanni ebbe l'imperio romano ancora dalla parte del Ponto Eusino, o sia del mar Nero, dei quali parleremo all'anno seguente. Sotto i consoli di quest'anno riferisce Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 8.] la ribellione di Decimo Lelio Ingenuo, generale dell'armi della Mesia e Pannonia, che fu acclamato imperadore da quell'esercito, e poscia abbattuto da Gallieno. Tuttavia è difficile il credere accaduta nell'anno presente cotal sollevazione, perchè Valeriano imperadore passò in vicinanza di quelle parti, nè in tempo tale costui avrebbe avuto tanto ardire; e pare che Gallieno, regnando il padre, non si fosse per anche abbandonato ai piaceri, come vien supposto da chi racconta questo fatto.
Anno di | Cristo CCLIX. Indizione VII. |
Dionisio papa 1. | |
Valeriano imperadore 7. | |
Gallieno imperadore 7. |
Consoli
Emiliano e Basso.
Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 31.], dopo avere scritto che i Borani, Goti, Carpi e Burgundi, popoli tutti da lui chiamati Sciti, portarono il terrore e la desolazione per ogni parte d'Italia e dell'Illirico, aggiugne che rivolsero i loro disegni e passi anche verso l'Asia. Probabilmente ciò avvenne dappoichè il valor d'Aureliano gli ebbe fatti sloggiare dalle provincie europee. Mancavano legni a costoro per passar forse dalla Taurica Chersoneso, o sia dalla Crimea, nelle terre dell'Asia, ma ne furono provveduti dagli abitanti di quei [893] paesi, o per timore o per danari. Arrivarono alla città di Pitiunte, posta alla ripa del mar Nero, e si provarono d'impadronirsene. Ma Successiano, che comandava in quelle parti l'armi romane, li ricevè così bravamente, che li fece ritirare in fretta, non senza mortalità di molti d'essi. Avvenne che Valeriano già pervenuto ad Antiochia, conoscendo il valore di Successiano, il volle presso di sè, e chiamatolo, il creò prefetto del pretorio in luogo di Bebio Macro, o pure unitamente con lui, con ordinargli di ristorar le rovine della città d'Antiochia. Così Zosimo, da cui veggiamo attestata l'occupazione d'essa città fatta dai Persiani, non già dopo la prigionia dell'imperador Valeriano, ma innanzi. Dovette la partenza di questo prode capitano animare gli Sciti, cioè i Tartari suddetti, ad altre imprese; e però passarono in Colco, e senza poter prendere il ricco tempio di Diana in Fasi, tirarono diritto a Pitiunte, e se ne impadronirono. Di là s'inoltrarono a Trabisonda, città grande e piena di popolo, provveduta di buon presidio di soldati, e vi misero l'assedio. Sì trascurati furono non meno i cittadini, che la guarnigione, che lasciarono entrarvi una notte i Barbari. Gran bottino vi fu fatto, gran copia di prigioni; diroccati i templi e le case; tutta la città e i luoghi circonvicini rimasero un teatro di miserie e rovine. Secondo Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 33.], aveano costoro consumata quasi tutta la state prima di occupar Trabisonda; ed occupata che l'ebbero, fecero delle scorrerie per tutto il paese all'intorno, e finalmente carichi d'immensa preda se ne tornarono sulle navi al loro paese, come si può credere, accostandosi al verno. Valeriano Augusto, per quanto vedremo, seguitando Zosimo, era tuttavia in Soria, e vel troveremo anche nell'anno appresso: e per conseguente non si può abbracciar l'opinione del padre [894] Pagi [Pagius, in Critic. Baron.] e d'altri, che mettono sotto quest'anno la cattività del medesimo imperadore; ma convien riferirla all'anno seguente. Cornelio Secolare fu in quest'anno prefetto di Roma. Ed ivi dopo molti mesi di sede vacante, a cagion della persecuzione, che tuttavia durava, fu eletto sommo pontefice Dionisio. Non v'ha memoria se in quest'anno Ulpio Crinito ed Aureliano prendessero il consolato loro promesso nell'antecedente da Valeriano Augusto. Ma all'anno 271 troveremo esso Aureliano console per la seconda volta; e quando ciò sia certo, puossi inferirne che nell'anno presente egli procedesse console sostituito in luogo di Gallieno e Valeriano [Vopiscus, in Aurelian.], che doveano procedere nel consolato. Hanno disputato gli eruditi per indovinar chi fossero questo Gallieno e questo Valeriano, destinati anch'essi consoli nell'anno presente. Veggasi il Pagi [Pagius, in Crit. Baron.]. Resta tuttavia dubbiosa una tale quistione.
Anno di | Cristo CCLX. Indizione VIII. |
Dionisio papa 2. | |
Valeriano imperadore 8. | |
Gallieno imperadore 8. |
Consoli
Publio Cornelio Secolare per la seconda volta e Giunio Donato per la seconda.
Il prenome e nome di questi due consoli, non ben sicuri in addietro, vengono oggidì chiaramente confermati da una nobile iscrizione, esistente nel museo del Campidoglio, che si legge nella mia Raccolta [Thesaurus Novus Inscript., pag. 364, n. 1.]. Le ricchezze portate al loro paese dagli Sciti, cioè dai Tartari, saccheggiatori di Trabisonda sul mar Nero, fecero invogliar altri circonvicini Barbari a concorrere a così lucroso mestiere [Zosimus, lib. 1, cap. 34.]. Si diedero tosto a preparar navi, obbligando gli schiavi cristiani a [895] fabbricarne; poi senz'aspettare il fine del verno, e senza volersi valer di quei legni, per la Mesia inferiore passando, ebbero maniera di valicar lo stretto di Bisanzio, e di giugnere a Calcedone, città che andò tutta a sacco. Di là si trasferirono a Nicomedia di Bitinia, città vasta e piena di popolo, abbondante in ricchezze e in ogni copia di beni. Ancorchè ne fossero fuggiti i cittadini portando quel meglio che poterono con loro, sì grande nondimeno fu la preda ivi fatta, che ne stupivano i Barbari stessi. Le città di Nicea, di Cio, di Apamea e di Prusa incorsero nella medesima infelicità; e perchè coloro non poterono mettere il piede in quella di Cizico, se ne tornarono indietro, e diedero alle fiamme Nicomedia e Nicea. Dimorava tuttavia l'Augusto Valeriano in Antiochia, quando gli vennero sì funeste nuove dalla Bitinia. Credevasi che egli spedirebbe colà alcuno de' generali con un corpo di gente; ma perchè era signore assai diffidente, altro non fece che inviar Felice alla difesa di Bisanzio. Ed egli poi se ne andò colla sua armata nella Cappadocia. Trovò guastata da' Persiani anche quella provincia: dai Persiani, dico, i quali aveano ancora fatta rivoltare l'Armenia, e creato ivi un re da loro dipendente, stando più che mai orgogliosi in campagna contra de' Romani. Ma giunto era il tempo che Dio voleva umiliare ed insieme punire Valeriano, crudel persecutore de' servi suoi, e reo di tante morti date a sì gran copia d'illustri campioni della fede di Cristo. Quando egli pur pensava di andare a mettersi a fronte de' Persiani, ecco la peste entrar nel di lui esercito, e farne un orribile scempio. Ciò non ostante, più storici [Aurelius Victor. Eutropius. Zonaras. Agathias et alii.] scrivono che fece guerra ai Persiani nella Mesopotamia; e che in una battaglia per tradimento di un suo generale, come scrive Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Valerian.], [896] egli fu vinto. Questo generale vien creduto Macriano; e san Dionisio vescovo d'Alessandria presso Eusebio [Euseb., Histor. Eccles., lib. 7, cap. 33.] scrive che costui, dopo avere istigato Valeriano a perseguitar i cristiani, e dopo avere ottenuto il supremo comando dell'armata, come s'ha da una lettera [Trebellius Pollio, Trigint. Tyrann., cap. 11.] scritta da Valeriano al senato, tradì lui stesso in fine. Noi vedremo che costui aspirava all'imperio, e senza la rovina di Valeriano non poteva salire sul trono. Zonara [Zonaras, in Annalibus.] pretende che Valeriano in questo infelice combattimento restasse preso. Ma Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 35.], senza far menzione alcuna di battaglia, e solamente notando che rimase disfatto lo esercito romano dalla peste, seguita a dire che Valeriano, uomo non avvezzo alle peripezie della guerra, cadde in disperazione, nè altro scampo seppe immaginare, che quello di guadagnar col danaro il temuto re Sapore, cioè di comperar la pace dai Persiani. Spedì per questo ambasciatori con grande offerta d'oro; ma Sapore li rimandò indietro senza nulla accettare, solamente rispondendo, che se Valeriano volesse venire ad abboccarsi con lui, si tratterebbono meglio i loro affari. Qui mancò la prudenza a Valeriano; perchè, fidatosi della parola del re barbaro, andò con poco seguito a trovarlo, e fu immediatamente ritenuto prigione. Altri [Zonaras, in Annal. Syncellus, in Hist.] furono di parere, che trovandosi Valeriano in Edessa, ed essendo affamato l'esercito, i soldati si sollevarono minacciando la vita di lui; e ch'egli se ne fuggì nel campo persiano, dove restò imprigionato. Questo racconto ha ben ciera di favola.
Certo è intanto che Valeriano imperadore de' Romani cadde nelle mani di Sapore, superbissimo re de' Persiani, e secondo tutte le apparenze, per frode o [897] di Macriano suo generale, o pur dei Persiani stessi, come ha Zosimo, e sembra anche insinuare Pietro Patrizio [Petrus Patricius, de Legationibus, t. I Histor. Byzantin.] ne' frammenti delle ambascerie. Sappiamo altresì, per attestato di varii antichi scrittori [Trebellius Pollio, in Valerian. Lactantius, de Mortibus Persecut. Eusebius, in Oration. Constantin. Orosius, lib. 7, et alii.], che dall'alta dignità imperiale egli si vide ridotto alla condizione di un vilissimo schiavo sotto la tirannia del re nemico, che il menava dappertutto come un trofeo delle sue vittorie, vestito della porpora per sua maggior confusione, e carico nello stesso tempo di catene. Allorchè il tiranno volea salire a cavallo, obbligava lo schiavo Augusto a chinarsi colle mani in terra, e a servirgli di scabello, con aggiugner anche un insolente riso, dicendo che questo era un vero trionfare, e non già il dipingere nelle muraglie e nelle tavole i re vinti, come faceano i Romani. In somma nulla lasciò egli indietro per avvilire, per quanto potea, la maestà del nome romano, nè vi fu obbrobrio ed ignominia che non si facesse patire a questo infelice regnante, la cui caduta e il vergognoso stato sembrò poscia a chi visse lungi da que' tempi degno non poco di compassione. Ma san Dionisio, vescovo allora d Alessandria, Lattanzio, Costantino il Grande, Paolo Orosio ed altri hanno riconosciuta nell'ingiusta crudeltà del re Sapore la condotta giustissima della provvidenza di Dio contra d'un principe che s'era messo in pensiero di estinguere la santa religion dei cristiani, e sopra tanti innocenti servi del vero Dio avea sfogato il suo furore. Quel che dovette oltre a tante miserie ed ignominie maggiormente lacerare il cuore di Valeriano, si può credere che fosse il vedere che aveva un figliuolo imperadore, un nipote Cesare, e tanti grandi uomini da lui sollevati ai primi posti ed onori; e pure niuno di essi alzò mai un dito per liberarlo colla forza, [898] o per riscattarlo coll'oro da quella vergognosa schiavitù. Anzi dovette ben giugnergli all'orecchio [Trebellius Pollio, in Gallieno.] che l'infame suo figliuolo Gallieno, non solamente niun pensiero si prendeva di lui, mai non ispedì a Sapore per trattare della di lui liberazione; ma lasciava anche traspirare il contento suo per quella disavventura, che l'avea liberato da un padre riguardato da lui come troppo rigoroso. A chi con dispiacere gli parlava di questa funestissima scena, mostrava egli di consolarsi con dir di sapere che suo padre era uomo mortale, ed essere ben grande la di lui sciagura, ma che finalmente v'era incorso colla gloria di esser uom coraggioso. Ed ecco come l'ambizione sregolata avea estinto nel cuor di Gallieno tutti i doveri della gratitudine filiale, ed ogni riguardo all'onore dell'imperio romano, troppo svergognato nella persona di Valeriano dal re altero di Persia. Maggiormente poi dovea risaltare l'abbominevol sua non curanza delle sventure del padre, all'osservare come tanto il popolo romano che le milizie deploravano concordemente la miserabil sorte d'un Augusto divenuto schiavo. Fino i popoli battriani, iberi, albani e taurosciti, quantunque non fossero sudditi del romano imperio, si condolsero tanto di questo sinistro caso, che non vollero ricevere le lettere, colle quali Sapore lor notificava la sua vittoria, e scrissero ai generali romani, esibendosi pronti a prestar loro aiuto per liberare dalla schiavitù Valeriano [Idem, in Valeriano.]. Rapporta anche Trebellio Pollione le lettere scritte (se pur non sono finte) al re Sapore da Balero re dei Cadusi, da Artabasde re dell'Armenia, e da un certo Belseto, che io credo nome guasto, nelle quali parlano in favore di Valeriano, ed esaltano il poter de' Romani. Ma chi più era tenuto a sbracciarsi pel prigioniero Augusto, cioè Gallieno suo figliuolo, quegli era che men degli altri pensava [899] a liberarlo o riscattarlo. E però Valeriano, spogliato dell'imperio, in un abisso di miserie, continuò a vivere alcuni anni ancora nella schiavitù, da cui finalmente la morte il liberò. L'autore della Cronica Alessandrina scrive [Chronicon Alexandrin., tom. II Histor. Byzantin.] che i Persiani l'uccisero nell'anno di Cristo 269, ma più verisimil sembra che morisse di morte naturale. E morto che fu, per ordine di Sapore, venne scorticato [Petrus Patricius, de Legationibus. Lactant., de Mortib. Persecut.]. Concia la sua pelle, per maggior vergogna del nome romano, fu posta in un tempio, e si mostrava a tutti gli ambasciatori vegnenti da Roma, per ricordar loro di non fidarsi molto della loro potenza. Il dirsi da Agatia [Agathias, lib. 4 Histor.] che Valeriano fu scorticato vivo, si può relegar tra le favole. Ho io pur rapportata a quest'anno la cattività di questo imperatore, con seguitar l'opinione del Panvinio, del Petavio, del Pearson, del Tillemont e d'altri, perchè questa convien più col filo delle azioni di lui a noi conservate da Trebellio Pollione e da Zosimo. Il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron., ad annum 259.], che mette la di lui caduta nell'anno precedente, niuna valevole pruova adduce da poter battere l'altra opinione, che il fa prigioniere nell'anno presente, come scorgerà chiunque sappia farne l'esame.
Anno di | Cristo CCLXI. Indizione IX. |
Dionisio papa 3. | |
Gallieno imperadore 9. |
Consoli
Publio Licinio Augusto per la quarta volta e Lucio Petronio Tauro Volusiano.
Dopo le disavventure del padre, che non fu più contato per imperadore, restò solo al governo del romano imperio il di lui figliuolo Publio Licinio Gallieno. [900] In alcune iscrizioni da me rapportate [Thes. Novus Inscript., pag. 254.] egli è ancora chiamato Publio Licinio Egnazio Gallieno. Il Reinesio [Reinesius, Inscription.], avendo trovato questo Egnazio, si avvisò ch'egli fosse un fratello del medesimo Gallieno Augusto, e l'opinione sua si trova seguitata dal Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.]. Ma egli altri non fu che lo stesso imperadore Gallieno. Da Cornelia Salonina Augusta ebbe Gallieno due figliuoli, cioè Publio Licinio Cornelio Salonino Valeriano, a cui abbiam già veduto che non si tardò a concedere il titolo di Cesare. Trovansi molte medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] col nome suo. L'altro fu Quinto Giulio Salonino Gallieno, che in alcune rare medaglie s'incontra onorato anche esso col titolo di Cesare. Vopisco [Vopiscus, in Aurelian.] nella Vita di Aureliano riferisce una lettera scritta ad Antonino Gallo console, senza che noi sappiamo in qual anno cada il consolato di costui. Dice d'essere stato ripreso da esso console in una lettera familiare, per aver mandato ad educare Gallieno suo figliuolo presso di Postumo, piuttosto che presso di Aureliano. S'è disputato chi sia questo Gallieno mandato nella Gallia, ed appoggiato alla direzione di Postumo, governatore di que' paesi. Il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] parve sospettare in un luogo, benchè poscia sia di diverso parere in un altro, che questi fosse lo stesso primogenito suo, cioè Gallieno ora imperadore; ma questo Gallieno è detto puer da Valeriano, età che non conviene all'Augusto Gallieno, che in que' tempi avea già de' figliuoli. Parve al conte Mezzabarba [Mediobarbus, in Numismat. Imper.] che fosse mandato colà Quinto Giulio Salonino Gallieno, da noi già detto secondogenito dell'imperador Gallieno, quando Valeriano il chiama suo figliuolo, e non già nipote. Finalmente stimò il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] che [901] questi fosse Licinio Salonino Valeriano primogenito di Gallieno. Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Salonino.] il chiama Salonino Gallieno. Lascerò io che altri decida cotal controversia, per cui non si possono recare se non conghietture, e passerò innanzi.
Non mancavano all'imperador Gallieno delle buone doti. Per conto delle ingegno, molti si lasciava addietro. Avea studiata l'eloquenza e la poesia; faceva anche dei versi tollerabili; mostrava genio alla filosofia platonica, e tale stima ebbe di Plotino, eccellente maestro di quella scuola, vivente allora, che gli era venuto il capriccio [Porphyrius, in Vita Plotini.] di rifabbricare una città nella Campania, per ivi fondare una repubblica di platonici; ma ne fu distornato da' suoi cortigiani. Pareva avere del coraggio e della prontezza [Trebellius Pollio, in duobus Gallienis.]; ma solamente ciò si verificava quando era in collera, o si sentiva irritato dallo sprezzo altrui. La sua magnificenza e liberalità, se vogliam credere a Zonara [Zonaras, in Annalibus.], era qual si conveniva ad un imperadore, amando egli di far del bene a tutti, e di non rifiutar grazie a chiunque ne chiedeva. Aggiugne ch'egli inclinava alla clemenza, non avendo fatto morire chi contra di lui s'era rivoltato. Anche Ammiano Marcellino sembra concorde con lui su questo punto. Tuttavia un ritratto ben diverso di lui fece Trebellio Pollione, e la sua crudeltà starà poco a darci negli occhi. Del pari vedremo che andò col progresso del tempo svanendo quella parte di buono che in lui si trovava, con lasciarsi egli prender la mano dall'eccessivo amor dei divertimenti e dei piaceri illeciti, e col divenir neghittoso e sprezzato: cose tutte che si tirarono dietro de' gravissimi sconcerti, e furono quasi la rovina della repubblica romana. Non si dee già tacere che questo principe debolissimo, riconosciuta per ingiustissima la fiera persecuzione mossa dal [902] padre contra de' cristiani [Euseb., Hist. Eccles., lib. 7, c. 13. Baronius, Annal. Eccles. ad hunc ann. Pagius, Crit. Baron. ad hunc ann.], restituì sul principio del suo governo la pace alla Chiesa, vietando il recar ulteriori molestie ai professori della legge di Cristo. Ma non cessò per questo l'ira di Dio, che volea puniti i Romani gentili, per aver attizzata la crudeltà di Valeriano contra dei suoi servi; e però si affollò ogni sorta di disgrazie sopra l'imperio romano, regnante Gallieno. La peste più che mai vigorosa seguitò a mietere le vite degli uomini; i tremuoti rovesciarono le città; da ogni parte i Barbari continuarono a spogliare e lacerare le contrade romane. Il maggiore de' guai nondimeno fu, che nel cuore del romano imperio insorsero di mano in mano varii usurpatori e tiranni, l'insolenza de' quali non si potè reprimere senza lo spargimento d'infinito sangue.
Per la prigionia di Valeriano restarono in una somma confusione gli affari dell'Oriente [Zosimus, lib. 1, cap. 37.]; e corsa questa voce per tutto l'imperio e fra i Barbari, si spalancarono le porte alle sedizioni, alle rapine e ad ogni più funesta novità, quasi che fosse rimasta vedova abbandonata la repubblica romana, e si riputasse uomo da nulla il di lui figliuolo Gallieno Augusto. Trovavasi questi allora all'armata del Reno, per opporsi ai tentativi de' sempre inquieti Germani. Racconta Zosimo che gli Sciti, cioè i Tartari, abitanti di là dal Danubio, unite insieme varie loro nazioni, divisero in due corpi l'immensa lor moltitudine. Coll'uno entrarono furiosi nell'Illirico, saccheggiando e devastando le città e campagne; e coll'altro vennero fino in Italia, ardendo di voglia di dare il sacco alla stessa città di Roma, ne' cui tesori speravano di saziare la loro avidità. In fatti giunsero fino in quelle vicinanze. Il senato allora, per rimediare a sì gran pericolo, raunò quanti soldati potè, diede l'armi ai più [903] gagliardi della plebe, in maniera tale, che mise in piedi un esercito più copioso che quello de' Barbari: il che bastò per far retrocedere quegli assassini. Se ne tornarono essi al paese loro, ma con lasciar la desolazione dovunque passarono. Incredibili mali altresì recarono gli altri all'Illirico, dove nello stesso tempo si provò il loro flagello e quel della peste. Forse la peste medesima fu quella che cacciò di là quelle barbariche locuste. Io non so dire se possa essere succeduto in questi tempi ciò che vien narrato da Zonara [Zonaras, in Annalibus.]: cioè che riuscì a Gallieno con soli dieci mila soldati suoi di sconfiggere presso a Milano trecentomila Barbari: bravura di cui non intendo io di essere mallevadore. Veramente Zosimo attesta ch'egli dalla Gallia calò in Italia per iscacciarne gli Sciti; ma Zonara scrive, essere stati Alamanni que' Barbari, a' quali diede la rotta. Gli antichi scrittori facilmente confondono i nomi delle nazioni barbariche. Eusebio [Euseb., in Chronic.] ed Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 22.] in fatti scrivono che circa questi tempi gli Alamanni, dopo aver saccheggiate le Gallie, vennero a dare il malanno all'Italia. Anche i Sarmati, se pur non sono parte anch'essi degli Sciti mentovati da Zosimo, portarono l'armi loro contro l'Illirico nell'anno presente. Avea in quelle parti il comando dell'armi romane Regilliano [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 9.], uomo di gran valore. Da una lettera a lui scritta da Claudio, che fu poi imperadore, si raccoglie aver egli data una gran rotta ai Sarmati presso Scupi, città della Mesia superiore, oggidì Uscubi nella Servia. Abbiamo da Trebellio [Idem, cap. 8.], che essendo consoli Fosco (cioè Tosco) e Basso nell'anno 258, e sapendo le legioni della Mesia quanto fosse immerso Gallieno nelle crapole e nella lussuria, e che v'era bisogno d'un [904] coraggioso generale contra de' Sarmati già incamminati alla lor volta, proclamarono Imperadore Ingenuo governator della Pannonia. Ma o il testo di Trebellio si dee credere guasto, o pur egli s'ingannò in riferire la ribellione d'Ingenuo prima delle sventure di Valeriano Augusto; e dobbiamo attenerci qui ad Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.], il quale chiaramente scrive avere la cattività di Valeriano data ansa all'ambizion d'Ingenuo per ribellarsi. Lo stesso vien confermato da Zonara [Zonaras, in Annalibus.]; e però all'anno presente dee appartenere quel fatto. Ne fu portata la nuova a Gallieno Augusto, che a gran giornate passò colà con un esercito, dov'erano molti Mori. Aureolo capitano della sua cavalleria diede una rotta ad Ingenuo, per la quale disperato si uccise. Può nondimeno dubitarsi se in persona vi andasse Gallieno. Abbiamo [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrann., c. 8.] una sua lettera scritta a Celere Veriano suo generale in quelle parti, dove con furore inudito gli ordina di procedere contra d'Ingenuo e de' suoi seguaci senza misericordia alcuna, con uccidere e tagliare a pezzi chiunque de' soldati o di que' popoli avea avuta mano in quella sollevazione; e che quanto più farebbe di vendetta, tanto più gusto a lui darebbe. V'ha chi dice che Ingenuo, presa la città di Mursa, o di Sirmio, dove egli risedeva, col pugnale si levasse la vita, per non venire in man del crudo Gallieno. Che o nell'anno precedente o pur nel presente si rivoltassero Postumo nella Gallia, Macriano in Oriente, Valente nell'Acaia, Regilliano nella Mesia, Aureolo nell'Illirico, è stato parere di varii moderni storici. Mancano a noi lumi per distinguere bene i fili e tempi della storia, per quel che riguarda i tiranni allora insorti nel romano imperio; nè ho io voglia di presentar ai lettori le dispute dei letterati intorno a questi punti. Però chieggo licenza di parlar di essi tiranni negli anni [905] seguenti, perchè non o facile l'assegnar i veri tempi de' fatti d'allora.
Anno di | Cristo CCLXII. Indizione X. |
Dionisio papa 4. | |
Gallieno imperadore 10. |
Consoli
Publio Licinio Gallieno Augusto per la quinta volta e Faustino.
Un di coloro che, alzata bandiera contra di Gallieno Augusto, si fecero proclamar Imperadori, fu Marco Fulvio Macriano [Mediobarbus, in Numism. Imperat. Trebell. Pollio, in Trigint. Tyrann., cap. 8.], da noi più volte nominato di sopra, personaggio nato bassamente, ma che, salendo per varii gradi militari, acquistò il credito di essere il più valoroso e prudente generale che si avesse allora l'imperio romano. Arrivò costui sì avanti, che Valeriano Augusto, siccome già accennai, non avea persona più confidente di lui, e da lui appunto fu mosso a perseguitare i cristiani [Euseb., Histor. Eccles., lib. 7, cap. 10.]. Perchè avea imparata la magia dai maghi egiziani, ha sospettato taluno ch'egli fosse di quella stessa nazione. A lui diede Valeriano il comando dell'armata, allorchè infelicemente prese a far guerra a' Persiani, e per opinione di alcuni tradito fu da lui. Tradì egli ancora il di lui figliuolo Gallieno. Imperocchè dopo la prigionia di Valeriano, giacchè nulla era stimato Gallieno, i soldati della Soria cominciarono, secondochè scrive Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 11.], a trattar di voler un principe atto a sostenere l'imperio. Furono a consiglio su questo Macriano e Servio Anicio Balista, ch'era stato prefetto del pretorio sotto Valeriano, ed esercitava allora la carica anch'egli di generale. Fu d'avviso Balista che niun fosse più atto di Macriano al comando dell'armi e al governo dell'imperio romano. Se ne scusò Macriano con dire di esser vecchio e zoppo; ma perchè [906] avea due suoi figliuoli giovani, già tribuni, e di singolar bravura, cioè Quinto Fulvio Macriano e Gneo Fulvio Quieto, fu conchiuso che il braccio di questi due figliuoli supplirebbe all'età del padre; e però Macriano venne acclamato Imperadore Augusto, ed egli appresso promosse alla medesima dignità i due suoi figli. Di tutti e tre resta memoria nelle antiche medaglie [Goltzius et Mediobarbus, in Numismat. Imperat.]. Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Gallieno.] vuole che Macriano usurpasse l'imperio, essendo consoli Gallieno e Volusiano, cioè nell'anno precedente 261. Al padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.] parve questo un errore o dello storico o del testo, perchè, secondo lui, nell'anno 259 accade la disgrazia di Valeriano, nè tanto potè restar l'armata di Soria senza capo. Ma siccome abbiam detto che non regge l'opinione del Pagi intorno all'anno della cattività di Valeriano, così nè pur sussiste il negar qui fede a Trebellio. Già si è detto che Valeriano cadde in man dei Persiani nell'anno 260. Che poi non succedesse sì tosto l'usurpazione da Macriano fatta dell'imperio, si può ricavar da Zonara [Zonaras, in Annalibus.]. Scrive questo autore che dopo la sventura di Valeriano i Persiani senza paura d'alcuno portarono l'armi vincitrici per la Soria, per la Cilicia e Cappadocia: il che vien confermato da Eusebio Cesariense [Eusebius, in Chronic.]. Presero la nobilissima città d'Antiochia capitale della Soria; poi Tarso insigne città della Cilicia. Quindi misero l'assedio a Cesarea di Cappadocia, la qual si crede che contenesse allora quattrocento mila anime. Gran difesa fu fatta da que' cittadini, essendo lor capitano Demostene, uomo di gran cuore, e forse l'avrebbono scappata, se un certo medico fatto prigione, per non poter reggere ai tormenti, non avesse rivelato ai nemici un sito, per cui entrati una [907] notte, fecero una strage immensa di quei cittadini. Demostene lor capitano, essendovi ordine di prenderlo vivo, salito a cavallo, ed imbrandito lo stocco, si cacciò per mezzo ai Persiani, ed atterratine non pochi, ebbe la fortuna di salvarsi. Gran quantità di prigioni fu fatta da' Barbari nella presa di quella città, e tutti appena provveduti di tanto cibo che bastasse a tenerli in vita, e senza poter bere acqua se non una volta al giorno, come si fa colle bestie. Finalmente i Romani fuggiti elessero per lor capitano un Callisto (il Tillemont [Tillemont, Mémoires de Empereurs.] sospetta che Zonara voglia dire Balista), il quale, trovando sbandati i Persiani, diede loro assai busse in varii incontri, e prese anche le concubine del re Sapore con delle grandi ricchezze. Per queste percosse si affrettò Sapore a ricondursi ne' suoi paesi, seco menando l'infelice Valeriano. Ora cotali imprese richieggono del tempo, nè si vede che Macriano se ne impacciasse punto; e però fondatamente si può credere ch'esso Macriano solamente nell'anno 261, siccome attesta Zonara, fosse acclamato Imperadore. Credesi che egli regnasse in Egitto; ma, se ciò è vero, non dovette ivi piantare la sua signoria senza spargimento di sangue, facendo menzione san Dionisio vescovo alessandrino presso Eusebio [Euseb., Histor. Eccles., lib. 7, cap. 22.] d'un'atroce guerra civile che circa questi tempi afflisse la città d'Alessandria, susseguita poi da una terribil peste. Che il dominio di Macriano si stendesse quasi per tutta l'Asia, abbiamo motivo di crederlo senza difficoltà; ed ivi egli comandò per più d'un anno.
Pensava probabilmente Macriano di incamminarsi alla volta di Roma, e di passare lo stretto di Bisanzio colla sua armata [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 18.]; ma perchè ben prevedeva che Publio Valerio Valente, creato proconsole dell'Acaia da Gallieno, uomo d'alto affare e suo particolar nimico, [908] gli avrebbe fatta opposizion nel passaggio, mandò un personaggio di gran credito, cioè Lucio Calpurnio Pisone Frugi [Mediobarb., in Numismat. Imperat.], per ammazzarlo. Se ne accorse Valente, e non sapendo come meglio sottrarsi ai pericoli, si fece proclamar Augusto [Aurelius Victor, in Epitome.], e regnò qualche tempo nell'Acaia e Macedonia. Non andò più innanzi Pisone, ma ritiratosi nella Tessaglia, giacchè vedea tanti che usurpavano l'imperio, ne volle anch'egli la sua parte, con prendere il titolo d'Imperadore e di Tessalico in quella contrada. Ma spedita una man di soldati da Valente, levò di vita Pisone, e Valente stesso fu anch'egli da lì a poco ucciso da' suoi soldati. V'ha delle inverisimiglianze in questi racconti; ma più ancora inverisimile a me sembra il dirsi da Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 20.], che saputosi in Roma la morte di questi due personaggi nel dì 25 di giugno, il senato decretò gli onori divini a Pisone, con dire che non si potea trovar uomo migliore e più costante di lui. Come mai questo, se è vero ch'egli usurpasse l'imperio contra di Gallieno padrone di Roma? Nello stesso decreto disse il console di confidare che Gallieno, Valeriano e Salonino sieno nostri imperadori: intorno alle quali parole han disputato più letterati, per determinare chi fossero Valeriano e Salonino, e se tutti godessero allora il titolo d'imperadori: il che è difficile da stabilire per varii motivi. Ora Macriano, messa insieme un'armata di quarantacinque mila combattenti, e lasciato Quieto Augusto suo secondo figliuolo, assistito da Balista, al governo della Soria, marciò verso l'Europa, e passò il mare a Bisanzio. Ma fosse nell'Illirico, o pure nelle estremità della Tracia, gli venne a fronte Marco Acilio Aureolo con altro più poderoso esercito, per dargli battaglia, e segui ancora qualche menar di spade [Zonaras, in Annalib.]. [909] Trattandosi di altri Romani, non voleva Aureolo lasciar la briglia a' suoi, sperando che quei di Macriano verrebbono dalla sua parte, perchè avea fatta la chiamata, e forse guadagnato alcuno dei contrarii uffiziali. Ma quei non si movevano. Per avventura venne ad imbrogliarsi e a chinar la bandiera uno degli alfieri di Macriano; non vi volle di più perchè gli altri alfieri, credendo ciò fatto non per azzardo, ma per ordine de' capitani, abbassarono anch'essi le insegne, e andarono in numero di trenta mila ad unirsi con Aureolo [Trebellius Pollio, in Trigint. Tyrannis, cap. 11.], acclamando l'imperador Gallieno. Accortosi dipoi Macriano che anche gli altri restati con lui titubavano, li pregò di non voler dare sè stesso e il figlio Quinto Fulvio Macriano in mano di Aureolo. Il compiacquero essi con ammazzar lui e il figliuolo; e, ciò fatto, passarono anch'essi all'armata di Aureolo. Trebellio Pollione dà la gloria di questo fatto a Domiziano, valoroso capitano d'esso Aureolo, facendosi credere che Aureolo non v'intervenisse in persona. Da san Dionisio Alessandrino [Euseb., Hist. Eccles., lib. 7, cap. 23.] si ricava che la caduta di Macriano, per cui restò l'imperadore Gallieno libero da un nemico che gli facea gran ribrezzo, accadde nell'anno nono dell'imperio d'esso Gallieno, e però nel presente. Si vuol qui aggiungere che restò tuttavia padrone di quasi tutte le provincie orientali Gneo Fulvio Quieto, dichiarato, come già dissi, Augusto da Macriano suo padre. Stavagli a' fianchi Balista, personaggio di gran senno e di sperimentato valore. Ma giunta la nuova che il di lui padre e fratello erano stati vinti e tolti dal mondo, cominciarono le città dell'Oriente l'una dopo l'altra a ritirarsi dall'ubbidienza di Quieto. Zonara [Zonaras, in Annalibus.] pretende che Odenato da Palmira, di cui parleremo fra poco, quegli fosse che, assediato Quieto nella [910] città di Emesa, l'uccidesse. Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 17.] sembra piuttosto attribuire la di lui morte ai soldati che Aureolo avea spedito per prenderlo vivo. Quanto a Balista, o egli se ne fuggì, o per mezzo di qualche accordo ebbe la facoltà di ritirarsi. Anch'egli, scrivono che prendesse dipoi il titolo d'Imperadore Augusto in qualche parte dell'Oriente, e si mantenesse sino all'anno 264. In fatti v'ha qualche medaglia [Mediobarb., in Numismat. Imper.] che cel rappresenta Augusto. Ma io torno a desiderare che le medaglie di tanti tiranni vivuti in questi tempi sieno tutte legittime e vere, perchè non son mancati di coloro che, per farsi ben pagare dai dilettanti di sì fatte anticaglie, han saputo formar di pianta monete simili alle antiche col mutar le loro iscrizioni. Trebellio Pollione confessa ingenuamente di non sapere se Balista prendesse sì o no la porpora; ed esservi scrittori che asseriscono essersi egli ritirato ad una vita privata. Quel che è certo, egli fu dipoi ucciso, chi dice per ordine di Odenato, e chi dai soldati di Aureolo, con riferire la di lui morte all'anno 264: circostanze tutte dubbiose, e che non si possono chiarire. Noi sappiamo ancora che dopo la morte d'Ingenuo tiranno Quinto Nonio Regilliano nell'Illirico [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 9.] si sollevò e prese il titolo d'Imperadore Augusto. Costui, siccome di sopra accennai, fece di molte prodezze contra dei Sarmati, e ricuperò l'Illirico, che per la dappocaggine di Gallieno era quasi tutto perduto. Ciò dovette avvenire prima di usurpar l'imperio; ma in qual tempo egli l'usurpasse, nol possiamo determinare; e noi vedremo fra poco che anche Aureolo prese il titolo d'Augusto nel medesimo Illirico. Per quel che scrive Trebellio, fu un accidente che costui fosse promosso all'imperial dignità dai soldati, i quali, scherzando sul nome di [911] Regilliano, trovarono che Dio gli avea dato questo nome, acciocchè divenisse re, e per questo l'acclamarono Augusto. Ma quei medesimi soldati poi per timore della crudeltà di Gallieno, già provata nella ribellion d'Ingenuo, e per le premure di quei popoli che non voleano quel peso addosso, diedero ad esso Regilliano la morte.
Anno di | Cristo CCLXIII. Indizione XI. |
Dionisio papa 5. | |
Gallieno imperadore 11. |
Consoli
Albino per la seconda volta e Massimo Destro.
Credesi che il primo console fosse nominato Marco o Manio Nummio Albino, perchè v'ha un'iscrizione romana, dove egli è chiamato consul ordinarius iterum. Che così fosse, può darsi. Ma nell'antico catalogo [Apud Bucherium et Eccardum.] de' prefetti di Roma noi troviamo che Nummio Albino era stato prefetto di Roma nell'anno 261, e seguitò ad esercitar quella carica nell'anno seguente ed anche nel presente; e non sapendo noi che fosse per anche introdotto di dare ad un solo quelle due dignità nel medesimo anno, perciò può restar sospetto che fossero due persone diverse; se non che andando innanzi, cominceremo a trovare chi, essendo prefetto di Roma, esercitò nello stesso tempo il consolato. Circa questi tempi i Germani penetrarono colle loro scorrerie fino in Ispagna. Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] ed Eutropio [Eutrop., in Breviar.] scrivono che i Franchi, popoli allora della Germania, quei furono che, entrati nelle Gallie, vi fecero immensi saccheggi, e di là passarono nella Spagna Tarragonese, dove presero per forza e saccheggiarono la capitale di quel paese, cioè Tarragona; e trovata [912] copia di navi, andarono insino a visitar l'Africa. Paolo Orosio [Paulus Orosius, Histor., lib. 7.] attesta anche egli la desolazione lasciata da costoro nella Spagna, con aggiungere che ne restavano anche a' suoi tempi le funeste memorie, e che durò per dodici anni la persecuzione da loro recata a quelle contrade. Fu di parere il Valesio [Valesius, Rer. Franc., lib. 11.] che costoro non per le Gallie, ma per l'Oceano passassero in Ispagna, come poi fecero i Normanni nel secolo nono; ed Eumene [Eumenes, in Panegyrico Constantin.] porge buon fondamento a questa opinione, che sembra più verisimile, che non è il creduto loro passaggio per le Gallie. A queste calamità son da aggiugnere l'altre narrate tutte in un fiato [Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviar. Orosius, Histor., lib. 7.] da Aurelio Vittore, da Eutropio e da Orosio, ancorchè non se ne sappia il tempo preciso. Cioè, che la Dacia, di cui quella che oggi è Transilvania, era anticamente una parte, e tutto quanto il paese conquistato una volta da Traiano venne in potere dei Barbari. Secondo Eutropio, i Quadi e i Sarmati devastarono la Pannonia. Eusebio [Euseb., in Chronic.] scrive che l'occuparono. Orribili ancora furono i danni recati dagli Sciti, cioè dai Goti, alle provincie dell'Europa e dell'Asia, colle quali confinavano. Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Gallieno.] racconta che costoro s'impossessarono della Tracia, devastarono la Macedonia, e vennero ad assediare Tessalonica, oggidì Salonichi. Fu loro data battaglia nell'Acaia da Macriano general de' Romani, diverso da colui che abbiam veduto di sopra, e il cui vero nome probabilmente era Marziano, di cui parleremo più abbasso. Sconfitti se n'andarono i Barbari. L'altro esercito di essi Goti, passato nell'Asia, pervenne sino ad Efeso, dove, dato in prima il sacco al celebre e ricchissimo tempio di Diana, poscia lo consegnarono alle fiamme. Lo [913] storico Giordano [Jordanus, de Rebus Geticis, cap. 20.] non lasciò indietro questa partita, con dire che i Goti condotti da Respa, Veduco, Turo e Varo loro capitani, vi saccheggiarono varie città, incendiarono il tempio di Diana Efesina, e nella Bitinia spogliarono e diroccarono la bella città di Calcedonia. Carichi di bottino nel ritornare a casa devastarono Troia ed Ilio: lasciarono i segni della loro fierezza nella Tracia, e presero la città d'Anchialo, posta alle radici del monte Emo, dove si fermarono molti dì per que' bagni caldi che quivi si trovavano. Dopo di che se ne tornarono ai lor paesi. Ma non si contentarono di questo que' Barbari. Un sì gustoso mestiere li fece altre volte ritornare ai danni delle provincie romane. Crede il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.] che l'irruzione suddetta de' Goti appartenga all'anno precedente, perchè si figura celebrati allora i decennali di Gallieno. Ma chi riferisce a quest'anno esse feste, vi unisce ancora i pianti dell'Asia per cagion dei suddetti Barbari.
In qual anno Postumo governator delle Gallie si rivoltasse contra di Gallieno Augusto, e prendesse il titolo di imperadore, è tuttavia in disputa, nè io son qui per entrare in sì fatte liti di critica che il lettore non aspetta da me. Certo è che almen qualche tempo prima dell'anno presente egli usurpò l'imperio in quelle parti. Per quanto credono gli eruditi di ricavar dalle medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imperat.], era il suo nome Marco Cassio Latieno Postumo, benchè Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, et in Gallieno.] il chiami Postumio. In una iscrizione [Thesaurus Novus Inscript., pag. 360, n. 5.] da me data alla luce, non Latieno, ma Latino si vede appellato. Questi era bassamente nato, ma giunto ad essere uno de' più eccellenti capitani che si avesse Roma allora, uomo di singolar prudenza [914] e gravità, che con tutta la sua severità intendeva l'arte di farsi amare dai popoli e dai soldati. Valeriano Augusto, che sapea ben discernere i meriti delle persone, gli avea dato il governo delle Gallie, acciocchè il suo valore servisse a rintuzzar l'orgoglio de' Franchi e d'altre nazioni germaniche transrenane, già usate a molestar le provincie romane. Tal credito s'era egli acquistato, ch'esso Valeriane gl'inviò suo nipote Salonino, non so se il primo o se il secondo figliuolo di Gallieno, acciocchè l'istruisse nelle arti convenienti ad un principe e ad un guerriero. Ma se Postumo era dotato di tanti bei pregi, non si trovava già in lui l'importantissimo della fedeltà. Il sapersi nelle Gallie la vita lussuriosa e scandalosa che menava Gallieno in Roma cagionò in que' popoli un tal disprezzo di questo principe, aiutato probabilmente anche dalle scerete insinuazioni d'esso Postumo, che pensarono a provvedersi d'un imperadore, in cui concorresse il valore e il senno, per difendersi dai nemici Germani. Avea Postumo, per relazione di Zonara [Zonaras, in Annalibus.], sconfitto un corpo di que' Barbari passati di qua dal Reno, e distribuito ai soldati il bottino fatto [Zosimus, lib. 1, cap. 38.] Silvano capitan delle guardie del giovinetto Salonino Cesare l'obbligò ad inviar quella preda al principe: il che sì forte amareggiò i soldati, mal soddisfatti per altro, poichè lor non piaceva di star sotto il comando di un fanciullo, cioè di esso Salonino, che, alzato rumore, proclamarono imperadore Postumo. Il che fatto, marciarono tutti a Colonia, dove dimorava esso Salonino, gridando di voler nelle mani il principe e Silvano, ed assediarono quella città. Bisognò darli, e Postumo li fece morire amendue, aggiugnendo quest'altra taccia alla violata fede contra del suo sovrano. Non vi fu popolo alcun delle Gallie che nol riconoscesse volentieri per imperadore; e pare che anche le Spagne e l'Inghilterra si [915] sottomettessero al di lui imperio; e tolta la fellonia, era egli ben degno di reggere popoli [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 2 et 4.]. Nello spazio di sette anni che Postumo regnò, anche nelle Gallie regnò la felicità: tanta era la sua moderazione e giustizia, tanto il suo valore, per cui ridusse i Germani a contenersi nei loro limiti, e fabbricò anche alcune castella nel loro paese. Egli si trova nelle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imper.] (se pur tutte son vere) appellato console per la quarta volta. Avea un figliuolo nomato Caio Giunio Cassio Postumo, a cui diede il titolo di Cesare, e poi quello di Augusto. Fu Postumo il più potente e terribil avversario che si avesse Gallieno, non tanto per la sua buona testa, quanto per l'amore che gli portavano i popoli delle Gallie, e per lo grande squarcio ch'egli avea fatto dell'imperio romano.
Ora Gallieno Augusto (io non so dire in qual anno) con buon esercito marciò in persona contra di Postumo. Teodoto era il generale della sua armata. Posero l'assedio ad una città, dove s'era rinchiuso Postumo; ma nel fare Gallieno la ronda intorno a quella città, fu ferito da una saetta, e dovette cessare per questo l'assedio. Se poi Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Gallieno.] tien qualche ordine ne' suoi racconti, circa questi tempi, o pur nell'anno precedente, il medesimo Gallieno, conducendo seco due bravi capitani, cioè Aureolo e Claudio (il qual fu poscia imperadore), tornò di nuovo a far guerra a Postumo. Fu allora che Postumo dichiarò imperadore Augusto e collega suo Marco Aurelio Piavvonio Vittorino, uomo di grande abilità nel mestier della guerra, benchè perduto dietro le femmine, per poter più facilmente opporsi agli sforzi di Gallieno. Seguirono varii combattimenti o scaramuccie, e in una battaglia restò anche sconfino Postumo; ma senza apparire che per questo sinistro [916] colpo peggiorassero gli affari di lui, e ne profittasse quei di Gallieno. Parimente intorno a questi tempi un'orribil disavventura accadde in Bisanzio. Per quanto sembra dire Trebellio, dovea essere venuto alle mani il popolo di quella città colla guarnigione; e prevalendo la forza de' soldati, restò tagliata a pezzi quella cittadinanza, in maniera che tutte le vecchie famiglie vi perirono, a riserva di coloro che o per la mercatura o per la milizia n'erano lontani. Gallieno adunque, sbrigato che fu dalla guerra di Postumo, passò alla volta di Bisanzio, dove non ispirava di entrare se non colla forza. Ma, avendo capitolato quel presidio, v'entrò; e poi, senza osservar la parola e il giuramento, fece uccidere tutti quanti que' soldati che vi si trovarono. Di là poi frettolosamente, e glorioso per quel macello, come se ne avesse riportata qualche gran vittoria, sen venne a Roma, dove celebrò con grande e disusata pompa il decennio compiuto del suo imperio. Secondo il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron. ad annum 262.], questa solennità si fece nel precedente anno; secondo altri, nel presente, perchè in questo terminava esso decennio, e si faceano i voti pubblici per la conservazione dell'imperadore per un altro decennio. Le medaglie [Mediob., in Numismat. Imperator.] ne parlano, ma senza chiarirne il tempo. Racconta lo stesso Trebellio [Trebellius Pollio, in Gallieno.] che Gallieno corteggiato da tutto il senato e dall'ordine equestre, e dalle milizie vestite di bianco, preceduto dal popolo e fin da' suoi servi e dalle donne che portavano torcie e lampade accese, processionalmente si portò al Campidoglio. Cento buoi colle corna dorate e con gualdrappe di seta (cosa preziosa in que' tempi) e ducento bianche agnelle, andavano innanzi per servire ai sagrifizii. V'intervennero ancora dieci elefanti che si trovavano allora in Roma; e mille e ducento gladiatori superbamente vestiti. V'erano carrette [917] che menavano ogni sorta di buffoni, ed altre, nelle quali si rappresentavano le forze dei ciclopi. Per tutte in somma le strade altro non si vedeva che giuochi, e le acclamazioni dappertutto andavano al cielo. Comparivano in fine centinaia di persone, fintamente vestite, chi alla gotica, chi alla sarmatica, ed altre con abiti da Franchi e da Persiani. Con questa vana pompa, o sia con questa mascherata, si credeva l'inetto principe d'imporre al popolo romano, il quale in mezzo agli applausi si burlava di lui, mostrandosi favorevole, chi a Postumo, chi a Regilliano, il qual non dovea per anche essere ucciso; ed altri ad Emiliano e a Saturnino, che già si dicevano anch'essi rivoltati. I più nondimeno compiangevano la prigionia di Valeriano, a cui nulla pensava l'ingrato figliuolo. Accadde, che conducendosi fra la turba dei finti Persiani anche il re di Persia, come prigioniere (cosa che moveva il riso a tutti), alcuni buffoni si cacciarono fra que' Persiani, guatando attentamente ognun d'essi in viso. Interrogati che cercassero con tanta premura, risposero: Cerchiamo il padre del principe. Gallieno, che mai non si risentiva all'udir parlare dell'infelice suo padre, e solamente mutava discorso con dire agli astanti: Cosa di buono avremo al pranzo? che solazzi abbiam da godere oggi? vi sarà egli spasso domani al teatro, al circo? avvertito della facezia di que' buffoni, allora prese fuoco; e fattili imprigionare, li condannò ad essere bruciati vivi: sentenza e spettacolo che amareggiò sommamente il popolo, e talmente se ne dolsero i soldati, che ne fecero a suo tempo aspra vendetta.
Anno di | Cristo CCLXIV. Indizione XII. |
Dionisio papa 6. | |
Gallieno imperadore 12. |
Consoli
Publio Licinio Gallieno Augusto per la sesta volta e Saturnino.
Ho io prodotta un'iscrizione [Thesaur. Novus Inscript., pag. 365.] posta a Lucio Albino Saturnino console, ma senza poter determinare se ivi si parli di Saturnino console di quest'anno. S'è fatta poco fa menzione di Saturnino, personaggio anch'esso usurpator dell'imperio in questi calamitosi tempi di Roma. Quel poco che ne sappiamo, l'abbiamo dal solo Trebellio Pollione [Trebell. Pollio, in Trigint. Tyrann., c. 22.], il quale non seppe nè pur egli dirci altro, se non che era uomo di prudenza singolare, di vita amabile, e che avea riportato più vittorie contra dei Barbari; ma senza poter assegnare nè il tempo, nè il paese, dove l'armata posta sotto il suo comando gli diede la porpora imperiale. Probabilmente egli comandava ai confini della Scizia. Ma perchè parve, nell'andar innanzi, troppo severo, que' medesimi che gli aveano dato l'imperio, quello, insieme colla vita, gli tolsero. Maraviglia è come quello storico ed altri sì vicini a questi tempi sì poco sapessero di quegli avvenimenti. Per quello che riguarda Emiliano, mentovato anch'esso poco fa da Trebellio Pollione, non è per anche stabilita la serie de' suoi nomi, perchè le poche medaglie che s'hanno di lui, lasciano dubbio d'impostura. Vien creduto non diverso da quell'Emiliano che, per attestalo di Dionisio Alessandrino [Euseb., Histor. Eccles., lib. 7, cap. 11.], perseguitò malamente i cristiani in Egitto. Era egli generale dell'armi romane in quelle stesse provincie [Trebell. Pollio, in Triginta Tyrann., c. 21.], quando, insorta una briga per avere un soldato battuto un servo, a cui era scappato detto, essere migliori le scarpe sue che [919] quelle dei soldati, la plebe alessandrina, solita per ogni bagattella a muoversi e a far sedizione, s'attruppò, e con armi e sassi andò infuriata a trovar Emiliano, regolandolo ancora d'alcune sassate. Dicono ch'egli non trovasse altro scampo che quello di farsi dichiarar imperadore, per poter comandare a bacchetta e farsi più rispettare. Per quel tempo ch'egli regnò tenne con vigore l'imperio e visitò la Tebaide e tutto l'Egitto, mettendo buon ordine dappertutto. Ma spedito colà da Gallieno un esercito sotto il comando di Teodoto, Emiliano, nel punto che si preparava a far una spedizione contro agl'Indiani, fu preso e strangolato in prigione. Voleva poi Gallieno crear Teodoto proconsole dell'Egitto, acciocchè godesse più autorità e balìa; ma ne fu ritenuto dai sacerdoti, perchè v'era una predizione, che allora l'Egitto tornerebbe in libertà, quando v'entrassero i fasci consolari che si davano ai proconsoli, e la pretesta dei Romani. Trebellio Pollione cita per testimonio di ciò Cicerone e Procolo grammatico. Il tempo, in cui Emiliano usurpò la porpora e perdè la vita, indarno si va ora cercando. Lo stesso Pollione nel precedente anno parlò di Aureolo, come di persona già ribellata contra di Gallieno Augusto. Per questa ragione metto io sulla scena costui nell'anno presente, benchè trovi qui imbrogliati non poco i conti di quello storico [Trebellius Pollio, in Trigint. Tyrann., et in Gall.]. Sembra che egli proponga la di lui ribellione avvenuta non molto dopo la cattività di Valeriano imperadore; e perciocchè dipoi si vede ch'egli combattè in favor di Gallieno contra di Macriano, ed anzi poco fa in compagnia del medesimo Gallieno, lo abbiam veduto far guerra a Postumo; non si può già facilmente credere che così presto egli si rivoltasse. Pollione l'acconcia con dire che Gallieno fece pace con Aureolo, e di lui si servì poscia contra di Postumo. Altri sono stati di [920] avviso che il prendesse per collega nell'imperio per abbattere col braccio di lui gli altri tiranni: tutte cose improbabili presso chi sa le gelosie e le diffidenze dei dominanti. Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 40.] riferisce la rivolta d'esso Aureolo all'anno 267, ed in ciò è seguito da Zonara [Zonaras, in Annalibus.]. Questa pare la più verisimil opinione. Nelle medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] che restano d'esso tiranno si vede ch'egli era appellato Manio (e non già Marco) Acilio Aureolo. Il governo dell'Illirico fu a lui conferito da Gallieno; ma egli, guadagnati gli animi dei soldati, si fece acclamar Imperadore. Se dice il vero il sopraccitato Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Gallieno.], nell'anno precedente Odenato re de' Palmireni ottenne l'imperio di tutto l'Oriente. Riserbo io le notizie di questo insigne personaggio all'anno seguente.
Anno di | Cristo CCLXV. Indizione XIII. |
Dionisio papa 7. | |
Gallieno imperadore 13. |
Consoli
Publio Licinio Valeriano per la seconda volta e Lucio Cesonio Lucilio Macro Rufiniano.
Il primo console, cioè Valeriano, comunemente vien creduto il fratello di Gallieno Augusto, con opinione ch'egli nell'anno 259 fosse stato console sostituito. Tempo è ormai di parlare di Odenato, il cui nome si rendè ben celebre per le imprese da lui fatte in servigio dell'imperio romano in Oriente. Egli [Agathias, lib. 4 Histor.] era nato in Palmira, città nobile della Fenicia, non lungi dall'Eufrate, delle cui rovine ed antichità han rapportato molte notizie in questi ultimi tempi i viaggiatori inglesi. Ch'egli fosse solamente cittadino e decurione in quella città, lo scrive Eusebio [Euseb., in Chronic.]. Ciò vien [921] anche confermato da Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 38.], il quale nondimeno aggiunge aver egli avuto delle milizie proprie: il che sembra indicare ch'egli fosse uno dei principi dei Saraceni abitanti verso l'Eufrate e collegati dei Romani, siccome ancora fu di parere Procopio [Procopius, de Bello Pers., lib. 11.]. Fece Dio nascere in questi tempi un uomo tale per umiliar l'orgoglio di Sapore re della Persia, che dopo la gran vergogna inferita ai Romani, col fare suo schiavo il loro imperador Valeriano, pareva in istato di assorbir tutte le provincie romane dell'Oriente. Avea Odenato [Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., c. 14.] in sua gioventù fatto il noviziato della guerra nella caccia delle fiere, prendendo lioni, pardi, orsi ed altri animali selvatici, ed indurando il corpo ai venti e alle pioggie. Veduto ch'egli ebbe divenuto formidabile a tutto l'Oriente il re Sapore per le vittorie guadagnate sopra i Romani, abbiamo da Pietro Patrizio [Petrus Patricius, de Legationibus, t. I Histor. Byzantin.], che per comperarsi la buona grazia di quel regnante, gli inviò molti cammelli carichi di preziosi regali, con lettera di tutta sommessione e rispetto. All'alterigia di Sapore (male ordinario dei gran tiranni dell'Oriente) parve un'insolenza l'atto di Odenato, che, essendo persona privata, avesse osato di scrivergli senza presentarsi egli in persona al soglio suo. Il perchè stracciò quella lettera, fece gittar nel fiume que' presenti, e disse ai messi ch'egli saprebbe ben insegnar le creanze al loro signore, e come un par suo dovea trattare con chi era suo padrone, e che sterminerebbe lui colla sua famiglia e patria. Contuttociò, s'egli bramava un gastigo men rigoroso, venisse a prostrarsi ai suoi piedi colle mani legate. Fu allora che Odenato, non sapendo digerir tanta boria, nè tollerar le mal meritate minaccie del barbaro regnante, si gittò affatto nel partito de' Romani. Zonara [Zonaras, in Annalibus.] [922] scrive, esser egli stato quello che nella Mesopotamia assediò in Emesa Quieto figliuolo di Macriano tiranno, ed il fece uccidere. Da lui parimente [Trebellius Pollio, in Gallienis.] tolta fu la vita a Batista, usurpatore anche esso dell'imperio in Oriente. Appresso mosse una fiera guerra al re di Persia; ricuperò Nisibi e Carre e tutta la Mesopotamia. S'era egli dato il vanto di voler anche cavar dalle mani de' Persiani il prigionier Valeriano; e perciocchè mostrava in tutto dipendenza da Gallieno Augusto, ed ubbidienza agli ordini che venivano da lui, fu creato governatore e generale dell'Oriente da esso imperadore. Avvennero questi fatti negli anni addietro.
Che Odenato anche prima di questo anno entrato nelle terre de' Persiani, grande strage facesse di loro, ed arrivasse fino a Ctesifonte, capitale allora di quella monarchia, si può raccogliere da Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 29.] e da Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 14.]. Ma verso questi tempi egli di nuovo, più potente e risoluto che mai, tornò addosso ai Persiani, e mise l'assedio a Ctesifonte. Molti combattimenti e saccheggi di tutto quel paese, e macello incredibile della nemica genie fu ivi fatto. Ma perchè tutti i satrapi della Persia si unirono per la comune difesa, non potè far crollare ai suoi voleri quella metropoli. Portate intanto a Gallieno le nuove, qualmente Odenato, dopo aver liberata dai Persiani la Mesopotamia, era giunto sotto Ctesifonte, avea messo in fuga il re Sapore, presi molti di questi satrapi, e fatta strage di que' Barbari: per consiglio di Valeriano suo fratello e di Lucilio suo parente, che abbiam veduto consoli ordinarii nell'anno presente, a motivo di maggiormente attaccare Odenato agl'interessi del romano imperio, gli diede il titolo di Augusto, dichiarandolo [923] suo collega, ed ordinando che si battessero monete in onore di lui, delle quali alcune ancora ne restano [Goltzius, et Mediob., in Numism. Imperat.]. A molti dovette parere strana una tal risoluzione, perchè restava giustificatamente in mano ad Odenato, principe straniero, tutto lo Oriente; e pure, se dice il vero Trebellio Pollione, il senato e tutto il popolo romano sommamente lodarono questo fatto, probabilmente sperando che andasse a terra l'inetto Gallieno, e che questo valoroso Fenicio avesse poi da rimettere in buon sesto il troppo sfasciato imperio romano. E ciò basti per ora di Odenato. Benchè non si sappia il tempo preciso in cui anche Trebelliano non volle esser da meno di tanti altri usurpatori dell'imperio [Trebellius Pollio, in Gallieno, et in Trig. Tyrann., cap. 14.], pure ne parleremo qui. Solamente noi sappiamo che costui, nominato Caio Annio Trebelliano in qualche medaglia [Goltzius, et Mediob., Numism. Imper.] (se pur son legittime le medaglie di lui), trovando nella Isauria quel popolo malcontento di Gallieno, e bramoso di un condottiere, prese il titolo d'imperadore, e nella rocca d'Isauria si fabbricò un palazzo. Fra que' luoghi stretti del monte Tauro si mantenne egli per qualche tempo; ma speditogli contro da Gallieno Causisoleo Egiziano, fratello di quel Teodoto che avea preso Emiliano tiranno dell'Egitto, ebbe maniera di tirarlo a campagna aperta, di dargli battaglia, di sconfiggerlo e di levargli la vita. Ma quei popoli per paura di gastighi continuarono nella lor ribellione e libertà, nè si poterono per gran tempo, e forse mai più, rimettere all'ubbidienza della repubblica romana. Nè pure all'Africa mancarono i suoi disastri [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis.]. Quivi per cura di Vibio Passieno proconsole, e di Fabio Pomponiano general dell'armi ai confini nella Libia, fu creato imperadore un Tito Cornelio Celso semplice tribuno, e vestito colla porpora imperiale da una Galliena [924] cugina del medesimo Gallieno Augusto. Ma non passarono sette dì che costui fu ucciso, il suo corpo dato ai cani, ed impiccata l'effigie sua per opera del popolo di Sicca, il quale s'era mantenuto fedele a Gallieno. Abbiamo un'iscrizione [Panv., in Fast. Cons. Maffeius, Veron. Illustr.] comprovante ch'esso Gallieno fece in quest'anno rifabbricar le mura di Verona; perlochè quella città prese il titolo di Galleniana. Il lavoro fu cominciato a dì 5 d'aprile, e terminato nel dì 4 di dicembre. Dovea servire quella città d'antemurale agl'insulti de' Germani. A' tempi del gran Pompeo era essa divenuta colonia de' Romani [Incertus, in Panegyrico Constant., cap. 8.]; ma, scaduta per le guerre, trovò miracolosamente un ristoratore in questo sì disattento e scioperato Augusto.
Anno di | Cristo CCLXVI. Indizione XIV. |
Dionisio papa 8. | |
Gallieno imperadore 14. |
Consoli
Publio Licinio Gallieno Augusto per la settima volta e Sabinillo.
Per gli nuovi tiranni che ogni dì saltavano fuori, conquassato era l'imperio romano; ma poco parea che se ne affliggesse la testa leggiera di Gallieno imperadore [Trebellius Pollio, in Gallieno.]. Quando gli giugneva la nuova che l'Egitto era perduto: E che? diceva egli, non potremo noi vivere senza il lino d'Egitto? Veniva un altro a dirgli le orribili scorrerie fatte dagli Sciti nell'Asia, e i tremuoti che aveano in quelle parti diroccate le città, rispondeva: Non potremo noi far senza le loro spume di nitro per lavarci? Udita la perdita delle Gallie, se ne rise, dicendo: Sto a vedere che la repubblica sia sbrigata, se non verran più le tele di Arras. Così questo imperadore con aria da filosofo, ma con vera dappocaggine e stoltizia di principe. E intanto le applicazioni sue più [925] serie erano dietro alla cucina e alle tavole per mangiar bene e ber meglio, e a soddisfar le sfrenate voglie della libidine sua, e a far comparse di lusso disusato, senza prendersi pensiero del pubblico governo, e senza mettersi affanno di tante ribellioni e disastri che fioccavano da tutte le bande sul romano imperio. Abbiamo da Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] ch'egli, oltre alla moglie Salonina Augusta, teneva varie concubine, fra le quali la principale fu Pipa, figliuola del re de' Marcomanni, per ottenere la quale cedette ad esso re una parte della Pannonia superiore. E questa sua trascuraggine appunto era quella che animava or questo or quello ad alzar bandiera contra di lui, e ad usurpare il nome d'imperadore. Trovò egli nondimeno un ingegnoso spediente per mettere freno all'esaltazione di nuovi Augusti [Idem, ibidem.], e fu quello di proibir da lì innanzi che i senatori avessero impieghi nella milizia, e si trovassero nelle armate, perchè diffidava di chiunque era in credito, e poteva aspirare all'imperio, o muover altri a liberarsi da lui. Uso fu degli Augusti di condur sempre seco ne' viaggi e nelle guerre un numero scelto di senatori, che formavano il loro consiglio, e mantenevano ne' popoli e nelle soldatesche il rispetto dovuto al senato, e comandavano bene spesso le armate. Tutto il contrario fece Gallieno. E di qui poi venne, che avvezzatisi i senatori a godersi in pace i loro posti e beni, e a risparmiar le fatiche, i pericoli e le sedizioni della milizia, più non cercarono di far cessare quella legge di Gallieno: perlochè sempre più venne calando la loro stima ed autorità, e crebbe l'insolenza di chi comandava e maneggiava l'armi.
Intorno a questi tempi pare che succedesse nelle Gallie il fine di Postumo, stato per più anni tiranno, o sia imperadore in quelle parti, dove ancora avea [926] preso il quarto consolato. Scrivono [Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., cap. 2.] ch'egli mantenne sempre que' popoli in istato felice, mercè del suo senno e valore, ed era anche universalmente amato e rispettato. Tuttavia si sollevò contra di lui Lucio Eliano, che prese il titolo d'Imperadore in Magonza. Eutropio [Eutrop., in Breviar.] scrive, che avendo Postumo presa quella città, per non aver voluto abbandonarne il sacco ai soldati, costoro l'uccisero insieme col giovane Postumo suo figliuolo. Ho io con Aurelio Vittore appellato Eliano l'emulo che si rivoltò contro di lui; ma questi infallibilmente non è se non quel personaggio che da Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Trig. Tyran., cap. 4.] vien chiamato Lolliano, e tale ancora si trova il suo nome presso d'Eutropio. Postumo, secondo il suddetto Pollione, per maneggi segreti d'esso Lolliano, perdè la vita; ed è certo che questi sopravvisse a Postumo. Dicono ch'egli fu accettato per Imperadore da una parte delle Gallie; e che fece di gran bene alle città di quelle contrade, e che rifabbricò varii luoghi di là del Reno. Ma che? Vittorino, figliuolo di Vittoria, già preso per collega dell'imperio da Postumo, gli fece guerra; e peggiore gliela fecero i soldati, perchè annoiati dalle troppe fatiche, alle quali continuamente gli obbligava, gli tolsero la vita. Trovansi medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imperat.], dove egli è chiamato Lucio Eliano ed Aulo Pomponio Eliano; altre se ne rapportano col nome di Spurio Servilio Lolliano. O l'une o l'altre sono mere imposture, quando ancora non sieno tutte. Sicchè Marco Aurelio Vittorino restò solo possessor delle Gallie. Ma costui [Trebellius Pollio, in Trig. Tyran., cap. 5.] con tutte le belle doti d'uomo grave, clemente, economo, ed esattor della disciplina militare, portava nell'ossa un vizio che denigrava tutte le sue virtù, cioè una sfrenata libidine, per cui niun rispetto portava [927] ai talami de' suoi soldati. Ne riportò anche il castigo [Aurelius Victor, in Epitome.]. Trovandosi egli in Colonia, un cancelliere dell'esercito, irritato contra di lui per violenza usata a sua moglie, essendosi congiurato con altri, lo uccise. Il fanciullo Vittorino di lui figliuolo fu allora chiamato Cesare da Vittoria o sia Vittorina, avola sua paterna; ma nella stessa maniera che il padre, fu anch'egli ammazzato dai medesimi soldati. Così Trebellio Pollione, il quale, se son vere le medaglie riferite dal Goltzio e dal Mezzabarba [Goltzius et Mediob., in Numism. Imperat.], mal informato si scuopre di quegli affari. In esse medaglie veggiamo appellato questo fanciullo Caio Piavio Vittorino, e non già col suo titolo di Cesare, ma bensì d'Imperadore Augusto. Se fosse vero il racconto di Pollione, non vi restò tempo da battere monete in onore di questo piccolo Augusto. Il punto sta che siamo ben sicuri d'essere quelle monete fattura indubitata dell'antichità. Certamente è lecito il dubitarne. Dopo i due Vittorini, l'imperio delle Gallie fu da quelle milizie conferito ad un Mario, già stato fabbro ferraio. Eutropio [Eutrop., in Breviar.] mette l'esaltazione di costui fra Lolliano e Vittorino; Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 7.] dopo Vittorino. Era costui salito in alto ne' posti militari per l'estrema sua forza, di cui alcune prove rapporta Pollione. Ma un soldato, già di lui garzone nella bottega del suo mestiero, vedendosi sprezzato da lui o prima o dopo l'usurpato imperio, due o tre giorni dopo la di lui promozione, col ferro lo stese morto a terra, dicendo nel medesimo tempo: Questa è la spada che tu di tua mano fabbricasti. Allora Vittoria madre del vecchio Vittorino, che volea pur conservar l'acquistata sua autorità nelle Gallie, a forza di denaro indusse i soldati a proclamar Imperadore, forse nell'anno seguente, Tetrico suo parente, senatore romano, e governatore [928] nell'Aquitania, provincia delle Gallie. Questi nelle medaglie [Goltzius, in Numism. Imperat.] si trova nominato Publio Piveso, o, secondo un'iscrizione, Pesuvio Tetrico, con apparenza che alcuna di esse memorie patisca eccezione. Dicono ch'egli era anche stato console, e che portatagli questa lieta nuova a Bordeos, quivi prese la porpora. Suo figliuolo Caio Pacuvio Piveso Tetrico, ancorchè allora fanciullo, fu creato Cesare dalla suddetta Vittoria, la quale appresso (non si sa in qual anno) terminò i suoi giorni, aiutata, per quanto ne corse la voce, dal medesimo Tetrico, al quale piaceva di comandare e non d'essere comandato da lei. Continuò dipoi Tetrico la sua signoria non solamente nelle Gallie, ma anche nelle Spagne, fino ai tempi di Aureliano Augusto, siccome allora diremo. Fu di parere il Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] che Postumo regnasse nelle Gallie sino all'anno secondo di Claudio imperadore. Non mancano ragioni ad altri per crederlo ucciso sotto Gallieno. La lite non è per anche decisa; nè certo si può ben chiarire il tempo di tante rivoluzioni succedute in quelle contrade.
Anno di | Cristo CCLXVII. Indizione XV. |
Dionisio papa 9. | |
Gallieno imperadore 15. |
Consoli
Paterno e Arcesilao.
Fin qui il valoroso Odenato da Palmira, dichiarato Augusto in Oriente, mostrava bensì unione con Gallieno imperadore, ma verisimilmente si facea conoscere per solo padrone delle provincie romane dell'Asia. Seguitava egli a far vigorosamente guerra ai Persiani, quando fu ucciso. Si disputa tuttavia intorno al tempo, al luogo e all'uccisore. Chi crede succeduta la di lui morte nell'anno precedente, chi nel presente. Certo è che circa questi tempi i Goti, o sieno [929] gli Sciti, fecero un'irruzione nell'Asia [Trebellius Pollio, in Gallien.], e giunsero fino ad Eraclea, saccheggiando tutto il paese. Secondo Sincello [Syncellus, in Hist.], Odenato prese la risoluzione di portar l'armi contra di costoro, e giunto ad Eraclea, vi fu ferito e morto. Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 39.], all'incontro, scrive ch'egli soggiornava in Emesa, dove, celebrando un non so qual giorno natalizio, a tradimento restò privato di vita. V'ha chi il fa ucciso [Zonaras, in Annalibus.] da un altro Odenato suo nipote, chi da Meonio suo cugino; e sospettò anche taluno che Zenobia sua moglie tenesse mano al misfatto per gelosia di veder anteposto a' proprii figliuoli Erode, nato da una prima moglie ad esso Odenato, e da lui creato Augusto. Certo è che questo Erode, nominato anche Erodiano in qualche medaglia, della cui legittimità non so se possiam dubitare, perdè anch'egli la vita col padre. Era giovane portato al lusso, alla magnificenza, ai piaceri, e il padre gli lasciava far tutto. E questo infelice fine ebbe Odenato, principe de' più gloriosi del Levante, perchè gran flagello de' Persiani, e perchè conservò all'imperio romano le pericolanti provincie dell'Asia. Arrivò Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Trigint. Tyrann., cap. 14.] a dire che Dio veramente si mostrò irato contra del popolo romano, perchè toltogli Valeriano Augusto, non gli conservò Odenato. Egli intanto il mette fra' tiranni, ma con ingiuria al vero, e contraddicendo a sè stesso [Idem, ibidem, cap. 16.]. Quanto a Meonio, che lo stesso Pollione ci rappresenta come d'accordo con Zenobia per togliere la vita a Odenato, dicono che fu con consenso di lei proclamato imperadore; ma non andò molto che i soldati, nauseati per la di lui sporca lussuria, gli levarono insieme coll'imperio la vita. Lasciò Odenato dopo di sè tre figliuoli, cioè Hereniano, Timolao ed Uhaballato, [930] che presero il titolo di Augusti, e si trovano mentovati nelle medaglie [Goltzius et Mediobarb, in Numism. Imperatorum.]. Ma perciocchè erano in età non ancora capace di governo, Settimia Zenobia lor madre Augusta prese essa le redini a nome de' figliuoli, siccome donna virile, e fece dipoi varie gloriose imprese, del che parleremo andando innanzi.
Dissi che gli Sciti, o vogliam dire i Goti, aveano portata la desolazione in varie provincie dell'Asia, e massimamente della Cappadocia [Trebellius Pollio, in Gallieno.]. Ora si vuol aggiugnere che costoro, udito che loro si appressava colle armi Odenato Augusto, non vollero già aspettarlo, e si affrettarono per tornarsene ai loro paesi collo immenso bottino fatto. Nondimeno sul mar Nero ne perirono non pochi, perchè assaliti dalle truppe e navi romane. Ma non passò gran tempo, ch'entrati per le bocche del Danubio nelle terre dello imperio, vi fecero un mondo di mali. Sulle rive del mar Nero fu data loro una rotta dalla guarnigione romana di Bisanzio, ma senza che cessassero per questo dal bottinare in quelle parti. Nè da lor soli vennero cotanti affanni. Anche gli Eruli passati dalla palude Meotide nel mar Nero con cinquecento vele sotto il comando di Naulobat loro capitano, per mare vennero fino a Bisanzio e a Crisopoli. In una battaglia loro data restò superiore l'esercito romano; e però tumultuosamente si ritirarono [Trebellius Pollio, Syncellus, Zonaras.]. Ma ecco tornar di nuovo i Goti, che son chiamati Sciti da altri, i quali andati alla ricca città di Cizico, la spogliarono. Indi si portarono alle isole di Lenno e di Suero nell'Arcipelago, ed arrivati sino all'insigne città di Atene, la bruciarono, con far lo stesso barbaro trattamento a Corinto, Sparta, Argo, e a quasi tutta l'Acaia, senza trovar persona che osasse di loro opporsi. Tuttavia, messisi gli Ateniesi in una imboscata, con aver per loro [931] capitano Desippo istorico, ne fecero un gran macello. (Si vedrà qui sotto all'anno 269 un'altra presa di Atene, e forse solamente a que' tempi è da riferire la disgrazia di quella città.) E pure non finì la faccenda, che scorrendo per l'Epiro, per la Acarnania e per la Beozia, recarono anche a quelle parti de' gran malanni. Zonara [Zonaras, in Annalibus.] sembra riferir questo flagello ai tempi di Claudio successore di Gallieno. Mentre sì fiero temporale spremeva da ogni banda le grida dei popoli afflitti, non potè di meno che non si svegliasse l'imperador Gallieno, e non si movesse da Roma per accorrere al soccorso delle malconce provincie. Arrivato ch'egli fu nell'Illirico, non pochi di que' Barbari caddero sotto le spade romane; laonde gli altri presero la fuga pel monte Gessace. Marziano ed Eracliano suoi capitani con altre prodezze liberarono in fine da quei Barbari le provincie dell'imperio. Ebbe parte in tali imprese anche Claudio, che fu dipoi imperadore; e i due primi generali divisando fra loro come si potesse sollevar la repubblica dall'inetto e crudel governo di Gallieno, misero per tempo gli occhi sopra di esso Claudio per adornarlo della porpora imperiale. Diedero probabilmente la spinta a questi lor disegni l'essere, a mio credere, succeduto in questi tempi ciò che narra Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Gallien.] con dire, che quando si credeva che Gallieno fosse ito coll'esercito per cacciare i Barbari, egli si fermò ad Atene per la vanità di prendere la cittadinanza di quell'illustre città, di esercitar ivi la carica di arconte, cioè del magistrato supremo, di essere arrolato fra i giudici dell'Areopago, e di assistere a tutti i loro sagrifizii, con vitupero della dignità imperiale. Poco fa ho detto, potersi dubitare che non accadesse verso questi tempi la presa e l'incendio di Atene. Viene maggiormente confermato questo dubbio dall'andata colà di Gallieno. [932] Questa ridicola gloria, questa trascuratezza de' pubblici affari nel bisogno, in cui si trovavano allora le provincie romane, fece perdere ai soldati la pazienza e il rispetto verso di un principe sì disattento e vile, e trattar fra loro di eleggere un degno imperador di Roma. Lo seppe Gallieno, cercò di placarli, e non potendo, ne fece uccidere qualche migliaio: risoluzione che indusse anche i generali a desiderar e procurare la di lui rovina, come vedremo all'anno seguente.
Anno di | Cristo CCLXVIII. Indizione I. |
Dionisio papa 10. | |
Claudio II imperadore 1. |
Consoli
Paterno per la seconda volta e Mariniano.
Non si crede che questo Paterno console fosse quello stesso che nell'anno precedente esercitò il consolato ordinario, perchè non solevano le persone private goder quella insigne dignità due anni di fila, come talor facevano gli Augusti. Petronio Volusiano bensì, stato prefetto di Roma nell'anno precedente, continuò in quella carica anche nel presente. Abbiam parlato di sopra di Manio Acilio Aureolo, generale della cavalleria romana nell'Illirico, uomo di gran valore nell'armi. Ribellossi anch'egli, al pari di tanti altri, contro al disprezzato Gallieno; e chi si attiene a Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Gallien.], mette la di lui rivolta sino nell'anno 201. Ma di gran lunga maggior apparenza di verità ha il racconto di Zosimo [Zosimus, lib. 1.], seguitato da Zonara [Zonaras, in Annalibus.], che riferisce all'anno precedente l'aver egli preso il titolo d'imperadore. Allorchè Gallieno si trovava nella Mesia, o pur nella Grecia, per timore che Postumo imperadore, o sia tiranno nelle Gallie, o [933] pur chi era succeduto a lui, non profittasse della di lui lontananza, ordinò ad Aureolo di venir colle sue milizie a Milano, e di far abortire i disegni di chi governava le Gallie. Venne Aureolo, e meglio chiarito del discredito in cui era Gallieno, e che le Gallie per la morte di Postumo e per le mutazioni seguite, invece di dar gelosia all'Italia, pareano esposte ad essere vinte, credette essere questo il tempo di salire sul trono. Ne pervennero gli avvisi a Gallieno, che, conosciuta la gravità del pericolo, a gran giornate se ne tornò in Italia, e a dirittura marciò contra di Aureolo [Aurelius Victor, in Epitome.]. Avendolo sconfitto e ferito in un fatto d'armi, l'obbligò a ritirarsi a Milano, città che appresso fu da lui assediata [Zonaras, in Annalibus.]. Accadde in occasion di quella battaglia, che l'imperadrice Cornelia Salonina corse pericolo di essere presa da' nemici; perchè avendo essi osservato come poca guardia si faceva nel campo di Gallieno, arrivarono fino al padiglione di lui, dove dimorava essa imperadrice. Trovavasi ivi per avventura un soldato, il qual era dietro a cucire una sua veste. Costui, al comparir dei nemici, dato di piglio allo scudo e allo stocco, con tal ferocia due ne percosse, che gli altri giudicarono meglio di retrocedere. Intanto venne a rinforzar l'esercito di Gallieno Marziano generale, ch'egli avea lasciato nella Mesia, o nella Tracia contra de' Goti. Eracliano prefetto del pretorio vi giunse anch'egli con della cavalleria. Zonara il chiama non Eracliano, ma Aureliano, il quale fu poi imperadore.
Ora questi generali, invece di condurre a fine l'assedio di Milano, piuttosto andavano concertando di levar dal mondo il malvoluto Gallieno [Trebellius Pollio, in Gallien.]. Ne diede Marziano l'incumbenza a Cecrope, o Cecropio, capitano de' Dalmatini, uomo coraggioso, che arditamente prese l'impegno, con lusingarsi di poter egli [934] essere assunto all'imperio. Ma qui, secondo il solito, discordano fra loro gli scrittori. Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] scrive che Aureolo, vedendosi a mal partito, ebbe maniera di contraffare una lettera o carta, come scritta da Gallieno, in cui erano notati i principali uffiziali della armata, che egli intendeva di voler far morire quasi suoi traditori. Questa carta, trovata dagl'interessati, gli spronò a rimediare al proprio pericolo colla morte di Gallieno. Marziano ed Eracliano furono i principali de' congiurati; ma non nega Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Claud.] che anche Claudio non tenesse mano a questo trattato. Sembra nondimeno più verisimile il dirsi da Zonara [Zonaras, in Annalibus.], che avendo molto prima quegli uffiziali tramata la congiura contro di Gallieno, ed essendo traspirata questa mina, eglino si affrettarono ad eseguirla; e la maniera fu la seguente. Una notte mentre Gallieno cenava, o pure se n'era ito a dormire, Eracliano e Cecrope comparvero affannati a dirgli che Aureolo con tutte le sue forze faceva una sortita. Gallieno spaventato si fa tosto armare, e, montato a cavallo, esce dalla tenda, movendo all'armi le soldatesche. In quella confusione ed oscurità Cecrope se gli appressò e l'uccise. Altri vogliono, che un dardo scagliato non si sa da chi gli levasse la vita; ed altri ch'egli fosse morto in letto. Non merita certo fede il dirsi da Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.], che Gallieno ferito inviasse prima di morire le insegne imperiali a Claudio, soggiornante allora in Pavia. Comunque sia, questo miserabil fine ebbe la vita di Gallieno; e posciachè la nuova d'essere stato dipoi eletto imperadore Claudio [Trebellius Pollio, in Claudio.], si seppe in Roma nel dì 24 di marzo, da ciò con sicurezza raccogliamo che la morte di esso dovette succedere alquanti giorni prima. Parimente sappiamo che [935] Valeriano di lui fratello, il quale da alcuni fu creduto, ma con poco fondamento, ornato del titolo di Cesare, ed anche di Augusto, e il giovine Gallieno, di lui figliuolo, già dichiarato Cesare, restarono involti in questo naufragio ed ammazzati nelle vicinanze di Milano. V'ha chi li tiene privati di vita in Roma. In somma noi troviamo strapazzata di molto in questi tempi la storia italiana, senza sapere a chi attenerci senza pericolo di errare. Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] aggiugne che portata la nuova dell'ucciso Gallieno a Roma, il popolo si sfogò con infinite imprecazioni contra di lui; e il senato scaricò l'odio suo contra de' suoi ministri e parenti, facendoli precipitar giù per le scale gemonie. Claudio succeduto nello imperio, ordinò dipoi che non si recasse molestia agli altri che aveano schivato il primo furore della burrasca. E per far conoscere o dar ad intendere ch'egli non s'era mischiato nella morte di Gallieno, mandò il di lui corpo, per quanto si crede, a Roma, e comandò che un sì screditato Augusto fosse messo nel numero degli dii: il che si deduce da qualche rara medaglia, dove gli è dato il titolo di divo. Ma siamo noi ben certi, che antiche sieno e legittime tutte le medaglie che si chiamano rare e rarissime? Noi certo non leggiamo che Claudio punisse alcuno per la morte data ad esso Gallieno.
