Title: I coniugi Varedo
Author: Enrico Castelnuovo
Release date: September 19, 2009 [eBook #30030]
Language: Italian
Credits: E-text prepared by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, and the Project Gutenberg Online Distributed Proofreading Team (http://www.pgdp.net) from digital material generously made available by Internet Archive (http://www.archive.org)
E-text prepared by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, and the Project
Gutenberg Online Distributed Proofreading Team (http://www.pgdp.net) from digital material generously made available by Internet Archive (http://www.archive.org)
Note: Images of the original pages are available through
Internet Archive. See
http://www.archive.org/details/iconiugivaredoro00castuoft
I Coniugi Varedo
I Coniugi Varedo
MILANO
Casa Editrice BALDINI & CASTOLDI
Galleria Vittorio Emanuele, 17-80
1913
MILANO—TIP. PIROLA & CELLA DI R. CELLA
Una promessa di matrimonio.
—Buona sera, Gustavo—disse la signora Valeria Inverigo, alzando gli occhi dal suo ricamo e tendendo la mano a un uomo di mezza età, di statura giusta, d'aspetto simpatico, ch'era entrato senza farsi annunziare.
—Buona Sera, Valeria. Come va?
Erano fratello e sorella, ella vedova, egli scapolo. Scambiati i saluti, l'ingegnere Gustavo Aldini si avvicinò alla stufa.—Qui si sta bene. Dai Nocera faceva un freddo….
—Vieni di là?
—Sì…. Anzi l'Adelaide m'incarica di dirti che ti rimanderà presto quei giornali.
—Non c'è fretta—replicò la signora Valeria. Stette un momento soprappensiero; poi soggiunse:
—E il consigliere è contento d'essere tornato a Venezia?
—Perchè non dovrebb'essere? Il trasloco a Venezia l'ha chiesto lui.
—Lui o lei?
—Lui, lui. Tutti gl'impiegati chiedono di tornar nel loro paese.
—Sarà… Se però i Nocera restavano ancora qualche anno laggiù era meglio.
—Oh, Valeria…. Un tempo tu volevi molto bene all'Adelaide….
—E gliene voglio sempre…. È come una sorella minore per me…. Ma via, tu capisci….
L'ingegnere si portò un dito alla bocca.—Zitto…. Non esser cattiva.
Parliamo di Diana piuttosto. È al liceo Marcello?
—Sarà qui a momenti…. Il professore Varedo s'è impegnato a non parlare che per cinquanta minuti al più.
—Uhm!
—Già avresti fatto bene ad andarci alla sua conferenza.
—Io? No, no…. Sono refrattario alle conferenze, io…. E perchè non ci sei andata tu?
—Ah, d'inverno la sera io non esco quasi mai. Tu potevi far un'eccezione per una volta.
—Per sentire una predica?… Figurati!… Con quel tema: Il dovere?… Che zuppa!
—Sei ingiusto con Varedo. È un giovine d'ingegno.
—Si può avere ingegno ed esser noiosi.
—Ma lui non è noioso…
—Opinioni. È un punto in cui non sono d'accordo con te e con
Diana…. Con Diana soprattutto.
Dalla fisonomia dolce e placida della signora Valeria trasparì il dispiacere che le recava questo dissidio, ed ella borbottò:—E pure…
—Lo so, lo so—rispose l'ingegnere con una spallucciata—che mi toccherà accettarlo per nipote…. s'egli ti farà l'altissimo onore di domandarti la mano della tua figliuola… Perchè sarebbe tempo che si decidesse, mi pare…. A ogni gita di quel signore a Venezia si crede che la bomba debba scoppiare; poi egli torna tranquillamente alla sua cattedra, e la conclusione è rimandata alle calende greche… Tirare in lungo così non è bello.
—Verissimo…. E son risoluta anch'io a metterlo alle strette… Ma io spero…. Zitto!… Hanno suonato…. Sarà Diana.
—Con chi è andata alla conferenza?
—Con miss Jane e con le Duranti che sono passate a prenderla….
Eccola.
Diana irruppe nel salotto, raggiante.
Portava un tòcco di lontra, una giacchetta color marrone guarnita di lontra anch'essa, un vestito di lana scura, succinto, accollato. Poteva avere ventuno o ventidue anni; aveva occhi bruni, a mandorla, folti e indocili capelli castani che le ombravano la fronte, e si raccoglievano in trecce dietro la nuca; persona svelta e ben proporzionata; grandi, ma non tanto da sconciarle la fisonomia, il naso e la bocca. In complesso piacente, senza essere bella.
—Sola?—chiese la signora Valeria.
—Miss Jane è qui dietro… Ci mette un secolo a far la scala…. Le Duranti verranno domani. Ah, mamma, che peccato che tu non abbia assistito alla conferenza!
—Troppo freddo in istrada, bambina mia, troppo caldo nella sala, troppa folla—rispose la signora Valeria.
—Oh in quanto a questo, sì… La sala era gremita. Fino nel vestibolo, fino sul pianerottolo, fin su nella galleria s'accalcava la gente.
—Vedi dunque….
—Ma tu, zio—ripigliò la ragazza—non hai una scusa al mondo.
—Abbi pazienza; alle conferenze mi addormento, e se mi addormento russo.
—A questa di Varedo non ti saresti addormentato…. Me ne appello a miss Jane.
Miss Jane, ch'entrava in quel momento, rivolse uno sguardo interrogativo alla sua pupilla. Era un'inglese, che aveva piuttosto il tipo d'una tedesca, piccola, rosea, grassottella, flemmatica.
—Dica lei, dica il suo parere sulla conferenza di questa sera.
Miss Jane, che ansava un poco, posò il manicotto sopra una sedia, si sbottonò i guanti, e rispose:—O yes, beautiful indeed… Molto bella.
Pronunciata questa sentenza, la governante si sprofondò in una poltrona in un angolo del salotto.
Per Diana ci voleva ben altro.—Una maraviglia, un incanto… E mai un pentimento, mai un'esitazione… E neanche una nota.
—Che memoria!—esclamò lo zio.
—Nossignore, improvvisava.
—Demostene addirittura.
La signora Valeria slanciò un'occhiata di rimprovero al fratello, mentre Diana, piccata, replicava:
—Oh c'erano tante persone che applaudivano… tanti professori, tante signore.
—Sentiamo, sentiamo di chi era composto questo sinedrio femminino?
—Ho proprio tempo da passarle in rassegna… C'era la Rigaldi con le figliuole.
—Anche con quella di due anni?
—Sei intollerabile.
—So ch'è una famiglia dove si comincia tutto presto… Avanti…
—C'era la contessa Bisenti, la marchesa Terriani con la nuora, la signora Astolfi, la moglie del provveditore agli studi…
—Povera donna!… Condannata a subirsi tutte le conferenze dalla prima all'ultima… Suo marito crede che questo entri nei doveri d'ufficio… Avanti…
—Non dico altro.
—E adesso non c'è più nessuno che non sappia quale sia il suo dovere—ripigliò Gustavo Aldini con aria di mite canzonatura.
—Non la tormentare—interruppe la signora Valeria.—E tu, Diana, levati il tòcco e la giacchetta, chè qui fa caldo e rischi di prenderti un malanno. Dov'è la Giuseppina?
—Non ne ho bisogno. Or ora vado in camera per un minuto. Ma mi fa una rabbia quello zio…
—O perchè gli dai retta?
L'ingegnere, che si divertiva un mondo a punzecchiar la nipote, tornò alla carica.—Insomma io vorrei che così in due parole tu mi dicessi il sugo di questa famosa conferenza.
—La finisci, Gustavo?—ammonì la sorella.
—Che male c'è?—replicò Aldini candidamente.—Desidero istruirmi.
—Oh—saltò su la ragazza—se desideravi istruirti sul serio, dovevi venire e avresti imparato anche tu qualche cosa…
—Il mio dovere?
—Per esempio il dovere di non esser seccante.
—Brava! È una risposta che mi piace.
—Le tiri pei capelli le impertinenze—notò la signora Valeria.
—Ma che impertinenze? Non son mica permaloso, io.
—Oh, è buono in fondo—disse, carezzevole, Diana.
Aldini ricominciò:—E se domando il sunto della conferenza…
—Ma basta—supplicò la signora Valeria.
—Il professore Varedo la stamperà… La leggerai—rispose la giovinetta.
—Vedi che non era improvvisata.
—A momenti ti graffio il viso—minacciò Diana mostrando le unghie.
—Fammi la grazia, Diana—disse la madre,—giacchè devi andare nella tua camera, vacci subito.
—Sì… Ma prima una parolina all'orecchio… Non voglio che lo zio senta… È troppo cattivo.
—Mi licenzi?
—No… resta lì accanto alla stufa.
L'ingegnere accese un sigaro, Diana si avvicinò alla signora Valeria e le sussurrò piano, dopo aver guardato l'orologio:—Alberto… il professore Varedo sarà qui verso le undici a prender il the con noi… Lo scuserai se non viene prima, ma deve liberarsi dagli amici che gli si sono attaccati ai panni per festeggiarlo… Se tu avessi visto!… E quante signore se lo disputavano!… Ma egli preferisce la nostra casa.
E gli occhi della giovinetta sfavillavano nella gioia del trionfo.
La madre le diede un buffetto sotto il mento.
—Sta bene. Lo scuseremo… e lo aspetteremo. C'è dell'altro?
Diana abbassò ancora la voce.—Mammina cara, non te ne hai a male se, prima d'interrogarti, ho dato un ordine alla servitù?
—Che ordine?
—Quello di non ricevere stasera nessuno, a eccezione del professore
Varedo.
—Oh Diana, Diana!… E perchè?
—Ho ragione di credere—seguitò la ragazza—ch'egli abbia da parlarti in segreto.
—Davvero?
—Sì.
La signora Valeria tirò a sè la figliuola e la baciò teneramente. Indi Diana, svincolandosi dall'amplesso, si avviò saltellante verso l'uscio. Ma, così di passaggio, fece una breve sosta presso la stufa, appoggiò le due mani sulle spalle dello zio, e con accento risoluto le disse:—Se mi vuoi bene, e son sicura che me ne vuoi molto, non devi fare opposizione. Sai che sono ostinata. O lui o nessuno.
Prima ch'egli avesse tempo di rispondere, ella era già fuori della stanza.
Miss Jane s'era, alzata per uscire anche lei, ma la signora Valeria la trattenne con un gesto. E le chiese:—C'è stato un colloquio stasera fra il professore Varedo e la signorina?
La governante protestò vivamente in un suo italiano particolare che conservava la costruzione inglese.—Colloquio?… Avrei non permesso… Dopo la conferenza, Miss Diana volle complimentare l'oratore come tutti… Io ero con lei. Il professore appena vide noi venne incontro a noi con mani tese… Feci mie congratulazioni… Molte altre signore e gentlemen spingevano da tutte parti… Per mezzo minuto io fui separata da Miss Diana… Forse allora il professore le parlò piano… Io potevo non… non potevo sentire… Signorina raggiunse me subito dopo, incantata, enchanted, delighted, yes.
—E per la strada il professore era con loro?
—Oh no… Avrei non permesso… Eravamo con signora e signorina Duranti… Signorina diede suo braccia a Miss Diana. Io fui con la madre, o yes.
—Basta così. Se vuol ritirarsi, vada pure.
Miss Jane riprese il manicotto e uscì salutando.
—Fata trahunt—borbottò Aldini.
—Per carità, non sfoggiare il tuo latino. Ne ho d'avanzo dell'inglese di Miss Jane.
—Dianzi parlava italiano.
—Peggio ancora. Stento quasi altrettanto a capirla. Ma vuol fare esercizio. Ha già dichiarato che quando Diana si sposi ella si ritirerà a Londra per darvi lezioni di lingua italiana.
—Staranno fresche le sue allieve… Ma tornando a noi, ci siamo, pare?
—Pare… E ti confesso che sarò liberata da un gran peso… Lo dicevi tu stesso; così non poteva durare.
—No certo.
—Dunque?
L'ingegnere allargò le braccia con un gesto rassegnato.
—Ma perchè, santo Iddio, devi esser così ostile ad Alberto
Varedo?—proruppe la signora Inverigo.
—Andiamo, Valeria, non ci badare—replicò Gustavo Aldini con dolcezza.—Lo sai ch'io vado soggetto alle antipatie.
—No, tu ti sei fitto in capo che Diana non debba esser felice con quell'uomo… E pure l'hai sentita un momento fa:—O lui, o nessuno.
—Verissimo… Avrò torto io.
—Io vorrei delle ragioni—insisteva la signora Valeria, incapace d'adattarsi a non esser d'accordo con suo fratello in un argomento di tanto rilievo.—Alberto Varedo è un galantuomo, viene da una famiglia di galantuomini… Il suo papà, la sua mamma, morti, poveretti, in età ancor vegeta, erano fior di gente sulla cui memoria non c'è un'ombra.
Gustavo approvò con un cenno del capo.
—Lui, Alberto—proseguì la Inverigo—è un bravo giovine, sfido a negarlo.
—Non lo nego.
—A ventisett'anni ha vinto un concorso alla Università di Torino: È già lì da due anni professore straordinario; ha pubblicato opuscoli, libri, collabora in vari giornali scientifici, è molto stimato, non ha vizi… Ne hai chiesto informazioni anche tu a que' tuoi amici di Torino e mi hai confessato lealmente di averle avute ottime. A meno che tu non mi nasconda qualche cosa…
—Nemmen per sogno.
—Te lo giuro, vi son dei momenti in cui penso che tu sia in possesso di qualche segreto relativo a Varedo…
—Sei pazza?
—Che so io? Di qualche pasticcio galante?… Di qualche catena?
Aldini scoppiò in una risata.—Alberto Varedo?… Che diamine?—Poi soggiunse serio:—E puoi credere che se avessi un indizio, un dubbio su questo proposito non sarei voluto andare a fondo, non mi sarei confidato con te? No, no, Valeria, levati queste ubbie dalla mente e non far d'una mosca un elefante… Io non ho nessun fatto da rimproverare a Varedo, non ho nessuna colpa da addebitargli; mi è poco simpatico, è vero, ma che vuol dir questo? Ho forse da sposarlo io?… E adesso, perchè tu non debba annaspar nebbia, e anche perchè questa è l'ultima volta che si torna sull'argomento, e se di qui a mezz'ora Alberto e Diana sono promessi sposi io non fiaterò più e farò invece ogni sforzo per vincere quella mia antipatia; adesso ti dico in poche parole perchè non mi piace… Intanto non mi piace fisicamente… questo ti fa ridere?… Bello o brutto non vorrebbe dir niente, pur che avesse l'aspetto giovine come si ha l'obbligo di averlo a ventinov'anni. Invece ne mostra quasi quaranta, con quel viso grave, con quel vestito da pastore evangelico, con quell'aria cattedratica di uomo che sia nato professore… Ed ecco il secondo motivo per cui non mi piace… È un pedante… Dà lezioni sempre, forse senza volerlo… In fine è un puritano, si scandalizza di tutto, non ammette scherzi… Anche la conferenza di stasera…
—Se non l'hai sentita!—esclamò la sorella.
—Basta il titolo: Il dovere… Lasciamolo in pace questo famoso dovere… Ossia ognuno ne faccia quel tanto che può, e discorriamone meno.
—Non hai altro… proprio altro?—domandò la signora Valeria.
—Non ho altro.
—Sia lodato Iddio!… Perchè questo è ben poco… Che Varedo sia brutto o bello, che mostri più meno della sua età, quando Diana n'è contenta!… Ella non si sarebbe adattata a sposare un uomo frivolo. Lo sai, è uno spirito entusiasta.
—Sotto cui si nasconde uno spirito critico.
—Credi?
—Ne son sicuro. Non rammenti quelle novelline, quei bozzetti satirici che si divertiva a scrivere anni fa?
—Bambinate. Ora ha smesso, e mostra un'inclinazione a studi più seri. Aiuterà suo marito, con cui è d'accordo anche nel puritanismo… Un po' puritana è anche lei… Tiene del suo povero babbo.
—Oh per questo non ho paura. Le lezioni della vita le insegneranno a essere indulgente come la sua mamma.
—Non però di manica larga come il suo zio materno—disse ridendo la signora Inverigo.