Dopo la tragedia di questo imperadore, i soldati che l'aveano odiato vivo, mostrarono di compiagnerlo estinto, e ne facevano elogi, con apparenza di formar una sedizione non già per vendicarlo, ma con disegno di dare un gran sacco in tal congiuntura a chi non se l'aspettava [Trebellius Pollio, in Gallieno.]. Per frenare la loro insolenza, Marziano e gli altri generali si appigliarono al solito lenitivo della moneta. Però loro promisero venti pezzi d'oro per testa, e non tardarono a sborsarli, perchè Gallieno avea lasciato un ricco tesoro. Questa rugiada smorzò tutto il loro [936] fuoco, e concorsero anch'essi a dichiarar Gallieno un tiranno, e ad accettar Claudio per imperadore. Quanto a questo principe, noi il troviamo nominato nelle medaglie [Goltzius et Mediobarb., in Numismat. Imperat.] Marco Aurelio Claudio, e non già Flavio, come l'intitola Trebellio Pollione; ed oggidì vien comunemente da noi conosciuto e mentovato col nome di Claudio II, e più sovente di Claudio il Gotico. Il suddetto Trebellio [Trebellius Pollio, in Claudio.], che si sforzò di esaltarlo dappertutto, perchè scriveva a Costantino Augusto, la cui avola Claudia era stata figlia di Crispo fratello di esso Claudio, tuttavia non seppe trovare che la nobiltà del sangue fosse un pregio di Claudio. Era egli nato nell'Illirico, cioè nella Dalmazia o nella Dardania, provincie d'esso Illirico, nell'anno di Cristo 214, o nel 215, nel dì 10 di marzo. Le sue belle doti, le sue molte virtù per la scala dei gradi militari il portarono in fine all'imperio. S'egli avesse moglie non si sa: certo non ebbe figliuoli. Due erano i suoi fratelli, cioè Quintillo che succedette a lui nell'imperio, e Crispo, dal quale poco fa dissi discendente per via di una sua figliuola Costantino il Grande. Costantina ebbe anche nome una di lui sorella. Sotto lo imperador Decio cominciò egli la carriera dei suoi onori; e creato tribuno ebbe la guardia del passo delle Termopile, e sotto Valeriano il comando della quinta legione nella Soria, con salario da generale; poscia il generalato dell'armi in tutto l'Illirico. Trebellio Pollione rapporta una lettera di Gallieno, in cui mostra molto affanno dell'esser egli in cattivo concetto di Claudio, e la premura di placarlo; al qual fine spedì ancora molti regali. La verità si è, che tutti gli scrittori [Goltzius, et Mediob., in Numism. Imperat. Victor, Eutropius, Zosimus.], e fin Zosimo, benchè nemico di Costantino Augusto, confessano che in questo personaggio concorrevano [937] il valore, la prudenza, l'amore del pubblico bene, la moderazione, l'abborrimento al lusso ed altre nobili qualità, che senza dubbio il rendevano degnissimo dell'imperio, ed egli fu dipoi registrato da ognuno fra i principi buoni e gloriosi della repubblica romana.
Ora dappoichè tolto fu di vita Gallieno, o sia, come vuol Trebellio [Trebellius Pollio, in Claudio.], che Marziano ed Eracliano prefetto del pretorio, avessero già fatto il concetto di alzar Claudio al trono imperiale, o pure che, tenuto il consiglio da tutta l'uffizialità, di consenso comune ognun concorresse nell'elezione di questo sì degno suggetto, certo è ch'egli fu creato imperadore con approvazione e gioia universale, e massimamente dell'esercito, perchè tutti riconoscevano in lui abilità da poter rimettere in buono stato l'imperio romano, lasciato in preda ad amici e nemici dalla negligenza di Gallieno. Allorchè s'intese in Roma l'assunzione di questo principe, che non mancò di parteciparla tosto con le lettere al senato, le acclamazioni furono immense, strepitosa la allegrezza del popolo. Gli atti d'esso senato ci scuoprono i comuni desiderii e le comuni speranze che il novello Augusto liberasse l'Italia da Aureolo; la Gallia e la Spagna da Vittoria, già madre di Vittorino, e da Tetrico dichiarato quivi imperadore (il che qualora sussistesse, converrebbe differire sino all'anno seguente la rovina di Vittoria e di Tetrico), e l'Oriente da Zenobia regina de' Palmireni e vedova di Odenato, la quale non volea più dipendere dai romani Augusti, e faceva da padrona nelle provincie orientali dell'imperio. La prima applicazione dell'Augusto Claudio quella fu di abbattere il tuttavia resistente Aureolo con dichiararlo tiranno e nemico pubblico. Mandò ben esso Aureolo messi a Claudio, pregandolo di pace, ed esibendosi di far lega o patti con lui; ma Claudio con gravità rispose, che queste erano proposizioni da fare [938] ad un Gallieno (simile ad Aureolo nei costumi e timido) e non già ad un par suo. Secondo Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Trigint. Tyrann., cap. 10.], Aureolo in una battaglia datagli da Claudio ad un luogo che fu denominato il ponte di Aureolo, oggidì Pontirolo, rimase sconfino ed ucciso. Zosimo [Zosimus, lib. 1.] all'incontro narra ch'egli si arrendè, ma che i soldati, già irritati contra di lui, gli levarono la vita. Non conobbe Trebellio una vittoria riportata in quest'anno da Claudio Augusto contra degli Alamanni; ma ne parla bene Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.]. Costoro probabilmente chiamati in soccorso suo dal vivente Aureolo, erano calati fin presso al lago di Garda nel Veronese. Claudio tal rotta diede loro, che appena la metà di sì sterminata moltitudine si salvò con la fuga. Trovansi medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imper.], nelle quali è appellato Germanico, prima che Gotico, non perchè i Goti fossero popoli della Germania come ha creduto taluno, ma bensì per la vittoria da lui riportata degli Alamanni. Passò dipoi il novello Augusto a Roma [Eumenes, in Panegyrico Costantini. Trebel. Pollio, in Claudio.], dove ristabilì la disciplina e il buon governo, ch'egli trovò in uno stato deplorabile per la debolezza di Gallieno. Formò delle buone leggi, condannò vigorosamente i magistrati che vendevano ai più offerenti la giustizia, e frenò col terrore i cattivi. Uso era stato, anzi abuso, per attestato di Zonara [Zonaras, in Annalibus.], che alcuni dei precedenti imperadori donavano anche i beni altrui; e sotto Gallieno spezialmente ciò s'era praticato: e lo stesso Claudio possedeva uno stabile a lui donato dal medesimo Augusto, appartenente ad una povera donna. Ricorse questa a Claudio, con dire nel memoriale, che un uffiziale della milizia ingiustamente [939] possedeva un suo campo. Claudio accortosi che a lui andava la stoccata, in vece di averselo a male, rispose: Essere ben di dovere, che Claudio imperadore (obbligato a far giustizia a tutti) restituisse ciò che Claudio uffiziale avea preso, senza badar molto alle leggi del giusto. Sul fine di quest'anno si crede che dopo insigni fatiche per la Chiesa di Dio, terminasse i suoi giorni Dionisio romano pontefice.
Anno di | Cristo CCLXIX. Indizione II. |
Felice papa 1. | |
Claudio II imperadore 2. |
Consoli
Marco Aurelio Claudio Augusto e Paterno.
V'ha una o due iscrizioni, nelle quali Claudio è chiamato Console per la seconda volta. Non mi son io arrischiato ad intitolarlo tale, perchè più sono i monumenti, ne' quali egli si vede puramente appellalo console. Questo Paterno, se a lui si applica un'iscrizione da me pubblicata [Thesaurus Novus Inscript., pag. 366, n. 1.], dovette essere chiamato Nonio Paterno. Era in quest'anno prefetto di Roma [Bucherius, de Cycl.] Flavio Antiochiano. Giacchè andava ben la faccenda sotto un imperadore sì screditato, come era Gallieno, aveano preso gusto alle ruberie e ai saccheggi delle provincie romane i Goti negli anni addietro; in questo invitarono al medesimo giuoco altre nazioni barbare, cioè Ostrogoti, Gepidi, Virtinghi, Eruli, Peusini, Trutungi ed altri di quei settentrionali feroci popoli. Nell'anno presente adunque si videro comparir di nuovo costoro, compresi da molti antichi sotto il nome di Goti o Gotti, a desolar l'imperio romano. Può dubitarsi di un errore nel testo di Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 42.], allorchè scrive che formarono una flotta di seimila navi. Quando anche non fossero [940] che barche, il numero par troppo grande. Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Claudio.] non riferisce se non due mille navi di que' Barbari. E di più non ne conta Ammiano Marcellino [Ammianus Marcellinus, Hist., lib. 31, c. 5.] là dove fa menzione di questi fatti. Ma sì Zosimo che Pollione fanno ascendere il numero di coloro a trecento venti mila persone combattenti, senza contare i servi e le donne. La prima scarica del loro furore fu contro la città di Tomi, vicina alle bocche del Danubio, da dove passarono a Marcianopoli, città della Mesia. Da ammendue respinti dopo varii combattimenti si rimisero nei loro legni, e dal mar Nero entrarono nello stretto di Bisanzio, dove la corrente rapida delle acque, che urtava quelle navi le une contra delle altre, ne fece perir non poche insieme colla gente. E non mancarono quei di Bisanzio di far loro quanta guerra poterono. Dopo avere [Zosimus, lib. 1, cap. 42. Trebellius Pollio, in Claudio. Ammianus Marcellinus, Zonaras, in Annalibus.] inutilmente tentata la città di Cizico, vennero nell'Arcipelago, e posero l'assedio a Salonichi, o sia Tessalonica, e a Cassandria. Aveano macchine proprie per prendere città, e già pareano vicini ad impadronirsi di ammendue, quando venne lor nuova, che Claudio Augusto s'appressava colle sue forze. Certo è che Claudio dimorante in Roma, allorchè intese questo gran diluvio di Barbari, prese la risoluzione di andar in persona ad incontrarli; e tuttochè si disputasse da alcuni se fosse meglio il far guerra a Tetrico, occupator della Gallia e della Spagna, cioè delle migliori forze dello imperio, che ai Goti e agli altri Tartari rispose: La guerra di Tetrico è mia propria, ma quella de' Goti riguarda il pubblico: e però volle anteporre il pubblico al privato bisogno. Zonara [Zonaras, in Annalib.] in vece di Tetrico mette Postumo, che era già, secondo i nostri conti, morto. Or mentre egli attendeva a fare un possente armamento [941] per quella impresa, spedì innanzi Quintillo suo fratello e con esso lui Aureliano, al quale, per la maggior sperienza negli affari della guerra, diede il principal comando delle milizie nella Tracia e nell'Illirico.
L'arrivo di questi due generali con un poderoso corpo di gente quel fu che persuase ai Goti di abbandonar l'assedio di Salonichi, e di gittarsi alla Pelagonia e Peonia, dove la cavalleria dei Dalmatini si segnalò con tagliare a pezzi tremila di coloro. Di là passarono i Barbari nell'alta Mesia, dove comparve ancora l'Augusto Claudio colla sua armata [Trebellius Pollio, in Claudio.]; si venne ad una giornata campale, che fu un pezzo dubbiosa. Piegarono in fine i Romani, e fuggirono o fecero vista di fuggire; ma ritornati all'improvviso per vie disastrose addosso ai Barbari, ne stesero morti sul campo cinquantamila, riportando una nobilissima vittoria d'essi. Quei che si salvarono colla fuga voltarono verso la Macedonia, ma assaliti dipoi in un sito dalla cavalleria romana ed oppressi dalla fame, buona parte lasciarono ivi le lor ossa; e il resto veggendosi tagliata la strada, si ridussero al monte Emo, dove fra mille stenti cercarono di passare il verno. Ancor questi li vedremo sterminati nell'anno seguente. Se è vero ciò che racconta Zonara [Zonaras, in Annalibus.], convien che una parte della lor flotta e gente, staccata dal grosso dell'armata, andasse a dare il guasto alla Tessalia ed Acaia. Vi fecero gran danno, ma solamente alle campagne, perchè le città erano ben munite e in guardia, e seppero ben difendersi. Tuttavia riuscì ai Barbari di prendere quella di Atene, dove raunati tutti i libri di quelle famose scuole erano per farne un falò, se un d'essi, più accorto degli altri, non gli avesse trattenuti, dicendo che perdendosi gli Ateniesi intorno a quelle bagattelle, non avrebbono badato al mestier della guerra, e più facile era il vincer essi [942] che altri popoli. Questa disavventura di Atene verisimilmente non altra è che la raccontata di sopra all'anno 267. Aggiungono gli storici, che i Barbari suddetti tornando a navigare giunsero alle isole di Creta e di Rodi, e fino in Cipri, ma senza far impresa alcuna considerabile; anzi, assaliti dalla peste, rimase estinto un buon numero di loro. Altre novità ebbe in questi tempi l'Oriente. Zenobia regina dei Palmireni, dominante nella Siria, scosso ogni rispetto ed ogni suggezione al romano imperio, rivolse i pensieri ad aggrandire il suo dominio colla conquista dell'Egitto [Zosimus, lib. 1, cap. 44.], mantenendo ivi a questo fine corrispondenza con Timagene, nobile di quel paese. Spedì colà Zabda suo generale con una armata di settantamila persone tra Palmireni e Soriani, il quale, data battaglia a cinquantamila Egiziani venutigli all'incontro, gli sbaragliò: vittoria che si tirò dietro l'ubbidienza di tutto quel ricco paese. Zabda, lasciato in Alessandria un presidio di cinque mila armati, se ne tornò in Soria. Trovavasi in quelle parti Probo o sia Probato con una flotta per dar la caccia ai corsari. Questi, udite le mutazioni dell'Egitto, verso là indirizzò le prore, ed ammassate quelle soldatesche che potè, sì dell'Egitto che della Libia, scacciò la guarnigion Palmirena da Alessandria, e fece tornar lo Egitto sotto il comando de' Romani. Ma non rallentò Zenobia gli sforzi suoi [Trebellius Pollio, in Claudio.]. Rispedì colà con nuovo esercito Zabda e Timagene, che furono sì bravamente ricevuti e combattuti da Probo e dai popoli di Egitto, che ne andarono sconfitti; ed era terminata la scena, se Probo non avesse occupato un sito presso Babilonia di Egitto, per tagliare il passo a duemila Palmireni. Ma Timagene ch'era con loro, siccome più pratico del paese, essendosi impadronito della montagna, con tal forza piombò sopra gli Egiziani, che li mise in rotta. [943] Probo par questo di sua mano si diede la morte, e l'Egitto tornò in potere di Zenobia [Joannes Malala, in Chronogr.]. Claudio Augusto, perchè impegnato nella guerra dei Goti, non poteva attendere a questi affari, siccome nè pure alle Gallie occupate da Tetrico [Eumenes, in Panegyr. Constant.], il quale in questi tempi tenne per sette mesi assediata la città di Autun che non voleva ubbidirlo, e colla forza in fine la sottomise. Al defunto papa Dionisio succedette sul principio di quest'anno Felice nella sedia di san Pietro [Blanchinius, ad Anastasium.].
Anno di | Cristo CCLXX. Indizione III. |
Felice papa 2. | |
Claudio II imperadore 3. | |
Quintillo imperadore 1. | |
Aureliano imperadore 1. |
Consoli
Antioco per la seconda volta e Orfito.
Il dirsi da me Antioco console per la seconda volta, è fondato sopra un'iscrizione da me data alla luce [Thesaurus Novus Inscript., pag. 366.], e sopra i Fasti di Teone e di Eraclio, chiamati fiorentini, ne' quali i consoli di quest'anno son chiamati Antioco per la seconda volta ed Orfito [Cuspinianus, Bucherius.]. Fu nell'anno presente prefetto di Roma Flavio Antiochiano: il che bastò al Mezzabarba [Mediobarb., in Numismat. Imper.] e al padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], per dar questo nome al console suddetto. Ma non ho io osato per questo di mutar il nome a noi somministrato dai Fasti. Il resto de' Goti [Trebellius Pollio, in Claudio. Zosimus, lib. 1, cap. 45.] che avea passato il verno fra molti patimenti nel monte Emo, e per la peste andava sempre più calando, venuta la primavera tentò di aprirsi un cammino per tornarsene al suo paese; ma essendo bloccati que' Barbari da varii corpi dell'armata [944] romana, bisognò farsi largo colle spade. Alla fanteria romana toccò l'urto loro, urto così gagliardo, che le fece voltar le spalle, e ne restarono sul campo duemila. Peggio anche andava, se non sopraggiungeva la cavalleria spedita da Claudio Augusto, che mise fine alla strage de' suoi. Furono poi cotanto incalzati i Goti dall'esercito romano, e ridotti anche a mal partito dalla peste, che, deposte l'armi, dimandarono di rendersi. Molti di essi furono arrolati nelle legioni; ad altri fu dato del terreno da coltivare; alcuni pochi restarono in armi sin dopo la morte di Claudio, di maniera che di tanta gente pochissimi furono coloro che potessero riveder le proprie contrade. Rapporta Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Claudio.] una lettera di Claudio Augusto, scritta a Brocco comandante delle armi nell'Illirico, in cui dice di aver annichilati trecento ventimila Goti, affondate duemila navi di essi, che i fiumi e i lidi erano coperti di scudi, spade e picciole lance; grande il numero de' carriaggi e delle donne prese. Per così memorabil vittoria a Claudio imperadore fu conferito il titolo di Gotico o sia Gottico [Julianus, Oratione I.], che comparisce in varie monete di lui [Goltzius et Mediobarb., in Numism. Imp.]. Dal medesimo Pollione [Trebellius Pollio, in Trigint. Tyrann., cap. 25.] abbiamo aver Claudio così ristretti gl'Isauri, da noi veduti ribellati sotto Gallieno, che già pensava d'averli colla corda al collo ai suoi piedi, e di metterli poi nella Cilicia, per togliere loro la comodità di nuove ribellioni col vantaggio dell'aspre lor montagne. Ma coloro continuarono nella rivolta, non si sa se per ostinazione di essi, ovvero per la morte sopraggiunta a Claudio. Nè pur sappiamo se a quest'anno o se all'antecedente appartenga la ribellione ed esaltazione di Censorino al trono imperiale. Costui, se crediamo a Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Censorino et Tito.] il quale è solo a parlarne, [945] due volte era stato console, due volte prefetto del pretorio, tre prefetto di Roma ed anche proconsole, consolare, legato pretorio, ec. Vecchio era e zoppo per una ferita a lui toccata nella guerra di Valeriano contra de' Persiani. Prese egli la porpora imperiale; non apparisce in qual anno; è ignoto in qual luogo, se non che quello storico nota esser egli stato ucciso dai soldati medesimi che lo aveano fatto imperadore, dopo sette giorni d'imperio, alla guisa appunto de' funghi, e che fu seppellito presso Bologna con un epitaffio, in cui si riferivano tutti i suoi onori, conchiudendo che egli era stato felice in tutto fuorchè nell'essere imperadore. Però tener si può, a mio credere, per battuta alla macchia una moneta riferita dal Mezzabarba [Mediob., in Numismat. Imperator.], dove egli è chiamato Appio Claudio Censorino, e coll'anno terzo dell'imperio. I parenti di costui duravano ai tempi di Costantino il Grande, e per odio verso Roma andarono ad abitar [Trebellius Pollio, in Censorino et Tito.] nella Tracia e nella Bitinia. Purchè s'abbia a prestar fede a Giovanni Malala [Joannes Malala, Chronogr.], che fra non poche verità a noi conservate ha mischiato molte favole, in questi tempi la regina Zenobia occupò l'Arabia, stata fin qui ubbidiente ai Romani, con uccidere il loro governatore Trasso (forse Crasso, perchè questo non par cognome romano), mentre l'imperador Claudio dimorava in Sirmio, città della Pannonia.
Quivi appunto si trovava questo Augusto, quando egli terminò colla vita il suo corto, ma glorioso imperio [Euseb., in Chron. Joannes Malala, Chronogr. Zonaras, in Annalibus.]. I Goti, da lui sì felicemente vinti, fecero le lor vendette, coll'attaccar la peste all'armata romana; e un malore sì micidiale passò alla persona del medesimo [Trebellius Pollio, in Claudio.] Claudio imperadore, e il rapì dal mondo. S'è disputato intorno al mese [946] in cui egli morì [Petavius et Noris. Pagius et alii.]. Dal Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] vien creduto morto nell'aprile di questo anno, e più verisimile a me sembra la di lui opinione. Il Noris e il Pagi, perchè si trova una legge [L. 2, tit. 23, C. de divers. rescript.] col nome di Claudio, data nel dì 26 di ottobre dell'anno presente, la qual potrebbe esser fallata, come sono tant'altre, han tenuto ch'egli circa il fine di quel mese cessasse di vivere. Certo è almeno presso gli eruditi che in quest'anno succedette la morte sua, compianta da tutti, e massimamente dal senato romano [Eutrop. Aurel. Vict. Trebellius Pollio. Zosimus.], il quale gli decretò uno scudo, o sia un busto, e una statua d'oro, che furono messi per suo onore nella curia del Campidoglio, e, secondo la folle superstizion de' pagani, se ne fece un dio. In quest'anno ancora diede fine al suo vivere Plotino [Porphyrius, in Vita Plotini.], famoso filosofo platonico, le cui opere son giunte fino a' dì nostri. Chiaramente scrive Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Claud.], che dopo la morte di Claudio fu creato imperadore Marco Aurelio Claudio Quintillo (che così il troviamo appellato nelle medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imperat.]), fratello del medesimo defunto Claudio, dimorante in Aquileia, e non già vivente Claudio, come ha creduto taluno. Questo Quintillo, che Eutropio [Eutrop., in Breviar.] dice approvato dal senato, era ben conosciuto per uomo dabbene e molto affabile, ma, secondo Zonara [Zonaras, in Annalibus.], peccava di semplicità, nè avea spalle per sì gran fardello; e però non si sa ch'egli facesse azione od impresa alcuna degna d'osservazione. Per sua disavventura avvenne che Aureliano, il più accreditato uffiziale che si trovasse nell'armata acquartierata in Sirmio, fu proclamato quasi nello stesso tempo Imperadore con universal consentimento [947] di que' soldati [Zosimus, lib. 1, cap. 47. Zonaras, in Annalibus.]. Portata questa nuova in Italia, grande strepito fece, considerando ognuno le qualità eminenti di questo eletto, superiori senza paragone a quelle di Quintillo, e la forza dell'armata che accompagnava l'elezione stessa. Da questa novità procedette la morte del medesimo Quintillo nella suddetta città d'Aquileia. Vi ha [Joannes Malala, Chronogr.] chi il dice rapito da una malattia. Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Gallieno.] con altri [Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviar.] apertamente cel rappresenta ucciso da' soldati, e Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 47.] tiene, che conoscendosi evidente la di lui caduta, i suoi stessi parenti il consigliarono a cedere con darsi la morte; al qual partito si appigliò con farsi tagliar le vene. Diciassette soli giorni di imperio a lui son dati dal suddetto Pollione, da Eutropio, Eusebio [Eusebius, in Chronic.] e Zonara [Zonaras, in Annalib.]; venti da Vopisco [Vopiscus, in Aurel.]. Zosimo scrive ch'egli regnò pochi mesi; e tante medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] restanti di lui pare che persuadano non essere stato sì breve il suo regno. Intanto è fuor di dubbio che Aureliano restò solo sul trono, ed approvato con gran plauso dal senato romano. Noi il vedremo uno de' più gloriosi ed insieme aspri imperadori; e di uomo tale avea ben bisogno allora la romana repubblica, lacerata da' suoi stessi figliuoli, e più ancora malmenata dalle potenze straniere. Nè tardò già Aureliano a mettere in esercizio il suo valore con belle imprese, le quali se fossero succedute tutte nell'anno presente, come pensò il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], non al fine di ottobre, ma all'aprile di quest'anno, si dovrebbe riferire la morte di Claudio, e l'assunzione all'imperio dello stesso Aureliano. [948] Ma il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] ne attribuisce una parte all'anno seguente; e veramente ci troviam qui sprovveduti di lumi per assegnare il preciso tempo di que' fatti: fatti nondimeno certi, de' quali mi riserbo ad esporre unitamente la serie nell'anno che viene.
Anno di | Cristo CCLXXI. Indizione IV. |
Felice papa 5. | |
Aureliano imperadore 2. |
Consoli
Lucio Domizio Aureliano Augusto e Basso per la seconda volta.
Il padre Pagi, il Relando ed altri ci danno Aureliano imperadore console per la seconda volta, ma con fondamenti poco stabili, a mio credere. Si suppone che Aureliano nell'anno 259 fosse console sostituito; e di questo niuna certezza apparisce. Sono citate due iscrizioni; l'una ligoriana, pubblicata dal Reinesio [Reinesius, Inscription., pag. 387.], e l'altra data alla luce dal Relando [Reland., in Fast. Consul.], e presa dal Gudio; cioè due monumenti che patiscono varie eccezioni, e vengono da fonti che non possono servire a darci limpida e sicura la verità. All'incontro tutti i Fasti consolari antichi ci presentano sotto l'anno corrente Aureliano console, ma senza la nota del consolato secondo. Altrettanto troviamo nelle iscrizioni di questo o de' seguenti anni, tutte conformi in mettere questo pel primo consolato di Aureliano. Una anch'io ne ho prodotta [Thesaurus Novus Inscript., pag. 367, n. 1.] non diversa dalle altre. Pomponio Basso fu creduto dal Panvinio [Panvin., in Fast. Consul.] il secondo console, perchè sotto Claudio si truova un riguardevol senatore di questo nome: conghiettura troppo debole. Dai susseguenti illustratori de' Fasti vien egli chiamato Numerio o pur Marco Ceionio Virio Basso; ma con aver succiato [949] nomi tali dalle due suddette non affatto sicure iscrizioni. Per altro si truova un Ceionio Basso [Vopiscus, in Aurelian.], a cui Aureliano scrisse una lettera, ma senza segno ch'egli fosse stato console. Il perchè a maggior precauzione non l'ho io appellato se non col solo cognome di Basso. L'imperador novello Aureliano nelle monete [Mediobarb., in Numismat. Imper.] parlanti di lui vien chiamato Lucio Domizio Aureliano. Si può dubitare che sia un fallo in alcune l'esser chiamato Claudio Domizio Aureliano, e che in vece d'IMP. CL. DOM., ec., s'abbia a leggere IMP. C. L. DOM., cioè Cesare Lucio, ec., come nell'altre. Il cardinal Noris e il padre Pagi credettero che la vera sua famiglia fosse la Valeria, perchè, scrivendogli una lettera Claudio imperadore, il chiama Valerio Aureliano, e nell'iscrizione ligoriana, che dissi pubblicata dal Reinesio, egli porta il medesimo nome. Ma se fosse guasto il testo di Vopisco [Vopiscus, in Aurelian.]? Poichè quanto a quella iscrizione, torno a dire ch'essa non è atta a decidere le controversie. Tanto nelle medaglie che nelle antiche iscrizioni, altro nome, siccome dissi, non vien dato a questo imperadore, che quello di Lucio Domizio Aureliano, e a questo conviene attenersi. E se altri [Stampa, ad Fast. Consul.] il chiama Flavio Claudio Valerio, non v'è obbligazione di seguitarlo. Non ebbe difficoltà Vopisco di confessare che Aureliano sortì nascita bassa ed oscura nella città di Sirmio, ovvero nella Dacia Ripense. Ma si fece egli largo colla sua prudenza e valore nella milizia, e di grado in grado salendo, sempre più guadagnò di plauso e di credito. Bello era il suo aspetto, alta la statura, non ordinaria la robustezza. Nel bere, mangiare e in altri piaceri del corpo, in lui si osservava una gran moderazione [Vopiscus, in Aurelian.]. La sua severità e il rigore nella militar disciplina, quasi andava all'eccesso. Denunziato a [950] lui un soldato che avea commesso adulterio colla moglie del suo albergatore, ordinò che si piegassero due forte rami d'un albero, all'un de' quali fosse legato l'un piede del delinquente, e l'altro all'altro, e che poi si lasciassero andare i rami. Lo spettacolo di quel misero spaccato in due parti gran terrore infuse negli altri. Ebbe principio la fortuna sua sotto Valeriano Augusto; Gallieno ne mostrò altissima stima; e più di lui Claudio. In varie cariche militari riportò vittorie contra de' Franchi, de' Sarmati, de' Goti. Teneva mirabilmente in briglia le sue soldatesche, e, ciò non ostante, sapea farsi amare dalle medesime. Merita d'essere qui rammentata una lettera di lui, scritta ad un suo luogotenente, ove dice: Se vuoi essere tribuno, anzi, se t'è caro di vivere, tieni in dovere le mani de' soldati. Niun d'essi rapisca i polli altrui, niuno tocchi le altrui pecore. Sia proibito il rubar le uve, il far danno ai seminati, e l'esigere dalla gente olio, sale e legna, dovendo ognuno contentarsi della provvisione del principe. Si hanno i soldati a rallegrar del bottino fatto sopra i nemici, e non già delle lagrime de' sudditi romani. Cadauno abbia l'armi sue ben terse, le spade ben aguzze ed affilate, e le scarpe ben cucite. Alle vesti fruste succedono le nuove. Mettano la paga nella tasca, e non già nell'osteria. Ognun porti la sua collana, il suo anello, il suo bracciale, e nol venda o giuochi. Si governi e freghi il cavallo, ed il giumento per le bagaglie; e così ancora il mulo comune della compagnia; e non si venda la biada lor destinata. L'uno all'altro presti aiuto, come se fosse un servo. Non han da pagare il medico. Non gettino il danaro in consultar indovini. Vivano costantemente negli alloggi, e se attaccheran lite, loro non manchi un regalo di buone bastonate. Bene sarebbe che alcun generale od uffiziale de' nostri tempi studiasse questa sì lodevol lezione, saputa dai gentili, e talvolta ignorata [951] dai cristiani. Moglie di Aureliano imperadore fu Ulpia Severina, la quale non si sa che procreasse altro che una figliuola, i cui discendenti viveano a' tempi di Vopisco.
Ora da che fu creato imperadore Aureliano, se dice il vero Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 48.], egli sen venne a Roma, e, dopo aver quivi bene assicurata la sua autorità, di colà mosse, e per la via d'Aquileia passò nella Pannonia, che era gravemente infestata dagli Sciti, o sia dai Goti. Mandò innanzi ordine che si ritirassero nelle città e ne' luoghi i viveri e i foraggi, affinchè la fame fosse la prima a far guerra ai nemici. Comparvero, ciò non ostante, di qua dal Danubio i Barbari, e bisognò venire ad un fatto d'armi. Senza sapersi chi restasse vincitore, la sera separò le armate, e fatta notte, i nemici si ritirarono di là dal fiume. La seguente mattina ecco i loro ambasciatori ad Aureliano per trattar di pace. Se la concludessero, nol dice Zosimo: e sembra che no, perchè partito Aureliano, e lasciato un buon corpo di gente in quelle parti, furono alcune migliaia di que' Barbari tagliate a pezzi. Il motivo per cui si mise in viaggio Aureliano, fu la minaccia de' popoli, che Vopisco [Vopiscus, in Aurelian.] chiama Marcomanni, e Desippo [Dexippus, de Legat., tom. I Hist. Byzantin.] storico Giutunghi, di calare in Italia; se pur de' medesimi fatti e popoli parlano i suddetti due scrittori. Secondo Desippo, Aureliano, portatosi al Danubio contro ai Giutunghi Sciti, diede loro una sanguinosa rotta; e, passato anche il Danubio, fu loro addosso, e ne fece un buon macello, talmente che i restanti mandarono deputati ad Aureliano per chieder pace. Fece Aureliano metter in armi e in ordinanza il suo esercito, e per dare a quei Barbari una idea della grandezza romana, vestito di porpora andò a sedere in un alto trono [952] in mezzo del campo, con tutti gli uffiziali a cavallo, divisi in più schiere intorno a lui, e colle bandiere ed insegne, portanti l'aquile d'oro e le immagini del principe poste in fila dietro al suo trono. Parlarono que' deputati con gran fermezza, chiedendo la pace, ma non da vinti; rammentando allo imperadore ch'erano giornaliere le fortune e sfortune nelle guerre; ed esaltando la loro bravura, giunsero a dire d'aver quaranta mila cavalieri della sola nazion de' Giutunghi, ed anche maggior numero di fanti, e d'esser nondimeno disposti alla pace, purchè loro si dessero i regali consueti, e quell'oro ed argento che si praticava prima d'aver rotta la pace. Aureliano con gravità loro rispose, che dopo aver eglino col muover guerra mancato ai trattati, non conveniva loro il dimandar grazie e presenti; e toccare a lui, e non a loro, il dar le condizioni della pace; che pensassero a quanto era avvenuto ai trecento mila Sciti, o Goti, che ultimamente aveano osato molestar le contrade dell'Europa e dell'Asia; e che i Romani non sarebbono mai soddisfatti, se non passavano il Danubio, per punirli nel loro paese. Con questa disgustosa risposta furono rimandati quegli ambasciatori. Per attestato del medesimo Desippo [Dexippus, de Legat., tom. I Hist. Byzantin.], autore poco lontano da questi tempi, anche i Vandali mossero guerra al romano imperio, gente anche essi della Tartaria; ma una gran rotta loro data dall'esercito fece ben tosto smontare il loro orgoglio, ed inviar ambasciatori ad Aureliano per far pace e lega. Volle Aureliano udire intorno a ciò il parere dell'armata; e la risposta generale fu, che avendo que' Barbari esibite condizioni onorevoli, ben era il finir quella guerra. Così fu fatto. Diedero i Vandali gli ostaggi all'imperadore, e due mila cavalli ausiliarii all'armata romana; gli altri se [953] ne tornarono alle loro case con quiete. E perchè cinquecento d'essi vennero dipoi a bottinar nelle terre romane, il re loro, per mantenere i patti, li fece tutti mettere a fil di spada.
Mentre si trovava Aureliano impegnato contra d'essi Vandali, ecco giugnergli nuova che una nuova armata di Giutunghi era in moto verso l'Italia. Mandò egli innanzi la maggior parte dell'esercito suo, e poscia col resto frettolosamente anch'egli marciò per impedire la lor calata; ma non fu a tempo. Costoro più presti di lui penetrarono in Italia, e recarono infiniti mali al distretto di Milano. Vopisco [Vopiscus, in Aurelian.] li chiama Svevi, Sarmati, Marcomanni, e si può temere che sieno confuse le azioni, e replicate le già dette di sopra. Comunque sia, per le cose che succederono, convien dire che non fossero lievi le forze e il numero di costoro. E si sa che, avendo voluto Aureliano con tutto il suo sforzo assalire que' Barbari verso Piacenza, costoro si appiattarono nei boschi, e poi verso la sera si scagliarono addosso ai Romani con tal furia, che li misero in rotta e ne fecero sì copiosa strage, che si temè perduto l'imperio. In oltre si sa che questi loro pregressi tal terrore e costernazione svegliarono in Roma, che ne seguirono varie sedizioni, le quali, aggiunte agli altri guai, diedero molta apprensione e sdegno ad Aureliano. Scrisse egli allora al senato, riprendendolo perchè tanti riguardi, timori e dubbii avesse a consultar i libri sibillini in occasione di tanta calamità e bisogno, quasi che (son parole della sua lettera) essi fossero in una chiesa di cristiani, e non già nel tempio di tutti gli dii. Il decreto di visitare i libri d'esse Sibille fu steso nel dì 11 di gennaio, cioè, secondo il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.], nel gennaio dell'anno presente. Ma non può mai stare che Aureliano, come pensa il medesimo Pagi, fosse [954] creato imperadore in Sirmio sul principio di novembre dell'anno prossimo passato, e che egli venisse a Roma, tornasse in Pannonia, riportasse vittorie in più luoghi al Danubio, e dopo aver seguitato gli Alamanni, o vogliam dire i Marcomanni e Giutunghi, mandasse gli ordini suddetti a Roma: il tutto in due soli mesi. Chi sa come gl'imperadori non marciavano per le poste, ma con gran corte, guardie e milizie, conosce tosto che di più mesi abbisognarono tante imprese. Però convien dire che Aureliano, siccome immaginò il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], fu creato imperadore nello aprile dell'anno precedente, in cui fece più guerre; o pure che la calata in Italia dei Barbari appartiene all'anno presente, per la qual poi nel dì 11 di gennaio dell'anno susseguente vennero consultati in Roma i libri creduti delle Sibille, nei quali si trovò che conveniva far molti sacrifizii crudeli, processioni ed altre cerimonie praticate dalla superstizion de' pagani. A noi basterà, giacchè non possiamo accertare i tempi di questi sì strepitosi avvenimenti, che si rapporti il poco che sappiamo della continuazione e del fine di tal guerra, tutto di seguito. Abbiamo da Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] (perchè Vopisco qui ci abbandona) che Aureliano in tre battaglie fu vincitore dei Barbari. L'una fu a Piacenza, che dee essere diversa dalla raccontata da Vopisco: altrimenti l'un d'essi ha fallato. La seconda fu data in vicinanza di Fano e del fiume Metauro, segno che la giornata di Piacenza era stata favorevole ai Barbari, per essersi eglino inoltrati cotanto verso Roma. La terza nelle campagne di Pavia, che dovette sterminar affatto questi Barbari turbatori della pace d'Italia: con che ebbe felice fine questa guerra. Allora Aureliano mosse alla volta di Roma i suoi passi, non per portarvi l'allegrezza d'un trionfo, ma per farvi sentire la [955] sua severità, anzi crudeltà. Imperocchè [Vopiscus, in Aurel.], pien di furore per le sedizioni che nate ivi dicemmo, con voce che fossero state tese insidie [Zosimus, lib. 1, cap. 49.] a lui stesso e al governo, condannò a morte gli autori di quelle turbolenze. Vopisco, tuttochè suo panegirista, confessa che egli troppo aspra e rigorosa giustizia fece. E tanto più ne fu biasimato, perchè non perdonò nè pure ad alcuni nobili senatori, fra' quali Epitimio, Urbano e Domiziano; ancorchè di poco momento fossero, e meritassero perdono alcuni loro reati, e questi anche fondati nella accusa di un sol testimonio. Prima era forse amato Aureliano; da lì innanzi cominciò ad essere solamente temuto; e la gente dicea, non altro essere da desiderare a lui che la morte, e ch'egli era un buon medico, ma che con mal garbo curava i malati. Anche Giuliano Augusto [Julianus, de Caesarib.] Apostata l'accusa di una barbarica crudeltà, ed Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] con Eutropio [Eutrop., in Breviar.] cel rappresenta come uomo privo di umanità e sanguinario, avendo egli levato di vita fino un figliuolo di sua sorella. Tal sua barbarie pretende Ammiano [Ammianus Marcellinus, lib. 30 Histor.] che si stendesse sotto varii pretesti, spezialmente sopra i ricchi, affine d'impinguar l'erario, restato troppo esausto per le pazzie di Gallieno; e in tal opinione concorre anche Vopisco [Vopiscus, in Aurelian.]. Fu in questi tempi che Aureliano, considerata l'avidità dei Barbari, già scatenati contra dell'imperio romano [Idem, ibidem.], col consiglio del senato prese la risoluzione di rifabbricar le mura rovinate di Roma, per poterla difendere in ogni evento di pericoli e guerre. Idacio [Idacius, in Chronic.] ne fa menzione sotto questo anno. Ma Eusebio [Euseb., in Chronic.], Cassiodoro [Cassiodorus, in Chronico.] [956] ed altri mettono ciò più tardi. Nella Cronica Alessandrina solamente se ne parla all'anno seguente. Con questa occasione certo è che Aureliano ampliò il circuito di Roma, scrivendo Vopisco che il giro d'essa città arrivò allora a cinquanta miglia; opera sì grande nondimeno, secondo Zosimo, fu solamente terminata sotto Probo Augusto.
Anno di | Cristo CCLXXII. Indizione V. |
Felice papa 4. | |
Aureliano imperadore 3. |
Consoli
Quinto e Veldumiano o sia Veldumniano.
Domati i Barbari, e restituita la tranquillità all'Italia, due altre importantissime imprese restavano da fare allo Augusto Aureliano. Tetrico occupava le Gallie e le Spagne. Zenobia regina dei Palmireni quasi tutte o tutte le provincie dell'Oriente occupava, ed anche l'Egitto. Per varii motivi antepose Aureliano all'altra la spedizion militare contro a Zenobia. Questa principessa, che s'intitolava regina dell'Oriente, una delle più rinomate donne dell'antichità, si trova chiamata in alcune medaglie [Spanhemius, de Usu et Praestant. Numismat. Patinus, Num. Mediob., Numismat. Imp.], che si suppongono vere, Settimia Zenobia Augusta, quasichè ella discendesse dalla famiglia di Settimio Severo Augusto; quando essa, secondo Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Trig. Tyrann., c. 29.], vantava di discendere dalla casa di Cleopatra e dei re Tolomei. Santo Atanasio [Athanasius, in Histor.] pretese ch'ella seguitasse la religion de' Giudei, e favorisse per questo l'empio Paolo Samosateno; e da Malala [Johannes Malala, in Chronogr.] vien detta regina de' Saraceni. Scrive il suddetto storico Pollione che in lei si ammirava una bellezza incredibile, un spirito divino. Neri e vivacissimi i suoi occhi, il colore fosco; non denti, ma perle pareano ornarle la bocca; [957] la voce soave e chiara, ma virile. Al bisogno uguagliava i tiranni nella severità: superava nel resto la clemenza de' migliori principi. Contro il costume delle donne sapeva conservare i tesori, ma non lasciava di far risplendere la sua liberalità, ove lo richiedesse il dovere. Nel portamento e ne' costumi non cedeva agli uomini, rade volte uscendo in carrozza, spesso a cavallo, e più spesso facendo le tre o quattro miglia a piedi, siccome persona allevata sempre nelle caccie. Da Odenato suo marito, che già dicemmo ucciso, non riceveva le leggi, ma a lui le dava. Prese bensì da lui il titolo di Augusta, dacchè egli fu dichiarato Augusto, e portava l'abito imperiale, a cui aggiunse anche il diadema. Non sì tosto s'accorgeva essa d'esser gravida, che non volea più commercio col marito. Il suo vivere era alla persiana, cioè con singolar magnificenza, e volea essere inchinata secondo lo stile praticato coi re persiani. A parlare al popolo iva armata di corazza; pranzava sempre coi primi uffiziali della sua armata, usando piatti d'oro e gemmati. Poche fanciulle, molti eunuchi teneva al suo servigio; e l'impareggiabil sua castità, tanto da maritata che da vedova, veniva decantata dappertutto. Aureliano stesso in una lettera al senato [Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., c. 29.] ne parla con elogio, dicendo ch'essa non parea donna: tanta era la di lei prudenza ne' consigli, la fermezza nell'eseguir le prese risoluzioni, e la gravità con cui parlava ai soldati, di modo che non meno i popoli dell'Oriente e dell'Egitto, a lei divenuti sudditi, che gli Arabi, i Saraceni e gli Armeni non osavano di disubbidirla, o di voltarsi contro di lei: tanta era la paura che ne aveano. A lei anche in buona parte si attribuivano le gloriose azioni del fu Odenato suo marito contro ai Persiani. Nè già le mancava il pregio delle lingue e della letteratura. Oltre al suo nativo linguaggio [958] fenicio o saracenico, perfettamente possedeva l'egiziano, il greco e il latino, ma non s'arrischiava a parlare questo ultimo. Ebbe per maestro nel greco il celebre Longino filosofo, di cui resta un bel trattato del Sublime, e la cui morte vedremo fra poco. Fece imparare a' suoi figliuoli il latino sì fattamente, che poche volte e con difficoltà parlavano il greco. Sì pratica fu della storia dell'Oriente e dell'Egitto, che si crede che ne formasse un compendio. Al suo marito Odenato ella avea partorito tre figliuoli, cioè Herenniano, Timolao e Vaballato, a' quali dopo la morte del padre ella fece prendere la porpora imperiale e il titolo d'Augusti; ma perchè erano di età non per anche capace di governo, essa in nome loro governava gli Stati. Un altro figliuolo ebbe Odenato da una sua prima moglie, chiamato Erode o pure Erodiano [Goltzius. Tristanus. Mediob., in Numism. Imper.], che si trova nelle medaglie (non so se tutte legittime) col titolo di Augusto, a lui dato dal padre, come anche afferma Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., c. 29.]. Per cagione dell'esaltazion di questo suo figliastro, fama era che Zenobia avesse fatto morire lui e il marito Odenato, siccome accennai di sopra. Una tal testa, benchè di donna, signoreggiante dallo stretto di Costantinopoli fino a tutto l'Egitto, ed assistita da molti dei suoi vicini, potea dar suggezione ad ogni altro potentato, ma non già ad Aureliano imperadore, che pel suo coraggio e saggio contegno, teneva sempre le vittorie in pugno.
S'inviò dunque Aureliano da Roma con possente esercito verso l'Oriente per la strada solita di que' tempi, cioè per terra alla volta di Bisanzio, pel cui stretto si passava in Asia. Ma prima di giugnervi, egli nettò [Vopiscus, in Aurel.] l'Illirico, e poi la Tracia da tutti i nemici del romano imperio, ch'erano tornati ad infestar [959] quelle provincie. Scrive Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] che a' tempi d'esso Aureliano un certo Settimio nella Dalmazia prese il titolo d'imperadore, e da lì a poco ne pagò la pena, ammazzato da' suoi proprii soldati. Quando ciò avvenisse, nol sappiamo. Per attestato bensì di Vopisco, Aureliano, perchè Cannabaude re e duca dei Goti dovea aver commesso delle insolenze nel paese romano, passato il Danubio, l'andò a ricercar nelle terre di lui; e datagli battaglia, lo uccise insieme con cinque mila di que' Barbari combattenti. Probabilmente fu in questa congiuntura ch'egli prese la carretta di quel re, tirata da quattro cervi, su cui poscia entrò a suo tempo trionfante in Roma, siccome diremo. Furono trovate nel campo barbarico molte donne estinte vestite da soldati, e prese dieci di esse vive. Molte altre nobili donne di nazione gotica rimasero prigioniere [Vopiscus, in Bonoso.], che Aureliano mandò dipoi a Perinto, acciocchè ivi fossero mantenute alle spese del pubblico, non già cadauna in particolare, ma sette insieme, acciocchè costasse meno alla repubblica. Sbrigato da questi affari, marciò Aureliano a Bisanzio, e passato lo stretto, al solo suo comparire ricuperò Calcedone e la Bitinia, che Zenobia avea sottomesso al suo imperio. Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 50.] nondimeno asserisce aver la Bitinia scosso il giogo de' Palmireni, fin quando udì esaltato al trono Aureliano. Ancira nella Galazia sembra aver fatta qualche resistenza: certo è nondimeno che Aureliano se ne impadronì. Giunto poscia che egli fu a Tiana, città della Cappadocia [Vopiscus, in Bonoso.], vi trovò le porte serrate e preparato quel popolo alla difesa. Dicono che Aureliano in collera gridasse: Non lascerò un cane in questa città. Vopisco, grande ammiratore del morto Apollonio, filosofo celebre, anzi mago, nativo di quella città, di cui tanto [960] egli come altri antichi raccontano varie maraviglie, cioè molte favole, e che era tenuto da que' popoli per un dio: Vopisco, dico, racconta ch'esso Apollonio comparve in sogno ad Aureliano, e lo esortò alla clemenza, se gli premeva di vincere: parole che bastarono a disarmare il di lui sdegno. Venne poi a trovarlo al campo Eraclammone, uno dei più ricchi cittadini di Tiana, sperando di farsi gran merito, col tradire la patria, e gl'insegnò un sito per cui si poteva entrare nella città. Fu essa, mercè di questo avviso, presa con facilità; e quando ognun si aspettava di darle il sacco, e di farne man bassa contro gli abitanti, Aureliano ordinò che fosse ucciso il solo traditore Eraclammone, con dire che non si potea sperar fedeltà da chi era stato infedele alla sua patria; ma lasciò godere ai di lui figliuoli tutta la eredità paterna, affinchè non si credesse che lo avesse fatto morire per cogliere le molte di lui ricchezze. Ricordata ad Aureliano la parola detta di non lasciare un cane in Tiana: Oh, rispose, ammazzino tutti i cani, che ne son contento: risposta applaudita fin dai medesimi soldati, benchè contraria alla lor brama e speranza del sacco.
Se crediamo a Vopisco [Vopiscus, in Aurelian.], Aureliano, continuato il cammino, arrivò ad Antiochia, capitale della Soria, e dopo una leggiera zuffa al luogo di Dafne, entrò vittorioso in quella gran città; e ricordevole dell'avvertimento datogli in sogno da Apollonio Tianeo, usò di sua clemenza anche verso di que' cittadini. Passando dipoi ad Emesa, città della Mesopotamia, quivi con una fiera battaglia decise le sue liti con Zenobia. Ma Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 50.] diversamente scrive. Zenobia con grandi forze lo aspettò di piè fermo in Antiochia, e mandò incontro a lui la poderosa armata sua sino ad Imma, città molte miglia distante di là. Gran copia di arcieri si contava nello [961] esercito di lei, e di questi penuriava quel de' Romani. Avea inoltre Zenobia la sua numerosa cavalleria armata tutta da capo a' piedi, laddove la romana non era composta se non di cavalli leggieri. Aureliano, mastro di guerra, osservato lo svantaggio, ordinò alla sua cavalleria di mostrar di fuggire, tantochè la nemica in seguitarli si trovasse assai stanca pel peso dell'armi, e che poi voltassero faccia, e menassero le mani. Così fu fatto, e seguì un'orribile strage dei Palmireni. Eusebio [Eusebius, in Chronic.] scrive che si segnalò in quella gran battaglia un generale de' Romani, appellato Pompeiano e cognominato il Franco, la cui famiglia durava in Antiochia anche a' suoi dì. Non osavano i fuggitivi di portarsi ad Antiochia [Zosimus, lib. 1, cap. 50.], per timore di non essere ammessi, o pur di essere tagliati a pezzi da' cittadini, se si accorgevano della rotta lor data; ma Zabda, o sia Zaba, lor generale, preso un uomo che si rassomigliava ad Aureliano, e fatta precorrer voce che conduceva prigioniere lo imperadore stesso, trovò aperte le porte, e quietò il popolo. La notte seguente poi con Zenobia s'incamminò alla volta di Emessa. Entrò il vincitore Aureliano in Antiochia, ricevuto con alte acclamazioni da quegli abitanti, e perchè parecchi de' più facoltosi si erano ritirati per paura dello sdegno imperiale, Aureliano pubblicò tosto un bando di perdono a tutti; e questa sua benignità fece ripatriar di buon grado ciascuno. Dopo aver dato buon ordine agli affari di Antiochia, ripigliò Aureliano il suo viaggio verso Emesa, dove s'era ridotta Zenobia. Trovato presso Dafne un corpo di Palmireni che voleano disputargli il passo, ne uccise un gran numero. Apamea, Larissa ed Aretusa nel viaggio vennero alla sua ubbidienza [Vopiscus, in Aurel. Zosim., lib. 1, cap. 52.]. Consisteva tuttavia l'armata di Zenobia in settanta mila combattenti sotto il comando [962] di Zabda. Si venne dunque ad una altra campale giornata, che sulle prime fu o parve svantaggiosa ai Romani, perchè parte della lor cavalleria o per forza o consigliatamente piegò. Ma mentre la inseguivano i Palmireni, la fanteria romana di fianco gli assalì, e ne fece gran macello, non giovando loro l'essere tutti armati di ferro, perchè i Romani colle mazze li tempestavano e rovesciavano a terra. Piena di cadaveri restò quella campagna. Zenobia con gran fretta se ne fuggì, ritirandosi a Palmira; ed Aureliano fu ricevuto con plauso giulivo in Emesa, dove rendè grazie al dio Elagabalo, creduto autore di quella vittoria; e dopo aver presi e vagheggiati con piacere i tesori che Zenobia non avea avuto tempo di asportare, marciò con diligenza alla volta di Palmira, città fabbricata da Salomone ne' deserti della Soria, o sia della Fenicia, ed assai ricca pel commercio che faceva co' Romani e Persiani. Nel cammino fu più volte in pericolo, e riportò gravi danni l'armata sua dagli assassini soriani. Pur, giunto a Palmira, la strinse d'assedio. S'egli in questo o pur nel seguente anno riducesse a fine sì grande impresa, per mancanza di lumi non si può ora decidere. Sia lecito a me il differirne il racconto al seguente.
Anno di | Cristo CCLXXIII. Indizione VI. |
Felice papa 5. | |
Aureliano imperadore 4. |
Consoli
Marco Claudio Tacito e Placidiano.
A Tacito primo console in quest'anno, perchè vien comunemente creduto lo stesso che vedremo poi imperadore, gl'illustratori de' Fasti danno il nome di Marco Claudio. Benchè vi possa restar qualche dubbio, pure io mi son lasciato condurre dalla corrente. L'assedio di Palmira, siccome dicemmo, fu impreso da Aureliano con gran calore; [963] ma non erano men riguardevoli i preparamenti per la difesa [Vopiscus, in Aurel. Zosimus, lib. 1, c. 54.]. Stava ben provveduta quella città di freccie, pietre, macchine e d'altri strumenti da guerra e da lanciar fuoco sopra i nemici, siccome ancora di viveri, quando all'incontro uomini e bestie dell'armata romana niuna sussistenza trovavano in quella spelata campagna, piena solo di sabbia. Oltre a ciò, aspettava Zenobia soccorso da' Persiani, Armeni e Saraceni, di maniera che si ridevano gli assediati delle sgherrate degli assedianti. Ma Aureliano supplì al bisogno dell'armata per conto delle provvisioni, facendone venire al campo da tutte le vicinanze; nè lasciava indietro forza e diligenza alcuna per vincere quella sì ben guernita città. Maggiormente crebbe l'izza e la picca sua, perchè avendo sui principii scritto a Zenobia, comandandole imperiosamente di rendersi, con esibirle comodo mantenimento, dove il senato l'avesse messa, e con promettere salvo ogni diritto de' Palmireni, Zenobia gli diede una insolente risposta, con intitolarsi regina d'Oriente, anteporre il suo nome a quello dell'imperadore, e mostrar fiducia di fargli calar l'orgoglio coi soccorsi ch'ella aspettava [Zosimus, lib. 1, cap. 55.]. Vennero in fatti gli aiuti a lei promessi da' Persiani; ma Aureliano tagliò loro la strada, e gli sbandò. Vennero anche le schiere de' Saraceni e degli Armeni; ma egli, parte col terrore, parte coi danari le indusse a militar nell'esercito suo. Contuttociò un'ostinata difesa fecero gli assediati, con beffar eziandio ed ingiuriar i Romani. Un di coloro, vedendo un dì l'imperadore, il caricò di villanie. Allora un arciere persiano si esibì di rispondergli, e gli tirò così aggiustatamente uno strale, che colpitolo il fece rotolar morto giù dalle mura. Intanto veggendo Zenobia che a Palmira s'assottigliava la vettovaglia, stimò meglio di ritirarsi sulle terre de' Persiani; ma fuggendo [964] sopra dei dromedarii, fu presa per via dai cavalieri che le spedì dietro Aureliano, e prigioniera fu a lui condotta. Grande strepito ed istanza fecero i soldati perchè egli castigasse colla morte la superbia di costei; ma Aureliano non volle la vergogna di aver uccisa una donna, e donna tale. La città dipoi ridotta all'agonia, dimandò ed ottenne qualche capitolazione. V'entrò Aureliano, e perdonò al popolo, ma non già ai principali, creduti consiglieri di Zenobia, a' quali, come a seduttori ed autori di tanti mali, levò la vita. Fra questi fu compreso [Vopiscus, in Aurelian. Zosimus, l. 1, c. 56.] Longino, celebre filosofo e sofista, e maestro o segretario della medesima, convinto di aver egli dettata l'albagiosa ed insolente risposta che Zenobia avea data alla lettera di Aureliano. Soffrì Longino con tal fortezza la morte, ch'egli stesso consolava gli amici venuti a deplorar la di lui sciagura. Perdonò anche Aureliano, per quanto si crede, a Vaballato, uno de' figliuoli di Zenobia; e truovasi una medaglia [Tristan., et Mediobarb., in Numism. Imp.], in cui si legge il suo nome col titolo di Augusto, e nell'altra parte quello di Aureliano Augusto. Quando sia vera (del che si può dubitare), sarà stata battuta in uno dei precedenti anni, e prima della soprascritta tragedia. Di Herenniano e Timolao, due altri figliuoli di Zenobia, non si sa ben qual fosse la sorte loro. Zosimo parla d'un solo figliuolo di Zenobia, condotto in prigionia colla madre. Vopisco, all'incontro, scrive che Zenobia sopravvisse molto tempo cum liberis nelle vicinanze di Roma. Questo si può intendere anche di figlie, che certo essa ne avea; ma Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, in Trig. Tyrann., c. 23.] c'insegna che Zenobia co' suoi due figliuoli minori Herenniano e Timolao fu condotta in trionfo a Roma. Fu poi di parere esso Zosimo che Zenobia nell'esser condotta in Europa, o per malattia, o per non voler prender cibo, [965] morisse per istrada, vinta dal dolore della mutata fortuna; o per non soffrire la vergogna d'essere condotta in trionfo. Merita ben qui fede Vopisco, il quale più vicino a questi tempi ci assicura ch'ella giunse a Roma, e visse molto dipoi, come dirò all'anno seguente. Anche Giovanni Malala [Joannes Malala, Chronogr.] attesta che l'infelice principessa comparve nel trionfo romano di Aureliano, fallando solamente nell'aggiugnere che le fu dipoi tagliato il capo. Zonara [Zonaras, in Annalib.] rapporta su questo varie opinioni. Possiamo ben poi credere a Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 56.], allorchè racconta avere Aureliano spogliata Palmira di tutte le sue ricchezze, senza rispettar nè pure i templi: il che fatto, si rimise in cammino, e tornò ad Emesa [Vopiscus, in Aurelian.], dove forse il trovarono le ambascerie de' Saraceni, Blemmii, Assomiti, Battriani, Seri (creduti i Cinesi), Iberi, Albani, Armeni ed Indiani, che gli portarono dei suntuosi regali. Trattò con superbia e fierezza i Persiani, gli Armeni e i Saraceni, perchè aveano prestato aiuto a Zenobia.
Rimesso dunque in pace l'Oriente Aureliano passò lo stretto di Bisanzio per tornarsene a Roma, menando seco Zenobia e i di lei figliuoli [Zosimus, lib. 1, cap. 60. Vopiscus, ibid.]. Informato che i popoli carpi aveano fatta un'incursione nella Tracia, andò a trovarli e li disfece: e perciò il senato romano, che gli avea già accordato i titoli di Gotico, Sarmatico, Armeniaco, Partico ed Adiabenico, il nominò ancora Carpico. Se ne rise Aureliano, e scrisse loro che si aspettava ormai d'esser anche intitolato Carpiscolo, nome significante una sorta di scarpe, e da cui poscia è a noi venuto il medesimo nome di scarpa. Ma eccoti arrivargli avviso che i Palmireni s'erano ribellati, con aver tagliato a pezzi Sandarione, e secento arcieri lasciati ivi [966] di presidio. Con tal sollecitudine tornò egli indietro, che all'improvviso arrivò ad Antiochia, e spaventò quel popolo, intento allora a' giuochi equestri. Aveano tentato i Palmireni d'indurre Marcellino, governatore della Mesopotamia e di tutto l'Oriente, a prendere il titolo di Augusto. Gli andò egli tenendo a bada, ed informando intanto di tutto Aureliano; ma coloro, non vedendo risoluzione di lui, dichiararono poi imperadore un certo appellato Achilleo da Vopisco, Antioco da Zosimo. Giunse Aureliano a Palmira quando men sel pensavano, e presa quella città senza colpo di spada, fece mettere a fil di spada tutto quel popolo, uomini, donne, fanciulli e vecchi, con furore d'inudita crudeltà, benchè poi, tornato in sè stesso, scrivesse a Ceionio Basso di perdonare a quei che restavano in vita. Zosimo pretende che egli per isprezzo non facesse morire quel ridicolo imperadore creato dai Palmireni. Ordinò egli ancora che si ristabilisse come prima il tempio del Sole messo a sacco dai soldati, deputando a tal effetto buona somma d'oro e d'argento. Del resto fece spianare quella città, le cui rovine, visitate a' tempi nostri dagli eruditi inglesi, ritengono ancora molti vestigii dell'antica lor maestà. Già dicemmo che Zenobia nelle sue prosperità avea usurpato al romano imperio l'Egitto. Ora Aureliano, mentre nell'anno addietro faceva a lei la guerra in Oriente, spedì Probo [Vopiscus, in Probo.], il qual fu poi imperadore, con delle soldatesche, per ricuperar quella ricca ed importantissima provincia. Nel primo combattimento sbaragliò Probo i nemici: nel secondo ebbe la peggio: ma, ripigliate le forze, tanto si adoperò, che mise quella nobil contrada sotto il comando de' Romani, ed aiutò poi Aureliano a ripigliar l'Oriente nel resto della guerra coi Palmireni. Pareva dopo ciò che l'Egitto avesse da goder pace, quando un Marco [967] Firmo, o Firmio, nativo di Seleucia [Vopiscus, in Firmo.], amico di Zenobia non ancor vinta, prese il titolo d'Augusto e d'imperadore, come, secondo Vopisco, appariva dalle medaglie battute di lui, alcuna delle quali si crede che resti tuttavia [Goltzius, et Spanhemius, in Numism. Imp.]. Possedeva costui molte ricchezze, e massimamente nell'Egitto, dove, fra l'altre cose, tanta carta, chiamata papiro, si fabbricava ne' suoi beni, ch'egli si vantava di poter mantenere col solo papiro e colla, adoperata in formar la carta, un esercito. Teneva corrispondenza costui coi Blemmii e Saraceni, e mandava alle Indie navi a trafficare. Impadronitosi dunque costui di Alessandria e dell'Egitto, aiutò, per quanto potè, Zenobia; ma caduta essa, cadde anche egli. Aureliano non già in persona, a mio credere, andò, ma spedì colà parte della armata, che sconfisse Firmo, e dopo varii tormenti lo uccise, con sottomettere in poco tempo quel ricco paese, e mandare a Roma gran copia di grani, la spedizion dei quali costui avea interrotta. Aureliano [Vopiscus, in Firmo.], in ragguagliare il popolo romano di queste vittorie, scrisse fra le altre cose di saper egli ch'esso popolo non andava d'accordo col senato, non era amico dell'ordine equestre, ed avea poco buon cuore verso dei pretoriani. Sbrigato finalmente da questi affari l'infaticabil Aureliano Augusto, indirizzò i suoi passi verso l'Europa con animo e voglia di atterrar anche Tetrico, che solo restava tra gli usurpatori del romano imperio. Come egli arrivato colà ricuperasse in poco tempo quelle provincie, alla sfuggita lo raccontano i vecchi storici [Vopiscus, in Aureliano. Trebellius Pollio, in Tetrico. Euseb., in Chron.]. Altro non si sa, se non che seguì una battaglia a Scialons sopra la Marna, in cui Tetrico stesso tradì lo esercito suo, perchè si diede volontariamente ad Aureliano: laonde i suoi soldati [968] riportarono una gran percossa da quei di Aureliano. Sono altri di parere che Tetrico fosse da' suoi soldati tradito e consegnato ad Aureliano, al quale si sottomisero poscia anch'essi. Tuttavia grande apparenza c'è che seguisse, o prima o poco dopo dell'arrivo di Aureliano in quelle contrade, qualche segreta capitolazione ed accordo fra Aureliano e lui, al vedere l'indulgenza, con cui esso Aureliano, principe poco avvezzo alla clemenza, trattò il medesimo Tetrico. E la ragione di abbandonare i suoi per gittarsi in braccio ad Aureliano, l'abbiamo dagli antichi storici. Cioè fu la continua disubbidienza dei soldati suoi che ad ogni poco si sollevavano: dal che fu forzato Tetrico ad invitare e pregar Aureliano che il liberasse da tanti mali. Venuto egli alla divozion di Aureliano, tutte poi del pari le di lui milizie il riconobbero per imperadore, e passarono nell'armata romana; con che le Gallie, e, per conseguente, la Spagna e Bretagna, si videro restituiti sotto la signoria del medesimo Augusto. Può o dee anche oggidì essere motivo di stupore il corso di tante imprese e vittorie fatte da un solo Augusto, e in poco più di tre anni, con aver egli liberato da tanti barbari nemici il romano imperio, atterrati i tiranni e riunite al suo corpo tante membra, da esso per più anni disgiunte. Eusebio [Euseb., in Chronic.] nella Cronica mette sotto quest'anno il trionfo romano di Aureliano; ma si dee credere uno sbaglio, siccome vien giudicato ancora il riferirsi da lui nell'anno primo e secondo d'esso imperadore la caduta di Tetrico, la quale vien posta da Vopisco dopo la guerra palmirena. Non si sa nè anche intendere, come in un solo anno potesse Aureliano far tante azioni e viaggi, quanti ne abbiam veduto in questo anno, menando seco eserciti, cioè ruote pesanti, che non volano, senz'aggiungervi ancora il suo ritorno dalle [969] Gallie o Roma. Però coi più degli storici rapporterò io all'anno seguente il suddetto trionfo.
Anno di | Cristo CCLXXIV. Indiz. VII. |
Felice papa 6. | |
Aureliano imperadore 5. |
Consoli
Lucio Domizio Aureliano Augusto per la seconda volta e Caio Giulio Capitolino.
Dopo aver dato buon sesto agli affari delle Gallie, sen venne a Roma l'Augusto Aureliano per celebrare il trionfo suo. Riuscì questo dei più grandiosi e memorabili che mai si fossero veduti in quell'augusta città. Vopisco [Vopiscus, in Aurelian.] bene dà un poco d'idea, con dire che vi erano tre carrozze regali, le quali tiravano a sè gli sguardi di ognuno. La prima avea servito ad Odenato Augusto, già marito di Zenobia, coperta d'argento, oro e pietre preziose. La seconda di somigliante ricco lavoro l'avea avuta Aureliano in dono dal figliuolo o nipote del morto re Sapore, dominante allora in Persia. La terza era stata di Zenobia, che con essa sperava di comparir vittoriosa in Roma: ed in essa entrò ella appunto, ma vinta e trionfata. Eravi anche la carretta del re de' Goti, tirata da quattro cervi, entro la quale Aureliano fu condotto al Campidoglio, dove sagrificò a Giove que' medesimi cervi, secondo il voto già fatto da lui. Precedevano in quella immensa processione venti elefanti, ducento fiere ammansate della Libia e Palestina, che Aureliano appresso donò a varii particolari, per non aggravar di tale spesa il fisco; e dei cammellopardi e delle alci ed altre simili bestie forestiere. Succedevano ottocento paia di gladiatori e i prigionieri di diverse nazioni barbare, cioè Blemmii, Assomiti, Arabi, Eudemoni, Indiani, Battriani, Iberi, Saraceni, Persiani, Goti, Alani, Rossolani, Sarmati, Franchi, Svevi, Vandali [970] e Germani, colle mani legate; fra' quali ancora si contarono molti de' principali Palmireni sopravanzati alla strage, e parecchi Egiziani a cagion della loro ribellione. Ma quello che maggiormente tirò a sè gli occhi di tutti, fu la comparsa fra i vinti di Tetrico vestito alla maniera dei Galli, col figliuolo Tetrico, al quale egli avea conferito il titolo di senatore [Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., c. 29.]. Veniva anche Zenobia con pompa maggiore, tutta ornata, anzi caricata di gemme, dopo aver fatta gran resistenza ad ammettere il peso ed uso di quelle gioie in sì disgustosa congiuntura. Con catena d'oro avea legati i piedi e le mani, ed una ancora ne avea dal collo pendente, sostenuta da un Persiano che le andava avanti. Con questo mirabile apparato, colle corone d'oro di tutte le città, colle carrette piene di ricco bottino, con tutte le insegne e coll'accompagnamento del senato, esercito e popolo, pervenne molte ore dipoi Aureliano al Campidoglio, e tardi al palazzo; rattristandosi nondimeno molti al vedere condotti in trionfo dei senatori romani, il che non era in uso, e mormorando altri [Vopiscus, in Aurel.], perchè si menasse in trionfo una donna, come s'ella fosse qualche gran capitano. Intorno al qual lamento Aureliano dipoi con sua lettera cercò di soddisfare il senato e popolo romano, col mettere Zenobia del pari co' più illustri rettori di popoli. Furono poscia impiegati i seguenti giorni in pubblici sollazzi di giuochi scenici e circensi, in combattimenti di gladiatori, caccie di fiere, battaglie in acqua, e in assegnamento perpetuo di pane e carne porcina, che ogni dì si distribuiva a cadauno del popolo romano.
Abbiamo da Trebellio Pollione [Trebellius Pollio, ibid.] che Aureliano non solamente perdonò a Zenobia, ma le assegnò ancora un decente appannaggio pel mantenimento di lei e de' suoi figliuoli, e un luogo a Tivoli [971] presso al palazzo di Adriano, dove ella soggiornò dipoi a guisa d'una matrona romana. Eutropio [Eutrop., in Breviar.] scrive che a' suoi giorni restavano ancora dei discendenti da essa Zenobia, senza dire se per via di maschi, o pur delle sue figliuole. Il dirsi da Zonara [Zonaras, in Annalibus.] che Aureliano sposò lei, o pur una delle sue figlie, s'ha da contare per una favola. Ciera bensì di verità ha l'aggiunger egli, che le figlie di essa Zenobia furono da lui collocate in matrimonio con dei nobili romani. A quanto poco fa ho detto non si ristrinse la liberalità di Aureliano verso il popolo, perchè altri regali gli fece in abiti e danari [Vopiscus, in Aurel.]. E perciocchè infinita copia vi era di debitori del fisco, ordinò che nella piazza di Traiano si bruciassero tutte le lor cedole. Pubblicò ancora un perdon generale per tutti i rei di lesa maestà. S'acquistò egli specialmente lode nell'aver non solamente rimessa ogni pena a Tetrico, già imperadore, o sia tiranno delle Gallie [Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., c. 23.], ma dichiaratolo ancora Correttore di tutta l'Italia, cioè della Campania, del Sannio, della Lucania, de' Bruzii, della Puglia, Calabria, Etruria ed Umbria, del Piceno e Flaminia, e di tutto il paese Annonario, colmandolo di onori, e chiamandolo talvolta collega, commilitone ed anche imperadore: segni di qualche precedente accordo seguito fra loro. Gli diceva, burlando, ch'era più onore il governare una provincia d'Italia, che il regnar nelle Gallie. Anche al giovane Tetrico di lui figlio fu conceduto posto fra i senatori, con godere illesi i lor beni patrimoniali [Zosimus, lib. 1, cap. 61.]. Fece inoltre Aureliano portare alla zecca tutte le monete adulterate e calanti, e ne diede al popolo delle buone. Fu in questa occasione che i ministri della zecca [Vopiscus, in Aurelian. Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviar.], accusati di qualche frode nel loro uffizio, [972] spinti da Felicissimo, schiavo o liberto dell'imperadore, mossero una sì fiera sedizione in Roma, che vi uccisero sette mila soldati di Aureliano: cosa difficile a credersi. Ma pagarono anch'essi il fio della lor crudeltà, col restar vinti ed esposti al furore, ch'era per lo più eccessivo, in Aureliano. Racconta Suida [Suidas, in Lexico.] che questo imperadore fece morir molti senatori per informazioni della loro infedeltà, ricavate da Zenobia. Era egli un grande adoratore e divoto del Sole [Zosimus, lib. 1, cap. 61. Vopiscus. Eusebius et alii.]: però in quest'anno fece fabbricare in Roma il tempio del Sole con singolar magnificenza, arricchendolo di immensi ornamenti d'oro, di perle e di altre cose preziose. Pesava il solo oro ivi posto quindici mila libbre. Quivi espose le statue del medesimo Sole e di Belo, con altri ornamenti asportati da Palmira. Anche il Campidoglio si vide riempiuto dei doni a lui fatti da varie nazioni; e tempio alcuno non vi fu in Roma che non partecipasse di qualche suo dono. Fortificò ancora l'autorità de' pontefici, ed assegnò rendite per la manutenzione de' templi e de' ministri. Azioni tutte che fan conoscere l'amore e zelo ch'egli nudriva per la sua falsa religione, cioè per l'idolatria: zelo che ancora circa questi tempi lo spinse, dopo essere stato finora clemente verso i Cristiani, a muovere contro di loro una fiera persecuzione [Eusebius, in Histor. et in Chronico. Lactantius, de Mortibus Persecutor. Orosius, Syncellus, et alii.]. Ma per poco tempo, perchè Dio non tardò a dargli quel fine e gastigo, a cui soggiacquero anche in questo mondo altri nemici e persecutori della religione e Chiesa sua santa. Alcune buone leggi fece Aureliano, ma altre più meditava di farne, e sopra tutto voleva provvedere al soverchio lusso introdotto in Roma [Vopiscus, in Aureliano.], con proibire il consumo dell'oro in tanti ricami, indorature [973] ed altri vani usi, e con vietar l'uso della seta, perchè venendo questa allora solamente dall'India, ogni libbra di essa costava una libbra d'oro. Sarebbe da desiderare che anche a' dì nostri nascessero degli Aureliani, per rimediare al lusso di certe città d'Italia, e alla pazza mutazion delle mode. Per altro godeva Aureliano Augusto che i privati abbondassero in vasi d'oro e d'argento. Trovandosi ancora molte terre incolte nella Toscana e Liguria, suo disegno fu di mandar colà a coltivarle le famiglie dei Barbari prigioni. Ma questi ed altri disegni, troncato il filo della sua vita, abortirono tutti. Credesi [Blanchinius, ad Anastasium.] che in quest'anno Felice papa fosse chiamato da Dio al premio delle sue fatiche, e che o per l'imminente o già insorta persecuzione non si eleggesse il suo successore se non nell'anno seguente.
Anno di | Cristo CCLXXV. Indizione VIII. |
Eutichiano papa 1. | |
Tacito imperadore 1. |
Consoli
Lucio Domizio Aureliano Augusto per la terza volta e Tito Nonio Marcellino.
Annio, e non Avonio, nè Anonio, fu il nome del console. Per attestato di Vopisco [Vopiscus, in Valerian. Zonaras, in Annalibus.] fu console sostituito Aurelio Gordiano, e nel dì 25 di settembre Velio Cornificio Gordiano. Sul principio di quest'anno opinione è che fosse promosso al pontificato romano Eutichiano. Nell'anno addietro l'Augusto Aureliano era passato nelle Gallie, verisimilmente per cagion di qualche ribellione, accaduta in quelle parti, ch'egli senza fatica estinse. La città di Orleans vien creduto che fosse rifabbricata da lui e prendesse il di lui nome. E perchè i Barbari erano [974] entrati nel paese della Vindelicia, che abbracciava allora parte della Baviera, della Svevia e i Grigioni, Aureliano accorso a quelle parti, rimase il paese in pace con averne cacciati i nemici. Di là andò nell'Illirico, e probabilmente fu allora che scorta la difficoltà di poter sostenere la provincia della Dacia, oggidì Transilvania, posta di là dal Danubio, attorniata da troppi Barbari, prese la risoluzione di abbandonarla [Lactantius, de Mortib. Persecut. Eutropius. Syncellus.]. A questo fine ritirò di qua dal fiume tutte le milizie e famiglie romane abitanti in quel paese, e lor diede parte della Mesia per abitarvi; paese che si nominò dipoi la Nuova Dacia, di cui dicono che Sardica divenisse la capitale. Da ciò si vede fallita l'immaginazione e il vanto dei Romani gentili, pretendenti che il loro dio Termine non rinculasse giammai, cioè non lasciasse mai perdere paese una volta unito al loro imperio. Altri simili esempli di questo loro inetto dio riferisce sant'Agostino [S. Augustinus, de Civitate Dei, lib. 4, c. 29.]. Verisimilmente svernò Aureliano in quelle parti, o pur nella Tracia nell'anno presente, applicato a mettere insieme un possente esercito per portar la guerra addosso a' Persiani. Era egli invasato dal desiderio della gloria, e quanto più di grandi imprese egli avea fatto fin qui, a nulla serviva che maggiormente accenderlo per farne delle altre. Nè gli mancavano ragioni e pretesti contro la Persia, che già vedemmo aver prese l'armi in favor di Zenobia. Ma Iddio il colse nel punto [Lactantius, de Mort. Persec., cap. 7.] che i suoi ordini di ferro e fuoco contra dei cristiani erano già dati, e si doveano stendere per tutto l'imperio [Euseb., in Chronic.]. Un fulmine caduto in vicinanza di lui e dei suoi cortigiani pure non fu bastante a rimuoverlo dalle prese risoluzioni. Per altra mano egli perì, siccome ora son per dire.
A riserva del popolo romano, che veramente l'amava per i molti benefizii già ricevuti o che si speravano [Vopiscus, in Aureliano.], pochi altri gli portavano affetto: a colpa della sua severità, anzi crudeltà, di cui sovente abbiam recate le pruove. Il senato romano, e fino i suoi proprii cortigiani, non amore, ma bensì timore aveano di lui [Aurelius Victor, in Epitome. Eutropius, in Breviar.]. Accadde ch'egli un dì minacciò gravemente Mnesteo, uno dei suoi segretarii, per qualche fallo. Erote vien chiamato da Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 62.]. Costui, siccome pratico che Aureliano non minacciava, mai da burla, e che se minacciava, non sapeva perdonare, essendosi molto prima avvezzato a contraffare il carattere del padrone, formò un biglietto, mettendovi col suo i nomi di molti altri, co' quali Aureliano era in collera, e di altri ancora che non erano stati minacciati da lui, come destinati tutti dal sanguinario Augusto alla morte; ed esagerando poi la necessità di salvare sè stessi, con levare dal mondo quello spietato carnefice. Abbiam veduto altri Augusti condotti a morte per sì fatte liste di cortigiani destinati a perire. Dubitar si potrebbe che alcuna di esse fosse a noi venuta dalle sole dicerie dei novellisti. Quel ch'è certo, si trovava allora Aureliano in un luogo chiamato Caenophrurium, cioè Castelnuovo, posto fra Bisanzio ed Eraclea. Quivi gli uffiziali animati da Mnesteo contra di lui, preso il tempo che Aureliano era con poche guardie, lo stesero morto a terra con varie ferite. Vopisco [Vopiscus, ibid.] scrive ch'egli morì per mano di Mucapor, uno de' suoi generali. Altre particolarità di questo fatto non ha a noi conservato la storia. Essendo giunta a Roma la nuova di sua morte nel dì 3 di febbraio per attestato del medesimo storico, vegniamo a conoscere che alquanti giorni prima del fine di gennaio dell'anno [976] presente dovette succedere la di lui tragedia. Scoprissi dipoi la furberia di Mnesteo, e ne fu fatta aspra vendetta, con legarlo ad un palo ed esporlo ad essere divorato dalle fiere. Gli altri da lui ingannati gran pentimento ebbero d'aver bagnate le mani nel sangue del loro principe, e parte vennero allora uccisi dai soldati, parte poi dai successori Augusti Tacito e Probo. Funerali magnifici furono fatti al defunto imperadore dall'armata, la quale anche scrisse al senato e popolo romano coll'avviso del funesto successo, e con premura, perchè Aureliano fosse aggregato al catalogo degli dii. Tacito, che fu poi imperadore, il primo allora dei senatori, quegli fu che dopo un bell'elogio alla memoria di Aureliano, fu il primo a decretargli tutti gli onori divini. E certamente non si può negare ad Aureliano la gloria di uno de' più insigni imperadori romani, per aver egli in sì poco tempo rimesso in piedi e liberato dai nemici interni ed esterni tutto l'imperio romano, con disposizione di far altre mirabili imprese, se non gli fosse stato sul più bello troncato il filo della vita. Era egli tuttavia vegeto d'età, e questa la sapeva egli conservare colla sobrietà del vivere; e se si ammalava, non correva giù a chiamar i medici, ma curava egli stesso i suoi mali con una dieta rigorosa. La sua soverchia severità, benchè gli partorisse l'odio di molti, pure riuscì di grande utilità alla repubblica, perchè levò di mezzo o cacciò in esilio i cervelli torbidi, cabalisti e perturbatori della quiete pubblica. Specialmente perseguitò egli i delatori, cioè gli accusatori, tanto ben veduti sotto altri precedenti governi. Non la perdonava nè pure ai suoi medesimi parenti e familiari. E la moderazione sua nel vestire si stendeva anche alla moglie e alla figliuola, alle quali, perchè pur volevano una veste di seta, rispose, troppo costare una tela che si vendeva a peso d'oro. Altre sue lodevoli doti rammenta Vopisco. Ma a questo [977] egregio principe mancava la clemenza, virtù necessaria, nonchè sommamente commendabile ne' saggi principi; e da questo difetto, o, per dir meglio, dalla sua crudeltà fu egli finalmente condotto ad un fine infelice.