—Del resto—concluse l'ingegnere—poichè Domeneddio ha disposto nella sua sapienza ch'io diventi zio del professore Alberto Varedo, spero che finiremo coll'essere amici… Io ci metterò tutto il mio buon volere.
La signora Valeria tese al fratello ancora una volta la mano.—Grazie,
Gustavo.
Egli strinse quella bella mano bianca e nello stesso tempo si chinò su
Valeria e la baciò in fronte.
S'erano amati da bambini in su, ed egli era un cuor d'oro sotto il suo scetticismo apparente.
—Sono le dieci e tre quarti—notò la signora guardando l'orologio.—Varedo non può tardare… Non capisco che cosa faccia mia figlia… A meno che non voglia lasciarmi sola col suo aspirante.
—In questo caso batto in ritirata.
—Ma no; tu sei, dopo di me, il più stretto parente che abbia Diana;
Varedo è avvezzo a vederti qui; rimani.
Il colloquio fu troncato dalla comparsa di Diana. Ella s'era mutata da capo a piedi; aveva un elegantissimo vestito chiaro, un po' aperto sul davanti. I suoi occhi ridevano.
La madre e lo zio ebbero un'esclamazione di maraviglia.—Che lusso!
—Se gli abiti belli non si mettono in queste circostanze—ribattè la ragazza—quando si devono mettere?
—Diana, Diana—ripigliò la signora Inverigo, e c'era una nota di sgomento nella sua voce;—sei poi sicura che accadrà stasera quello che tu desideri?
—Sicurissima—replicò con baldanza la figliuola.
—E se qualcheduno desidera parlarmi a tu per tu?
—Quel qualcheduno avrà molto piacere ch'io ci sia.
—E io?—domandò Gustavo Aldini.
—Tu?… Ecco, se tu sei lo zio buono, accondiscendente, gentile ch'io sono avvezza a conoscere e ad amare, la tua presenza sarà per noi una gioia di più… se poi…
Anzichè terminare la frase. Diana tese l'orecchio e con un cenno della mano intimò silenzio.
Com'erano accese le sue guancie! Come batteva il suo cuore!
L'uscio s'aperse; il domestico annunziò:—Il professore Varedo.
Mostrava realmente un po' più de' suoi ventinove anni; non ne mostrava quaranta come aveva detto Gustavo Aldini; era piuttosto brutto che bello; nella gravità, nell'andatura, nel vestito poteva risvegliar l'immagine d'un pastore evangelico; ma in complesso non era nè così brutto, nè così grave, nè così solenne come si sarebbe supposto badando alla descrizione iperbolica dell'ingegnere. O forse l'emozione naturale di quell'ora decisiva dava alla sua fisonomia un'insolita mobilità.
Fatto si è che quella sera stessa Alberto Varedo chiese ed ottenne la mano di Diana Inverigo.
In casa degli sposi.
Poco più d'un anno dopo, in una sera fredda di marzo, l'ingegnere Gustavo Aldini scendeva da una vettura di prima classe alla stazione centrale di Torino.
I Varedo erano sotto la tettoia ad aspettarlo.
—Oh zio—disse Diana buttandogli le braccia al collo mentre il professore lo liberava dalla valigia.—Bene arrivato. Perchè non hai portato con te la mamma?
—Capirai, di questa stagione una donna d'una certa età si sposta mal volentieri.
Diana protestò:—Una certa età?… È giovine ancora la mamma.
—Sicuro che non è vecchia… A ogni modo…
—Ma sta bene, non è vero?
—Sì, grazie al cielo, sì… E puoi immaginarti quante cose m'ha detto per te, per tutti e due… A voi altri non domando come stiate; si vede.
—Ci vedrai meglio a casa.
Aldini, venuto a Torino, oltre che per salutare la nipote, anche per certi affari d'una Compagnia assicuratrice a cui egli apparteneva, avrebbe preferito alloggiare all'albergo, ma i Varedo non glielo permisero.
—Se ci fai un tiro simile—dichiarò Diana—non ti guardo più in viso.
Fuori della stazione, il professore aperse lo sportello di un fiacre e vi fece entrare sua moglie e lo zio.—Io vado a piedi—egli disse.—Passo un momento al Circolo filologico… Di qui a mezz'ora sono a casa… Arrivederci… E bada Diana, se viene Bardelli, che aspetti.
Gustavo Aldini fu riconoscente a Varedo d'averlo lasciato solo con sua nipote, e forse anche Diana aveva piacere di trovarsi a tu per tu con lo zio.
Onde, appena la vettura si fu mossa, vi fu un fuoco incrociato di domande e risposte.
—Raccontami della mamma, della nostra casa, degli amici.
—Tutti benone, tutti ti ricordano. Ma parlami di te…
—Io sono contentissima… Ma ci vai ogni giorno dalla mamma?
—Quando sono a Venezia anche due volte al giorno… Dunque sei contenta?… Proprio?
—Proprio… Se non avessi il cruccio della mamma ch'è così sola.
—Non tanto. Riceve sempre qualcheduno, la sera specialmente: le Duranti, Rinardi, Frandini, il dottore Del Marmo, i Nocera… Ma tu non ci annunzi ancora nessuna novità?
—Che novità?
—Via, non far l'ingenua… Le novità che si possono aspettare dalle spose.
Forse Diana arrossì, ma in carrozza era buio, e lo zio non se ne accorse.
—C'è tempo—ella disse.
—Lo so che c'è tempo… Ma spero bene che non ci farete sospirare troppo.
—Non c'è fretta—ripetè Diana. E tornò sul discorso della mamma.—Poteva venire a passar l'inverno con noi, che se pur qui fa più freddo si è meglio riparati che a Venezia…
—Verrai tu a casa nella stagione dei bagni.
—Sì, ci verrò… Ma se la mamma avesse passato l'inverno a Torino non si sarebbe rimaste divise che per pochi mesi… almeno in questo primo anno.
—In agosto si compirà appunto un anno dal tuo matrimonio.
—Vi ho rifatto una visitina ai primi d'ottobre… dopo il viaggio di nozze.
—Meno d'una settimana.
—Non si poteva di più. Alberto doveva esser qui per gli esami.
La vettura si fermò, qualcheduno uscì dalla portineria ad aprir lo sportello e a prender la roba.
Era un quartierino modesto e tranquillo, in Via della Zecca, ceduto a Varedo insieme a gran parte della mobilia da un collega dell'Università che per ragioni domestiche aveva abbandonato l'insegnamento e s'era ritirato in campagna. Solo una camera Diana aveva voluto arredar tutta di nuovo secondo il gusto suo, ed era la camera destinata ai forestieri, i quali però, nel pensiero di lei, non dovevano esser che la sua mamma e lo zio Gustavo.
—Per mia sorella va egregiamente—disse l'ingegnere quando la nipote ve lo accompagnò,—per, me è troppo; Non avevi un bugigattolo dove mettermi? Sai ch'io ho abitudini quasi spartane.
—Se tu fossi venuto con la mamma—rispose Diana—certo che non mi sarebbe stato possibile d'accomodarti bene, e forse avrei dovuto lasciarti andare all'albergo… Ma poichè sei qui solo e sei il primo che venga a farmi una visita (ella sottolineò la parola primo) voglio offrirti il meglio che ho.
Ella accennò ad andarsene.—T'aspetto nella stanza vicina, ch'è il nostro salotto da pranzo.
—Vengo con te. Mi fai vedere tutto l'appartamento.
Diana si mise a ridere.—È presto fatto. Ma non prendi prima qualche cosa?
—Senti, ho pranzato benissimo alla stazione di Milano, e non ho bisogno di nulla.
—Una tazza di brodo?
—No, grazie… Prendete il the voi altri la sera?
—Sì.
—Ebbene, lo prenderò con voi quando sarà tornato a casa tuo marito.
—Come credi.
Diana condusse lo zio nella camera nuziale, nello studio di Varedo, e in quello che doveva essere il salotto da ricevere, ma che in realtà non era che un'appendice dello studio, ingombro di libri e di carte. E dei libri ce n'erano da per tutto, perfino nel gabinetto da toilette degli sposi. Fu anzi lì, presso lo specchio davanti al quale Diana si pettinava, che l'ingegnere gettò l'occhio sopra un opuscolo legato in pergamena con fregi d'oro.
—Che roba è questa?—egli chiese.
—Tò, non lo conosci?—esclamò ella alquanto maravigliata.—Ce n'è una copia anche dalla mamma… senza la dedica però, che fu fatta stampare apposta per me.
Ed ella porse allo zio il libricciuolo.
—Adesso vedo—disse l'ingegnere Aldini.—È la conferenza di Varedo sul dovere.
—Sì… Guarda alla prima pagina.
—Alla mia Diana il giorno delle nostre nozze—lesse lo zio Gustavo.
Diana spiegò:—È stata una sorpresa. Ho trovato il libro nella mia borsa da viaggio… Non ne sapevi nulla?
—No davvero.
—Fu un pensiero gentile.
All'ingegnere pareva invece una pedanteria insigne, ma non volle mortificar la nipote, e si contentò di domandar sorridendo:—E rileggi la conferenza anche quando ti pettini?
—Cattivo zio!… Sempre un po' canzonatore.
—Via, via—replicò Aldini in tono scherzevole—chiamatemi presto a far da padrino a un bel maschiotto… Anche quella è una parte del vostro dovere.
Poi, nel salotto da pranzo, mentre Diana rifondeva lo spirito di vino sotto la teiera, lo zio ripigliò le sue interrogazioni.—E come passi le tue giornate? Come passi le sere? Hai molte conoscenze?
—No, non molte… Ma non m'annoio. Son sempre occupata.
—Ti alzi presto?
—Alle otto, otto e mezzo… Attendo alla casa; do gli ordini per le spese… Sono diventata una buona massaja… non lo credi?
—Anzi me ne rallegro.
—Così arrivan le undici ch'è l'ora in cui Alberto torna dall'Università… Prima di mezzogiorno si va a colazione… Dopo si lavora insieme…
—Come sarebbe a dire?
—Alberto studia; io ricopio i suoi manoscritti, gli correggo le bozze di stampa, faccio dei sunti per lui…
—Sunti di libri scientifici?
—Già. Non capisco mica tutto, ma a forza di volontà riesco a raccapezzarmi.
—Dunque, copiando manoscritti, correggendo stampe, facendo sunti, tu fai venir l'ora di pranzo?
—No, verso le sei usciamo spesso con Alberto per una passeggiata sotto i Portici o al Valentino, secondo il tempo… Alle otto si pranza.
—E dopo?
—Dopo si esce di nuovo per un'oretta… Qualche volta si fa una tappa al Caffè Romano.
—Non andate mai a teatro?
—Ci si va, ma di rado, perchè Alberto non ama perder tutta la sera.
—Anche la sera lavora… o piuttosto lavorate insieme?
—Si lavora, si chiacchiera, si prende il the.
—Sempre soli?
—Di tratto in tratto capita questo o quel collega di mio marito… o una vicina… E poi, c'è Bardelli… Quello non manca.
—Chi è Bardelli?
—È il braccio destro di Alberto. È uno studente laureato da poco in giurisprudenza e che aspira a entrare nell'insegnamento…. Bravo e buono… Si getterebbe nel fuoco per mio marito… Lo vedrai… un tipo unico… Pare un bimbo.
—E—seguitò lo zio—il pianoforte non lo apri mai? Dov'è?
—È di là, nel salotto da ricevere, seppellito sotto i libri… Lo apro solo a lunghi intervalli… Alberto non è appassionato per la musica.
—Così m'immagino che non si parlerà neanche più di quelle tue esercitazioni letterarie, di quelle novelline, di quei bozzetti…
—Figurati!—interruppe Diana—Non oso rilegger neppur io i vecchi manoscritti.
—Li hai portati con te?
—Mi son trovato un quaderno in fondo alla valigia. Ma Alberto non ne sa nulla… Egli odia la cosidetta letteratura amena.
—E tu?
—Io faccio il mio dovere di moglie savia cercando d'uniformarmi ai gusti di mio marito.
Ella si chinò sulla teiera; Aldini non insistette. S'era contenta lei, o che gli era lecito di tormentarla con osservazioni inopportune? Certo che molte cose gli parevano strane: e ch'ella si acconciasse con animo sereno alla soppressione della propria personalità, e che la vita impostale da Varedo potesse appagarla, e che questo freddo pedante ne avesse veramente conquistato il cuore, ma, in fine, s'era contenta, s'era felice?
Con gli occhi intenti nella sua teiera, Diana sussurrò:—L'acqua bolle.
E diede un'occhiata all'orologio.—Alberto dovrebb'esser qui.
—Ha l'abitudine di farsi attendere?
—No, è puntualissimo… Tanto puntuale che verso il the anche per lui.
In fatti Varedo entrava di lì a un minuto, tirandosi dietro un giovinetto piccolo di statura, senza un pelo di barba, dai movimenti impacciati, dal vestire dimesso.
—Avanti, Bardelli, avanti—disse Diana tendendo cordialmente la mano al factotum di suo marito. E si affrettò a presentarlo allo zio.—Il dottor Eugenio Bardelli, un professore in erba.
—Oh—fece il presentato divenendo rosso come un papavero.
Il professore mostrò a Bardelli una sedia.—Si accomodi… Le dò queste bozze corrette… Scusate, veh… Ma si tratta d'un articolo che deve comparir domani nella Rassegna giuridica.
—Ah, quello sul Diritto ateniese?—osservò Diana.
Gustavo Aldini guardò sua nipote con uno stupore doloroso. Come gliela riducevano, quella figliuola!
Ella intanto chiedeva a Bardelli:—Vuole una tazza di the?
—No, grazie… Non dormirei più.
—Un bicchierino di Marsala?
—Se mi dispensa mi fa un piacere.
—Un biscottino?
—Nemmeno… Ho pranzato tardi.
—Dio, che uomo incorruttibile sarà!
—Scusate—ripetè Alberto, mentre, sorseggiando il the, correggeva le stampe con la matita.
Terminata la revisione, passò ogni cosa a Bardelli.
—Mi fido di lei. Le porta in tipografia subito.
—Immediatamente—rispose il giovine alzandosi dalla sedia. Chiese a
Diana se aveva comandi, e con molti inchini si accomiatò.
—Povero Bardelli!—disse la signora.—Si abusa di lui.
—No, no. È contentissimo di servirci…. E se l'anno venturo, come spero, lo nominerò mio assistente, non potrà lagnarsi d'aver perduto il suo tempo.
—Quanti anni ha?—domandò l'ingegnere.—Ne mostra meno di venti.
—Ne avrà ventitre sonati—rispose Varedo.
—Ed è già un'arca di scienza—affermò Diana.
Il professore sorrise.—Un'arca di scienza è troppo…. Ma è studiosissimo.
Diana si rivolse allo zio.—Ti farò conoscere anche i fratelli, anche la madre… È una famiglia esemplare.
—Nei pochi giorni che son qui me la lascerai per qualche ora tua moglie?—disse l'ingegnere ad Alberto.
Questi assentì con bastante disinvoltura.
—Quando crede.
Rimasero intesi che Aldini sarebbe venuto a prendere la nipote ogni giorno dopo colazione (perchè la colazione egli non s'impegnava a farla con loro) e che più tardi, fra le cinque e le sei, si sarebbero incontrati con Alberto o sotto i portici o altrove.
La famiglia Bardelli.