Avrebbe ognuno creduto che, appena morto Aureliano, l'armata sua acclamasse Augusto alcuno di quei generali, ma non fu così [Vopiscus, in Aureliano.]. Forse perchè niun d'essi v'era esente dal reato, o dal sospetto della morte di Aureliano, però non si poterono indurre i soldati a creare alcun d'essi imperadore. Anzi scrissero al senato, con pregarlo di scegliere un imperadore degno di tal posto. Non attentandosi di farlo il senato, perchè alle armate non soleano piacere Augusti creati in Roma da' senatori, tre volte corsero e ricopersero lettere fra loro, rimettendo sempre l'una parte all'altra una tale elezione: controversia rara, e che facea stupir chiunque era consapevole della prepotenza dei passati eserciti in tali congiunture [Vopiscus, in Tacito. Aurelius Victor, in Epitome.]. Durante questa contesa passarono sei mesi, senza che si eleggesse imperadore; e, ciò non ostante, nell'interno si godeva buona calma; e tutti i governatori scelti da Aureliano e dal senato continuavano tranquillamente ne' loro impieghi, fuorchè Aurelio Fosco proconsole dell'Asia, in cui luogo fu spedito Falconio. Era in questi tempi prefetto di Roma Postumio Siagrio, secondo il catalogo pubblicato dal Bucherio [Bucherius, in Cycl.]; ma Vopisco scrive che nel dì 25 di settembre era essa prefettura appoggiata ad Elio Ceseziano. Quegli che diede fine a questa sonnolenza, e fece che il senato procedesse alla elezion di un nuovo imperadore, fu il militar movimento de' Germani [Vopiscus, in Aureliano.], i quali passato il Reno, aveano già occupato varie nobili città, e temeva anche guerra dai [978] Persiani. Velio Cornificio Gordiano, console sostituito, rappresentò nel dì 25 di settembre la necessità di crear un imperadore. Preparavasi a rispondere Marco Claudio Tacito, primo fra i consolari, quando a comun voce fu interrotto dal senato, che l'acclamò imperadore, siccome personaggio, per la rara sua prudenza ed integrità, riconosciuto degnissimo di quell'eccelsa degnità. Fece egli resistenza per quanto potè, con allegare l'avanzata sua età, e il non poter cavalcare e reggere eserciti; anzi, perch'egli avea preveduto questo colpo, per due mesi era stato ritirato nella Campania. Ma, alzatosi Mezio Falconio Nicomaco, tanto disse, tanto pregò Tacito, mettendogli davanti il bisogno della repubblica, ch'egli cedette; e l'elezione sua fu molto applaudita dal popolo e da' pretoriani, a' quali fu promesso il solito regalo. Si vantava Tacito d'essere discendente o parente di Cornelio Tacito celebre storico, ed egli perciò fece mettere in tutte le librerie l'opere di lui; e pur, ciò non ostante, perite molte di esse sono oggidì indarno desiderate da' letterati. Era stato console, avea molti figliuoli, ma giovanetti, ed un fratello uterino, appellato nelle medaglie Marco Annio Floriano. Non capiva in sè per l'allegrezza il senato al vedersi giunto a poter eleggere dopo sì lungo tempo un Augusto, e si pregiava di averlo eletto tale, che in breve potè corrispondere all'espettazione di ognuno, col rimettere in uso gli antichi diritti e l'autorità del senato e del prefetto di Roma. Ne diedero i senatori tosto il lieto avviso con lettere a Cartagine, a Treveri, città libera, ad Antiochia, Aquileia, Milano, Alessandria, Tessalonica, Corinto ed Atene. Ora Tacito, appena accettato l'imperio e rendute grazie al senato, ordinò che si mettessero in alcuni templi le statue d'argento d'Aureliano ed una d'oro nel Campidoglio. Quest'ultima dipoi non fu posta; le altre sì. Proibì tanto al pubblico, quanto ai privati il mischiar insieme l'argento [979] e il rame, e l'argento e l'oro. Vietò che i servi non potessero chiamarsi all'esame contra de' proprii padroni, e neppure trattandosi di delitti di lesa maestà. Determinò che si facesse un tempio de' defunti imperadori deificati, volendo nondimeno che ivi si collocassero le sole statue dei buoni Augusti, per animar alla loro imitazione i successori. Avendo fatta istanza del consolato dell'anno susseguente per suo fratello Floriano, il senato, benchè avvezzo a chinar il capo a tutto quanto bramavano i precedenti Augusti, pure negò a lui questa soddisfazione, adducendo che già erano disegnati i consoli, ed essere inconveniente il far torto ad alcun degli eletti. Dicono che Tacito si rallegrasse all'osservare questa libertà nella cura, e che dicesse: Sa il senato di che tempra sia il principe ch'egli ha eletto. Poscia donò al pubblico il privato suo patrimonio, le cui rendite si fanno ascendere dal Salmasio ad un valore ch'io non ardisco di esprimere, parendo difficile a credersi. Sembra anche inverisimile questo dono per chi era vecchio ed avea figliuoli; e il publicavit di Vopisco potrebbe ammettere un altro senso. Tutto poscia il contante ch'egli si trovava in cassa l'impiegò in pagar le milizie. E tanto per ora basti di questo imperadore di pochi giorni.
Anno di | Cristo CCLXXVI. Indizione IX. |
Eutichiano papa 2. | |
Floriano imperadore 1. | |
Probo imperadore 1. |
Consoli
Marco Claudio Tacito Augusto per la seconda volta ed Emiliano.
Fa menzione Vopisco [Vopiscus, in Probo.] di Elio Scorpiano, che era console nel 3 di febbraio dell'anno presente; e perciò si può credere che Tacito Augusto tenesse un solo mese il consolato. Fra le [980] altre azioni di lui riferite da Vopisco vi fu l'aver egli bandito da Roma i postriboli, non già delle pubbliche donne, per quanto io mi figuro, ma bensì di un vizio più deforme ed abbominevole: provvisione nondimeno che fu di brevissima durata in un popolo avvezzo ad ogni brutalità, perchè mancante dei lumi e del freno della vera religione. Proibì ancora il tenere aperti i bagni in tempo di notte, per impedire le sedizioni; e vietò, tanto agli uomini che alle donne, il portar vesti di seta. Volle che si distruggesse la casa propria, e che a sue spese quivi si fabbricasse un bagno pel pubblico. Cento colonne di marmo di Numidia, alte ventitrè piedi, donò al popolo d'Ostia. Assegnò alla manutenzion delle fabbriche del Campidoglio le possessioni ch'egli avea nella Mauritania; donò ai templi l'argento che serviva alla sua tavola; e manumise cento dei suoi servi dell'uno e dell'altro sesso. Continuò poscia a vivere come prima, usando le medesime vesti che gli aveano servito da privato. La sua tavola continuò ad essere parchissima: il maggiore imbandimento consisteva in cavoli ed erbaggi. Non volea che la moglie portasse gemme, e neppure permise al pubblico i ricami d'oro nelle vesti. Ebbe anche cura di punire rigorosamente gli uccisori di Aureliano, e sopra gli altri a Mucapor fu dato un rigoroso gastigo [Zosimus, lib. 1, cap. 63. Zonaras, in Annal. Vopiscus, in Tacito.]. S'era fin l'anno dietro udito un gran movimento di barbari Sciti dalla Palude Meotide, che pretendeano d'essere stati chiamati da Aureliano Augusto in suo aiuto. Costoro si sparsero pel Ponto, per la Cappadocia, Galazia e Cilicia, commettendo quelle ruberie ed insolenze ch'erano il mestier familiare di gente usata alle rapine. Tacito, benchè vecchio, giudicò debito della sua dignità il portarsi colà in persona coll'esercito. Seco era Floriano suo fratello, dichiarato prefetto del pretorio. Da due parti amendue [981] combatterono contra di tali assassini, con obbligar quelli che non restarono vittima delle spade romane a ritirarsi ne' lor paesi. Ciò fatto, si preparava Tacito per tornare in Europa, quando la morte venne a trovarlo [Aurel. Victor, in Epitome. Eusebius, in Chron.], chi dice in Tarso, chi in Tiana e chi nel Ponto; e non avendo regnato che sei mesi e giorni, secondo i conti d'alcuni, si conghiettura ch'egli finisse di vivere nell'aprile dell'anno presente. Restava tuttavia indeciso ai tempi di Vopisco s'egli mancasse di vita per malattia naturale, oppure perchè ucciso. Convengono gli scrittori greci [Zosim. Zonar. Euseb. Joan. Malala.] che violenta fosse la morte sua. Intorno a ciò scrive Zosimo che avendo Tacito mandato per governator della Soria Massimino suo parente, costui maltrattò in maniera i magistrati della città, che tutti cospirarono contra di lui, e gli levarono la vita. Temendo poscia coloro di ricevere da Tacito il meritato gastigo, unitisi con quegli uccisori di Aureliano che restavano anche vivi, tali insidie tramarono ad esso Augusto Tacito, che il levarono dal mondo. Nulla di più sappiamo di lui, e neppur ne seppero gli autori della Storia Augusta, se non che [Vopiscus., in Flor.] a Terni gli fu alzata una memoria sepolcrale con istatua, che poi restò atterrata ed infranta da un fulmine. Certo il suo senno e l'amore del pubblico bene poteano far sperare da lui delle gloriose imprese; ma il corto suo vivere gl'impedì il fare di più. Stento io a credere a Vopisco [Idem, in Tacito.], quando scrive, aver egli comandato che il mese di settembre si appellasse Tacito, non parendo propria di un sì saggio vecchio Augusto una sì pueril vanità.
Dopo la caduta di Tacito, Marco Annio Floriano, suo fratello uterino e prefetto del pretorio, quasi che l'imperio fosse ereditario, si fece proclamare Imperadore Augusto da' suoi soldati, e non [982] tardò a spedirne l'avviso al senato romano, il quale non fece difficoltà ad accettarlo. Ma ritrovandosi allora Probo generale dell'armi romane in Soria, quell'armata, appena udì la morte di Tacito, che a gran voce chiamò imperadore esso Probo. Fece egli, almeno apparentemente, non poca resistenza, siccome personaggio che non avea, per quanto egli dicea, mai desiderato quell'onore [Vopiscus, in Probo.], protestando specialmente a que' soldati che non troverebbono vantaggio in volerlo innalzare, perchè egli era uomo poco indulgente. Tuttavia gli convenne cedere, e tanto più perchè dopo un tal atto sarebbe riuscito pericoloso a lui il dimorare in istato privato. Perciò ecco insorgere una guerra civile. Floriano fu riconosciuto per imperadore a Roma, e per tutte le provincie dell'Europa e dell'Africa, ed anche in Asia sino alla Cilicia; laddove solamente la Soria, la Fenicia, la Palestina e l'Egitto si sottomisero a Probo, pochissima parte di mondo in paragone dell'altra. Dimorava allora Floriano verso lo stretto di Bisanzio, dove avea ristretti gli Sciti rimasti sbanditi nell'Asia, quando gli giunse l'avviso d'aver per competitore Probo. Lasciati dunque andare i Barbari, si mise in arnese per procedere coll'armi contra di lui, e passò nella Cilicia. Probo, all'incontro, perchè si sentiva assai inferiore di forze, ad altro non pensò che a prepararsi per la difesa, e a tirare in lungo la guerra, quando arrivò il caldo della stagione, il quale ardente in quelle parti non solamente si fece sentir molestissimo ai soldati di Floriano, la maggior parte europei, e piuttosto usati al freddo, ma li fece anche cadere per la maggior parte malati. Di ciò informato Probo si accostò coll'esercito suo a Tarso, dov'era Floriano; e benchè uscissero in ordine di battaglia i soldati di lui, pure non osarono azzardarsi che ad alcune scaramuccie. Pertanto, inquieti al veder così [983] indebolita per le malattie la loro armata, e non ignorando quanto fosse superiore in abilità e merito l'emulo Probo, il quale si può conghietturare che facesse far loro delle segrete insinuazioni di molto vantaggio, vennero in risoluzione di terminar quella guerra, con abbandonar Floriano ed accettar Probo per imperadore [Vopiscus, in Probo. Zosimus. Eusebius. Syncellus. Joannes Malala.]. La più comune opinione degli storici è, che Floriano fosse ucciso da' suoi. Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] nondimeno lasciò scritto ch'egli, con tagliarsi le vene da sè stesso, si diede la morte, dopo due mesi in circa d'imperio. Sicchè restò solo imperadore Probo, ed ebbe alla sua ubbidienza tutte le milizie che si trovavano in Oriente: dopo di che spedì a Roma delle saporite lettere, rappresentando al senato e al popolo romano, ch'egli per forza avea ben preso il titolo d'Augusto, ma che senza la approvazion d'essi, ch'erano i principi del mondo, egli non volea ritenerlo: che ben sapeva di poter far tali slargate da che avea in mano le forze maggiori dell'imperio, e qual fosse in casi tali l'uso del senato. Nel testo di Vopisco è scritto che questa lettera di Probo fu letta in senato nel dì 3 di febbraio, e in lui concorsero i voti e plausi d'ognuno. Per consenso di tutti i critici, v'ha dell'errore, da che il medesimo storico confessa cessata la vita di Floriano nella state dell'anno presente, dopo due o tre mesi d'imperio: e però non potè Probo nel febbraio di quest'anno aver presa la porpora, nè aspettar sino al febbraio dell'anno seguente per procurarsi l'approvazion del senato.
Anno di | Cristo CCLXXVII. Indizione X. |
Eutichiano papa 3. | |
Probo imperadore 2. |
Consoli
Marco Aurelio Probo Augusto e Marco Aurelio Paolino.
Nelle medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] il novello imperadore porta il nome di Marco Aurelio Probo. Egli era [Vopiscus, in Probo. Victor, in Epitome.] nativo di Sirmio nella Pannonia, di famiglia mediocre e mal provveduta di beni. Diedesi in sua gioventù alla milizia, e sotto Valeriano Augusto per li suoi buoni portamenti arrivò ad essere tribuno. Lodavasi forte in lui la bella presenza, il coraggio e la probità de' costumi corrispondente al suo cognome. Non poche segnalate imprese fece egli in guerra contra varie nazioni barbare e contro i ribelli dello imperio, di modo che fu carissimo a Gallieno imperadore, il quale, scrivendo a lui, il chiamava suo padre. Tanto lo stimò Aureliano Augusto, che parve inclinato a volerlo per suo successore; e Claudio e Tacito il riguardavano sempre come il miglior nobile della repubblica romana. Vopisco rapporta varie prodezze di lui ed alcune lettere dei suddetti Augusti in pruova del gran concetto che aveano di questo personaggio quando era in privata fortuna. Nel mestier poi della guerra niun forse il pareggiava, nè a lui mancava il bel segreto di farsi amar dai soldati, non già con lasciar loro la briglia sul collo, ma con far conoscere ad ognuno quanto gli amasse. Li visitava sovente; nulla voleva che loro mancasse, nè che lor fosse fatta ingiustizia alcuna; anzi colla sua saviezza spesso placava il crudel Aureliano, se il trovava adirato contra di loro. Qualor si faceva qualche bottino, a riserva dell'armi, tutto voleva che si dividesse fra i medesimi soldati. Per altro li teneva egli continuamente in esercizio [985] e in lavorieri, affinchè s'indurassero nelle fatiche, imitando in ciò l'africano Annibale. E però in molte città fece da essi fabbricar ponti, templi, portici ed altri edifizii, e seccar nell'Egitto delle paludi, per potervi seminare, aprendo canali che scaricassero l'acque, e facilitando in altre maniere il traffico pel fiume Nilo. Creato poscia imperadore in età, e riconosciuto per tale da tutti i popoli del romano imperio, in così belle azioni s'impiegò, che Vopisco si lasciò scappar dalla penna, a mio credere, una sfoggiata iperbole, con dire ch'egli fu da preferire ad Aureliano, Traiano, Adriano, agli Antonini, ad Alessandro e Claudio Augusti, perchè ebbe tutte le loro virtù, ma non già i loro difetti. Così Vopisco [Vopiscus, in Floriano.], il qual poi si trova aver saputo sì poco delle gesta di questo imperadore. Scrive Zosimo [Zosimus, lib. 1, cap. 65.] che una delle prime sue applicazioni fu quella di punire gli uccisori di Aureliano e di Tacito. Nè arrischiandosi a tal giustizia con pubblicità, li fece invitar tutti ad un convito, dove furono tagliati a pezzi dalle sue guardie, fuorchè uno che si salvò, e preso dipoi fu abbruciato vivo. Ma Vopisco [Vopiscus, in Probo.] non s'accorda con lui, confessando bensì che Probo vendicò la morte di quegli imperadori, ma con più moderazione e discretezza che non aveano prima fatto i soldati e Tacito Augusto. Perdonò ancora a coloro che aveano sostenuto Floriano contra di lui, perchè seguaci non di usurpatore o tiranno, ma di un fratello del principe. Nel mentre che si trovavano imbrogliati gli affari pubblici per la morte di Tacito e per la disputa dell'imperio tra Floriano e Probo, i popoli della Germania, passato il Reno [Zosimus, lib. 1, c. 67.], occuparono non poche città delle Gallie in que' contorni. Vopisco [Vopiscus, in Probo.] ci vorrebbe far credere che tutte quelle provincie dopo la caduta di Postumo [986] restassero sconvolte: e che, tolto di vita Aureliano, venissero in poter d'essi Germani. Pertanto l'Augusto Probo, lasciato per ora il pensiero di passare a Roma, sen venne a Sirmio sul principio di maggio, e di là poi marciò alla volta del Reno. Trovò i Barbari sparsi per le città galliche, e diede loro addosso in varii combattimenti, con farne una strage incredibile. In una lettera da lui scritta al senato romano si pregia d'aver uccisi quattrocento mila di que' Barbari, e di averne presi sedici mila, ch'erano poi arrolati nelle truppe romane, e da lui sparsi in varii luoghi e in diverse legioni. Temer si può che sia scorretto qui il testo di Vopisco, o che la morte di tanti armati sia un vanto, difficile a credere. Ricuperò Probo e liberò dal giogo barbarico sessanta o settanta città nobili delle Gallie.
Racconta qui Zosimo [Zosimus, lib. 1, c. 67.] una cosa strana, cioè che, provandosi gran carestia di viveri nell'armata sua, oscuratosi il cielo all'improvviso, cadde una dirotta pioggia, e seco una tal quantità di grano, che se ne trovavano dei mucchi nella campagna. Stupefatti i soldati, non ardivano di valersi di questo soccorso; ma incalzati dalla fame, fecero macinar quel grano, e il trovarono molto a proposito per saziarsi. Non avrei fatta io menzione di questo racconto, che, al pari degli altri lettori, credo anch'io favoloso, e tanto più perchè Vopisco non ne dice parola, e Zonara [Zonaras, in Annalib.] ne parla dubitativamente; ma non ho voluto ometterlo, perchè anche nell'anno 1740 vennero nuove che in una villa dell'Austria era piovuto del grano, e ne ebbi io stesso sotto gli occhi, ma senza essersi potuto chiarire se il vento lo avesse colà trasportato da altro luogo, o in qual altra maniera ciò seguisse: dovendo per altro essere certo che grano tale (se pur ne fu vera la pioggia) non era nato in cielo, nè venuto da quel [987] paese, dove non si ara nè semina. Aggiugne il suddetto Zosimo che intervenne lo stesso Probo Augusto ad una gran battaglia data ai Logioni, popoli della Germania, que' medesimi probabilmente che son chiamati Ligi da Cornelio Tacito. La vittoria fu dal canto de' Romani; Sennone, principe di quella gente, col figliuolo restò prigioniere; ma Probo li rimise poscia in libertà mercè di un trattato di pace, per cui furono restituiti tutti i prigioni e le prede da lor fatte. Seguì ancora un fiero combattimento tra i generali di Probo e i popoli Franchi, mentre l'imperadore in persona facea guerra, e venne alle mani coi Borgognoni e Vandali sulle rive del Reno, popoli che non si sa intendere come dalla Tartaria o da altro paese settentrionale fossero pervenuti fin colà. Non avea Probo forze tali da poter combattere del pari con quelle sterminate masnade di Barbari; però da saggio cercò solamente di dividerli. Tanto dunque gli attizzarono i Romani con dir loro delle villanie, e mostrando poi di fuggire, se alcun d'essi passava di qua dal Reno, che gran parte del loro campo passò il fiume. Non tardarono allora i Romani ad assalirli e disfarli; e quei che restarono intatti di là, non ottennero pace se non con obbligarsi di restituir tutto il bottino e i prigioni. Perchè non eseguirono con fedeltà il trattato, Probo andò ad assalirli ne' loro trincieramenti, una parte ne uccise, un'altra ne fece prigioniera con Igillo lor principe; e questi, mandati nella gran Bretagna a popolar quel paese, servirono dipoi con fedeltà al romano imperio. Anche Vopisco attesta che Probo, avendo valicato il Reno, portò la guerra in casa de' Barbari, e li fece ritirare sino ai fiumi Necro ed Alba, con torre loro non minor bottino di quel che essi aveano fatto nel paese romano. Continuò ancora molto tempo quella guerra, senza che passasse giorno in cui non gli fossero portate molte teste di que' Barbari, per cadauna delle [988] quali egli pagava una moneta d'oro. Un tal guasto obbligò nove di que' principi a venire a' suoi piedi e a dimandar pace. Questa fu loro accordata, purchè dessero ostaggi, ed insieme una contribuzion di vacche, pecore e grano. Veggonsi medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imp.] di Probo colla vittoria germanica, le quali son da riferire all'anno presente, od anche al susseguente, parendo che tante imprese non si potessero compiere in pochi mesi. Cominciò in quest'anno [Eusebius, in Chron.] ad infettare il mondo l'eresia di Manete, che stese poi di molto le radici, e durò di poi per moltissimi secoli, con penetrar anche nell'Italia dopo l'anno millesimo della era volgare.
Anno di | Cristo CCLXXVIII. Indiz. XI. |
Eutichiano papa 4. | |
Probo imperadore 3. |
Consoli
Marco Aurelio Probo Augusto per la seconda volta e Lupo.
Furio o Virio Lupo fu prefetto di Roma [Bucherius, in Cycl.] nell'anno presente e ne' due susseguenti. Si figurò il Panvinio ch'egli procedesse ancora console in questo anno: il che può essere vero, quando si supponga già introdotto l'uso d'unir insieme queste due dignità. Dopo aver restituita la quiete alle Gallie, passò lo Augusto Probo nella Rezia [Vopiscus, in Probo.], e lasciò quel paese in somma pace, e libero per allora dal sospetto di ricevere molestia da' nemici del romano imperio. Arrivato nell'Illirico, compianse quelle contrade infestate e messe a sacco dai Sarmati e da altre nazioni barbare. Il terrore, che seco portavano l'armi di lui, fu bastante a dissipar tutta la nemica gente, e a ripigliar il possesso di ogni luogo da lor preso, quasi senza sfoderare le spade. Continuato il cammino, [989] trovò anche la Tracia gemente per la irruzion de' Goti in quelle parti. Duolsi Vopisco che la storia di questo insigne imperadore fosse come perita a' suoi tempi; e pur egli fiorì poco più di un mezzo secolo dappoi. Altro dunque non ci seppe egli dire delle imprese di Probo nella Tracia, se non che tal paura concepirono di lui i Goti, che parte si sottomise ai di lui voleri, e parte stabilì con dei trattati una buona amicizia coi Romani. Gran tempo era che i popoli dell'Isauria stavano ribelli al romano imperio, senza aver potuto i precedenti Augusti ridurli al dovere, perchè le asprissime lor montagne tante rocche erano di lor difesa, e quivi si manteneano a forza di ruberie continue. Probo, aspirando alla gloria di domar quegli assassini, marciò a quella volta, e nel viaggio colse e fece morire Palfurio, potentissimo capo di que' ladroni: e con tal arte dipoi maneggiò la guerra, che liberò tutta l'Isauria, e rimise in quelle parti l'autorità e le leggi della romana repubblica. Non vi fu luogo, per iscosceso che fosse, in cui non tendessero d'entrare o per amore o per forza i di lui soldati: benchè egli dipoi dicesse essere tale quel paese, che ben più facile era l'impedirne l'entrata ai ladroni che il cavarneli, se vi fossero entrati. Donò ai veterani molti di quei luoghi a titolo di benefizio (noi diciamo ora feudo), con obbligo ai loro figliuoli di militare dopo i diciotto anni, acciocchè non imparassero prima il mestier del rubare che quel della guerra. Ma per quanto egli facesse, non andò molto che quel popolo tornò alla ribellione, ed il paese seguitò ad essere un nido di ladri. Parla anche Zosimo [Zosimus, lib. 1, c. 69.] dei fatti dell'Isauria, scrivendo che un certo Lidio di quella nazione, gran capo di masnadieri, e forse non diverso da quel Palfurio che vien mentovato da Vopisco, con un corpo di gente avea fin qui malmenata la Licia e la Panfilia. All'approssimarsi dell'armata [990] romana andò a rinserrarsi co' suoi in Cremma, fortezza inespugnabile della Licia per la sua situazione in montagna e per le fosse profonde. Quivi assediato, fece rasar molti edifizii per seminarvi, ma conoscendo ciò non bastante al bisogno, si scaricò delle persone inutili, mandandole fuori; e perchè furono queste fatte rientrar dai Romani, il crudel uomo le fece precipitar giù da que' dirupi. Trovò anche maniera di cavare una strada sotterranea, per cui i suoi uscivano a bottinare. Per via d'una donna fu scoperto l'affare. Allora Lidio si sbrigò col ferro di quei ch'erano superflui alla difesa. Non finiva sì presto quel blocco, se un valente suo maneggiator di macchine, che solea colpir colle freccie dovunque mirava, battuto ingiustamente da lui, non fosse fuggito al campo de' Romani, da dove con una saetta mortalmente ferì Lidio in tempo ch'egli si affacciava ad una finestra per guatare gli andamenti dei nemici. Questo colpo diede fine all'assedio, essendosi renduti quei difensori. Probabilmente son da riferire all'anno presente tutte le suddette prodezze dell'Augusto probo. Truovasi qualche sua medaglia [Mediobarb., in Numism. Imperator.], dove è menzionata la vittoria gotica, attribuita con ragione all'anno corrente, e con indizio che qualche battaglia con fortunato esito fosse stata data ai Goti, ancorchè Vopisco nulla parli di combattimenti con quella nazione.
Anno di | Cristo CCLXXIX. Indiz. XII. |
Eutichiano papa 5. | |
Probo imperadore 4. |
Consoli
Marco Aurelio Probo Augusto per la terza volta e Nonio Marcello per la seconda.
Questo secondo consolato di Nonio Marcello è appoggiato ad una iscrizione romana da me data alla luce [Thesaurus Novus Inscription., pag. 267.]. [991] Coronato di vittorie passava l'Augusto Probo di un paese in un altro. Dalla Soria dunque mosse egli contro ai popoli Blemmii, confinanti all'Egitto. Costoro, o per forza, o perchè chiamati da qualche congiurato, s'erano impadroniti di Copto e di Tolemaide, città egiziane, che presto cederono alle forze dell'armata romana, con istrage dei difensori [Vopiscus, in Probo.]. Ed essendo mandati molti di costoro a Roma prigionieri, per la sparutezza e novità del volto e del portamento loro, furono oggetto di stupore a chiunque li mirava. La sconfitta di que' popoli, giudicati in que' tempi il terrore de' lor vicini, diede molto da paventare al re di Persia, creduto Narseo o Narsete. Probo Augusto in fatti meditava di fargli guerra, quando sopraggiunsero i di lui ambasciatori, dimandando pace con assai umiltà. Probo con sostenutezza gli accolse, non volle ricevere i regali a lui inviati, con dire che si maravigliava come il re loro inviasse così poca cosa ad un principe, il quale, qualor gli piacesse, diverrebbe padrone di tutto il di lui paese. Con tale risposta li rimandò spaventati e confusi. Cresciuta perciò la paura ne' Persiani, di nuovo spedirono legati con esibizioni tali, che Probo soddisfatto conchiuse pace con loro. Fu di parere il padre Petavio che appartenesse più tosto a Probo ciò che Sinesio [Synesius, de Regno.] attribuisce a Carino Augusto, con iscrivere che, avendo il re persiano fatta qualche ingiuria ai Romani, l'imperadore marciò per l'Armenia colla sua armata contra di lui. Giunto sulla cima della montagna, onde si scopriva la pianura della Persia, con quella vista rallegrò i suoi soldati, dicendo essere quello il paese, dove avrebbono sguazzato nella abbondanza, e che pazientassero per ora il difetto di molte cose. Quindi, postosi a tavola sopra l'erba, fece portare il suo pranzo, consistente in una sola [992] scudella di piselli, e in qualche pezzo di porco salato; ed eccoti l'avviso di essere arrivati gli ambasciatori persiani. Senza muoversi, senza mutarsi d'abito, mentre era vestito di una casacca di porpora, ma di lana, e con un cappello in testa, perchè calvo affatto, diede loro udienza; e disse che se il re loro non provvedeva, vedrebbe in breve tutte le di lui campagne sì nude d'alberi e grani, come la sua testa era di capelli, e, così dicendo, si levò il cappello. Esibì a que' legati la sua tavola, se aveano bisogno di mangiare; se no, che se ne andassero. La relazione da costoro fatta al re di un imperadore e di un'armata sì poco curante delle delizie e del lusso, talmente accrebbe il terror dei Persiani, che il re stesso in persona fu a visitar l'imperadore, e ad accordargli tutto ciò ch'egli desiderava. Noi non sappiamo che Carino facesse guerra a' Persiani; abbiamo bensì da Vopisco [Vopiscus, in Caro.], e lo vedremo fra poco, avere l'imperador Caro portate felicemente l'armi contra di loro; e però potersi a lui più tosto che a Carino riferir questo fatto. Contuttociò convien esso meglio a Probo, a cui bastò di far paura ai Persiani, senza adoperar l'armi per farsi rispettare.
Anno di | Cristo CCLXXX. Indiz. XIII. |
Eutichiano papa 6. | |
Probo imperadore 5. |
Consoli
Messala e Grato.
Un marmo rapportato dal Malvasia [Malvasia, Marm. Felsin., pag. 353.] ci fa vedere un Lucio Pomponio Grato due volte console. Non è improbabile che ivi si parli del console dell'anno presente. Lasciato ch'ebbe lo Augusto Probo in una invidiabil pace l'Oriente, se ne ritornò in Europa. Fermatosi nella Tracia, ricorsero a lui i Bastarni, popolo barbaro abitante verso le bocche del Danubio, forse perchè [993] cacciati dai lor nemici, o pure per migliorar di paese, chiedendogli abitazione nelle terre romane, e promettendo fedeltà [Vopiscus, in Probo. Zosimus, l. 1, c. 71.]. A cento mila di costoro assegnò Probo campagne da coltivar nella Tracia, e costoro da lì innanzi furono assai fedeli al romano imperio. Non così fu de' Gepidi, Grotunghi, o sieno Trutunghi, e Vandali, molte migliaia de' quali ottennero anch'essi di fissar il piede nelle provincie romane, acciocchè le popolassero. Imperciocchè costoro, appena videro occupato Probo in guerreggiar contro ai tiranni (de' quali fra poco parlerò), che si rivoltarono, e, parte per terra, parte per mare, gravissimi danni recarono a più contrade romane. Fu perciò obbligato dipoi l'imperadore Probo a volgere l'armi contra di que' masnadieri, con opprimerli sì fattamente, che pochi ne ritornarono vivi all'antico loro paese. Abbiamo nondimeno da Zosimo che una parte de' Franchi, la quale si era stabilita nel paese romano, fatta una sollevazione e raunata gran copia di navi, infestò la Grecia; passata dipoi in Sicilia, vi prese la città di Siracusa con grande strage di que' cittadini; ed infine respinta dall'Africa, ebbe la fortuna, uscendo probabilmente dallo stretto di Gibilterra, di ritornarsene sana e salva nella Germania. Ancorchè manchino lumi per accertare il tempo in cui seguì e terminò la ribellion di Saturnino, parlandone Eusebio [Eusebius, in Chron.] sotto quest'anno, e non dissentendo Vopisco [Vopiscus, in Probo.], a me non disdirà il farne qui parola. Vedemmo già un Saturnino tiranno sotto Gallieno; per consenso di tutti gli antichi storici [Zosimus, Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Brev.], un altro di tal nome si sollevò a' tempi di Probo. Trovansi medaglie [Goltzius et Mediob., in Numismat. Imper.], nelle quali l'un di essi è chiamato Sesto Giulio Saturnino, e l'altro Publio Sempronio Saturnino, [994] amendue col titolo di Augusti, senza potersi ben chiarire qual d'essi appartenga al regno di Probo. Secondo il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], Sesto Giulio par quegli che in questi tempi si rivoltò. Zosimo il fa nato nella Mauritania; Vopisco cel dà oriondo dalle Gallie, cioè da un paese inquietissimo e facile a crear dei nuovi principi e a scuotere il giogo. Però Aureliano [Vopiscus, in Saturn.], avendolo fatto comandante dell'armi nelle frontiere dell'Oriente, specialmente ordinò che costui non entrasse mai nell'Egitto, ben conoscendo il carattere de' Galli, e l'inquietudine e vanità degli Egiziani, avidi sempre di cose nuove. Si era segnalato Saturnino in varii posti militari e in diverse occasioni di guerra, di modo che egli si vantava di aver estinte le turbolenze delle Gallie, liberata l'Africa dalle mani de' Mori, e data la pace alle Spagne. In somma era creduto il più bravo generale che si avesse a' suoi di Aureliano. Probo Augusto lo amava anche egli forte, e fidavasi assaissimo di lui. Avea inoltre costui cominciato a fabbricare una nuova città in Antiochia, o pure un'Antiochia nuova [Euseb., in Chron.], in non so qual paese. Ma essendo egli andato in Egitto contro il divieto, il popolo troppo volubile d'Alessandria lo acclamò improvvisamente Augusto. Saturnino, per operar da uomo di onore, fuggì di colà, e si ritirò nella Palestina; ma quivi tanto gli dovettero picchiar in capo gli amici suoi, rappresentandogli il pericolo di vivere privato dopo un tal fatto, che si lasciò indurre a prender la porpora e il titolo d'Augusto. Per altro, si dice [Vopiscus, in Saturn.] che egli mal volentieri si riducesse a questo; e fra le acclamazioni del popolo gli cadevano le lagrime dagli occhi, considerando gl'imminenti pericoli; e a chi gli facea coraggio, tenne un bel discorso intorno alla miseria de' regnanti, e riconobbe [995] che questo passo il menava alla morte. Pretende Zonara [Zonaras, in Annalib.], tale essere stato l'amore e la fiducia che a questo generale professava Probo, che fece punir come calunniatore il primo che portò la nuova della di lui ribellione. Gli scrisse anche più lettere per assicurarlo della sua grazia; ma prevalendo le insinuazioni di chi sosteneva non doversi egli fidar di sì belle parole, non si seppe arrendere. Pertanto colà inviò l'Augusto Probo un corpo di milizia, a cui molte altre si unirono, abbandonando Saturnino, il quale, assediato in un forte castello, restò in fine preso, e gli fu reciso il capo contro la volontà di Probo: con che tornò la calma nell'Oriente e nell'Egitto.
A questi medesimi tempi mi sia lecito di riferir anche la ribellione di Procolo e di Bonoso, esposta da Vopisco [Vopiscus, in Probo.], ed appena accennata da Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] e da Eutropio [Eutrop., in Breviar.]. Era Tito Elio Procolo [Goltzius et Mediob., in Numismat. Imperat.] nativo di Albenga nella Riviera di Genova, avvezzo dai suoi maggiori al mestier de' ladroni, in cui era divenuto sì ricco, che al tempo della sua rivolta potè mettere in armi due mila de' suoi proprii servi. Datosi alla milizia, giunse ad essere tribuno di varie legioni, e bei fatti d'arme si contavano di lui, non men che brutti della sua abbominevole lussuria. Trovavasi egli in Colonia, e dicono che, giuocando agli scacchi, per burla un soldato o buffone il chiamò Augusto, e portata una veste di lana di color di porpora, gliela mise addosso; e che per tal atto sul timore di gastigo egli tentò l'esercito, e trovatolo condiscendente, assunse daddovero il nome di Augusto. Credesi che a questo salto più d'ogni altro lo animasse la moglie sua, donna d'animo virile, e che poi fu nominata Sansone. Anche i Lionesi, disgustati di Aureliano [996] per i mali trattamenti ricevuti da lui, confortarono costui a prendere la porpora. Per attestato di Vopisco [Vopiscus, in Probo.], la Gallia Narbonese, le Spagne e la Bretagna a lui si sottomisero, ed avendo in que' tempi gli Alemanni fatta una incursione nelle Gallie, Procolo li disfece in più volte. Ma rimase anch'egli disfatto dall'armata che contra di lui inviò Probo, dalla quale perseguitato sino ai confini, si raccomandò all'aiuto dei Franchi, ma questi il tradirono, ed egli perdè la vita. Non diverso fine ebbe un altro ribello, cioè Bonoso [Idem, in Bonoso.], che osò di farsi dichiarar Imperadore. Costui era nato in Ispagna, ma originario dalla Bretagna, e la madre sua procedeva dalla Gallia. Oltre al credito di essere un bravo uffiziale, godeva ancor l'altro di essere un solennissimo bevitore. Quando più ne tracannava, più fresco sempre appariva, in guisa che Aureliano imperadore ebbe più volte a dire: Costui non è nato per vivere, ma per bere. Se ne serviva quell'Augusto per cavare i segreti degli ambasciadori de' Barbari, restando essi ubbriachi, ed egli no. Ma perciocchè, comandando egli l'armi romane al Reno, per poca guardia de' suoi riuscì ai Germani di bruciar la flotta romana esistente in quel fiume, per timore d'esserne gastigato, si fece proclamar Imperadore [Vopiscus, in Probo.]. Pare che ciò succedesse nel tempo che Procolo si era anch'egli ribellato, e che unitamente si sostenessero contro le forze di Probo. Attesta Vopisco che occorsero varii combattimenti per atterrar questo tiranno, il quale in fine terminò la sua vita sopra una forca, con dire allora la gente: Mirate là pendente non un uomo, ma un gran fiasco. Zosimo poi [Zosimus, lib. 1, cap. 66.] e Zonara [Zonaras, in Annalibus.] fanno menzione della ribellione di un governatore della Bretagna, senza nominarlo. Del che [997] avvertito Probo, ne fece querela a Mauro Vittorino, perchè sulla raccomandazione di lui gli avesse dato quel governo. Vittorino per questo andò a trovare in Bretagna l'amico, ed ebbe maniera di farlo trucidare. Qualche sedizion di gladiatori fu anche in Roma, e con esso loro si unirono molti della plebe romana, laonde fu d'uopo che Probo mandasse dell'armi a Roma per soggiogarli. Il che pienamente gli riuscì.
Anno di | Cristo CCLXXXI. Indizione XIV. |
Eutichiano papa 7. | |
Probo imperadore 6. |
Consoli
Marco Aurelio Probo Augusto per la quarta volta e Tiberiano.
Prefetto di Roma fu Ovinio Paterno [Bucherius, de Cycl.] in quest'anno. Resta tuttavia in disputa il tempo, in cui Probo Augusto entrasse trionfante in Roma. Ma certo sembra più proprio questo che gli altri, giacchè dopo tante vittorie contro le nazioni barbare, e dopo aver restituita la pace a tutto l'imperio romano, potè egli finalmente venir a cogliere gli allori e i plausi nella dominante città [Vopiscus, in Probo.]. In questo suo trionfo precedevano varie schiere di nazioni barbariche da lui vinte. Diedesi poi una caccia magnifica di fiere nel circo, del quale era stata formata una selva, con trasportarvi gli alberi interi colle loro radici. Vi si videro mille struzzoli ed altrettanti cervi, cignali, caprioli, ibici ed altri animali che mangiano erba; e se ne lasciò la preda al popolo. Nel dì seguente si fecero comparire nell'anfiteatro cento lioni colle lor giubbe o crini, che coi ruggiti formavano una specie di tuono. Furono [998] tutti uccisi, ma con ispettacolo che diede poco divertimento o piacere al popolo. Lo stesso avvenne di ducento leopardi, di cento lionesse e di trecento orsi. Si fecero ancora combattimenti di gladiatori, condotti in numero di trecento paia; e Probo diede un ricco congiario al popolo. Aveva egli fin sul principio del suo governo rimesse in piedi le appellazioni dai processi e da altri primarii magistrati al senato, come era ne' vecchi tempi, e conceduto al medesimo senato di mandare i proconsoli, e di dar loro i legati, o vogliam dire i luogotenenti, e il gius pretorio ai governatori nelle provincie; volendo ancora che le leggi da esso Augusto fatte venissero confermate con decreto del medesimo senato. Tanta autorità restituita a quell'insigne corpo, per cui pareva ai senatori d'essere tornati ai tempi di Augusto, procacciò a Probo un gran plauso e lode. In questi tempi poi di pace, affinchè i soldati non si guastassero nell'ozio, gl'impiegò in varie faccende, specialmente in piantar vigne nelle colline delle Gallie, della Pannonia e della Mesia, permettendo ad ognuno [Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviario. Vopiscus, in Probo.], e massimamente ai popoli delle Spagne, di aver delle vigne: licenza che dopo Domiziano non era conceduta a tutti. Giuliano Apostata [Julianus, de Caesaribus.] scrive che Probo nel breve corso del suo imperio rifabbricò ed ornò ben settanta varie città. E da Giovanni Malala [Joannes Malala, in Chronogr.] abbiamo ch'esso Augusto adornò in Antiochia il Museo e il Ninfeo con de' musaici; siccome ancora ordinò che l'erario pubblico di quella città contribuisse de' salarii annuali, affinchè gratuitamente la gioventù di Antiochia fosse istruita nelle lettere.
Anno di | Cristo CCLXXXII. Indizione XV. |
Eutichiano papa 8. | |
Probo imperadore 7. | |
Caro imperadore 1. |
Consoli
Marco Aurelio Probo Augusto per la quinta volta e Vittorino.
Ebbe Roma in quest'anno per suo prefetto Pomponio Vittorino, o sia Vittoriano [Bucher., in Cycl.], il quale vien creduto da alcuni lo stesso che Vittorino console. Quai nuovi disgusti avessero i Persiani recato all'imperio romano, è a noi ignoto. Solamente sappiamo che Probo imperadore era in procinto di far loro guerra. A questo fine marciò egli coll'armata a Sirmio nella Pannonia, o sia nell'Illirico, con disegno di passar in Oriente; ma eccoti que' medesimi soldati che lui aveano renduto vincitore di tanti nemici, levargli la vita con improvvisa sedizione [Vopiscus, in Probo. Julianus, de Caesaribus.]. I motivi de' loro disgusti erano il vedersi sempre d'una in altra fatica da lui impiegati senza mai goder posa nè quartieri, dicendo egli che il soldato non dovea mangiare il pane a tradimento; siccome ancora l'essergli scappato un giorno che sperava di ridurre in tale stato di quiete la repubblica, che non vi fosse bisogno di soldati; detto inverisimile in bocca di un sì saggio imperadore. Ma quel che più irritò molti d'essi militari, fu, che desiderando egli di accrescere e rendere più fecondo il territorio di Sirmio sua patria, ordinò a molte migliaia di soldati di cavar una fossa, per seccare una vasta palude in quelle parti. Per questo inferociti coloro, un dì se gli scagliarono addosso [Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviario. Eusebius, in Chronico.]; ed ancorchè egli fuggisse nella torre ferrata, pur questa non fu sufficiente a sottrarlo al loro furore e a salvargli la vita. Credesi che succedesse la morte [1000] sua nell'agosto di quest'anno, correndo l'anno settimo del suo imperio, e che egli non avesse più che cinquanta anni d'età [Johannes Malala, in Chronogr.], principe degno di lunghissima vita, perchè in valore non la cedeva ad alcuno de' suoi predecessori, e nella clemenza moltissimi ne superò; e, trovata la romana repubblica in cattivo stato, la rimise nell'antica sua potenza di onore, più sempre pensando al pubblico che al privato suo bene. Non si sa ch'egli avesse o lasciasse figliuoli; si tiene che avesse moglie, ma senza che se ne possa assegnare con sicurezza il nome. Perciò non intendiam bene ciò che significhi Vopisco [Vopiscus, in Probo.] con dire che i di lui posteri si ritirarono da Roma, e andarono ad abitare nel territorio di Verona verso i laghi di Garda e di Como. Fu eretto dipoi dai soldati un magnifico sepolcro a Probo con iscrizione denotante lui veramente principe dabbene, e vincitor delle nazioni barbare e dei tiranni. Giunta a Roma la nuova della di lui morte, inconsolabile si fece conoscere il dolore del senato e popolo romano, non tanto per avere perduto un ottimo principe, quanto per paura che a questa perdita tenessero dietro dei gravissimi guai, siccome in fatti avvenne. Niuno vi fu degli onori anche sacrileghi, che Roma pagana sapesse decretare alla memoria dei loro Augusti, di cui restasse privo il defunto Probo, essendo egli stato deificato, innalzati templi al suo nome, e stabiliti ogni anno da farsi i giuochi circensi in onore di lui.
Prefetto del pretorio di Probo era Marco Aurelio Caro, e non pochi furono coloro che sospettarono aver egli tenuta mano all'uccision del suo principe. Vopisco [Idem, in Caro.] da simil taccia il difende, allegando l'integrità de' costumi di esso Caro, e l'aver egli fatta dipoi severa giustizia di chi avea tolta la vita a quell'insigne imperadore. Ma non seppe [1001] Vopisco assegnare qual fosse la vera patria di Caro, facendolo alcuni nato in Roma, altri nell'Illirico ed altri in Milano. I due Vittori [Aurelius Victor, in Epitome.], Eutropio [Eutrop., in Breviario.] ed Eusebio [Euseb., in Chronic.] cel rappresentano nato in Narbona nella Gallia. Egli nondimeno pretendeva che i suoi maggiori fossero di patria Romani. Per varii gradi militari era egli salito all'eminente di prefetto del pretorio, e fu sommamente amato e stimato, non men da Probo che dall'armata tutta, ancorchè, secondo Giuliano Apostata [Julianus, de Caesaribus.], egli fosse di genio melanconico e severo. Di due suoi figliuoli il primogenito fu Marco Aurelio Carino, la cui infame vita, troppo diversa da quella del padre, la vedremo fra poco. L'altro si crede appellato Marco Aurelio Numeriano, di costumi saggio e di maniere molto amabile. In due iscrizioni da me date alla luce [Thesaurus Novus Inscription., pag. 256, num. 7, et 461, num. 5.] egli porta il nome di Marco Numerio Numeriano; e però è da vedere se sieno legittime certe medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] spettanti a lui, o se il difetto fosse in tali iscrizioni. Ora, tolto di vita Probo, concorsero i voti dei più dell'imperiale armata nella persona di esso Caro, e il proclamarono Augusto, giudicandolo più d'ogni altro meritevole di quell'eccelsa dignità, e volendo con ciò rimettere in piedi l'uso negli eserciti di creare gl'imperadori, senza riceverli dalle mani del senato. Portata questa nuova a Roma, tanto il senato che il popolo se ne rattristarono forte, non perchè non sapessero ch'egli era un buon uomo, benchè troppo inferiore a Probo [Vopiscus, in Probo.], ma perchè ognun temeva Carino, di lui figliuolo, troppo screditato per li suoi vizii. Nè tardò già Caro a dichiarar Cesari amendue i suoi figliuoli, cioè Carino e Numeriano. Poscia perchè [1002] il minore troppo giovane non parea proprio per governar popoli, inviò il maggiore, cioè Carino, nelle Gallie [Vopiscus, in Carino.], dandogli facoltà di comandar a quelle provincie, ed insieme all'Italia, all'Illirico, alle Spagne, alla Bretagna, come se fosse Augusto; giacchè esso Caro imperadore avea già presa la risoluzione di passar in Oriente contra dei Persiani. Ma si mostrò sempre scontentissimo di non avervi potuto inviar Numeriano, perchè ben conosceva le ribalderie di Carino; anzi fu creduto che, se vivea un poco di più, avrebbe levato ad esso Carino il titolo di Cesare, per non lasciare un pessimo successore a sè stesso e all'imperio. Mandandolo nondimeno nelle Gallie, gli mise a' fianchi de' consiglieri onorati e saggi, rimedio di poca utilità, qualora nei principi si unisca debolezza di testa ed inclinazione cattiva.
Anno di | Cristo CCLXXXIII. Indizione I. |
Eutichiano papa 9. | |
Caio papa 1. | |
Caro imperadore 2. | |
Carino imperatore 1. | |
Numeriano imperadore 1. |
Consoli
Marco Aurelio Caro Augusto e Marco Aurelio Carino Cesare.
Ne' Fasti pubblicati dal Noris e presso Anastasio bibliotecario, Caro Augusto è detto console per la seconda volta. Perchè gli altri Fasti e varie leggi non accennano questo suo secondo consolato, nè pur io ho ardito di metterlo per cosa certa. Il Panvinio [Panvin., in Fastis Consul.] nondimeno reca un'iscrizione, in cui Caro è chiamato CONSVL II. Aggiugne che nel luglio furono sustituiti con Numeriano Cesare e Matroniano, adducendo l'autorità di Vopisco. Presso di questo storico non [1003] ne trovo io vestigio. Nella Cronica Alessandrina [Chron. Paschale, seu Alexandr.] sotto quest'anno, oltre Caro e Carino, sono chiamati consoli Diocleziano e Basso. Di questi due consoli sustituiti pare che s'incontri memoria in un marmo da me pubblicato [Thesaurus Novus Inscripit., pag. 368, n. 1.]. Noi vedremo in fatti fra poco Diocleziano console per la seconda volta: segno di un precedente consolato. Fu in quest'anno prefetto di Roma Titurio Robusto o Roburro. Alcune leggi ci fan vedere Carino e Numeriano decorati col titolo d'Imperadori Augusti: il che vien confermato da Zonara [Zonaras, in Annalib.]; ma è incerto il mese in cui dal padre fossero presi per colleghi dell'imperio. La mente di Probo, terrore de' Barbari, avea fatto calar l'orgoglio ai Sarmati. Ma da che costoro il seppero estinto, si prepararono di nuovo per invadere l'Illirico e la Tracia, con isperanza ancora di maggiori progressi. Mossi dalle lor contrade, trovarono lo Augusto Caro coll'armi in mano, il quale lasciò loro un buon ricordo del valore romano [Vopiscus, in Caro.], con ucciderne sedici mila, e farne venti mila prigionieri. Di più non vi volle a rimettere la pace nell'Illirico. Forse avrebbe fatto di più Caro, se i movimenti de' Persiani non l'avessero chiamato in Oriente a quell'impresa che già era disegnata da Probo, e desiderata dall'esercito suo, per isperanza di fare maggior bottino quivi che nei paesi dei Barbari settentrionali. Non si sa che egli, prima d'imprendere il viaggio di Levante, venisse a Roma. Ne dà qualche indizio Vopisco [Vopiscus, in Carino.], con dire che Diocleziano, udendo lodar i giuochi teatrali e circensi, dati da Caro in Roma, rispose che Caro s'era ben fatto ridere dietro nell'imperio suo. Ma anche in lontananza di esso Caro si poterono far quegli spettacoli. Quel ch'è certo, si portò Caro col suo esercito nella Mesopotamia, ed essendosene [1004] ritirati i Persiani, senza difficoltà la ricuperò tutta. Di là entrato nel territorio persiano, arrivò sino a Ctesifonte, capitale allora della Persia. Eutropio [Eutrop., in Breviar.] e Zonara [Zonaras, in Annalib.] scrivono ch'egli la prese insieme con Seleucia; per la quale impresa gli fu dato il titolo di Partico. Vero è che da' Persiani gli fu voltato addosso un canale del fiume Tigri; tuttavia egli pieno di gloria si ritirò in luogo sicuro coll'esercito suo: sicuro, dissi, dai nemici persiani, ma non già dai domestici, essendo anche negli antichi tempi stato disputato di qual genere di morte terminasse i suoi giorni [Vopiscus. Aurel. Victor. Eutropius. Eusebius. Zonaras.]. Ma comune opinione si è ch'egli in vicinanza del fiume Tigri cadesse infermo, e sopraggiunto un temporale sì nero, che dei suoi cortigiani uno non vedeva l'altro, scoppiò un fulmine, da cui morisse soffocato, e che nello stesso tempo si attaccasse il fuoco alla sua tenda. Altri dissero che i di lui camerieri, disperati al mirarlo morto, appiccarono il fuoco alla tenda medesima, ma ch'egli era mancato di vita per la malattia in quel brutto frangente. Tal fu la relazion di sua morte inviata al prefetto di Roma. Se in ciò intervenisse malizia alcuna umana, non v'ha che Dio che lo sappia. Fu egli deificato [Mediobarbus, in Numism. Imperator.], secondo il sacrilego stile de' Romani gentili. Fra le molte favole che s'incontrano nella Cronografia di Giovanni Malala [Johannes Malala, in Chronograph.], vi sono ancor queste, cioè che Caro diede il nome di Caria ad una delle provincie di Oriente, siccome ancora il nome alla città di Caras nella Mesopotamia; e ch'egli tornato a Roma, nel far poi guerra contro gli Unni, restò ucciso, essendo consoli Massimo e Gennaro, cioè nell'anno 288. Verso il fine dell'anno vien creduto che seguisse la morte di Caro, e per cagion di essa restarono imperadori Carino e [1005] Numeriano suoi figliuoli. Fuor di dubbio è che Numeriano si trovava con esso lui alla guerra contro ai Persiani; e sembra che Carino tuttavia soggiornasse alle Gallie. L'anno fu questo in cui Eutichiano sommo pontefice diede fine al suo vivere, ed ebbe per successore Caio papa.
Anno di | Cristo CCLXXXIV. Indizione II. |
Caio papa 2. | |
Carino imperadore 2. | |
Numeriano imperadore 2. | |
Diocleziano imperadore 1. |
Consoli
Marco Aurelio Carino Augusto per la seconda volta e Marco Aurelio Numeriano Augusto.
Il Panvinio [Panvin., in Fastis Consul.] e il Relando [Reland., in Fastis.], che mettono anche Numeriano Augusto console per la seconda volta, lavorano sul supposto ch'egli fosse sostituito console nell'anno precedente; il che dissi non aver fondamento. Certamente tutti i Fasti e le leggi ed altre antiche memorie parlano bensì del secondo consolato di Carino, ma ciò non dicono di Numeriano. Così nelle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imp.] il troviamo appellato solamente CONSVL, e non già consul II. Puossi perciò riputar falso quel marmo che vien citato dal Panvinio col consul II. Si trova prefetto di Roma in questo e nel seguente anno Caio Ceionio Varo. Riconosciuti furono per imperadori in Roma e in tutte le provincie i due fratelli Carino e Numeriano, ed abbiam leggi pubblicate in quest'anno col nome di amendue. Resta tuttavia incerto s'essi venissero a Roma. Si crederebbe di sì, all'udir Vopisco [Vopiscus, in Carino.], il quale racconta di aver veduti dipinti i giuochi romani celebrati da loro con rarità di musiche e divertimenti teatrali, e questi nella città di Roma: tuttavia le apparenze [1006] sono che dalle Gallie non venisse sì tosto in Italia Carino, e che a Numeriano [Vopiscus, in Numeriano.] non restasse tempo di ritornarci. Imperciocchè mentre esso Numeriano era in viaggio alla volta dell'Italia, e, secondo Sincello [Syncell., Histor.], si trovava in Eraclea della Tracia, tolta gli fu la vita. Aveva egli presa in moglie una figlia di Arrio Apro prefetto del pretorio, cioè di un personaggio che moriva di voglia di esser imperadore; e coll'autorità del suo grado e colla confidenza di suocero, sperava facile l'ottenere il suo intento, sagrificando il giovinetto Numeriano alla sua ambizione. Costui lo aveva spinto ad inoltrarsi nel paese de' Persiani, lusingandosi di farlo perire in quella impresa per man de' nemici. Non ebbe effetto la mina. Avvenne [Victor, de Caesaribus.] che Numeriano fu sorpreso da mal d'occhi, per cui non si lasciava vedere, e viaggiava chiuso in una lettiga, ritornando coll'armata dalla Persia. Si servì di questa occasione Apro per uccidere il genero Augusto, conducendo poi il di lui corpo per più giorni in quella lettiga, come se fosse vivo, per fare intanto de' maneggi affin di salire sul trono. Non è sì facile il capire come alla uffizialità si potesse per tanto tempo nascondere un imperadore, morto, non nel suo palagio, ma in una marcia. Finalmente il fetore del cadavere scoprì il fatto, ed accorgendosi ognuno che non si poteva imputare se non a frode del capitano delle guardie, cioè ad Apro, lo aver tenuta così occulta la morte del principe, fu egli preso e condotto avanti alle insegne e schiere messe in ordinanza. Si tenne un'assemblea di tutta l'armata, ed, alzato un tribunale, si cominciò a trattar di eleggere un altro che fosse buon principe, ed insieme giustissimo vendicatore della morte di Numeriano. Concorsero i voti dei più nella persona di Diocleziano, capitano allora della guardia a cavallo de' domestici, di cui parleremo [1007] all'anno seguente. Dall'anno presente appunto prese principio l'era di Diocleziano, appellata anche de' Martiri, e celebre nella storia della Chiesa. Salito dunque Diocleziano sul palco, e proclamato Augusto, mentre i soldati faceano istanza di sapere chi fosse stato l'uccisore del principe, giurò egli prima di non aver avuta parte nella morte di lui; poi, messa mano allo stocco, lo piantò nel petto ad Apro, con dire: Costui è quegli che ha tolto di vita Numeriano. Gloriavasi egli dipoi [Victor, de Caesaribus.] di avere ucciso un Apro, cioè un cignale. Il dire Giovanni Malala [Johannes Malala, Chronogr.] che Numeriano dopo la morte del padre riportò delle vittorie contro i Persiani, può aver qualche sembianza di verità; ma non già il soggiugnere che egli, assediato nella città di Caras dai Persiani, fu preso da essi, ucciso e scorticato, con tenere dipoi la di lui pelle come un trofeo di gloria per loro, di vergogna per gli Romani. Son qui attribuite a Numeriano le disgrazie di Valeriano Augusto. Zonara [Zonaras, in Annalibus.] rapporta bensì questa tradizione, ma aggiugne l'altra più fondata ch'egli fu ucciso da Apro. Nella Cronica poi di Alessandria [Chron. Alexandrin.] è corso doppio errore, perchè Carino, e non già Numeriano, vien detto da' Persiani. Trovandosi una legge di Diocleziano Augusto, data nel dì 15 di ottobre di quest'anno [L. ut nemo invit., Ibi. 3 Cod.], se ne deduce che nel settembre accadesse la morte di Numeriano e l'innalzamento di Diocleziano, con restar tuttavia vivo e in forze l'imperadore Carino. Ed ecco due competitori Augusti, e, per conseguente, guerra civile fra i Romani. Il peggio fu che anche un terzo concorse a questo mercato, cioè Giuliano Valente [Victor, de Caesaribus.], il quale essendo Correttore della Venezia, appena udì la morte di Caro Augusto, che prese la porpora e il titolo d'Imperadore. [1008] Sicchè tre emuli si videro disputare il dominio del romano imperio. In Roma fu compianta la morte di Numeriano, giovane universalmente amato per le sue buone qualità, fra le quali si contava ancora l'eloquenza [Vopiscus, in Numeriano.], dicendosi che egli componesse delle declamazioni; e fosse anche sì eccellente nella poesia, che superasse tutti i poeti del suo tempo. Una medaglia (se pure è legittima) vi ha [Mediobarb., in Numismat. Imperat.], in cui si trova la di lui deificazione; e che Roma continuasse dopo la di lui morte a riconoscere per imperadore suo fratello Carino Augusto, senza far caso di Diocleziano e di Giuliano Valente, pare che non se ne abbia a dubitare.
Anno di | Cristo CCLXXXV. Indiz. III. |
Caio papa 3. | |
Carino imperadore 3. | |
Diocleziano imperadore 2. |
Consoli
Marco Aurelio Carino Augusto per la terza volta ed Aristobolo; Caio Aurelio Valerio Diocleziano Augusto per la seconda volta in Oriente.
Ancorchè le leggi spettanti a questo anno, e riferite dal Relando [Reland., Fast. Consul.], ed anche i Fasti antichi solamente ci esibiscano consoli ordinarii nell'anno presente Diocleziano Augusto per la seconda volta ed Aristobolo, si ha nondimeno, a mio credere, da tenere che Carino Augusto per la terza volta nelle calende di gennaio procedesse console insieme con Aristobolo. Siccome osservò il cardinal Noris [Noris, Dissertat. de Num. Imper. Dioclet.] coll'autorità di Vittore, Aristobolo era prefetto del pretorio di Carino, e fu ai di lui servigi sino alla di lui morte, succeduta, siccome diremo, in quest'anno. Come dunque può stare che Aristobolo procedesse console con [1009] Diocleziano nemico di Carino sul principio dell'anno presente? Però la legge [L. 2, C. si quis aliquem.] che si dice data nelle calende di questo anno, Diocletiano II Augusto, et Aristobulo Coss., o è fallata nel mese, o pure Diocleziano, rimasto solo nell'imperio, fece mutar la data, come ora sta. Sembra dunque credibile ciò che Idacio [Idacius, in Fastis.] scrisse ne' Fasti: cioè che Carino in Occidente con Aristobolo, e Diocleziano in Oriente con altro collega prendessero il consolato. Essendo poi riuscito a Diocleziano, il più furbo uomo del mondo, di sedurre secretamente Aristobolo ed altri del partito di Carino ad essere traditori del loro principe, dal che venne la caduta di esso Carino Diocleziano dipoi, per premiar Aristobolo, il lasciò continuar seco nel consolato, con volere che da' precedenti atti si cancellasse il nome di Carino, e si leggesse in essi il solo suo e di Aristobolo. Alla rovina poi di Carino sommamente contribuì il discredito ch'egli s'era guadagnato colla enormità de' suoi vizii e col suo vivere troppo sregolato. Il ritratto a noi fatto da Vopisco [Vopiscus, in Carino.] cel rappresenta per uomo dato solo ai piaceri, ed anche più illeciti, perduto nel lusso, e con testa insieme leggiera. Nove mogli l'una dopo l'altra aveva preso, ed anche aveva ripudiate, rimandandole gravide per lo più. Abborrì e cacciò in esilio i suoi ottimi amici, per prenderne de' pessimi. I posti principali erano da lui conferiti a gente infame. Uccise il suo prefetto del pretorio, e in suo luogo mise Matroniano, antico mezzano delle sue libidini. Diede anche il consolato ad un suo notaio della medesima scuola, ed empiè il palazzo di buffoni, meretrici, cantori e ruffiani. Per non durar la fatica di sottoscrivere le lettere e i decreti, si serviva della mano di un complice dei suoi impuri eccessi. Aggiungasi che di varii atti della sua crudeltà parla Eutropio [Eutrop., in Breviar.]; [1010] al qual vizio si aggiunse ancora l'alterigia, leggendosi questa nelle superbe lettere che scriveva al senato e nel poco rispetto che portava ai consoli, anche prima di essere imperadore. Ne' suoi conviti, ne' suoi bagni si notava una pazza prodigalità. In somma tali erano le di lui perverse inclinazioni e scapestrata vita, che l'imperador Caro ebbe più d'una volta a dire: Costui non è mio figlio; e fu creduto che esso suo padre meditasse di levarlo dal mondo per non lasciar dopo di sè successore sì indegno. Soggiornava probabilmente tuttavia nelle Gallie Carino, quando gli giunsero gli avvisi della morte di Numeriano suo fratello, e che Diocleziano in Oriente, Giuliano Valente nell'Illirico erano stati proclamati Augusti. Laonde [Aurelius Victor, in Epitome.], raunate quante forze potè, si mosse per abbattere, se poteva, cotali competitori. Girata l'Italia, e venuto nell'Illirico, diede battaglia ad esso Valente, ed ebbe la fortuna di vincerlo e di levargli la vita. Continuato poscia il viaggio, arrivò nella Mesia, dove gli fu a fronte Diocleziano coll'esercito suo. Seguirono fra loro varii combattimenti; ma finalmente tra Viminacio e Murgo si venne ad una giornata capitale, in cui riuscì a Carino di rovesciar l'armata nemica e d'inseguirla. Erano molti de' suoi, per attestato di Aurelio Vittore [Idem, ibidem.], disgustati di un sì sfrenato Augusto, perchè non erano salve dalla di lui libidine le mogli loro; e pensando che, s'egli restava vincitore e solo padron dello imperio, maggiormente imperverserebbe, e verisimilmente ancora mossi dalle offerte segrete di Diocleziano, nell'inseguir ch'egli faceva i fuggitivi, lo stesero morto con più ferite a terra. Così in poco più di due anni mancò l'imperador Caro colla sua prole; e Diocleziano Augusto rimasto assodato sul [1011] trono imperiale, da uomo accorto, perdonò a tutti, e massimamente ad Aristobolo console, uomo insigne, a cui conservò tutti i suoi onori. Prese anche al suo servigio quasi tutte le milizie che aveano servito a Carino: azione, a cui fece ognuno gran plauso, al veder terminata una guerra civile senza esilii, senza morti e confische di beni, siccome cosa rara e quasi senza esempio sotto Roma pagana. Che Diocleziano vincitore venisse dipoi in questo anno a farsi conoscere a Roma, e a ricevere le sommessioni del senato e del popolo, sembra non inverisimile; e Zonara [Zonaras, in Annalibus.] lo scrive. Nulladimeno le memorie antiche osservate dal cardinal Noris [Noris, de Dioclet. Num.] ci portano a credere ch'egli andasse a passar il verno nella Pannonia, con apparenza che meditasse una spedizione contra de' Persiani, perchè con essi non era seguita pace alcuna.
Anno di | Cristo CCLXXXVI. Indizione IV. |
Caio papa 4. | |
Diocleziano imperadore 3. | |
Massimiano imperadore 1. |
Consoli
Marco Giunio Massimo per la seconda volta e Vettio Aquilino.
Diocleziano, che abbiam veduto sì prosperosamente portato al soglio imperiale, e sbrigato dagli emuli suoi, era oriondo [Eutrop., in Brev. Lactant., de Mort. Persec.] da Dioclea, città della Dalmazia; portò anche il nome di Diocle, che cangiò poscia in quello di Diocleziano. L'uno dei Vittori [Aurel. Victor, in Epit. Zonaras, in Annal.] e Zonara il fanno di famiglia bassissima; ed opinione anche fu che fosse liberato, o pur figliuolo di un liberto di Anulino senatore. I più nondimeno credeano che suo padre fosse stato uno scrivano o notaio. Non si sa perchè egli assumesse il nome [1012] di Caio Valerio Diocleziano, come per l'ordinario era chiamato. Truovasi col nome ancora di Caio Aurelio Valerio Diocleziano, per mostrarsi forse successore ed erede di Marco Aurelio Caro, e di Numeriano suo figlio. Per la via dell'armi andò salendo sino ad essere comandante delle milizie della Mesia; e sotto Numeriano fu capitano della guardia a cavallo. Fama era che gli fosse stato predetto dalla moglie di un druido, a Tungres nelle Gallie, ch'egli sarebbe imperadore [Vopiscus, in Numeriano.]. Imperocchè, facendo i conti con quella donna istessa, questa disse ch'egli era troppo avaro. Diocleziano burlando le rispose che sarebbe poi liberale quando fosse divenuto imperadore. Replicò la donna che non burlasse, perchè tale sarebbe, allorchè avesse ucciso un apro, cioè un cignale. Non cadde in terra questa parola. Da lì innanzi Diocleziano si dilettò molto della caccia e di uccidere dei cignali, ma senza veder mai effettuata la predizione. Allora poi ch'ebbe ucciso il prefetto del pretorio Apro, gridò: Ora sì che ho ucciso il fatal cignale; racconto che ha del curioso, purchè questa cosa nata non fosse e inventata da qualche bell'ingegno dopo del fatto. Il credito di Diocleziano [Aurelius Victor, in Epitome. Lactantius, de Mort. Persecut. Eutrop., in Breviar.] l'aveva portato al posto di console surrogato nell'anno 283, siccome accennai di sopra. Non si può negare: in lui s'univano delle invidiabili qualità, e soprattutto mirabile fu in lui l'accortezza e vivacità della mente. In questa non avea pari; col suo mezzo penetrava facilmente nel cuore altrui per iscoprirne le intenzioni e non lasciarsi ingannare; e mercè d'essa ne' bisogni e pericoli sapea tosto ritrovar ripieghi e scappatoie, con prevedere a tutto, con simulare e dissimulare dovunque occorreva. L'umor suo era veramente impetuoso e violento, ma s'era anche avvezzato a ritenerlo e a comandare a sè [1013] stesso; e quando ancora prorompeva in crudeltà, avea l'arte di coprirla, o di rigettarne l'odiosità sopra i consiglieri e ministri. Ancorchè fosse inclinatissimo al risparmio e alla avarizia, sino a commettere ogni sorta d'ingiustizia per danari, pure si mostrava appassionato del fasto, massimamente nella pompa de' suoi abiti, sì ricchi d'oro e di gemme, che superò la vanità de' più vani suoi antecessori. Ma questo fu il più picciolo sfogo della sua superbia. Giunse egli col tempo, ad imitazion di Caligola e di Domiziano, a farsi chiamar Signore, ed adorare qual Dio: pazzia che Vittore scusa con dire ch'egli non lasciò per questo di comparir padre dei suoi popoli. Noi vedremo le di lui militari imprese; e pure Lattanzio ci assicura ch'egli naturalmente era timido e tremava ne' pericoli. Ma in fine, la lunghezza del suo imperio, benchè agitata da assaissime tempeste, è un bastante argomento di credere che Diocleziano fosse uomo di gran testa, e capacissimo di reggere un vasto imperio, con saper tenere in freno i soldati e i grandi, veduti da noi autori in addietro di tante mutazioni e tragedie.
Aveva ben egli moglie, cioè Prisca, ma non aveva figliuoli maschi da essa. Però, volendo provvedersi di un aiuto, per sostenere il gran peso di quell'ampia monarchia, uno ne scelse, e questi fu Massimiano, appellato Marco Aurelio Valerio Massimiano nelle monete [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] ed iscrizioni: nomi ch'egli prese dallo stesso suo benefattor Diocleziano, come se fosse stato adottato da lui. Convennero anche fra loro che Diocleziano prendesse il titolo di Giovio, e Massimiano quello d'Erculio, quasi che fosse rinato Giove, per cui tante belle azioni Ercole fece, come s'ha dalle favole. E ornati di questi due vani e ridicoli titoli si trovano amendue nelle antiche storie. Credesi che Diocleziano fosse [1014] nato circa l'anno 255, e Massimiano circa l'anno 250. La patria d'esso Massimiano fu una villa del distretto di Sirmio nella Pannonia, dove egli col tempo fece fabbricare un suntuoso palazzo. I suoi genitori si guadagnavano il pane con lavorare a giornata per altri. Ma il mestier della guerra quel fu che da sì bassa condizione alzò a varii gradi e finalmente alla più sublime grandezza Massimiano [Aurelius Victor. Lactantius. Eutropius.]. Era egli sempre stato amico intrinseco di Diocleziano, e partecipe di tutti i suoi segreti. Parecchi attestati della sua bravura parimente avea dato in varie guerre al Danubio, all'Eufrate, al Reno, all'Oceano [Mamertinus, in Panegyrico.] sotto Aureliano e Probo Augusti; e però Diocleziano, sentendo sè stesso di natural timido e bisognoso di chi avesse petto per lui alle occasioni, elesse l'amico Massimiano per suo braccio diritto, e poi per compagno nel trono, tuttochè non apparisca che fra loro passasse parentela alcuna. Cioè primieramente nel precedente anno il creò Cesare, e cominciò ad appoggiargli i rischi e le più importanti imprese dell'imperio. Da che fu partito dalle Gallie Carino, ovvero dappoichè s'intese la di lui morte, s'erano sollevati in esse Gallie due capi di masnadieri, cioè Lucio Eliano e Gneo Salvio Amando: che così si veggono appellati, e col titolo d'Augusti in due medaglie [Goltzius et Mediobarbus, in Numismat. Imperat.], se pur esse son vere, giacchè Eliano dal Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] è appellato Aulo Pomponio, e può dubitarsi che il desiderio degli amatori dei musei di aver continuata la serie di tutti gli imperadori, abbia mosso gl'impostori ad appagarli. Costoro adunque alla testa di numerose schiere di contadini e ladri, chiamati Bagaudi, si diedero a scorrere e saccheggiar le Gallie, con forzare talvolta anche le stesse città. [1015] Diocleziano contra di tal gente non tardò a spedir Massimiano [In Panegyr. Max. et Const. Aurel. Victor. Eutropius.] con assai forze, e questi dopo alcuni combattimenti dissipò quella canaglia, e rimise in pace le Gallie. S'è disputato fra i letterati [Noris. Pagius. Tillemont et alii.] se questa impresa di Massimiano Erculio appartenga all'anno precedente, oppure al presente o seguente. Probabilmente i lettori non amerebbono ch'io entrassi in sì fatto litigio, e massimamente perchè non è sì facile il deciderlo. Quel sì in che convengono essi eruditi, si è che Diocleziano essendo in Nicomedia, e sempre più riconoscendo quanto egli si poteva promettere di questo suo bravo e vecchio amico, cioè di Massimiano, nell'anno corrente il dichiarò anche Augusto e collega nell'imperio nel dì primo di aprile, per quanto si ricava da Idacio nei Fasti [Idacius, in Fastis.]. Fu stupenda cosa in que' tempi il vedere come questi due Augusti, senza legame di sangue, e d'umore l'un dall'altro diverso, pure andassero da lì innanzi sì uniti, o governassero a guisa di due buoni fratelli. Conservava Massimiano quel rustico che egli aveva portato dalla nascita, non meno nel volto che ne' costumi [Aurelius Victor, ibidem. Eutrop., in Breviar. Lactantius, de Mortib. Persecutor.]. Il suo naturale era aspro e violento, privo di civiltà e di umanità; si osservava anche dell'imprudenza nei suoi disegni. Diocleziano, all'incontro, siccome furbo al maggior segno, affettava l'affabilità e la dolcezza [Vopiscus, in Aureliano.], con lamentarsi anche talvolta della durezza di Massimiano. Ma sapeva valersi della di lui ferocia e selvatichezza all'esecuzion de' suoi voleri; e qualor si trattava di qualche risoluzion severa ed odiosa, a lui ne dava l'incumbenza e l'onore, sicuro che l'altro, senza farsi pregare, l'avrebbe ubbidito. Il perchè chi mirava le sole apparenze, diceva che Diocleziano [1016] era nato per fare un secolo d'oro, e Massimiano un secolo di ferro. Abbiamo inoltre da Lattanzio [Lactantius, de Mortib. Persecutor., cap. 8.] che Massimiano non si assomigliava già all'altro nell'avarizia, amando di comparir liberale; ma qualora abbisognava di danaro, sapeva anche addossar dei delitti di false cospirazioni ai più ricchi senatori, e fargli uccidere per occupare i loro beni. Parla in oltre Lattanzio dell'insaziabil lussuria di Massimiano, e della violenza che egli usava dappertutto alle figliuole de' benestanti. Un passo di Mamertino [Mamertinus, in Panegyr. Maximiani.] sembra indicare che appena dopo la sconfitta de' Bagaudi facessero un'irruzion nelle Gallie i Borgognoni, Alamanni, Caiboni ed Eruli, popoli della Germania. Furono anch'essi ben ricevuti da Massimiano che si trovava in quelle parti; pochi d'essi si contarono che non restassero vittima delle spade romane, niuno quasi essendone restato che potesse portar la nuova della rotta alle proprie contrade. Vedesi una iscrizione fatta prima del dì 17 di settembre dell'anno presente [Pagius, in Critic. Baron. ad hunc annum.], in cui Diocleziano porta i titoli di Germanico e Britannico, credendosi questi derivati dalla vittoria suddetta, e da qualche altra riportata dai suoi generali nella Bretagna.
Anno di | Cristo CCLXXXVII. Indizione V. |
Caio papa 5. | |
Diocleziano imperadore 4. | |
Massimiano imperadore 2. |
Consoli
Caio Aurelio Valerio Diocleziano per la terza volta e Marco Aurelio Valerio Massimiano.
Prefetto di Roma [Bucherius, de Cycl.] fu in questo anno Giunio Massimo, da noi veduto console. Un medaglione illustrato dall'incomparabile cardinal Noris [Noris, de Num. Dioclet.], e [1017] battuto in quest'anno, ci rappresenta Diocleziano e Massimiano Augusti, condotti in una carretta trionfale: segno che essi celebrarono qualche trionfo, oppure che questo fu loro decretato dal senato. Ciò vien creduto fatto o per le vittorie riportate nel precedente anno da Massimiano contra le nazioni germaniche accennate di sopra, oppure per qualche altra guadagnata contra de' Persiani, siccome dirò, ovvero contra de' Franchi e Sassoni [Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviar.], i quali per mare faceano delle scorrerie nell'Oceano contro le Gallie. Certamente Mamertino [Mamertinus, in Panegyr. Maximiani.], per lodar Massimiano, scrive (probabilmente con iperbole e adulazione oratoria) che erano seguiti innumerabili combattimenti nelle Gallie contra de' Germani, con aggiugnere che costoro dipoi giunsero nel dì primo di quest'anno fin sotto le mura di Treveri. Massimiano, che quivi era a quartier di verno, e solennizzava l'ingresso del suo consolato, prese l'armi, si scagliò contra di loro, e li mise in rotta. Venuta poi la primavera, valicò il Reno, portando la guerra in casa de' medesimi Barbari, devastando quel paese con loro gran danno. Il movimento poco fa accennato dei Franchi e Sassoni per mare contra le Gallie ebbe principio nell'anno precedente. Massimiano non perdè tempo ad allestire anch'egli una flotta di navi per opporla a quelle barbare nazioni, e ne diede il comando a Carausio, uomo bassamente bensì nato fra i popoli Menapii [Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviar.] nella Fiandra, oppur nel Brabante, ma di gran credito, specialmente nel condurre navi e far battaglie marittime. Che costui desse delle percosse a que' corsari, pare che si ricavi dal panegirico di Mamertino. Ma a poco a poco si venne scorgendo che Carausio prendea gusto a [1018] continuar la guerra in vece di estinguerla, lasciando che i Franchi e i Sassoni venissero a spogliar le contrade romane, per poscia tor loro il bottino, senza pensare a restituirlo a chi si dovea. Ordinò perciò Massimiano colla consueta fierezza che gli fosse tolta la vita. Trapelò quest'ordine, ed avvisatone Carausio, provvide a sè stesso col condur tutta la flotta a lui raccomandata nella Bretagna, dove tratte nel suo partito le milizie romane di guarnigione in quella grand'isola, si fece acclamare Augusto. Il Noris crede ciò fatto nell'anno presente, ed è seco Eusebio [Eusebius, in Chron.]. Il Pagi [Pagius, Crit. Baron.] nel precedente. Diedesi poscia Carausio a far preparamenti per sostenersi in quel grado, fabbricando nuovi legni, facendo leve di gente e tirando al suo servigio una gran copia di Barbari, a' quali insegnò l'arte di combattere in mare. Perchè nel medaglione prodotto dal Noris si vede tirato il carro trionfale da quattro elefanti, potrebbe ciò piuttosto indicar vittorie riportate da Diocleziano in Levante contra de' Persiani. Certo è ch'egli marciò a quella volta, non volendo soffrire che Narseo, o Narse, re di Persia (altri dicono Vararane II) avesse [Mamertinus, in Panegyr. Maximiani, c. 7.] dopo la morte di Caro Augusto occupata la Mesopotamia, e se la ritenesse. Sembra in oltre che l'armi persiane fossero penetrate nella Soria, e ne minacciassero la stessa capitale Antiochia. Chiaramente scrisse Mamertino che i Persiani, o pel terrore o per la forza dell'armi romane, si ritirarono dalla Mesopotamia, e si vide obbligata quella nazione ad aver per confine il fiume Tigri. E verisimilmente fu in quella occasione che il re loro inviò dei ricchi presenti a Diocleziano, con parere eziandio che seguisse pace fra loro. Certamente la storia non ci esibisce per molti anni dissensione alcuna fra i Romani e i Persiani; e però [1019] sembra che Diocleziano ottenesse l'intento suo, non solo di ricuperar le provincie e città perdute in Oriente, ma di lasciar quivi anche la quiete. Convien nondimeno confessare che troppo difficil cosa è il riferire a' suoi proprii anni le imprese di questi due imperadori, perchè d'esse fanno bensì menzione i panegiristi d'allora, ma senza ordine di tempi. Perciò può essere che appartenga all'anno seguente, come pensò il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], la guerra fatta da Massimiano ai Germani di là dal Reno, con dare ampiamente il guasto al loro paese; e che medesimamente si debba differire ad esso anno la rinnovata amicizia dei Persiani con Diocleziano, e la spedizion dei regali fatta da quel re, e mentovata da Mamertino [Mamertinus, in Paneg. Maximian., cap. 10.]. Ma in fine, quel che importa, si è di saper gli avvenimenti d'allora, ancorchè non si possa con sicurezza assegnarne il tempo.
Anno di | Cristo CCLXXXVIII. Indiz. VI. |
Caio papa 6. | |
Diocleziano imperadore 5. | |
Massimiano imperatore 3. |
Consoli
Marco Aurelio Valerio Massimiano Augusto per la seconda volta e Pomponio Januario.