L'ingegnere Aldini si divertiva un mondo a percorrere le vie di Torino a braccetto di questa nipote ch'egli teneva in conto di figlia e verso la quale, nonostante le molte dissomiglianze, lo attirava una simpatia ricambiata. Certo che s'erano bisticciati sovente; egli, scettico amabile, l'avrebbe voluta più duttile, più indulgente, meno recisa ne' suoi giudizi; egli, uomo d'ingegno, ma nemico d'ogni pedanteria, l'avrebbe voluta più chiassosa, più spensierata, più giovine insomma. Adesso il gran timore di lui era che il matrimonio con un uomo come Varedo avesse accresciuto i difetti di Diana. E in fatti egli la trovava, più ancora che a Venezia, noncurante del vestito e della persona, inesorabile nel condannare quello ch'ella chiamava il vizio elegante, pronta a correre agli estremi in tutto per amore di logica, onde il rompersi il capo sui volumi di giurisprudenza e di sociologia le appariva una conseguenza naturale dell'aver sposato un giureconsulto e un sociologo. Ma ella conservava intatte, e quest'era un conforto per lo zio, la sua bontà, la sua rettitudine, la semplicità de' suoi modi schietti e affettuosi. Quand'ella gli camminava a fianco, a passo rapido, in quelle giornate fredde, limpide, asciutte, e le guancie le si coloravano d'un vivo incarnato, e gli occhi le splendevano giovanilmente, egli s'illudeva che fossero tornati i bei tempi in cui strappando la fanciulla ai suoi maestri, al suo pianoforte, a' suoi libri, l'accompagnava al Lido a coglier fiori e a raccattare conchiglie… Anche ora egli la strappava alla stanza chiusa, alle carte polverose, alle occupazioni indigeste… perchè doveva egli ripartir così presto?… Ma forse era meglio. Egli non avrebbe potuto risparmiare a lei le sue osservazioni, a Varedo i suoi frizzi, e avrebbero finito con guastarsi…. E poi era evidente;… Varedo consentiva a lasciargliela perchè si trattava di pochi giorni; in caso diverso nè egli avrebbe rinunziato alla sua preziosa collaboratrice, nè ella avrebbe voluto disertare il suo posto. Già di tratto in tratto le venivano degli scrupoli.—Mi dispiace di non aver corrette io quelle bozze.—Oppure:—Povero Alberto! Ha da faticar per due oggi.
Lo zio Gustavo perdeva la pazienza.—O che razza di gente siete?… È come se aveste una dozzina di figliuoli e vi mancasse il pane da mettervi alla bocca… Non ho rimorsi, ho lavorato anch'io tutta la vita, e non per questo mi son voluto privar dell'aria, del sole, della compagnia de' miei simili.
—Belle parole!—ribatteva Diana.—Ma se tu avessi assunti degl'impegni!… Se tu avessi un programma scientifico da svolgere, un apostolato da esercitare!
—Questi sì che son paroloni—pensava Aldini. Ma si contentava di tentennare il capo in silenzio.
Ella enumerava con mal celata compiacenza le occupazioni molteplici di suo marito. In primis, la cattedra; poi la direzione di fatto (chè il direttore di nome era vecchio e malaticcio) della Rassegna giuridica; poi gli articoli per altre Riviste italiane e straniere; poi le lettere da scrivere (almeno una mezza dozzina al giorno); e in fine la grande opera sul Dovere, di cui la conferenza di Venezia aveva tracciato le linee generali e che Varedo si proponeva di dar compiuta agli editori entro un paio d'anni… insomma un cumulo di roba da spaventare chi non avesse avuto la fibra, l'energia, la potenza di applicazione d'Alberto.
—Ah—conchiudeva Diana—quando penso ai bei damerini che perdono il loro tempo a correr dietro alle signore, a organizzar gite di piacere, a diriger quadriglie e cotillons!… Che concetto hanno costoro della vita?
Aldini sorrideva maliziosamente.—Non ne hanno. Vivono alla meno peggio. E forse i savi son loro.
—No—protestava la nipote scandalizzata.—Lo dici per farmi arrabbiare.
—Parlo sul serio… È tanto difficile averlo giusto questo concetto della vita che può esser sapienza il non averne nessuno. «Salvate, oimè, le membra—Dal tarlo del pensiero.»—Ricordi questi versi?
—Oh, dei versi e delle sentenze ce ne son per tutti.
Tornavano a bisticciarsi così, come una volta, pur provando un gusto immenso ad essere insieme.
Un giorno, in Via di Po, furono fermati da una vecchietta piccolina, svelta, asciutta, vestita di scuro, con un cappellino di forma vetusta, sormontato da un pennacchio nero.
Diana fece la presentazione. E spiegò allo zio.—La signora Marianna Bardelli è madre di quel dottore Eugenio Bardelli che hai conosciuto da noi.
Il pennacchio nero si agitò ripetutamente in segno di simpatia.—Lo sapeva da Eugenio che era qui lo zio della madama… Eugenio mi discorre sempre di loro… Lo colmano di gentilezze il mio figliuolo.
—Dica piuttosto ch'egli è troppo buono con noi e che noi siamo troppo indiscreti.
A sentir questa enormità il pennacchio nero parve assalito dalle convulsioni.—Signora Diana, signora Diana, per amor del cielo! Il mio Eugenio non si sdebiterà mai col signor professore che lo ha incoraggiato ne' suoi studi e che continuerà ad aiutarlo…. Perchè è pieno d'intelligenza, ma è timido, Eugenio, non sa farsi valere, e se non c'è chi gli dia la spinta…
—Eh non si lagni—interruppe Diana.—Lei è stata fortunata co' suoi figliuoli…
—Questo sì, questo sì…. Anche Paolo…. Andavo appunto da lui, nel suo studio…. a un passo di qui, alla svolta di Via Montebello…. Paolo aspetta sempre una visita della signora Diana.
—È vero.
Diana interrogò con lo sguardo lo zio, e a un cenno affermativo di lui disse alla signora Bardelli:—Se la facessimo adesso la visita?
La vecchietta si profuse in ringraziamenti. Forse era il momento buono, perchè Paolo aveva terminato il bozzetto per un monumento a Garibaldi da presentare a Mondovì, a un concorso…. Non aveva mica grandi speranze di vincere, con tanti altri artisti provetti che concorrevano… Ma guai a non tentare!…
Al giungere dei visitatori, Paolo Bardelli gettò lungi da sè il berretto di carta che gli copriva il capo e scese frettoloso da un'impalcatura ove stava dando i primi colpi di stecca a una massa di creta tuttora informe. Poteva avere due o tre anni più del fratello Eugenio a cui somigliava nella statura e nella completa assenza di barba; nella nervosità dei movimenti e nella loquacità un po' disordinata ricordava la madre.
—Ah, il bozzetto!—egli disse scoprendo il modello del suo Garibaldi, un Garibaldi ritto sopra la roccia, appoggiato all'elsa della spada nuda, non senza una certa espressione di fierezza nel viso.—Una cosa dozzinale…. Sonetti a rime obbligate… Arte subalterna… Si fa anche quella per necessità… per cedere alle istanze della famiglia… ma non ci si mette dentro tutta la propria anima… Garibaldi!… Sicuro, un eroe… Ma tra in marmo, in bronzo, a piedi e a cavallo ce ne sarà un centinaio di Garibaldi in Italia… Come non ripetersi?… E con lo sforzo dell'originalità si cade nel grottesco… No, non me lo lodino il mio bozzetto… non ne vale la pena…
Il giovine scultore alzò gli occhi verso il masso di creta tuttora informe, e borbottò:—Quello… chi sa?
—E che cosa dovrà rappresentare?—chiese l'ingegnere Aldini.
Paolo Bardelli abbozzò due grandi gesti con le piccole braccia, tentò due volte una frase; poi la sua fisonomia si contrasse dolorosamente, ed egli balbettò:—È impossibile… impossibile… L'idea è nel cervello dell'artista, c'è tutta… come fin dal primo giorno c'è tutto il bambino nel ventre materno; ma a volerla tirar fuori innanzi tempo… è impossibile… è impossibile.
—Non ti domandavano mica di scendere a particolari—disse la madre, alquanto mortificata.
Ma Diana s'interpose.—No, suo figlio ha ragione… Lo capisco perfettamente… Credo che nel suo caso farei lo stesso.
Lo scultore la ringraziò con un'occhiata.
Dopo aver esaminato altre tre o quattro cosuccie incompiute, zio e nipote presero congedo.
La signora Marianna uscì con loro; doveva passare dal suo terzo figliuolo, che, viceversa, era il primogenito, Girolamo, quello che teneva bottega d'orefice sotto i portici di Po. Non aveva l'ingegno de' suoi fratelli, Girolamo, ma era maestro nella sua arte, e alla morte del padre aveva assunto la direzione del negozio che, grazie a Dio, continuava a prosperare abbastanza… Ed era buono, laborioso, onesto, economo… Amministrava lui il modesto patrimonio, e per sè non consumava nulla…. dava tutto in casa, per la madre, per i fratelli.
Diana Varedo conosceva già questo Girolamo Bardelli ch'era nel suo genere un finissimo artista; ora volle farlo conoscere allo zio. Così ella manteneva la sua promessa di presentargli l'intera famiglia.