Fu, secondo il catalogo pubblicato dal Cuspiniano e Bucherio, in questo anno prefetto di Roma Pomponio Januario; però il Panvinio [Panvin., in Fastis Consul.] ed altri han creduto ch'egli nello stesso tempo esercitasse l'impiego del consolato. E parendo veramente che in questi tempi non ripugnasse l'esser insieme console e prefetto di Roma, perciò ho osato anche io di dar a questo console il nome di Pomponio. Stimò eziandio il suddetto Panvinio che non Massimiano Augusto, ma un Massimo procedesse console in [1020] quest'anno, affidato ad un passo di Ammiano [Ammianus, lib. 23.], e di uno o due scrittori; ma il cardinal Noris colla comune dei Fasti ha assicurato qui il consolato a Massimiano. Se noi sapessimo l'anno preciso, in cui Mamertino recitò il suo primo panegirico nel natale di Roma, cioè nel dì 21 d'aprile, in lode di esso Massimiano imperadore, alla cronologia d'allora si porgerebbe qualche sussidio. Il Noris lo riferisce all'anno seguente, il Pagi al presente, altri più tardi. A me basterà di dire raccogliersi da quel panegirico che Massimiano [Mamertinus, in Panegyr., cap. 7 et 12.], nel medesimo tempo che dava delle lezioni del suo valore ai popoli nemici della Germania, mettendo a ferro e fuoco le lor campagne, faceva un formidabil preparamento di navi ne' fiumi grossi delle Gallie, con disegno di liberar la Bretagna dall'usurpatore Carausio. Accadde che in questo o pure nel precedente anno per una mirabil serenità si mostrò favorevole il cielo alla fabbrica di essa flotta, e il verno stesso parve una primavera. Non si sa ben distinguere nel testo di esso Mamertino se a Massimiano o pure a Diocleziano sia da riferire la venuta con un buon esercito nella Rezia, e l'aver quivi riportata qualche vittoria contra i Germani, con istendere da quella parte i confini del romano imperio. Certo è che Diocleziano circa questi tempi ritornò carico d'allori dalla spedizion militare contra de' Persiani in Europa, per trattare con Massimiano dei pubblici affari. Fa parimente menzione Mamertino [Idem, ibid., cap. 10.] di Genobon, o sia Genobaud, re di qualche nazion germanica (il Valesio [Valesius, Hist. Franc.] ed altri il credono re de' Franchi), il quale con tutta la sua gente venne ad inchinar Massimiano, ad implorar la pace, e a promettere buona amicizia e lega.
Anno di | Cristo CCLXXXIX. Indiz. VII. |
Caio papa 7. | |
Diocleziano imperadore 6. | |
Massimiano imperadore 4. |
Consoli
Basso per la seconda volta e Quinziano.
Seguitò ad essere prefetto di Roma Pomponio Januario. Prima che Mamertino recitasse il suo panegirico, racconta egli che i due imperadori vennero, Diocleziano dall'Oriente, e Massimiano dal Ponente, per abboccarsi insieme e trattar dei ripieghi per i bisogni dell'imperio. Carausio, impadronito della Bretagna, sempre più cresceva in forze; i Barbari scatenati da ogni parte, non ostante le rotte lor date, minacciavano tutto dì le provincie romane. Mamertino [Mamert., in Panegyr., cap. 9.] parla di questo abboccamento, che sembra diverso da un altro, di cui ragioneremo più innanzi. Videsi allora e si ammirò la stupenda unione e concordia di questi due principi, uno de' quali, cioè Diocleziano, fece pompa dei regali a lui mandati dal re persiano, e l'altro delle spoglie riportate dal paese germanico. Quando si ammetta che in questo, e non già nel precedente, anno Mamertino recitasse in Treveri il suo panegirico a Massimiano, che si trovava in quella città, capo allora delle Gallie, e frontiera contro i Germani, si può credere che qualche tempo prima avendo esso Augusto Massimiano compiuta la fabbrica di una flotta, per procedere contro Carausio usurpator della Bretagna [Idem, ibidem, cap. 11.], la spignesse dai fiumi nel mare. Erano state basse fin allora l'acque per la lunga serenità, durata anche nel verno; ma vennero a tempo pioggie, le quali, coll'ingrossar i fiumi, facilitarono il trasporto di que' legni all'Oceano. Di bei successi, di felici vittorie prometteva perciò quel panegerista a Massimiano. Ma diversi dall'aspettazione riuscirono poscia gli avvenimenti. [1022] Dovette darsi qualche battaglia navale, in cui la peggio, per la testimonianza di Eutropio [Eutrop., in Breviario.], toccò a Massimiano, non essendo le genti sue sì sperte nei combattimenti marittimi, come quelle di Carausio, uomo avvezzo più di Massimiano a combattere in quell'elemento. Questa non aspettata disgrazia quella fu che indusse Massimiano [Eumen., Panegyric. Const., cap. 11.] ad ascoltar proposizioni di pace. E infatti riuscì a Carausio di ottenerla, con ritener la signoria della Bretagna, inorpellandola col titolo di Difensore di quelle provincie per la repubblica romana. Se è vera una medaglia, rapportata dal cardinal Noris [Noris, Dissert. de Num. Dioclet.], leggendosi ivi PAX AVGGG., si conosce che anche Carausio conservò il titolo di Augusto, di consenso degli altri due imperadori. Per conto di Diocleziano, potrebbe essere che in quest'anno egli facesse guerra ai Sarmati, Jutunghi e Quadi, e ne riportasse quelle vittorie che si veggono mentovate dai panegiristi d'allora [Mamert. et Eumenes, in Panegyr.], per le quali in qualche iscrizione Diocleziano è intitolato Sarmatico. Trovasi anche nelle medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] di questo Augusto VICTORIA SARMATICA. Sarà probabilmente un'iperbole adulatoria quella di Eumene [Eumenes, Panegyr. Const., cap. 11.], dove dice che la nazion de' Sarmati fu per queste guerre sì estenuata ed abbattuta, che appena ne restò il nome per pruova della sua rovina. Noi troveremo anche da qui innanzi assai vigorosa quella gente, e nemica possente dell'imperio romano. Parlano ancora i panegiristi del ristabilimento della Dacia, provincia di là dal Danubio [Idem, ibid.], abbandonata già da Aureliano, ma senza poter noi meglio conoscere in che consistesse questo accrescimento o vantaggio dell'armi romane.
Anno di | Cristo CCXC. Indizione VIII. |
Caio papa 8. | |
Diocleziano imperadore 7. | |
Massimiano imperadore 5. |
Consoli
Caio Aurelio Valerio Diocleziano Augusto per la quarta volta, e Marco Aurelio Massimiano Augusto per la terza.
Fu in quest'anno prefetto di Roma Turranio Graziano. Erano tuttavia in continuo moto i due Augusti Diocleziano e Massimiano, così esigendo le turbolenze di que' tempi. Le leggi citate dal Relando e dal Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] ci fan vedere Diocleziano nell'anno presente, ora a Sirmio nella Pannonia, ora a Bisanzio nella Tracia; ed una ancora si trova data in Emesa, città della Mesopotamia, ancorchè difficil sia l'accordar insieme viaggi cotanto disparati, fatti in poco tempo. Ma quando sussista, come si fece a credere il padre Pagi [Pagius, Critic. Baron.], che il panegirico di Eumene (creduto Mamertino da altri) fosse recitato nel presente anno, certamente di là apprendiamo [Eumen., seu Mamert., Panegyr. Maximian., cap. 4.] che Diocleziano dalla Soria era venuto nella Pannonia, da dove poi il vedremo calare in Italia. Fa menzione il medesimo panegirista de' Saraceni vinti e fatti schiavi dallo stesso Diocleziano; ma ignoto ci è se fosse in questa o pure nella precedente andata di esso Augusto in Oriente. Non è già improbabile che circa questi tempi cominciassero altre nuove rivoluzioni nell'imperio romano, delle quali ci hanno conservata memoria Aurelio Vittore [Aurelius Victor, Epitome.] ed Eutropio [Eutrop., in Breviar.]. Già la Bretagna restava come smembrata da Roma per la occupazione fattane da Carausio, benchè fosse succeduto quell'apparente accordo, di cui s'è parlato [1024] di sopra. Sollevossi anche nell'Africa un Giuliano, il quale, se dobbiam credere al Goltzio [Goltzius et Mediob., in Numismat. Imper.], in cui mano fortunatamente caddero le medaglie di quasi tutti i tiranni (voglia Dio che tutte legittime), portava il nome di Quinto Trebonio Giuliano, ed assunse il titolo d'Imperadore Augusto. Nella stessa Africa ancora erano in armi, non so se barbari o pure ribelli, i popoli quinquegenziani, dei quali non troviamo altrove memoria, col restar solamente sospetto che tal nome prendessero cinque popoli confederati insieme. E non andava l'Egitto esente da somiglianti turbolenze. Quivi Lucio Epidio Achilleo (così è nominato nelle medaglie) aveva preso il titolo di Augusto; e sembra che stendesse il dominio, se non in tutta, almeno in buona parte di quella provincia. Da esse medaglie apparisce ch'egli tenne per cinque anni quel dominio; ma non sappiamo quando questi avessero il principio. Aggiungasi che i Persiani, i quali presso alcuni scrittori si veggono tuttavia appellati Parti, non mai quieti, qualor se la vedeano bella, pizzicavano le contrade romane dell'Oriente; impegni tutti di gran considerazione per i due regnanti imperadori.
Anno di | Cristo CCXCI. Indizione IX. |
Caio papa 9. | |
Diocleziano imperadore 8. | |
Massimiano imperad. 6. |
Consoli
Caio Giunio Tiberiano per la seconda volta e Dione.
Che Tiberiano fosse promosso in quest'anno al secondo consolato, si raccoglie da un'iscrizione da me [Thesaurus Novus Inscript., p. 268, n. 1.] data alla luce. E lo confermano i Fasti Fiorentini e il Catalogo de' prefetti di Roma pubblicati dal Bucherio. E perciocchè nell'anno 281 vedemmo console Caio Giunto Tiberiano, fondata conghiettura [1025] abbiamo per credere che fosse il medesimo che procedesse console ancora in quest'anno. Vero è che il suddetto Catalogo ci dà prefetto di Roma nell'anno presente Giunio Tiberiano: ma già abbiam detto essere probabile che fosse introdotto l'uso di unir insieme talvolta la dignità di console e di prefetto. Che il secondo console Dione fosse figliuolo, o piuttosto nipote di Cassio celebre storico, s'è giudicato con assai verisimiglianza, e perciò a lui pure han dato fondatamente alcuni il nome di Cassio Dione. L'autore [Genethliac. Maximian., cap. 4.] del Genetliaco di Massimiano (sia egli Eumene, o pur Mamertino) racconta l'abboccamento seguito in Milano fra i due Augusti. Concorrono forti motivi per crederlo succeduto in quest'anno [Pagius, Crit. Baron.], e certo seguì ne' primi mesi dell'anno. Correva allora un verno rigorosissimo [Genethliac. Maximian., cap. 9.] con ghiaccio e nevi dappertutto, e sì aspro freddo che, per così dire, gelava il fiato delle persone. Contuttociò Diocleziano dalla Soria sen venne per la Pannonia in Italia. Massimiano dalle Gallie per le vie di Monaco passò anch'egli in queste parti con tal sollecitudine, viaggiando amendue con poco seguito di notte e di giorno, che quasi pervennero prima de' corrieri da loro spediti innanzi. L'abboccamento di essi si fece, come dissi, in Milano con plauso inusitato di quel popolo, per lo inaspettato loro arrivo e presenza, non meno che per la mirabil loro concordia. Il senato romano spedì in questa congiuntura i più illustri senatori a quella città, per complimentare i due Augusti, giacchè si seppe che non erano per passar a Roma. Non si può fallare pensando che l'oggetto di un tale abboccamento fosse di consultare insieme de' mezzi per sostenere l'imperio in mezzo a tante turbolenze, e domare i ribelli; e che allora divisassero di venire alla risoluzione, di cui parleremo all'anno seguente. [1026] Abbiamo poi dal suddetto panegirico [Panegyr. Maximian., cap. 16.] (recitato, per quanto sembra, nell'anno presente in Treveri alla presenza di Massimiano) che in questi tempi nel cuor dell'imperio si godeva gran tranquillità, e che copiosissimi erano stati i raccolti. All'incontro, i Barbari tutti si trovavano involti in fiere guerre insieme. Cioè in Africa erano fra loro in rotta i Mori; nella Sarmazia i Goti combattevano contra dei Borgognoni, i quali, avendo la peggio, s'erano raccomandati agli Alemanni per soccorso, con dirsi (cosa che pare strana) aver poi essi Borgognoni occupato il paese degli amici. Similmente i Tervigi, altra spezie di Goti, uniti coi Taifali, aspra guerra aveano mosso ai Vandali e Gepidi. Lo stesso maligno influsso provavano i Persiani [Agathias. Eutychius. Sincellus.], perchè Osmida s'era sollevato contra del fratello re di Persia, avendo dalla sua i popoli Sacchi, Russi e Gelli. Finalmente i Blemmii confinanti all'Egitto erano in guerra coi popoli dell'Etiopia. Certamente le discordie presenti dei Barbari tornavano in vantaggio del romano imperio; tuttavia non mancavano ad esso imperio i suoi guai, e ne abbiam già fatta menzione. Lo stesso andarsi sempre più agguerrendo que' Barbari ridondò in danno de' Romani col tempo, siccome andremo vedendo. Potrebbe essere che in questi tempi succedesse ciò che racconta Eumene, o sia Mamertino, con dire che Massimiano Erculio popolò il paese incolto di Cambray e di Treveri con gente del paese de' Franchi, la quale si era sottoposta ai Romani. Anche Eusebio [Euseb., in Chronic.] nota sotto quest'anno, che essendosi ribellate a' Romani Busiri e Copto, città dell'Egitto, furono prese e spianate, non si sa da qual generale degli Augusti. Secondo questo istorico, sembra che non fosse per anche succeduta la ribellione d'Achilleo, se pur l'eccidio delle due suddette città non si dee [1027] prendere per indizio della medesima ribellione.
Anno di | Cristo CCXCII. Indizione X. |
Caio papa 10. | |
Diocleziano imperadore 9. | |
Massimiano imperatore 7. |
Consoli
Annibaliano ed Asclepiodoto.
Noi vedremo prefetto di Roma nell'anno 297 Afranio Annibaliano. Verisimilmente lo stesso fu che procedette console nell'anno presente. Claudio Marcello nel Catalogo del Bucherio [Bucher, in Cyclo.] si truova prefetto di Roma al dì 3 di agosto di quest'anno. In esso appunto succedette una riguardevol novità nel romano imperio. Tra perchè da più parti era esso o minacciato dai Barbari, o lacerato dai ribelli, nè i due Augusti potevano accudire a tutto [Lactantius, de Mortibus Persecutor., cap. 7.]; e perchè Diocleziano, uomo di naturale pauroso, non amava molto di esporsi ai pericoli, prese egli col collega Massimiano la risoluzion di scegliere due valorosi generali d'armata, il braccio de' quali alleviasse loro le fatiche. E per maggiormente tenerli uniti e subordinati al loro comando, giudicarono meglio di dare ad essi il nome di Cesari, equivalente a quel d'oggidì il re de' Romani. Quanto all'anno di tale elezione, discordano forte Cassiodoro, Idacio, Eusebio e la Cronica Alessandrina. Le ragioni addotte dal Pagi [Pagius, Crit.] bastanti sono a persuaderci che ciò succedesse nell'anno presente, allorchè i due Augusti si trovavano in Nicomedia nel dì primo di marzo [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 7. Eutropius. Aurel. Vict. Eusebius.]. Furono gli eletti Costanzo Cloro e Galerio Massimo, tutti e due adottati per figliuoli da essi imperadori, ed insieme obbligati a ripudiar le loro mogli, siccome era succeduto a Tiberio imperadore, affinchè sposassero le figliuole [1028] de' medesimi Augusti. Costanzo prese per moglie Teodora figliastra di Massimiano, e Galerio Valeria figlia di Diocleziano. Ai novelli Cesari fu conceduta la tribunizia podestà, con cui andava congiunta una notabil autorità. Nè qui si fermò la lor fortuna. Per tutto il tempo addietro, avvegnachè vi fossero più imperadori e cesari, sempre l'imperio romano era stato unito. Fecesi ora una specie di divisione, che diede da mormorar non poco a tutti gl'intendenti ed amatori della maestà romana, prevedendo che in tal forma verrebbe ad indebolirsi l'imperio, e a cadere col tempo in rovina: quando, all'incontro, i due Augusti si figuravano che attendendo cadaun d'essi imperadori e cesari alla difesa della propria porzione, e con prontezza ad aiutare gli altri che abbisognassero di soccorso, più saldezza ne acquisterebbe l'imperio. Nè certo questo era smembramento dell'imperio stesso, ma un comparto amichevole fra quei quattro principi; imperciocchè durava la concordia del governo fra loro; le leggi fatte dagli Augusti seguitavano a correre per tutte le provincie; e l'uno di questi principi, secondo le occorrenze, passava nelle provincie dell'altro.
Secondo le antiche notizie [Aurelius Victor, in Epitome.], a Costanzo Cesare furono assegnate le provincie tutte di là dall'Alpi, cioè le Gallie, le Spagne, la gran Bretagna e la Mauritania Tingitana, siccome provincia dipendente dalla Spagna. A Massimiano Erculio Augusto fu data l'Italia e il resto dell'Africa colle isole spettanti alle medesime. A Galerio Cesare la Tracia e l'Illirico colla Macedonia, Pannonia e Grecia. Diocleziano Augusto ritenne per sè la Soria e tutte l'altre provincie d'Oriente, cominciando dallo stretto di Bisanzio, e riserbossi anche l'Egitto, ricuperato dalle mani di Achilleo. Ne già si tardò a sentir le cattive conseguenze di questa moltiplicazion di principi e divisione di Stati. Buon testimonio [1029] è Lattanzio [Lactantius, de Mortib. Persecutor., cap. 7.], con dire, che volendo cadaun di que' regnanti tener corte non inferiore a quella degli altri, ed esercito che non la cedesse a que' dei colleghi, si accrebbero a dismisura le imposte e gabelle per soddisfare alle spese, e con tali aggravii, che in moltissimi luoghi erano lasciate incolte le campagne, giacchè, pagati i pubblici pesi, non restava da vivere ai coltivatori e padroni delle medesime. Ed allora fu, per attestato di Aurelio Vittore [Aurelius Victor, Epitome.], che l'Italia, non ad altro obbligata fin qui che a provvedere viveri alla corte e alle milizie di suo seguito, cominciò, al pari delle provincie oltramontane, a pagar tributo, lieve bensì sul principio, ma che andò poscia a poco a poco crescendo sino all'eccesso, e produsse in fine la total sua rovina. Quanto ai suddetti due Cesari, derivavano amendue dall'Illirico, onde erano anche usciti Diocleziano e Massimiano. Costanzo, soprannominato Cloro dagli storici [Pollio, in Claudio.], forse pel color pallido del volto, o verde del vestito, ebbe per padre Eutropio, il quale dicono che fosse uno dei meglio stanti del suo paese, e che per moglie avesse Claudia figliuola di Crispo, cioè di un fratello di Claudio il Gotico imperadore. Certamente gli antichi storici il fanno discendente dalla casa di quell'Augusto per via di donne; e forse per questo ne' suoi posteri si trova rinnovata la famiglia Claudia. Che nondimeno la nobiltà e le facoltà di sua casa non fossero molte, si può dedurre dall'aver egli studiato poco le lettere, e cominciata la sua fortuna dal più basso della milizia, e dal sopportar le fatiche proprie da' soldati gregarii nelle armate di Aureliano e di Probo. Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] sembra quasi indicare che egli fosse nato poveramente in villa, dicendo che tanto egli come Galerio aveano poca [1030] civiltà, ma che, avvezzi alle miserie della campagna e della milizia, riuscirono poi utili alla repubblica. L'anonimo del Valesio [Anonymus Vales. post Ammian.] scrive che Costanzo fu il primo soldato nelle guardie del corpo dell'imperadore, poscia pel suo valore tribuno, o sia colonnello di una legione, e giunse ad esser governator della Dalmazia, con essersi segnalato in varie occasioni di guerra. In tal credito certamente egli salì, che fu giudicato degno di esser creato Cesare in quest'anno dai due Augusti. Nelle iscrizioni e medaglie si vede egli chiamato Flavio Valerio Costanzo. Perchè Valerio, s'intende, essendo egli stato adottato dall'uno degl'imperadori, amendue portanti il nome d'essa famiglia. Perchè Flavio, non si sa, credendosi un'adulazione quella di Trebellio Pollione, che il fa discendere da Flavio Vespasiano. Delle ottime qualità di questo principe parleremo altrove; principe, la cui maggior gloria fu l'essere stato padre di Costantino il Grande, a lui nato circa l'anno di Cristo 274, mentre egli militava nell'Elvezia.
Per quel che riguarda Galerio, l'altro dei nuovi Cesari, anch'egli era nato bassamente in villa presso Serdica, o sia Sardica, capitale della nuova Dacia [Lactantius, de Mort. Persec., cap. 9. Aurel. Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviar.]. Romula sua madre, nemica de' cristiani in quel paese, perchè non voleano intervenire ai suoi empi sacrifizii e conviti, gli inspirò fin da picciolo un odio grande contro la religione di Cristo. Che i suoi genitori fossero contadini, lo dicono i vecchi storici, e si argomenta dal soprannome di Armentario, che gli vien dato dagli antichi scrittori. Anche egli col mestiere dell'armi si acquistò tal fama, che dai due Augusti fu creduto meritevole di essere promosso alla dignità di Cesare. Noi il vediam nominato nelle medaglie Caio Galerio Valerio Massimiano. Se [1031] dice il vero Eutropio [Eutrop., in Breviario.], meritavano lode i di lui costumi; ma Lattanzio [Lactant., de Mort. Persec., cap. 9.], all'incontro, ci assicura che nel portamento e nelle azioni di costui compariva quell'aria di selvatichezza ch'egli portò dalla nascita, ma ch'egli vi aggiunse anche col tempo un'insopportabil fierezza e crudeltà, per cui scompariva quel poco di buono che in lui si trovava [Aurelius Victor, in Epitome.]. Sprezzava egli le lettere e chi le coltivava, non amando se non le persone militari, le quali ancora, benchè ignoranti, erano da lui promosse ai magistrati civili con discapito grande della giustizia. L'ambizione sua vedremo che portò Diocleziano a deporre il baston del comando; così l'avidità del danaro, per cui impose esorbitanti aggravii, trasse i popoli ad una miserabil rovina. A lui specialmente vien attribuita la crudel persecuzione mossa contro ai cristiani, che accenneremo a suo tempo. Quel che fu mirabile [Vopiscus, in Caro. Julian., Oratione I. Aurel. Vict., ibid.], per varii anni si osservò una rara unione fra questi quattro principi, gareggiando tutti nel promuovere gl'interessi della repubblica. Diocleziano veniva considerato quel padre di tutti, e i suoi ordini e voleri fedelmente erano eseguiti dagli altri; ed arte non mancava allo stesso Diocleziano per tener contenti i subordinati colleghi, con dissimular i loro trascorsi, e soprattutto procurando di dar nella lesta ai seminatori di zizzanie e di false relazioni, perchè certo dal suo canto egli non ometteva diligenza alcuna per conservar la buona intelligenza ed armonia con chi si mostrava dipendente da lui. Dicemmo già che un Giuliano avea usurpato l'imperio nell'Africa. Credesi che in quest'anno Massimiano Erculio passasse in quelle parti, come poste sotto il comando suo nel comparto dell'imperio, ed obbligasse [1032] quel tiranno a trapassarsi il petto col ferro e a gittarsi nel fuoco. Abbiamo da Eumene, o sia Eumenio [Eumen., in Panegyr. Constant.], che Costanzo, dappoichè fu dichiarato Cesare, con tal fretta passò nelle Gallie a lui destinate per comandarvi, che non v'era per anche giunto l'avviso di avervi egli a venire, anzi nè pure la notizia della sublime dignità a lui conferita. La nuova a lui portata che le genti di Carausio tiranno della Bretagna, venute con molte vele per mare, aveano occupato Gesoriaco (oggidì Bologna di Picardia) fu a Costanzo un acuto sprone per volar colà ed imprenderne l'assedio. Affinchè non potesse approdarvi soccorso alcuno per mare, nè fuggir di là quella man di corsari, fece egli con alte travi, conficcate intorno al porto, piantare una forte palizzata. Fu obbligata quella guarnigione alla resa, e Costanzo l'arrolò fra le sue truppe. Il che fatto, quasichè fin allora il mare avesse rispettata la palizzata suddetta, a forza d' onde la smantellò. Diedesi poi Costanzo a far preparamenti di navi per liberar la Bretagna dalle mani di esso Carausio, il quale godea bensì la pace in quell'isola, ma non lasciava di star ben armato e in guardia per difendersi, qualora si vedesse assalito. A quest'anno, o pure al seguente, scrive Eusebio [Eusebius, in Chron.] che i popoli Carpi e Basterni furono condotti ad abitar nelle provincie romane: segno che nel loro paese con vittoriosi passi erano entrati i Romani, se pur coloro non furono dalla forza di altri Barbari cacciati dal loro paese. La nazion loro vien creduta germanica, ma abitante alla Vistola, in quella che oggi si chiama Polonia. Probabilmente questa guerra appartiene all'anno 294, siccome diremo.
Anno di | Cristo CCXCIII. Indizione XI. |
Caio papa 11. | |
Diocleziano imperadore 10. | |
Massimiano imperadore 8. |
Consoli
Caio Aurelio Valerio Diocleziano Augusto per la quinta volta e Marco Aurelio Valerio Massimiano Augusto par la quarta.
Settimio Acindino fu in quest'anno prefetto di Roma, e continuò in tal dignità anche nell'anno seguente. Si aspettava Carausio, occupator della Bretagna, la guerra dalla parte della Gallia, senza avvedersi che una più perniciosa, perchè occulta, gli si preparava in casa [Aurelius Victor. Eutropius. Eumenes.]. Alletto, o sia Alesto, ministro di sua maggior confidenza, fosse per timore che piombasse il gastigo sopra i delitti da lui commessi, o pure per sola vaghezza di comandare, l'assassinò con torgli la vita: dopo di che prese col titolo d'Augusto il dominio di quelle provincie, ed ebbe forza e maniera per tenerlo lo spazio di alcuni anni. Questo accidente, per cui forse rimasero sconcertate alcune segrete misure di Costanzo Cesare, cagion fu ch'egli per ora non impiegasse l'armi sue verso la Bretagna, ma che le volgesse contro de' Cauchi, o Camavi, e dei Frisoni, che possedevano il paese bagnato dalla Schelda, cioè quel che ora vien chiamato i Paesi Bassi. Ancorchè in quei tempi un tal paese fosse pien di boschi e paludi, ossia di acque stagnanti, cioè di siti difficili a farvi guerra, tanta nondimeno fu l'industria e la ostinazion di Costanzo, che ridusse tutte quelle barbariche popolazioni a rendersi. Il che fatto, trasportò quella gente colle mogli e figliuoli nelle Gallie, dando loro terreno da coltivare, senza lasciar armi ad essi, acciocchè si avvezzassero ad ubbidire, senza più pensare a ribellarsi. Ciò che in questi tempi operassero i due Augusti e Galerio Cesare, resta ignoto. [1034] Dalle leggi che abbiamo, date nell'anno presente ed accennate dal Relando [Reland., Fast. Consul.], si vede Diocleziano soggiornante nell'Illirico, o nella Tracia, provincie governate da esso Galerio, ma senza apparire quali imprese militari si facessero in quelle parti. Se vogliam credere ad Eusebio [Eusebius, in Chron.], cominciò Diocleziano in questi tempi a farsi adorare qual dio, cioè, per quanto io m'avviso, con obbligar le persone ad inginocchiarsi davanti a lui, come si usava coi boriosi re di Persia, da' quali forse avea appreso questo costume, laddove bastava in addietro salutare i precedenti Augusti con inchinar la fronte, come si faceva anche coi giudici. S'egli pretendesse di più, nol saprei dire. Proruppe ancora in isfoggi di vanità, col mettersi a portar gemme nelle vesti, e fino nelle scarpe: dal che s'erano guardati quei precedenti imperadori che furono in concetto di moderati e savii.
Anno di | Cristo CCXCIV. Indizione XII. |
Caio papa 12. | |
Diocleziano imperadore 11. | |
Massimiano imperadore 9. |
Consoli
Flavio Valerio Costanzo Cesare e Caio Galerio Valerio Massimiano Cesare.
Che in quest'anno ancora i due Cesari Costanzo e Galerio facessero delle prodezze contra de' Barbari, si può dedurre da Giuliano Apostata [Julian., Oratione I.] e dal panegirista di Costantino Augusto, cioè da Eumenio [Eumenes, Panegyr. 7 Costant., cap. 6.]. Oltre all'aver essi cacciato dalle terre romane i Barbari, che da gran tempo vi si erano annidati, e le coltivavano come sue proprie, quel panegirista parla di diverse altre nazioni germaniche, nel paese delle quali entrò il valoroso Costanzo, seguitandolo la vittoria dappertutto. Parte egli sterminò que' popoli, trovandoli resistenti; e parte [1035] umiliati trasse ad abitar nelle provincie romane, per accrescerne la popolazione e coltura. Continuava in questi tempi Diocleziano Augusto a dimorar nell'Illirico insieme con Galerio Cesare, come si ricava da alcune leggi, e verisimilmente attendevano nelle parti della Pannonia e Mesia a tenere in freno i Barbari, sempre ansanti di bottinar nel paese romano. Idacio [Idacius, in Fastis.] scrive che furono in quest'anno fabbricate delle fortezze nel paese de' Sarmati di là dal Danubio in faccia delle città di Acinco e Bononia. E a questi tempi verisimilmente appartiene ciò che lasciò scritto Eutropio [Eutrop., in Breviar.], con dire che Diocleziano e Valerio Massimiano varie guerre fecero unitamente, o separatamente, e che soggiogarono i Carpi e Bastarni, de' quali parlò Eusebio all'anno 292, coll'aver inoltre dato delle rotte ai Sarmati. Gran copia ancora di costoro fatta prigioniera fu poscia da essi principi trasportata nelle provincie romane, e concedute loro terre incolte per sostentamento delle lor famiglie, e con vantaggio del pubblico. Presso il Mezzabarba [Mediobarbus, in Numism. Imperator.] si veggono medaglie di Diocleziano colla Vittoria Sarmatica, le quali si può credere che sieno da riferire all'anno presente.
Anno di | Cristo CCXCV. Indizione XIII. |
Caio papa 13. | |
Diocleziano imperadore 12. | |
Massimiano imperadore 10. |
Consoli
Tosco ed Anullino.
Che Mummio Tosco fosse appellato il primo console, Annio Cornelio Anullino il secondo, lo conghietturò il Panvinio [Panvin., in Fastis Consul.], perchè troveremo, andando innanzi, questi due personaggi prefetti di Roma. Lodevole è bensì, ma non sicura, una tal conghiettura, e perciò del loro solo cognome [1036] io mi contento. La prefettura di Roma fu in quest'anno appoggiata ad Aristobolo. Per attestato d'Idacio [Idacius, in Fastis.], i popoli Carpi, che abbiam detto sottomessi nell'anno precedente, acciocchè non alzassero più le corna, furono obbligati a mutar cielo, con venire ad abitar nella Pannonia. Abbiamo delle leggi date in quest'anno, in cui Diocleziano Augusto seguitò a soggiornar nella Pannonia e Mesia. Probabilmente tra per le vittorie riportate contra de' Sarmati in quelle parti, e pel buon ordine ch'egli diede, restarono que' paesi in pace: laonde potè esso Augusto far preparamenti per ricuperare l'Egitto, siccome dirò all'anno seguente. Si può parimente credere che in questi tempi Galerio Massimiano, per adular Diocleziano suocero suo, e Valeria di lui figlia, moglie sua [Lactant., de Mortib. Persecut., cap. 15. Aurelius Victor, in Epitome. Ammianus, lib. 19.], desse il nome di Valeria ad una parte della Pannonia, ossia della moderna Ungheria, dopo aver quivi tagliate vastissime selve per ridurre quel territorio a coltura. Circa questi tempi ancora sembra che succedesse ciò che narrano Eumenio [Eumen., Oration. de Schol. restaur.] e l'autore del panegirico di Massimiano e Costantino [Incertus, in Panegyr. Maximian., cap. 8.]: cioè l'aver Massimiano Erculio Augusto domati i popoli ferocissimi della Mauritania, con aver poscia trasportata gran copia di essi in altri paesi.
Anno di | Cristo CCXCVI. Indizione XIV. |
Marcellino papa 1. | |
Diocleziano imperadore 13. | |
Massimiano imperadore 11. |
Consoli
Caio Aurelio Valerio Diocleziano Augusto per la sesta volta e Flavio Valerio Costanzo Cesare per la seconda.
La carica di prefetto di Roma, secondo l'antico Catalogo del Cuspiniano [1037] e Bucherio, fu esercitata da Cassio Dione in quest'anno, nel quale mancò di vita Caio romano pontefice [Anastas. Bibliothecar.]. A lui succedette nella sedia di San Pietro Marcellino. Fecondo di vittorie fu l'anno presente ai principi romani, se pur si può accertare nella cronologia di quei fatti, fatti per altro certissimi. Costanzo Cesare, ardendo sempre di voglia di riacquistar la Bretagna, con torla dalle mani dell'usurpatore Alletto [Eumenes, in Constant. Eutropius. Aurelius Victor.], teneva già in ordine buon esercito e poderose flotte per far vela verso colà. Ma sospettando che i Franchi ed altri popoli della Germania, allorchè vedessero lui impegnato nella guerra oltre mare, secondo il lor uso, tentassero d'inquietar le Gallie, raccomandossi a Massimiano Augusto, padrigno di sua moglie, pregandolo di venir alla difesa di que' confini. Venne in fatti, per attestato d'Eumenio, Massimiano al Reno, e bastante fu la sua presenza a tenere in briglia i popoli nemici. Intanto con ardore incredibile si mossero le flotte di Costanzo verso la Bretagna. Su quella ch'era a Gesoriaco, cioè a Bologna di Picardia, s'imbarcò egli; ed ancorchè il mare fosse gonfio, e poco favorevole il vento, pure animosamente sciolse dal lido. Pervenuto questo avviso all'altra flotta preparata alla sboccatura della Senna, accrebbe il coraggio a quei soldati e marinari in maniera, che al dispetto del tempo contrario si mossero anch'essi. Era comandante d'essa Asclepiodoto prefetto del pretorio. Riuscì a questa col benefizio d'una densa nebbia di andar a dirittura con prospero cammino nella Bretagna, senza essere scoperta da Alletto, che colla sua s'era postato in osservazione all'isola Vetta, oggidì di Wight. Appena ebbe Asclepiodoto afferrato il lido, e sbarcate le truppe e le munizioni tutte, che fece dar fuoco alle navi, acciocchè i suoi, veggendosi tolta la speranza d'ogni scampo, [1038] sapessero che nelle lor sole braccia era riposta la salute, ed anche per impedir che que' legni non cadessero in poter de' nemici. Atterrito Alletto parte dalla notizia che Costanzo veniva contra di lui con una flotta, e che l'altra, già pervenuta in terra ferma, minacciava tutte le sue città, lasciata andare l'armata sua navale, co' suoi se ne ritornò anch'egli indietro, e si mise in campagna contra di Asclepiodoto. Senza aspettare di aver unite tutte le sue forze, e senza nè pur mettere in ordine di battaglia quelle che seco avea, coi soli Barbari di suo seguito assalì egli dipoi i Romani. Rimase sconfitto, ed anch'egli lasciò nel combattimento la vita, con essersi poi appena potuto discernere il cadavero suo, per aver egli deposto l'abito imperiale, che avrebbe potuto farlo conoscere nella zuffa o nella fuga. Ma forse molto più tardi accadde la caduta di costui. Intanto la flotta, dove era Costanzo Cesare, più per accidente che per sicura condotta, a cagion delle folte nebbie, imboccò il Tamigi, e per esso si spinse fino alla città di Londra. L'arrivo suo fu la salute di quel popolo; imperciocchè essendosi ridotti colà i Franchi ed altri Barbari che si erano salvati dalla rotta di Alletto, mentre concertavano fra loro di dare il sacco alla città, e poi di fuggirsene, eccoli giugnere loro addosso Costanzo colle sue milizie, e tagliarli lutti a pezzi, con salvar le vite e i beni di que' cittadini. Così in poco tempo tutto quel paese della Bretagna, che ubbidiva già all'aquile romane, tornò alla division di Costanzo, con estremo giubilo di quei popoli, per vedersi liberi dai tiranni e dai Barbari ausiliarii, e più perchè trovarono in Costanzo non un nemico, nè un vendicativo, ma un principe pien di clemenza. Perdonò egli a tutti, ed anche ai complici della ribellione [Eumenes., Panegyr. Constant., cap. 6.], e fece restituire ai particolari tutto quanto era stato loro tolto o dai tiranni passati, o [1039] dalle sue medesime milizie. Così fu restituita le quiete e l'allegrezza alle contrade romane della Bretagna; e i popoli, non per anche soggiogati in essa, un sommo rispetto cominciarono ad osservare verso i Romani. Le Gallie anche esse restarono libere dalle molte vessazioni patite in addietro per cagione di que' corsari.
A questo medesimo anno, se non falla la Cronica d'Eusebio [Eusebius, in Chron.], si dee riferir la spedizione di Diocleziano Augusto contra di Achilleo usurpatore dell'Egitto [Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviar.]. Tenne egli assediata per otto mesi Alessandria, e, secondo Giovanni Malala [Johannes Malala, in Chronograph.], le tolse l'uso dell'acqua, con rompere gli acquidotti. Finalmente entratovi, dimentico affatto della clemenza, non solamente tolse di vita il tiranno ed altri suoi complici, ma permise a' suoi soldati il sacco di quella insigne città, e poi, datole il fuoco, ne fece diroccar le mura. Innumerabili furono coloro che rimasero spogliati delle lor facoltà e cacciati in esilio. Una favola sarà il raccontar esso Malala, che avendo Diocleziano ordinato che non si cessasse di uccidere gli Alessandrini, finchè il sangue loro non arrivasse ai ginocchi del suo cavallo, per accidente nell'entrar egli nella città, inciampando il suo cavallo in un uomo ucciso, si tinse di sangue il ginocchio. Diocleziano allora comandò che desistessero dalla strage, per essersi adempiuto il suo giuramento: perlochè quel popolo alzò dipoi una statua di bronzo al di lui cavallo. Il solo Eumenio da panegirista adulatore esalta la clemenza di Diocleziano, con cui avea data la pace all'Egitto; imperciocchè lo stesso Eutropio [Eutrop., in Breviar.], oltre ad altri scrittori [Euseb., in Chron. Orosius et alii.], ci assicura ch'egli con somma crudeltà trattò que' popoli. Galerio Massimiano [1040] presso Eusebio [Euseb., Hist. Eccl. lib. 8, cap. 17.] si truova intitolato Egiziano e Tebaico: indizio ch'egli, siccome il bravo Diocleziano, faticò in quella impresa. Nella Istoria Miscella [Histor. Miscella in Dioclet.] è scritto che Costantino figlio di Costanzo accompagnò Diocleziano colà, e militando diede più segni del suo valore. Se poi crediamo a Suida [Suidas, in Excerpt.], in questa occasione fece Diocleziano cercare e bruciare quanti libri potè ritrovare che trattassero d'alchimia, cioè di cangiare i metalli, convenendoli in oro ed argento. Credono alcuni che, prestando egli fede a que' decantati segreti, volesse levare a que' popoli i mezzi da ribellarsi. Più probabile è, che, tenendoli per cose vane, siccome sono in fatti, egli cercasse di guarir quella gente da cotal malattia. Quando quei libri avessero contenuto il segreto di far oro ed argento, non era sì corto di giudizio Diocleziano che gli avesse dati alle fiamme: avrebbe saputo ritenerli per valersene in suo pro. Oltre a questo, egli visitò tutto il paese; ed abbiamo da Procopio [Procop., de Reb. Pers., lib. 1, cap. 19.], che avendo trovato un gran tratto di paese nell'alto Egitto confinante coll'Etiopia, o sia colla Nubia, il cui mantenimento portava più spesa che profitto a cagion delle scorrerie che vi faceano continuamente i Nubiani, per via di una convenzione lo rilasciò ai medesimi, con obbligarli a tenere in freno i Blemmii ed altri popoli dell'Arabia, acciocchè non molestassero l'Egitto. Aggiugne Olimpiodoro [Olympiodorus, Eclog. in Histor. Byzant.] che Diocleziano, invitato dai Blemmii, andò a divertirsi nel loro paese, e che loro accordò un'annua pensione per averli amici: il che a nulla servì col tempo, essendo troppo avvezzi coloro al mestier del rubare, che tuttavia a' dì nostri continua in quel paese, altri non essendo stati i Blemmii, se non una nazione d'Arabi masnadieri. Osserva ancora Procopio che in que' paesi erano miniere di [1041] smeraldi; il che veggo confermato dai moderni viaggiatori, i quali nondimeno asseriscono non sapersi più il sito di quelle, per vendetta fatta da un principe d'Arabi, perseguitato indebitamente dall'avarizia turchesca.
Anno di | Cristo CCXCVII. Indizione XV. |
Marcellino papa 2. | |
Diocleziano imperadore 14. | |
Massimiano imperadore 12. |
Consoli
Marco Aurelio Valerio Massimiano Augusto per la quinta volta e Caio Galerio Massimiano Cesare per la seconda.
Afranio Annibaliano tenne in questo anno la prefettura di Roma. Se fosse vero che nell'anno presente Eumenio recitata avesse la sua orazione delle scuole di Autun, come ha creduto il padre Pagi con altri [Pagius, Critic. Baron. De la Baune et alii.], sarebbe da dire che in quest'anno fosse già cominciata la guerra fatta da Galerio Massimiano contro ai Persiani. Ma non è ciò esente da dubbii, potendo essere che nel corrente anno, o pur nel seguente, come pensa il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], quell'orazione venisse recitata, non contenendo essa indizio certo dell'anno, oltre all'aver anche alcuni dubitato se Eumenio ne sia l'autore. Sia dunque a me permesso rammentar qui la guerra persiana di Galerio, giacchè Eutropio [Eutrop., in Breviario.], Eusebio [Eusebius, in Chronic.], Idacio [Idacius, in Fastis.] e la Cronica Alessandrina [Chronic. Alexandrinam.] la riferiscono dopo la liberazion dell'Egitto: confessando io nondimeno che Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] e Giovanni Malala [Johannes Malala, in Chronograph.] sembrano rapportarla al tempo avanti. Zonara [Zonaras, in Annalibus.] ne parla come se fossero tutte e due nello stesso tempo succedute. [1042] Regnava allora nella Persia non so se Narseo, o sia Narse, o Narsete, o pur Vararane, principe ambizioso, che s'era messo in testa di non la cedere a Sapore, avolo suo, nella gloria di conquistatore. Avea egli già tolto ai Romani l'Armenia, e con formidabil armata minacciava il resto dell'Oriente. Diocleziano, per attestato di Lattanzio [Lactantius, de Mortibus Persecutor., cap. 9.], non si sentendo voglia di far pruova del suo valore contra di coloro, per non incorrere nella sciagura di Valeriano Augusto, diede, secondo il solito, l'incumbenza d'essa guerra al suo gran campione, cioè a Galerio Massimiano Cesare, con andarsene egli a riposare in Antiochia col pretesto di attender ivi alla spedizione di gente e di viveri all'armata di Galerio a misura de' bisogni. Era Galerio uomo arditissimo, ed Orosio [Orosius, Histor., lib. 7, cap. 25.] parla di due combattimenti contro i Persiani, ma senza dirne l'esito. Convengono poi tutti gli storici [Aurelius Victor, in Epitome. Julianus, Oratione I. Ammianus Marcellin. et alii.] che in un d'essi, o pure nel terzo, egli totalmente rimase sconfitto dai nemici, non già per sua dappocaggine, ma per sua temerità, avendo voluto con poche schiere de' suoi assalir le moltissime dei Persiani. Da una o due parole di Eusebio [Euseb., in Chronic.], e da altre di Eutropio [Eutrop., in Breviar.] e di Rufo Festo [Rufus Festus, in Breviar.], ricaviamo che lo stesso Galerio venne in persona ad informar Diocleziano de' suoi sinistri avvenimenti; ma fu sì sgarbatamente, e con tale alterigia e sprezzo ricevuto da Diocleziano, che fu costretto a tenergli dietro per più di un miglio di viaggio a piedi vicino alla carrozza con tutto il suo abito di porpora indosso. Potrebbe essere che nel precedente anno tutto questo avvenisse. Ma per tal disavventura ed ignominia in vece di perdere il coraggio, Galerio maggiormente si sentì animato alla vendetta. Raunato [1043] dunque un possente esercito [Jordan., de Reb. Getic., cap. 21. Lactantius, de Mortibus Persecut., cap. 9. Rufus Festus, in Breviar. Eutropius et alii.], massimamente di veterani e di Goti nell'Illirico e nella Mesia, con esso passò nell'Armenia, per azzuffarsi di nuovo col re persiano. Diocleziano anch'egli con molte forze si avvicinò ai confini della Persia nella Mesopotamia, per fiancheggiar Galerio, ma lungi dai pericoli. Mirabile fu questa volta la circospezione e sagacità di Galerio, dopo aver imparato dianzi alle sue spese. In persona con due soli compagni andò egli prima a spiare l'armata nemica, e seppe sì ben disporre le insidie e cogliere il tempo, che, assalito all'improvviso il campo nemico, superiore bensì di forze, ma impedito da gran bagaglio, interamente lo disfece con orrido macello della gente persiana. Scrive Zonara [Zonaras, in Annalibus.] che il re loro se ne fuggì portando seco per buona ricordanza del fatto una ferita. Ma restò prigioniera la di lui moglie, o pure, come altri vogliono, le di lui mogli, sorelle e figliuoli dell'uno e l'altro sesso, con assaissime altre persone della prima nobiltà della Persia. Lo spoglio del campo nemico fu d'immense ricchezze, e ne arricchirono tutti i soldati. Ebbe cura Galerio, per attestato di Pietro Patrizio [Petrus Patritius, de Legat. Tom. I Histor. Byzant.], che fossero trattale con tutta proprietà e modestia le principesse prigioniere: atto sommamente ammirato dai Persiani, i quali furono forzati a confessare che i Romani andavano loro innanzi, non meno nel valore dell'armi che nella pulizia de' costumi. Avrà pena il lettore a credere ad Ammiano Marcellino [Ammianus Marcellinus, lib. 22.], allorchè racconta, che avendo un soldato trovato in quell'occasione un sacco di cuoio, se pur non fu uno scudo, dove era gran quantità di perle, gittò via le perle, contento del solo scudo o sacco: tanto erano allora [1044] le armate romane lontane del lusso, e ignoranti nelle cose di vanità. Certo un grande ignorante dovea essere costui!
Giovanni Malala [Joannes Malala, in Chronogr.] lasciò scritto che Arsane regina di Persia, rimasta prigioniera, fu condotta ad Antiochia, ed ivi nel delizioso luogo di Dafne per alcuni anni con tutto onore mantenuta da Diocleziano, finchè, fatta la pace, fu restituita al marito. Aggiunge ch'esso Augusto per la vittoria suddetta provar fece a tutte le province la sua liberalità. Ma non sussiste che per alcuni anni durasse la prigionia della regina persiana. Imperciocchè Narse, dopo essere fuggito sino alle parti estreme del suo reame, rivenne in sè stesso, e spedì a Galerio uno de' suoi più confidenti [Petrus Patricius, de Legat. Tom. I Hist. Byzant.], per nome Afarban, affinchè umilmente il pregasse di pace, con dargli un foglio in bianco per quelle condizioni che più piacessero ad esso Galerio. Nè altro chiedeva quel re, fuorchè la restituzion delle sue donne e de' suoi figliuoli, perchè nel resto sperava buon trattamento dalla generosità romana, la quale non vorrebbe troppo eclissata la monarchia persiana, cioè uno dei due occhi, o pur dei due soli che si avesse allora la terra. L'ambasciata andò; e Galerio in collera rispose che non toccava ai Persiani il domandare ad altrui della moderazion nella vittoria dopo gl'indegni trattamenti da lor fatti a Valeriano Augusto, e che egli restava più tosto offeso delle lor preghiere. Nientedimeno voleva ben ricordarsi del costume de' Romani, avvezzi a vincere i superbi e resistenti, e a trattar bene chi si sottometteva. Con questo licenziò l'ambasciatore, dicendogli che il di lui padrone sperasse di riveder presto persone a lui tanto care. Venne Galerio a Nisibi nella Mesopotamia, dove si trovava Diocleziano, per conferir seco le proposizioni del re nemico. Con grande onore fu allora ricevuto, e [1045] si trattò fra loro se si avea da dar mano alla pace. Pretendeva Galerio che si seguitasse la vittoria [Aurelius Victor, Epitome.], in guisa che si facesse della Persia una provincia soggetta all'imperio romano. Ma Diocleziano, che la volea finire, e più dell'altro scorgeva quanto fosse malagevole il tenere in ubbidienza quel vasto regno, si ridusse a più discrete pretensioni. Fu dunque spedito a Narse il segretario Sicorio Probo, il quale, trovato il re nella Media vicino al fiume Asprudis, fu molto onorevolmente accolto; ma non ebbe sì tosto udienza, perchè Narse volle dar tempo a' suoi fuggiti dalla battaglia di comparir colà. L'udienza fu fata alla presenza del solo Afarban e di due altri; e Probo dimandò che il re cedesse ai Romani cinque provincie poste di qua dal fiume Tigri verso la di lui sorgente, ciò l'Intelene, la Sofene, l'Arzacene, la Carduene e la Zabdicene. Pretese inoltre che il Tigri fosse il divisorio delle monarchie, Nisibi il luogo di commercio fra le due nazioni; che l'Armenia sottoposta ai Romani arrivasse fino al castello di Zinta sui confini della Media; e che il re d'Iberia ricevesse la corona dall'imperatore. A riserva dell'articolo Nisibi, Narse accordò tutto, e rinunziò ad ogni sua pretensione sopra la Mesopotamia: con che seguì la pace, e furono restituiti i prigioni. Gloria ed utilità non poca provenne dalla suddetta vittoria all'imperio romano; perchè, a testimonianza di Rufo Festo [Rufus Festus, in Breviario. Libanius, in Basilic.], durò la stabilita pace sino ai suoi giorni, cioè per quaranta anni, avendola rotta i Persiani solamente verso il fine del governo di Costantino, per riaver le provincie cedute, siccome in fatti le riebbero. Galerio per questa sì fortunata campagna si gonfiò a dismisura; e, siccome avvertì Lattanzio [Lactantius, de Mortib. Persec.], prese i titoli fastosi di Persico, Armeniaco, Medico [1046] e Adiabenico, quasichè egli avesse soggiogate tutte quelle nazioni. Quel che è più ridicolo, da lì innanzi egli affettò il titolo di figliuolo di Marte, laonde Diocleziano cominciò a temer forte di lui. Si sa che nel presentare a Galerio le lettere di esso Diocleziano col titolo consueto di Cesare, più volte egli esclamò dicendo: E fin a quando io dovrò ricevere questo solo titolo? Potrebbe essere che nel presente anno ancora Massimiano Augusto e Costanzo Cloro Cesare riportassero altre vittorie dal canto loro contra dei Barbari; ma giacchè il tempo preciso delle loro imprese non si può fissare, parlerò dei loro fatti negli anni seguenti.
Anno di | Cristo CCXCVIII. Indizione I. |
Marcellino papa 3. | |
Diocleziano imperadore 15. | |
Massimiano imperadore 13. |
Consoli
Anicio Fausto e Virio Gallo.
Così ho io descritto i nomi di questi consoli, appoggiato a due iscrizioni che si leggono nella mia Raccolta [Thesaurus Novus Inscript., pag 370.], senza dare a Fausto il secondo consolato, come alcuno ha tenuto; e con chiamare il secondo console Virio, e non Severo, come fa la Cronica Alessandrina. Artorio Massimo, per attestato degli antichi cataloghi, fu prefetto di Roma in questo anno. Potrebbe essere che all'anno presente appartenesse la guerra fatta da Costanzo Cesare contra degli Alamanni. Eusebio [Euseb., in Chron.] la riferisce circa questi tempi. Eutropio [Eutrop., in Breviar.] e Zonara [Zonaras, in Annalibus.] ne parlano prima della guerra di Persia. Erano in armi gli Alamanni, e con poderoso esercito venuti alla volta di Langres nelle Gallie, sorpresero in maniera Costanzo, che fu forzato a ritirarsi precipitosamente colle sue genti. Pervenuto a quella città, vi trovò chiuse le porte, per timore che [1047] v'entrassero i nemici. Se volle salvarsi, gli convenne farsi tirar su per le mura con delle corde. Ma raccolte in meno di cinque ore tutte le sue milizie, coraggiosamente uscì addosso ai nemici, li sbaragliò, e ne fece restar freddi sul campo sessantamila, come ha il testo latino di Eusebio, Eutropio, Orosio [Orosius, lib. 7, cap. 25.] e Zonara. Ma chi è pratico delle guerre, e sa che d'ordinario troppo da' parziali s'ingrandiscono le vittorie, avrà ben ragionevolmente dubbio, che invece di sessantamila s'abbia a leggere sei mila, come appunto sta nel testo greco di Eusebio e di Teofane [Teophanes, in Chronico.]. In questa battaglia restò ferito Costanzo. Eutropio dopo sì gloriosa vittoria seguita a dire che Massimiano Augusto nell'Africa terminò la guerra contro ai Quinquegenziani con averli domati, e costretti a chieder pace, ch'egli loro non negò.
Anno di | Cristo CCXCIX. Indizione II. |
Marcellino papa 4. | |
Diocleziano imperadore 16. | |
Massimiano imperadore 14. |
Consoli
Caio Aurelio Valerio Diocleziano Augusto per la settima volta e Marco Aurelio Valerio Massimiano Augusto per la sesta.
Fu in quest'anno esercitata la prefettura di Roma da Anicio Fausto. Da che Diocleziano Augusto ebbe scelto per sè il governo dell'Oriente, per l'affetto da lui preso a quel soggiorno, si diede ad abbellir di nuove fabbriche l'insigne città di Antiochia, cioè la Roma di quelle contrade; ma specialmente v'attese da che ebbe ricuperato l'Egitto, e terminata felicemente la guerra co' Persiani, per essere succeduta un'invidiabil pace. Giovanni Malala [Joannes Malala, in Chronogr.], siccome di patria Antiocheno, merita ben qualche fede, allorchè descrive le sontuose opere di [1048] lui in ornamento d'Antiochia, e per sicurezza delle frontiere romane. Scrive egli dunque che in quella città fabbricò un vasto palazzo, di cui già avea Gallieno gittati i fondamenti, siccome ancora un bagno pubblico vicino al circo, a cui diede il nome di terme diocleziane. Furono ancora, d'ordine suo, fabbricati i pubblici granai, per riporvi i grani, con regolar le misure del frumento e delle altre cose venali, affinchè i mercatanti non venissero danneggiati dai soldati. Inoltre fabbricò nel luogo di Dafne lo stadio, acciocchè ivi dopo i giuochi olimpici si coronassero i vincitori. Quivi ancora eresse i templi di Giove Olimpico, di Apolline e di Nemesi, incrostandoli di marmi pellegrini. Parimente fabbricò sotterra un tempio ad Ecate, al quale si scendeva per trecento sessantacinque gradini; e in Dafne un palazzo, dove potessero alloggiar gl'imperadori andando colà, quando in addietro stavano sotto le tende. Quivi pure, siccome ancora in Edessa e in Damasco, dispose botteghe, per lavorarvi ogni sorta d'armi ad uso della guerra, e per impedir le frequenti scorrerie degli Arabi. Oltre a ciò, in Antiochia da' fondamenti eresse una zecca, e fra alcuni altri bagni uno, a cui diede il nome di senatorio. Nè questo bastò al suo magnifico genio. Si applicò ancora ad alzar castella e fortezze ai confini, mettendo guarnigioni di soldati dappertutto; e valenti capitani per custodir quelle frontiere. Abbiamo confermata da Ammiano [Ammianus, lib. 23, cap. 11.] questa diligenza di Diocleziano, siccome ancora da Procopio [Procop., de Ædicti., lib. 1, cap. 6.], i quali scrivono aver egli specialmente fortificato di mura e di torri il castello di Cercusio, o sia Circesio, nella Mesopotamia. L'autore [Eumen., Orat. de Schol. restaurand.] inoltre della orazione pel ristoramento delle scuole in Autun, parla di varie città già deserte, e divenute covili di fiere, le quali dalla diligenza degli Augusti e Cesari di questi [1049] tempi erano state rimesse io buono stato e popolate. Fa egli eziandio menzione delle fortezze alzate al Reno, al Danubio, all'Eufrate per guardia del paese romano. Se vogliamo stare alla testimonianza di Idacio [Idacius, in Fastis.], ebbe Massimiano Augusto guerra in quest'anno coi Marcomanni, popoli della Germania, e fracassò le loro squadre: della qual vittoria fecero anche menzione Eutropio [Eutrop., in Breviar.] ed Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.].
Anno di | Cristo CCC. Indizione III. |
Marcellino papa 5. | |
Diocleziano imperadore 17. | |
Massimiano imperatore 15. |
Consoli
Flavio Valerio Costanzo Cesare per la terza volta e Caio Valerio Galerio Massimiano Cesare per la terza.
L'essere nominato Costanzo Cesare ne' Fasti prima di Galerio, avvalora l'opinion di coloro che gli attribuiscono la preminenza, allorchè egli fu eletto Cesare. Appio Pompeo Faustino, secondo gli antichi Cataloghi [Panvin., in Fastis Consul.], esercitò in quest'anno la prefettura di Roma. Alcune leggi, che si possono riferire all'anno presente, ci fan vedere Diocleziano dimorante in questi tempi nelle città della Tracia e dell'Illirico, e massimamente a Sirmio. Il dirsi poi da Eutropio [Eutrop., in Breviario.] che dopo la guerra persiana furono vinti i Sarmati, e domati i popoli Carpi e Bastarni, se veramente riguardasse l'anno presente, ci farebbe intendere perchè Diocleziano si trattenesse in quelle parti della giurisdizion di Galerio, cioè per secondare le di lui militari imprese contra di que' Barbari. Ma per conto de' Carpi e Bastarni, la Cronica d'Eusebio [Eusebius, in Chron.] ce li rappresenta molto prima soggiogati, e trasportati ad abitar [1050] nelle provincie romane. Parla il medesimo Eusebio delle terme diocleziane che si cominciarono a fabbricare (secondochè crede il padre Pagi) [Pagius, Crit. Baron.] circa questi tempi in Roma, e furono poi compiute da Costantino; fabbrica di maravigliosa mole, di cui son da vedere gli scrittori che hanno illustrato Roma antica. Similmente Massimiano Erculio Augusto si applicò ad edificar le terme massimiane in Cartagine. Frequentissimo in questi secoli era dappertutto l'uso dei bagni, che pure troviamo da sì lungo tempo dismesso per quasi tutta l'Europa.
Anno di | Cristo CCCI. Indizione IV. |
Marcellino papa 6. | |
Diocleziano imperadore 18. | |
Massimiano imperadore 16. |
Consoli
Tiziano per la seconda volta e Nepoziano.
Si parla in un'iscrizione pubblicata dal Fabretti [Fabrettus, Inscript., pag. 208.] di un Tito Flavio Postumio Tiziano console. Egli da me è creduto quegli stesso che in quest'anno procedette console, perciocchè noi vedremo all'anno 505 Postumio Tiziano prefetto di Roma. Per l'anno presente quella prefettura fu data ad Elio Dionisio. Eusebio [Euseb., in Chron.] riferisce un orribil tremuoto che in questi tempi si fece sentire in Sidone e Tiro, colla rovina di moltissimi edifizii, ed oppressione di popolo innumerabile. Quali imprese in questi tempi facesse Costanzo Cloro Cesare nelle Gallie, non sappiam dirlo, nè a qual anno appartenga il raccontarsi da Eumenio [Eumenes, Panegyric. Const.], nel panegirico a Costantino Augusto, che Costanzo suo padre nei campi di Vindone, creduto oggidì un luogo nel cantone di Berna, fece una grande strage di nemici. Oltre a ciò, [1051] essendo passata una sterminata moltitudine di nazioni germaniche col benefizio del ghiaccio nella grande isola formata dal Reno, cioè nella Batavia, allo improvviso scioltosi il ghiaccio, restò ivi di maniera ristretta, che fu obbligata a rendersi prigioniera a Costanzo. Non è improbabile che verso questi tempi un tal fatto accadesse.
Anno di | Cristo CCCII. Indizione V. |
Marcellino papa 7. | |
Diocleziano imperadore 19. | |
Massimiano imperadore 17. |
Consoli
Flavio Valerio Costanzo Cesare per la quarta volta e Caio Valerio Massimiano Cesare per la quarta.
Nummio Tosco esercitò in quest'anno la carica di prefetto di Roma. Gran carestia si patì in Oriente, ed arrivò ad una esorbitanza il prezzo de' grani [Idacius, in Fastis. Lactantius, de Mort. Persecut., cap. 7.]. Nel ripiego che prese in tal congiuntura Diocleziano, si desiderò la prudenza; imperciocchè ordinò che ad un prezzo mediocre si vendesse il grano: dal che venne che i mercanti non ne vendevano più, nè faceano venirne da lontani paesi: sicchè crebbe di lunga mano la penuria e la fame, e succederono sedizioni ed ammazzamenti, con essere in fine costretto l'imperadore a levar quella tassa, e a lasciare che il mondo per questo conto si governasse da sè stesso. Può essere che tale carestia si stendesse anche allo Egitto, paese per altro scelto a pascere gli altri coll'abbondanza sua. Certamente abbiamo dalla Cronica di Alessandria [Chron. Alexandrin.] e da Procopio [Procop., in Histor. arc.] che Diocleziano assegnò alcuni milioni di misure di grano, da darsi annualmente in dono ai poveri di quel paese, con distribuirlo per famiglie: liberalità che durò sino ai tempi di Giustiniano Augusto, e sotto di [1052] lui cessò. Abbiamo da Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] che furono dai due Augusti pubblicate delle giustissime leggi per la quiete pubblica e buono stato delle città, e sopra tutto fu abolito l'uffizio dei frumentarii, cioè di spie, ossia d'inspettori, che si mandavano nelle provincie per indagare se v'erano movimenti, abusi e doglianze. Sembra che sul principio un tal impiego fosse onorevole, e ne ridondasse buon utile al pubblico, perchè, informati gli Augusti dei disordini occorrenti, vi rimediavano. Ma nel progresso del tempo, giusta il costume delle umane cose, il buon istituto degenerò in una vera peste; perchè costoro, con inventar mille false accuse, assassinavano chiunque lor non piaceva, o non si comperava la loro amicizia; e facendo paura anche ai più lontani, mettevano in contribuzione tutti i paesi. Inoltre buoni regolamenti furono fatti per mantenere l'abbondanza de' viveri in Roma, e perchè puntualmente fossero pagate le milizie e promosse le persone meritevoli, e gastigati i malfattori. Finalmente si continuò a cingere di belle e forti mura la città di Roma, e ad abbellir l'altre città con delle nuove e magnifiche fabbriche: il che particolarmente fu fatto in Cartagine, Nicomedia e Milano. Fra gli altri suntuosi edificii Massimiano Erculio Augusto in questa ultima città fece fabbricar le terme, o vogliam dire i bagni, che presero la denominazione da lui. Ne fa menzione Ausonio [Ausonius, de Urbibus.] nella descrizion delle primarie città. Non si può negare, v'erano motivi per poter appellar felice allora lo stato dell'imperio romano; ma, siccome aggiugne lo stesso Aurelio Vittore, neppure allora mancavano pubblici guai e sconcerti. La nefanda libidine di Massimiano Erculio Augusto cagionava non pochi lamenti, non perdonando egli neppure agli ostaggi; e Diocleziano, per non isconciar la quiete e gl'interessi suoi proprii, nè [1053] rompere la concordia con esso Massimiano e con Galerio Cesare, chiudeva gli occhi, lasciando far loro quanto volevano d'ingiustizie e prepotenze. Peggio ancora operò nell'anno seguente, come fra poco vedremo.
Anno di | Cristo CCCIII. Indizione VI. |
Marcellino papa 8. | |
Diocleziano imperadore 20. | |
Massimiano imperadore 18. |
Consoli
Caio Aurelio Valerio Diocleziano Augusto per l'ottava volta e Marco Aurelio Valerio Massimiano Augusto per la settima.
L'uffizio di prefetto di Roma fu appoggiato a Giunio Tiberiano [Bucherius, de Cyclo.] in questo anno; anno non so s'io dica di funesta, oppur di gloriosa memoria alla religione cristiana. Funesto, perchè in esso fu mossa la più orrida persecuzione che mai patisse in addietro la fede di Cristo; glorioso, perchè questa fede si mirò sostenuta da innumerabili campioni sprezzatori dei tormenti e della morte, e che col loro martirio accrebbero i cittadini al cielo [Euseb., Hist. Eccl., lib. 8, c. 1, et in Chron.]. Per testimonianza di Lattanzio [Lactantius, de Mortib. Persecutor., cap. 9 et 10.], fin l'anno di Cristo 298, perchè nel sagrificare agli idoli niun segno si vedeva nelle viscere delle vittime per predir l'avvenire, come si figurarono i troppo crudeli pagani, gli aruspici attribuirono questo sconcerto al sospetto o alla certezza che fosse presente qualche cristiano. Allora Diocleziano in collera ordinò che non solamente tutte le persone di corte, fra le quali non poche professavano la religione cristiana, ma anche i soldati per le provincie sagrificassero agl'idoli, sotto pena d'essere flagellati e cassati. Alcuni pochi per questo ordine sostennero anche la morte, ma per allora gran rumore non si fece. [1054] Avvenne che Diocleziano Augusto e Galerio Cesare suo genero unitamente passarono il verno di quest'anno nella Bitinia, nella città di Nicomedia. In quei tempi, come confessa Eusebio, per la lunga pace s'era bensì in mirabil forma dilatata la religion di Cristo, coll'erezion d'infiniti templi nelle stesse città per tutte le provincie romane; ed innumerabil popolo era già divenuto quello degli adoratori della croce per l'Oriente e per l'Occidente. Ma il loglio era anche col grano; già fra gli stessi cristiani s'udivano eresie, si mirava l'invidia, la frode, la simulazione e l'ipocrisia cresciuta fra loro. E fino i vescovi mal d'accordo insieme disputavano di precedenze, l'un mormorando dell'altro, con giugnere poi le lor gregge ad ingiurie e sedizioni, e a dimenticare i doveri e i bei documenti di sì santa religione. Giacchè niun pensava a placar Dio, volle Dio farli ravvedere, volle con leggier braccio gastigar le loro negligenze, lasciando che i pagani sfogassero l'antico lor odio contra del suo popolo eletto [Lactantius, de Mort. Persecutor., cap. 9 et 10.]. Galerio Cesare quegli fu che accese il fuoco. Costui da sua madre, donna di villa, asprissima nemica de' cristiani, imparò ad abborrirli, e ne avea ben dati in addietro dei fieri segni; ma in quest'anno decretò di sterminarli affatto. Trovandosi egli dunque in Nicomedia col suocero Diocleziano, quando ognuno credeva che amendue per tutto il verno trattassero in secreti colloqui dei più importanti affari di stato, si venne a sapere che la sola rovina de' cristiani si maneggiava ne' lor gabinetti. Galerio, dissi, era l'ardente promotore di quest'empia impresa. Diocleziano fece quanta difesa potè, dicendo che pericolosa cosa era l'inquietar tutto il mondo romano; e che a nulla avrebbe servito, perchè i cristiani erano usati a sofferir la morte per tener salda la lor religione; e che, per conseguente, sarebbe bastato il solamente vietarla ai cortigiani [1055] e soldati. Fece istanza Galerio che si udisse il parer d'alcuni uffiziali della corte e dalla milizia. Costoro aderirono tutti a Galerio. Volle parimente Diocleziano udir sopra ciò gli oracoli dei suoi dii e dei sacerdoti gentili. Senza che io lo dica, ognuno concepisce qual dovette essere la loro risposta. Fu dunque stabilito di dar all'armi contra dei professori della fede di Cristo; e Galerio pretendeva che eglino si avessero da bruciar vivi; ma Diocleziano per allora solamente accordò che senza sangue si procedesse contra di loro.
Diedesi principio a questa lagrimevol tragedia, per attestato di Lattanzio, nel dì 25 di febbraio dell'anno presente, in cui il prefetto del pretorio con una man di soldati si portò alla chiesa di Nicomedia, posta sopra una eminenza in faccia al palazzo imperiale. Rotte le porte, si cercò invano la figura del Dio adorato dai cristiani. Vi si trovavano bensì le sacre scritture, che furono tosto bruciate, e dato il saccheggio a tutti gli arredi e vasi sacri. Stavano intanto i due principi alla finestra, da cui si mirava la chiesa, disputando fra loro, perchè Galerio insisteva che se le desse il fuoco, ma con prevalere la volontà di Diocleziano, che quel tempio si demolisse, per non esporre al manifesto pericolo d'incendio le case contigue. Restò in poche ore pienamente eseguito il decreto, e nel dì seguente si vide pubblicato un editto [Euseb., Histor. Eccles., lib. 8, cap. 2.], con cui si ordinava l'abbattere sino ai fondamenti tutte le chiese dei cristiani, il dar alle fiamme tutti i lor sacri libri, con dichiarar infame ogni persona nobile, e schiavo ciascun della plebe che non rinunziasse alla religion di Cristo. Tale sul principio fu l'imperial editto, a cui poscia fu aggiunto che si dovessero cercar tutti i vescovi, ed obbligarli a sagrificare ai falsi dii. Finalmente si arrivò a praticare i tormenti e le scuri; onde poi venne tanta copia di martiri che illustrarono la fede di Gesù Cristo, e servirono [1056] col loro sangue a maggiormente assodarla e a renderla trionfante nel mondo. Poco dopo la pubblicazion di questo editto si attaccò il fuoco due volte al palazzo di Nicomedia [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 14.], dove abitavano Diocleziano e Galerio, e bruciò buona parte. Costantino, che fu poscia Augusto, e si trovava allora in quella città, in una sua orazione [Constantinus, in Oration. apud Eusebium.] ne attribuisce la cagione ad un fulmine e fuoco del cielo. Lattanzio tenne, all'incontro, per certo che autor di quell'incendio fosse lo stesso Galerio Cesare, par incolparne poscia i cristiani, e maggiormente irritar Diocleziano contra di loro, siccome avvenne. Non aspetti da me il lettore altro racconto di questa famosa terribil persecuzione del popolo cristiano, dovendosi prendere la serie della medesima da Eusebio [Euseb., Histor. Eccles., lib. 8.], dal cardinal Baronio [Baronius, in Annalib.], dal Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], dagli Atti dei santi del Bollando [Acta Sanctorum Bolland.], in una parola dalla Storia ecclesiastica.
Circa questi tempi, per quanto si raccoglie da Eusebio [Eusebius, lib. eod., cap. 6.], tentarono alcuni di farsi imperadori nella Melitene, provincia dell'Armenia, e nella Soria. Di tali movimenti altro non sappiamo se non ciò che il Valerio osservò presso Libanio sofista [Liban., Oration. 14 et 15.]: cioè che un certo Eugenio capitano di cinquecento soldati in Seleucia fu forzato dai medesimi a prendere la porpora, perchè non poteano più reggere alle fatiche loro imposte di nettare il porto di quella città. S'avvisò egli di occupare Antiochia, ed ebbe anche la fortuna di entrarvi con quel pugno di gente; ma sollevatosi contra di lui il popolo d'essa città, non passò la notte che tutti quei masnadieri furono morti o presi. La bella ricompensa che per questo atto di fedeltà ebbero gli Antiocheni da Diocleziano, fu che i principali uffiziali delle [1057] città d'Antiochia e Seleucia furono condannati a morte senza forma di processo e senza concedere loro le difese. Questo atto di detestabil crudeltà rendè sì odioso per tutta la Soria il nome di Diocleziano, che anche novanta anni dappoi, cioè ai tempi di Libanio, il cui avolo paterno fra gli altri perdè allora la vita, con orrore si pronunziava il suo nome. Abbiamo poi da Lattanzio [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 17.] che Diocleziano si portò a Roma in quest'anno per celebrarvi i vicennali, che cadevano nel dì 20 di novembre. Hanno disputato intorno a questo passo il padre Pagi [Pagius, Critic. Baron. ad annum 298.], il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] ed altri, cercando quai vicennali si debbano qui intendere, e come cadessero questi in quel giorno. Non entrerò io in sì fatti litigii, e solamente dirò che oggidì son d'accordo i letterati in credere celebrato in quest'anno, e non già nel precedente, come porta il testo della Cronica di Eusebio [Eusebius, in Chronic.], il trionfo romano d'esso Diocleziano, al quale, per attestato d'un antico panegirista [Incertus, in Paneg. Max. et Const., cap. 8.], intervenne anche Massimiano Augusto, siccome partecipe delle vittorie fin qui riportate contro ai nemici del romano imperio. Con ciò che abbiam detto di sopra all'anno 297 della pace seguita col re di Persia, secondo la riguardevol autorità di Pietro Patrizio [Petrus Patricius, de Legation., tom. I Hist. Byzant.], pare che s'accordi ciò che lasciarono scritto il suddetto Eusebio ed Eutropio [Eutrop., in Breviario.]: cioè che davanti al cocchio trionfale furono condotte le mogli, le sorelle o i figliuoli di Narse re di Persia, i quali già dicemmo restituiti molto prima. Si può verisimilmente credere che solamente in figura, ma non già in verità, comparissero in quel trionfo le principesse e i principi suddetti. Parla ancora Eutropio di sontuosi conviti dati in questa occasione da Diocleziano, ma non già di [1058] solenni giuochi, siccome costumarono i precedenti Augusti; perchè egli, studiando il più che potea, il risparmio, si rideva di Caro e d'altri suoi predecessori, che, secondo lui, scialacquavano il danaro nella vanità di quegli spettacoli [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 17.]. Uscirono perciò contra di lui varie pasquinate in Roma; e non potendo egli sofferire cotanta libertà ed insolenza, giudicò meglio di ritirarsi da Roma, e di andarsene a Ravenna verso il fine dell'anno, senza voler aspettare il primo dì dell'anno seguente, in cui egli dovea entrar console per la nona volta. Ma essendo la stagione assai scomoda a cagion del freddo e delle pioggie, egli contrasse nel viaggio delle febbri, leggiere sì, ma nondimeno costanti, che l'obbligarono sempre ad andare in lettiga. I cristiani, allora vessati in ogni parte, cominciarono a conoscere la mano di Dio contra di questo lor persecutore. Dissi in ogni parte; ma se n'ha da eccettuare il paese governato da Costanzo Cesare, cioè la Gallia; imperciocchè, per attestato di Lattanzio [Idem, cap. 15.], essendo quel principe amorevolissimo verso i cristiani, ed estimatore delle lor virtù, volle bensì, per non comparir discorde da Diocleziano capo dell'imperio, che fossero atterrate le lor chiese, ma che niun danno o molestia venisse inferita alle persone. Anzi, se dice vero Eusebio [Euseb., Hist. Eccl., lib. 7. cap. 13.], furono anche salve le chiese nel paese di sua giurisdizione; o se pur ne furono distrutte alcune, ciò provenne dal furor dei pagani, ma non da comandamento alcuno di Costanzo. Come poi si dica che non mancassero anche alla Gallia i suoi martiri, bollendo la persecuzione suddetta, è da vedere il padre Pagi all'anno presente. Abbiamo poi dal sopra citato Lattanzio [Lactantius, cap. 38.] che nel tempo dei vicennali una nazion di Barbari, cacciata dai Goti, si rifugiò sotto l'ali di Massimiano Augusto, [1059] la qual poi presa nelle guardie da Galerio, e indi da Massimino, in vece di servire ai Romani, li signoreggiò e calpestò col tempo.
Anno di | Cristo CCCIV. Indizione VII. |
Marcellino papa 9. | |
Diocleziano imperadore 21. | |
Massimiano imperadore 19. |
Consoli
Caio Aurelio Valerio Diocleziano Augusto per la nona volta e Marco Aurelio Valerio Massimiano Augusto per la ottava.
Prefetto di Roma noi troviamo nell'anno presente Araclio Ruffino. Appena ebbe principio la persecuzion decretata da Diocleziano e Massimiano Augusti, e da Galerio Cesare contro i seguaci della religion cristiana, che nello stesso tempo l'ira di Dio cominciò a farsi sentire sopra questi persecutori, che crudelmente spargevano il sangue de' giusti; di modo che svanì ogni lor pace e grandezza; e l'imperio romano, già ridotto ad un florido stato, tornò ad essere un caos di rivoluzioni e calamità. Già dicemmo che il capo de' persecutori predetti, cioè Diocleziano, caduto infermo nell'anno precedente, era venuto a Ravenna. Quivi stando, procedette console per la nona volta nelle calende di gennaio, e per isperanza di ricuperar la salute, vi si fermò tutta la state. Ma veggendo che il male, in vece di prendere buona piega, sembrava che peggiorasse, determinò di passare all'aria più salutevole della Tracia; e tanto più perchè gli premeva di dedicare il circo che egli avea fatto fabbricare a Nicomedia. Facevansi intanto dappertutto preghiere ai sordi dii del paganesimo per la conservazion [1060] della sua vita. Per la Venezia, per l'Illirico e per le rive del Danubio, arrivò egli finalmente a Nicomedia, dove da tal languidezza fu oppresso, che nel dì 13 di dicembre corse voce di sua morte: il che riempiè tutta la corte di lagrime e di sospetti, e per la città si giunse fino a dire che era stata data sepoltura al suo corpo. Ma egli viveva, con tale indebolimento nondimeno di cervello, che di tanto in tanto delirava; e quantunque non mancassero persone, le quali l'attestavano vivo, pure non pochi sospettavano che si tenesse occulta la sua morte per dar tempo a Galerio Cesare di venire, e d'impedire che i soldati non facessero delle novità. Ma noi nulla sappiamo delle azioni di Galerio in quest'anno. Quanto a Massimiano Erculio Augusto, si ricava da un antico panegirico [Incertus, in Panegyr. Maximian. et Constant., cap. 8.] ch'egli, essendo console per l'ottava volta, soggiornò non poco in Roma. Secondo la Cronica di Damaso [Anastas. Bibliothec.], Marcellino, romano pontefice, terminò in quest'anno il corso di sua vita, alcuni han creduto col martirio, ma senza addurne valevoli pruove. Anche negli antichi secoli sparsero voce i Donatisti ch'egli nella persecuzione si lasciasse vincere dalla paura, e sacrificasse agl'idoli: laonde fu poi formata una leggenda, in cui si rappresentava la di lui caduta, e poi la penitenza, con altre favole, alle quali l'erudizione degli ultimi secoli ha tagliato affatto le gambe, certo ora essendo che questo pontefice fu esente da quel reato. La fierezza poi della persecuzione cagion fu che la sedia di San Pietro stesse vacante per tre anni, non arrischiandosi alcuno ad empierla, perchè il furor de' pagani spezialmente si scaricava sopra i pastori della Chiesa di Dio.
Anno di | Cristo CCCV. Indizione VIII. |
Sede pontificia vacante. | |
Costanzo imperadore 1. | |
Galerio Massimiano imper. 1. |
Consoli
Flavio Valerio Costanzo Cesare per la quinta volta e Caio Galerio Valerio Massimiano Cesare per la quinta.
Restò appoggiata nell'anno presente la prefettura di Roma a Postumio Tiziano. Seguitava intanto Diocleziano Augusto il soggiorno suo in Nicomedia, sempre infermo; se non che nel dì primo di marzo fece forza a sè stesso [Lactantius, de Mort. Persecutor., cap. 17.], ed uscì il meglio che potè fuori del palazzo per farsi vedere al popolo, ma sì contraffatto pel male, che appena si riconosceva quel desso, e in certi tempi ancora si osservava in lui qualche alienazione di mente. Da lì a poco sopraggiunse Galieno Cesare a visitarlo, non già per seco rallegrarsi della ricuperata salute, ma per esortarlo, anzi forzarlo a rinunziare all'imperio. Già aveva egli tenuto un simile ragionamento a Massimiano Erculio imperadore, adoperando parole di gran polso, cioè minacciandolo di una guerra civile, se non deponeva in sue mani il governo. Ora egli sulle prime si studiò con buone maniere di tirare il suocero Diocleziano a' suoi voleri, rappresentandogli l'età avanzata, l'infermità e l'inabilità a più governar popoli, e mettendogli innanzi agli occhi l'esempio di Nerva Augusto. Al che rispondeva Diocleziano, essere cosa indecente che chi era stato sul trono, si avesse a ridurre ad una vita umile e privata; e ciò anche pericoloso, per aver egli disgustato assaissime persone. Nè valere l'esempio di Nerva, perchè egli sino alla morte ritenne il suo grado. Che se pur Galerio bramava di alzarsi, tanto a lui quanto a Costanzo Cloro si conferirebbe il titolo d'Augusto. Ma Galerio, dopo aver replicato che, in far quattro [1062] imperadori, si sconcerterebbe la forma del governo introdotto dal medesimo Diocleziano, preso un tuono alto di voce, aggiunse, che s'egli non voleva cedere, sarebbe sua cura di provvedervi, perchè certo non voleva più far sì bassa figura, stanco della dura vita di quindici anni menata nell'Illirico sempre in armi contra de' Barbari, quando altri godevano le delizie in paesi migliori e tranquilli. Diocleziano infermo, e che già avea ricevuto lettere di Massimiano coll'avviso di somiglianti minaccie a lui fatte da Galerio, e colla notizia che costui andava a questo fine sempre più ingrossando l'esercito proprio; allora colle lagrime agli occhi si diede per vinto, e restarono d'accordo tanto egli che Massimiano di deporre l'imperio. Si passò dunque a trattare dell'elezion di due Cesari. Proponeva Diocleziano che tal dignità si conferisse a Costantino figlio di Costanzo, e a Massenzio figlio di Massimiano. Amendue li rigettò l'orgoglioso Galerio, con dire che Massenzio era troppo pien di vizii, benchè genero suo; Costantino troppo pien di virtù ed amato dalle milizie; e che niun d'essi presterebbe a lui l'ubbidienza dovuta; laddove egli voleva persone che facessero a modo suo. Ma e chi si farà? disse allora Diocleziano. Rispose Galerio che promoverebbe Severo e Daia, ossia Daza, figliuolo d'una sua sorella, ed appellato poco innanzi Massimino, amendue nativi dell'Illirico. Al nome di Severo replicò Diocleziano: Quel ballerino? quell'ubbriacone, che fa di notte giorno, e di giorno notte? — Quello appunto, seguitò a dir Galerio, perchè egli sa onoratamente governar le milizie. Bisognò che Diocleziano abbassasse la testa, e si accomodasse ai voleri dell'altero suo genero. Altro dunque non restò a Diocleziano che di concertare per via di lettere con Massimiano la maniera e il giorno di rinunziare l'imperio, e di dar la porpora ai due stabiliti Cesari, benchè l'insolenza di Galerio, prima anche di parlare [1063] a Diocleziano, era giunta ad inviar Severo ad esso Massimiano, con fargli istanza della porpora cesarea.