—Che onore, che onore!—andava esclamando lungo la strada la vecchia Bardelli. E agitava le braccia e scoteva la testa, tantochè il pennacchio nero del suo cappellino tremolava come la cima d'un pioppo in un giorno ventoso.
Nella bottega modesta d'aspetto, benchè le vetrine e le scansie e la cassaforte accogliessero oggetti di raro pregio, Girolamo Bardelli, curvo sul suo banco, attendeva a uno di quei sottili lavori d'oreficeria che i grandi artisti del Rinascimento non reputavano indegno di loro. Una lampada ad alcool che gli ardeva vicino mandava una luce azzurrognola sulla sua faccia pallida e sulle sue dita scarne, annerite all'estremità; a portata della mano stavano lime e ceselli di varia forma e misura ch'egli prendeva alternativamente al tasto, senza levar gli occhi dall'opera sua.
—Girolamo, guarda chi c'è—gridò la madre, entrando con la solita vivacità.
—Piano, mamma, piano!—diss'egli. E alzò adagio la testa, dissimulando sotto un languido sorriso la noia che gli recava l'esser disturbato in quel momento.
La signora Bardelli tornò a discorrere dell'onore che la madama e suo zio avevano fatto a Paolo visitandone lo studio, dell'onore che facevano a lui, Girolamo, venendo adesso nella sua bottega, delle grandi benemerenze che il professore Varedo aveva acquistate verso il loro Eugenio fornendolo di libri e di consigli e interessandosi pel suo avvenire. Bisognava che anch'egli, Girolamo, ch'era il capo della casa, ringraziasse la signora.
—Sicuro—balbettava l'orefice.—Anzi….
S'era ritto in piedi, rosso, confuso, con un'aria di gatto spaurito che cerca il modo di sguisciar via.
Poi le maniere affabili di Diana e dell'ingegnere lo rinfrancarono, ed egli parlò semplice e modesto di sè e dell'arte sua mostrando alcuni de' suoi ultimi lavori condotti con isquisita finitezza, e schermendosi dagli elogi col dire ch'erano imitazioni dall'antico.
—Imitazioni che possono stare a petto degli originali—notò Gustavo
Aldini.
Girolamo Bardelli negò risolutamente.—No, signor ingegnere, scusi….
Agli antichi non s'arriva.
Tirò fuori dalla cassaforte un calice d'argento dorato del cinquecento la cui sottocoppa era formata da sei busti d'angeli ad ali aperte sostenenti tralci e grappoli di vite, e si fermò con infinita compiacenza, quasi con tenerezza, a rilevarne i pregi a uno a uno.—Certo quegli uomini del cinquecento—egli diceva—avevano l'occhio più acuto, la mano più sicura di noi… E che fioritura inesauribile di fantasia! Guardi, signora, quegli archetti ogivali che formano le nicchie del nodo. E, nelle nicchie, quegli altri sei angioli con gli strumenti della Passione!
—Questo calice—raccontò la signora Marianna—mio marito buon'anima l'ebbe per poco a un incanto… Poteva rivenderlo per una somma venti volte maggiore, e non volle… Anche Girolamo avrebbe avuto più d'una occasione…
—Non lo si vende—dichiarò in tono reciso l'orefice. Indi soggiunse:—Perchè lo si venderebbe? La bottega è bene avviata e ci basta… Col tempo i fratelli guadagneranno anche loro…
A questo proposito la vecchia Bardelli ricordò il figliuolo che urgeva rimettere un'imposta nello studio di Paolo.
—Ho già dato l'ordine—rispose pronto Girolamo.
L'uscio della bottega s'aperse a mezzo, e una signora elegante insinuò la testa fra i due battenti.—Il mio fermaglio è pronto?
—Sissignora… Fin da questa mattina.
—Quel Bardelli è d'una puntualità!—ripigliò la signora avanzandosi verso il banco.
Diana e lo zio Gustavo, scambiatisi un'occhiata d'intelligenza e rinnovati i complimenti e i saluti, s'accommiatarono.
—È ancora presto per incontrarci con Alberto—osservò
Diana.—Facciamo un giro per Dora Grossa.
—Come vuoi.
E s'avviarono chiacchierando.
Argomento della conversazione era la famiglia Bardelli. Per l'ingegnere Aldini, Girolamo valeva incomparabilmente meglio degli altri; Diana ne riconosceva i meriti, ma non trovava giusto di deprezzar i fratelli più giovani. E si accalorava a difenderli contro lo zio il quale pronosticava che non avrebbero cavato un ragno dal buco. A un tratto ella s'interruppe e domandò:—Perchè sorridi?
—Nulla. È una sciocchezza.
—Sentiamo.
—Effetti dell'ambiente. Senz'accorgermene, almanaccavo anch'io intorno al dovere.
—Cioè?
—Pensavo che il dovere somiglia un poco ai còmpiti di scuola. Questi còmpiti c'è chi non li fa, chi li fa soltanto per sè, e chi li fa per sè e pei compagni. Così il dovere. Io per esempio sono convinto che quel Girolamo Bardelli lo faccia per sè e per tutti della famiglia. Ed è uomo capace di non parlarne mai.
Al Lido.
Lungo quel tratto del Lido ove sorgono, allineate sull'arena, le capanne dello Stabilimento dei bagni, dando a chi le vede dall'alto l'idea d'un villaggio abissino, era, nel caldo pomeriggio di luglio, come un brulichìo d'alveare. Donne e fanciulli in succinto vestito da nuoto si rincorrevano per la spiaggia, si ravvoltolavano nella sabbia, diguazzavano nell'acqua che toccava loro appena l'anca o il ginocchio, si spruzzavano a vicenda fra gridi allegri e risate sonore. I bagnanti più tranquilli, che avevano fatto la loro immersione al mattino, o che non la facevano mai, paghi d'una cura d'aria e di sole, stavano intanto dinanzi alle loro capanne a godersi la brezza del mare, gli uni sonnecchiando e dondolandosi sui lunghi seggioloni di vimini, gli altri stringendosi in crocchio a mormorare del prossimo. Ma alla vivacità della scena contribuiva sopratutto la folla variopinta e sempre rinnovellantesi dei visitatori che passavano, con volubilità di farfalle, da questo a quel crocchio; signore eleganti e giovinotti cincischiati, profumati, azzimati all'ultima moda, come si conviene a degni campioni della cretineria cosmopolita. Portavano essi in giro le cronache galanti, scandalose, ridicole dello Stabilimento e della città, e la pianta del pettegolezzo fioriva dietro di loro come, dopo la rugiada, fioriscono sui campi le margherite.
Sulla soglia d'una delle ultime capanne, ove il chiasso giungeva molto attenuato, sedevano due signore di nostra conoscenza, la Valeria Inverigo e la Diana Varedo.
—C'è un gran movimento quest'anno al Lido—disse la madre.
—Troppo—rispose la figliuola.—Ci si starebbe così bene se non ci fosse gente.
La signora Valeria sorrise.—Cara mia, non possono mica tener aperto lo stabilimento apposta per noi.
—Lo so, ma penso che sarà difficile persuadere Alberto a venir qui un'altra estate.
—O che vorrebbe restar nelle vacanze a Torino?
—No; credo ch'egli preferirebbe d'andar in montagna, in un posto quieto.
La signora Valeria, ordinariamente così calma, scattò infastidita.—Per lavorare e farti lavorare come un cane?… Ci vada lui nel posto quieto, e ti lasci per un mese qui a riprender lena…. Perchè, già non te lo nascondo, hai l'aria stanca, affaticata.
—Se dacchè sono a Venezia non faccio nulla!
—Sei da una settimana, e ci vuol altro!… No, abbi pazienza… È un sistema sbagliato. Le donne non son nate per logorarsi sui libri… E quando avrai figliuoli….
—Se ne avrò….
—Spero bene che ne avrai… E allora…
—Allora—disse pronta Diana—i figliuoli andranno in prima linea… Ma—ella soggiunse per mutar discorso—a che ora si dev'esser sulla terrazza?
—Basta alle sette, mi pare. A meno che tuo marito non anticipi e non venga a prenderci.
—No, egli sa che il pranzo è ordinato per le sette e mezzo. Non si farà aspettare ma non anticiperà.
—Il resto della comitiva—ripigliò la signora Valeria—si disponeva a partire da Venezia col vaporino delle 6.40.
—Mi dispiace—notò Diana—che la presenza dei Nocera sarà una sorpresa per Alberto.
La signora Valeria si annuvolò in viso.
—Non capisco l'antipatia di Alberto per i Nocera. A ogni modo, io non li avevo invitati; non avevo invitate nemmeno le Duranti; volevo che si desinasse qui in famiglia, tu e tuo marito, mio fratello ed io. Invece jeri le Duranti, oggi sul tardi i Nocera mi hanno avvertita che sarebbero dei nostri. Non potevo usar loro uno sgarbo. Del resto, l'Adelaide Nocera, perch'è con lei che l'avete, avrà i suoi difetti, ma è tanto simpatica, tanto buona…
—Troppo buona—replicò Diana con un filo d'ironia.
—A badare alle ciarle del mondo….
—Via mamma, non puoi negare ch'ella porti in trionfo la sua intimità con lo zio Gustavo.
—Si conoscono da bambini… sono cresciuti insieme.
—Eppure assai pochi credono che si tratti di un'intimità fraterna—replicò la Varedo.
—Sembra che il consiglier Nocera sia uno di quei pochi—disse la madre.—Ne soyons pas plus royalistes que le roi.
Diana si strinse nelle spalle.
—Per me—seguitò la signora Inverigo,—ho la massima, in mancanza di prove, di accettar sempre l'interpretazione più benevola.
—Tu sei un angelo, mamma, ma qualche volta anche la soverchia indulgenza ha i suoi inconvenienti.
—Tutti gli eccessi ne hanno; ciò nondimeno io preferisco l'eccessiva indulgenza all'eccessiva severità.
Tacquero entrambe, nel timore di lasciarsi sfuggire una frase pungente, di guastar bisticciandosi la dolcezza ineffabile di quei giorni che stavano insieme. E, in fondo, ognuna delle due sentiva che l'altra aveva una parte di ragione. La signora Valeria non aveva visto con piacere il ritorno della Adelaide Nocera a Venezia, nè approvava ora nell'Adelaide e in Gustavo, già maturi d'anni, il riaccendersi di una passione colpevole che pareva sopita dal tempo e dalla lontananza; ma il suo affetto per l'amica, la sua tenerezza pel fratello la facevano pronta ad accorrere alla difesa de' due traviati. La Varedo, dal canto suo, trovava che suo marito era talora troppo ispido ed intollerante ma non voleva riconoscerlo, non voleva tradire nemmeno coi prudenti silenzi, quei rigidi principî che, nel suo pensiero, erano il fondamento della famiglia e della società. Perciò, nel caso presente, ella stava in guardia contro sè stessa, contro la simpatia che le inspirava lo zio Gustavo, sopra tutto contro il fascino che quella sirena della Nocera esercitava intorno a sè.
Mancavano dieci minuti alle sette e la folla dei bagnanti, incalzata dall'ora, risaliva frettolosa, simile a fiume che risale il suo corso, verso il piazzale dello Stabilimento o verso lo stradone di Santa Elisabetta, chi per prender il tram a cavalli, chi per fare una breve passeggiata fino al vaporino. Sul suono smorzato dei passi affondantisi nella sabbia, sul fruscìo leggiero delle vesti, sul confuso borbottìo delle voci si levava qualche nota squillante: appelli e risposte, richiami e saluti:—Presto, presto!—Buon divertimento!—Buon viaggio!—arrivederci stasera in piazza!
—Vuoi che ci moviamo?—chiese la signora Valeria alla figliuola.
Diana assentì.—Moviamoci pure.
Si alzò per la prima, si avvicinò alla madre e le diede un bacio in fronte, quasi a scancellare l'impressione delle parole di poco fa.
S'avviarono lentamente, a braccetto.
La signora Valeria guardava con ansiosa sollecitudine il volto pallido e l'andatura stanca di Diana. No, una settimana di riposo non l'aveva rimessa in forze e anzi ell'era piuttosto peggiorata che migliorata d'aspetto dopo il suo arrivo a Venezia. Tutto si sarebbe spiegato con una certa ipotesi molto ragionevole e naturale, ma Diana seguitava ad affermare che quell'ipotesi non aveva fondamento, e il medico di casa, fin che non si presentano nuovi sintomi, stava anch'egli tentennante fra il sì e il no.
La fiumana della gente s'ingrossava lungo il cammino; la ritirata aveva apparenza di fuga.
—Non avete furia voi altre?—dissero alla signora Inverigo e alla
Varedo alcune persone di conoscenza.
—No, restiamo qui a pranzo.
—Buon appetito, allora.
—Grazie.
Protetta dalle dune la spiaggia era avvolta nell'ombra, ma chi toccava il sommo dell'erta sabbiosa doveva ripararsi dai raggi quasi orizzontali del sole, ed era bello, levando gli occhi in su, veder quella folla gioconda emerger nella luce, e sfavillar le tinte chiare degli abiti estivi, e aprirsi gli ombrellini delle signore come fiori che sbocciano d'improvviso. Più bello però, dalla parte del mare, era lo spettacolo delle barche peschereccie che sfilavano lontano ricevendo anch'esse, sulle vele bianche, rosse, gialle, turchine, l'ultimo saluto del sole, mentre la liquida superficie, increspata da una brezza leggera, prendeva, nel roseo tramonto, tutti i colori dell'iride.
—Oh brave!—esclamò Gustavo Aldini quando sua sorella e sua nipote comparvero sulla terrazza.—Ero lì lì per venire a sollecitarvi. Tranne Alberto, che non può tardare, siamo au grand complet.
Le due Duranti col rispettivo consorte e padre, l'Adelaide Nocera col consigliere marito mossero festosamente incontro alle nuove arrivate.
—Si voleva venire in massa a farvi visita—dichiarò l'Adelaide—ma l'ingegnere disse ch'era meglio attendervi qui.
—La nostra capanna è così piccola—spiegò la signora Valeria—che ci si sta appena in due.
—Sono troppo piccole e troppo affastellate quelle capanne. Non c'è libertà—soggiunse la Nocera.
Il consigliere ch'era un po' sordo si fece ripetere la frase.
Era un uomo corto, grosso, di tipo volgare.
—A proposito—egli chiese ridendo sguaiatamente—è vero che signori e signore passeggiano sulla spiaggia in semplice accappatoio?
—Ma no, che idee!
—A ogni modo—disse la Duranti madre, che era una signora pudibonda—è una promiscuità scandalosa. C'è tanto rigore, ed è giusto che ci sia, nell'interno dello Stabilimento per conservare la divisione de' due riparti, e poi nelle capanne si lasciano stare insieme i maschi e le femmine.
—Ma le capanne son fatte per le famiglie—notò il marito, intendente di finanza a riposo.
—Già—riprese il consigliere Nocera con la solita arguzia sopraffina.—E se vogliamo la famiglia dobbiamo voler l'unione dei sessi. Ih, ih!
—Son tutte caricature, tutte ipocrisie—sentenziò la ragazza Duranti.—E pensare che si pigliano questi fastidi per noi, per tutelare la nostra innocenza!… Bella innocenza! Con quello che si vede, che si sente e che si legge!
Il consigliere le slanciò uno sguardo d'incoraggiamento.
Invece la signora Susanna, la madre—Olga—ammonì, sgomentata—Olga!
Quella figliuola da qualche tempo aveva una libertà di linguaggio!
—Ebbene—domandò l'Adelaide Nocera a Diana, tirandola alquanto in disparte e cingendole amorevolmente con un braccio la vita;—come va? Ti giovano i bagni?
Non aspettava più i quarant'anni, l'Adelaide, ma era sempre una bella brunetta dai grandi occhi vivaci, dalla folta capigliatura nera, dalla persona svelta, piena di grazia e d'armonia. E aveva, nel vestire, un istintivo buon gusto che i lunghi soggiorni in piccole città di provincia non avevano potuto alterare e che destava l'invidia, l'emulazione, la rabbia delle mogli dei colleghi.—La più elegante magistrata del Regno d'Italia—la aveva proclamata Sua Eccellenza il commendator Farioli, Primo Presidente d'una delle nostre Corti d'Appello. E nessuna Cassazione aveva osato annullar la sentenza.