Venne il dì primo di maggio, cioè il giorno concertato per far la rinunzia suddetta [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 19.]. Comparve Diocleziano in un luogo Ire miglia lungi da Nicomedia, dove già lo stesso Galerio molti anni prima era stato creato Cesare. Quivi alzato si mirava un trono, quivi era disposta in ordinanza la corte ed armata tutta. Costantino anch'egli, siccome tribuno di prima riga, v'intervenne, e gli occhi di tutti stavano rivolti verso di lui, sperando, anzi tenendo per fermo che sarebbe egli l'eletto per la cesarea dignità: quand'ecco Diocleziano, dopo aver colle lagrime agli occhi confessata h sua inabilità e il bisogno di riposo, e dichiarati i due nuovi Augusti Costanzo Cloro e Galerio Massimino, pronunzia Cesari Severo e Massimino. Stupefatti i soldati, cominciarono a guardarsi l'un l'altro, con chiedere se forse si fosse mutato il nome a Costantino. In questo mentre Galerio fece venire innanzi Daia, chiamato Massimino: e Diocleziano, cavatasi di dosso la porpora, con essa ne vestì il novello Cesare: cioè chi cavato negli anni addietro dal pecoraio e dalle selve, prima fu semplice soldato, poi soldato nelle guardie, indi tribuno, e finalmente Cesare; non più pastore di pecore, ma di soldati, ed assunto a governare, cioè a calpestar l'Oriente, benchè nulla s'intendesse nè di milizie nè di governo di popoli. Diocleziano, ripigliato il suo nome di Diocle, fu mandato in carrozza a riposare in Dalmazia patria sua; e si fermò a Salona. Nè sussiste il dirsi da Malala [Johannes Malala, in Chronogr.] ch'egli fece la rinuncia in Antiochia, e prese l'abito de' sacerdoti di Giove in quella città. Galerio Augusto e Massimino Cesare presero le redini, e cominciarono nuove tele per salire anche più alto. Trovavasi [1064] allora Massimiano Erculio Augusto in Milano, città, dove solea soggiornar volentieri. Già accennai che quivi egli avea fabbricate suntuose terme. Si può credere che vi edificasse, come lasciò scritto Galvano dalla Fiamma [Gualvaneus de Flamma, Manipul. Flor. tom. XI Rer. Italic.], il palazzo imperiale, e un tempio ad Ercole, creduto oggidì la basilica di San Lorenzo. In essa città [Euseb., in Chron. Idacius, in Chronico. Incertus, in Panegyr. Maximian.] nel medesimo dì primo di maggio, secondo il concerto, anche lo stesso Massimiano imperadore depose la porpora; dichiarò Costanzo Cloro Augusto e Severo Cesare: il che fatto, per attestato di Eutropio [Eutrop., in Breviario.] e di Zosimo [Zosimus, lib. 2.], la cui Storia, mancante negli anni addietro, torna qui a risorgere, si ritirò nei luoghi più deliziosi della Lucania, parte oggidì della Calabria, non già per riposare, siccome vedremo, ma per aspettar venti più favorevoli alla sua non ancor domata ambizione. Il racconto fin qui fatto, e quanto succedette dipoi, ci fa conoscere che questi non per grandezza d'animo, come Aurelio Vittore, Eutropio ed altri gentili dissero, ma per forza lor fatta deposero lo scettro. Sicchè noi miriamo passato l'imperio romano in due novelli Augusti, cioè in Costanzo Cloro e in Galerio, appellato Massimiano il giovine, a distinzione del vecchio deposto; e in due nuovi Cesari, cioè in Severo e Massimino. Le porzioni loro assegnate furono le seguenti. A Costanzo toccò la Gallia, l'Italia e l'Africa, e per conseguente anche la Spagna e Bretagna. A Galerio tutta l'Asia romana, l'Egitto, la Tracia e l'Illirico. Ma, per attestato di Eutropio [Eutrop., in Breviar.] e di Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesaribus.], Costanzo, contento del titolo e dell'autorità augustale, e delle provincie a lui già commesse, lasciò a Severo Cesare [1065] la cura dell'Italia, e probabilmente ancora dell'Africa, che nel comparto precedente andava unita con essa Italia, dovendo nondimeno esso Severo [Anonymus Valesianus post Ammian.], a tenore del regolamento già fatto, dipendere dai cenni di esso Costanzo. Per segno di questo, come consta dalle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imp.], prese egli il nome di Flavio Valerio Severo. Nella stessa guisa Massimiano Cesare dovea prestare ubbidienza a Galerio Augusto suo zio materno.
Già abbiamo detto come costui fosse vilmente nato. Aggiungasi ora ch'egli era una sentina di vizii [Euseb. Lactant. Victor, etc.]. Spezialmente predominava in lui l'amore del vino, per cui sovente usciva di cervello; e perchè in quello stato ordinava cose pregiudiziali anche a sè stesso, ebbe poi tanto giudizio da ordinare che da lì innanzi nulla si eseguisse di quello ch'egli comandava dopo il pranzo o dopo la cena, se non nel giorno seguente. A questo vizio tenne dietro un'esecrabil lascivia, ed una non inferior crudeltà, ch'egli massimamente sfogò contra de' cristiani, de' quali fu fiero nemico ed asprissimo persecutore. Di che peso fosse costui, troppo lo provarono i popoli da lui governati, perchè da lui caricati d'insoffribili imposte, in guisa che sotto di lui restarono impoverite e spogliate le provincie, tutto rubando egli, per darlo ai suoi cortigiani e soldati. Vero è che Vittore gli dà la lode d'uomo quieto ed amator de' letterati; ma, secondo Eusebio, non si sa ch'altri egli amasse, se non i maghi ed incantatori, i quali erano i suoi più favoriti. Siccome apparisce dalle medaglie [Mediobarbus, in Numism. Imperator.], questo barbaro Daia o Daza si vede appellato Caio Galerio Valerio Massimino. A cosini, secondo Eusebio [Euseb., Histor. Eccles., lib. 9, cap. 1.], non lasciò Galerio tutto l'Oriente in governo, ma solamente [1066] la Soria e l'Egitto. Siccome dissi, Costantino, deluso dalle sue speranze [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 24.], tuttavia dimorava a Nicomedia nell'annata del fu imperador Diocleziano, presso il quale s'era fin qui trattenuto, come ostaggio della fedeltà di Costanzo già Cesare, ed ora Augusto. Ed appunto in questi tempi esso suo padre con varie lettere andava facendo istanza a Galerio che gli si rimandasse il figliuolo per desiderio di rivederlo, massimamente da che si sentiva malconcio di sanità. Galerio avea delle altre mire per non lasciarlo andare. Imperciocchè, considerando il natural di Costanzo, assai dolce e pacifico, per cui lo sprezzava, e molto più la disposizione in lui di corta vita, a cagion degl'incomodi di sua salute, colla giunta ancora di poter egli disporre dei due Cesari a talento suo, siccome sue creature: già si teneva egli in pugno il dominio di tutto l'imperio romano per la morte di Costanze; e quando occorresse, colla superiorità delle sue forze. Perciò, avendo in mano Costantino, non si sentiva voglia di licenziarlo, anzi nulla più desiderava che di torsi dagli occhi questo ostacolo al suo maggiore innalzamento, con levargli la vita. Ma non osava di farlo apertamente, perchè non gli era ignoto quanto affetto portasse l'esercito a questo giovane principe, dotato di mirabili qualità. Ricorse pertanto alle insidie e frodi. Prassagora, storico [Photius, Bibliothec. Cod. 62.], il quale si crede che vivesse sotto lo stesso Costantino, o pur sotto i di lui figliuoli, lasciò scritto che Galerio obbligò un giorno Costantino a combattere con un furioso lione, ed egli in fatti l'uccise. Così, per relazion di Zonara [Zonaras, in Annalibus.], l'inviò un dì ad assalir con poca gente un capitano de' Sarmati, che s'era inoltrato con molte soldatesche [Anonymus Valesianus post Ammian.]. Costantino v'andò, e, presolo per li capelli, lo [1067] strascinò ai piedi di Galerio. Probabilmente nella stessa guerra coi Sarmati, che sembra succeduta in quest'anno, fu da esso Galerio inviato Costantino alla testa d'alcune milizie contra di que' Barbari per mezzo ad una palude, con isperanza che egli restasse quivi o affogato, ovvero oppresso dai nemici. Tutto il contrario avvenne. Egli fece strage dei Sarmati, e tornò colla vittoria a Galerio, che si fece bello del valore altrui. Così Dio in mezzo a tanti pericoli ed insidie preservò questo principe, per farne poscia un mirabile spettacolo della sua provvidenza in favore della santa sua religione. Certo non sussiste, come vuole Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.], che Costantino fosse tenuto in Roma per ostaggio da Galerio, il quale si sa che non venne più a Roma. Di queste insidie a lui tese abbiamo anche la testimonianza d'Eusebio [Euseb., in Vita Constant., lib. 1, cap. 20.].
Anno di | Cristo CCCVI. Indizione IX. |
Sede pontificia vacante. | |
Galerio Massimiano imperadore 2. | |
Severo imperadore 1. | |
Marco Aurelio Valerio Massenzio imperadore 1. | |
Marco Aurelio Valerio Massimiano imperadore 1. |
Consoli
Flavio Valerio Costanzo Augusto per la sesta volta e Caio Galerio Valerio Massimiano Augusto per la sesta.
Prefetto di Roma in quest'anno fu Annio Anulino. Non solo erano a Costantino assai note le premure che faceva per rivederlo Costanzo Augusto suo padre, ma eziandio che la di lui sanità ogni dì più andava declinando [Lactantius, de Mortib. Persec., cap. 14.]. Perciò cotanto anche egli pregò e si raccomandò per levarsi da quei pericolosi ceppi, [1068] che Galerio, per non venire ad una aperta rottura con Costanzo, si contentò in fine che egli se ne andasse. Diedegli dunque una sera le dimissorie, con gli opportuni ordini alle poste di somministrargli i cavalli, ma con dirgli che aspettasse a muoversi la mattina seguente, finchè egli fosse levato di letto, perchè avea degli altri ordini da dargli. Fu creduto preso da lui questo tempo per ispedire innanzi un corriere ad avvisar Severo Cesare, che, nel passare Costantino per l'Italia, sotto qualche pretesto il ritenesse. Galerio a questo fine stette in letto quella mattina sino a mezzodì. Levatosi allora, disse che si facesse venir Costantino. Ma Costantino, appena fu a letto Galerio, nella notte innanzi se ne era partito, camminando per le poste con tal fretta, come se fuggisse da un gran pericolo, ed aspettasse d'essere inseguito. Anzi, dopo aversi presi quanti cavalli gli occorreano alle poste [Anonymus Valesianus post Ammian.], ebbe la precauzione di storpiar di mano in mano gli altri, affinchè niuno gli potesse correre dietro. A questo avviso oh sì che Galerio per la collera fumò [Zosimus, lib. 2, cap. 5.]. Peggio fu allorchè, dopo avere ordinato di inseguirlo tosto a briglia sciolta, gli fu detto che non restavano più cavalli abili alle poste. Durò fatica a ritener le lagrime per la rabbia. In questa maniera felicemente Costantino si levò dalle unghie di chi mal volontieri il mirava tra i vivi, e senza interrompimento passate l'Alpi, arrivò nelle Gallie, cioè nella giurisdizion di suo padre. Aurelio Vittore e Zosimo [Aurel. Victor, in Epit. et Zosimus, lib. 2, cap. 5.] attribuiscono la fuga di Costantino alla sua ansietà di regnare, e al dispetto di veder anteposti nella dignità a sè, figliuolo d'un imperadore, due selvatici villani, cioè Severo e Massimino. Non è improbabile che fosse anche così. Arrivò Costantino all'Augusto suo padre, e nol trovò già sugli estremi della [1069] vita, come scrivono Eusebio [Euseb., Vit. Constant., lib 1, cap. 21.] ed Aurelio Vittore, perchè, oltre all'Anonimo Valesiano, Eumenio [Eumen., Panegyr. Constant., cap. 7.], scrittore più sicuro di tutti, ci assicura, nel panegirico di lui recitato pochi anni dipoi, che Costantino giunse a Gesoriaco, oggidì Bologna di Picardia, nel tempo appunto che Costanzo suo padre era per levar le ancore di una poderosa flotta da lui preparata per passare nella Bretagna a guerreggiar coi popoli Pitti e Caledonii. Immenso fu il giubilo suo all'inaspettato arrivo del figlio, il quale unissi tosto a lui nel passaggio per quella spedizion militare.
Abitavano i Pitti e Caledonii in quella parte della gran Bretagna che oggidì Scozia si noma, nazione fiera, che si credeva, secondo Beda [Beda, Hist. Angl., lib. 1, cap. 1.], venuta dalla Scitia colà. L'Usserio [Usser., de Reb. Britann.] la stimò uscita della Scandinavia o de' luoghi circonvicini. Ma gli antichi [Aurelius Victor, in Epitome.] stendevano talvolta il nome degli Sciti non solo alla presente Tartaria, ma anche alla Russia e agli ultimi popoli del Settentrione. Fu assistito Costanzo in quella militare impresa da Eroe re degli Alamanni, che intervenne in persona. Altro non sappiamo di quella guerra, se non che, per attestato dell'Anonimo Valesiano [Anonymus Valesianus.], egli riportò vittoria di quei popoli. Ma mentre si trovava esso Costanzo nella città di Jorch, la sanità sua, stata assai debole in addietro, e molto più infievolita per la vecchiaia, peggiorando il condusse all'ultima meta; e però nel dì 25 di luglio [Idacius, in Chronico.] in mezzo ai figliuoli passò all'altra vita. Magnifico funerale fu a lui fatto, e siccome pagano di credenza, secondo il sacrilego rito dei gentili, fu egli anche deificato, ciò apparendo da varie medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imperat.]. Hanno disputato e tuttavia disputano gli [1070] eruditi inglesi intorno al luogo della sua sepoltura. Era egli nato a Naissum, città della nuova Dacia, che oggidì si chiama la Servia, e però nell'Illirico, come si ricava da Stefano Bizantino [Stephanus, de Urbibus.], dall'Anonimo Valesiano, da Costantino Porfirogeneta [Constantinus Porphyrogeneta, de Provin.] e da altri scrittori. Se è vero che Claudia sua madre, moglie di Eutropio suo padre, fosse figliuola di Crispo fratello di Claudio il Gotico imperadore, non si può negare un po' di nobiltà alla di lui origine. Certamente gli antichi diedero per indubitata questa sua discendenza. La famiglia Claudia e il nome di Crispo si truova nei suoi posteri. Per la via dell'armi diede egli principio alla sua maggior fortuna, e trovandosi alla guerra nel paese dell'Elvezia, oggidì gli Svizzeri, quivi Elena, donna di bassissima condizione, gli partorì, nell'anno di Cristo 274, Costantino, che fu poi gloriosissimo imperadore. Se Elena fosse moglie o pur semplice concubina di Costanzo, non s'è potuto finora decidere. Eusebio [Eusebius, in Chron.] nella Cronica (se pur non è ivi san Girolamo che parli), Zosimo [Zosimus, lib 2, cap. 5.], nemico aperto di Costantino il Grande, l'autore della Cronica Alessandrina [Chronic. Alexandrinum.], Niceforo ed altri ci rappresentano l'imperador Costantino nato fuori delle nozze. All'incontro l'Anonimo Valesiano chiaramente ci dà Elena per sua moglie; ed Eutropio [Eutrop., in Breviar.], scrittore assai vicino a questi tempi, mette Costantino nato ex obscuriori matrimonio, confessando bensì la viltà della madre, madre nondimeno sposata da Costanzo. Lo stesso vien attestato dai due Vittori [Aurelius Victor, in Epitome, et de Caesarib.], con dire che Costanzo, allorchè fu creato Cesare, dovette ripudiare la prima moglie, e questa non potè essere se non Elena, perchè non apparisce che egli altra ne avesse. Quel [1071] che è più, l'anonimo panegirista [Incertus, in Panegyr. Const., pag. 3.] di Costantino scrisse di lui: Quo enim magis continentiam patris acquare potuisti, quam quod et ab ipso fine pueritiae illico matrimonii legibus tradidisti, ut primo ingressu adolescentiae formares animum maritalem, ec. Ma se un autore contemporaneo scrive che Costantino, per non essere da meno di suo padre nella continenza, appena uscito dalla puerizia prese moglie; certamente in confronto di tale autorità cessa quella di Zosimo e d'altri autori molti posteriori, e sembra giusto il credere stata Elena moglie legittima di Costanzo, benchè egli poi, secondo l'uso dei gentili, la ripudiasse per prendere Teodora figliuola di Massimiano Augusto, nell'anno di Cristo 292.
Scrittore non v'ha fra gli antichi, nè solo dei cristiani, ma anche de' gentili, il quale non parli con elogio delle qualità di esso Costanzo Augusto [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 8. Incertus, in Panegyr. Maximian. Eutrop., in Breviar. Eusebius, in Vita Constantini, lib. 1.]. Osservavasi in lui un natural buono, dolce ed eguale, e un amore perpetuo della giustizia. Quanto egli si mostrava focoso e valoroso nel mestier della guerra, altrettanto poi compariva moderato nelle vittorie, e facile a perdonare; nè mai l'ambizione il portò a desiderar quello de' colleghi, nè gli appetiti bestiali a contravvenire ai doveri della continenza. Con queste ed altre virtù s'era egli comperato il cuore de' popoli delle Gallie; ma specialmente si celebrava da tutti l'onorata sua premura che i sudditi godessero quiete e felicità, amando che si arricchisse non già il fisco, ma essi bensì. Viveva egli appunto con grande frugalità per non aggravarli; e contento per uso suo di pochi vasi d'argento, allorchè dovea far dei solenni conviti, mandava a prendere in prestito l'argenteria degli amici. Fra l'altre cose racconta Eusebio [Eusebius, in Vita Constantini, lib. 1, cap. 14.] un fatto degno di memoria. Cioè, che essendo giunte queste [1072] relazioni a Diocleziano, spedì egli nella Gallia alcuni suoi uomini con ordine di fare a nome suo una parlata forte intorno alla sua disattenzion nel governo, stante la sua povertà, e il non aver tesori in cassa per valersene ne' bisogni della repubblica. Costanzo, dopo aver mostrato di gradir lo zelo del vecchio imperadore, li pregò di fermarsi qualche giorno nel suo palazzo. Intanto fece sapere a tutti i più ricchi delle provincie di sua giurisdizione d'essere in bisogno di danaro. Tutti allegramente corsero a portare ori ed argenti, gareggiando fra loro a chi più ne recasse. Allora Costanzo, fatti venire gli uomini di Diocleziano, mostrò loro quel ricco tesoro, dicendo che questo lo tenevano in deposito persone sue fidate per darlo alle occorrenze. Maravigliati coloro se ne andarono, riferendo poi a Diocleziano quanto aveano veduto. E Costanzo, richiamati i padroni di que' danari, loro puntualmente tutto restituì colla giunta di molti ringraziamenti. Ho io udito raccontar questo fatto di un principe d'Italia del secolo prossimo passato; ma probabilmente la copia di tal azione non sussiste. Non fu men luminosa in Costanzo la pietà [Euseb., lib. 8, cap. 13 Hist. Eccl. et in Vita Constant., lib. 1, cap. 15. Optatus, lib. 1. Lactant., de Mortib. Persecut., cap. 15.]. Ancorchè egli non giugnesse mai ad abbracciar la vera religion di Cristo, pur si tiene che abborrisse il copioso numero dei suoi falsi dii, e non adorasse se non un solo dio sovrano del tutto. Amava inoltre non poco i cristiani, li favoriva in ogni congiuntura, moltissimi ne teneva al suo servigio in corte. Ed allorchè nell'anno 303 Diocleziano e Galerio pubblicarono que' fieri editti contro il nome cristiano, e gl'inviarono anche a Costanzo e a Massimiano Erculio per l'esecuzione, Massimiano gli eseguì con piacere; ma Costanzo, per non parere di opporsi agli altri, lasciò bensì che si abbattessero molte chiese nelle Gallie, siccome accennai di sopra, ma non permise che si perseguitassero le persone, nè che [1073] fosse tolta ad alcuno la libertà della religione. Egli è credibile che indulgenza tale provenisse dal suo naturale amorevole verso tutti, o pure dalle insinuazioni a lui fatte da Elena sua prima consorte, se pur ella era in que' tempi cristiana; del che si dubita, ed Eusebio chiaramente lo niega. Può nondimeno essere che anch'ella fosse almeno in que' primi tempi assai inclinata a religion così santa. Si racconta ancor qui da Eusebio [Euseb., in Vita Constant., lib. 1, cap. 16.] una memorabil azione di Costanzo. Allorchè vennero que' fulminanti editti contra dei Cristiani, egli intimò a chiunque de' suoi cortigiani, de' giudici e dei provveduti di altri uffizii, professanti la legge di Gesù Cristo, che dimettessero i posti, o pur lasciassero quella religione. Chi s'appigliò all'uno, chi all'altro partito. Allora Costanzo rimproverò ai disertori del Cristianesimo la loro infedeltà e viltà, e li cacciò dal suo servigio, con dire, che dopo aver tradito il loro Dio, molto più erano capaci di tradir lui; e però ritenne al servigio suo i fedeli, confidò loro la sua guardia, e li trattò come suoi amici nel tempo stesso che gli altri principi infierivano contro alla greggia di Cristo. Dopo Elena sua prima moglie, ch'egli fu obbligato a ripudiare nell'anno 292, dalla quale ebbe Costantino il Grande, sposò Flavia Massimiana Teodora, figlia di Massimiano Augusto, che gli partorì tre maschi, cioè Delmacio, Giulio Costanzo ed Annibaliano, siccome ancora tre figlie, Costanza, Anastasia ed Eutropia.
Prima di morire, siccome abbiamo da Eusebio Cesariense [Euseb., in Vita Constantini.], da Lattanzio [Lactantius, de Mortibus Persecut.], da Giuliano Apostata [Julian., Oratione I.], da Libanio [Libanius, Oratione III.], e massimamente da Eumenio [Eumen., Panegyr. Constant., cap. 7.] scrittore contemporaneo, Costanzo determinò che il solo Costantino primogenito suo, nato, per quanto si crede, nell'anno 274, regnasse, e che gli altri suoi fratelli vivessero [1074] vita privata. Raccomandollo ancora all'esercito suo, e nol raccomandò indarno; imperciocchè nel giorno stesso, in cui mancò di vita esso suo padre, tutte le milizie col re degli Alamanni, Eroc, il quale ausiliario dei Romani si trovava anch'egli a Jorch nella Bretagna, il proclamarono, come s'ha da Eusebio, Imperadore ed Augusto, e il vestirono di porpora. Dopo di che egli attese ai funerali de! padre. Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 9.] e l'Anonimo Valesiano [Anonymus Valesianus, post Ammian.] pretendono che da' soldati altro titolo non fosse dato che quello di Cesare a Costantino. Truovansi in fatti medaglie [Mediobarbus, Numism. Imperator.], dove egli è appellato Cesare, battute senza dubbio dopo il dì 25 luglio dell'anno presente, in cui cominciò il suo regno. Ma facilmente si possono conciliar gli autori. Fu veramente proclamato Costantino dai soldati Imperadore Augusto, asserendolo anche Lattanzio [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 25.]; ma egli camminando con più ritenutezza, nè volendo romperla a visiera calata con gli altri principi regnanti, mandò bensì loro l'immagine sua laureata, come solevano i principi novelli, ma con espressioni di voler buona armonia con loro. Galerio Augusto a tal vista forte si alterò, e fu in procinto di far bruciare quell'immagine e chi la portò; ma i suoi amici tanto dissero, rappresentandogli che se si veniva ad una rottura, i soldati del medesimo Galerio, siccome affezionatissimi a Costantino, di cui per pratica sapeano le rare doti e virtù, passerebbono tutti al servigio di lui, che Galerio smontò, accettò l'immagine, mandò a Costantino la sua, ma con obbligarlo di contentarsi del solo titolo di Cesare colla tribunizia podestà. Fu sì discreto Costantino, che in ciò si sottomise alla volontà di Galerio. Se vide sì di mal occhio esso Galerio l'esaltazione di Costantino, non è punto da stupirsene, perchè questa rovesciava tutti i disegni da lui fatti. Si era egli figurato, [1075] mancando di vita Costanzo, di poter dar a Licinio, suo gran favorito, il titolo e la dignità augustale, tagliando fuori i figli di esso Costanzo, per aver solamente delle creature sue e da sè dipendenti nel governo; e col tempo di crear anche Severo Augusto, e Cesare Candidiano suo bastardo, adottato da Valeria Augusta sua consorte; con disegno finalmente, dopo aver regnato quanto a lui piacesse, di rinunziare l'imperio, come aveano fatto Diocleziano e Massimiano, per passare gli ultimi anni di sua vita quieto in onorato ritiro. E perchè la morte di Costanzo arrivò molto prima de' suoi conti, e saltò su Costantino, da tali avvenimenti rimasero sconcertate tutte le di lui misure. Accomodossi bensì Costantino, siccome dissi, ai voleri di Galerio, col prendere il solo titolo di Cesare; ma Galerio, per serrare a lui il passo alla dignità augustale, giacchè non vi doveano essere se non due Augusti, secondo il regolamento fatto da Diocleziano, da lì a non molto dichiarò Severo Imperadore Augusto, mostrando di farlo, perchè questi era maggiore d'età e più anziano nella dignità cesarea che Costantino. E fin qui camminarono con quiete gli affari, e da Galerio dipendevano tutti gli altri principi.
Ma non tardò la mutazion delle cose, per i costumi ed atti tirannici di Galerio stesso. Ne abbiamo la descrizion da Lattanzio [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 21.]. Allorchè egli vinse i Persiani, imparò che que' popoli erano schiavi dei re loro; e però anche a lui saltò in testa di valersi di quel modello per ridurre i Romani alla medesima servitù, ed opprimere la lor libertà. Toglieva a suo capriccio i posti e gli onori alle persone, e tutto dì sfoggiava in nuove invenzioni di crudeltà, con adoperarle prima contro i Cristiani, e stendendole poi ad ogni sorta di persone, e a' suoi cortigiani stessi. Le croci, il bruciar vive le persone, il farle divorar dalle fiere (al qual uso teneva spezialmente dei grossissimi e ferocissimi orsi) erano divenuti spettacoli d'ogni [1076] giorno, presente lo stesso Galerio, che ne rideva, nè voleva mettersi a tavola senza aver prima pasciuti gli occhi coll'orribil morte d'alcuno. Le carceri, gli esilii, i metalli, il taglio della testa parevano a lui pene troppo lievi. Erano prese ancora e condotte nel Serraglio di lui le matrone nobili. Oltre a ciò, la giustizia andò in bando, perchè egli o facea morire, o cacciava in esilio gli avvocati e legisti, e per giudici erano elette persone militari, che nulla sapeano delle leggi, e si mandavano senza assessori nelle provincie. Per incorrere nell'odio suo bastava essere letterato o professor d'eloquenza. In somma tutto era confusione, e l'iniquità sola regnava. A questi malanni s'aggiunse l'immensa avidità e violenza di Galerio per far danari. Furono messe intollerabili imposte per tutte le provincie dell'imperio; ed esatte con incredibil rigore sopra le teste degli uomini e degli animali, sopra le terre, gli alberi e le viti. Nè infermi, nè vecchi, nè età alcuna andava da questo torchio esente. Perchè i poveri non poteano pagare, col pretesto che fosse finta la loro impotenza, una gran quantità di essi ne fece annegare. Ma in fine la mano di Dio cominciò ad apparire anche contra di questo nemico, non solo del popolo cristiano, ma di tutto il genere umano, siccome era avvenuto agli altri due Augusti persecutori del Cristianesimo.
Accadde che Galerio si mise in punto per istendere quelle sue gravissime imposte alla medesima città di Roma, senza far caso de' privilegii e della esenzion del popolo romano; ed avea già inviate persone per informarsi del numero e dei beni di quei cittadini. A simili aggravii non era avvezzo il popolo romano, siccome quello che fin qui avea ritenuta qualche figura di padrone e non di servo; e però insorsero in Roma non pochi lamenti e principii di sedizione, dei quali seppe ben profittare Massenzio figliuolo di Massimiano Erculio imperadore deposto. Costui si truova nelle antiche [1077] monete [Goltzius et Mediobarbus, Numismat. Imp.] appellato Marco Aurelio Valerio Massenzio. Gli antichi panegiristi [Incertus, Panegyr. Const.] cel rappresentano figliuolo supposto al suddetto Massimiano da Eutropia sua moglie, per farsi amare da lui. Così ancora hanno Aurelio Vittore [Aurelius Victor. Anonymus Valesianus.] e l'Anonimo Valesiano. Ma se questo non è certo, almen per indubitato sappiamo che Massenzio fu un vero complesso di tutti i vizii, poltrone, eppur superbo al maggior segno, crudele senza pari, ed inclinato unicamente alla malvagità. Tuttochè Galerio gli avesse data molto tempo prima per moglie una sua figliuola, pure per la riconoscenza dei di lui sfrenati ed abbominevoli costumi, nol volle mai promuovere alla dignità cesarea. Dimorava Massenzio [Aurel. Victor. Zosimus, lib. 2, cap. 9.] in una villa del distretto di Roma, sfaccendato, quando gli venne all'orecchio la disposizione del popolo romano ad una sedizione per timor degli aggravii che lor minacciava Galerio. Diedesi egli a far de' maneggi coi pochi soldati pretoriani restati in Roma, disgustati appunto di Galerio, perchè gli avea ridotti ad un poco numero [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 26.]. Guadagnò alcuni uffiziali, cioè Luciano, Marcello e Marcelliano, con promettere loro mari e monti. Disposto tutto, costoro diedero fuoco alla mina, con uccidere Abellio vicario del prefetto di Roma, se pur non era egli stesso il prefetto. Quindi proclamarono Augusto Massenzio, che tuttavia dimorava in villa, nel dì 27 di ottobre, come s'ha da Lattanzio, oppur, come sostiene il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], appoggiato ad un antico calendario, nel dì 28 del mese stesso. Non si oppose, anzi consentì all'esaltazione di questo novello imperadore il popolo romano, perchè gli fece costui sperare di molti vantaggi, e specialmente la sua residenza in Roma, giacchè la lunga lontananza della corte da quella città riusciva ad essa pregiudiziale [1078] non poco. Alla nuora dell'esaltazion del figliuolo, dalla Lucania si accostò Massimiano Erculio a Roma. V'ha chi crede [Aurelius Victor, de Caesaribus.] ch'egli fosse molto prima consapevole di quella trama, e pare che anche si opponesse ai disegni del figlio. Ma ben più probabil sembra ciò che scrive Eutropio [Eutrop., in Breviario.], cioè che siccome egli mal volentieri avea deposto lo scettro, e stato continuamente alla vedetta, spiando ed aspettando occasion propizia per ripigliarlo, così ebbe piacere che il figliuolo cominciasse la danza, perchè in tal guisa si preparava a lui il gradino per rimontar sul trono. In fatti dalla Lucania passato Massimiano nella Campania, quivi si fermò [Lactantius, de Mortib. Persecut.], e, secondo altri, sen venne a dirittura a Roma con apparenza di assistere al figliuolo, o piuttosto di arrivar a comandare sopra il figliuolo, siccome poi dimostrarono i fatti. Nè molto andò che sovrastando sedizioni in Roma contra di Massenzio, personaggio screditato per i suoi vizii, e scorgendosi necessaria l'autorità di suo padre, amato e rispettato tuttavia dai più dei Romani, pregollo il figliuolo di ripigliar la porpora, e gliela mandò nella Campania [Incertus, in Panegyr. Maximian. et Constant., cap. 10.], oppur gliela diede in Roma, dichiarandolo di nuovo Imperadore Augusto, e suo collega nell'imperio. Dopo essersi fatto pregare l'astuto Massimiano anche dal senato e popolo romano, di buon cuore accettò. Sicchè due Augusti si videro allora in Roma, cioè Massimiano e Massenzio: e due altri nell'Illirico e nell'Oriente, cioè Galerio e Severo; e Costantino Cesare nelle Gallie, nelle Spagne e nella Bretagna. Fu profittevole questa novità ai Cristiani [Euseb., Histor. Eccl., lib. 8, cap. 14.], perchè Massenzio ordinò tosto che cessasse nei paesi a lui sottoposti la persecuzione.
Quanto a Costantino, una delle prime azioni del governo suo fu di restituire anch'egli dal suo canto la libertà ad [1079] essi Cristiani di professar pubblicamente la loro religione. La buona sua madre Elena gliene avea predicata la santità [Euseb., in Vita Constantini, lib. 1, cap. 25.], ispirato l'amore, e con che frutto, l'andremo scorgendo. Poscia si applicò a regolar gli affari delle provincie di sua dipendenza con tal prudenza e dolcezza, che si tirò dietro le lodi e l'amore d'ognuno. Nè molto lasciò in ozio il suo valore. Nel tempo che Costanzo suo padre si trovava impegnato nella guerra della Bretagna [Eumen., Panegyr. Constant.], i Franchi, popoli della Germania, rotta la pace, aveano fatta una irruzion nelle Gallie. Contra di loro sfoderò il ferro Costantino, già ritornato nelle Gallie; gli sconfisse, prese due dei loro re [Eutrop., in Breviar.], cioè Ascarico e Regaiso, ossia Gaiso, dei quali poi fece una rigorosa, anzi barbarica giustizia, con esporli alle fiere, nel tempo dei magnifici spettacoli ch'egli diede al pubblico. Non era per anche il di lui feroce genio ammansato dalla religion di Cristo. Dopo questa vittoria all'improvviso egli passò il Reno, per rendere la pariglia ai nemici dell'imperio, e indurli a rispettar maggiormente da lì innanzi la maestà romana. Addosso ai Brutteri, popoli della Frisia, si scaricarono le armi sue con istrage e prigionia di migliaia d'essi, con incendiar le loro ville, e con ispogliarli di tutti i loro bestiami. L'aver egli poi data alle fiere la gioventù di quella nazione restata prigioniera, fu probabilmente un gastigo dei patti rotti anche da essi, ma non esente da macchia di crudeltà. Nè contento di ciò Costantino, affinchè i popoli della Germania se l'aspettassero addosso, quando a lui piacesse, prese a fabbricar un ponte sul Reno in vicinanza di Colonia: opera di mirabil magnificenza, con aver piantate in mezzo a sì vasto fiume le pile, e condotta col tempo la fabbrica a perfezione, come chiaramente attesta Eumenio, pretendendo in vano il [1080] Valesio [Valesius, Rer. Franc.] che egli non la terminasse. Con tali imprese questo prode principe, e col mettere buone guarnigioni per le castella sparse sulla riva del Reno, tal terrore infuse nelle genti germaniche, che per gran tempo le Gallie goderono una mirabil quiete, non attentandosi più di turbarle le barbare nazioni.
Anno di | Cristo CCCVII. Indizione X. |
Sede pontificia vacante. | |
Galerio Massimiano imper. 3. | |
Massenzio imperadore 2. | |
Massimiano Erculio imper. 2. | |
Costantino imperadore 1. | |
Licinio imperadore 1. |
Consoli
Marco Aurelio Valerio Massimiano Augusto per la nona volta e Flavio Valerio Costantino Cesare.
Col Relando [Reland., in Fast.], appoggiato ad alcuni Fasti, ho ben io enunziati i consoli suddetti; ma avvertir debbo i lettori che gran confusione cominciò ad introdursi nei consolati per questi tempi, a cagion delle turbolenze e divisioni insorte nel romano imperio, e dei molti regnanti fra loro discordi. Altri consoli furono fatti in Roma da Massenzio e da Massimiano, ed altri da Galerio Augusto nell'Oriente. I sopra enunziati sembrano i Romani. Gli altri, secondo i Fasti di Teone, furono Severo Augusto e Massimino Cesare. Forse anche Costantino fu promosso da Galerio al consolato, solamente dopo la morte di Severo. Alcuni, per non fallare, usarono allora di notare il post consulatum dei consoli dell'anno precedente. Giusteo Tertullo esercitò in questo anno la prefettura di Roma. Da che conferita fu da Massenzio l'augustal dignità a Massimiano Erculio suo padre, questi per maggiormente imbrogliare le carte, e dar da pensare a Galerio, scrisse lettere a Diocle, o sia Diocleziano, [1081] che si godeva la quiete in una villa di Salona, dove si era fabbricato un sontuoso palazzo e un delizioso orto e giardino, invitandolo ed esortandolo a ripigliar la porpora imperiale. Son di parere altri che questo succedesse più tardi. Diocleziano, che più senno di lui e meno ambizione avea, tosto rigettò la proposizione, con dire al messo [Aurelius Victor, in Epitome.]: Oh se vedesse i bei cavoli piantati di mia mano qui in Salona, al certo non darebbe il cuore a Massimiano di tentarmi in questa maniera. Che anche Galerio tentasse Diocleziano, lo scrive ben Aurelio Vittore, ma non par credibile. Che poi fosse veramente disingannato esso Diocleziano della vanità del regno, si può anche raccogliere da Vopisco [Vopiscus, in Vita Aureliani.], il quale racconta di avere inteso da suo padre, come questo principe attestava, non esserci cosa più difficile che il ben regnare; perchè dicea che quattro o cinque persone del primo ministero si collegano insieme per ingannare il padrone, e tutto ciò che esse vogliono san farlo volere a lui. Imperciocchè, aggiungeva egli, non potendo il principe, collo stare nei suoi gabinetti, veder le cose co' proprii occhi, crede di operar saviamente stando sulla fede di molti che gli attestano la medesima cosa. E intanto nulla egli vede, nè sa la verità, e qualunque sia la sua buona intenzione, capacità e prudenza, egli è ingannato e venduto, e dà le cariche a chi meno le merita, e le toglie a chi sarebbe più atto ad esercitarle.
Allorchè Galerio Massimiano Augusto ebbe intesa la ribellion di Massenzio genero suo, parve che non se ne mettesse gran pensiero [Eutrop. Aurel. Vict. Lactantius.], ben sapendo che egli era un solennissimo poltrone, ed immerso nei vizii, per i quali in vece dell'amore si guadagnerebbe l'odio di tutti. Però senza curarsi di venir egli in persona ad abbattere questo idolo (il che se [1082] avesse fatto, sarebbono forse passati gli affari a seconda dei suoi desiderii), diede questa incombenza a Severo Augusto sua creatura, a cui particolarmente apparteneva il governo dell'Italia. Venne Severo in Italia nell'anno presente con una buona armata, ma composta la maggior parte di milizie, che due anni prima aveano servito a Massimiano Erculio, ed ansavano di tornare alle delizie di Roma. Però appena si presentò Severo alle mura di Roma, che Massenzio facilmente subornò con segrete offerte quell'armata, la quale, alzate le bandiere, e passata nel suo partito, rivolse l'armi contra di Severo. Altro scampo adunque non restò a costui che di prendere la fuga, ed incontratosi in Massimiano, che probabilmente conduceva rinforzi di gente a Roma, il più che potè fare fu di ritirarsi a Ravenna. Quivi fu bensì assediato da Massimiano, ma essendo quella città forte ed abbondante di viveri, apparenza non v'era di superarla [Idacius, in Chronico.]. Superolla la frode, se è vero quanto narra Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 10.], perchè non si accordano in tutto con lui Eusebio ed Eutropio: cioè Massimiano con varie lusinghe, promesse e giuramenti il trasse a deporre la porpora e a venir seco a Roma. Giunto che fu Severo al luogo appellato le Tre Taberne, sbucò un agguato di armati ivi dallo spergiuro Massimiano preparati, che col laccio gli tolsero la vita, o pure, come ha l'Anonimo Valesiano [Anonymus Valesianus.], tenuto ivi in prigione, allorchè Galerio calò in Italia, fu fatto strangolare. Gli altri scrittori il dicono ucciso in Ravenna, e che per grazia gli fu permesso di morir dolcemente colle vene tagliate; e Lattanzio [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 26.] lasciò scritto, che egli, veggendo disperato il caso, volontariamente s'era renduto a Massimiano. Pare che tal tragedia succedesse nel febbraio di questo anno. Rimase di Severo un figlio per nome Severiano, che [1083] Licinio fece poi morire nell'anno di Cristo 313 per estinguere in lui ogni pretensione al dominio.
Sbrigato da questo nemico, Massimiano Erculio ben conosceva che gli restava più da fare con Galerio Augusto, uomo temuto pel suo valore, ma più per la copia e possanza delle sue armi; giacchè ognun prevedeva ch'egli non lascerebbe invendicata la morte di Severo. Pertanto andò in persona a trovare il vecchio Diocleziano che si godeva un delizioso riposo nella sua villa di Salona, per muoverlo a riassumere la porpora imperiale. Gittò i passi, perchè Diocleziano vedeva il mare in burrasca, ed egli se ne voleva stare sicuro sul lido, di là mirando le altrui tempeste. Rivolse dunque Massimiano le speranze e i passi suoi a Costantino Cesare, che nelle Gallie, dopo le vittorie riportate contro ai Franchi, con gran credito di valore e di forze si godeva la pace [Incertus, in Panegyr. Maximian. et Const.]. Per tirarlo nel suo partito, gli disse quanto male potè di Massenzio suo figliuolo, probabilmente esibendo di deporlo; il dichiarò ancora Imperadore Augusto, e gli diede in moglie Flavia Massimiana Fausta sua figliuola, chiamata così nelle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imp.], giacchè si suppone che fosse già mancata di vita Minervina sua prima moglie, o pur concubina e madre di Crispo suo primogenito, che fu poi Cesare. Perciò di qui cominceremo a contare gli anni dell'imperio di Costantino. Intanto calò in Italia con poderoso esercito Galerio Augusto, e venne a Roma, con trovare che si era ingannato in credere sufficiente quell'armata ad assediarla, perchè, non avendola mai veduta, non ne sapeva la vasta circonferenza. Arrivato a Terni, spedì Licinio e Probo a Massenzio suo genero, per indurlo a venire a trovarlo, e trattare d'accordo. Se ne rise Massenzio: dal che maggiormente irritato Galerio minacciava l'eccidio al genero, al senato e a tutto il popolo romano [Anonym. Valesianus. Lactantius. Zosimus. Aurel. Vict.]. [1084] Ma seppe anche questa volta Massenzio sedurre una parte della di lui armata, perchè conoscendo costoro quanto fosse vergognosa azione che soldati romani volgessero l'armi contra di Roma lor madre, non durarono fatica ad abbandonar Galerio, per darsi a Massenzio. Avrebbe fatto altrettanto il resto dell'armata di Galerio, s'egli, gittatosi ai lor piedi, non avesse con preghiere e promesse frastornata la lor sollevazione. Sicchè fu costretto a levar l'assedio; e colui che si credeva di far paura a tutti, ebbe per grazia il potersene andare in salvo, pieno non so se più di rabbia o di vergogna. Nel tornarsene addietro, parte per impedire ai nemici il tenergli dietro, e parte perchè così avea promesso ai soldati restati con lui, loro permise di dare il sacco a tutto il paese per dove passò: nella quale occasione commisero tutte quante le enormità che si sogliono praticare nel saccheggio delle nemiche prese città. Ebbe in questa maniera Galerio il comodo di tornarsene nella Pannonia, ma con lasciare in Italia il nome non d'Imperadore, ma di assassino de' Romani.
Mentre tali cose succedeano in Italia, Massimiano Erculio, che dimorava nelle Gallie, avea ben conseguito che il genero Costantino Augusto non si unisse con Galerio, ma non potè già ottenere ch'egli prendesse l'armi contra del medesimo Galerio, ancorchè venissero le nuove ch'esso al maggior segno spelato e scornato se ne scappava dall'Italia. Indispettito il suo cuore per questo, se ne ritornò a Roma, e quivi col figlio Massenzio seguitò a signoreggiare [Lactantius, de Mortibus Persecut., cap. 28. Eutrop., in Brev.]. Ma l'ambizioso ed inquieto vecchio non sapea sofferire che si desse la preminenza al figliuolo, benchè da lui avesse ricevuta la porpora, nè che i soldati mostrassero maggior obbedienza ad esso suo figlio che a lui. Perciò pien di veleno cominciò sotto mano a procurar [1085] d'alienare gli animi delle soldatesche da Massenzio; ma vedendo che non gli riusciva il tentativo, un dì, fatte raunar le milizie e il popolo, alla presenza del figliuolo, esagerò forte i mali e i disordini correnti dello Stato, e poi si rivolse con fiera invettiva contra Massenzio, attribuendo alla di lui poca testa e cattiva condotta la serie di tutti que' malanni. Non avea lo indiavolato vecchio finito di dire, quando preso colle mani il manto purpureo del figliuolo, glielo strappò di dosso, e lo stracciò. Si contenne Massenzio in quel frangente, ed altro non fece se non che si rifugiò fra i soldati, i quali caricarono di villanie Massimiano, e si sollevarono contra di lui. Sembrerà a taluno una semplicità il dirsi da Zonara [Zonaras, in Annalibus.], che Massimiano volle dipoi far credere ai soldati che quella era stata una burla, per provare se amavano veramente suo figlio: il che nulla gli valse, perchè tanto strepito fecero le milizie, ch'egli fu forzato a fuggirsi di Roma. Se ne andò nelle Gallie a dolersi col genero Costantino d'essere stato cacciato dal figlio [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 26.]; ma Costantino, a cui non doveano mancare più sicuri avvisi del fatto, niun impegno volle assumere dell'inquieto suocero, di maniera ch'egli, dopo essere dimorato qualche tempo, ma senza vantaggio de' suoi interessi, nelle Gallie, prese lo spediente di andar a trovare il maggior nemico che si avesse il figliuolo, cioè lo stesso Galerio Augusto. Fu creduto, per vedere se potesse aprirsi la strada a qualche tradimento per levargli la vita, ed occupar, se gli veniva fatto il suo luogo [Eusebius, in Chron.]. Trovavasi allora Galerio nella Pannonia a Carnonto, dove avea fatto venir Diocleziano da Salona, per dar più credito alla elezione di un nuovo Augusto ch'egli meditava, per supplire la mancanza dell'ucciso Severo. Andarono falliti tutti gl'intrighi, tutte le speranze di Massimiano, per aver trovato quelle milizie fedeli a Galerio, e tentata invano la costanza [1086] di Diocleziano per fargli riassumere la porpora imperiale. Sicchè altro non gli restò che di assistere con lui e di dar vigore, per non potere di meno, alla promozione che Galerio fece di Licinio, dichiarandolo Augusto, avendogli forse ne' precedenti mesi conferito il titolo di Cesare, come ha preteso taluno, e sembra confermato da Aurelio Vittore. Seguì tal funzione, secondo Idacio [Idacius, in Fastis.], nel dì 11 di novembre, non già dell'anno seguente, come ha esso Idacio, ma del presente, come si raccoglie dalla Cronica Alessandrina.
Licinio che, creato Augusto, si trova appellato nelle medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] e nelle iscrizioni [Gruterus in Inscription. Thesaur. Novus Veter. Inscript.] Caio Flavio Galerio Liciniano Licinio, era nativo [Eutrop., in Breviar. Anonymus Valesianus.] anch'egli dell'Illirico, perchè venuto alla luce nella Dacia nuova, oggidì la Servia, di vile e rustica famiglia [Capitolin., in Gordian.], ancorchè egli dipoi cresciuto in fortuna si vantasse di trar l'origine sua dall'imperadore Filippo. Passato dall'aratro alla milizia, niuna conoscenza avea delle lettere, anzi se ne protestava nemico dichiarato [Aurelius Victor, in Epitome.], chiamandole un veleno e peste dello stato, e massimamente odiando gli avvocati e procuratori, ch'egli credeva atti solo ad imbrogliare ed eternar le liti del foro. L'amicizia fra lui e Galerio Augusto avea avuto principio fin quando si diedero entrambi al mestiere delle armi; ed ora poi cresciuta a tal segno la loro intrinsichezza, massimamente dipoi che di grandi prodezze avea fatto Licinio nella guerra co' Persiani, che Galerio nulla quasi facea senza il di lui consiglio. Pertanto prima d'ora avea egli risoluto di crearlo Augusto, subito che fosse mancato di vita l'imperador Costanzo. Ma essendo stato prevenuto da Costantino, Galerio eseguì ora il suo disegno con dargli la porpora imperiale, disegnando poi di mandarlo a far guerra a Massenzio tiranno di Roma [1087] e dell'Italia. Scrive Eusebio [Euseb., in Vita Constantini, lib. 4. cap. 50.] che sul principio del principato di Costantino i Britanni posti all'Occidente dell'Oceano, si sottomisero al di lui dominio. Non so io dire, se ciò sia un fatto diverso da quanto si è narrato al precedente anno della guerra di Costanzo suo padre coi Pitti e Caledonii.
Anno di | Cristo CCCVIII. Indizione XI. |
Marcello papa 1. | |
Galerio imperadore 4. | |
Massenzio imperadore 3. | |
Costantino imperadore 2. | |
Licinio imperadore 2. | |
Massimino imperadore 1. |
Consoli
Marco Aurelio Valerio Massimiano Augusto per la decima volta e Caio Galerio Massimiano Augusto per la settima.
Durando tuttavia la discordia tra tanti imperadori, continuò ancora la confusione ne' consolati. Pare che i suddetti consoli fossero pubblicati da Galerio Augusto, che era d'accordo con Massimiano, ma non già col di lui figliuolo e genero suo Massenzio, benchè probabilmente si trattasse di qualche accordo. Di qua venne che in Roma non furono accettati i consoli suddetti pei tre primi mesi. E non essendo seguito aggiustamento alcuno, abbiamo dall'autore del Catalogo dei prefetti di Roma [Bucher., de Cyclo.], che Massenzio si fece dichiarar console nell'anno presente insieme con Romolo suo figliuolo, il quale è nomato nelle medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] Marco Aurelio Romolo. Truovasi anche in alcuni Fasti sotto quest'anno Diocleziano console per la decima volta; ma è da credere uno sbaglio de' copisti, perchè Diocleziano non si volle più ingerire ne' pubblici affari. La prefettura di Roma fu in quest'anno appoggiata a Stazio Raffino [Cospinianus. Bucherius.]. [1088] Dopo essere stata lungo tempo vacante la cattedra di San Pietro, in quest'anno fu creato papa Marcello. Contuttochè il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] pretenda che nell'anno precedente Massimino Cesare prendesse di sua autorità il titolo d'Augusto, tuttavia sembra più probabile che ciò succedesse nell'anno presente. Stava esso Massimiano alla guardia e al governo dell'Oriente. Allorchè egli intese che Licinio era stato promosso, nel di 11 di novembre, alla dignità imperiale, cominciò forte a strepitare, pretendendo fatto a sè stesso un gravissimo torto, perchè, essendo egli stato dichiarato Cesare molto prima di Licinio, l'anzianità sua esigeva ch'egli fosse anteposto all'altro negli onori [Lactantius, de Mortib. Persec., cap. 32.]. Pervenuti a notizia di Galerio questi suoi lamenti, per attestato di Lattanzio, inviò più legati a Massimino per quetarlo, pregandolo istantemente di ubbidire, di accettar le risoluzioni da lui prese, e di cedere a chi era maggiore di lui in età: che tale dovea essere Licinio. Ostinossi Massimino nella sua pretensione, e perciò Galerio si rodeva le dita per aver alzato costui dal fango, e creatolo Cesare con isperanza d'averlo ubbidiente ad ogni suo cenno, quando ora il trovava sì restio e impaziente degli ordini. Andò poi a terminare la faccenda in avere il superbo Massimino, ad onta di Galerio, deposto il titolo di Cesare e preso quel di Augusto, con far poi sapere a Galerio, essere stato l'esercito suo che l'avea proclamato imperadore, senza ch'egli avesse potuto resistere. Queste ambasciate e questo dibattimento, che per la lontananza delle persone richiedeva del tempo, debbono a noi parere bastevoli fondamenti per credere seguita, non già nell'anno precedente, ma bensì nel presente, l'esaltazione di Massimino. Sicchè noi ora abbiamo nell'imperio romano cinque diversi Augusti, Galerio Massimiano, Massenzio, Costantino, Licinio, e Massimino. Lattanzio [1089] vi aggiugne anche Diocleziano; ma niuno scrive ch'egli mai ripigliasse la porpora. Da tanti principi ognun può immaginare qual confusione dovesse esser quella de' pubblici affari. Sembra nondimeno che, a riserva di Massenzio, gli altri andassero in qualche maniera d'accordo insieme. Quanto a Massimino, già appellato Daza, come dicemmo, uscito da parenti rustici e vili nell'Illirico, egli si era tirato innanzi colla profession delle armi, e tuttochè si dica ch'egli fosse uomo quieto [Aurelius Victor, in Epitome.], pure abbiamo da Lattanzio [Lactantius, de Mortib. Persecut. cap. 32.] e da Eusebio [Euseb., Histor. Eccles., lib. 8, cap. 14.], ch'egli fu un grande assassino de' popoli a lui sottoposti, con ispogliarli per arricchire i soldati, e del pari superstizioso e fiero persecutor de' Cristiani, come risulta dalla storia ecclesiastica.
Chiarito in questi tempi Massimiano Erculio, che poco a lui profittavano le cabale sue ne' paesi di Galerio Augusto, se ne promise miglior effetto presso di Costantino imperadore, genero suo e figliuolo di un suo genero. Andossene dunque [Lactant., ibid., cap. 29.] a trovarlo nelle Gallie, fu ricevuto da lui con tutti gli onori, alloggiato nel palazzo, e sì nobilmente provveduto di tutto [Eumen., Panegyr. Constant., cap. 14 e seg.], come s'egli fosse padrone in quelle parti, volendo Costantino che ognun l'ossequiasse ed ubbidisse quasi più di lui stesso. Allora l'astuto vecchio, trovandosi in mezzo a tanti comodi, per far ben credere al genero di non covar più pensiero alcuno di regno, e di voler terminare in pace al pari di Diocleziano i suoi giorni, depose la porpora, e si ridusse ad una vita privata, in cui non mancava a lui delizia veruna. Tutto questo per più facilmente ingannare l'Augusto genero. Avvenne che i Franchi fecero in questi tempi qualche movimento d'armi contro le terre romane. Marciò a quella volta Costantino [1090] con poca gente e alla sordina, così consigliato da Massimiano, per sorprendere i nemici; ma altro in testa avea il tuttavia ambizioso suo suocero. Sperava costui che Costantino restasse involto in qualche grave pericolo, e di poter egli intanto impadronirsi dell'armi e milizie lasciate addietro. In fatti, da che si fu separato da lui, s'inviò verso Arles, dov'era il grosso delle soldatesche, consumando nel cammino tutti i viveri, affinchè mancassero a Costantino, caso ch'egli si rivolgesse a quelle parti. Giunto ad Arles, di nuovo assunse l'abito imperiale, s'impossessò del palazzo e de' tesori, dei quali tosto si servì per adescare e tirar dalla sua quelle soldatesche; scrisse del pari all'altre più lontane, invitandole con grandiose promesse, e screditando presso tutti un genero, da cui tante finezze avea ricevuto Costantino, che non molto si fidava di questo inquieto vecchio, e gli avea lasciato appresso delle spie, immantinente fu avvertito de' primi moti del suo tradimento, e però a gran giornate dal Reno sen venne ad Arles, prima che Massimiano avesse preso buon piede; riguadagnò tutte le ribellate milizie, e seguitò il suocero, che andò a ritirarsi a Marsiglia. Dato l'assalto a quella città, si trovò che le scale erano troppo corte pel bisogno, e convenne far sonare la ritirata. Lasciatosi veder Massimiano sulle mura, Costantino avvicinatosegli, con tutta la dolcezza possibile gli rimproverò una perfidia così indegna di un par suo. Altro per risposta non riportò che delle ingiurie. Ma i cittadini in quel tempo, aperta una porta della città, vi lasciarono entrar la gente di Costantino, la quale, preso Massimiano, il condusse davanti al genero Augusto. Atto d'incredibil moderazione convien ben dire che fosse quel di Costantino, perchè a riserva de' rimproveri fatti al perfido suocero, e all'avergli tolta di dosso la porpora imperiale, niun altro male gli fece, nè il cacciò dalle Gallie; anzi sembra che seguitasse a ritenerlo in sua corte, vinto probabilmente dalle preghiere di [1091] Fausta sua moglie. Qui nondimeno non finirono le scene di quest'uomo perfidioso, siccome vedremo. Liberato dal suddetto pericolo l'Augusto Costantino, perocchè tuttavia pagano [Eumen., Panegyr. Const., cap. 21.], fece dei ricchi donativi al superbo tempio d'Apollo creduto quello di Autun, dove opinione era che si scoprisse la gente spergiura in quelle acque calde.
Si può fondatamente riferire all'anno presente una sollevazione insorta nell'Africa, di cui parlano Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 12.] ed Aurelio Vittore [Aurel. Victor, in Epitome.]. Probabilmente ubbidiva l'Africa a Galerio Augusto dopo la morte di Severo. Massenzio, imperadore di Roma e dell'Italia, ben sapendo che quelle provincie erano dinanzi assegnate all'Augusto dominante in Roma, cercò di stendere colà il suo dominio, e vi mandò le sue immagini scortate da una man di soldati. Furono queste rigettale da que' popoli. Ma perchè le truppe del paese non poterono o non vollero fare resistenza, Cartagine col resto della contrada venne alla di lui ubbidienza. Cadde in pensiero a Massenzio di portarsi personalmente in Africa per processare e spogliare chiunque avea sprezzate l'immagini sue; ed avrebbe eseguito il disegno, se gli aruspici, con allegar segni infausti nelle vittime, non l'avessero trattenuto. Pertanto non fidandosi di Alessandro nativo della Frigia, che esercitava l'uffizio del prefetto del pretorio, o pur di suo vicario in Cartagine, gli scrisse che voleva per ostaggio un di lui figliuolo. Sapeva Alessandro che iniquo e sregolato principe fosse Massenzio, e però si andò scusando per non inviarlo. Scoperto poi che era venuta gente d'ordine d'esso Massenzio per assassinarlo, ancorchè persona di poco spirito e di molta età e pigrizia, intavolò una ribellione, e si fece proclamar Augusto da quelle milizie. Cosi ai cinque sopraccitati imperadori si aggiunse quest'altro, sempre [1092] più crescendo con ciò lo smembramento del romano imperio. Crede il Tristano [Tristan., Medail., lib. 3.] che un Nigriniano, appellato Divo in qualche rara medaglia, fosse figliuolo del suddetto Alessandro; ma si può dubitarne. Per tre anni si sostenne esso Alessandro nella signoria dell'Africa, come apparisce dalle di lui medaglie [Mediobarbus, Numism. Imperator.].
Anno di | Cristo CCCIX. Indizione XII. |
Marcello papa 2. | |
Galerio imperadore 5. | |
Massenzio imperadore 4. | |
Costantino imperadore 3. | |
Licinio imperadore 3. | |
Massimino imperadore 3. |
Consoli
Massenzio Augusto per la seconda volta, e Romolo Cesare per la seconda.
I consoli da me proposti sono quei che Massenzio tiranno elesse in Roma, e venivano riconosciuti per l'Italia. Ma per le altre provincie del romano imperio, stante la discordia fra gli Augusti, non si sa che fossero eletti consoli; o se furono eletti, ne è ignoto il nome, dal che venne che la gente, per denotar l'anno presente, si valeva della formola post consulatum Maximiani X et Galerii VII. Contuttociò vi ha chi pretende che Licinio Augusto prendesse il consolato anche egli. Abbiam veduto Romolo Cesare, figliuolo di Massenzio, esercitare il secondo consolato nell'anno presente; ma forse in questo medesimo egli mancò di vita, credendo alcuni che nelle acque del Tevere egli si affogasse, ma senza notizia del come; anzi con dubbio tuttavia se tale veramente fosse la morte di lui, perchè il passo di un panegirista [Incertus, in Panegyr. Constantini, cap. 18.] di Costantino non lascia scorgere se ivi si parli di Massenzio stesso o pure del figlio. Anzi perchè vedremo veramente annegato Massenzio in quel fiume, di lui e [1093] non del figliuolo pare che s'abbia da intendere quel passo. La prefettura di Roma fu in quest'anno appoggiata ad Aurelio Ermogene. Il tempo, in cui Massimiano Erculio pose fine alle cabale sue colla morte, resta tuttavia incerto. Idacio [Idacius, in Fastis.] ne parla all'anno seguente. Eusebio [Eusebius, in Chron.] all'anno terzo di Massenzio suo figlio. E perciocchè esso anno terzo si stendeva alla maggior parte del presente, sembra a me assai verisimile che in questo succedesse il fine della sua tragedia, di cui buon testimonio è Lattanzio [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 30.] scrittore di questi tempi, oltre all'Anonimo Valesiano [Anonymus Valesianus.], Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 11.] ed Eutropio [Eutrop., in Breviar.]. Noi lasciammo questo maligno personaggio nelle Gallie, dove, deposta la porpora, non ostante la sua sperimentata perfidia, ricevea un trattamento onorevolissimo da Costantino suo genero. Ma avvezzo al comando, nè sapendo accomodarsi alla vita privata, che non fece il mal uomo? Ora con preghiere ed ora con lusinghe andò tempestando la figliuola Fausta, per indurla a tradire l'Augusto marito, con promettergliene un altro più degno, e a lasciar aperta una notte la camera del letto maritale. Finse ella d'acconsentire, e rivelò tutto a Costantino; ed egli per chiarirsene mise nel suo letto per quella notte un vile eunuco. Massimiano sulla mezza notte armato comparve colà, e trovate poche guardie, ed anche lontane, con dir loro d'aver fatto un sogno che egli voleva rivelare al suo caro figliuolo imperadore, passò nella stanza e trucidò il misero eunuco. Ciò fatto, uscì fuori confessando il fatto, ed anche gloriandosene; ma eccoti sopravvenir Costantino con una man d'armati, il quale, fatto portare il cadavero dell'ucciso alla presenza d'ognuno, fece una scarica d'improperii sopra l'iniquissimo vecchio, senzachè [1094] egli sapesse proferir parola in sua discolpa: tanto si trovò sbalordito e confuso. Gli fu data licenza d'eleggersi la maniera della morte, e questo fu il laccio, con cui diede fine alla scellerata sua vita. Fallò Zosimo con dire che questo ignominioso fine gli arrivò in Tarso, quando è certo che fu in Provenza, cioè ad Arles, dove soleva dimorar colla sua corte Costantino, o pure a Marsiglia, dove l'autore della Cronaca Novaliciense [Chron. Novaliciense, Rer. Italicar., Part. II, tom. 2.] circa l'anno 1054 pretende che fosse disotterrato il corpo di Massimiano, il quale si trovò imbalsamato ed esistente in cassa di piombo entro un'altra di candido marmo. Questo poi per ordine di Rambaldo arcivescovo d'Arles fu gittato in alto mare. E tale fu il fine obbrobrioso di quel superbo ed ambizioso principe, stato in addietro sì fiero persecutore della religione di Cristo, e d'uno ancora di questi ultimi imperadori nemici del nome cristiano, che Dio punì con una morte la più vergognosa ed infame. Dall'aver Costantino data onorevole sepoltura al suocero (come anche attesta santo Ambrosio [Ambrosius, Epistol. 53.], con dire che il fece mettere in una cassa non di marmo bianco, ma di porfido), dedusse il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] che esso Augusto si attribuiva ad onore d'essere nipote di Massimiano, adducendo per questo un'inscrizione a lui posta, dove si trova intitolato così. Ma se Costantino il Grande non appetisse, anzi abborrisse questa lode, si può argomentare [Euseb., Histor. Eccles., lib. 8, cap. 13. Lactantius, de Mort. Persec., cap. 42.] dal saper noi ch'egli fece atterrare tutte le statue ed immagini appartenenti a Massimiano, e cancellar quante iscrizioni e memorie potè di lui; e per conseguente è più tosto da riferire quel marmo a Costantino juniore, figliuolo del Grande e di Fausta figlia di esso Massimiano.
Anno di | Cristo CCCX. Indizione XIII. |
Eusebio papa 1. | |
Melchiade papa 1. | |
Galerio Massimiano imperadore 6. | |
Massenzio imperadore 5. | |
Costantino imperadore 4. | |
Licinio imperadore 4. | |
Massimino imperadore 4. |
Console
Massenzio imperatore solo.
Ne' fasti d'Idacio e nell'Anonimo del Bucherio, o sia del Cuspiniano, è nominato il solo Massenzio console in Roma. Fuori d'Italia si contava l'anno II dopo il consolato di Massimiano Erculio X e di Galerio Massimiano VII. Ne' Fasti di Teone enunziati si veggono sotto questo anno Andronico e Probo. Possiam sospettare che fossero sostituiti a Massenzio. Rufo Volusiano si trova nel presente anno prefetto di Roma. In questi tempi la giustizia di Dio, che già aveva abbattuto l'iniquo Massimiano Erculio, si fece sentire anche all'altro imperadore Galerio Massimiano, soggiornante [Lactantius, de Mortibus Persecut., cap. 31. Anonym. Valesianus.] in Sardica nella Dacia novella, cioè a colui che abbiam di sopra veduto principal promotore della persecuzion dei Cristiani. Era egli innamorato del suo paese nativo, ed abbiamo da Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesaribus.], ch'egli con far tagliare delle sterminate selve nella Pannonia, e mettere quelle terre a coltura, e con fare scolar l'acque del lago Pelsone nel Danubio, avea renduto un gran tratto di paese utilissimo alla repubblica. Ardeva egli di odio contra di Massenzio tiranno di Roma, nè ad altro pensava che a procedergli contro, ammassando a questo fine a tutto potere genti e denari. Col pretesto adunque d'aver egli a solennizzare i vicennali del suo regno cesareo, al che diceva che occorreano immense [1096] spese, dopo aver già rovinate le provincie a lui suddite a furia d'imposte, inorpellate col nome di prestanze, finì di smugnerle e di assassinarle con altre gravezze, alla riscossion delle quali deputò i suoi soldati, che meritavano piuttosto il nome di carnefici che di esattori: tanta era la lor crudeltà. Lattanzio ci fa qui un lagrimevol ritratto di quelle inumane esazioni, per le quali violentemente si toglievano alla gente tutti i frutti delle lor terre, senza lasciarle di che vivere. Ma chi è terribile sopra i re della terra, fece finalmente intendere a costui che v'era uno sopra di lui [Eusebius, Histor. Eccl., lib. 8, cap. 16. Lactantius, de Mort. Persec., cap. 33.], percuotendolo con piaga nelle parti segrete e vergognose, piaga orribile ed incurabile, per i cui dolori insoffribili cominciò egli a patire e a prorompere in grida ed urli spaventosi. Ciò probabilmente avvenne in Sardica, città della nuova Dacia. Si affaticavano i medici per curar questo fiero nemico, che già aveva cancrenate le carni, con tagliare e bruciare; e pareva che omai la piaga si cicatrizzasse, quando essa più che mai inferocì, menando tal fetore, che non solamente per tutto il palazzo, ma anche per tutta la città si diffuse, come iperbolicamente lasciò scritto Lattanzio. E, marcendo le carni, cominciò ad uscirne gran copia di vermi. In sì orrido stato sotto il flagello di Dio si trovava l'iniquo principe, del cui fine parleremo all'anno seguente. Sembra che al presente s'abbia da riferire quanto abbiamo da Nazario [Nazar., in Panegyr., cap. 18.] nel Panegirico di Costantino Augusto. Avevano formata una lega contra di lui i Brutteri, Camavi, Cherusci, Vangioni, Alamanni e Tubanti, popoli tutti della Germania; ed unita una formidabile armata si misero in campagna. Lento non fu Costantino a presentarsi colla sua incontro ad essi, ed ottenuto passaporto per gli suoi deputati a trattar con quelle barbare [1097] nazioni, travestito come un d'essi, passò nel campo nemico, accompagnato da due soli de' suoi, per ispiare le lor forze e disegni; il che felicemente seguì. All'aver prima saputo che Costantino era in persona all'armata, già aveano pensato coloro di separarsi, e di non voler battaglia; ma assicurati poi da Costantino non conosciuto, che l'imperadore era lontano dalle sue milizie, arrischiarono in fine il combattimento, in cui sbaragliati ad altro non pensarono che a menar ben le gambe. Dopo questa insigne vittoria, accennata in poche parole anche da Eusebio [Euseb., in Vita Constantini, lib. 1, cap. 25.], passò Costantino nella Gran Bretagna, chiamato colà dalle turbolenze mosse da alcuni di que' popoli, non si sa se ribelli o pur nemici. La soggiogò in poco tempo, forse con poca fatica, e senza venire a battaglia, perchè i di lui panegiristi non ne fanno parola. San Marcello papa, cacciato in esilio da Massenzio tiranno di Roma, terminò sul principio di quest'anno la sua vita, onorato col titolo di martire, ed ebbe per successore Eusebio nella sedia di san Pietro [Pagius, Crit. Baron.], il quale dopo soli quattro mesi e mezzo di pontificato fu chiamato da Dio a miglior vita. A lui succedette nella cattedra pontificale Melchiade papa.
Anno di | Cristo CCCXI. Indizione XIV. |
Melchiade papa 2. | |
Massenzio imperadore 6. | |
Costantino imperadore 5. | |
Licinio imperadore 5. | |
Massimino imperadore 5. |
Console
Caio Galerio Valerio Massimiano Augusto per la ottava volta.
Per la discordia di tanti imperadori più che mai continuò la confusione nei consolati. Dal canto suo Galerio Augusto, benchè confinato in letto per l'orribil sua malattia, procedette solo Console per [1098] l'ottava volta, come s'ha dal Catalogo del Bucherio [Bucherius, de Cycl.] e da Idacio [Idacius, in Fastis.]. Suo collega è appellato Licinio Augusto da Cassiodoro [Cassiodorus, in Fastis.], chi li mette amendue consoli sotto quest'anno. I Fasti di Teone e Lattanzio [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 35.] fanno consoli Galerio e Massimino, amendue imperadori; il che può indicare che fosse tornata fra loro qualche armonia. In fatti ho io recato nell'Appendice al tomo IV delle mie Iscrizioni un marmo della Carintia, dove vien detto edificato un tempio Maximiano VIII et Maximino iterum Augg. Coss., e pare che si possa riferire all'anno presente. Quanto a Roma, siamo accertati dal suddetto Catalogo dei prefetti di Roma, pubblicato dal Cuspiniano e dal Bucherio, che si stette quivi sino al settembre senza consoli; ed allora solamente furono pronunziati consoli Rufino ed Eusebio, o pure, come la Cronica di Damaso [Chronic. Damasi, apud Anastasium. Bibliothecar.], Volusiano e Rufino. Anche Idacio [Idacius, ibid.] mette questi due ultimi consoli; e certo per le conghietture da me altrove [Thesaurus Novus Inscript., pag. 172.] addotte, in quest'anno si può credere assunto in Roma al consolato Caio Ceionio Rufino Volusiano. Forse il suo collega fu Eusebio, potendosi temere il cognome di Rufio mutato in Rufino. Che se pure diverso da lui fu Rufino, non è improbabile che Aradio Rufino, il quale troveremo prefetto di Roma nell'anno seguente, procedesse console nel presente. A Giunto Flaviano essa prefettura di Roma fu conferita sul fine di ottobre di quest'anno. Intanto fra orribili tormenti, divorato da' vermi, continuava [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 33.] a marcire Galerio Massimiano Augusto [Euseb., Histor. Eccles., l. 8, cap. 17.]. Per quanti ricorsi egli avesse fatto ai suoi falsi dii, cioè ad Apollo ed [1099] Esculapio, niun sollievo provava, anzi sempre più si sentiva peggiorare. Allora fu che s'avvide, ovvero ch'altri gli fece venir in mente, che l'onnipotente vero Dio il flagellava per gastigo della fiera persecuzione da lui specialmente accesa e crudelmente esercitata contra de' suoi servi cristiani. Il perchè s'avvisò di dar loro la pace, e sopra ciò pubblicò un editto, a noi conservato da Lattanzio e da Eusebio, in cui troviamo una filza di titoli corrispondenti alla di lui vanità. Quivi egli ordinò di non molestar da lì innanzi i seguaci di Gesù Cristo, affinchè essi potessero pregar Dio per la di lui salute. Ma niun segno ivi si legge di pentimento; e vi si leggono anzi delle bestemmie contro la credenza de' Cristiani. Ad esso editto concorsero ancora Costantino e Licinio Augusti, i quali andavano d'accordo con esso Galerio; e sembra che anche Massimino vi acconsentisse, per quanto accenna Lattanzio. Abbiamo poi dal medesimo autore che nel dì 30 d'aprile questo editto fu pubblicato in Nicomedia, dove furono aperte le prigioni, e che colà nel mese seguente arrivò la nuova che Galerio imperadore avea dato fine all'odiata sua vita. Mancò egli in fatti nel mese di aprile, terminando la sua superbia e crudeltà con evidente gastigo della mano di Dio.
Trovossi presente alla di lui morte Licinio imperadore, a cui egli raccomandò sua moglie Valeria, figliuola di Diocleziano, e Candidiano suo figlio bastardo. Trovansi medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imp.] che ci assicurano aver egli ricevuto dall'empietà pagana gli onori divini nel paese, per quanto si può credere, che fu dipendente dalla di lui autorità. Per la morte di lui restò Licinio Augusto padrone di quelle medesime contrade, cioè di tutto l'Illirico, che abbracciava l'Ungheria ed altre provincie, e della Grecia, Macedonia e Tracia, ed anche della Bitinia, posta di là dallo stretto di Bisanzio. Ma non sì tosto ebbe intesa la di lui morte Massimino, imperador [1100] delle provincie d'Oriente, che dato di piglio all'armi volò nella Bitinia, e se ne impadronì [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 36.]. Accorse bensì Licinio a Bisanzio per opporsi, ma non fu a tempo; e perchè non si sentiva gran voglia di venir per ora con lui alle mani, diede orecchio ad un abboccamento [Euseb., Histor. Eccles., lib. 9, cap. 6 et 10.], in cui rimasero insieme d'accordo, restando padrone Massimino d'essa Bitinia: con che lo stretto di Bisanzio venne ad essere il confine de' loro imperii. Seguita poi a dire Lattanzio che Massimino tornò come prima a perseguitar i Cristiani, mostrando di farlo come pregato dalle città. Tuttavia per far risplendere la sua clemenza ordinò che ai servi del vero Dio non si levasse la vita, ma permettendo che loro si cavassero gli occhi, si tagliassero le mani o piedi, o il naso e l'orecchie. Valeria vedova di Galerio Augusto, ancorchè raccomandata a Licinio, si ritirò da lui, e passò sulle terre di Massimino con Candidiano, figliuolo del defunto marito, e da lei ancora adottato. Altro non dice Lattanzio [Lactant., ibid., cap. 39.], se non che le facea paura la libidine di Licinio, e ch'ella si giudicò più sicura sotto la protezion di Massimino, perchè uomo ammogliato. Ma que' villani imperadori tutti erano bestie anche per questo conto. Massimino, da che fu entrata ne' suoi stati la suddetta Valeria Augusta con Prisca sua madre, e moglie di Diocleziano già imperadore, cominciò a pulsarla, affinchè rinunziasse a lui tutte le sue pretensioni sopra la succession del padre e del marito Augusti. Valeria, forse per tener salvi i diritti dell'adottato Candidiano e i propri, non ne volle far altro. Veramente sul principio si trovò essa ben trattata da lui; ma da lì a poco tempo restò essa non poco ammirata e confusa, perchè Massimino le fece proporre di prenderla per moglie; al qual fine si esibiva di ripudiar quella ch'egli avea. La risposta di Valeria fu [1101] da donna saggia e di petto costante: che si maravigliava di una tal proposizione, come empia, pendente lo scorruccio del defunto consorte, e parere a lei strano ch'egli volesse abbandonar una moglie senza alcun demerito suo; e che questo procedere apriva a lei gli occhi per temer tutto da lui; in somma non essere permesso ad una persona del suo grado di pensare ad un secondo marito, come cosa scandalosa e senza esempio. Udita ch'ebbe Massimino questa generosa risposta, cangiossi tutta la libidine sua in odio e furore. Cacciò Valeria e tutti i suoi in esilio, senza assegnar loro un luogo fisso, e con farla vergognosamente condurre qua e là. Occupò tutti i di lei beni, le levò i suoi ufficiali, fece tormentare i suoi eunuchi, e mosse guerra alle nobili dame della di lei corte, alcune delle quali condannò alla morte con false accuse di adulterio, quando egli sapeva che erano più caste di quel ch'egli stesso voleva: iniquità che accrebbe a dismisura l'odio di ognuno verso questo manigoldo tiranno. Come terminasse la tragedia d'essa Valeria non tarderemo ad udirlo. Mosse anche guerra Massimino, per attestato di Eusebio, ai popoli dell'Armenia, perchè, siccome cristiani, non voleano far sacrifizii ai falsi dii; ma con poco suo utile. La fame e la peste anch'esse fecero guerra alle di lui armate.
Mentre tali cose succedevano in Oriente, Costantino Augusto si applicava a stabilire una buona pace nelle Gallie, per essere in istato di rispondere in buona forma alle minacce [Zosimus, lib. 2, cap. 14. Lactant., de Mort. Persec., cap. 43.] che andava facendo Massenzio tiranno di Roma contro di lui, servendosi del pretesto della morte di Massimiano Erculio suo padre, benchè in suo cuore non ne avesse disgusto. Visitò Costantino [Eumen., Panegyr. Constant.] in quest'anno la città di Autun, e trovandola desolata, rimise a quel popolo i debiti di cinque anni addietro contratti col fisco, [1102] e parte delle imposte per gli anni avvenire: il che fu di mirabil sollievo a quella città, la quale da lì innanzi prese il titolo di Flavia dalla famiglia dell'Augusto benefattore. Fu in questa congiuntura che l'oratore Eumene, o Eumenio, recitò in lode di lui un panegirico che resta con altri tuttavia. Pensava in fatti Massenzio di far guerra a Costantino, e già avea disegnato di passar pei Grigioni nelle Gallie, con formar de' mirabili castelli in aria, cioè figurandosi di poter atterrar Costantino con facilità, e poi d'impadronirsi della Dalmazia e dell'Illirico, con abbattere l'Augusto Licinio, dominante in quelle parti. Ma prima d'intraprendere questa guerra, giudicò meglio di ricuperar l'Africa [Zosimus, lib. 2, cap. 14. Aurelius Victor, de Caesaribus.]. Quivi tuttavia sussisteva l'usurpatore Alessandro che avea preso il titolo d'Augusto. Colà fu inviato assai nerbo di gente Rufio Volusiano prefetto del pretorio, che probabilmente dopo tale impresa fu assunto al consolato. Menò egli seco Zena, uomo che egregiamente intendeva il mestier della guerra, ed era in credito d'uomo pien di mansuetudine. Poca fatica durò questo capitano a sbrigarsi di quel tiranno, con aver messo in fuga i di lui soldati. Restò egli preso e strangolato. Bella occasion fu questa pel crudele Massenzio di spogliar del suo meglio l'Africa tutta. Non vi fu persona, nobile o ricca, che a torto o a diritto non fosse processata e condannata come aderente all'estinto Alessandro, con perdere perciò vita e roba. Oltre a ciò, ordinò l'empio Massenzio che fosse dato il sacco e il fuoco a Cartagine, città allora delle più belle e riguardevoli del mondo, non che dell'Africa. In una parola, per tante crudeltà rimasero affatto impoverite e rovinate tutte le africane provincie; e pure delle lacrime di que' popoli si fece trionfo e falò in Roma, città nondimeno con ugual furore maltrattata dallo stesso Massenzio, siccome fra poco dirò.
Anno di | Cristo CCCXII. Indizione XV. |
Melchiade papa 3. | |
Massenzio imperadore 7. | |
Costantino imperadore 6. | |
Licinio imperadore 6. | |
Massimino imperadore 6. |
Consoli
Flavio Valerio Costantino Augusto per la seconda volta e Publio Liciniano Licinio Augusto per la seconda.
Tali furono i consoli per le Gallie e per altri paesi, dove regnava Costantino, e nell'Illirico, dove dominava Licinio. Andavano d'accordo insieme questi due imperadori. Ma in Roma, per attestato d'Idacio [Idacius, in Fastis.] e del Catalogo Bucheriano [Bucher., de Cyclo.], fu console il solo Massenzio per la quarta volta. In Oriente credono alcuni che procedessero consoli Massimino Augusto e Picenzio. Fu in quest'anno prefetto di Roma Aradio Rufino. Fra tanti imperadori cavati dall'aratro e dalla zappa, che in questi tempi governarono, o, per dir meglio, divisero e lacerarono l'imperio romano, niuno, a mio credere, fu più pernicioso e pestilente di Massenzio e di Massimino; l'uno signoreggiante in Roma, nell'Italia e nell'Africa; e l'altro nell'Oriente. Ne ho per testimonio Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesaribus.] e lo stesso Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 14.], nemico di Costantino, oltre agli storici cristiani che, parlano a lungo delle loro scelleraggini. Sopra gli altri Lattanzio [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 37 et sequent.] descrive la lascivia incredibile di Massimino e le violenze da lui usate. L'autore incerto [Incertus, in Panegyr. Const., cap. 4.] del panegirico di Costantino ed Eusebio [Euseb., in Vita Constant., lib. 1, cap. 33.] ci fan sapere gli enormi vizii di Massenzio, tali che possono far orrore a chiunque legge; sì sfrenata era la sua libidine, barbarica la sua crudeltà, non solo nella [1104] Africa, come abbiam detto, ma nell'Italia ancora e in Roma stessa. Niuna matrona era ivi sicura dalle unghie di questo avoltoio. La moglie dello stesso prefetto di Roma, cristiana di religione, per sottrarsi alla di lui bestiale violenza, si cacciò un pugnale nel petto e morì: azione gloriosa bensì secondo la morale de' pagani, ma non già secondo quella de' Cristiani. Le estorsioni poi fatte da Massenzio per adunar tesori con disegno di valersene a far guerra a Costantino, e per tener contente ed allegre le sue milizie, furono innumerabili, perchè continue. Tutto dì saltavano fuori calunnie contra dei benestanti e de' medesimi senatori; ed oltre ai lor beni vi andava anche la vita, di maniera che il senato restò spogliato dei suoi più illustri soggetti. Potevano poi i soldati a man salva commettere quante iniquità volevano contra l'onore, la vita e i beni degl'innocenti, perchè la giustizia per conto loro avea affatto perduta la voce e le mani. Lo stesso, che in Roma, si praticava per tutta l'Italia dai suoi perversi ministri. Giunse Massenzio per questa via in meno di sei anni a spogliar Roma e le provincie italiane di tulle le ricchezze adunate dai popoli in più di dieci secoli addietro [Aurelius Victor, de Caesaribus. Euseb., in Vita Constantini, lib. 1, cap. 35.]. Fu fatto anche in Roma un giorno un gran macello di cittadini romani per leggerissima cagione. Forse fu quella, di cui Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 13.] fa menzione, dicendo che attaccatosi il fuoco in Roma al tempio della Fortuna, perchè uno de' soldati metteva in burla quella falsa deità, i Romani accorsi a folla per ismorzar l'incendio, se gli avventarono addosso e l'uccisero. Di più non vi volle perchè gli altri soldati ammutinati facessero una fiera strage di que' cittadini, e se non accorreva Massenzio, la città affatto periva. Anche Nazario [Nazar., in Panegyr. Constant.], anche Prudenzio [Prudentius, in Sammach., lib. 1.] ci [1105] lasciarono un vivo ritratto del compassionevole stato di Roma sotto di questo tiranno, impudico, crudele, assassino delle sostanze altrui, e dato alla magia per la folle speranza di scoprir l'avvenire: nel che quanto egli s'ingannasse fra poco apparirà.
Intanto l'Augusto Costantino con segrete lettere veniva sollecitato dai Romani a calare in Italia, per liberarli dall'insoffribil tiranno; ma quello che finalmente diede la spinta alle di lui armi, fu l'udire che Massenzio era risoluto di muovere a lui stesso guerra, con lasciarsene anche intendere dappertutto, e mirabil preparamento faceva a tal fine, fingendo di voler vendicare la morte di Massimiano suo padre. Un gran dappoco [Aurelius Victor, de Caesaribus. Incertus, Panegyrico Constantin.], un figlio della paura era per altro Massenzio; dato unicamente ai piaceri, non usciva quasi mai di palazzo: il più gran viaggio che faceva, ma di raro, consisteva in passare agli orti di Sallustio. La fidanza nondimeno di riuscire nelle grandi imprese, la riponeva egli nel numero e nella forza delle sue scapestrate milizie, in alcuni suoi valorosi uffiziali, e nei tesori ammassati con impoverire tutti i suoi sudditi. Oltre al grosso corpo dei suoi pretoriani, gente creduta la più valorosa dell'altre, oltre all'armata che già servì sotto suo padre, aveva egli fatta copiosa leva di soldati non meno in Italia che nell'Africa. Il panegirista anonimo di Costantino gli dà un esercito di cento mila combattenti. Aggiugne che quello di Costantino ascendeva solo alla quarta parte, cioè a venticinque mila, espressamente dicendo che era minore di quel di Alessandro il Grande, consistente in quaranta mila. Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 15.], all'incontro, benchè lontano da questi tempi e fatti, pure con più verisimiglianza racconta che Massenzio avea in armi, oltre alle vecchie sue squadre, ottanta mila Italiani, e quaranta mila tra Siciliani ed Africani, [1106] di modo che nella sua armata si contavano cento settanta mila pedoni, e diciotto mila cavalli. Dall'altra parte Costantino aveva messo in piedi un esercito di gente, parte gallica e parte germanica, sino al numero di novanta mila fanti ed otto mila cavalli. Abbiamo da Nazario [Nazar., in Panegyr. Constant., cap. 9.] che Costantino tentò prima le vie dolci per risparmiare la guerra, con ispedir ambasciatori a Massenzio e far proposizioni di pace. Più che mai ostinato nei suoi disegni si trovò il tiranno: e non passò molto [Nazar., ibid., cap. 10.] ch'egli diede principio alla danza con abbattere in Roma le statue ed immagini di Costantino, più che mai protestando di voler la vendetta del padre. Ora Costantino, veggendo che a costui piaceva il giuoco continuò più che mai a mettersi in arnese. Ma per assicurarsi di non aver che un nemico da affrontare, trattò prima una lega con Licinio imperadore dell'Illirico, e gli riuscì di stabilirla con promettergli in moglie Flavia Valeria Costanza sua sorella [Lactant., de Mort. Persecut., cap. 43.]. Informato di questo accordo Massimino imperador dell'Oriente, che prima era in trattato di lega con esso Licinio, ingelosito della contratta loro forte amistà, quasi che mirassero alla di lui rovina, tosto si rivolse al tiranno di Roma, cioè Massenzio, con offerirsi di stringersi in lega con lui. Massenzio a braccia aperte accettò le esibizioni, parendogli mandato dal cielo un sì fatto aiuto in occasione di tanta importanza. Pure noi non sappiamo che Licinio porgesse in questa guerra soccorso alcuno a Costantino, nè che Massimino si sbracciasse punto per sostenere Massenzio.
Non volle già il saggio Costantino lasciarsi prevenir da Massenzio, ma animosamente determinò di prevenir lui, e di allontanar dal suo dominio la guerra, con portarla nel paese nemico. Probabilmente adunque sulla primavera dell'anno presente mosse egli dal Reno [1107] l'armata sua [Incertus, in Panegyr. Costantini, cap. 5.], con inviarne un'altra per mare, e tal diligenza fece che all'improvviso comparve all'Alpi, e le passò senza trovar resistenza. Trovò bensì la città di Susa ben fortificata, ben rinforzata di guarnigione, che si oppose ai suoi passi, nè volle cedere alla chiamata. Costantino, senza mettersi ad assediarla, comandò immantinente che si attaccasse il fuoco alle porte, e si desse la scalata alle mura. V'entrò vittoriosa la di lui gente; e pure il buon imperadore ne impedì il sacco, e perdonò a quegli abitanti e soldati [Nazar., in Panegyr. Constan., cap. 22.]. S'inoltrò poi l'esercito suo alla volta di Torino; ma prima di giugnervi, ecco possenti schiere di nemici a cavallo, tutte armate di ferro, attraversargli il cammino. Fatto far largo ai suoi, Costantino le prese in mezzo, e poi diede loro addosso. I più restarono ivi atterrati a colpi di mazze, gli altri inseguiti sino a Torino, trovarono le porte che non si vollero aprir dagli abitanti per loro, a piè delle quali perciò rimasero estinti. Di volere del popolo entrò in quella città Costantino, ricevuto con giubilo da tutti. Questo primo prosperoso successo dell'armi sue mosse le circonvicine città a spedirgli dei deputati, con esibirgli la lor sommessione e provvisione di viveri, di maniera che, senza più sfoderar la spada, egli arrivò a Milano, dove entrò fra i viva di tutto quel popolo. Il buon trattamento ch'egli faceva a chiunque volontariamente si rendeva, invitava gli altri ad accettarlo allegramente per signore. Dopo aver dato per qualche giorno riposo all'esercito suo in quella nobil città, passò Costantino a Brescia, dove trovò un buon corpo di cavalleria che parea disposto a far fronte; ma sbaragliato con pochi colpi, prese tosto la fuga, con salvarsi a Verona, dove si erano unite le soldatesche di Massenzio, sparse prima in varii siti per difendere quella forte città [Incertus, in Panegyr. Costant., cap. 8.]. Avea [1108] quivi il comando dell'armi Ruricio Pompeiano prefetto del pretorio, uomo di molta sperienza ne' fatti della guerra, che, senza volersi esporre all'azzardo di una battaglia, si dispose a sostenere l'assedio, con restare a sua disposizione il di là dall'Adige. Fu dato principio all'assedio, ma riconoscendosi la vanità d'esso se non si stringeva la città anche dalla parte settentrionale, riuscì poi alle milizie di Costantino di valicar quel fiume nella parte superiore in sito poco custodito da' nemici; e però d'ogni intorno restò assediata Verona. Più d'una sortita fece Pompeiano, ma con lasciar sempre sul campo la maggior parte dei suoi: il perchè prese egli la risoluzione di uscirne segretamente dalla città per portarsi a raunar gente, e tornar poi a soccorrerla. Ritornò in fatti con molte forze [Nazar., in Panegyr. Const., cap. 26.]. Ma Costantino, lasciata la maggior parte dell'esercito all'assedio, col resto, benchè inferiore di numero ai nemici, andò coraggiosamente ad assalirlo. Si attaccò la zuffa verso la sera, e durò parte della notte, colla totale sconfitta e strage grande de' Massenziani, e colla morte dello stesso lor generale Pompeiano. Grandi prodezze fece in questo combattimento Costantino, coll'entrare nel più forte e pericoloso della mischia, e menar le mani al pari d'ogni semplice soldato, di maniera che dopo la vittoria i suoi uffiziali colle lagrime agli occhi lo scongiurarono di non azzardar più a questa maniera una vita di tanta importanza [Incertus, in Panegyr., cap. 11.]. Pare che continuasse anche qualche tempo l'assedio, e che la città fosse presa o per dedizione o per assalto, e poi saccheggiata, ma i panegiristi d'allora, usati, secondo il loro mestiere, a farci veder solamente il bello del loro eroe, non ci lasciano scorgere come terminasse quella tragedia, se non che l'Anonimo scrive, che Pompeiano cagion fu della rovina di Verona, e che miserabil fu la calamità di quel [1109] popolo. A tutti nondimeno fu salva la vita, ed anche agli stessi soldati nemici. Ma perchè non v'erano tante catene da poter legare sì gran copia di prigioni, Costantino ordinò che delle spade loro si facessero tante catene per custodirli nelle carceri.
Tocca Nazario [Nazar., in Panegyr. Const., cap. 27.] di passaggio le città d'Aquileia e di Modena, con far comprendere che anch'esse fecero della resistenza, e convenne usar della forza contra di esse. Ma in fine anche quei popoli si renderono e con piacere, perchè sottoposti a Costantino si promettevano migliore stato, e in fatti si trovarono da lì innanzi in buone mani. Niuna altra opposizione provò l'Augusto principe nella continuazion del suo viaggio, finchè arrivò alle vicinanze di Roma, primario scopo delle sue armi, per desiderio di far sua la capital dell'imperio, e di liberar quel popolo dal giogo intollerabile del violento tiranno Massenzio. Costui non s'era attentato in addietro, e molto meno si attentava ora a mettere il piede fuori di Roma [Lactant., de Mortib. Persecut., cap. 44.], perchè da' suoi astrologhi o maghi era stato predetto, che qualora ne uscisse, sarebbe perito. L'armata sua di gran lunga era superiore all'altra; in Roma aveva egli raunata un'immensa copia di viveri; ed inoltre colle immense somme d'oro, da lui messe insieme colle inudite sue avanie, si lusingava di poter sovvertire tutte le milizie di Costantino, siccome gli era venuto fatto con quelle di Severo e di Galerio. Il perchè sembrava più tosto godere che rattristarsi della venuta di Costantino, stante il tenersi egli come in pugno di spogliarlo di gente, di riputazione e di vita. Ma differenti erano gli alti disegni di Dio, che intendeva di liberar oramai Roma dal tiranno, e la sua Chiesa dalla persecuzion de' pagani, i quali intorno a tre secoli sparso aveano tanto sangue di persone innocenti. Era già l'Augusto Costantino assai inclinato [1110] verso de' Cristiani, ancorchè nato ed allevato nella superstizion dei Gentili, con aver forse ereditato questo buon genio da Costanzo suo padre, da noi veduto sì favorevole ai cristiani, o pur da Elena sua madre. Trovandosi egli ora in questo gran cimento; cioè a fronte di un potentissimo nemico, e sul bivio o di perdere o di guadagnar tutto, allora fu che, conoscendo il bisogno di essere assistito da Dio, seriamente pensò a qual Dio dovesse egli ricorrere per aiuto. La follia e falsità de' finora creduti suoi dii in varie occasioni l'avea egli osservata, e però sull'esempio di suo padre non soleva più adorare se non il Dio supremo, padrone e regolatore dell'universo. Eusebio [Euseb., in Vita Constan., lib. 1, cap. 27 et seq.] gravissimo storico ci assicura d'aver intesa la verità di questo fatto dalla bocca del medesimo Costantino, allorchè da lì ad alcuni anni familiarmente cominciò a trattare con lui. Cioè si raccomandò egli vivamente a Dio creatore del tutto, quando nel marciar egli coll'esercito suo un giorno, sul bel mezzo dì mirò in cielo sopra il sole una croce di luce, ed appresso le seguenti parole: Con questa va a vincere. Di tal miracoloso fenomeno spettatori furono anche i soldati della sua comitiva. Restò egli perplesso del suo significato, quando nella seguente notte apparendogli in sogno Cristo, gli disse, che, di quella bandiera valendosi, egli vincerebbe. Nulla di più occorse perchè Costantino, fatti chiamare de' sacerdoti cristiani, ed esposto loro quanto avea veduto, imparasse a conoscere la venerazion dovuta alla Croce santificata da Gesù Cristo, e dal culto de' falsi dii passasse alla pura e santa religion dei Cristiani: fatto de' più mirabili e strepitosi che somministri la storia, perchè mutò affatto in poco di tempo anche la faccia del romano imperio.
Fece adunque Costantino mettere nelle sue insegne il monogramma di [1111] Cristo Signor nostro, e con questa animosamente procedette contro del tiranno. In qual tempo precisamente, cioè se nel principio di questa guerra o pur nelle vicinanze di Roma, accadesse un tal fatto, l'han ricercato gli eruditi. Chiaramente Lattanzio [Lactantius, de Mort. Persecut. cap. 43.] scrive che Costantino prima di venir a battaglia con Massenzio, avvertito da Dio in sogno, fece mettere il nome di Cristo negli scudi de' soldati, e che in virtù d'esso vinse. E benchè possa parere strano a taluno, che i panegiristi di allora e gli storici pagani, come Eutropio, Sesto Vittore e Zosimo non abbiano fatto menzione alcuna di un avvenimento di tanta conseguenza; pure non è da maravigliarsene, perchè nè pur essi parlano della religion cristiana abbracciata da Costantino; o se ne parlano, solamente è per isparlarne, e non già per riconoscerne i pregi e i miracoli. A buon conto fuor di dubbio è che Costantino, abbandonati gl'idoli, abbracciò la credenza dei cristiani, e fu il primo degl'imperadori che venerasse la Croce; avvenimento per sè stesso miracoloso, ed effetto della mano di Dio. Lattanzio poi ed Eusebio furono scrittori nobili, contemporanei e familiari di quel grande Augusto, nè loro si può negar fede senza temerità. Le precauzioni che prese in questa congiuntura Massenzio, furono di portare l'armata sua, più numerosa di lunga mano che quella di Costantino, fuori di Roma, alla difesa del Tevere e di Ponte Molle; e di fabbricar su quel fiume un ponte di barche, congegnato in maniera, che levando via alcuni ramponi [Eusebius, in Vita Constantini, lib. 1, c. 38.], da' quali era legato nel mezzo, esso si scioglieva, non tanto per assicurarsi della propria ritirata occorrendo, quanto per annegare i nemici se si mettevano a passarlo. Arrivato che fu Costantino a Ponte Molle, quivi si accampò coll'esercito suo, ma senza scorgere come potere passar oltre; colla opposizione di un fiume allora [1112] assai ricco d'acque, e difeso da tante squadre nemiche. Ma permise Iddio che il tiranno dovette essere sì caldamente spronato dagli uffiziali suoi, a' quali per la superiorità delle forze parea certa la vittoria, che s'indusse a far egli passare l'armata sua di là dal fiume pel nuovo ponte di navi, con animo di venir a battaglia campale col nemico; ed intanto prese posto fra Costantino e il Tevere ad un luogo appellato i Sassi Rossi, lungi da Roma, se disse il vero Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesaribus.], nove miglia. Non poteva Massenzio far cosa più grata di questa a Costantino, il quale non altro temeva, se non che il tiranno stesse chiuso in Roma, ed aspettasse piuttosto un assedio; il che sarebbe stato la rovina o di Roma, o degli assedianti, perchè quella gran città era a maraviglia fornita di munizioni da bocca e da guerra, e di un'armata maggior della sua [Incertus, in Panegyr. Costantini, cap. 16.]. Due giorni prima il tiranno spaventato da un sogno, s'era levato dal palazzo, e colla moglie e col figliuolo (non sappiamo se Romolo o pure un altro) era passato ad abitare in una casa particolare: dal che i superstiziosi Romani presagirono tosto che fosse imminente la sua caduta.
Era venuto il dì in cui Massenzio dovea celebrare il giorno suo natalizio, o pure l'ultimo dell'anno sesto del suo imperio con feste e giuochi; cioè il dì 27 d'ottobre, per quanto si ricava da Lattanzio [Lactantius, de Mortib. Persec., cap. 44.], ovvero il dì 28 d'esso mese, come si raccoglie da un Calendario antichissimo pubblicato dal Bucherio [Bucherius, de Cycl.]. Non mancò Massenzio di dare al popolo giuochi circensi; ma perchè il medesimo popolo gridò che Costantino non si potea vincere, tutto in collera si levò di là, e spediti alcuni senatori a consultare i libri sibillini [Zosimus, lib. 2, cap. 16.], mentre [1113] egli attendeva a far de' sacrifizii, gli fu riferito essersi trovato che in quel giorno avea da perire il nemico de' Romani. Questo bastò per incoraggirlo, perchè l'interpretò contra di Costantino, senza pensare ch'egli stesso potesse essere quel desso; e però tutto in armi passò all'esercito suo, il qual già era alle mani coll'avversario. Così Lattanzio. Ma i panegiristi di Costantino [Incertus, in Panegyr. Const., cap. 16. Nazar., in Panegyr., cap. 28.] sembrano dire ch'egli in persona schierò la propria armata ed attaccò la zuffa [Zosimus, lib. 2, cap. 16.]. Fu questa delle più terribili e sanguinose, e parve che Dio permettesse che il tiranno ristrignesse la sterminata moltitudine de' suoi fra il Tevere e l'esercito nemico, acciocchè restando sconfitta, ne perisse la maggior parte o trafitta dalle spade, o sommersa nel fiume. In fatti Costantino, dopo aver messe in miglior ordinanza di battaglia le sue milizie, tutto fiducia nel Dio de' cristiani, fece dar alle trombe, e innanzi agli altri si scagliò contro ai nemici. I primi a piegare furono i soldati romani ed italiani, perchè ansiosi d'essere liberati dall'insoffribil tiranno. Tennero forte gli altri, e moltissimo sangue si sparse; ma in fine rotta la cavalleria di Massenzio, tutto il suo campo voltò le spalle, ma con aver dietro le spade nemiche, ed avanti un largo fiume. Però la strage degli uccisi fu grande, maggior la copia di coloro che finirono la lor vita nelle acque. Anche Massenzio, spronato il cavallo, cercò di salvarsi pel suo ponte di barche, ma il trovò sì carico per la folla dei fuggitivi, ch'esso ponte si sciolse, e si affondò, ed egli in compagnia d'altra non poca gente precipitò nell'acque, ed ivi restò sommerso [Euseb., in Vit. Const., lib. 1, cap. 38.]. Giunta questa nuova in Roma, niuno per qualche tempo osò di mostrarne allegrezza, perchè non mancava chi l'asseriva falsissima; ma ritrovato nel giorno appresso il cadavero [1114] dell'estinto tiranno, e spiccatane dal busto le testa, portata che fu questa sopra un'asta nella città, allora tutto il popolo proruppe [Eutrop., in Breviar. Aurelius Victor, de Caesarib. Zosimus, lib. 1, cap. 16.] in trasporti incessanti di gioia, senza potersi esprimere quanta fosse la consolazion sua al trovarsi libero da un tiranno, delle cui iniquità parlarono cotanto non meno i cristiani che gli etnici scrittori. Ma crebbe il giubilo, quando videro entrar in Roma nel giorno susseguente al fatto d'armi il vittorioso Costantino in foggia di trionfo, ma insieme in abito di pace e d'amore, perchè senza condur prigioni, e con fare buon volto a tutti, e solamente con aria di clemenza si lasciò vedere a quel gran popolo.
Zosimo scrive ch'egli fece levar di vita un picciolo numero di persone troppo in addietro attaccate al tiranno; ed oltre a ciò Nazario sembra dire che Costantino sradicò dal mondo la di lui schiatta colla morte probabilmente del figliuolo di Massenzio, che non sappiamo se fosse Romolo o pure un altro. La clemenza sua si stese dipoi sopra il restante delle persone [Incertus, in Paneg. Const., cap. 21. Libanius, Oratione 21.], ricevendo in sua grazia chiunque era stato apertamente contra di lui, e conservando loro il possesso dei beni ed impieghi, e fino ad alcuni, dei quali il popolo dimandava la morte. Accettò inoltre al suo servigio que' soldati di Massenzio ch'erano salvati nella rotta, con levar loro l'armi; benchè dipoi loro le restituì, mandandoli solamente divisi alle guarnigioni dei suoi stati sul Reno e sul Danubio. Ma ciò che più d'ogni altra sua risoluzione diede nel genio al popolo romano, e gli guadagnò le benedizioni di ognuno, fu ch'egli abolì affatto la milizia pretoriana. Questo considerabil corpo di gente militare e scelta, istituito anche prima da Augusto, e conservato dai susseguenti imperadori per difesa delle lor persone, [1115] dell'imperial palazzo e della città di Roma, l'abbiamo tante volte vedute prorompere in deplorabili insolenza per rovina della medesima città, e divenuto con tante sedizioni l'arbitrio dello imperio, perchè avvezzo ad usurparsi l'autorità di creare o di svenar gl'imperadori. Incredibili specialmente erano stati i disordini da lor commessi sotto Massenzio, principe che per tenerseli bene affezionati, permetteva lor tutto, e sovente dicea che stessero pure allegri e spendessero largamente, perchè nulla lascerebbe mancare a soldati di tanto merito. Costantino ritenne chi volle servire al soldo suo con essere semplice soldato; e, licenziati gli altri, distrusse il castello pretoriano, specie di fortezza destinata lor per quartiere. Noi non sappiamo che altra guarnigione da lì innanzi stesse in Roma, fuorchè i vigili destinati a battere di notte la pattuglia, e forse qualche discreta guardia del palazzo dei regnanti. Ma non fu per questo abolita l'insigne carica di prefetto del pretorio, la quale continuò ad essere una delle prime nella corte imperiale. Anzi, perchè la division fatta da Diocleziano del romano imperio in quattro parti avea introdotto quattro diversi prefetti del pretorio, volendo cadaun de' principi il suo prefetto, cioè il suo capitano delle guardie; così ne seguitò il loro istituto, con trovar noi da qui innanzi i prefetti del pretorio dell'Italia, delle Gallie, dell'Illirico e dell'Oriente. Comparve poi nel senato il novello signore [Incertus, in Panegyr. Const., cap. 18.], e con graziosa orazione piena di clemenza parlò che voleva salva l'antica loro autorità. Gli accusatori, de' quali sotto i principi cattivi abbondò sempre la razza in Roma, e per cui non meno i rei che gl'innocenti perdevano roba ed anche vita, fu vietato l'ascoltarli da lì innanzi, ed intimato contra di essi l'ultimo supplicio. Erano poi innumerabili coloro che Massenzio ingiustamente avea o cacciati in esilio, o [1116] imprigionati, o condannati a diverse pene, o spogliati delle loro sostanze [Nazar., in Paneg. Constant., cap. 32 et seq.]. A tutti fu fatta grazia, ad ognuno restituiti i lor beni. In somma parve che Roma rinascesse in breve tempo, perchè nel termine di soli due mesi la benignità di Costantino riparò tutti i mali che nello spazio di sei anni avea fatto la crudeltà di Massenzio. Per questa vittoria dipoi divenne egli padron di tutta l'Italia, e fu meravigliosa la commozione delle persone accorse allora dalle varie provincie a Roma, per mirar coi loro occhi l'invitto liberatore che rotte avea le lor catene. Fu anche inviata in Africa la testa del tiranno accolta ivi con istrepitose ingiurie; e però senza fatica, anzi con gran festa, i popoli ancora di quelle provincie riconobbero per lor signore chi gli avea finalmente tratti da lagrimevole schiavitù.
Anno di | Cristo CCCXIII. Indizione I. |
Melchiade papa 4. | |
Costantino imperatore 7. | |
Licinio imperadore 7. | |
Massimino imperadore 7. |
Consoli
Flavio Valerio Costantino Augusto per la terza volta, Publio Valerio Liciniano Licinio Augusto per la terza.
Fu in quest'anno prefetto di Roma Rufio Volusiano. Ho ben io, secondo l'uso di altri scrittori, notato negli anni addietro, cominciando dal principio dell'Era nostra, le Indizioni, cioè un corso di quindici anni, terminando il quale si torna a contare la prima indizione. Ma tempo è ormai d'avvertire che non furono punto in uso le indizioni ne' secoli passati, e che, per consentimento degli eruditi, ne fu istitutore Costantino il Grande [Panvin., in Fast. Consul. Petav., de Doctrina Tempor. Pagius, in Critic. Baron.]. Il motivo di tal istituzione resta oscuro tuttavia. Opinione fu de' legisti, ch'essa indizione fosse [1117] così chiamata da un determinato pagamento di tributi, e il cardinal Baronio [Baron., in Annalib. Eccles.] aggiunse, fatto questo regolamento pel tempo destinato ai soldati di militare, dopo il quale s'imponeva un tributo per pagarli. Conghietture son queste assai lodevoli, ma che nulla di certo a noi somministrano. Quel che è fuor di dubbio, servirono da lì innanzi, e tuttavia servono le indizioni per regolare il tempo. Tiensi inoltre che la prima indizione cominciasse a correre nel settembre dell'anno precedente, e non già per la vittoria di Costantino contra di Massenzio, come immaginò il Panvinio, perchè questa accadde sul fine d'ottobre. Ma perchè appunto nel settembre antecedente non era Costantino per anche padrone di Roma, han creduto alcuni che si desse principio ad essa indizione nel settembre dell'anno corrente: il che alle pruove non sussiste. Potè anche prima della vittoria Costantino introdurre l'uso di tali indizioni, essendo per altro fuor di dubbio che le nuove indizioni cominciavano il corso loro nel dì primo di settembre, o pure nel dì 24 d'esso mese; e questo uso per assaissimi secoli durò in Occidente, con essere poi prevaluto quel della curia romana, la quale da qualche secolo in qua conta dal dì primo di gennaio la novella indizione. Egli è ben credibile che l'Augusto Costantino continuasse a dimorare in Roma almen sino alle calende di gennaio di quest'anno, per solennizzar ivi il terzo suo consolato. Quivi pubblicata fu una legge [Cod. Theodos. L. 13, tit. 10, lib. 1.] in sollievo de' poveri, che dai collettori delle pubbliche imposte erano più del dovere caricati per favorire i ricchi. Passò egli dipoi a Milano, ed era in quella città nel 10 di marzo, come apparisce da un'altra sua legge [Gothofredus, in Chron. Cod. Theodos.]. Chiamato colà Licinio imperadore dall'Illirico, vi venne per isposare Costanza [1118] sorella dell'Augusto Costantino, a lui promessa nell'anno precedente, e quivi in fatti si solennizzarono quelle nozze, e si formò un nuovo decreto per la pace delle chiese e persone cristiane.
Fin quando era in Roma Costantino, avviso gli pervenne che i Franchi, gente avvezza a violar per poco i patti e i trattati, faceano de' preparamenti per passar ai danni delle Gallie. E perciò, sbrigato dagli affari dell'Italia, volò alle sponde del Reno [Incertus, Panegyr. Const., cap. 22. Zosimus, lib. 2, cap. 17.], e trovò non ancora passati i Barbari. Fece egli finta di ritirarsi, mostrandosi non accorto dei loro andamenti, ma lasciò in un'imboscata un grosso corpo di gente. Allora fu che i Barbari, credendo lui ben lontano, si arrischiarono a valicare il Reno in gran copia. Ma caduti nell'agguato, pagarono ben caro il fio della loro perfidia. Nè questa bastò. Eccoti giugnere di nuovo Costantino, il quale, radunata una buona flotta di navi, ed imbarcata la sua gente, passò animosamente il Reno, e portò lo sdegno e la vendetta addosso a quelle barbare e disleali nazioni. L'Anonimo Panegirista gonfiando le pive secondo l'uso de' suoi pari, giugne a dire, aver Costantino dato sì gran guasto al loro paese, e fatta cotanta strage di loro, che si credeva non doversi più nominar la nazione dei Franchi, avvezza in que' tempi a solamente nudrirsi di cacciagione. Ci farà ben vedere la storia che sparata oratoria fosse la sua. Sembra che in questo anno appunto il panegirista suddetto, creduto Nazario da alcuni, recitasse in Treveri quel panegirico in lode di Costantino, con dire, fra l'altre cose, che il senato romano ad esso Augusto avea dedicata una statua, come ad un dio liberatore, e che l'Italia gli avea anche essa dedicato uno scudo e una corona d'oro. Ed è anche da osservare che quell'oratore, per altro pagano, sul fine ricorre non al suo Giove, non ad Apollo [1119] o ad altra delle false divinità, ma all'invisibile Creatore dell'universo Iddio, pregandolo di conservar vita così preziosa come quella di Costantino. Dovea costui sapere qual già fosse la credenza di questo glorioso imperadore, già divenuto adoratore del solo vero Iddio.
L'anno fu questo, per attestato di Lattanzio, e non già l'anno 316, come han creduto Zosimo, l'autore della Cronica Alessandrina e Idacio, in cui il vecchio Diocleziano, già imperadore, diede fine al suo vivere nella villa del territorio di Salona, città della Dalmazia sull'Adriatico, dove dicemmo ch'egli s'era ritirato a vivere dopo l'abdicazion dell'imperio. Quivi si crede che sorgesse la moderna città di Spalatro. Non si può negare che di belle qualità concorressero in Diocleziano. Due autori pagani, cioè Libanio [Liban., Oratione 14.] e Giuliano l'Apostata [Julian., Oratione I.], il lodano come persona ammirabile in molte cose, benchè non in tutte, riconoscendo fra l'altre, ch'egli avea faticato di molto in utilità del pubblico. Veggonsi tuttavia molte leggi fatte da lui, ed inserite nel Codice di Giustiniano, che spirano prudenza e giustizia. Gran cura ebbe egli sempre di promuovere i buoni [Aurelius Victor, in Epitome.] e di punire i cattivi, di mantenere l'abbondanza dei viveri, e di rimettere in buono stato i paesi spopolati per le guerre. Sotto di lui andarono a vuoto tutti gli sforzi delle barbare nazioni: tanta era l'applicazione di lui, tanti i suoi viaggi e le sue fatiche per reprimere col braccio del suo bravo, cioè di Massimiano Erculio, i nemici del romano imperio. Sapeva anche farsi amare, e soprattutto poi fu con ragione ammirata la di lui saviezza, perchè, quantunque per forza deponesse l'imperio, pure disingannato delle spinose grandezze del principato, non seppe mai più indursi a ripigliarlo, risoluto di finire i suoi giorni in vita [1120] privata. Ma non andò esente da biasimo [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 7.] l'aver egli, secondo la sua politica, moltiplicati i principi, e divise le provincie dell'imperio, siccome abbiamo veduto; perciocchè, oltre all'essere costato carissimo ai popoli il dover mantenere due Augusti e due Cesari, nello stesso tempo dominanti nel paese loro assegnato, e con corte non inferiore alle altre, di qui poi venne uno smembramento della monarchia romana, e le guerre fin qui accennate, ed altre che vedremo fra poco. Moltiplicò eziandio gli uffiziali e gli esattori in cadauna provincia, che servirono a conculcare ed impoverire i popoli. E perciocchè egli sommamente si dilettò di alzar suntuose fabbriche tanto in Roma che in altri paesi, e particolarmente a Nicomedia, con disegno di renderla uguale a Roma, e fatta una fabbrica, se non gli piaceva, la faceva atterrare per alzarne una nuova: di qua vennero infinite angarie alle città, per somministrar artefici, per condurre materiali, e per pagar taglioni; di modo che per ornare le città egli rovinava le provincie. Dell'avarizia di Diocleziano abbiam parlato altrove. Ammassava tesori, ma non per ispenderli, fuorchè una parte nelle fabbriche suddette; poichè per altro se occorrevano bisogni del pubblico, soddisfaceva coll'imporre nuove gravezze. E qualora egli osservava qualche campagna ben coltivata, o casa ben ornata, non mancavano calunnie contro ai padroni, per carpir loro non solamente gli stabili, ma anche la vita, perchè egli senza sangue non sapea rapire l'altrui. Cosi Lattanzio. Ed anche Eusebio attesta aver egli colle nuove imposte così scorticati i popoli, che più tollerabile riusciva loro il morire che il vivere.
Motivo ancora alla pubblica censura diede il fasto di Diocleziano per lo suo sfoggiare in abiti troppo pomposi, siccome accennammo di sopra; e il peggio fu che introdusse il farsi adorare, cioè [1121] l'inginocchiarsi davanti a lui: cosa allora praticata solamente coi falsi dii, e non gli dispiaceva di ricevere il titolo di Dio, e che si scrivesse alla sua divinità. Questi conti avea da fare un così ambizioso ed avaro principe col vero Dio, ad onta ancora del quale aggiunse in fine agli altri suoi reati quello della fiera persecuzione che egli, come capo dell'imperio, mosse contra degl'innocenti seguaci di Cristo. Noi già il vedemmo, appena cominciata questa persecuzione, colpito da Dio con una lunga e terribile malattia, e poi balzato dal trono. Certamente per alcuni anni nel suo ritiro fu onorato da que' principi che regnarono dopo di lui, perchè tutti da lui riconoscevano la lor fortuna, ed era da essi sovente consultato negli affari scabrosi. Ma il fine ancora di Diocleziano non andò diverso da quello degli altri persecutori della Chiesa di Dio. Fioccarono le disgrazie e i crepacuori sopra di lui nell'ultimo di sua vita. Vide abbattute da Costantino le statue ed iscrizioni sue; vide Valerla sua figliuola, già moglie di Galerio Massimiano, e Prisca sua moglie, rifugiate nell'anno 311 nelle terre di Massimino imperador d'Oriente, maltrattate da lui, spogliate dei lor beni, e poi relegate ne' deserti della Soria. Mandò ben egli più volte de' suoi uffiziali [Lactantius, de Mortib. Persec., cap. 41.] a pregare quel crudele Augusto di restituirgli due sì care persone, ricordandogli le tante sue obbligazioni; ma nulla potè ottenere: negativa, per cui crebbe tanto in lui il dolore e il dispetto, che, veggendosi sprezzato ed oltraggiato da tutti, cadde in una tormentosa malattia. A farlo maggiormente disperare dovette altresì contribuire, se è vero, ciò che narra Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.], cioè che avendolo Costantino e Licinio pregato d'intervenire in Milano alle nozze poco fa accennate, egli se ne scusò con allegare la sua grave età: del che mal soddisfatti quei principi, gli [1122] scrissero una lettera minaccievole, trattandolo come da lor nemico. Per questo disgustoso complimento, venuto dietro alle altre suddette disavventure, egli si ridusse a non voler nè mangiare nè dormire, sospirando, gemendo, piagnendo, e rivoltandosi ora nel letto, or sulla terra, tanto che disperato chiuse gli occhi per sempre circa il mese di giugno dell'anno presente. Fu egli poi deificato secondo l'empietà d'allora, per attestato di Eutropio [Eutrop., in Breviar.]. Nelle medaglie [Mediob., Numism. Imper.] nol veggo col titolo di Divo, ma bensì in un editto di Massimino e in altre memorie si truova a lui compartito questo sacrilego onore. Fiorirono a' suoi tempi Sparziano, Lampridio, Capitolino, Vulcazio Gallicano e Trebellio Pollione, scrittori della Storia Augusta tante volte di sopra mentovati, senza de' quali resterebbe per due secoli troppo involta nelle tenebre la storia romana. Fiorì ancora Porfirio, filosofo celebre del paganesimo, e nemico giurato della religione cristiana: intorno ai quali si possono vedere il Vossio, il Tillemont, il Cave ed altri autori.
Più visibilmente ancora si fece in quest'anno sentir la mano di Dio sopra un altro persecutore della religione cristiana, forse il più crudele degli altri, cioè sopra Massimino Augusto, signoreggiante nelle provincie d'Oriente. Già vedemmo che anch'egli concorse nello editto pubblicato da Galerio Massimiano imperadore, di concerto con gli altri Augusti, per dar la pace ai Cristiani; ma se ne dimenticò egli ben tosto, e seguitò con più cautela, ma pur seguitò ad infierir contra di loro. Abbiamo da Eusebio [Eusebius, Histor. Eccl., lib. 9, cap. 9.], che, tolto di vita Massenzio, unitamente Costantino e Licinio Augusti diedero fuori nell'anno precedente un proclama in favor de' cristiani; ed inviatolo a Massimino, non solo il pregarono di conformarsi alla loro intenzione, [1123] ma in certa guisa gliel comandarono. Per paura mostrò egli della prontezza a farlo; e, pubblicato un editto, l'inviò a Sabino e agli altri uffiziali del suo imperio. Ma nè pure per questo cessò il suo mal talento, perchè di nascosto faceva annegar quei cristiani che gli capitavano alle mani; nè permetteva loro di raunarsi, nè di fabbricar le chiese loro occorrenti. Giacchè i suddetti due Augusti in Milano confermarono il già fatto editto per la pace de' cristiani, alcuni han creduto che comunicassero di nuovo ancor questo a Massimino, ma senza apparirne pruova alcuna. Anzi abbiamo che lo stesso Massimino cominciò la guerra a Licinio nel tempo stesso che questi venne a trovar Costantino in Milano. S'era avuto non poco a male quel superbo [Lactant., de Mortib. Persecut., cap. 44.] che il senato romano avesse decretata la precedenza di Costantino agli altri due Augusti, nè sapeva digerire la vittoria da lui riportata contro Massenzio. S'aggiunse che egli avea bensì tenuta nascosta la sua lega con Massenzio, ma di questa venne ad accertarsi Costantino colle lettere trovate dopo la morte del tiranno nella di lui segreteria. Il perchè immaginando egli un mal animo in Costantino verso di sè, vieppiù gli crebbe la rabbia al vedere ito Licinio a Milano per abboccarsi con esso Costantino e per contrarre parentela con lui, perchè tutto a lui pareva concertato per la propria sua rovina. Determinò dunque di prevenir egli i veri o creduti suoi avversarii; e preso il tempo medesimo in cui Licinio Augusto si trovava lungi da suoi Stati per la sua venuta a Milano, mosse l'esercito suo, e a gran giornate dalla Soria si trasferì nella Bitinia. Durava tuttavia il verno; il rigor della stagione, le nevi, le pioggie, le strade rotte gli fecero perdere gran parte de' suoi cavalli e delle bestie da soma. Ciò non ostante, senza prendere posa, traghettato lo stretto, passò nella Tracia, e si presentò sotto [1124] Bisanzio, dove coi regali e colle promesse tentò indarno di sedurre quella guarnigione, e gli convenne adoperar la forza. Perchè erano pochi i difensori, non più che undici giorni sostennero l'assedio e gli assalti, e poi si renderono. Arrivato Massimino ad Eraclea, ivi ancora fu obbligato a spendere alquanti giorni per ridurre alla sua ubbidienza quella città. Un ritardo tale al corso delle sue armi servì ai corrieri per portare volando in Italia l'avviso della invasione, e a Licinio per tornarsene con diligenza a' suoi Stati. Quivi in fretta raunate quelle truppe che potè, s'innoltrò sino ad Andrinopoli non già col pensiero di venire ad alcun fatto d'armi, ma solamente per fermare le ulteriori conquiste di Massimino, perch'egli non avea più di trenta mila combattenti, laddove il nemico ne conduceva settanta mila. Il racconto è tutto di Lattanzio.
Seguita egli poi a dire che giunsero a vista l'una dell'altra le due armate tra Andrinopoli ed Eraclea [Lactant., de Mortib. Persecut., cap. 46.]. Era il penultimo dì d'aprile, e Licinio, veggendo di non poter fare di meno, pensava di dar battaglia nel giorno primo di maggio, perchè, essendo quel dì in cui Massimino compieva l'anno ottavo dell'esaltazione sua alla dignità cesarea, sperava di vincerla, come era succeduto a Costantino contra Massenzio in un simile giorno. Massimino, all'incontro, determinò di venire alle mani nell'ultimo di aprile, per poter poi dopo la segnata vittoria festeggiare nel dì appresso il suo natalizio. E la vittoria se la teneva ben egli in pugno, dopo aver fatto voto a' suoi insensati Numi, che guadagnandola, avrebbe interamente esterminati i cristiani. Ora Licinio, che non potea più ritirarsi, nella notte in sogno fu consigliato di ricorrere per aiuto all'onnipotente vero Dio d'essi cristiani con una preghiera ch'egli poi, venuto il giorno, fece scrivere in assaissimi biglietti, e distribuire fra l'esercito suo. La rapporta [1125] intera lo stesso Lattanzio [Lactant., de Mort. Persecut., cap. 47.]. La mattina dunque del dì ultimo d'aprile ben per tempo mise Massimino in ordinanza di battaglia le sue milizie: il che riferito nel campo di Licinio, anche egli fu forzato a schierar le sue. Era quella campagna sterile e fatta apposta per sì brutta danza: le due armate stavano già a vista l'una dell'altra, e chi ansioso e chi timoroso di venire al cimento: quando i soldati di Licinio, cavatisi di testa gli elmi, e colle mani alzate verso il cielo, a dettatura de' loro uffiziali, intonarono per tre volte coll'imperadore la preghiera suddetta al formidabil Dio degli eserciti, supplicandolo della forte sua assistenza in quel bisogno, con tal mormorio, che anche si udì dalla nemica armata. Ciò fatto, rimessi in testa gli elmi, imbracciano gli scudi, e pieni di coraggio stanno con impazienza aspettando il segno della battaglia. Seguì un abboccamento fra i due imperadori, ma senza che Massimino volesse piegarsi a condizione alcuna di pace, perchè lusingato dalla speranza di veder desertare tutto l'esercito di Licinio alla sua parte, per esser egli in concetto di principe assai liberale verso le persone militari. Anzi sognava con tanto accrescimento di forze di poter poi procedere contra di Costantino, e di abbattere dopo l'uno anche l'altro. Ed eccoti dar fiato alle trombe, accozzarsi amendue le armate [Eusebius, Histor. Eccl., l. 1, cap. 10.]. Parve che quei di Massimino non sapessero mettere mano alle spade, nè scegliere i lor dardi. Di qua e di là correa Massimino per animarli alla pugna, pregando, promettendo ricompense, ma senza essere ascoltato. Per lo contrario quei di Licinio come lioni menavano le mani, facendo, benchè tanto inferiori di numero, orribil macello dei nemici, i quali sembravano venuti non per combattere, ma per farsi scannare. Già era seguita una fiera strage di loro, quando Massimino, accortosi che la faccenda [1126] passasse diversamente dal suo supposto, cadutogli il cuor per terra, gittò via la porpora; e presa una veste da servo, e datosi alla fuga, andò a passare il mare allo stretto di Bisanzio. Intanto l'una metà del suo esercito restò vittima delle spade, l'altra o si rendè o si salvò colla fuga [Lactant., de Mortib. Persecut., cap. 48.]. Le stesse sue guardie si diedero al vincitore Licinio.
Tal diligenza fece Massimino in fuggire, che nel termine di una notte e di un dì, cioè nella sera del giorno primo di maggio pervenne (certamente coll'aiuto delle poste) a Nicomedia in Bitinia, lontana dal luogo della battaglia suddetta cento sessanta miglia. Quivi nè pur credendosi sicuro, prese seco in fretta i figli, la moglie e pochi de' suoi cortigiani, e ritirossi nella Cappadocia, dove, dopo aver messo insieme, come potè, un corpo di soldatesche, in fine ripigliò la porpora; e tutto furore fece uccidere molti de' suoi sacerdoti e profeti, accusandoli come autori delle sue disgrazie coi loro falsi oracoli. Ma Licinio, senza perdere tempo, con una parte del vittorioso esercito suo, ricuperata che ebbe assai facilmente la Tracia, passò il mare, e s'impadronì della Bitinia. Trovavasi egli nella città di Nicomedia nel dì 13 di giugno [Idem, ibidem.], quando, riconoscendo dal Dio dei cristiani l'avvenimento felice delle sue armi, a nome ancora dell'Augusto Costantino, pubblicò un editto, con cui annullò tutti gli altri emanati contra di essi cristiani, e loro concedette la libertà della religione e la fabbrica della chiese. Inseguì poscia Licinio con vigore il fuggitivo Massimino, il quale, troppo tardi conosciuto il gastigo di Dio per l'ingiustizia e barbarie sua contro chi professava la legge di Cristo [Eusebius, Histor. Eccl., lib. 1, cap. 10.], pubblicò anch'egli un editto in lor favore: con che cessò la fiera carnificina che dianzi si faceva degl'innocenti sudditi [1127] suoi. Fortificò poscia Massimino i passi del monte Tauro per impedire i progressi al nemico Licinio [Zosimus, lib. 2, cap. 17.]; andò anche in Egitto per far nuove leve di gente; ma ritornato alla città di Tarso, e udito che Licinio superava gli argini e i trinceramenti del monte suddetto, e che per mare e per terra gli veniva addosso una fiera tempesta, allora s'avvide di non poter resistere alle forze dell'avversario, nè alla giustizia di Dio irritata contro di lui. Adunque disperato ebbe ricorso al veleno [Euseb., lib. 9, cap. 10. Lactant., de Mortib. Persecut., cap. 49.]; ma perchè lo prese dopo aver mangiato e bevuto a crepa pancia, non potè il veleno levarlo di vita, e solamente gli cagionò una terribil malattia, per cui s'empiè tutto di piaghe, sentendosi anche bruciar le viscere, e consumare fra insoffribili dolori. Arrivò il suo corpo a diseccarsi, non restandogli altro che la pelle e l'ossa, in guisa che perdè affatto la sua forma antica, nè più si conosceva per quel che fu [Chrysostomus, Orat. in Gent.]. Gli uscivano ancora gli occhi di testa; effetti tutti non men del potente veleno, che dell'ira di Dio, come attestano Eusebio e san Girolamo [Hieronymus, in Zachariam, cap. 14.]; di modo che quel suo corpo tutto marcito meritava più tosto d'essere appellato un fetente sepolcro, in cui si trovava imprigionata un'anima cattiva. Così fra gli urli, e con dar della testa ne' muri, e confessando finalmente il grave suo delitto, per aver perseguitato Gesù Cristo nella persona de' suoi servi, ma senza abbandonar per questo la superstizion pagana, finì Massimino la detestabil sua vita. Lasciò de' figli maschi, alcuno dei quali aveva egli associato all'imperio, e una figliuola di sette anni, promessa già in moglie a Candidiano figlio bastardo di Galerio Massimiano. Ma Licinio levò poi dal mondo tutta la di lui stirpe, secondo i giusti giudizii di Dio, [1128] che furono visibili sopra tutti questi tiranni persecutori della santa sua religione.
Per la morte di Massimino, il vincitor Licinio niuna fatica durò più ad impossessarsi di tutto l'Oriente [Aurelius Victor, de Cesaribus. Zosimus, lib. 2, cap. 18. Euseb., lib. 9, cap. 11.]. Pervenuto egli ad Antiochia, quivi lasciò le redini alla sua fierezza non solamente, come dissi, contro la prole di Massimino e contra della di lui moglie, che fu gittata ne' gorghi del fiume Oronte; ma anche contro la maggior parte de' suoi favoriti e ministri, fra' quali spezialmente si contarono Calciano e Peucecio o Picenzio, che aveano sparso tanto sangue del popolo cristiano. Levò del pari la vita ad un Teotecno, facendogli prima confessar le sue imposture, per le quali avea fatto di gran male ad essi cristiani. Mentre dimorava Licinio nella suddetta città d'Antiochia, venne a presentarsegli Candidiano, che già dicemmo figliuolo di Galerio imperadore, e perseguitato da Massimino. Fu sulle prime ben accolto, ben trattato, di maniera che Valeria figlia del fu Diocleziano, che l'avea adottato per figliuolo, partendosi dal luogo dell'esilio suo, venne travestita alla corte per vedere l'esito di questo giovane. Ma quando men se l'aspettava la gente, tolta fu da Licinio a Candidiano la vita, ed insieme con lui perdè la sua Severiano, figlio di quel Severo Augusto che vedemmo ucciso nell'anno 307. Fu preteso che l'un d'essi, o pure amendue avessero disegnato, dopo la morte di Massimino, di prendere la porpora. Uscì ancora sentenza di morte contro la suddetta Valeria, la quale, udito sì disgustoso tenore, prese la fuga, e per quindici mesi andò errando sconosciuta in varii paesi, finchè scoperta in Tessalonica, ossia in Salonichi, e presa con Prisca sua madre, già moglie di Diocleziano [Lactantius, de Mort. Persec., cap. 51.], furono tutte e due condannate [1129] nell'anno 315 a perdere la testa, compiante da ognuno, e massimamente Valeria, per essersi tirati addosso que' disastri col voler conservare la castità in mezzo agli assalti dell'iniquo Massimino. Ma Iddio, sdegnato contro la stirpe di quegli Augusti che tanta guerra aveano fatto ai suoi servi, non essi solamente, ma anche tutta la lor famiglia volle sradicata dal mondo. Fu in oltre l'estinto Massimino dichiarato tiranno e pubblico nemico dei due Augusti Costantino e Licinio, spezzate le sue statue, cancellate le iscrizioni, ed abbattuta ogni memoria alzata in onore di lui e de' suoi figliuoli. Nè si dee tacere che, non so se prima o dopo la rotta data nel penultimo dì d'aprile da Licinio a Massimino, un Valerio Valente si fece proclamar Augusto in Oriente [Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 50. Aurelius Victor, in Epitome.]. Massimino il prese; ma non avendo egli voluto allora ucciderlo, Licinio di poi, divenuto padrone dell'Oriente, gli diede il meritato gastigo con torgli la vita. Il padre Pagi [Pagius, Critic. Baron. ad hunc annum.] ne parla a lungo sotto quest'anno; ma contuttociò resta non poca oscurità intorno ai fatti di costui.
Anno di | Cristo CCCXIV. Indizione II. |
Silvestro papa 1. | |
Costantino imperadore 8. | |
Licinio imperadore 8. |
Consoli
Caio Ceionio Rufio Volusiano per la seconda volta ed Anniano.
Truovasi prefetto di Roma in questo anno Rufio Volusiano. Ciò non ostante, vien creduto ch'egli esercitasse nel medesimo tempo il consolato, giacchè la prefettura era stata a lui appoggiata nel settembre dell'anno precedente. Sul principio di questo terminò i suoi giorni Melchiade papa [Chron. Damasi, seu Anast. Biblioth.], e succedette a lui nella sedia di san Pietro Silvestro, che [1130] noi vedremo uno de' più gloriosi pontefici della Chiesa di Dio, e felice anche in terra, perchè vivuto a' tempi del primo degl'imperadori cristiani, cioè di Costantino. Certamente non tardò questo insigne Augusto a farsi conoscere dopo la rotta di Massenzio quale egli era, cioè attaccato alla religione de' cristiani, e per questo si stima ch'egli, trionfalmente entrato in Roma, non passasse al Campidoglio, ricusando di portarsi a venerar il Giove sordo de' Romani [Euseb., Hist. Eccles., lib. 9.]. Fece in oltre alzare una statua in Roma a sè stesso, che teneva la croce in mano, per segno che da quella egli riconosceva la riportata vittoria. La prudenza sua non gli permise per allora di far altra maggior risoluzione, perchè egli desiderava che i popoli spontaneamente, e non già per forza, si arrendessero al lume del Vangelo, oltre al temer di sedizioni, ove egli avesse tentato di levar la libertà della religione in un subito ad immensa gente che tuttavia professava il paganesimo. Truovasi in alcune iscrizioni, fra gli altri titoli d'autorità e d'onore conferiti a Costantino, quello di pontefice massimo; ma, siccome osservò il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron. ad annum 312.], non fu cotal titolo da lui preso, ma solamente a lui dato dai pagani, secondo l'antico lor uso. Per altro pubblicamente egli si studiava di far conoscere ai Romani il Dio, a cui si doveano gl'incensi [Euseb., in Vita Constant., lib. 1, cap 42.]; un gran rispetto professava ai vescovi ed altri ministri dell'Altissimo; ne teneva alcuni ancora in sua corte, li voleva alla sua mensa, e compagni anche nei viaggi, credendo che la loro presenza tirasse sopra di lui i favori e le benedizioni del cielo. Era già insorto nell'Africa lo scisma de' Donatisti con una deplorabil division di quelle chiese. L'Augusto Costantino, benchè novizzo nella religion di Cristo, in vece di scandalezzarsi di una tal discordia troppo contraria agli insegnamenti del [1131] Vangelo, si accese più tosto di zelo per curare e sanar quella piaga [Labb., Concil. Collect. Baron., in Annal. Pagius, in Crit. Bar.]. Intimò dunque un concilio di vescovi ad Arles, acciocchè ivi si discutessero le accuse de' Donatisti contra di Ceciliano vescovo; e in una lettera loro scritta espresse i sentimenti della sua vera pietà, con rilevare la benignità di Dio verso de' peccatori, dicendo: Ho operato anch'io molte cose contrarie alla giustizia, senza figurarmi allora che le vedesse la suprema Potenza, ai cui occhi non sono nascose le fibre più occulte del mio cuore. Per questo io meritava d'essere trattato in una maniera conveniente alla mia cecità, e di essere punito con ogni sorta di malanni. Ma così non ha fatto l'onnipotente ed eterno Dio che tien la sua residenza ne' cieli. Egli per lo contrario mi ha compartito dei beni, de' quali io non era degno, nè si possono annoverar tutti i favori, coi quali la bontà celeste ha, per così dire, oppresso questo suo servo.
Dacchè ebbe Licinio Augusto atterrato il nemico Massimino, siccome dissi, tutte le provincie dell'Oriente coll'Egitto vennero in suo potere, e si unirono coll'Illirico, formando egli così una vasta possanza. L'Italia, l'Africa e tutte le restanti provincie d'Occidente rendevano ubbidienza all'Augusto Costantino di lui cognato. Ma, per attestato di Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesaribus.], troppo diversi di genio erano questi due principi. Costantino, istruito già delle massime del Vangelo, inclinava alla clemenza; se non avea già abolito, tardò poco ad abolire l'antico uso del patibolo della croce, perchè santificata dal divino Salvator nostro, siccome ancor l'altro di rompere le gambe ai rei. Ai suoi stessi nemici lasciava egli ancora godere gli onori e i beni, non che la vita; laddove Licinio, uomo selvatico e dato al risparmio, facilmente infieriva contra delle persone; ed abbiam veduto di sopra un notabile esempio [1132] della sua crudeltà; sapendosi inoltre ch'egli non si guardò dal tormentare a guisa di vili servi non pochi innocenti e nobili filosofi di que' tempi. Poco per questo durò fra tali regnanti la buona armonia, anzi si allumò guerra fra loro nell'anno presente. Truovavasi l'imperador Costantino ne' primi mesi di questo anno in Treveri, dove pubblicò varii ordini e leggi [Gothofred., Chron. Cod. Theodos.] concernenti il pubblico governo, ed una principalmente, in cui rimediò al disordine accaduto sotto il tiranno Massenzio; cioè all'aver molti perduto la lor libertà per la prepotenza e violenza de' grandi che tuttavia li riteneva per ischiavi. Coll'intimazione di gravi pene comandò egli che fosse escluso dalle dignità chiunque avea poco buon nome e carestia d'onoratezza. Il motivo della disunione e guerra nata in quest'anno fra Costantino e Licinio resta dubbioso. Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 18.] scrittor pagano ne rigetta tutta la colpa sopra il solo Costantino, che non sapeva mantenere i patti, e cominciò a pretendere qualche paese come di sua giurisdizione. Eutropio [Eutrop., in Breviar.], anch'egli scrittore pagano, ne attribuisce l'origine all'ambizione di Costantino, malattia troppo familiare ai regnanti del secolo, e che mai non suol dire basta, se non quando il timore la frena. Ma Libanio sofista pretende che Licinio per lo stesso male fosse il primo a rompere la concordia; ed il perchè ce l'ha conservato l'Anonimo Valesiano [Anonymus Valesianus post Ammianum.]. Scrive questo autore, aver Costantino maritata Anastasia sua sorella a Bassiano, con disegno di dichiararlo Cesare, e di dargli il governo dell'Italia. Per camminar dunque d'accordo col cognato Licinio, spedì a lui un personaggio nomato Costanzo, richiedendolo del suo assenso. Venne in questo mentre Costantino a scoprire che Licinio segretamente per mezzo di Senecione, fratello di Bassiano, e [1133] suo confidente, era dietro ad indurre lo stesso Bassiano a prendere l'armi contra del medesimo Costantino. Di questa trama fu convinto Bassiano, e gli costò la vita. Fece Costantino istanza per aver nelle mani il manipolatore di tal trama, cioè Senecione; e Licinio gliel negò. Per questa negativa, e perchè Licinio fece abbattere le immagini e statue di Costantino in Emona, città, non so se dell'Istria o della Pannonia, si venne a guerra aperta. Costantino marciò in persona con una armata di soli venti mila tra cavalli e pedoni alla volta della Pannonia, per farsi giustizia, coll'armi, e s'incontrò nelle campagne di Cibala con Licinio, il cui esercito ascendeva a trentacinque mila uomini, parte cavalleria e parte fanteria. Qui furono alle mani i due principi, e ne rimase sconfitto Licinio. Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 18.] descrive l'ordine di quella battaglia, che durò dalla mattina sino alla sera con gran mortalità di gente; ma in fine l'ala destra, dove era lo stesso Costantino, ruppe la nemica; e le legioni di Licinio, dopo aver combattuto a piè fermo tutto quel giorno, poichè videro il lor principe a cavallo in fuga, anch'esse sull'imbrunir della notte, preso sol tanto di cibo che bastasse per allora, ed abbandonato il resto de' viveri, de' carriaggi e del bagaglio, frettolosamente si ritirarono alla volta di Sirmio, dove prima di loro era pervenuto Licinio [Idacius, in Fastis. Euseb., in Chron.]. Nel dì 8 di ottobre succedette questo sanguinoso fatto d'armi; ed essendo il racconto di Zosimo così circostanziato, merita ben più fede che quel di Eutropio [Eutrop., in Breviar.], il quale sembra dire che Licinio prima di questo tempo ebbe una percossa da Costantino, e che poi, sorpreso all'improvviso sotto Cibala, di nuovo fu disfatto. L'Anonimo Valesiano fa giugnere la sua perdita sino a venti mila persone: il che par troppo.
Poco si fermò Licinio in Sirmio, città [1134] da due bande cinta dal Savo fiume, colà dove esso si scarica nel Danubio [Zosimus, lib. 2, cap. 18.]; ma presi seco le moglie e i figliuoli, e rotto il ponte, marciò con diligenza verso la novella Dacia, finchè arrivò nella Tracia. Per viaggio [Anonymus Valesianus.] egli creò Cesare Valente, uffiziale assai valoroso della sua armata, di cui leggerissima informazione ci resta nella storia. Indarno gli spedì dietro Costantino cinque mila de' suoi per coglierlo nella fuga. Impadronissi dipoi Costantino di Cibala e di Sirmio; ed allorchè fu arrivato a Filippi, città della Macedonia, o piuttosto a Filippopoli della Tracia, comparvero da Andrinopoli ambasciatori di Licinio per dimandar pace; ma nulla ottennero, perchè Costantino esigeva la deposizion di Valente creato Cesare al suo dispetto, e Licinio non acconsentì. Intanto con somma diligenza mise Licinio insieme un'altra assai numerosa armata colle genti a lui spedite dall'Oriente; e fu di nuovo in campagna. Ma nol lasciò punto dormire l'infaticabil Costantino, che gli giunse addosso nella pianura di Mardia. Seguì un'altra giornata campale con perdita vicendevole di gente, secondo Zosimo, e con restare indecisa la sorte, avendo la notte messo fine al menar delle mani; ma dall'Anonimo del Valesio abbiamo che terminò la zuffa con qualche svantaggio di Licinio, il quale, col favor della notte tiratosi in disparte, lasciò nel dì seguente passar oltre Costantino, con ridursi egli e i suoi a Berea. Pietro Patrizio [Petrus Patricius, de Legat., Tom. I Hist. Byzantin.] lasciò scritto che Costantino perdè in tal congiuntura parte del suo bagaglio, sorpreso in un'imboscata da quei di Licinio. Tornò dunque esso Licinio a spedire a Costantino proposizioni di pace, e l'ambasciatore fu Mestriano, uno de' suoi consiglieri, il quale trovò delle durezze più che mai. Contuttociò, considerando l'Augusto Costantino [1135] quanto egli si fosse allontanato da' proprii Stati, e molto più come sieno incerti gli avvenimenti delle guerre, finalmente si lasciò piegare ad ascoltar l'inviato. Mostrossi egli irritato forte contra di Licinio, perchè senza suo consentimento, anzi ad onta sua, avesse creato un nuovo Cesare, cioè Valente, e volesse anche sostenere piuttosto quel suo famiglio [Anonymus Valesianus. Zosimus.] (che così il nominava egli) che un Augusto suo cognato. Però, se si aveva a trattar di pace, esigeva per preliminare la deposizion di Valente. Cedette in fine Licinio a questa pretensione, e fu dipoi conchiusa la pace. Se non è fallato il testo di Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.], Licinio levò appresso non solamente la porpora, ma anche la vita ad esso Valente. Per questa pace vennero in potere di Costantino l'Illirico, la Dardania, la Macedonia, la Grecia e la Mesia superiore. Restarono sotto il dominio di Licinio la Soria colle altre provincie orientali, l'Egitto, la Tracia e la Mesia inferiore [Jordan., de Reb. Getic.], appellata da alcuni la picciola Scitia, perchè abitata ne' vecchi tempi dalle nazioni scitiche. Così venne a crescere di molto la signoria di Costantino colle penne tagliate al cognato. Nel Codice Teodosiano [Cod. Theodos., l. 1, de Privileg. eorum, etc.] abbiamo una legge pubblicata da Costantino nelle Gallie nel dì 29 di ottobre di quest'anno; ma, siccome osservò il Gotofredo, sarà scorretto quel luogo, o pure il mese, non essendo probabile che Costantino tornasse sì tosto colà dopo la guerra fatta a Licinio.
Anno di | Cristo CCCXV. Indizione III. |
Silvestro papa 2. | |
Costantino imperadore 9. | |
Licinio imperadore 9. |
Consoli
Flavio Valerio Costantino Augusto per la quarta volta e Publio Valerio Liciniano Licinio Augusto per la quarta.
Per attestare al pubblico la ristabilita loro unione, presero amendue gli Augusti il consolato in quest'anno. Truovasi Rufio Volusiano tuttavia prefetto di Roma nel dì 25 di febbraio, ciò apparendo da un decreto [Cod. Theodos., lib. 2, quor. appellat.] a lui indirizzato da Costantino. Secondo il Catalogo de' prefetti, dato alla luce dal Cuspiniano e dal Bucherio, in quella dignità succedette Vettio Rufino nel dì 20 d'agosto. Per la maggior parte dell'anno presente si trattenne l'imperador Costantino nella Pannonia, Dacia, Mesia superiore e Macedonia, per dar buon sesto a que' paesi di nuova conquista, siccome attestano le leggi raccolte dal Gotofredo [Gothofred., in Chron. Cod. Theodos.] e dal Relando [Reland., in Fast.]. Ora si truova egli in Tessalonica, ora in Sirmio e in Cibala, ed ora in Naisso e in altre città tutte di quelle contrade. In una d'esse leggi inviata ad Eumelio, che si vede poi nell'anno seguente vicario dell'Africa, egli abolisce l'uso di marcar in fronte con ferro rovente i rei condannati a combattere da gladiatori negli anfiteatri, o pure alle miniere, per non disonorare, siccome egli dice, il volto umano, in cui traluce qualche vestigio della bellezza celeste. Fors'anche ebbe egli riguardo in ciò alla fronte, dove si faceva da' cristiani la sacra unzione e il segno della croce, usato anche allora, per testimonianza di Lattanzio e di Eusebio. Truovasi egli parimente nella città di Naisso, dove era nato, che fu poi da lui abbellita con varie fabbriche, e quivi pubblicò una legge [1137] ben degna della sua pietà, con ordine specialmente di farla osservare in Italia, e di tenerla esposta in tavole di bronzo. Un crudele abuso da gran tempo correva, che i padri e le madri per la loro povertà non potendo alimentare i lor figliuoli, o gli uccidevano, o li vendevano, o pure gli abbandonavano, esponendoli nelle strade; con che divenivano schiavi di chiunque gli accoglieva [Cod. Theodos., l. 1, de aliment.]. Ordinò dunque il piissimo imperadore, che portando un padre agli uffiziali del pubblico i suoi figliuoli, con provare la impotenza sua di nutrirli, dovesse il tesoro del pubblico, o pure l'erario del principe, somministrare gli alimenti a quelle povere creature. Nell'anno poi 322 fece una somigliante legge per l'Africa; incaricando i proconsoli e gli altri pubblici ministri di vegliare per questo, e di prevenir la necessità de' poveri, prendendo dai granai del pubblico di che soddisfare alla lor deplorabile indigenza, acciocchè non si vedesse più quell'indegnità di lasciar morire alcuno di fame. Poscia col tempo ordinò che i fanciulli esposti dai lor padri nelle necessità, e fatti schiavi, si potessero riscattare, dando un ragionevol prezzo, o pure il cambio d'un altro schiavo. Con altra legge [Ibidem, l. 1, de pignoribus.] data in Sirmio noi troviamo che egli vietò sotto pena della vita, nel pignorare i debitori, massimamente del fisco, il levar loro i servi ed animali che servono a coltivar la campagna, anteponendo con ciò il bene del pubblico al privato, come richiede il dovere de' buoni e saggi principi. Abbiamo inoltre una legge [Ibidem, l. 1, de matern. bon.] data da Costantino nel dì 18 di luglio, mentr'egli era in Aquileia, ed indirizzata ai consoli, pretori e tribuni della plebe di Roma, la qual poi solamente nel dì 5 di settembre fu recitata nel senato da Vettio Rufino prefetto della città. Tal notizia ci mena ad intendere che esso Augusto, dopo aver ordinati [1138] gli affari suoi nella Pannonia, Macedonia, Mesia e Grecia, calò in questi tempi in Italia. In fatti si trovano due susseguenti leggi [Gothofred., Chron. Cod. Theodos.] da lui date in Roma sul fine d'agosto e principio di settembre. Altre leggi poi cel fanno vedere nel medesimo settembre, ottobre e ne' due seguenti mesi ritornato nella Pannonia; ma certamente in alcuna di esse leggi è fallata la data, perchè Costantino non sapeva volare. Dicesi pubblicata in Murgillo nel dì 18 di ottobre quella [Ibidem, l. 1, de Judaeis.], con cui Costantino proibisce ai Giudei d'inquietare, siccome faceano, coloro, i quali abbandonavano la lor religione per abbracciar la cristiana; minacciando anche il fuoco a chi in avvenire ardisse di molestarli; siccome ancora diverse pene a chi passasse alla religione giudaica. Se poi crediamo qui al cardinal Baronio, nell'anno presente tenuto fu un concilio di settantacinque vescovi in Roma da papa Silvestro; ma essendo a noi venuta cotal notizia dai soli atti di san Silvestro, che oggidì son riconosciuti [Pagius, Crit. Baron. Natalis Alexander et alii.] da ogni erudito per apocrifi, cade ancora a terra quel concilio, perchè fondato sopra imposture, e contenente cose troppo inverisimili.
Anno di | Cristo CCCXVI. Indizione IV. |
Silvestro papa 3. | |
Costantino imperadore 10. | |
Licinio imperadore 10. |
Consoli
Sabino e Rufino.
Seguitò ad essere prefetto di Roma Vettio Rufino, forse non diverso dal console suddetto, sino al dì 4 d'agosto, in cui quella dignità fu conferita ad Ovinio Gallicano. Le leggi del codice Teodosiano, benchè alcune abbiano la data fallata, pure ci fan vedere Costantino Augusto nella Gallia ne' mesi di maggio [1139] e d'agosto, essendo egli passato colà da Roma. La prima d'esse leggi [Cod. Theodos., l. 10, de longi temporis praescript.], data in Roma stessa, servì a non pochi di una mirabil quiete; perchè vien quivi decretato che chiunque si trovasse da gran tempo in pacifico possesso di beni una volta spettanti al demanio del principe, ed acquistati o per donazione o per altra via legittima, ne resterebbe per sempre padrone. Nell'Africa si osservava un abuso, cioè che per debiti con particolari, o col fisco, le donne onorate erano per forza tirate fuori delle loro case. Costantino, sotto pena di rigorosi supplicii, e della vita stessa, proibì tal vessazione. E perciocchè egli di giorno in giorno facea maggiormente comparire la sua venerazione alla religion cristiana, per condurre soavemente e senza forza all'amor d'essa i suoi sudditi, nell'anno presente con una legge indirizzata [Cod. Justinian., l. 3, de bis qui in Eccles. manumit.] a Protogene vescovo, probabilmente di Serdica, permise ad ognuno di dar la libertà ai suoi schiavi nella chiesa alla presenza del popolo cristiano, de' vescovi e de' preti. Queste manomissioni si faceano in addietro davanti ai magistrati civili con molte formalità o varie difficoltà: laddove da lì innanzi costò poca fatica il farlo, e bastava per indennità de' liberti cristiani un attestato de' sacri ministri della chiesa. Fu poi confermata questa legge da Costantino e dai suoi successori con altri editti. Non ostante la dichiarazione del concilio d'Arles, e la precedente di un romano, tenuto sotto Melchiade papa, ne' quali fu assoluto Ceciliano vescovo di Cartagine, e condannati come iniqui accusatori i Donatisti, imperversavano tuttavia quegli scismatici; e riuscì loro d'impetrar da Costantino un nuovo giudizio. Partitosi dalle Gallie, dove mai più non ritornò, e venuto a Milano l'Augusto regnante [Baron. Pagius. Fleury et alii.], quivi al concistoro suo nel mese [1140] d'ottobre si presentarono Ceciliano e le parti contrarie. Volle lo stesso imperadore con carità e pazienza ascoltar tutti ed esaminar tutto; e di nuovo la sentenza riuscì favorevole a Ceciliano, con restar nondimeno più che mai ostinati gli avversarii suoi, e continuar poscia lo scisma per più di un secolo nelle chiese dell'Africa. Se dicono il vero le leggi, da Milano passò Costantino nella Pannonia e Dacia nuova, veggendosi una legge da lui data nel dì 4 di dicembre in Sardica, indirizzata ad Ottaviano conte di Spagna, in cui ordina che i potenti, rei d'avere usurpato le donne, i servi o i beni altrui, o pur colpevoli d'altro delitto, saranno giudicati secondo le leggi ordinarie dai governatori de' luoghi, senza permettere l'appellazione al prefetto di Roma, e senza bisogno di scriverne all'imperadore. Dovea essere necessaria questa severità per frenare gli abusi di coloro che, per la lontananza della corte e pel vantaggio dell'appellazione, si facevano lecito tutto ciò che loro piaceva. Nè si dee tacere che stando esso imperadore in Arles della Gallia nel mese d'agosto, Fausta sua moglie a lui partorì un figliolo nel dì 7 di quel mese. Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] il chiama Costantino juniore; Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 20.], secondo l'edizion del Silburgio, gli dà il nome di Costanzo. Il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] ha esaminata tal controversia, ed inclina a crederlo Costantino juniore; nè altro, a mio credere, si dee tenere. Nella edizione di Zosimo fatta da Arrigo Stefano si legge Costantino; ed Eusebio [Eusebius, in Vita Constantini, lib. 1, c. 40.] e l'Anonimo Valesiano [Anonym. Valesianus post Amm.] decidono questa lite con dire che Costantino juniore fu creato Cesare, siccome vedremo nell'anno seguente; e Zosimo confessa che questo Cesare era nato qualche tempo prima in Arles. Fu egli poscia imperadore.
Anno di | Cristo CCCXVII. Indizione V. |
Silvestro papa 4. | |
Costantino imperadore 11. | |
Licinio imperadore 11. |
Consoli
Ovinio Gallicano e Basso.
Probabilmente il secondo console si nominò Settimio Basso, il quale, secondo il Catalogo del Cuspiniano e Bucherio, nel dì 15 di maggio cominciò ad esercitar la carica di prefetto di Roma. Quanto a Gallicano, il Valesio pretende [Valesius, in Notis ad Ammian.] ch'egli fosse Vulcazio Gallicano lo storico, perchè Ovinio Gallicano era prefetto di Roma. Ma in questi tempi noi troviamo sovente unita al consolato essa prefettura. L'Anonimo Valesiano e Zosimo ci fan sapere, che mentre Costantino Augusto era in Serdica, o sia Sardica, città della nuova Dacia, correndo l'anno decimo del suo imperio, trattò con Licinio imperadore d'Oriente per creare concordemente Cesari i loro figliuoli. A Costantino Minervina sua prima moglie avea partorito Crispo forse prima dell'anno 300. A questo principe, allorchè fu giunto all'età capace di lettere, diede il padre per maestro [Eusebius, in Chron.] il celebre Lattanzio Firmiano, acciocchè gl'insegnasse la lingua latina, l'eloquenza, ed insieme la vera pietà coi documenti della religione cristiana. Ne profittò il giovinetto; e noi presto il vedremo cominciarsi a segnalare nel mestier della guerra, e dar grande espettazion di sè stesso; ma sì belle speranze svanirono poi, siccome diremo, coll'infausta sua morte. Era parimente nato a Costantino Augusto da Fausta, di presente sua moglie, Costantino [1142] juniore nell'anno precedente. Pertanto amendue furono decorati nel presente della dignità cesarea. Abbiamo da Libanio [Libanius, Oratione 3.] che usò Costantino di formar la corte a cadaun de' suoi figliuoli, e di dar loro il comando d'un'armata, ma con tenerli nondimeno sempre al suo lato, affinchè la verde loro età non li facesse sdrucciolare. Crispo nelle iscrizioni [Gruterus, Thesaur Inscription.] e medaglie [Mediob., Numism. Imperat.] si truova chiamato Flavio Valerio Giulio Crispo; e il giovane Costantino Flavio Claudio Costantino juniore. Anche l'imperador Licinio avea un figliuolo che portava il nome paterno di Valerio Liciniano Licinio [Zosimus, lib. 2, cap. 20.], e si pretende ch'egli fosse entrato solamente nel mese ventesimo di sua età: il che se è vero, venghiamo a conoscere che un altro figliuolo di Licinio, già atto alle armi, e da noi veduto alla battaglia di Cibala, dovea essere premorto al padre. Ora anche a questo Licinio fanciullo fu conferita, d'accordo dei padri Augusti, la dignità cesarea. Dimorò in tutto questo anno, o nella maggior parte almeno, l'imperadore Costantino nella Dacia novella, nella Pannonia e in altri luoghi dell'Illirico, come consta dalle sue leggi [Gothofredus, in Chronic. Cod. Theodos.] e dagli autori suddetti; di modo che si può credere fallo in due d'esse che si dicono date in Roma nel marzo e nel luglio, se pure appartengono all'anno presente. In quelle parti si trovava ancora la moglie di Costantino, Fausta Augusta, che diede alla luce nel dì 13 d'agosto un figliuolo, a cui fu posto il nome di Costanzo. Fu anch'egli a suo tempo imperadore, e riuscì il più rinomato de' suoi figli, non so se più per li suoi vizii [Julian., Oratione I. Anonymus Valesianus.], ovvero per le sue virtù.
Anno di | Cristo CCCXVIII. Indizione VI. |
Silvestro papa 5. | |
Costantino imperadore 12. | |
Licinio imperadore 12. |
Consoli
Publio Valerio Licinio Augusto per la quinta volta, e Flavio Giulio Crispo Cesare.
Continuò ad esercitare anche per quest'anno la carica di prefetto di Roma Settimio Basso [Cuspinianus. Bucherius. Panvin.]; ma perchè egli fu obbligato a portarsi alla corte di Costantino, probabilmente soggiornante anche allor nell'Illirico, Giulio Cassio dal dì 13 di luglio fino al dì 13 d'agosto sostenne le sue veci in quell'uffizio, finchè, ritornato esso Basso, ne ripigliò l'esercizio. Nulla di rilevante intorno a Costantino ci somministra in quest'anno la storia, se non che troviamo tuttavia esso Augusto nell'Illirico, e particolarmente in Sirmio [Gothofredus, in Chronic. Cod. Theodos.], dove son date due sue leggi. Intanto, siccome abbiamo da Eusebio [Euseb., in Vita Constant., l. 4, cap. 1 et seq.], sotto questo piissimo Augusto godevano i cristiani una tranquillissima pace e libertà, crescendo ogni dì più il lor numero, ed alzandosi per tutto il romano imperio chiese e suntuosi templi al vero Iddio. Somministrava il buon principe, come consta dai suoi rescritti, ai vescovi dell'erario proprio l'occorrente danaro per le fabbriche e per altre spese pertinenti al culto divino; esentava inoltre i sacri ministri della Chiesa di Dio dalle gravezze imposte ai secolari. E quantunque Licinio Augusto in Oriente professasse come prima il culto degl'idoli, pure, più per paura di Costantino che per proprio genio, non inquietava punto i fedeli, i quali ne' paesi di sua giurisdizione abbondavano anche più che in altri luoghi. Tuttavia Sozomeno è di parere [Sozomenus, lib. 1, cap. 7.] che Licinio in [1144] qualche tempo si mostrasse seguace o almen fautore della religion di Cristo; e può questo dedursi anche da un passo d'Eusebio [Euseb., in Vita Constant., lib. 1, cap. 14.], siccome osservò il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.]. Ma fuor di dubbio è, per attestato de' medesimi due antichi storici, ch'egli o non mai ben rinunziò alla superstizion de' Gentili, o pure, dappoichè nella battaglia di Cibala restò sconfitto da Costantino, la ripigliò come prima, ed in quella credenza terminò poi i suoi giorni.
Anno di | Cristo CCCXIX. Indizione VII. |
Silvestro papa 6. | |
Costantino imperadore 13. | |
Licinio imperadore 13. |
Consoli
Flavio Valerio Costantino Augusto per la quinta volta e Valerio Liciniano Licinio Cesare.
Continuò Settimio Basso nella prefettura di Roma sino alle calende di settembre, nel qual giorno succedette a lui in quella carica Valerio Massimo Basilio, il quale seguitò anche per li tre susseguenti anni, siccome dignità che non avea tempo fisso, e dipendeva dal solo volere del principe. Nel Catalogo del Cuspiniano, chiamato anche del Bucherio, egli si truova nei susseguenti anni appellato solamente Valerio Massimo; e varii rescritti di Costantino compariscono indirizzati a Massimo prefetto di Roma: che per quel solo cognome era egli più comunemente conosciuto. Il soggiorno dell'Augusto Costantino era tuttavia nell'Illirico, che abbracciava allora anche la Pannonia e la Dacia nuova: ciò apparendo da varie sue leggi. I motivi di fermarsi in quelle contrade, prive delle delizie dell'Italia e della Gallia, possiam credere che fossero l'amore verso un paese stato patria sua, ma più il vegliare agli andamenti dei Sarmati e di altre nazioni barbariche, sempre ansanti [1145] di bottinar nelle provincie romane. Forse anche era insorta guerra con loro. Sembra più verisimile ch'egli attendesse a fortificar quelle città, per essere all'ordine, giacchè correva sospetto che Licinio Augusto suo cognato macchinasse un dì guerra contro di lui. Ma quivi stando, non lasciava di promuovere il buon governo di Roma e dell'Italia, specialmente accudendo a levarne i disordini e gli abusi introdotti sotto i principi cattivi, e per istabilir dappertutto la umanità e la pace. Molte savie leggi da lui pubblicate in quest'anno si trovano raccolte dal Gotofredo [Gothofredus, Chron. Cod. Theodosian.] e dal Relando [Reland., Fast. Consul.]. Da due di esse [L. 1 et 2 de maleficiis.], date nel dì 1 di febbraio e 15 di maggio, raccogliamo ch'egli cominciò a metter freno alle imposture degli aruspici ed altri indovini della gentilità, acciocchè con vane speranze non ingannassero chi loro prestava fede; comandando che non potessero entrare in casa alcuna particolare per esercitarvi il lor mestiere, ma che loro unicamente fosse permesso il farlo nei templi e luoghi pubblici. Zosimo [Zosimus, l. 2, cap. 29.], fiero nemico di Costantino, pretende ch'egli solamente dopo la morte di Crispo e di Fausta prendesse avversione a quella razza di furbi, de' quali si fosse ben servito in addietro, con avergli predetto essi più fiate l'avvenire. Resta la di lui asserzione smentita dalle suddette sue leggi, scorgendosi che il saggio Augusto avea già scoperta la vanità di quell'arte, e la contava fra le superstizioni. Troppo lungi mi condurrebbe il ragionamento, se volessi qui rammentar tutte le sagge ordinazioni da lui fatte sopra altri soggetti in benefizio del pubblico, e riguardanti i servi, gli accusatori, le pasquinate, il mantenimento delle strade, varii artefici, gli sponsali, e così discorrendo. Truovansi ancora alcune leggi da lui date in Aquileia nel giugno e luglio di quest'anno; [1146] segno ch'egli venne sino alle porte d'Italia, se pur non sono fallate, come dirò, quelle date. Ma che andasse anche a Roma, qualche legge sembra indicarlo; contuttociò si può tener per fermo che sieno scorrette quelle date. Parlai poco fa di guerra coi Sarmati, ed in fatti crede il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che in quest'anno essa avesse principio, e continuasse nei tre seguenti; ma senza aver noi notizia sicura del tempo, anzi potendosi credere ciò non vero, per quel che osserveremo andando innanzi.
Anno di | Cristo CCCXX. Indizione VIII. |
Silvestro papa 7. | |
Costantino imperadore 14. | |
Licinio imperadore 14. |
Consoli
Flavio Valerio Costantino Augusto per la sesta volta e Flavio Valerio Costantino juniore Cesare.
Seguitò Valerio Massimo ad essere prefetto di Roma, e seguitò l'Augusto Costantino a dimorar nella Dacia, Pannonia e Mesia, e solamente nell'aprile venne ad Aquileia: del che ci porgono testimonianza le leggi [Gothofred., Chron. Cod. Theodos.] da lui pubblicate in que' luoghi, a riserva di quella Aquileja, il cui nome vien da me creduto fallato. In vigor d'esse egli raffrenò il rigore dei ricchi, che facilmente s'impadronivano dei beni de' poveri lor debitori, volendo che fossero rilasciati quei beni, qualora il debito venisse pagato in contanti. Altrove da noi fu fatta menzione della legge Papia [L. unica de Commissor. Cod. Theodos.], e dei regolamenti di Augusto contra chi non prendeva moglie, essendovi pene per questi tali, siccome all'incontro privilegii per chi s'ammogliava: e tutto ciò a fine di procrear figliuoli, dei quali scarseggiava la repubblica, correndo bisogni di gente per le guerre. Ma perciocchè questa legge era contraria alla verginità e continenza, [1147] virtù lodate dal Vangelo, Costantino, intento a favorir la religion cristiana, levò via le pene intimate contro chiunque era maritato [L. unica de infirmand. poen. caelib.], lasciando solamente i privilegii accordati dalla legge Papia a chi avea de' figliuoli. Per altro santo Ambrosio sostiene [Ambrosius, de Virginit., lib. 3.] che i paesi, dove erano più vergini, come Alessandria, l'Africa e l'Oriente, erano più popolati degli altri. Osservasi ancora che nell'anno presente fece Costantino risplendere l'animo suo misericordioso nell'ordinare che i debitori del fisco non sieno posti nelle prigioni segrete, riserbate ai soli rei di delitti, nè sieno flagellati, nè sottoposti ad altri supplizii inventati dall'insolenza e crudeltà de' giudici; ma che sieno detenuti in prigioni alla larga, dove ognun possa vederli. La dissolutezza poi de' costumi e lo sprezzo dell'onestà era una conseguenza della falsa religione dei gentili. Ne abbiam più volte toccata qualche cosa. Costantino prese a correggere alcuno di quegli eccessi. Al ratto delle vergini, divenuto oramai male familiare in Roma, provvide egli con assai rigorose pene, stendendole anche alle stesse fanciulle, che volle prive dell'eredità paterna e materna, ancorchè sembrassero rapite per forza, parendo a lui difficile che non fossero almen colpevoli d'aver avuta poca cura e precauzione nella custodia di un tesoro che lor dovea essere così caro. Provvide in parte ancora alla libidine delle donne che abbandonavano il loro onore agli schiavi [L. unica, de mulier., quae serv.], con intimar la pena della morte ad esse, e l'essere bruciati vivi ad essi schiavi, con escludere i lor figliuoli da ogni successione e dignità. E fin qui il paganesimo avea senza alcun divieto permesso alle persone maritate il tener delle concubine. Lo proibì Costantino [Ibid., de concubin. Cod. Justinian.], come abuso troppo contrario alle leggi e all'onestà del matrimonio. [1148] Fu egli nondimeno il primo che accordasse ai figli naturali qualche luogo nella eredità del padre. Ebbe parimente cura il buon imperadore de' prigioni accusati di qualche delitto, ordinando che i processi criminali colla maggior diligenza si terminassero; e che gli accusati fossero detenuti in luoghi comodi ed ariosi, soprattutto durante il giorno. Mise anche la pena di morte ai guardiani ed altri ministri delle carceri che maltrattassero i prigionieri o per cavarne del danaro o perchè ne avessero ricevuto dai lor nemici, minacciando l'indignazione sua ai magistrati che non li punissero. Con tutta ragion poi si crede che a quest'anno appartenga la vittoria riportata da Crispo Cesare contra de' popoli transrenani, di cui parla Nazario [Nazar., in Panegyr. Constant.] all'anno seguente. Altra particolarità non ne sappiamo, se non che questo giovinetto principe fu alle mani con loro, li vinse e supplichevoli gli ammise alla pace. Qualche medaglia [Mediobarb., Numism. Imp.] cel rappresenta vincitor degli Alamanni. Abbiamo ancora da Eusebio [Euseb., in Chronic.] che circa questi tempi Licinio imperador d'Oriente cominciò a scoprire il suo mal animo contra de' cristiani, perchè li cacciò tutti dalla sua corte.
Anno di | Cristo CCCXXI. Indizione IX. |
Silvestro papa 8. | |
Costantino imperadore 15. | |
Licinio imperadore 15. |
Consoli
Flavio Giulio Crispo Cesare per seconda volta e Flavio Valerio Costantino juniore Cesare per la seconda.
Valerio Massimo continuò tuttavia nella prefettura di Roma, e Costantino Augusto seguitò a dimorar nell'Illirico, come si ha dalle sue leggi [Gothofred., Chronic. Cod. Theodos.] date in [1149] Sirmio, Viminacio e Serdica. Una sola si osserva data in Aquileia. Ma il far saltare sì sovente Costantino dalla Pannonia e Dacia ad Aquileia, più di una volta ha somministrato motivo a me di sospettare che la data di quelle possa appartenere non ad Aquileia città d'Italia, ma bensì ad Aquas, o pure Aquis, luogo della Mesia superiore, dove probabilmente l'imperadore andava a bagnarsi. Trovasi appunto nell'anno 325 una legge [L. 1, de erogat. milit. Cod. Theodosian.] data in quel luogo. L'anno fu questo, in cui Nazario, chiamato insigne oratore da Eusebio [Euseb., in Chronico.], e lodato anche da Ausonio, recitò un panegirico, che tuttavia abbiamo, in lode di Costantino imperadore, in occasione dei voti quinquennali fatti nel dì primo di marzo per la salute di Crispo e di Costantino juniore Cesari, i quali entravano nell'anno quinto della dignità cesarea. Verisimilmente fu esso recitato in Roma, mentre essi Cesari e l'Augusto lor padre erano ben lontani di là, argomentandosi dal vedere sul fine un desiderio dell'oratore, che Roma possa oramai godere la consolazion di mirare il suo principe e i suoi figliuoli. Raccoglie Nazario [Nazar., in Panegyr. Constantin., cap. 38.] in poche parole nella perorazione i benefizii già fatti da Costantino al popolo romano e al resto dell'imperio, con dire che i Barbari al Reno erano stati respinti dalle Gallie, e nei loro stessi paesi aveano provato il filo delle spade romane. Che la nazion de' Persiani, la più potente che fosse allora dopo la romana, facea premura per istar amica di Costantino; nè si trovava nazion sì feroce e barbara, che non temesse od amasse un imperadore di tanto senno e valore. Che per tutte le città dell'imperio si teneva buona giustizia, si godeva un'invidiabil pace ed abbondanza di viveri. Che le città mirabilmente venivano ornate di nuove fabbriche, ed alcune di esse pareano interamente rinnovate. Che molte [1150] leggi pubblicate da Costantino tendevano tutte a riformare i costumi e a reprimere i vizii. Che le sofisticherie, le calunnie, le cabale non aveano più luogo nel foro, volendo egli che con semplicità si amministrasse la giustizia. Che le oneste donne erano in sicuro, ed onorato il matrimonio, col non soffrire gli adulterii e i concubinati. Finalmente che ognuno si godeva in pace il suo, senza paura di soperchierie dalla parte dei prepotenti, o concussioni da quella del fisco. Altrettanto s'ha da Optaziano [Optatianus, Panegyr. Constantin., apud Velserum.] nel panegirico di Costantino, con aggiugner egli che questo buon principe, per quanto poteva, addolciva il rigor delle leggi; e quantunque anche le sue fossero ben rigorose, pure egli con gran facilità accordava il perdono ai colpevoli. Abbiamo poi dal suddetto Nazario [Nazar., Panegyr., cap. 36.] che il giovinetto Crispo Cesare, dopo essersi acquistato non poco credito nella guerra contra degli Alamanni, venne nel furore d'un rigoroso verno, cioè ne' primi mesi dell'anno corrente, a ritrovar il padre Augusto, tuttavia soggiornante nell'Illirico.
In quelle parti appunto noi osserviamo pubblicate da lui molte leggi [Gothofr., in Chron. Cod. Theodos.], e massimamente in Sirmio. In una di esse [L. 1, de bonis proscript., Cod. Theod.], data in Serdica nel dì 27 di febbraio, egli temperò l'usato rigore delle confiscazioni per delitti, ordinando che restasse esente dalle griffe del fisco tutto quel che i delinquenti prima de' lor misfatti avessero donato alle mogli, ai figliuoli e ad altre persone, non essendo di dovere che chi non avea avuta parte ne' delitti, l'avesse nella pena. Comandò inoltre che i ministri del fisco nella memoria de' beni confiscati notassero sempre se il reo avea dei figliuoli; ed avendone, se loro avea fatta qualche donazione, con disegno, come si può credere, [1151] di far loro qualche grazia a proporzione del loro bisogno. V'ha un'altra legge sua [L. 1, de Paganis, Cod. Theodos.], in cui concede licenza di consultare gli aruspici, o sia gl'indovini della superstizione pagana: il che fece dubitare il cardinale Baronio [Baron., in Annal. Eccles.] e il Gotofredo [Gothofred., de Statu Christian.] che Costantino in questi tempi retrocedesse dalla religione cristiana per aderire alla falsa de' gentili. Ma siccome lo stesso Gotofredo, Giovanni Morino, il padre Pagi e il Relando hanno osservato, altro non fece quel grande Augusto, che permettere all'importunità dei Romani il continuare nel loro abuso di prestar fede a quelle imposture, perchè troppo si lagnavano di non poter prevedere i mali avvenire per guardarsene, come stoltamente si figuravano di raccogliere dalle viscere delle bestie sagrificate. E che in effetto più che mai stesse Costantino forte nell'amore e nella profession della fede di Cristo, si tocca con mano in riflettere ad alcune leggi da lui date in questo medesimo anno in favore della stessa santa religione. Nel dì 7 di marzo ordinò [L. Omnes Judices. De feriis, Cod. Theod.] che nel giorno di domenica cessassero tutti gli atti della giustizia, i mestieri e le occupazioni ordinarie della città, a riserva di quelle dell'agricoltura, in cui v'ha de' giorni che il lavorare è di grande importanza. Con altra sua legge, la quale fu pubblicata in Cagliari nel dì 3 di luglio, si vide [L. 1, de feriis, Cod. Theodos.] proibito in esso dì di domenica ai giusdicenti di far processi ed altri atti giudiciali, riserbando solamente il poter dare in esso giorno nelle chiese la libertà agli schiavi e il farne rogito, trattandosi in ciò di un atto di carità cristiana. Anche Eusebio [Euseb., in Vita Constantin., lib. 4, cap. 18.] fa menzione di questa legge, dicendo aver desiderato il piissimo imperadore che ognuno impiegasse quel santo giorno in orazioni al vero Dio, come egli faceva [1152] con tutta la sua casa. Concedeva anche vacanza ai soldati cristiani in tutto quel dì, acciocchè andassero alle chiese ad offerire a Dio le lor preghiere. Inoltre con legge [L. Habeat unusquisq. De Episc.] indirizzata al popolo romano, e pubblicata nel dì 3 di luglio, decretò lecito ad ognuno di lasciar nei testamenti quei beni che volessero alla Chiesa cattolica, e che queste ultime volontà sortissero il loro effetto. Or veggasi se Costantino si fosse punto alienato dalla già abbracciata religione di Gesù Cristo. Truovasi poi una legge [L. 3, de maleficiis, Cod. Theod.], la cui data è del dì 22 di giugno in Aquileia (se pur non fu, come dissi, Aquis nella Mesia), nella quale egli ordina di punir severamente chiunque impiega magia contro la vita e pudicizia altrui, lasciando poi la libertà di valersi di rimedii superstiziosi per guarir le malattie, o per conservare i beni della terra, o per altri usi che non recavano nocumento a chicchessia. Anche per questa licenza potrebbe taluno fare un reato al buon Costantino, quasichè egli non sapesse riprovate dalla legge santa de' cristiani quelle benchè non nocive superstizioni. Ma nè pur Costantino approvava quell'abuso; solamente lo permetteva ai pagani, come pur lasciava lor fare i sagrificii ai loro falsi dii. Non si può dire quanto fossero in voga presso i gentili gli amuleti e i rimedii superstiziosi, inventati dagl'impostori per la guarigione dei mali, per iscoprir l'avvenire, e per altri loro bisogni. Il saggio principe, che non volea ne' principii irritar troppo, e muovere a sedizioni l'immensa moltitudine dei pagani, con opprimere le loro benchè sciocche usanze, permetteva loro quelle stoltezze, giacchè di là non proveniva verun danno al pubblico, benchè sia da credere ch'egli se ne ridesse, e le detestasse ancora in suo cuore.
Anno di | Cristo CCCXXII. Indizione X. |
Silvestro papa 9. | |
Costantino imperadore 16. | |
Licinio imperadore 16. |
Consoli
Petronio Probiano ed Anicio Giuliano.
De' suddetti consoli si trova un bell'elogio fra gli epigrammi di Simmaco: la prefettura di Roma per questo anno ancora fu amministrata da Valerio Massimo. Quanto all'imperador Costantino, noi il troviam tuttavia di soggiorno nell'Illirico, ciò apparendo dalle sue leggi [Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.] date in Sirmio e Sabaria. E nell'anno presente appunto possiam credere che succedesse la guerra viva da lui fatta coi Sarmati, di cui parla Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 21.]. Il padre Pagi la fa cominciata fin dall'anno 319. Il Mezzabarba [Mediobarb., in Numismat. Imperat.] la mette all'anno precedente, e potrebbe essere cominciata allora. Il non fare Nazario, nel panegirico recitato l'anno avanti, menzione alcuna di tal guerra, assai motivo ci porge di tenerla insorta dopo il dì primo di marzo di esso anno, e probabilmente terminata nel presente, come han creduto il Gotofredo [Gothofredus, Chronolog. Cod. Theod.] e il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.]. Che fosse di molta importanza e di non lieve pericolo, si può raccogliere da Optaziano panegirista [Optatianus, Panegyr. Constant., cap. 32.], il quale asserisce che i Sarmati uniti ai Carpi e Geti, appellati poi Goti, furono più volte sconfitti da Costantino a Campona, a Margo e a Bononia città sul Danubio. Erano que' Barbari, per relazion di Zosimo, venuti all'assedio di una città di qua dal Danubio col loro re Rausimodo, figurandosi di poterla espugnare con facilità, perchè era bensì la parte inferiore [1154] delle mura di pietra viva, ma la superiore di legno. A questa attaccarono essi il fuoco, e diedero poi l'assalto. Dentro v'era una buona guarnigione, che con dardi e sassi seppe far gagliarda difesa, tanto che loro sopraggiunse alle spalle Costantino, che moltissimi ne uccise, e più ne fece prigioni. Il resto si salvò colla fuga di là dal Danubio coll'aiuto delle barche tenute da essi in pronto. Rinforzatosi dipoi Rausimodo con altra gente, meditava di tornar addosso ai Romani, quando l'ardito Costantino, valicato il Danubio, all'improvviso arrivò loro addosso vicino ad una collina piena di boschi, e ne fece grande strage, restandovi fra gli altri ucciso lo stesso re Rausimodo. Assaissimi furono i prigionieri, e il resto di que' Barbari, deposte l'armi, dimandò quartiere; sicchè con gran moltitudine di prigioni il vittorioso Augusto se ne tornò di qua dal Danubio, e distribuì per varie città quella barbara gente, dando loro, secondo il costume, dei terreni dal coltivare [Du Cange, Hist. Byz.]. Restano varie medaglie [Mediob., in Numismat. Imperator.] che attestano la suddetta vittoria, spettanti più verisimilmente all'anno presente che al precedente. Trovasi ancora fatta menzione da lì innanzi nel Codice Teodosiano de' giuochi sarmatici, i quali possiam conghietturare istituiti in memoria di questa gloriosa Vittoria. Si facevano essi sul fine di novembre e principio di dicembre, come s'ha da un calendario dell'Hervagio. Mandò in quest'anno l'Augusto Costantino a Roma Crispo Cesare suo figliuolo con Elena avola sua, e in riguardo loro volle rallegrar il popolo romano, con far grazia a tutti i rei di varii delitti, a riserva del veleno, omicidio ed adulterio. Così intende quella legge [Lib. 1, de indulgen. crim., Cod. Theod.] il Gotofredo: legge nondimeno oscura, perchè vi sta solamente scritto: propter Crispi, adque Helenae partum: il che diede molto da [1155] pensare al cardinal Baronio [Baron., in Annal.]. Conghietturò il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] con altri, che qui si parlasse del parto di un'Elena moglie di Crispo; ma di questo maritaggio niun vestigio abbiano nella storia. Però esso Gotofredo in vece di partum legge paratum, o apparatum, con interpretare l'andata di Crispo e d'Elena sua nonna all'augusta città. In questo anno ancora, siccome nel seguente, pubblicò Costantino leggi favorevoli a chi degli schiavi pretendeva di essere stato messo in libertà, qualor questa gli fosse messa in dubbio.
Anno di | Cristo CCCXXIII. Indizione XI. |
Silvestro papa 10. | |
Costantino imperadore 17. | |
Licinio imperadore 17. |
Consoli
Acilio Severo e Vettio Rufino.
Un'iscrizione dal Doni e da me [Thes. Novus Inscript., pag. 373.] data alla luce, fu posta a Caio Vettio Cossinio Rufino, prefetto di Roma e proconsole dell'Acaia, che sembra veramente spettante al secondo console di quest'anno, avendo in fatti Vettio Rufino esercitata la prefettura urbana nell'anno 315, e non trovandosene altro di questo nome ornato di quella dignità. Per più anni avea Valerio Massimo tenuta la medesima carica; ma nel presente a lui fu sostituito in essa Lucerio ossia Lucrio Verino nel dì 13 di settembre, come si ha ancora dall'antico Catalogo del Cuspiniano [Cuspinianus, Panvinius, Bucherius.]. Una legge di Costantino Augusto, data nel gennaio o febbraio di quest'anno, cel fa vedere in Tessalonica ossia Salonichi, città della Macedonia. Il motivo, per cui egli si fosse portato colà, l'abbiamo da Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 22.], cioè per fabbricar quivi un porto, essendone dianzi priva quella città. Abbiamo poi una sua [1156] legge [L. 1, de Episcop., Cod. Theodos.] data in Sirmio nel dì 25 di maggio. Gli fu riferita una vessazione recata dai Pagani ai Cristiani, con volere che ancor questi intervenissero ai sagrifizii delle loro lustrazioni: azione incompatibile colla purità della religione di Cristo. Perciò ordinò esso Augusto, che chiunque del basso popolo facesse loro violenza in materia di religione, fosse sonoramente bastonato, e gli altri di condizione più alta fossero condannati a pene pecuniarie. Fu poi questo un anno memorando per le imprese bellicose dell'imperadore suddetto. Avvenne che i Goti [Anonymus Valesian.] nell'anno presente (se pur non fu nel precedente) avendo osservata poca guardia nella Tracia e nella Mesia Inferiore, provincia spettanti a Licinio Augusto, fecero colà una grande incursione, saccheggiando e menando in ischiavitù una gran moltitudine di gente. Fossero costoro passati anche nelle terre dipendenti da Costantino, o pur temendo egli che vi passassero, nè veggendo egli provvisione al bisogno dalla parte di Licinio, mosse l'armi sue contra di que' Barbari da Tessalonica; e con tal empito giunse loro addosso, ch'ebbero per grazia il poter impetrar da lui la pace colla restituzion dei prigioni. Due leggi [Lib. 1, de re militar., et lib. 1, de comment., Cod. Theodos.] da lui date sul fine di aprile, dove parla delle scorrerie de' Barbari e de' saccheggi familiari a quelle nazioni, con imporre fra le altre cose gravissime pene a chiunque tenesse mano alle loro violenze e bottini, han fatto credere che ne' primi mesi dell'anno corrente succedesse questa barbarica irruzione. Ma perciocchè Costantino o andasse ad assalir costoro nelle giurisdizion di Licinio, o pur vi entrasse per necessità d'inseguirli, Licinio, in vece di ringraziarlo pel benefizio fatto a' sudditi suoi, con liberarli dall'oppression dei Goti, ne fece un'amara querela, come [1157] se Costantino avesse violati i patti, ed esercitata una prepotenza nel paese non suo. Fece quanto potè Costantino per giustificar l'azione sua, e mostrar indiscreti que' lamenti. A nulla giovarono le lettere e deputazioni. Licinio non ammettendo scuse, più che mai parlava alto col cognato Augusto, di maniera che Costantino, perduta la pazienza, alzò anch'egli la testa, e non facendo frutto le minaccie, venne in fine a guerra aperta con esso Licinio.
Era già assai tempo che si conoscevano raffreddati gli animi di questi due Augusti e cognati. Licinio, se crediamo all'apostata Giuliano [Julian., de Caesarib.], era odiato da Dio e dagli uomini per l'abbondanza ed enormità de' suoi vizii. Imperocchè, per attestato d'Eusebio [Euseb., Histor. Eccles., lib. 9, cap. 8; et Vita Const., lib. 1, cap. 55.] e di Aurelio Vittore [Aurel. Victor, in Epitome.], la brutalità sua nella libidine si tirava dietro la detestazione d'ognuno, perchè non era sicura l'onestà di persona alcuna o vergine o maritata, dalle di lui violenze; nè bastando a lui di svergognar dal suo canto le famiglie più nobili, permetteva anche ai suoi cortigiani di saziar, come volevano, le lor voglie impure senza rispetto alcuno alle case più riguardevoli. Di tutto ciò è da credere che fosse ben mal contento l'Augusto Costantino, da che a lui avea conceduta Costanza sua sorella in moglie. Superiore nulladimeno alla di lui sfrenata libidine era l'avarizia, febbre sua oltre modo cocente. Da questa provenne un'infinità di mali, perchè per adunar danari s'inventavano ogni dì nuovi pretesti; e gran disavventura si riputava allora l'essere facoltoso, perchè non mancavano mai accusatori e delitti da gastigare, cioè da spogliare gl'innocenti de' loro beni. Non mancavano già aggravii reali e personali ai popoli; ma Licinio sapea far ben crescere questa gravosa mercatanzia, coll'inventar [1158] nuovi estimi, e far trovare più campi dove non erano, e far risuscitare chi da gran tempo più non si contava tra i vivi. Seppe anche trovar la sua avarizia delle insolite gravezze per cavar dai testamenti e dai maritaggi grosse somme di danaro. E pure con tutto il suo succiar continuamente il sangue de' suoi popoli, ed ammassar tesori, il bello era che tutto dì egli si lagnava di essere poverissimo e miserabile, come in fatti son tutti gli avari, i quali non godono quel che hanno, e muoiono sol di voglia di quel che non hanno. Osservavasi oltre a ciò in lui un'esecrabile crudeltà, col non volere che alcuno assistesse ai prigioni, sotto pena d'essere cacciato nelle medesime carceri, e proibendo l'aver compassione d'essi, e il somministrar da mangiare a chi si moriva di fame, facendo con ciò diventare un delitto le opere della misericordia. Se un principe tale fosse amato da' sudditi suoi, non occorre ch'io lo ricordi ai lettori. Tutto il rovescio era l'Augusto Costantino, di modo che Eusebio [Euseb., in Vita Const., lib. 1, cap. 49.], scrittore che fioriva in questi tempi, ebbe a dire che l'imperio romano, diviso allora fra questi due principi, parea simile al dì e alla notte. La parte di Costantino, cioè l'Occidente, compariva un bel giorno sereno; ma l'Oriente, dominato da Licinio, si poteva affatto assomigliare alla notte.
Ma ciò che maggiormente a Costantino riuscì dispiacevole, e da non sofferire nell'indegno suo cognato Licinio, fu la persecuzione da lui mossa contra dei Cristiani, il numero de' quali nelle provincie dell'Asia e dell'Egitto di gran lunga a proporzione superava quei dell'Occidente. Già dicemmo ch'egli cacciò di sua corte chiunque professava la religione cristiana. Ordinò poscia che i vescovi non potessero celebrar concilio alcuno; che il popolo cristiano non potesse raccogliersi nelle chiese per fare le sue divozioni, ma che loro fosse lecito [1159] solamente a cielo aperto: perchè si figurava che le loro orazioni avessero per iscopo la salute e felicità di Costantino, e non già la sua, e che tramassero sempre delle congiure contra di lui. Fece inoltre cassare chiunque de' soldati non sagrificava agl'idoli; cacciò in esilio i nobili professanti la legge di Cristo; e passò in fine a minacciar la morte a chiunque abbracciasse questa santa religione [Euseb., in Vita Const., lib. 2, cap. 3 et seq.]. Ma perciocchè la paura che egli aveva di Costantino il riteneva dal muovere una pubblica persecuzione contra de' Cristiani, prese a farla il più cautamente o segretamente che poteva, con insidie e calunnie, le quali costarono la vita a molti innocenti vescovi, e l'atterramento di non poche chiese in Amasia ed in altre città, senza volersi riflettere all'infausto fine di tanti suoi predecessori, persecutori della Chiesa di Dio. Tutto questo non poteva se non dispiacere al piissimo Costantino, perchè contrario agli editti concordemente pubblicati in favor della religione cristiana, ed insieme ai patti della pace stipulata dopo la battaglia di Cibala; e tanto più che ciò parea fatto per far dispetto ad esso Augusto, professore e protettore di questa religione. Perciò a questi dissapori aggiunto l'altro che di sopra accennai della guerra coi Goti, si venne all'armi, ed ognun degli Augusti gran preparamento fece per terra e per mare. Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 22.] minutamente descrive la flotta allestita da Licinio consistente in trecentocinquanta galee raccolte dall'Egitto, Fenicia, Cipro, Bitinia ed altri luoghi, e in quasi centocinquanta mila fanti, e quindici mila cavalli cavati dalla Frigia e Cappadocia. Costantino, all'incontro, unì dugento grossi legni, due mila altri da carico, cento venti mila pedoni, con circa dieci mila cavalli. Che nel di lui esercito si contassero moltissimi Goti ausiliarii, lo abbiamo da Giordano [Jordan., de Reb. Getic.]. Venne Licinio [1160] a postarsi ad Andrinopoli con tutte le sue forze. Costantino anch'egli marciò da Tessalonica a quella volta colle sue, menando seco non già de' maghi, indovini ed altri ciurmatori, come facea Licinio, ma dei santi vescovi e ministri della Chiesa, perchè delle orazioni loro più che mai avea allora bisogno, e in queste più che nelle armi metteva la sua fidanza. Per lo contrario strideva Licinio a tutto pasto della divozione di Costantino e de' suoi cherici; e perchè a lui i suoi falsi aruspici e sacerdoti promettevano senza fallo vittorie, tutto altero e coraggioso si dispose alla pugna. Ma prima fece di molti sagrifizii in un sacro bosco ai suoi idoli, e tenne un ragionamento ai suoi cortigiani, proponendo che si vedrebbe ora chi avesse più forza, o tanti antichi suoi dii, o pure il nuovo e vergognoso Dio di Costantino.
Stettero qualche dì le due armate a vista, ma separate dal fiume Ebro nella Tracia. Costantino, impaziente di venir alle mani, finse di voler gittare un ponte ad un passo stretto con preparar gran copia di materiali [Zosimus, lib. 2, cap. 22.]; ma un dì condotta seco parte dell'esercito suo, passando per mezzo ad una folta selva, andò a trovar un guado dianzi adocchiato in quel fiume. Passò egli arditamente con soli dodici cavalieri, ed immantinente si scagliò contro i primi delle guardie nemiche ivi esistenti, che sbalordite per l'impensato assalto, parte restarono trucidate, parte diedero alle gambe. Ebbe con ciò comodo la di lui armata di passar tutta di là dal fiume; e in quello stesso giorno, come sembra indicare lo storico Zosimo, o pure in altro dì, egli è fuor di dubbio che si venne dipoi ad una giornata campale. Secondo il calendario del Bucherio [Bucher., de Cyclo.], nel dì 3 di luglio accadde quel memorabil e sanguinoso conflitto, in cui il segnale dato ai soldati dalla parte di Costantino fu Dio Salvator nostro [Euseb., in Vita Constan., lib. 2, cap. 6.], e [1161] coll'aiuto d'esso il pio Augusto riportò in fine una segnalata vittoria. Ci assicura Eusebio d'aver inteso dalla bocca del medesimo imperadore, che cinquanta delle sue guardie, tutti cristiani, furono scelti per portare l'insegna della Croce santa per mezzo l'esercito suo, e che dovunque compariva questa sacra bandiera, restavano sbaragliati i nemici. Trentaquattro mila persone rimasero estinte sul campo, la maggior parte di quei di Licinio, e molti con arrendersi salvarono le vite. Lo stesso Costantino che si cacciò anche egli nella mischia, ne riportò una lieve ferita. Verso la sera furono presi gli alloggiamenti nemici, e nel dì seguente essendosi trovati più branchi di soldati fuggiti di Licinio qua e là sparsi, parte volontariamente venne all'ubbidienza di Costantino, e parte ostinata fu messa a filo di spada. Raccomandatosi alle gambe d'un poderoso destriero fuggì Licinio a Bisanzio: e quivi si afforzò per sostenere un assedio [Anonym. Valesianus. Zosim., lib. 2, cap. 23.], confidato spezialmente nella flotta sua, comandata da Abanto, ossia da Amando, uffiziale di molta sperienza e valore. Ma lento non fu il vittorioso Costantino ad inseguire co' suoi il fuggitivo nemico, e ad imprendere l'assedio di Bisanzio. Conoscendo poi l'impossibilità di riuscir nell'impresa, finchè l'armata navale di Licinio mantenesse la comunicazion dell'Asia con quella città; ordinò a Crispo Cesare suo figliuolo di far vela colla sua flotta, per venire a nuova battaglia in mare. Trovaronsi a fronte le due armate navali nello stretto di Gallipoli; quella di Licinio era composta di dugento navi; e i capitani di Costantino ne scelsero solamente ottanta delle meglio corredate e più forti. Derideva Abanto, generale di Licinio, il poco numero dei legni nemici, e si credeva d'ingoiarli col tanto superiore de' suoi; ma alle pruove si trovò ingannato. Con ordine procedevano quei di Costantino alla pugna; senza ordine gli altri; e la moltitudine di tante navi non servì loro se non d'imbroglio, [1162] perchè urtandosi nel sito stretto l'una con l'altra, cagion fu che molte d'esse coi soldati e marinari perissero. La notte separò la zuffa. Fatto poi giorno, pensava Abanto di venire al secondo combattimento, quando levatosi un vento furioso spinse la di lui flotta con tal empito ne' sassi e lidi dell'Asia, che perirono cento e trenta delle sue navi e circa cinque mila de' suoi soldati, combattendo in questa maniera Dio contra di chi era nemico del suo nome [Euseb., Hist. Eccles., lib. 10, cap. 9.]. Se ne fuggì Abanto, e lasciò aperto il varco alla flotta di Costantino, se voleva inoltrarsi e passare anch'essa ad assediar Bisanzio per mare.
Ma Licinio, ravvisato il pericolo, colle migliori sue milizie e coi tesori si ritirò, e andò a piantarsi in Calcedonia dell'Asia, con isperanza di rimettere in piedi una nuova armata, e di trovare in altri incontri più propizia la sorte. Aveva egli stando in Bisanzio, secondo l'Anonimo del Valesio, dichiarato Cesare [Anonymus Valesianus. Aurel. Victor, in Epitome.] Martiniano sopraintendente a tutti gli uffiziali della sua corte, per valersi di questo campione a riparar le sue perdite. Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 25.] e l'altro Vittore [Victor, de Caesarib.] scrivono che tal determinazione fu da lui presa, dappoichè si fu ritirato a Calcedonia. Abbiamo medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imperat.], dove il troviamo appellato Marco Martiniano, e decorato, non solamente del titolo di Cesare, ma anche d'Augusto: il che discordando dagli antichi storici ci può far giustamente dubitar d'impostura in quelle medaglie; giacchè (convien pure ripeterlo) non sono mancati ne' due ultimi secoli fabbricatori d'iscrizioni e medaglie, rivolti a far mercato della curiosità degli eruditi. Fu spedito Marciniano a Lampsaco per impedire il passaggio della flotta di Costantino; ma l'assennato e prode Augusto, in vece di valersi delle navi grosse [1163] da carico, si servì di alcune centinaia di barchette, ed empiutele di soldatesche, felicemente le fece passar lo Stretto, e andò a sbarcar nella Bitinia circa trenta miglia lungi da Calcedonia, dove soggiornava Licinio. Benchè Costantino desse tanto tempo al cognato da ravvedersi e da chiedere pace, egli non si era saputo fin qui umiliare; perchè tante volte ingannato dai suoi falsi dii e sacerdoti, pure cercava dei nuovi dii che gli recassero aiuto: laddove Costantino non di altro si fidava che della protezione del vero Dio, e a lui continuamente ricorreva con preghiere. Contuttociò si raccoglie da Eusebio [Euseb., in Vita Costantini, lib. 2, cap. 15.] che qualche trattato e concordia seguì fra loro; ma non sincera dalla parte di Licinio, il quale cercò in questa maniera di addormentar Costantino, per unire intanto una poderosa armata. Non furono occulti i di lui disegni, e si venne a scoprire ch'egli da tutte le nazioni barbare cercava soccorsi, ed in fatti ottenne un grosso rinforzo dai Goti: il perchè Costantino determinò di schiacciar la testa, se poteva, a questo serpente, con venire ad una nuova battaglia, se pur non fu lo stesso Licinio il primo a volerla, siccome risulta da Eusebio. Abbiamo da Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 26.], che nell'armata di Licinio si contavano cento trenta mila combattenti, avendo egli richiamato Martiniano da Lampsaco colle milizie inviate colà. Con quanta gente procedesse a quel fatto d'armi Costantino, nol sappiamo. Si venne alle mani. Licinio facea portar fra le schiere le statue de' suoi falsi dii per incoraggiare i suoi. Le insegne di Costantino colla croce quelle erano che promettevano sicura vittoria a lui: e così fu. S'affrontarono le armate a Crisopoli [Anonym. Valesianus.] in poca distanza da Calcedonia nel dì 18 di settembre; andò in rotta ben presto quella di Licinio; e tale strage ne fu fatta, che Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 26.] [1164] giunse ad aprir ben la bocca con dire, esservi periti cento mila de' suoi. Ma più sicuro sarà l'attenersi all'Anonimo di Valesio, che mette solamente venticinque mila stesi morti sul campo. Questa insigne vittoria si tirò dietro la presa di Bisanzio, e poi di Calcedonia.
Ritirossi Licinio con que' pochi che potè raunare a Nicomedia; ma incalzato dall'armi vittoriose di Costantino, senza dimora assediato in quella città, altro scampo non ebbe che d'inviar supplichevole Costanza sua moglie al fratello Costantino. Andò essa, ed ottenne salva la vita al consorte. Venne poscia il medesimo Licinio nel campo a' piedi di Costantino, in cui mano rimise la porpora imperiale; riconobbe lui per suo signore ed imperadore, ed umilmente dimandò perdono delle cose passate. Costantino il tenne seco a tavola, poscia il mandò come in luogo di rilegazione a Tessalonica, essendosi, per quanto scrive Zosimo, obbligato con giuramento alla sorella di conservargli la vita. Per conto di Martiniano Cesare, Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] e Zosimo [Zosimus, lib 2, cap. 28.] scrivono che per ordine di Costantino dalle guardie fu immediatamente tagliato a pezzi. L'Anonimo Valesiano vuol che per allora gli fosse lasciata la vita, ma questa dopo qualche tempo tolta gli fu nella Cappadocia. Così il giovane Licinio, nipote di Costantino, perchè figliuolo di Costanza sua sorella, e di pochi anni di età, se crediamo a Teofane [Theophan., Chronographia.], restò spogliato della porpora e del titolo di Cesare; ma dopo tre anni, siccome vedremo, anch'egli fu ucciso. Alcune medaglie presso il Du-Cange [Du-Cange, Hist. Byz.] ed altri, cel rappresentano Cesare anche dipoi; ma della legittimità d'esse noi non siamo bastevolmente sicuri; e certo poco verisimile si scorge che a lui fosse lasciato un titolo di tanto decoro. Che a [1165] molti ancora de' ministri ed uffiziali di Licinio, principali in addietro persecutori dei cristiani, fosse reciso il capo, non dimenticò di dirlo Eusebio [Euseb., in Vita Constant., lib. 2, cap. 18.]. Per tali vittorie in pochissimo tempo tutte le provincie romane dell'Oriente coll'Egitto vennero all'ubbidienza di Costantino: con che l'antico romano imperio, dopo tante divisioni e vicende, si vide totalmente riunito sotto la signoria di un solo Augusto. E tutto ciò nell'anno presente 323, giacchè non pare sussistente l'opinione del Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], che vuol cominciata in questo e terminata nell'anno seguente la guerra suddetta. Che i popoli dell'Oriente, liberati dal pesante giogo di Licinio, si rallegrassero di tal mutazione, e che anche i pagani romani giubilassero al mirar saldate tante piaghe del loro imperio, si può facilmente immaginare. Ma non è già l'esprimere la allegrezza degl'innumerabili cristiani, sparsi per tutte le terre d'esso imperio, in vedere vittoriosa la Croce di tanti suoi nemici, e divenuto padrone di sì vasta monarchia un adoratore della medesima. Nè già tardò Costantino a liberar dalle carceri, a richiamar dall'esilio e dai metalli, e a rimettere in possesso dei lor beni, tanti d'essi cristiani che aveane provata la persecuzion di Licinio. Ed a coloro che, per esser seguaci di Cristo, era stato tolto il cingolo militare, fu permesso il rientrar, se volevano, nell'onore della milizia.
Intorno a questi tempi venne a mettersi sotto la protezione dell'Augusto Costantino, Ormisda figlio primogenito di Ormisda II, re della Persia. Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 27.] è quello che ci ha conservati gli avvenimenti di questo principe. Perchè nel giorno natalizio del re suo padre i grandi non gli fecero quell'onore che era dovuto ad un principe ereditario, il giovane si lasciò scappar di bocca, che se arrivava alla corona, voleva far loro [1166] provare le sorte di Marsia. Non intesero quei magnati allora che volesse ciò dire; ma informati dipoi da un Persiano stato nella Frigia, significar ciò che sarebbono scorticati vivi, se la legarono al dito. Venuto dunque a morte il re suo padre, quando Ormisda si pensava di succedergli, scoppiò la congiura de' grandi, che lui preso confinarono in un castello, con crear poscia re Sapore, suo fratello minore. Questi, se vogliam credere ad Agatia [Agathias, Histor.], non era per anche nato; ma perchè la regina si trovava incinta, e i magi predicevano che nascerebbe un maschio, i Persiani misero la tiara, ossia la corona sul ventre della madre, che in fatti partorì un fanciullo. Ma dopo qualche tempo l'industriosa moglie d'Ormisda trovò la maniera di liberarlo, inviandogli, per mezzo di un fidato eunuco, un grosso pesce, nel cui ventre stava nascosa una lima, e facendogli sapere di mangiarne, allorchè niun fosse presente, e di valersi del ventre di quel pesce. Nello stesso tempo inviò gran copia di vivande e di vini ai guardiani delle carceri, i quali abborracchiati ben bene, ne rimasero tutti ubbriachi. Allora il prigioniero Ormisda, aperto il pesce e trovata la lima, segò i ceppi, e per mezzo de' balordi custodi uscì fuori, e si rifugiò nella Armenia. Quivi fu ben ricevuto da quel re suo amico, e con una scorta inviato a Costantino, che l'accolse con onore, e trattollo sempre da par suo colla moglie, a lui, secondo Zonara [Zonaras, in Annalibus.], rimandata dai Persiani. Ma Costantino niun altro impegno volle mai prendere in favore di lui. Attesta Ammiano [Ammianus, lib. 16, cap. 10.] che in molta considerazione fu esso Ormisda anche sotto Costanzo Augusto per la sua saviezza. Allorchè esso Costanzo, nell'anno di Cristo 356, fu a Roma, in osservare la mirabil piazza di Traiano, e la suntuosa statua a cavallo del medesimo Augusto, disse ad Ormisda, di voler [1167] fare per sè una somigliante cavallo. Gli rispose Ormisda: Signore, fate prima una stalla uguale a questa, se potete, acciocchè vi stia bene il cavallo che pensate di fare. Interrogato ancora del suo sentimento intorno alle grandiosità e alle mirabili cose di Roma rispose: Solamente essergli piaciuto (vi ha chi crede che dicesse dispiaciuto) d'aver imparato che anche in Roma gli uomini morivano. Benchè ci sieno delle dispute fra gli eruditi [Gothofredus, Valesius, Pagius, Tillemont et alii.] intorno al tempo, in cui Costanzo, secondo figliuolo di Costantino Augusto e di Fausta, fu creato Cesare dal padre: pure sembra opinione più ricevuta il credere che in quest'anno nel dì 3 di novembre fosse a lui conferita quella dignità [Idacius, in Fastis. Chron. Alexandrinum. Pagius, Critic. Baron.]. Era egli in età di sei o sette anni, perchè nato nell'agosto dell'anno 317.
Anno di | Cristo CCCXXIV. Indizione XII. |
Silvestro papa 11. | |
Costantino imperadore 18. |
Consoli
Flavio Giulio Crispo Cesare per la terza volta, e Flavio Valerio Costantino Cesare per la terza.
Prefetto di Roma nel Catalogo del Cuspiniano, ossia del Bucherio, continuò ad essere nell'anno presente Lucerio ossia Lucerio Valerio Verino. Secondo l'asserzione d'Idacio [Idacius, in Fastis.], che mette in un anno la totale sconfitta di Licinio, e nel seguente la di lui morte, dovrebbe Licinio, coerentemente a quanto s'è detto di sopra, essere giunto nel presente al fine de' suoi giorni. Il Pagi [Pagius, Crit. Baron., ad hunc annum et seq.], che pretese atterrato Licinio solamente nell'anno corrente, differisce la di lui morte al seguente. Eusebio [Eusebius, in Chron.], dopo aver [1168] detto che Costanzo fu creato Cesare (il che anche da esso padre Pagi vien riferito all'anno 323), seguita a narrar la morte d'esso Licinio. Quello intanto che non cade in controversia, si è che mentre Licinio inviato a soggiornare in Tessalonica, dove si può credere che godesse libertà e buon trattamento, quivi per ordine di Costantino fu strangolato. Non solamente Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 28.] ed Eutropio [Eutropius, in Breviar.] autori pagani, ma anche Eusebio nella sua Cronica (se pur non è san Girolamo traduttore della medesima) chiaramente dicono che Costantino, in torgli la vita, mancò alla promessa e al giuramento da lui fatto a Costanza, sua sorella e di lui moglie, di lasciarlo in vita. E Zosimo, autore per altro di umore alterato contro le azioni di questo invitto principe, aggiunge che non era in lui cosa insolita il violar la parola e i giuramenti. Eusebio [Eusebius, in Vita Const., lib. 2, cap. 48.], nella vita di esso Costantino, altro non dice, se non che Licinio dal consiglio di guerra fu giudicato degno di non più vivere. E l'Anonimo Valesiano [Anonym. Valesianus.] pare che scriva, avere i soldati in un tumulto dimandata la di lui morte, e che vi acconsentisse Costantino per tema ch'egli, imitando Massimiano Erculio, un qualche dì ripigliasse la porpora. Quel solo che può sembrar più verisimile, si è il dirsi da Socrate [Socrat., Hist. Eccl., lib. 1, cap. 4.], che egli tolto fu dal mondo perchè sollecitava i Barbari in suo favore. Qualche movimento d'essi in questi tempi probabilmente fece sospettare che avesse origine dai segreti impulsi di Licinio, e però piombò sopra di lui la sentenza di morte, arrivando anch'egli, per giusto giudizio di Dio, al fine di tanti altri persecutori della santa ed innocente religione di Cristo. Furono perciò cassati i decreti ed altri atti di Licinio, fatti durante la di lui tirannia. Poche sono le leggi di Costantino sotto [1169] l'anno presente, e queste cel fanno vedere in Sirmio e Tessalonica. Nè apparenza alcuna ci è ch'egli venisse a Roma, come s'avvisò il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.], il quale racconta succeduto in quella gran città il battesimo d'esso Augusto, la sontuosa donazione che si pretende da lui fatta alla Chiesa romana, la lepra del medesimo, con altri assai strepitosi avvenimenti. Niuno v'ha oggi dei letterati che non conosca essere tai fatti invenzioni favolose de' secoli posteriori, nè io mi fermerò punto ad esporne la falsità, perchè superfluo sarebbe il dirne di più. Quel sì che può appartenere all'anno presente, si è la premura del piissimo Costantino per soffocare la già insorta eresia d'Ario contraria alla divinità del nostro Signor Gesù Cristo. Gran tumulto per questa bolliva in Egitto e nei paesi circonvicini; ed Alessandro vescovo santo di Alessandria avea già scomunicato l'ostinato eresiarca. Maraviglia è che Costantino solamente catecumeno allora nella fede di Cristo, dopo aver vedute le dissensioni de' cristiani nell'Africa per la petulanza de' Donatisti senza poterle acquetare, trovando nato anche un più fiero scisma per cagion d'Ario, non si scandalizzasse e formasse cattiva opinion de' cristiani. Ma il saggio Augusto, ben riflettendo questi non essere mali o difetti della religione in sè santissima, ma bensì dei mortali troppo esposti al furor delle passioni; e sentendosi ben radicato nell'amore d'essa religione, concepì anzi uno zelo grande per ismorzar quell'incendio. Perciò da Nicomedia spedì un suo fedel deputato ad Alessandria, che si crede essere stato Osio, insigne vescovo di Cordova, per mettere la pace fra Alessandro ed Ario. Bellissima è la lettera da lui scritta in questa occasione, rapportata da Eusebio Cesariense, se non che egli si mostra in essa poco conoscente della controversia de' cattolici con Ario, perchè probabilmente mal informato da Eusebio vescovo di Nicomedia, [1170] gran protettore del medesimo Ario, e sommo imbroglione, il quale si era, non ostante i suoi demeriti, introdotto forte nella corte dell'imperadore. Venuta dipoi una sincera informazione del fatto, scrisse egli un'altra lettera piena di zelo contra dell'eresiarca. Ma indarno la scrisse. Chiaritosi dipoi che non v'era mezzo per mettere in dovere l'orgoglioso Ario, perchè assistito e fomentato da varii vescovi suoi partigiani, non potè lo zelantissimo principe ritener le lagrime, e ricorse poi al ripiego di far celebrar per questa causa nell'anno seguente il famoso concilio di Nicea, di cui parleremo. Credono il Baronio [Baron., Annal. Eccl.] e il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] che in questi tempi avvenisse ciò che racconta s. Giovanni Grisostomo detto da san Flaviano a Teodosio Augusto. Cioè che avendo i furiosi Ariani in Egitto scoperto l'Augusto Costantino contrario all'empia loro opinione, sfogarono la loro rabbia contra delle di lui statue, sfregiandole con una pioggia di sassate. Saputo che l'ebbe, non se ne alterò punto il magnanimo imperadore; e perchè i suoi cortigiani pur lo instigavano a farne vendetta, si mise la mano al volto, e tastatoselo, sorridendo poi disse che non si sentiva ferita alcuna: il che fece ammutolire gli adulatori consiglieri.
Benchè poi, per quanto ho detto, poche leggi si riconoscano date nell'anno presente da Costantino, pure Eusebio [Euseb., Vit. Constant., lib. 2, c. 19. Idem, Hist. Eccles., lib. 9, cap. 9.] si stende a raccontar varie nobilissime di lui azioni e costituzioni fatte, dappoichè colla caduta di Licinio egli ebbe uniti gli imperii d'Occidente e d'Oriente, tutte in favore del pubblico e della professata da lui religione di Cristo. Molte furono le provvisioni da lui fatte per rimettere la felicità nelle conquistate provincie dell'Oriente e dell'Egitto, diffondendo spezialmente le rugiade della sua munificenza sopra que' popoli cotanto in addietro [1171] estenuati dalle estorsioni di Licinio: di modo che a tutti parve di rinascere da morte a vita, e sembrava loro un miracolo tanta mutazione di cose. Ma quello, a che maggiormente si applicò il piissimo imperadore, fu di favorire i cristiani, e di dilatare la loro religione, scorgendo provenuto dalla santità e verità di essa il conseguimento di tante sue vittorie, e l'abbassamento di qualsivoglia persecutore della medesima. Leggesi presso Eusebio l'ampio editto da lui pubblicato per i cristiani in addietro oppressi, e per la ristituzion delle chiese e dei loro beni. Poscia, per promuovere la cristiana religione, diede fuori altre leggi di gran forza contro dei professori del paganesimo [Euseb., Vit. Constant., lib. 2, cap. 44.], con esortar ognuno, ma senza forzare alcuno, ad abbracciar il culto del vero Dio. Cominciò ad inviar nelle provincie governatori per lo più cristiani, o se pur gentili, loro era vietato di sacrificare e di far alcun'altra azione d'idolatria, affinchè le persone tuttavia dedite agl'idoli si disavvezzassero dal prestar loro onore e fede. Ordinò che si ristabilissero le chiese già abbattute, che se ne fabbricassero dell'altre e più magnifiche, sperando di vedere un dì tutti i suoi sudditi adoratori di Gesù Cristo, e volle che l'erario suo soccombesse a tutte le occorrenti spese. Abbiamo inoltre un editto composto da lui stesso in latino, e tradotto in greco da Eusebio, in cui, deplorando la cecità dei suoi predecessori nell'adorare i falsi dii, esorta in forma patetica tutti i sudditi suoi a riconoscere e venerare Iddio creatore del mondo, notando che già in qualche paese erano stati aboliti gl'idoli, ed interamente cessato il sacrilego lor culto: del che sommo piacere egli sentiva. Proibì ancora le imposture degli aruspici e di altri indovini della setta gentile, meritando ben più fede Eusebio storico contemporaneo, che Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 29.] gentile, vivuto quasi un secolo dopo, il quale spaccia Costantino [1172] come tuttavia attaccato a quegl'ingannatori, e come seguace delle superstizioni pagane. Che questo zelantissimo imperadore giugnesse anche a far serrare i templi e spezzare gl'idoli in molti paesi, l'abbiamo dal suddetto Eusebio [Euseb., Vit. Const., lib. 2, c. 48.]; ma di questo tornerà occasion di parlare; perciocchè non nel solo anno presente, ma in altri susseguenti andò sempre più crescendo lo zelo di questo insigne Augusto per isbarbicare la gramigna de' pagani: cosa nondimeno da lui eseguita con destrezza, affinchè non nascessero sedizioni, e chiunque voleva ridursi alla vera religione, spontaneamente e non per forza lo facesse.
Anno di | Cristo CCCXXV. Indizione XIII. |
Silvestro papa 12. | |
Costantino imperadore 19. |
Consoli
Paolino e Giuliano.
Intorno ai nomi di questi due consoli molta disputa è stata fra gli eruditi [Panvinius. Du-Cange. Pagius. Relandus. Tillemont.], ma senza che si possa conchiudere cosa alcuna; e però non ho io voluto esporre se non l'ultimo loro sicuro cognome, per cui erano comunemente conosciuti. Non è inverisimile che amendue fossero della famiglia Anicia. Dal dì 4 di gennaio probabilmente sino al dì 3 di novembre dell'anno seguente la prefettura di Roma fu esercitata da Acilio Severo [Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.]. Famosissimo riuscì dipoi l'anno presente per la celebrazione del sacro concilio di Nicea, primo dei concilii generali, dove intervennero trecento e dieciotto vescovi, da' quali concordemente fulminati furono gli anatemi contra dell'ostinato Ario e della sua pestilente eresia. Non si può dire abbastanza quanto sfavillasse l'ardore dell'ottimo Augusto Costantino per la purità della dottrina della Chiesa di Dio e per l'unione della [1173] medesima. Egli fu che promosse quella non mai veduta in addietro memorabil assemblea di prelati, secondato in ciò anche dalle premure del santo pontefice Silvestro. Assistè egli medesimo a quell'augusta raunanza, ed ebbe parte a tutto ciò che vi si fece, ma con far sempre ammirare la sua umiltà, e un gran rispetto ai vescovi, riconosciuti da lui per giudici di tali controversie. Di più non ne dico io, perchè intorno a questo è da consultare la storia ecclesiastica. Terminato poi il concilio, ancorchè Eusebio vescovo di Nicomedia, e Teognide vescovo di Nicea godessero dianzi non poco della grazia sua, pure perchè non si acquetavano alle decisioni sacrosante del medesimo concilio, e continuavano a sostenere l'empietà di Ario, li mandò in esilio. Per tanti capi sarà sempre in benedizione nella cristianità la memoria di Costantino il Grande; ma egli spezialmente per cagione di questo importantissimo concilio si meritò una particolar venerazione presso tutti i cattolici. Basta leggere le Storie di Eusebio e di Socrate e gli Atti del concilio suddetto per conoscere qual fosse in tal occasione il fervore di questo gran principe nel culto e nell'amore della santa religione di Cristo. E però torno a dire, essere una marcia bugia quella di Zosimo [Zosimus, lib. 2, c. 29.] scrittore pagano, il quale circa cento anni dipoi fiorì, allorchè scrisse che Costantino, anche dopo la caduta di Licinio, continuò a seguitar il culto de' gentili, e a valersi degli aruspici ed indovini del paganesimo, con abbracciar il Cristianesimo solamente dopo la morte del figlio e della moglie. Da troppe prove si vede smentito un tal racconto, nè occorre fermarsi a confutarlo. Gli spettacoli de' gladiatori fin qui erano stati le delizie del popolo romano, anzi di tutti i popoli del romano imperio, benchè dappertutto non si facessero, perchè costavano troppo. Al mirare quegl'infami combattenti, che [1174] l'un l'altro ferivano, o scannavano solamente per vile interesse, giubilavano gli spettatori, applaudendo alla destrezza ed agilità degli uni, senza punto compassionare il sangue e la morte degli altri. Ora Costantino, illuminato dai documenti della legge di Cristo, ravvisata la deformità e barbarie di que' giuochi, pieno di giusto zelo, con suo editto [L. 1, de Gladiator., Cod. Theodos.], mentre dimorava in Berito, nel dì primo di ottobre, li vietò da lì innanzi sotto rigorose pene. Pretese il Gotofredo che quella legge fosse solamente locale, nè si stendesse per tutto il romano imperio; e non per altro, se non perchè sotto i successori di Costantino s'incontrano nè più nè meno gli spettacoli de' gladiatori [Thesaur. Novus Inscript., Tom. III, in fine.]. Credo io di avere abbastanza dimostrato, massimamente coll'autorità di Eusebio, che veramente fu universale quel divieto di Costantino, ancorchè i di lui figliuoli non sapessero poi sostenerlo: tanto erano impazziti i pagani dietro a que' barbarici e sanguinarii giuochi. All'anno presente ancora appartiene un'altra legge [L. 1, de Usuris, Cod. Theodos.] di Costantino, data nel dì 17 di aprile intorno alle usure. Erano queste a dismisura cresciute, perchè, secondo le leggi romane, non era proibito il cavar frutto dai prestiti, e perciò abbondavano allora i prestatori. Secondo l'opinione del Gotofredo, Costantino ridusse, per conto dei danari prestati, il frutto al dodici per cento, cioè a pagare l'uno per cento ogni mese; e, per quel che riguarda i naturali prestati, come sarebbe il grano, permise che il frutto d'ogni anno uguagliasse il capitale. Le leggi del Vangelo corressero dipoi sì fatte usure, e ne moderarono l'esorbitanza con lodevoli provvisioni. Possono vedersi nel codice Teodosiano altre leggi del medesimo Augusto, tutte correttrici degli abusi d'allora, o pure testimoni della di lui munificenza verso le chiese e verso le vergini sacre e le povere vedove, alle quali assegnò [1175] un'annua prestazione di grano. Nobilissimo del pari fu un suo editto, per cui si mostrò pronto ad ascoltare e ricevere le querele ed accuse d'ognuno, purchè assistite da buone pruove, contra di tutti gli uffiziali di corte, governatori delle provincie ed altri pubblici ministri che si abusassero del loro ufficio, promettendo di punir le loro ingiustizie e frodi, e di premiar chiunque gli scoprisse questi traditori della giustizia e nemici del pubblico e privato bene.
Anno di | Cristo CCCXXVI. Indizione XIV. |
Silvestro papa 13. | |
Costantino imperadore 20. |
Consoli
Flavio Valerio Costantino Augusto per la settima volta e Flavio Giulio Costanzo Cesare.
Entrò nella prefettura di Roma Anicio Giuliano nel dì 13 di novembre [Bucher., de Cyclo.] in luogo di Acilio Severo, e in quella carica continuò egli per i due seguenti anni. Un grande sfregio patì nell'anno presente la riputazione di Costantino per quelle passioni ed inganni, da' quali non va esente quasi mai alcuno de' potentati perchè uomini anch'essi come gli altri, ed uomini che hanno men freno degli altri. Prima nondimeno di palesar questo suo trascorso, convien dire che il vittorioso imperadore determinò in questo anno di passare, dopo tanto tempo di lontananza, a Roma, secondo tutte le apparenze, per celebrar ivi i vicennali del suo augustale imperio con più solennità. Di febbraio noi il troviamo [Gothofr., Chron. Codic. Theodos.] in Eraclea di Tracia, nel marzo in Sirmio di Pannonia, e nell'aprile in Aquileia. Ci comparisce nel principio di luglio in Milano, e nel dì 8 di luglio in Roma, dove abbiamo da Idacio [Idacius, in Fastis. Euseb., in Chron.] ch'egli celebrò l'anno ventesimo del suo imperio augustale, siccome nell'anno precedente [1176] egli avea solennizzato in Nicomedia il ventesimo del cesareo. Per quel che riferisce Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 29.], il popolo romano con una sinfonia di maledizioni e d'ingiurie lo accolse, non per altro, se non perchè sempre più si accertarono ch'egli aveva dato un calcio al culto dei loro idoli. In fatti solito era in quelle grandi solennità che gl'imperadori col senato, esercito e popolo si portassero al Campidoglio, per far ivi de' sacrifizii a Giove Capitolino; ma nulla di ciò volle far Costantino; e perchè si scaldarono alcuni per l'osservanza di quel sacrilego rito, non seppe ritenersi il pio imperadore dal prorompere in parole di abborrimento e sprezzo della superstizione pagana: il che gli tirò addosso l'odio del senato e popolo romano, costante per la maggior parte nell'idolatria. Anzi, se crediamo al medesimo Zosimo, l'esser egli restato mal soddisfatto di loro fece cader in mente il pensiero di formare una nuova Roma, e veramente la formò dipoi, siccome vedremo. Si vuol nondimeno ascoltare Libanio sofista [Liban., Oration. 14 et 15.], cioè un oratore di questo secolo, ben più di Zosimo vicino a Costantino, allorchè asserisce aver questo imperadore trattato i Romani con assai dolcezza, tuttochè le loro pasquinate e parole pungenti paressero degne di un trattamento diverso. Accadde un dì che, avendo egli stesso udita una salva d'insolentissime grida di quel popolo in dispregio suo, dimandò ai suoi due fratelli (cioè probabilmente a Delmazio ed Annibaliano, o pur Costanzo) che gli stavano appresso, cosa in tal congiuntura fosse da fare. L'un di essi fu di parere che s'inviassero i soldati a tagliare a pezzi que' temerarii. L'altro rispose che così avrebbono fatto i principi cattivi, ma che i buoni doveano dissimulare e sofferir le vane dicerie e scappate della plebe senza giudizio. Se ne rise in fatti Costantino: [1177] cosa che, a parer di Libanio, gli acquistò l'affezion de' Romani. Anche Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesarib.] lasciò scritto che il dolore mostrato dal popolo romano, allorchè questo glorioso principe venne a morte, assai diede a conoscere ch'egli era molto amato da essi Romani. Dopo essersi fermato in Roma Costantino per qualche tempo, sembra, secondo le leggi [Gothofredus, Chronolog. Cod. Theod.] che restano, aver egli di nuovo ripigliato il cammino alla volta della Pannonia, giacchè una sua legge di settembre è data in Spoleti, un'altra di ottobre in Milano, e una di dicembre in Sirmio.
Veniamo ora al passo più degli altri scabroso della vita di Costantino. Abbiam più volte fatta menzione di Crispo suo primogenito, partorito a lui da Minervina sua prima moglie, già creato Cesare, giovane di grande espettazione, e che avea anche dato saggi del suo valore nella guerra coi Franchi e con Licinio. Questo infelice principe nell'anno presente [Idacius, in Fastis.], per ordine dello stesso Augusto suo padre, tolto fu di vita, chi dice col veleno, e chi colla spada. Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 29.] pretende succeduto così funesto avvenimento in Roma nel tempo che vi si trattenne Costantino; ma Ammiano Marcellino [Ammianus, lib. 14, cap. 11.], scrittore più vicino a questi tempi, assegna la città di Pola nell'Istria per luogo di tal tragedia. Perchè Costantino, principe sì saggio e clemente, e nello stesso tempo sì crudo padre, giugnesse a tanta severità, nol seppero dire di certo neppure gli antichi scrittori, e solamente a noi tramandarono i loro sospetti. Zosimo immaginò incolpato il misero giovane di tenere un'amicizia illecita con Fausta Augusta sua matrigna; o, per dir meglio, che Fausta facesse calunniosamente credere al marito d'essere stata tentata da questo suo figliastro [Zonaras, in Annalibus.]. Altri si figurarono che la [1178] medesima Augusta inventasse delle cabale per persuadere a Costantino che il figlio macchinasse contro la vita e lo stato del padre [Aurel. Victor, in Epitome.]. Certamente i più convengono in dire che per le accuse della matrigna Crispo innocente perdè la vita. E ben probabile è che quell'ambiziosa donna, la qual già avea tre suoi proprii figliuoli, mirasse di mal occhio il figliastro Crispo anteposto per cagion dell'età ai suoi fratelli, per timore ancora che a lui solo potesse un dì pervenire l'imperio, e però si studiasse di screditarlo presso del padre, e le riuscisse di precipitarlo. Ell'era figliuola di un gran cabalista, cioè di Massimiano Erculio. Probabilmente profittò anch'essa di quell'indegna scuola. Comunque sia, la morte di questo amabil nipote fu un coltello al cuore di Elena madre dell'Augusto Costantino, nè potea essa darsene pace. Andò ella dipoi tanto pescando, che dovette in fine far costare al medesimo imperadore non men l'innocenza di Crispo, che la malvagità e la calunnia di Fausta sua matrigna; e vuole Filostorgio [Philostorgius, in Histor.] che si scoprisse allora, come l'iniqua donna avea tradito il talamo nuziale con prostituirsi a delle vili persone. Un sicuro segnale che Costantino la credesse rea, fu l'aver egli medesimamente ordinato che a lei si fosse tolta la vita: il che si crede eseguito con farla serrare in un bagno d'acqua bollente [Zosimus. Victor. Sidonius et alii.]. Se un esecrando commercio fosse stato fatto credere a Costantino fra la matrigna e Crispo, contra di amendue nello stesso tempo sarebbe caduta la pena. Perciò l'essersi differita la morte di Fausta rende assai verisimile che, scoperte le sue trame ed iniquità, essa arrivasse al meritato gastigo. Eutropio [Eutropius, in Breviar.] aggiugne che non si fermò qui l'ira di Costantino, perchè egli appresso fece [1179] uccidere molti de' proprii amici, o sospetti, o complici dei delitti verisimilmente di Fausta.
Ora questo lagrimevole avvenimento, di cui Eusebio non si attentò di far parola, perchè tasto troppo delicato, non volendo egli dispiacere ai figliuoli allora regnanti di Fausta, certo è che diede da mormorar non poco a' grandi e piccoli, ed offuscò non poco la gloria di Costantino, con esser giunto taluno [Sidonius Apollinaris, lib. 5, Epist. 8.] ad assomigliare il governo e secolo di lui a quel di Nerone; e senza trovarsi chi abbia saputo scusare o giustificare la credulità soverchia, o il rigore estremo da lui mostrato in tal occasione. Perciò Eutropio non ebbe difficoltà di dire che Costantino ne' suoi primi anni meritò d'essere uguagliato ai più insigni principi di Roma, ma che nel progresso egli potè contentarsi d'essere annoverato fra i mediocri. Non sussiste poi ciò che Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 29.], dopo aver narrata questa tragedia, aggiugne con dire, che rimordendo la coscienza ad esso Augusto per tali trascorsi, e cercando la via di rimettersi in grazia di Dio, ricorse ai pagani, che gli dissero di non aver maniera di purgare i parricidii (il che Sozomeno [Sozomenus, Histor., lib. 1, cap. 5.] mostra essere falso), ebbe allora ricorso ad un Egiziano venuto di Spagna, cristiano di religione, che già s'era introdotto in corte (vuol probabilmente dire Osio, vescovo di Cordova), il quale l'assicurò che dal battesimo de' cristiani restava cancellata qualsivoglia reità: e però Costantino da lì innanzi aderì alla religione di Cristo. Più chiaro del sole è che molto prima di questi tempi Costantino s'era rivolto al Dio vero, con abbandonar gl'idoli. Che poi per tali fatti Dio permettesse che sopra Costantino si affollassero da lì innanzi varie sciagure, e che ne' figli suoi terminasse la sua discendenza, del che sembra essere persuaso [1180] il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.]: tuttavia meglio è non voler entrare ne' gabinetti di Dio, perchè le cifre de' suoi, sempre per altro giusti, giudizii venerar si debbono anche senza intenderle, e massimamente per non saper noi i veri reati di Costantino. Abbiamo poi da Eusebio [Eusebius, in Chron.] e da Eutropio [Eutrop., in Breviar.] che nell'anno stesso, in cui a Crispo tolta fu la vita, anche il giovane Licinio, figliuolo del già Licinio Augusto, fu, d'ordine di Costantino, ucciso, nulla avendo servito a lui l'essere nato da Costanza sorella dell'imperadore medesimo. Qual motivo influisse a farlo privar di vita, e s'egli tuttavia conservasse il titolo di Cesare, a noi resta ignoto. Può ben temersi che anche per tale azione s'aguzzassero contra di Costantino le lingue di chi fra i pagani mirava lui di mal occhio. L'anno fu questo, in cui esso Augusto con sua legge [L. 6, de Episc., Cod. Theodos.] ordinò che i cherici ed altri ecclesiastici si cavassero dalla classe de' poveri, e non se ne ordinasse se non quel numero ch'era necessario alle chiese, acciocchè l'esenzione da lui conceduta ai sacri ministri del Vangelo non riuscisse dannosa al pubblico, cioè al corpo secolare. Con altra legge ancora [L. 1, de Haereticis, Cod. Theodos.] dichiarò che i privilegii da lui accordati alle persone ecclesiastiche s'intendessero in favore de' soli cattolici, e che ne restassero esclusi gli eretici e sismatici. Credesi finalmente [Pagius. Tillemont.] che in quest'anno fosse composto il poema in versi di Publilio Optaziano Porfirio, che giunto sino a' dì nostri fu dato alla luce dal Velsero, contenente le lodi di Costantino, ma formato con degli acrostici, e con altre di quelle ingegnose, o, per dir meglio, laboriose bagattelle, che erano anche nel secolo precedente al nostro il grande sforzo degl'ingegni minori. Contuttociò anche tali rimasugli dell'antichità [1181] son da tenere in pregio, sì per le cose che contengono, come per farci intendere ancora il genio di que' secoli, nei quali per altro fiorirono tanti uomini grandi nelle lettere e nella santità. Augurando Optaziano in esso poema i vicennali felici a Costantino, e non men felici i decennali ai di lui figliuoli; perciò si crede composto quel poema prima della morte di Crispo.
Anno di | Cristo CCCXXVII. Indizione XV. |
Silvestro papa 14. | |
Costantino imperadore 21. |
Consoli
Flavio Valerio Costantino e Massimo.
Nell'assegnare il nome del primo console ho io seguitato il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron., ad hunc annum.] e il Relando [Reland., Fast. Consul.]; ma debbo ora dire che non abbiam sicurezza d'esso, nè sappiam chi egli fosse: tanto son diverse le date delle leggi di quest'anno e le asserzioni dei Fasti. Presso alcuni in vece di Costantino si legge Costanzo. Presso altri il puro suo nome è scritto senza il titolo di Cesare, e in altri sì. Alcuni il fanno console per la prima volta, altri per la seconda, ed altri per la quinta. Fu creduto questo Costantino dal Panvinio [Panvin., Fast. Consul.] un parente di Costantino Augusto. Può essere che un dì salti fuori qualche iscrizione che tolga ogni dubbio. Una [Thes. Novus Inscript., pag. 354.] ne ho io recato, dove altra menzione non è fatta che di Flavio Cesare e di Massimo. Per conto di questo ultimo conghietturò il suddetto Panvinio ch'egli non fosse diverso da Valerio Massimo Basilio, già da noi veduto prefetto di Roma; ma nei Fasti si soleva notare il solo ultimo cognome. Nella stessa prefettura seguitò ancora in questo anno Anicio Giuliano. Truovavasi lo [1182] Augusto Costantino, per quanto apparisce dalle date di varie sue leggi [Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.], nell'anno presente in Tessalonica ed Eraclea, cioè in città della Macedonia e Tracia. San Girolamo, che dopo aver tradotta in latino la Cronica di Eusebio Cesariense [Hieronymus, in Chronico.], la continuò poi fino ai suoi giorni, fa verso a questi tempi menzione di Arnobio oratore africano. Era egli di credenza pagano, ed insegnava agli scolari rettorica. Convertito alla religione di Cristo, impugnò di poi la penna contro le superstizioni e follie del gentilesimo con que' libri che tuttavia abbiamo gravi d'erudizion pagana, e bisognosi di commento. Non è improbabile che circa questi tempi Elena, madre dell'Augusto Costantino, donna santa e colma di zelo per l'abbracciata religione di Cristo, andasse a Gerusalemme, dove scoprì il sepolcro del divino nostro Salvatore, e la vera croce, su cui egli morì. Portatone l'avviso a Costantino, ordinò che si fabbricasse ivi un insigne tempio col titolo della Resurrezione. Altre chiese a petizione della piissima Augusta egli piantò nel monte Oliveto, in Betlemme ed altri luoghi, per onorar le memorie della nascita e passion del Signore. Ma intorno a ciò è da consultare la storia ecclesiastica, depurata nondimeno da alcuni racconti poco sussistenti. L'anno preciso, in cui sant'Elena fu chiamata da Dio a miglior vita, resta tuttavia ignoto o controverso. Potrebbe essere che ciò succedesse nell'anno seguente. Eusebio [Euseb., in Vita Const., lib. 2, cap. 23 et seq.], dopo aver narrato le suntuose chiese alzate da Costantino in quei santi luoghi, descrive ancora le gloriose azioni di pietà, di munificenza e d'umiltà della santa imperadrice, e quanto amore a lei professasse, quanto onore le concedesse il figlio Augusto. Non solamente volle che foss'ella riconosciuta per imperadrice, e che si battessero medaglie d'oro in suo onore, ma le conferì ancora una [1183] piena balìa per valersi del tesoro imperiale in opere di pietà. Appresso aggiugne, che essendo ella mancata di vita in età di circa ottant'anni, Costantino fece portare il suo corpo nella città regale, cioè a Roma, come comunemente vien creduto, e deporlo in un magnifico sepolcro. Altri visibili segni diede Costantino dell'amor suo verso la madre. Imperciocchè sotto quest'anno nota san Girolamo [Hieron., in Chronico.], ch'egli varie fabbriche alzò in onore di san Luciano martire, seppellito nel borgo di Drepano nella Bitinia, con farne una città, a cui diede il nome della madre, forse tuttavia vivente, chiamandola Elenopoli. Ne parla ancora la Cronica Alessandrina [Chron. Alexandrinum.]. Filostorgio [Philostorgius, Hist., lib. 2, cap. 13.] attribuisce alla stessa Elena la fabbrica di quella città e l'insigne tempio edificato in onore del suddetto martire. Abbiamo anche da Sozomeno [Sozomenus, lib. 2, cap. 2.] che una città di Palestina prese il nome di Elenopoli da questa santa imperadrice. Veggonsi iscrizioni, trovansi medaglie che confermano il gran credito ch'ella meritamente godè, tanto in vita che dopo morte, per le sue luminose virtù.
Anno di | Cristo CCCXXVIII. Indizione I. |
Silvestro papa 15. | |
Costantino imperadore 22. |
Consoli
Januario e Giusto.
S'incontra il primo console appellato anche Januarino. Seguitò nell'anno presente ad esercitar la prefettura di Roma Anicio Giuliano. Le poche leggi [Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.] che abbiamo appartenenti a quest'anno ci fan vedere Costantino in Nicomedia, capitale della Bitinia, e poi in Oiscos, o Escos, luogo della Dacia, o piuttosto della Mesia inferiore, oggidì Bulgaria. [1184] Qui la Cronica Alessandrina ci fa sapere che Costantino passò più volte di là dal Danubio, e che sopra quel fiume fece fabbricar un ponte di pietra. Anche l'uno e l'altro Vittore [Victor, in Epitome. Idem, de Caesarib.] attestano la fabbrica di questo ponte, nè si sa vedere perchè il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] la chiami affatto inverisimile. Noi sappiamo che Costantino, più di quel che si possa credere, fu avidissimo della lode e della gloria. Ben probabile è ch'egli non volesse essere da meno di Traiano, da cui fu fabbricato un simil ponte su quel fiume regale. Abbiamo anche medaglie [Mediobarb., in Numismat. Imperat.], dove si mira quel ponte col motto SALVS REIPVBLICAE DANVBIVS. Questi movimenti di Costantino hanno poi fatto pensare a qualche erudito [Gothofredus et Tillemont.] che in quest'anno egli avesse guerra coi Goti e Taifali, popoli abitanti di là dal Danubio in faccia alla Mesia. E però il Mezzabarba [Mediob., in Numismat. Imperator.] rapporta monete battute, a suo credere, nel presente anno col motto VICTORIA GOTHICA. Ma forse tali medaglie son da riferire nell'anno 322. Per altro ve n'ha di quelle, dove egli comparisce circa questi tempi imperadore per la vigesima seconda volta, e queste dovrebbono assicurarci di qualche vittoria da lui riportata verisimilmente contra de' Barbari transdanubiani. In questi tempi appunto gli autori della storia ecclesiastica [Socrat. Sozomen. Philostorg. Pagius. Baronius et alii.] muovono gravi querele contro la memoria di Costantino, perchè egli richiamò dall'esilio l'eresiarca Ario, e poi Eusebio, Mari e Teognide, vescovi protettori del medesimo: dal che vennero poi non poche turbolenze alla Chiesa di Dio, e cominciò la persecuzione contra di sant'Atanasio. Certo è da stupire come un sì saggio Augusto, dianzi veneratore dei decreti del celebre concilio niceno, e che avea banditi i vescovi [1185] suddetti, perchè disubbidienti al medesimo concilio, poscia retrocedesse, e tanto si lasciasse avviluppar da Eusebio, vescovo di Nicomedia, che da lì innanzi il tenne per uno de' suoi più intimi consiglieri, e in riguardo suo molti falli commise in favore dell'arianismo. A simili salti è suggetto chiunque de' principi non sa sceglier buoni ministri.
Anno di | Cristo CCCXXIX. Indizione II. |
Silvestro papa 16. | |
Costantino imperatore 23. |
Consoli
Flavio Valerio Costantino Augusto per l'ottava volta e Flavio Valerio Costantino Cesare per la quarta.
Ad Anicio Giuliano nella prefettura di Roma succedette nel dì 7 di settembre Publio Optaziano [Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.], che taluno ha creduto quel medesimo Optaziano poeta da noi veduto di sopra autore del panegirico di Costantino. Ma quel poeta si nomò Publilio, e forse non è da credere che uomo di grande affare e degno di sì riguardevol carica egli fosse, da che si perdeva in quelle pedanterie d'acrostici. Oltre di che, san Girolamo [Hieronymus, in Chron.] scrive ch'egli in quest'anno fu richiamato dall'esilio. Poscia nella suddetta prefettura entrò, nel dì 8 di ottobre, Petronio Probiano. Dimorò Costantino in questi tempi, siccome risulta dalle date delle sue leggi [Gothofred., in Chron. Cod. Theodos.], nella Pannonia, Dacia e Tracia, ora in Sirmio, ora in Naisso, Sardica ed Eraclea. Era egli in questi tempi tutto applicato alla fabbrica della nuova città di Costantinopoli, della cui dedicazione parleremo all'anno seguente. Nota san Girolamo, nella sua Cronica, che in quest'anno solamente fece Costantino morir Fausta sua moglie; ma dee ben prevalere l'opinione di tanti altri che tal tragedia riferiscono all'anno stesso in cui tolta fu la vita a Crispo Cesare. Aggiugne [1186] il medesimo che parimente in questi tempi fece grande strepito in Africa Donato vescovo di Cartagine, con avvalorare lo scisma di quelle chiese, e che da lui venne il nome de' Donatisti più tosto che da un altro precedente Donato. Similmente scrive che nella città di Antiochia si cominciò a fabbricare la suntuosa basilica de' cristiani, chiamata Aurea, per ordine senza fallo di Costantino. Giovanni Malala [Joannes Malala, in Chronogr.] probabilmente indica il medesimo tempio, con dire che esso Augusto edificò in quella città la gran chiesa, cioè la cattedrale, opera veramente magnifica, con aver demolito il bagno del re Filippo, già maltrattato dalle ingiurie del tempo, e divenuto inutile. Presso a quella chiesa ancora fabbricò lo spedale dei pellegrini; e del tempio di Mercurio formò la basilica appellata di Rufino.
Anno di | Cristo CCCXXX. Indizione III. |
Silvestro papa 17. | |
Costantino imperadore 24. |
Consoli
Gallicano e Simmaco.
In alcuni Fasti [Cassiodorus, Prosper, in Fastis.] in vece di Gallicano si trova un Costanzo per la terza volta, piuttosto che per la settima, console con Simmaco. Però taluno ha creduto ch'egli fosse sostituito a Gallicano. Io il lascio nelle sue tenebre. Continuò anche per l'anno presente Petronio Probiano ad esercitar la prefettura di Roma. S'è disputato non poco fra gli eruditi [Baron. Gothofred. Petavius. Pagius.] intorno all'anno, in cui Costantino Augusto cominciò la fabbrica della nuova città di Costantinopoli, e poi ne fece la dedicazione. Lasciando io il primo punto che poco importa, dico convenire oggidì i più in credere che in quest'anno egli dedicasse quella città, mutando il nome di Bisanzio in quello di [1187] Costantinopoli. Era egli negli anni addietro, siccome sommamente vago di gloria, invogliato di fabbricare una città, per imporle il suo nome, ed eternar con ciò maggiormente la sua memoria nei secoli avvenire. Pensava ancora di stabilir ivi la sua residenza, facendo di quella città una nuova Roma, che gareggiasse in grandezza ed ornamenti colla vecchia. Pretende Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap 30.] che egli a ciò s'inducesse, perchè mal soddisfatto del popolo romano, da cui era stato caricato di maledizioni l'ultima volta che egli fu a Roma, a cagion della religione mutata. Non è questo improbabile, dacchè sappiamo che dalla nuova città egli escluse ogni reliquia di paganesimo: il che non gli sarebbe con egual facilità e quiete riuscito nell'antica Roma. Fosse questo il motivo, o pure il desiderio della gloria, e di divertire i suoi pensieri in tempo di pace, che gl'ispirasse tal disegno, certissimo è aver egli a tutta prima scelto un sito sulla costa dell'Asia in vicinanza della già distrutta città di Troia, per fabbricarvi la novella sua città, e che v'impiegò assai tempo ed operarii ad alzarne le mura e le porte. Ma nell'andar egli soggiornando in quelle vicinanze, meglio di quel che avesse fatto in addietro, adocchiò, e ravvisò la mirabil situazione dell'antica città di Bisanzio, e quivi determinò di far la sua reggia; e lasciato andare l'incominciato lavoro, tutto si diede ad accrescere e rinnovare quest'altro luogo. Chiunque anche oggidì osserva Costantinopoli, confessa non potersi trovare un sito più bello, più delizioso e più comodo di quello sulla terra, perchè posta quella città sotto moderato clima sul fin dell'Europa in un promontorio, e in faccia alla vicina Asia, col mare che le bacia le mura, con porto capacissimo di navi, con fertili campagne, e frapposta a due mari, ciascun dei quali può facilmente mantenere in essa l'abbondanza. Quivi dunque tutto si diede l'Augusto Costantino a fabbricare, [1188] con aprire gli scrigni ed impiegar largamente i suoi tesori in quell'impresa, con ritenere il meglio del vecchio Bisanzio, ed accrescere a meraviglia il circuito delle sue mura.
Gli autori greci [Euseb. Sozomen. Philostorg. Codinus, et alii.], siccome si può vedere nella descrizion di Costantinopoli cristiana, che abbiamo dall'erudita penna del Du-Cange, contano maraviglie, avvenimenti soprannaturali, ed anche favolosi, della fondazione di questa città. Non convenendo all'assunto mio l'entrare in sì fatto argomento, a me basterà di dire che le nuove mura abbracciarono un gran sito, entro il quale egli fece edificare un superbo imperial palagio, con altri assaissimi per i suoi cortigiani ed uffiziali, belle strade e case, piazze non inferiori in bellezza a quelle di Roma, circhi, statue, fontane, terme, portici suntuosi sostenuti da più file di colonne di marmo: in una parola, si studiò egli di formare una città che in fabbriche ed ornamenti potesse competere con quella di Roma che era la maraviglia delle città. E per maggiormente abbellirla, non si mise scrupolo di spogliar l'altre città, per asportar colà le cose più rare, senza neppur eccettuare quella di Roma. Chi leggesse la storia sola di Zosimo [Zosimus, l. 2, cap. 31.], crederebbe che Costantino in questa nuova città avesse eretti templi ai falsi dii, ed onorate le statue loro. Ma Eusebio [Euseb., in Vita Costantini, lib. 3, cap. 48.], che scrive le cose de' suoi dì, ed altri antichi scrittori [Socrates, l. 1 Histor., cap. 16 et alii.] ci assicurano che egli unicamente vi fabbricò delle magnifiche chiese, fra le quali mirabil poscia fu quella de' Santi Apostoli, oltre a varii oratorii in memoria de' martiri, e che in quella città non soffrì alcun tempio de' gentili, nè che le statue de' loro dii si onorassero ne' templi. Quelle che v'erano, o che furono portate altronde colà, servivano solamente per ornamento della città, e non per ricevere culto dai pagani. Però di là fu [1189] estirpata l'idolatria, ed in essa pubblicamente non si adorava se non il vero Dio e la croce santa; e questa gioiellata facea bella comparsa nella sala maggiore dell'imperial palazzo. Quel solo che troviam ripreso da Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 32.] e da Temistio [Themistius, Orat. 3.] in Costantino, fu la soverchia fretta sua, per aver presto il piacere di veder terminate tante fabbriche, perchè, trovandole malfatte, le disfaceva, ed altre non poche d'esse ebbero in effetto corta sussistenza, e convenne ai susseguenti Augusti di risarcirle e far di nuovo. A fine poi di popolare quest'ampia città, ed accrescerne l'abitato, tirava ad essa i popoli delle altre città e provincie, allettandoli con privilegii ed esenzioni, e con donar loro terre da coltivare, ovver danari. E a molti senatori ancora, venuti da Roma a stanziare colà, donò palazzi e ville. Assegnò anche rendite annuali che servissero ad aumentare le case e a sempre più abbellir la città di nuovi edifizii. Altre poi erano destinate per dare annualmente al povero popolo pane o pur grano, carne ed olio [Sozom. Socrates. Zosimus. Cod. Theodos. et alii.].
In questa maniera non passò gran tempo che Costantino vide piena di abitatori la sua città, con avere, siccome scrisse anche san Girolamo [Hieron., in Chronico.], spogliate quasi tutte le altre per ingrandire ed ornar questa sua favorita figlia. Affinchè poi vi abbondassero i viveri, concedette varii privilegii ai mercatanti di grano dell'Oriente e dell'Egitto, che tutti da lì innanzi correvano a smaltire in sì popolata città le lor vettovaglie, città che per l'addietro tante ne produceva, che ne facea parte all'altre. I Greci moderni, spezialmente Codino [Codinus, Origin. Constantin.], spacciarono dipoi una man di fole intorno a questa fondazione, e massimamente una curiosa particolarità, che, quantunque favolosa, merita di essere comunicata ai lettori. Cioè [1190] che Costantino, allorchè era dietro alla fabbrica d'essa città, chiamò a sè i principali nobili romani, e li mandò alla guerra contro i Persiani. In quel mentre, secondo le misure venute da Roma, ordinò che si fabbricassero palazzi e case affatto simili a quelle che essi godevano in Roma; e dopo averle mobigliate di tutto punto, segretamente fece venir colà le loro mogli e i figliuoli con tutte le famiglie, e le collocò in quelle abitazioni. Dopo sedici mesi tornarono que' nobili dalla guerra, accolti con un solenne convito dall'imperadore, il quale fece poi condurre cadauno all'abitazion loro assegnata, e tutti all'improvviso si trovarono fra gli abbracciamenti dei lor cari. Torno a dire, che è spezioso il racconto; ma che chiunque l'esamina, ne scorge tosto la finzione; e tanto più che guerra non fu allora coi Persiani, nè gli antichi fan parola di questo fatto, e lo avrebbono ben saputo e dovuto dire, se fosse avvenuto. Ora varii autori [Idacius, in Fastis. Chronic. Alexandrinum. Hieron., in Chron. Zonaras, in Annalib. et alii.] s'accordano in iscrivere che l'Augusto Costantino nel dì 11 di maggio dell'anno presente fece con gran solennità di giuochi e profusion di doni la dedicazione di questa nuova città, abolendo l'antico nome di Bisanzio, ed ordinando ch'essa da lì innanzi fosse chiamata città di Costantino, o sia Costantinopoli. Fra le sue leggi [L. 2, de Judaeis, Cod. Theod.] comincia appunto a trovarsene una data sul fin di novembre in quella città col suddetto nome. Non è già che in quest'anno fosse ridotta a perfezione così insigne città, ricavandosi da Giuliano Apostata [Julian., Oratione I.] e da Filostorgio [Philostorgius, Histor., lib. 2, cap. 9.] che si continuarono i lavori anche qualche anno dipoi. Ma perchè dovevano essere terminate le mura, le porte e i principali edifizii, perciò l'imperadore impaziente non potè aspettare di più per darle il nome e farne la dedicazione in quel giorno, che annualmente fu poi celebrato anche ne' secoli [1191] susseguenti dalla nazione greca. Per maggiormente poi esaltare la sua città, Costantino le diede ancora il titolo di seconda Roma, o pure di Roma novella [Sozomenus, Histor., lib. 2, cap. 3. Socrates, Hist., lib. 1, cap. 1.]; volle che godesse tutti i diritti e le esenzioni che godeva la vecchia, stabilì ivi un senato, ma del secondo ordine, e varii magistrati, che esercitavano la loro autorità sopra tutto l'imperio dell'Oriente, e sopra l'Illirico orientale; in una parola, se vogliam credere a Sozomeno, andò così crescendo Costantinopoli, che in meno di cento anni giunse a superar Roma stessa non men per le ricchezze che per la copia degli abitanti. Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 35.] scriveva, circa cento anni dappoi, che facea stupore la sterminata folla di gente e di giumenti che si mirava in quelle strade e piazze; ma che, essendo strette esse strade, scomodo e pericoloso era il passarvi. Giunge anche a dire che niun'altra città potea allora paragonarsi in felicità e grandezza a Costantinopoli, senza eccettuar Roma vecchia, la qual certo cominciò a declinar da qui innanzi non poco per questa emula nuova.
Anno di | Cristo CCCXXXI. Indizione IV. |
Silvestro papa 18. | |
Costantino imperadore 25. |
Consoli
Annio Basso ed Ablavio.
Nel dì 12 d'aprile entrò nella prefettura di Roma Anicio Paolino. Le leggi [Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.] pubblicate in quest'anno dall'Augusto Costantino cel fanno vedere tuttavia residente in Costantinopoli, applicato ivi al compimento di varie fabbriche. Allora fu ch'egli con un prolisso editto, il quale nel Codice di Giustiniano si trova diviso in sei diverse leggi, e indrizzato a tutte le provincie del romano imperio, si studiò di provvedere alle concussioni ed avanie dei giudici, notai, portieri ed altri [1192] uffiziali della giustizia, ed anche alla prepotenza de' privati. Vuol dunque ivi che chiunque si sentirà aggravato dall'avarizia, rapacità e ingiustizia de' suddetti, liberamente porti le sue doglianze ai governatori; e, non provvedendo essi, ricorra ai conti delle provincie, o ai prefetti del pretorio, affinchè essi ne diano conto alla maestà sua, ed egli possa punire questi abusi e delitti secondo il merito. Nè solamente impiegava in questi tempi Costantino i suoi tesori per l'accrescimento della sua diletta città di Costantinopoli; stendeva anche la sua munificenza ad altre città, con fabbricar ivi dei riguardevoli templi in onore di Dio, de' quali parla Eusebio [Euseb., in Vita Const., lib. 3, cap. 50 et 63.]. Faceva inoltre sfavillare il suo zelo in favore della Chiesa cattolica, con aver pubblicato un editto contra de' varii eretici che allora l'infestavano, ma non già contra degli Ariani, perchè introdottosi forte in grazia di lui uno scaltro protettore d'essi, cioè quel volpone di Eusebio, vescovo di Nicomedia, di cui si parlò di sopra, andò egli non solamente inorpellando al buon Augusto i sacrileghi dogmi dell'eresiarca Ario, ma mise anche sottosopra le due insigni chiese di Antiochia e di Alessandria: del che potrà il lettore chiarirsi consultando la storia ecclesiastica. Racconta eziandio il medesimo Eusebio [Idem, ibidem, lib. 4, cap. 2.] che Costantino fece sentire la beneficenza sua a tutto l'imperio, con levare un quarto dei tributi che annualmente pagavano i terreni: indulgenza che gli tirò addosso la benedizione dei popoli. E perciocchè non mancavano persone, le quali si lamentavano di essere state oltre il dovere aggravate negli estimi delle loro terre sotto i principi precedenti, spedì estimatori dappertutto, acciocchè riducessero al giusto quello che fosse difettoso. Parla anche Eusebio della non mai stanca liberalità di questo grazioso regnante verso le provincie e verso chiunque a lui ricorreva; di maniera che [1193] egli giunse, per soddisfare a tanti che chiedevano onori, ad inventar nuove cariche e nuovi uffizii, colla distribuzion de' quali si studiava di rimandar contenta ogni meritevol persona. Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 32 et seq.], che per cagione del suo paganismo non seppe se non mirar d'occhio bieco tutte le azioni di Costantino, gli fa un reato di questo, e particolarmente perchè di due prefetti del pretorio egli ne formasse quattro. Il primo d'essi era prefetto del pretorio dell'Italia, da cui dipendeva l'Italia tutta colla Sicilia, Sardegna e Corsica, e l'Africa dalle Sirti sino a Cirene, e la Rezia, e qualche parte dell'antico Illirico, come l'Istria e Dalmazia, e verisimilmente anche il Norico. Era il secondo quello dell'Oriente, a cui Costantino, per onorar la sua cara Costantinopoli, diede una buona porzione, unendo sotto di lui l'Egitto colla Libia Tripolitana, e tutte le provincie dell'Asia, e la Tracia, e la Mesia inferiore con Cipri ed altre moltissime isole. Il terzo fu quel dell'Illirico, al quale erano sottoposte le provincie della Mesia superiore, la Pannonia, la Macedonia, la nuova Dacia, la Grecia ed altri adiacenti paesi, compresi anticamente sotto esso nome d'Illirico. Fu il quarto quello delle Gallie, che comandava a tutta la Francia moderna sino al Reno, e a tutta la Spagna, con cui andava congiunta la Mauritania Tangitana, e alle provincie romane della Bretagna. Zosimo pretende che l'istituzione di tali magistrati riuscisse pregiudiziale all'imperio. Ma doveva far mente quello storico che Diocleziano il primo fu in certa maniera ad istituire quattro prefetti del pretorio, allorchè in quattro parti divise il romano imperio. Quel che più importava, quand'anche se ne faccia autore Costantino, con ottima intenzione o per maggior comodo de' popoli egli creò que' magistrati. Veggasi il [1194] Gotofredo [Gothofred., tom. VI Cod. Theodosian. Pancirolus, Notitia Utriusque Imperii. Bulenger., de Imp. Roman., lib. 3.] ed altri che han trattato dell'uffizio, dell'autorità e delle incumbenze de' prefetti del pretorio. Che se uffiziali di tanta dignità, o i lor subalterni col tempo si abusarono del loro impiego, alla lor negligenza o malizia si dovea attribuire il reato, e non già alla dignità, saviamente e con buon fine istituita, che, al pari di tante altre, potè cadere in mani cattive.
Anno di | Cristo CCCXXXII. Indizione V. |
Silvestro papa 19. | |
Costantino imperadore 26. |
Consoli
Pacaziano ed Ilariano.
Trovasi Anicio Paolino continuare in quest'anno ancora nella prefettura di Roma. Se vogliam riposar sull'asserzione di quella mala lingua di Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 31.], da che Costantino si perdè tutto dietro alla fabbrica di Costantinopoli, non si curò più di far guerra, ed attese solamente a darsi bel tempo. Cinquecento Taifali, nazione scitica, fecero con soli cinquecento cavalli un'irruzione nel paese romano (probabilmente in quest'anno), e non solamente niuna schiera loro oppose Costantino, ma anche, dopo aver perduta la maggior parte dell'esercito suo, allorchè vide comparire sino ai trincieramenti del suo campo i nemici che davano il sacco alla campagna, si mise fuggendo con gran fretta in salvo. Ho tradotto le stesse parole di Zosimo, acciocchè il lettore comprenda la contraddizione di questo appassionato storico. Se Costantino perdè tanti de' suoi armati, il che suppone qualche battaglia, come non oppose egli gente a que' Barbari? Ma nè questi svantaggi della cesarea armata, nè la fuga dell'invitto imperadore son cose da credere a Zosimo, venendo egli smentito da Eusebio scrittore [1195] contemporaneo [Euseb., in Vit. Const., lib. 4, cap. 5.], e da s. Girolamo [Hieronymus, in Chronico.], e da Socrate [Socrates, Histor., lib. 1, cap. 18.], e da Sozomeno [Sozomenus, Histor., lib. 2, cap. 8.]. Sotto quest'anno san Girolamo scrive che i Romani vinsero i Goti; perciocchè con questo nome usarono molti di comprendere molte delle nazioni scitiche, Tartari da noi chiamate oggidì, si può conghietturare ch'egli significasse i Taifali di Zosimo. Eusebio anch'esso ci assicura che Costantino soggiogò le dianzi indomite nazioni degli Sciti e dei Sarmati. E Socrate attesta bensì che i Goti fecero delle incursioni nel territorio romano, ma soggiugne che Costantino li vinse. Abbiamo anche dall'Anonimo Valesiano [Anonym. Valesianus.] che i Sarmati, pressati dalla guerra che lor facevano i Goti, implorato l'aiuto di Costantino, l'impetrarono; e che per la buona condotta di Costantino Cesare circa cento mila di que' Barbari perirono di fame e di freddo. Pare perciò che Costantino, primogenito dell'Augusto Costantino, quegli fosse che un titolo di generale a nome del padre guerreggiasse coi Goti: il che si può anche inferire da Giuliano Apostata [Julian., Oration. I.]. A ciò si dee unire lo scriversi da Idacio [Idacius, in Fastis.] che i Goti furono sconfitti dai Romani nel paese de' Sarmati, correndo il dì 22 d'aprile dell'anno presente. Secondo l'Anonimo Valesiano [Anonym. Vales.], Ararico o sia Aorico, re dei Goti, per tale riconosciuto anche da Giordano [Jordan., de Reb. Get., cap. 21.] istorico, fu poscia obbligato a chiedere pace, per sicurezza della quale diede alcuni ostaggi, e fra essi un suo figliuolo. Anche Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesarib.] ed Eutropio [Eutrop., in Breviar.] riconobbero vinti da Costantino Augusto i Goti; di maniera che le dicerie di Zosimo si scuoprono effetti [1196] unicamente del suo mal cuore verso di un imperadore sì glorioso e degno. Abbiamo inoltre nelle medaglie [Mediob., in Numismat. Imperator.] autenticati questi fatti colla memoria della VICTORIA GOTHICA. E qui Eusebio [Euseb., in Vit. Const., lib. 4, cap. 5.] osserva un riguardevol pregio dell'Augusto Costantino. Erano stati soliti non pochi de' precedenti imperadori di pagare alle nazioni barbare confinanti un annuo regalo, che in sostanza era un tributo, ed indizio che i Romani si professavano come sudditi e servi de' Barbari. Non volle l'invitto Costantino sofferir questo vergognoso aggravio; e perchè ricusò di pagare, ebbe guerra con que' popoli. Confidato nella protezione di quel divino Signore, colla cui croce egli procedeva nelle guerre, domò tutti coloro che osarono di fargli resistenza; nè più pagò loro tributo: il che vien confermato da Socrate [Socrates, Hist., lib. 1, cap. 18.]. Gli altri Barbari poi che non presero l'armi ammansò egli in tal maniera con prudenti ambascerie, che li ridusse da una vita senza legge e simile alle fiere ad una civile ed umana forma di vivere, imparando in fine gli Sciti ad ubbidir ai Romani. Così Eusebio vescovo di Cesarea, egregio testimonio di tali affari, perchè vivente e scrivente allora le sue Storie. Ma esso Eusebio, nel descrivere le azioni di Costantino, perchè si prefisse di compilar quelle solamente che riguardavano la di lui pietà, non si curò delle altre che concernevano la di lui gloria civile e militare; e però non sappiamo distintamente in che consistessero le sue guerre e vittorie contra dei Goti e d'altri Barbari. Se fossero pervenute sino a' dì nostri le storie di Prassagora Ateniese, conosciute da Fozio [Photius, in Biblioth., Cod. 62.], e quelle di Bemarco Cesariense, mentovate da Suida [Suidas, in Lexico.], siccome ancora le Vite degl'imperadori composte da Eunapio, autori che trattarono de' fatti di [1197] Costantino, altre particolarità noi sapremmo ora della di lui vita. Tanto nondimeno a noi resta da potere smentire la licenza di Zosimo ostinato pagano. Nè si dee tacere aver asserito Socrate [Socrat., lib. 1, cap. 8.] e Sozomeno [Sozomenus, lib. 1, cap. 18.] che le vittorie di Costantino, riportate nelle guerre coi Goti, fecero visibilmente conoscere la protezione di Dio sopra questo principe, in guisa tale che moltissimi d'essi Goti, convinti anche per tale osservazione della verità della religion cristiana (passata settanta anni prima nelle lor contrade coll'occasion degli schiavi cristiani), la abbracciarono e professarono, benchè infettata dagli errori d'Ario. Abbiamo ancora dal sopraccitato storico Giordano [Jordan., de Reb. Getic., cap. 21.] che Alarico, re allora d'essi Goti, provvide all'armate di Costantino quaranta mila de' suoi soldati, i quali sotto nome di collegati cominciarono a militare al di lui servigio. Se costoro vollero i danari de' Romani, convenne che da lì innanzi se li guadagnassero col servire negli eserciti cesarei.
Anno di | Cristo CCCXXXIII. Indizione VI. |
Silvestro papa 20. | |
Costantino imperadore 27. |
Consoli
Flavio Delmazio e Zenofilo.
Quelle leggi e que' fasti, ne' quali in vece di Delmazio si legge Dalmazio, s'hanno da credere alterati dai copisti ignoranti ed avvezzi a chiamar Dalmazia quella che negli antichi secoli era appellata Delmazia, siccome apparisce da varie iscrizioni militari nella mia Raccolta [Thesaur. Novus Inscr., Class. XI.]. Nelle medaglie [Goltzius. Tristanus. Spanhemius et alii.] poi troviamo conservato il di lui vero nome Delmazio. Alcuni han creduto questo Delmazio fratello di Costantino, ma di altra madre. Oggidì opinion più ricevuta è ch'egli fosse figlio [1198] di un fratello di Costantino, nè andrà molto che il vedremo decorato col titolo di Cesare. Nel dì 7 d'aprile fu conferita la carica di prefetto di Roma a Publio Optaziano [Cuspinianus. Panvinius. Bucher.] creduto dal Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] quel medesimo Publio Optaziano Porfirio che compose in acrostici il panegirico di Costantino. Ma poco durò il suo impiego, perchè nel dì 10 di maggio gli succedette Ceionio Giuliano Camenio. Fra i tre figliuoli dell'Augusto Costantino, l'ultimo era Costante, nato circa l'anno 320. Al pari degli altri due fratelli fu anch'egli nel dì 25 di dicembre dell'anno presente creato Cesare [Idacius, in Fastis. Hieron., in Chronico.]. Nelle altre medaglie e nelle iscrizioni si trova chiamato Flavio Giulio Costante. Abbiamo da san Girolamo che terribilmente infierì nella Soria e Cicilia la carestia colla mortalità d'innumerabili persone. Di questa orrida fame, che afflisse tutto l'Oriente, parla anche Teofane [Theophanes, Chronogr.], dicendo che un moggio di grano costava allora un'incredibile prezzo; e che in Antiochia e Cipri le ville altro non faceano che saccheggi sulle vicine, e buon per chi avea superiorità di forze. Racconta ancora Eunapio che in non so qual anno si patì penuria di grano in Costantinopoli, perchè i venti contrarii impedivano ai legni mercantili l'abbordare a quel porto. Trovavasi allora in gran credito alla corte di Costantino Sopatro, filosofo platonico, ito colà per frenare l'impetuosità di Costantino in distruggere il paganesimo. Ma, venuto un dì in cui mancò il pane alla piazza, infuriata la plebe con alte grida cominciò ad esclamare contra di Sopatro, con dire ch'egli era un mago, ed incantava i venti, affinchè non arrivassero i vascelli del grano. Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 40.] pretende che questa fosse una cabala di Ablavio prefetto del pretorio, al quale non piaceva tanta familiarità di quel [1199] barbone coll'imperador Costantino. Nientedimeno si può credere che di gran conseguenza non fosse il favore goduto da costui; imperciocchè Costantino permise che l'infuriata plebe il mettesse a pezzi, forse, come vuole Suida, per far conoscere l'abborrimento suo al paganesimo. Si può anche riferire a questi tempi ciò che lasciò scritto Eusebio [Euseb., in Vita Constantin., lib. 4, c. 7.], cioè tanto essere salito in riputazione l'Augusto Costantino, che da tutte le parti della terra erano a lui spedite ambascerie. Ed egli stesso attesta d'aver più volte osservato alle porte del palazzo imperiale le varie generazioni di Barbari, fra' quali specialmente i Blemmii, gli Indiani, gli Etiopi, tutti venuti per inchinare un così glorioso e temuto monarca. Il vestir loro, la capigliatura, le barbe, tutte erano diverse. Terribile il loro aspetto, e la statura quasi gigantesca. Rosso il colore d'alcuni, candidissimo quello d'altri. Portavano tutti costoro dei regali a Costantino, chi corone d'oro, chi diademi gioiellati, cavalli, armi ed altre specie di donativi, per entrare in lega con lui, e stabilir seco buona amicizia. Più era poi quello che il generoso principe loro donava, rimandandoli perciò più ricchi di prima, e contenti a casa. Oltre a ciò, i più nobili fra que' Barbari soleva egli affezionarsegli, decorandoli con titoli ed ammettendoli alle dignità romane: dal che veniva che la maggior parte d'essi, non curando più ritornarsene alla patria, si fermava ai servigi del medesimo Augusto. E tale era la politica di Costantino, il cui cuore non si trovava inquietato dalla dannosa insaziabilità de' conquistatori, ma bensì nobilmente bramava di far godere un'invidiabil pace e tranquillità a tutti i sudditi del suo vasto imperio: lode non intesa dal maledico Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 32.], che quasi [1200] gli fa un reato, perchè desistè dalle guerre. E di questa sua premura di far godere la pace ai suoi popoli un bel segno diede, allorchè Sapore re della Persia (se crediamo a Libanio [Liban., Oration. 3.]), in occasione di inviargli una solenne ambasciata, gli dimandò una gran quantità di ferro, di cui niuna miniera si trovava in Persia, col pretesto di valersene per far guerra ai lontani. Tuttochè Costantino conoscesse che questo ferro potea un dì servire contro i Romani, pure, per non romperla con quel re, che parea disposto a far guerra, ne permise l'estrazione, assicurandosi coll'aiuto di Dio di vincere anche i Persiani armati, se l'occasion veniva. Della stessa ambasciata fa menzione Eusebio [Euseb., in Vita Const., lib. 4, cap. 8.], siccome ancora della suntuosità de' regali passati fra loro, e della pace di nuovo assodata fra i due imperii. Aggiugne che un motivo particolare ebbe il piissimo Costantino di mantener buona armonia con quel re, perchè la religione di Cristo avea stese le radici fino in Persia; ed egli, siccome protettor d'essa, non volea che i cristiani di quelle contrade restassero esposti alla vendicativa barbarie del re persiano. Anzi abbracciò egli questa congiuntura per iscrivere a quel regnante una lettera, a noi conservata da Eusebio e da Teodoreto [Theodoretus, Hist., lib. 1, cap. 24.], in cui, dopo aver esaltata la religion de' cristiani, come sola ragionevole e protetta da Dio, raccomanda a quel re i fedeli abitanti nel di lui regno. Il Gotofredo [Gothofred., Chron. Cod. Theodos.] e il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron., ad hunc annum.] mettono sotto quest'anno lo studio di Costantino, affinchè si distruggessero i templi e gl'idoli più famosi del gentilesimo, come si ricava da san Girolamo [Hieron., in Chronico.] e da altri antichi scrittori.
Anno di | Cristo CCCXXXIV. Indizione VII. |
Silvestro papa 21. | |
Costantino imperadore 28. |
Consoli
Lucio Ranio Aconzio Optato e Anicio Paolino juniore.
Optato e Paolino sono i cognomi indubitati di questi due consoli. I loro nomi son presi da iscrizioni riferite dal Panvinio e Grutero, le quali non è ugualmente certo che appartengano a questi personaggi. Dal Catalogo del Cuspiniano e Bucherio [Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.] abbiamo che nel dì 27 d'aprile del presente anno la prefettura di Roma fu raccomandata ad Anicio Paolino: sicchè, se regge il suddetto supposto, egli fu nello stesso tempo ornato delle due più illustri dignità di Roma. Un'iscrizione del Panvinio [Panvinius, in Fast.] parla di tutte e due queste dignità, e il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Emp.] l'adduce per pruova che Paolino le esercitò nel medesimo tempo. Ma nelle iscrizioni si solevano annoverar tutte le dignità e gl'impieghi onorevoli dei personaggi, loro addossati in varii tempi; e però non è bastante quel marmo a togliere ogni dubbio che Paolino in quest'anno fosse console e prefetto di Roma. Le leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., Chron. Cod. Theod.] ci fan vedere Costantino Augusto, nell'anno presente, ora in Costantinopoli, ora in Singidone della Mesia, ed ora in Naisso della Dacia. Diede egli nella prima d'esse città una legge [L. 2, de Offic. Judic. omn.] nel dì 26 di giugno in favor de' pupilli, delle vedove, e d'altre miserabili persone, concedendo loro il privilegio di non poter essere tratte fuori del loro foro e paese, quando abbiano liti, per farle litigare nel tribunale supremo del principe; e di poter esse all'incontro citare i loro avversarii a quel tribunale. Con varie altre leggi promosse il medesimo Augusto [1202] l'ornamento della città di Costantinopoli, col concedere dei privilegii agli architetti, e l'abbondanza de' viveri con proporne degli altri ai mercatanti. Noi vedemmo di sopra all'anno 332 che trovandosi i Sarmati in pericolo di soccombere alla potenza de' Goti, ottennero aiuto da Costantino, dalle cui armi entrate nella Sarmazia furono que' Barbari sonoramente battuti e sconfitti. Due parole abbiamo dall'Anonimo Valesiano [Anonymus Valesianus.], le quali sembrano significare, che per aver egli dipoi trovati i medesimi Sarmati di fede dubbiosa ed ingrati a' suoi benefizii, anche contra di loro ebbe guerra, e li vinse. Socrate [Socrat., lib. 1, cap. 18.] chiaramente attesta le vittorie da lui riportate, non solo de' Goti, ma anche de' Sarmati, senza che ne sappiamo di più, nè in qual anno ciò succedesse. Truovansi perciò medaglie [Mediobarb., Numism. Imper.] d'esso Augusto, dove egli è appellato VICTOR OMNIVM GENTIVM; e in altre si legge: DEBELLATORI GENTIVM BARBARARVM. Ora si vuol narrare uno stravagante fatto che appartiene all'anno presente, per attestato d'Idacio [Idacius, in Fastis.], Eusebio [Euseb., in Vit. Const., lib. 4, cap. 6.] ed altri [Hieron., in Chron.]. Ossia che i popoli suddetti della Sarmazia (oggidì Polonia) avessero guerra solamente nell'anno 332 coi Goti, poi debellati dalle armi di Costantino; o pure, come par più probabile, che si riaccendesse un'altra volta quel fuoco; certo è che, sentendosi eglino debili di forze contra di sì potenti avversarii, misero l'armi in mano ai loro servi, cioè ai loro schiavi, e data coll'aiuto d'essi una rotta ai nemici, rimasero liberi da quella vessazione e pericolo. Ma che? Uno di gran lunga peggiore se ne suscitò in casa loro. Uso fu de' Greci, Romani e Barbari stessi di non ammettere alla milizia se non persone libere, e di non dar l'armi giammai agli schiavi, per timore che [1203] costoro dipoi non insolentissero e scuotessero il giogo; e tanto più perchè il numero degli schiavi ordinariamente era sterminato negli antichi tempi presso d'ogni nazione. Se i Romani in qualche gravissimo bisogno di gente si vollero valer degli schiavi, lor diedero prima la libertà. Non dovettero i signori sarmati usar tutta la convenevol precauzione in tal congiuntura. Insuperbiti i loro servi, e conosciuta la propria forza, rivolsero in fatti da lì a non molto l'armi contra de' proprii padroni; e questi, non potendo resistere, furono astretti a prendere la fuga, ed a lasciar tutto in potere di chi dianzi loro ubbidiva. San Girolamo [Hieron., in Chronico.] ed Ammiano [Ammian., Histor., lib. 17 et 19.] danno il nome di Limiganti a quei servi, e a' lor padroni quello di Arcaraganti. Ebbero questi ultimi ricorso allo Augusto Costantino, il quale benignamente gli accolse ne' suoi Stati. Per attestato dell'Anonimo Valesiano [Anonymus Valesianus.], erano più di trecento mila persone tra grandi e piccioli dell'uno e dell'altro sesso. Costantino arrolò nella milizia i più robusti: il rimanente fu da lui compartito per varii paesi, cioè per la Tracia, Scitia (cioè la Tartaria minore), Macedonia ed Italia, con dar loro terreni da coltivare. Altri di que' Sarmati liberi, per testimonianza d'Ammiano, si ricoverarono nel paese dei Victobali; e solamente nell'anno 358 furono rimessi dai Romani in possesso del loro paese.
Anno di | Cristo CCCXXXV. Indizione VIII. |
Silvestro papa 22. | |
Costantino imperadore 29. |
Consoli
Giulio Costanzo e Ceionio Rufio Albino.
Fratello di Costantino Augusto, ma da altra madre nato, cioè da Teodora figliastra di Massimiano Erculio, fu questo [1204] Giulio Costanzo console. Oltre allo onore del consolato, ebbe egli anche la eminente dignità di patrizio, il titolo di nobilissimo, e la facoltà di portar la veste rossa orlata d'oro [Zosimus, lib. 2, cap. 39.]. La cognizion di questo personaggio importa molto alla storia, perchè noi troveremo Gallo Cesare a lui nato dalla prima moglie, e Giuliano, a lui procreato da Basilina sua seconda moglie, Giuliano, dissi, che arrivò poi ad essere imperadore, ma d'infame memoria per la sua apostasia. Il secondo console, cioè Ceionio Rufio Albino, era figliuolo di Rufio Volusiano, stato due volte console, come apparisce da un'antica iscrizione [Panvin., in Fast. Gruterus, in Thesaur. Inscript. Reland., in Fast.]. Dal Catalogo [Cuspin. Bucher., de Cyclo.] del Cuspiniano e del Bucherio si ricava che a lui stesso nel dì 30 di dicembre dell'anno presente fu conferita la prefettura di Roma, nella quale egli continuò per tutto l'anno seguente. Entrava l'Augusto Costantino nel dì 25 di luglio del presente anno nell'anno trentesimo del suo regno, o imperio cesareo. Il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] pretende che questi fossero i tricennali dell'imperio augustale di Costantino, e che da lui nell'anno precedente fossero stati celebrati quei del cesareo. Ma, secondo i miei conti, avendo egli veramente preso il titolo di Augusto nell'anno di Cristo 307, non poteva aver principio nell'anno presente il trentesimo dell'augustale imperio. Nè può stare che egli nel precedente anno celebrasse i tricennali del regno cesareo, perchè nell'anno 305 non fu, per quanto abbiam detto, dichiarato Cesare, ma solamente nel 306. Comunque sia con grande magnificenza [Idacius, in Fastis. Chronic. Alexandr.] e con una non minor divozione e pietà solennizzò Costantino questa festa, giacchè, fuorchè a Cesare Augusto, a niun altro degli imperadori era riuscito di giugnere così avanti nel godimento del regno. Perciò [1205] umili azioni di grazie rendè all'Altissimo [Euseb., in Vita Constantin., lib. 4, cap. 40.]; ed in questo medesimo anno fece la dedicazione dell'insigne chiesa della Resurrezione ch'egli avea fatto fabbricare in Gerusalemme. Ma che? La stessa pietà di sì glorioso Augusto incorse in questi medesimi tempi in una gravissima macchia, di cui parla diffusamente la storia ecclesiastica, e che a me basta di accennare in poche parole. Più che mai si trovava sconvolta la Chiesa di Dio per l'eresia d'Ario, e per la prepotenza de' suoi partigiani e protettori. Costantino, per mettere fine a tanti torbidi, ordinò nel presente anno che si tenessero [Baron., Annal. Eccl. Collectio Concilior. Labbe, Fleury, et alii.] due concilii, l'uno in Tiro, e l'altro in Gerusalemme. La intenzione sua si può credere che fosse buona; ma non badò egli d'aver presso di sè lo scaltro Eusebio vescovo di Nicomedia, ed altri o segreti o palesi campioni d'Ario, che s'abusavano della di lui confidenza ed autorità in favore di quell'eresiarca, e in pregiudizio della dottrina della Chiesa cattolica e del santo concilio di Nicea. Avvenne dunque che nel concilio di Tiro, Atanasio, insigne e santo vescovo d'Alessandria, scudo de' cattolici, fu deposto, e in quello di Gerusalemme Ario ed i suoi seguaci furono ammessi alla comunion della Chiesa cattolica; tutti passi che offuscarono non poco la gloria di Costantino sulla terra, e che abbisognarono della misericordia di Dio per lui nell'altra vita. Portatosi a dimandargli giustizia sant'Atanasio, in vece di ottenerla, fu relegato nelle Gallie. Altra novità nell'anno presente, novità pregiudiziale alla sua politica, fece l'Augusto Costantino; perchè, non contento di aver dichiarati Cesari i suoi tre figliuoli, cioè Costantino, Costanzo e Costante [Idacius, in Fastis. Chronicon Alexandr. Hieron., in Chron.]: nel settembre di quest'anno conferì il medesimo titolo di Cesare e di principe della [1206] gioventù a Flavio Giulio Delmazio suo nipote, perchè figliuolo di Delmazio suo fratello. Un altro nipote, nato dal medesimo suo fratello, avea Costantino, per nome Flavio Claudio Annibaliano. Il creò re del Ponto, della Cappadocia e dell'Armenia minore. Per attestato ancora dell'Anonimo Valesiano [Anonymus Vales.], gli diede in moglie Costantina o sia Costanziana sua figlia, decorata del titolo d'Augusta. Disavvedutamente con questi atti di munificenza, lodevoli per altro in sè stessi, trattandosi di esaltare parenti suoi sì stretti, non badò il saggio Augusto che egli seminava le discordie fra i proprii figliuoli e i lor cugini. Non andrà molto che ce ne accorgeremo. Benchè sia incerto il tempo, in cui ad un certo Calocero, uomo vilissimo, saltò in capo la follia di farsi imperadore, pure non è fuor di proposito il darne qui un barlume di conoscenza (che di più egli non meritava), giacchè san Girolamo [Hieronymus, in Chronico.] e Teofane [Theophan., Chronographia.] ne parlano all'anno 29 di Costantino. Costui pare che occupasse l'isola di Cipri; ma un fuoco di paglia fu questo: dall'armi imperiali egli restò in breve oppresso, e condannato ai supplizii degli schiavi ed assassini. Recitò Eusebio vescovo di Cesarea nel settembre di quest'anno in Costantinopoli quel panegirico [Euseb., in Vita Constant., lib. 4] che di lui abbiamo in onore di Costantino Augusto. E nell'ultimo dì parimente dell'anno presente passò a miglior vita san Silvestro papa [Anastas. Bibliothec.], pontefice gloriosissimo, perchè a' suoi tempi, ed anche, siccome possiam conghietturare, per cura sua, si vide trionfar la croce di Cristo nel cuore di Costantino, ed alzar bandiera la religion cristiana sopra l'antica superstizione di Roma pagana; di Roma, dico, dove tanti insigni templi sotto di lui si cominciarono a dedicare al vero Dio, siccome può vedersi nella storia ecclesiastica.
Anno di | Cristo CCCXXXVI. Indizione IX. |
Marco papa 1. | |
Costantino imperadore 30. |
Consoli
Flavio Popilio Nepoziano e Facondo.
Benchè i fasti e le leggi non ci porgano se non il cognome del primo console, cioè Nepoziano, pure difficilmente si fallerà in credere ch'egli fosse quel Flavio Popilio Nepoziano, a cui fu madre Eutropia sorella di Costantino Augusto. Noi torneremo a vedere questo personaggio, all'anno 350, proclamato imperadore, ma imperadore di poca durata. Seguitò ancora in quest'anno Rufio Albino ad esercitare la prefettura di Roma. In luogo del defunto s. Silvestro fu creato romano pontefice [Anastas., in Bibl. sive Chron. Damasi.] Marco nel gennaio dell'anno presente. Cosa alquanto pellegrina può parere a talun il vederlo appellato solamente Marco, perchè questo era un solo prenome; e non già un nome o cognome de' Romani. Ma s. Marco evangelista avea fatto divenir nome questo prenome, per tacere altri esempli. Non durò più di otto mesi e venti giorni la vita di esso pontefice, registrato dipoi nel catalogo de' santi. Fu di parere il cardinal Baronio [Baron., in Annal.] che Giulio a lui succedesse nella cattedra di san Pietro sul fine d'ottobre; ma il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.], fondato nella Cronica di Damaso, differisce la di lui esaltazione sino al febbraio del susseguente anno, senza apparire il perchè in questi pacifici tempi restasse vacante per tanto tempo la sedia di san Pietro. Appartengono a quest'anno le prime nozze di Costanzo Cesare, secondo figliuolo dell'imperadore [Euseb., in Vita Constant., lib. 4, cap. 49.], celebrate con gran pompa dalla corte: nella qual congiuntura l'Augusto suo padre distribuì ai popoli e alle città moltissimi doni. [1208] Il Du-Cange [Du-Cange, Hist. Byz.] inclinò a credere che questa prima moglie di Costanzo (perchè n'ebbe più d'una) fosse figliuola di Giulio Costanzo, cioè d'un fratello di esso Costantino Augusto e di Galla; ma resta tuttavia scuro questo punto. Una solenne ambasciata dall'India circa questi medesimi tempi venne a trovar Costantino, portandogli in dono delle gemme preziose, e delle stravaganti bestie di que' paesi sconosciute presso i Romani. Aggiugne Eusebio, che i re e i popoli dell'India in certa maniera si suggettarono alla signoria di Costantino, con riconoscerlo per loro imperadore e re, alzando in onore di lui statue ed immagini. Si potrebbe dubitare se Eusebio in questo sito la facesse più da oratore o poeta, che da storico. Volle dopo le nozze di Costanzo, e conseguentemente nel presente anno, e non già nel precedente, come fu d'avviso il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], l'Augusto Costantino provvedere alla succession de' figliuoli, forse perchè qualche incomodo della sanità gli faceva già presentire non lontano il fin de' suoi giorni; nè i saggi aspettano a regolar le loro faccende allorchè la morte picchia alla porta. Divise dunque l'imperio fra i suoi tre figliuoli e due nipoti nella seguente maniera. Al primogenito suo Costantino, già ammogliato, ma senza sapersi con chi, lasciò tutto il paese che è di là dalle Alpi, ed era stato della giurisdizion di suo padre, cioè tutte le Gallie coll'Alpi Cozie, le Spagne colla Mauritania Tingitana e la Bretagna, porzione che oggidì forma tre potenti e fioriti regni. A questo principe, abitante allora in Treveri, fece ricorso l'esiliato sant'Atanasio, e ne fu ben ricevuto. A Costanzo secondogenito assegnò il padre tutto l'Oriente coll'Egitto, a riserva della porzione che già dissi data ad Annibaliano suo nipote. Pretese l'Apostata Giuliano [Julian., Orat. III.] che per favore particolare [1209] Costantino concedesse le provincie d'Oriente a Costanzo, perchè più degli altri l'amava a cagion della sua sommessione e compiacenza. A Costante terzogenito fu assegnata [Anonym. Valesianus. Zonaras, in Ann. Aurelius Victor, in Epitome.] l'Italia, l'Africa e l'Illirico: vasta porzione anche essa, perchè si stendeva per tutta la Pannonia, per le Mesie, Dacia, Grecia, Macedonia, ed altri paesi già attinenti all'Illirico, e verisimilmente abbracciava anche il Norico e le Rezie. Il Valesio e il Tillemont, correggendo un passo di Aurelio Vittore, con leggere Delmatio in vece di Delmatiam, pretendono che Costantino lasciasse la Tracia, la Macedonia e l'Acaia, cioè la Grecia, a Delmazio suo nipote. Ma non è da credere che Costantino della sua diletta città di Costantinopoli volesse privare i suoi figliuoli, e darla al nipote con dote tanto inferiore di paese annesso. O non s'ha dunque da emendare il passo di Vittore che attribuisce a Costante l'Illirico, la Italia, la Tracia, la Macedonia e la Grecia; o, quando pur si voglia fallato il suo testo, si dee stare con Zonara [Zonaras, in Annal.], il quale chiaramente scrive che a Costante toccò, oltre all'Oriente, anche la Tracia colla città del padre, cioè con Costantinopoli. E a farci credere che così fosse, concorre quanto poco fa dicemmo della parzialità a lui mostrata dal padre Augusto. Quanto a Delmazio, altra parte, a mio credere, non fu assegnata che la Ripa Gotica, come ha l'Anonimo Valesiano [Anonym. Vales.], cioè verisimilmente la Dacia nuova, o pur la Mesia inferiore. Di qual parte divenisse o restasse signore Annibaliano con titolo di re, già s'è detto all'anno precedente. Ed ecco il romano imperio trinciato in tante parti, e con tal divisione infievolito in maniera da prepararsi alla rovina; ma Diocleziano avea già somministrato a Costantino questo modello, e Costantino dovette anch'egli [1210] figurarsi meglio assicurata la sussistenza di questi regni con provvederli di principi, de' quali cadauno dal suo canto gareggerebbe per difendere dai Barbari la sua porzione, senza prevedere o sospettar egli che l'ambizione e gelosia potesse poi con tutta facilità attizzar la discordia fra tanti principi, ed anche fra gli stessi fratelli.
Anno di | Cristo CCCXXXVII. Indizione X. | |
Giulio papa 1. | ||
Costantino juniore | imp.1. | |
Costanzo e | ||
Costante |
Consoli
Feliciano e Tiberio Fabio Tiziano.
Certo è il cognome del secondo console, cioè di Tiziano, non egualmente è sembrato tale il suo nome e prenome a cagion dei dubbii mossi al consolato dell'anno 391, siccome vedremo. Nel dì 10 di marzo a Rufio Albino succedette nella dignità di prefetto di Roma Valerio Procolo. La saviezza con cui Costantino reggeva i suoi popoli, la sterminata sua potenza, e il credito con tante vittorie acquistato, aveano per più anni tenuto in dovere i Barbari e fatta godere a tutte le parti del romano imperio un'invidiabil pace: quando eccoli dare all'armi i Persiani, e muover guerra al romano imperio. Un racconto di Cedreno [Cedren., in Histor.], a cui il Valesio [Valesius, in Annot. ad Ammian., lib. 25, cap. 4.] prestò fede, fa originata questa rottura de' Persiani coi Romani dopo una pace per circa quaranta anni durata fra loro, da un certo Metrodoro, filosofo persiano, il quale, adunata gran copia di pietre preziose nell'India, parte da lui rubate e parte a lui consegnate da un re indiano da portare in suo nome all'Augusto Costantino, venne veramente a trovar l'imperadore, a cui diede le gioie, ma senza far parola del re donatore, con [1211] aggiugnere ancora di avergliene consegnata quel re un'altra gran quantità, ma che, in passando per la Persia, erano state occupate da quel re Sapore II. Perchè Costantino ne fece delle istanze ad esso re con assai altura, e non ne ricevè risposta, si allumò la guerra fra loro. Altre particolarità aggiunte da esso Cedreno a una tal relazione da niuno degli antichi conosciute, han ciera di favole, delle quali per altro è fecondo quello scrittore troppo lontano dai tempi di Costantino. Tuttavia Ammiano [Ammianus, lib. 25, cap. 4.] ha qualche cosa di questo Metrodoro, con dire che Costanzo, e non già Costantino, badando alle bugie di Metrodoro, fu istigato a far guerra ai Persiani. Intanto a noi gioverà l'attenerci ad autori più classici, cioè ad Eusebio [Euseb., in Vita Constantini, lib. 4, cap. 56.], Libanio [Liban., Orat. III.] ed Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesarib.]. Vanno essi d'accordo in dire che il re di Persia, Sapore, da gran tempo faceva de' preparamenti per muovere guerra al romano imperio. Allorchè ebbe disposto tutto, inviò ambasciatori a Costantino, ridomandando gli Stati che una volta appartenevano alla corona persiana. La risposta di Costantino fu che verrebbe egli in persona ad informarlo de' suoi sentimenti; ed in fatti allestite armi e milizie, chiamate in gran copia da tutte le parti del suo imperio, con vigore si preparò per questa importante spedizione. Un così potente armamento d'un imperadore avvezzo alle vittorie fece calar ben tosto gli orgogliosi spiriti del re persiano, le cui armate aveano già dato principio alle scorrerie nella Mesopotamia, di modo che spedì nuovi ambasciatori a Costantino per trattar di pace. Eusebio [Euseb., in Vita Constantini, cap. 57.] qui più degli altri merita fede, e ci assicura che l'ottennero; laddove Rufo Festo [Rufus Festus, in Breviar.] e l'Anonimo Valesiano [Anonym. Valesianus. Libanius. Julianus.], Libanio e [1212] Giuliano l'Apostata pretendono che Costantino continuasse i preparamenti militari per la guerra; e noi vedremo che Costanzo suo figliuolo fu da lì a non molto alle mani col re di Persia. Tuttavia Ammiano è di parere che Costanzo, e non già i Persiani, quegli fu che volle rompere, sedotto, siccome già accennammo, dal suddetto Metrodoro.
Avea l'Augusto Costantino goduta in addietro una prosperosa sanità, accompagnata con gran vigore di corpo e d'animo [Euseb., in Vita Constantini, lib. 4, cap. 53.], ed era già pervenuto al principio dell'anno sessantesimo terzo di sua età. Ma convien credere che anche nel precedente anno qualche interna debolezza o malore più vivamente che mai il facesse accorto dell'inevitabile nostra mortalità. Però, siccome dicemmo, assettò gl'interessi domestici; più che mai si applicò alle opere di pietà; fece fabbricare il sepolcro suo presso il magnifico tempio degli Apostoli, eretto e dedicato da lui in Costantinopoli, e spesso trattava dell'immortalità dell'anima, insegnata dalla religion di Cristo e dalla migliore filosofia. Ora, dopo aver egli con gran divozione celebrato il giorno santo della Pasqua, cominciò a sentir de' più gravi sconcerti nella sanità, e si portò ai bagni, ma senza provarne profitto. Venuto che fu ad Elenopoli, si aggravò il suo male; ed allora, conoscendo approssimarsi ormai il fine dei suoi giorni [Euseb., ibid., cap. 61.], con tutta umiltà confessò i suoi peccati in quella chiesa, e fece istanza ai vescovi dimoranti nella sua corte di ricevere il sacro battesimo, differito da lui fin qui, secondo l'uso od abuso d'alcuni in que' tempi, per cancellare e purgare prima di morire in un punto solo tutti i peccati della vita passata coll'efficacia di quel sacramento. Questa funzione fu celebrata poco appresso, essendo egli passato da una sua villa presso di Nicomedia [Hieron., in Chron.]; e chi il [1213] battezzò, fu Eusebio vescovo di quella città, uomo per altro screditato per la sua aderenza agli errori d'Ario. Non v'ha oggidì persona alquanto applicata all'erudizione che non conosca essere stato conferito il battesimo a questo celebre imperadore, e primo fra gl'imperadori cristiani, non già in Roma per mano di san Silvestro papa nell'anno 324, come ne' secoli dell'ignoranza le leggende favolose fecero credere, ma bensì nell'anno presente in Nicomedia sul fine della di lui vita. Se altro testimonio che Eusebio Cesariense non avessimo di questo fatto, potrebbesi forse dubitare della di lui fede, perchè vescovo almen sospetto di aver favorito il partito dell'eresiarca Ario, contuttochè non sia mai probabile che scrittore sì riguardevole volesse e potesse spacciare un fatto, che così agevolmente si sarebbe potuto con sua vergogna smentire, qualora fosse pubblicamente seguito in Roma tanti anni prima il battesimo d'esso Augusto. Ma il punto sta, che con Eusebio, in raccontar questo fatto, s'accordano il santo vescovo [Ambrosius. Hieronym. Socrates. Sozomenus. Theodoret. Evagrius. Chron. Alexandrinum.] Ambrosio, san Girolamo e tanti vescovi del concilio di Rimini nell'anno di Cristo 359; e Socrate, Sozomeno, Teodoreto, Evagrio e la Cronica Alessandrina. Non ne cito i passi, potendo il lettore informarsi meglio di questo da chi ex professo ha ventilata cotal quistione. Posto poi il battesimo così tardi ricevuto da Costantino, per cui egli cominciò veramente a chiamarsi cristiano, e ad essere partecipe dei divini misteri [Valesius, Adnot. ad Euseb. Tillemont, Mémoires des Emper.]; s'è cercato se Costantino fosse almeno in addietro nel numero de' catecumeni, nè si son trovati bastanti lumi per decidere questo punto. Quel che è certo, da gran tempo l'impareggiabil Augusto, con aver abiurato l'empio culto degli idoli, era cristiano in suo cuore, e adorava Gesù Cristo, e promoveva a tutto [1214] suo potere gl'interessi della sua santa religione, benchè non si sottomettesse per anche al giogo soave del Vangelo, e all'obbrobrio della Croce; e si sa che egli superava col suo zelo e colla sua divozione anche molti veterani nella scuola del Crocifisso. Dopo il battesimo, che il piissimo Augusto ricevè con gran compunzione ed ilarità insieme d'animo al veder quelle sacre cerimonie, vesti l'abito bianco, e diedesi a far varii regolamenti, l'uno dei quali fu il richiamar dall'esilio sant'Atanasio [Athan., Apolog. II.], e, secondo tutte le apparenze, anche gli altri vescovi banditi. Confermò ancora nel testamento la division fatta degli Stati ne' suoi figliuoli, con chiamare a sè, come più vicino, Costanzo, il quale non giunse a tempo di vederlo vivo.
Nella sacra festa adunque della Pentecoste, caduta in quest'anno nel dì 22 di maggio, fu chiamato, come si può credere, alla gloria de' beati questo insigne imperadore, in età di sessantatrè anni e tre mesi, per quanto si deduce con varie conghietture dagli antichi scrittori [Euseb., in Vit. Const. Socrates, in Histor. Eccl. Idacius, in Fastis. Cron. Alexandr.], correndo l'anno trentunesimo, dacchè egli fu creato Cesare. Nè sussiste che egli nell'ultimo della vita inclinasse agli errori d'Ario, come si lasciò scappar dalla penna san Girolamo [Hieron., in Chronico.], avendo assai fatto conoscere alcuni letterati ch'egli morì nella credenza e comunione della Chiesa cattolica: al che certamente nulla pregiudicò l'avergli Eusebio di Nicomedia somministrato il battesimo, la cui virtù non dipende dal ministro. Fu il corpo del defunto Augusto [Theodoretus, Histor., lib. 1, cap. 34.] con lugubre pompa portalo a Costantinopoli, accompagnato da tutta l'armata di quelle parti; ed esposto nella gran sala del palazzo, parata a lutto, e illuminata da assaissimi doppieri su candellieri d'oro, quivi restò, [1215] finchè arrivato dalla Soria Costanzo di lui figliuolo, solennemente lo condusse al sepolcro, ch'egli stesso s'era preparato, e che fu posto alla porta del tempio de' santi Apostoli in Costantinopoli. Incredibile ed universale fu il dolore [Euseb., in Vita Constant., lib. 4, cap. 69.] dei popoli per la perdita di questo incomparabile imperadore; e spezialmente il senato e popolo romano [Aurel. Vict., de Caesarib.] se ne afflisse, riflettendo che egli coll'armi, colle leggi e colla clemenza avea, per così dire, fatta rinascere Roma, e procacciata con tanta cura in addietro una mirabil tranquillità di pace al suo imperio. Perciò furono in essa Roma sospesi tutti gli spettacoli ed altri divertimenti; si serrarono i bagni, e con alte grida il popolo fece istanza che il di lui corpo venisse trasportato colà, con provar poscia estremo dolore, allorchè intese data ad esso sepoltura in Costantinopoli. I pagani stessi [Eutrop., in Brev.], secondo il sacrilego loro stile, ne fecero un dio, come eziandio si raccoglie da varie medaglie [Mediobarb., Numismat. Imper.], onore certamente detestato da quella grande anima che adorò il solo vero Dio in vita, e dopo morte possiam credere che passasse a godere i premii riserbati ai buoni in un regno più stabile e migliore. Il titolo di Grande, che noi comunemente diamo a Costantino, parve poco ai popoli, anche vivente lui; e però gli diedero quel di Massimo, che s'incontra nelle suddette medaglie e nelle iscrizioni. Ed, in vero, per quanto ebbe a confessare lo stesso Eutropio [Eutrop., in Brev.], benchè scrittore pagano, innumerabili pregi di corpo e d'animo, e una rara fortuna concorsero a formare di lui uno dei maggiori eroi dell'antichità. Videsi ritornato dal valore delle sue armi sotto un solo capo il romano imperio; cessarono pel suo saggio e clemente governo i gravissimi mali e disordini internamente patiti sotto i precedenti cattivi Augusti; [1216] e calato l'orgoglio alle nazioni barbare, niuna d'esse inferiva più molestia alcuna alle provincie romane, per timore di questo invitto Augusto. Ma la principal gloria di Costantino fu, e sempre sarà presso di noi cristiani, l'esser egli stato il primo ad abbandonare il culto degli idoli con abbracciare la vera religione di Cristo; e non solo di aver profittato per sè stesso di questa luce, ma d'essersi studiato a tutto potere di dilatarla pel vasto suo imperio, senza nondimeno forzare le coscienze altrui: studio che, secondato da' suoi successori, giunse in fine ad atterrar affatto il paganesimo, e a far solamente regnare la Croce per tutte le provincie romane. Quanto egli operasse, affinchè ciascuno aprisse gli occhi al lume del Vangelo, quante chiese egli fabbricasse, quanti templi famosi della idolatria distruggesse, e tanti altri saggi della sua umiltà e pietà, all'istituto mio non convien di riferire, rimettendo io il lettore, desideroso di chiarirsene, alla Vita di lui scritta da Eusebio, e alla storia ecclesiastica. Ma non posso tacere che, per attestato del medesimo storico [Euseb., in Vit. Const., lib. 4, cap. 23 et 25.], lo zelo di Costantino giunse a proibire l'esterno culto degl'idoli, e a far chiudere le porte de' loro templi, e a vietare i sagrifizii, l'aruspicina e varie altre superstizioni del gentilesimo. Che s'egli non potè sradicar tutto, il potente crollo nondimeno che gli diede, servì ai successori suoi Augusti di campo per compiere quella grande impresa. Per questo la memoria di Costantino si rendè venerabile per tutta la Chiesa, e tanto innanzi andò presso i Greci la stima di questo imperadore, che ne fecero un santo, e ne celebrano tuttavia la festa. Anzi nello Occidente stesso non sono mancate chiese che han fatto altrettanto, e scrittori che han compilata la Vita di san Costantino il Grande.
Ma qui si vuol avvertire i lettori, che quantunque riguardevoli sieno stati i meriti di questo glorioso imperadore; [1217] tuttavia, se noi prendiamo nella sua vera significazione il titolo di santo, indicante il complesso d'ogni virtù cristiana, e l'essere affatto privo di vizii e di sostanziali difetti: ben lontano fu Costantino dal conseguir sì decoroso titolo, che la sola pia adulazione de' secoli barbari a lui contribuì. Imperciocchè, a guisa di tanti altri principi che grandi sono appellati, non mancarono in lui varii difetti, che ebbero bisogno di misericordia presso Dio, e di scusa presso i mortali. Non son già qui sì facilmente da credere tanti biasimi a lui dati da Giuliano Apostata, e massimamente da Zosimo, il qual ultimo fece quanto sforzo potè per isminuire o denigrar la fama di Costantino. Scrittori tali, perchè ostinati nel paganesimo, maraviglia non è se sparlassero d'un imperadore che, quanto potè, diroccò il regno della lor superstizione. Ora tanto Giuliano [Julian., Oratione VII.] che Aurelio Vittore [Aurel. Victor, in Epitome.] ed Eutropio [Eutropius, in Breviar.] ci rappresentano Costantino, non solo avidissimo della gloria (passione per altro che in sè merita scusa, per non dire anche lode, qualora è di stimolo alle sole belle opere), ma ancora pieno d'ambizione, avendo egli cercato sempre d'ingrandirsi, senza mettersi pensiero se per vie giuste od ingiuste. Ma chi vuol male, tutte le altrui opere interpreta in sinistro. Gli attribuiscono ancora [Aurelius Victor, in Epitome.] un eccesso di lusso nell'ornamento del suo corpo, per aver portato, ed anche continuamente, il diadema; dal che si guardarono i suoi predecessori: accusa nondimeno di poco momento, perchè ai monarchi non è disdetto il sostenere la propria maestà colla magnificenza esteriore, purchè non giungano, come facea Diocleziano, a farsi trattare da iddii. Che poi Costantino negli ultimi suoi anni si desse ad una vita voluttuosa, amando i piaceri e gli [1218] spettacoli, lo scrissero bensì Giuliano [Julian., de Caesarib.] e Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 32.]; ma lo stesso Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.] e Libanio [Liban., Or. III.], amendue gentili, difendono qui la di lui memoria, con dire ch'egli continuamente leggeva, scriveva, meditavo, ascoltava le ambascerie e le querele delle provincie; e molto più parla esso Libanio delle continue di lui occupazioni per promuovere il pubblico bene; nè alcuno certamente mai fu che potesse imputargli l'aver trasgredite le leggi della continenza, nè commessi eccessi di gola. Se vero poi fosse che Costantino, come vuol Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 38], e si ricava anche da Aurelio Vittore, dall'una parte scorticava i popoli colle imposte e coi tributi, e dall'altra scialacquava i tesori in fabbriche e in arricchir persone inutili ed immeritevoli, di maniera che, secondo esso Vittore, governò ben egli come buon principe ne' primi dieci anni, ma ne' dieci seguenti comparve un ladrone, e ne' dieci ultimi si trovò come uno spelato pupillo: se vero, dissi, ciò fosse, avrebbe senza dubbio pregiudicato non poco alla di lui riputazione. Ma Evagrio [Evagr., lib. 3, cap. 40.] difende qui la fama di Costantino; e di sopra vedemmo, coll'autorità d'Eusebio, che questo regnante levò via un quarto degli aggravii sopra le terre; oltre di che, le sue leggi il danno a conoscere per nemico, e certo non tollerante delle avanie sopra i sudditi. Quel forse che con più ragione fu ripreso in questo gran principe, fu la sua troppa bontà, amorevolezza e clemenza; male procedente da buon principio, ma che non lascia d'essere male in chi è posto da Dio a governar popoli, se tale eccesso va a finire in danno del pubblico. Confessa lo stesso Eusebio [Euseb., in Vita Constantini, lib. 4, cap. 51 et 54.] che Costantino fu proverbiato, perchè niuno temendo, a [1219] cagione della soverchia di lui clemenza, di soggiacere all'ultimo supplizio, e poco o nulla affaticandosi i governatori delle provincie per frenare i delinquenti, ne pativa la pubblica quiete, e frequenti erano i lamenti de' sudditi. Aggiugne che due gravi disordini si provarono in quei tempi, cioè la prepotenza ed insaziabil cupidigia dei ministri di corte, che travagliavano tutti i mortali, e la furberia di molte inique persone che, fingendosi convertite alla religion cristiana, s'introducevano nella confidenza dell'imperadore, con abusarsene poi in pregiudizio del pubblico e della religione stessa, facendo credere quel che volevano all'incauto Augusto. Che anche appresso dei buoni principi si veggano cattivi, scellerati ministri, non è cosa forestiera; ma non sono esentati i principi stessi dal rendere conto a Dio e al pubblico di valersi di sì fatte braccia, senza prendersi pensiero delle lor malvage azioni. E Costantino ben li conosceva [Euseb., in Vita Constant., lib. 4, cap. 55.], e gridava, ma non provvedeva. E per conto degl'impostori che colla maschera del Cristianesimo ingannavano il troppo buono imperadore, sappiamo ch'egli, badando ad Eusebio di Nicomedia, e verisimilmente anche allo stesso Eusebio di Cesarea, fece de' passi falsi contra del sacrosanto concilio di Nicea, e in danno della dottrina e religione cattolica. Contuttociò si vuol ripetere che ad un principe tale, per tanti versi tutto dato alla pietà cristiana, e pieno di retta intenzione, possiam fondatamente credere che il misericordioso Dio avrà fatto godere un'abbondante misura della sua clemenza nel mondo di là; e che s'egli, al pari di un altro suo eguale, cioè di Carlo Magno, non meritò già d'essere venerato qual indubitato santo sugli altari, non l'abbia almeno Iddio escluso da un invidiabil riposo nel regno suo. Finalmente non vo' tralasciar di dire che sotto Costantino il Grande fiorirono non poco le lettere e i letterati, sì fra i cristiani che [1220] fra i pagani, perch'egli, per attestato di Aurelio Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.], cura particolare ebbe che si coltivassero l'arti e le scienze, e costituì ancora salarii ai maestri delle medesime. Si sa ch'egli stesso componeva orazioni e discorsi, e scriveva lettere con eloquenza, e ne restano tuttavia le pruove. Gli autori della Storia Augusta, tante volte menzionati di sopra, fiorirono quasi tutti sotto di lui, e alcuni d'essi ancora d'ordine suo scrissero le Vite de' precedenti imperadori, come Sparziano, Lampridio e Capitolino. Di sopra ancora parlammo di Eumene, di Nazario e d'Optaziano panegiristi, Jamblico filosofo platonico, Commodiano (se pur non è più antico) e Giuvenco poeti cristiani, Arnobio, Giulio Firmico, Eusebio Cesariense, e probabilmente Gregorio ed Ermogeniano, autori di due codici, una volta celebri, delle leggi romane, con altri che io tralascio, e intorno a' quali è da vedere la storia ecclesiastica e letteraria. Quel poi che dopo la morte di Costantino succedette, ancorchè appartenente al presente anno, sia a me lecito di trasferirlo al seguente, perchè assai si è parlato di questo.
Anno di | Cristo CCCXXXVIII. Indiz. XI. | |
Giulio papa 2. | ||
Costantino juniore | imp. 2. | |
Costanzo e | ||
Costante |
Consoli
Orso e Polemio.
Mecilio Ilariano esercitò in questo anno la prefettura di Roma. Da che giunto a Costantinopoli Costanzo Cesare ebbe data solenne sepoltura al cadavero del defunto padre, nell'anno addietro si applicò a dar sesto agli affari del pubblico. Intanto giunsero gli altri due suoi fratelli [Euseb., in Vit. Const., lib. 4, cap. 68.], cioè Costantino juniore e Costante. Niun d'essi finora avea portato se [1221] non il nome di Cesare. Le milizie, verisimilmente bene istruite da essi, fecero istanza che tutti e tre prendessero quello di Augusto, e questo di consenso delle altre armate, alle quali fu significata la morte di Costantino, e l'intenzione di crear imperadori tutti e tre i suoi figliuoli. Perchè si volle anche far l'onore al senato romano di aspettare il di lui assenso, che non mancò, tanto si andò innanzi, che solamente nel dì 9 di settembre [Idacius, in Fastis.] dell'anno prossimo passato furono essi pienamente proclamati Imperadori ed Augusti; e ne presero il titolo. Avea, siccome già dicemmo, l'Augusto Costantino creato Cesare Delmazio suo nipote, con assegnargli ancora alcuni Stati; e dichiarato re del Ponto, della Cappadocia ed Armenia Annibaliano di lui fratello. Non seppero sofferire i tre ambiziosi fratelli Augusti che, fuor d'essi, alcuno avesse parte nella signoria del romano imperio; e però furono a consiglio per escluderli. La maniera di ottener l'intento fu barbarica, e fa orrore, perchè si conchiuse di levar loro la vita. Ma prima di eseguire così crudele risoluzione, cominciarono essi ad esercitare la sovrana autorità, con levare il posto di prefetto del pretorio ad Ablavio [Gregorius Nazianzenus, Orat. 3.], benchè lasciato da Costantino per consigliere di Costanzo. Era stato costui onnipotente sotto il medesimo Costantino; ed uno di coloro che Eusebio Cesariense volle indicare, accennando que' ministri che, abusandosi della bontà d'esso Costantino, s'erano renduti odiosi a tutti per le loro violenze e per l'ingordigia della roba. Ritirossi Ablavio ad un suo palazzo di villa nella Bitinia, credendosi assoluto colla sola perdita del grado; tua abbiamo da Eunapio [Eunap., de Vit. Sophistar., cap. 4.] che Costanzo sotto mano spedì alcuni uffiziali con lettere dell'armata che lo invitava a tornarsene per suo gran vantaggio. Gli furono presentate quelle lettere con tutta [1222] sommessione dagli uffiziali, come s'egli fosse stato un imperadore; ed egli infatti si persuase che l'intenzione de' soldati fosse di crearlo Augusto. Ma dove è la porpora? domandò egli con volto e voce fiera. Risposero gli uffiziali di non aver eglino se non le lettere; ma che altri stavano alla porta per eseguire il resto. Ordinò Ablavio che entrassero; ma, in vece della porpora, gli presentarono le punte delle spade, e il tagliarono a pezzi. Fu insinuato forse nei medesimi tempi, se non prima, all'armata di far tumulto, con protestare ad alte grida di non volere se non i tre figliuoli del defunto Augusto per signori ed imperadori. E perciocchè erano venuti alla corte i suddetti Delmazio Cesare ed Annibaliano re e Giulio Costanzo, quelli cugini, e questi zio paterno d'essi tre Augusti, in quel bollore fu loro dai soldati tolta la vita [Zosimus, lib. 2, c. 40. Eutrop., in Breviar.]. Un altro fratello del defunto Augusto (forse Annibaliano) e cinque altri del medesimo sangue, tutti innocenti, incorsero nella stessa sciagura, per attestato di Giuliano Apostata [Julian., Epist. ad Athen.]. Anzi poco mancò che lo stesso Giuliano e Gallo suo fratello, figliuoli amendue del suddetto Giulio Costanzo, e per conseguente cugini anche essi dei tre Augusti, non fossero involti in questa rovina. Gallo restò illeso, perchè la infelice sua sanità il rappresentava, senza fargli maggior fretta, assai vicino alla tomba. L'età poi di soli sette anni quella fu che salvò la vita a Giuliano. Potrebbe essere che a questi principi scappasse detta qualche parola, che a loro, più che a' figliuoli di Costantino, fosse dovuto l'imperio per le ragioni della lor nascita; e che di qua procedesse il loro esterminio.
Ed ecco con che turchesca crudeltà diede l'Augusto Costanzo incominciamento al suo governo, giacchè niuno degli antichi scrittori attribuisce questa sanguinaria esecuzione a Costantino juniore o a Costante di lui fratelli, ma bensì [1223] a lui solo [Julian., Epist. ad Athen. Hieron., in Chron. Zosimus, lib. 2, cap. 40.]. Ed ancorchè egli palliasse l'iniquità sua, rifondendola sull'ammutinamento de' soldati, fu ognuno nondimeno persuaso che egli n'era stato segretamente il motore. Dopo la strage di questi principi, tutti del sangue imperiale, entrò anche la discordia fra i tre fratelli Augusti, o sia perchè cadaun d'essi pretendesse d'aver la sua parte negli Stati decaduti per la morte di Delmazio e di Annibaliano, o pure perchè la division de' regni fatta dal padre non piacesse a talun d'essi, o restasse esposta, per cagion de' confini, a varie controversie. È ignoto se allora, o pure dipoi, a motivo dell'Africa, insorgesse fiera lite fra Costantino e Costante, la quale poi andò a terminare in una brutta tragedia, forse perchè Costante pretendesse la Mauritania Tingitana, che soleva andar unita colla Spagna, o perchè Costantino credesse a sè dovuta qualche altra parte dell'Africa stessa. Unironsi, a cagion di tali dissensioni, i tre fratelli a Sirmio nella Pannonia, come attesta Giuliano l'Apostata [Julian., Orat. I et III.], e quivi Costanzo la fece da arbitrio, con tal saviezza nondimeno e moderazione, che non lasciò ai fratelli motivo di dolersi di lui; anzi nella partizion degli Stati più diede ad essi di quel che ritenne per sè, affinchè si mantenesse la buona unione e concordia fra tutti. Si disputa tuttavia fra gli eruditi se questo abboccamento ed accordo de' fratelli Augusti seguitasse nell'anno precedente o pure nel presente. Resta parimente controverso qual cambiamento si facesse nell'assegnamento degli Stati. Nulla io dirò del tempo, a noi bastando la certezza del fatto. Ma per conto della divisione, niuna apparenza di verità ha il dirsi dall'autore della Cronica Alessandrina [Chron. Alexandr.] che a Costantino, il maggiore dei fratelli, toccasse Costantinopoli colla Tracia, e ch'egli regnasse quivi un anno, quando, siccome [1224] dicemmo, le signorie di lui erano la Gallia, le Spagne e la Bretagna, paesi troppo disuniti e lontani dalla Tracia. Si può ben credere che la Cappadocia e l'Armenia, provincia allora assai sconvolta, venisse in poter di Costanzo; e che egli cedesse a Costantino il Ponto (il che vien asserito da Zosimo) [Zosimus, lib. 2, cap. 39.], e forse la Mesia inferiore; e che vicendevolmente Costante promettesse o rilasciasse a Costantino qualche parte dell'Africa, o pur altri paesi adiacenti all'Italia. Non si possono ben chiarire queste partite; quel che intanto è certo, l'ambizione, cioè quella fame che rode il cuore di quasi tutti i regnanti, nè mai si sazia, sconvolse di buon'ora i fratelli Augusti, e, non ostante il predetto accordo, poco stette a produr delle funestissime scene. Mentre poi fra loro bollivano queste dissensioni, Sapore re di Persia, animato dalla morte di Costantino il Grande, e credendo venuto il tempo di mietere, entrò con potente armata nella Mesopotamia [Theophanes, Chronogr. Chron. Alexandr. Hieron., in Chron.], e mise l'assedio alla città di Nisibi. Più di due mesi vi tenne il campo, ma inutilmente, perchè quella guernigione co' cittadini fece sì gagliarda difesa, che il superbo re dovette battere la ritirata, probabilmente perchè Costanzo avea ammassata gran gente per darle soccorso. Ma è disputato se all'anno presente appartenga questo assedio: che per altro la guerra coi Persiani continuò dipoi per anni parecchi, e Nisibi altre volle si vide assediata con avvenimenti de' quali non si può assegnare il tempo preciso, e che solamente, andando innanzi, saran brevemente accennati. Belle son due leggi d'essi Augusti, spettanti a questo anno contro ai ribelli infamatorii [L. 4, de petition., et l. 5, de famos. libell., Cod. Theodos.] e alle lettere orbe, ed accuse secrete, con ordinare che, in vigor di questi atti clandestini, non fatti secondo le regole della giustizia, niuno de' giudici potesse [1225] procedere contra degli accusati; e che si dessero alle fiamme quegl'iniqui libelli.
Anno di | Cristo CCCXXXIX. Indiz. XII. | |
Giulio papa 3. | ||
Costantino juniore | imp. 3. | |
Costanzo e | ||
Costante |
Consoli
Flavio Giulio Costanzo Augusto per la seconda volta e Flavio Giulio Costante Augusto.
Prefetto di Roma fu in quest'anno dal dì 14 di luglio sino al dì 25 d'ottobre Lucio Turcio Secondo Aproniano Asterio, ed ebbe per successore pel resto dell'anno in quella dignità Tiberio Fabio Tiziano, creduto lo stesso che nell'anno 337 era stato console. Non mancano leggi e fasti che non Costanzo, ma Costantino chiamano il primo console, e va d'accordo con essi un'iscrizione [Thes. Novus Inscript., pag. 377.] da me data alla luce. Contuttociò non si può abbandonar la comune opinione che mette Costanzo Augusto console, altrimenti si imbroglierebbe la serie dei consolati susseguentemente da lui presi. Che se Costantino juniore avesse presa in questo anno tal dignità, dovea dirsi console per la quinta volta. Nulla di particolare ci somministra a quest'anno la storia. Abbiam solamente alcune leggi [Gothofred. Chronolog. Cod. Theodos.] che ci fan vedere, dove in varii giorni si trovassero gli Augusti, ma non senza confusione, per li testi guasti. Allora se uno d'essi imperadori pubblicava una legge, non il solo suo nome, ma quello ancora degli altri due fratelli Augusti vi si metteva in fronte, acciocchè paresse che il romano imperio, tuttochè diviso fra i tre regnanti, seguitasse nondimeno ad essere un corpo ed una cosa stessa. Tre d'esse leggi, date in Laodicea, in Eliopoli e in Antiochia, indicar possono che Costanzo Augusto dovea essere passato colà per accudire alla guerra dei Persiani, i quali si può dire che [1226] ogni anno venivano a dar mala ventura alla Mesopotamia, provincia de' Romani. In esse leggi Costanzo si studiò di liberare i pubblici giudizii dalle sofisticherie e formalità superflue che eternavano i processi e le liti. Proibì egli ancora, sotto pena della vita, i matrimonii fra zio e nipote; e ai Giudei il poter comperare schiavi d'altre nazioni, e molto più il circonciderli, specialmente liberando gli schiavi cristiani dalle lor mani.
Anno di | Cristo CCCXL. Indizione XIII. | |
Giulio papa 4. | ||
Costanzo e | imp. 4. | |
Costante |
Consoli
Acindino e Lucio Aradio Valerio Procolo.
Non si dee sottrarre alla conoscenza dei lettori un'avventura di questo Acindino console, narrata da santo Agostino [August., de Serm. Dom., lib. 1, cap. 50.] come succeduta circa l'anno 343. Essendo egli prefetto dell'Oriente in Antiochia, fece imprigionar certuno che andava debitore al fisco di una libbra d'oro; e, simile a tant'altri che negli uffizii pubblici fanno a sè lecito tutto quel che loro cade in capriccio, con suo giuramento minacciò che se dentro al tal giorno colui non soddisfaceva, la sua vita la pagherebbe. A costui era impossibile il trovar quella somma. Per buona ventura aveva una moglie di rara bellezza, ma sprovveduta anch'essa di contante; quando un certo ricco, che le faceva la caccia, preso il buon vento, le esibì quel danaro, se ella voleva per una notte acconsentir alle sue voglie. Comunicò la donna tal esibizione al marito, che approvò il disonesto contratto. Ma, appagata che ebbe l'impuro la sua passione, giuocò di mano, e quando l'incauta donna si credè di avere in pugno l'oro promesso, non vi trovò che della terra. Qui si diede alle smanie e grida, e ricorsa ella ad Acindino prefetto, sinceramente [1227] gli espose il fatto. Allora egli riconobbe il suo fallo per le indebite minaccie fatte a quel misero. Obbligò l'adultero a pagar la somma dovuta al fisco, e alla donna assegnò quel campo, onde fu presa quella terra, con cui rimase beffata. Continuò nella carica di prefetto di Roma Tiberio Fabio Tiziano [Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.]; ma perchè egli dovette nel maggio portarsi alla corte di Costante Augusto, dimorante allora nell'Illirico, Giunio Tertullo sostenne le di lui veci finchè egli fu ritornato. Non erano sopite le pretensioni di Costantino juniore contra di Costante, e mala intelligenza passava fra questi due fratelli Augusti, esigendo esso Costantino alcuni paesi dal fratello o nella Africa, o nei confini d'Italia, quasichè il dominio delle Gallie, Spagne e Bretagna fosse picciola porzione per appagare le di lui ambiziose voglie. Forse perchè parole sole, e non fatti, riportava da Costante, pensò di farsi ragione coll'armi, giacchè vi era chi soffiava nel fuoco, e massimamente un certo Anfiloco tribuno, gran seminatore di zizzanie fra i due fratelli, al quale, col tempo, la giustizia di Dio non mancò di dare il condegno gastigo. Mossosi dunque Costantino dalle Gallie coll'esercito suo, entrò in Italia, e giunse fino ad Aquileia. Copriva egli il movimento di queste armi col pretesto di voler marciare in Oriente, per prestare aiuto al fratello Costanzo, che ne abbisognava, per la guerra a lui mossa dai Persiani. Zonara [Zonaras, in Annalibus.], che assai fondatamente tratta di queste funesta lite, scrive che Costante Augusto si trovava allora nella Dacia; ed in effetto abbiamo due leggi [L. 29, de Decurion., et l. 5, de petition., Cod. Theodos.] date da lui nel febbraio dell'anno presente in Naisso, città di quella provincia. Sì fatta visita non se l'aspettava egli; ma appena gli giunse l'avviso dell'entrata di Costantino in Italia, che, per fermare i suoi passi, gli [1228] spedì incontro i suoi generali con quelle milizie che raccorre potè nella scarsezza del tempo. Trovarono questi pervenuto ad Aquileia Costantino [Aurel. Victor, in Epitome.], e ch'egli attendeva più a saccheggiar il paese e ad ubbriacarsi, che a stare in guardia; perciò disposero un'imboscata nelle vicinanze di quella città presso il fiume Alsa, e col resto della loro gente lo impegnarono ad una battaglia. Tale fu questa, che le di lui schiere alla fronte e alla coda urtate, rimasero tagliate a pezzi, ed egli rovesciato a terra dal cavallo impennatosegli; e poi, trafitto da più spade, lasciò ivi la vita. Il suo cadavero, gittato nel vicino fiume, fu poi riscosso ed inviato a Costantinopoli, dove ottenne onorevole sepoltura. È giunta sino ai dì nostri una funebre orazione [Monod., in Const.], greca, composta da anonimo oratore, in lode di questo sconsigliato principe, da cui apparisce sparsa voce ch'egli dopo la battaglia morisse di peste in Aquileia. Faceva in fatti la pestilenza grande strage non meno nelle Gallie che nell'Italia in questi tempi. Ma i più convengono in dirlo privato di vita nel combattimento suddetto. E questo fine ebbe la di lui imprudente ambizione, e l'invidia portata al fratello Costante.
Zosimo [Zosimus, lib. 2, cap. 41.], che in tutto si studiò di spargere il fiele nelle azioni degl'imperadori cristiani, lasciò scritto che Costante per tre anni dissimulò il mal animo suo contra di Costantino, e che, mentre questi era amichevolmente entrato in una provincia (senza dire qual fosse), Costante, fingendo d'inviar soccorsi d'armati a Costanzo in Oriente, col braccio d'essi fece assassinarlo. Anche l'autore anonimo dell'orazione suddetta sembra autenticar questo racconto, con dire ucciso Costantino juniore da sicarii inviati da Costante suo fratello; ma egli attesta ancora la battaglia seguita fra loro, ed aggiunge la voce ch'egli fosse [1229] morto di peste. Ci può anche essere dubbio se quell'orazione fosse fatta in quel tempo, potendo essere una declamazione di qualche sofista lontano da questo fatto. Sembra inoltre che Filostorgio [Philostorgius, Hist., lib. 3, cap. 1.], scrittore ariano, se pure non è fallato il suo testo, concorra nel sentimento di Zosimo. Ma noi abbiamo san Girolamo [Hieron., in Chron.], Socrate [Socrates, Histor. Eccles., lib. 2, cap. 5.], Sozomeno [Sozomen., in Histor. Eccl.], i due Vittori [Victor, in Epitome. Victor, de Caes.], Eutropio [Eutrop., in Brev.] e Zonara [Zonar., in Annal.] che asseriscono aver Costantino mossa la guerra al fratello, ed incontrata perciò la morte. E a buon conto non si può negare ch'egli non fosse calato in Italia armato, ch'è quanto dire entrato coll'armi in casa di Costante. Della verità fu e sarà giudice Iddio. Intanto la morte di questo principe fece slargar molto le ali ad esso Costante, perchè egli entrò in possesso di tutti i di lui Stati, di maniera che si videro unite sotto il suo comando l'Italia colle adiacenti isole, l'Illirico colla Grecia, Macedonia ed altre settentrionali provincie, e quelle dell'Africa sino allo stretto di Gibilterra, e le Gallie, le Spagne e la Bretagna: ch'è quanto dire tutto l'Occidente, a riserva di Costantinopoli colla Tracia. Avrebbe potuto Costanzo Augusto suo fratello pretendere la sua porzione di questa eredità; ma, se crediamo a Giuliano [Julian., Orat. III.], volontariamente [1230] rinunziò ad ogni sua pretensione, sapendo, dice egli, che la grandezza d'un principe non consiste in signoreggiar molto paese (perchè quanto più esso è, tanto maggiore è la pension delle cure ed inquietudini), ma bensì nel governare quello che si ha, con altre, che possiam chiamare sparate oratorie, credendo nello stesso tempo che non mancasse ambizione a Costanzo per desiderar di crescere in potenza, se avesse potuto. Ma egli avea allora sulle spalle i Persiani, e talmente s'era ingrandito il fratello Costante colla giunta di tanti Stati, che troppo pericoloso sarebbe riuscito il muovergli guerra, e il voler colla forza ciò che non potea conseguir per amore. Nel mese di marzo verisimilmente accadde la morte di Costantino, perchè dopo d'essa le leggi del Codice Teodosiano [Gothofred., in Chron. Cod. Theod.] ci fan vedere Costante Augusto venuto dalla Dacia ad Aquileia, e nel mese di giugno in Milano, dove pubblicò un severo editto contra di coloro che demolivano i sepolcri, o per isperanza di trovarvi dei tesori, o per asportarne i marmi e gli altri ornamenti. Specialmente per tutto quel secolo fu in voga la frenesia ed avarizia di tali assassini delle antiche memorie, come consta da altre leggi e da molti versi del Nazianzeno[Anecdota Graeca.], da me dati alla luce. Quanto all'Augusto Costanzo, egli era in Bessa di Tracia nell'agosto, e nel settembre ad Antiochia, ma senza restar contezza alcuna di altre azioni che a lui appartengano.
FINE DEL PRIMO VOLUME.
VITA di Lodovico Antonio Muratori
PREFAZIONE
ANNALI D'ITALIA:
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
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XIV
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XVI
XVII
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Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le numerose grafie alternative (imperatore/imperadore, cadavere/cadavero, radunare/raunare, domestico/dimestico, giungere/giugnere, nascoste/nascose, Svetonius/Suetonius, sessantatrè/sessantatre, arringare/aringare e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Nella prima nota relativa all'anno LVII manca nell'originale il numero di capitolo.
Per facilitare la consultazione è stato aggiunto un indice alla fine del testo.