—Se mi giovano?—disse Diana rispondendo alla interrogazione della Nocera.—Uhm! Io li faccio per compiacere alla mamma, ma credo che lascino il tempo che trovano. Ha una gran fede nei bagni di mare, lei?
—Secondo i casi.
—Lei non li fa?
—Io preferisco la doccia… Ma non ti vuoi proprio decidere a darmi del tu?
Diana arrossì. Non solo non si voleva decidere; ma era anzi ferma nel proposito di attenersi al lei che, seppure usato da una sola delle due parti, bastava a impedir la troppa dimestichezza. Ella balbettò qualche scusa. Non riusciva ad avvezzarsi… L'era stato sempre difficile, in tutte le occasioni, perfino con le sue coetanee…
—Non crederai mica che voglia atteggiarmi a tua coetanea—replicò, ridendo, l'Adelaide Nocera.—Lo so che posso esser tua madre; ci corron pochi anni tra la Valeria e me… Ma hai principiato a vedermi ch'eri una bambina. Ti rammenti quando ti portavo in collo?
—Dopo è partita.
—Partita, tornata, ripartita. Solo l'ultima volta sono rimasta assente per un gran pezzo senza interruzione. T'avevo lasciata in sottane corte, e t'ho trovata quasi alla vigilia delle nozze. E con lo sposalizio per la testa non avevi agio da badare a quella che un tempo chiamavi la zia Adelaide. Ero diventata per te la signora Nocera; t'incutevo, sembra, una gran soggezione, io che non ho mai dato soggezione a nessuno!… E il bel tu confidenziale s'era perso per via… Ma t'eri quasi impegnata a ripigliarlo dopo il matrimonio, te ne rammenti?… Se no, bisognerà che mi metta in sussiego anch'io e che ti faccia tanto d'inchini, e che dica:—Signora Varedo, come sta?
—Oh, questo poi, ci mancherebbe altro!
Diana era sulle spine. Cedere non voleva a nessun costo, ma non voleva nemmeno manifestar le vere ragioni del suo rifiuto. O come mai la Nocera, con la sua fama di donna intelligente, certe cose non le capiva da sè? E se le capiva, perchè insisteva?
Per fortuna anche in quel momento capitò una provvida diversione.
—Diana! Signora Adelaide! Valeria! Signora e signorina Duranti!
Era la voce dell'ingegnere Aldini che desiderava l'approvazione dei commensali circa al posto ov'egli aveva fatto apparecchiare la tavola.
—Qui si vede benissimo il mare e si è nello stesso tempo più riparati dall'aria—egli spiegò.—Se però preferite avvicinarvi alla ringhiera…
—No, così va perfettamente—risposero, a una voce, le signore interrogate.
Indi seguì una serie di esclamazioni ammirative.
—Che eleganza!
—Che lusso!
—Che profusione di fiori!
—E chi li ha ordinati questi fiori?—domandò la signora Valeria.
L'Adelaide Nocera, ch'era a parte del segreto, sorrise.
Il consigliere marito, da uomo perspicace, indovinò subito.—Quest'è un'improvvisata dell'amico Gustavo.
E, confidenzialmente, battè sulla spalla dell'ingegnere.
—Sempre perfetto cavaliere quell'Aldini—notò la signora Susanna
Duranti.
Ma Gustavo Aldini, schermendosi dai ringraziamenti, si voltò verso il cameriere di quel riparto egli chiese:—Il nostro risotto a che punto è?
—Si può servirlo quando vogliono.
—Benone… Aspettiamo un signore…
Accolto da applausi, giunse Alberto Varedo, vide i Nocera e durò fatica a reprimere un moto di dispetto.
L'Adelaide, che s'era accorta della sorda ostilità del professore ma non disperava di vincerla, gli si fece incontro con le mani tese.—Ci perdona l'invasione? A Venezia, d'estate, se si vuol trovarsi, bisogna venire al Lido… E io desideravo di star un'oretta con Diana… Così ho scritto alla Valeria che, se non aveva nulla in contrario, avremmo preso parte al pranzo anche noi.
—Anzi, è un piacere—disse Varedo. Le parole erano cortesi, ma l'accento era gelido.
—Ecco il risotto!—gridò Gustavo Aldini.
Secondo le sapienti disposizioni dell'ingegnere le sedie erano collocate soltanto a tre lati della tavola lunga e stretta, di modo che nessuno voltasse le spalle al mare. Sul lato più lungo sedeva la signora Valeria tra il cavalier Duranti, che aveva alla sua sinistra Diana, e il cavalier Nocera, che aveva alla destra la signora Susanna Duranti. Gli altri quattro commensali occupavano, fronteggiandosi, i due lati minori; da una parte la signora Adelaide e Gustavo Aldini; dalla parte opposta il professore Varedo e la signorina Duranti.
Questa che, dopo il matrimonio di alcune amiche più giovani di lei, era diventata dura e spinosa come un vecchio carciofo, principiò subito a malignare.
E poichè Varedo osservava che quell'abbondanza di fiori avrebbe fatto credere a un banchetto di sposi—Oh—disse la ragazza—in questo caso gli sposi sarebbero loro due… Ma non s'illudano… Quei fiori non sono nè per Diana, nè per lei; sono per un'unica persona che, proprio, non è una sposina… Ma dopo tutto, beate le civette!… E beati quelli, uomini e donne, che dimenticano la loro età!
Aizzato dalla sua vicina, Alberto Varedo sbirciava di tanto in tanto suo zio e l'Adelaide Nocera che non eran certo i più giovani, ma erano i più giovanilmente allegri e vivaci dei commensali. E la riprovazione ond'egli, puritano, colpiva ogni intrigo galante, si esacerbava per un sentimento di diversa natura. Non era, non voleva essere invidia; era una tacita protesta contro le ingiustizie della fortuna, così liberale verso gli esseri frivoli, così avara verso coloro che hanno un alto, austero concetto della vita.
Qualche cosa di simile passava intanto nell'anima di Diana. Ascoltando distratta il cavaliere Duranti che vantava i servigi da lui resi allo Stato quand'era intendente di finanza, ella guardava gli occhi luminosi e ridenti dell'Adelaide Nocera, la quale doveva essere avvezza a udire ben altri discorsi. E cercava di farsi un'idea dell'esistenza di queste donnine amabili e spensierate che attirano gli uomini come il miele attira le mosche e che volgono le forze del piccolo ingegno a un unico fine, quello di piacere. E come vi riescono! Come riescono a essere tollerate, accettate anche dalla gente rispettabile! Ecco per esempio l'Adelaide Nocera che nessuno credeva un fiore di virtù e che pur tutti andavano a gara per festeggiare. La mamma di lei, di Diana, non la considerava una delle sue migliori amiche? Non aveva pur dianzi preso calorosamente le sue difese? La signora Duranti, così facile a scandalizzarsi, non la trattava con cordialità, non ne frequentava, in compagnia della figliuola, il salotto? È vero che quelle femmine trovan dei mariti stampati a posta per loro, dei mariti i quali han l'aria di dire:—Se siamo contenti noi, o chi ha il diritto di far lo schifiltoso?
Il consigliere Nocera era il tipo di questi cinici ignobili. Era lui, proprio lui che quella sera a pranzo portava in campo certe storielle scabrose d'infedeltà coniugali, e da un capo all'altro della tavola dava nomi e cognomi, e date e luoghi e particolari minuti, e fingeva di non sentire i richiami della sua vicina Duranti, e rideva sguaiatamente delle sue grasse facezie.
—Povera mamma!—sussurrava nell'orecchio al professore Varedo la
Olga, la ragazza emancipata.—È sui carboni ardenti per me.
—Quel Nocera è un uomo molto volgare—notò Varedo.
Olga Duranti fece una spallucciata.—È un filosofo.
—Cara signorina, non calunni i filosofi.
—Voglio dire che subisce con rassegnazione il proprio destino… E poi la sua è un'allegria forzata… Deve ingoiarne tante!
Abbassò ancora la voce, e sfogando il suo mal animo contro l'Adelaide Nocera soggiunse:—Egli ha almeno il merito di mostrarsi quello che è. Lei invece pare una santarellina… Basta, quelle son donne fortunate… Hanno i mariti propri, i mariti delle altre e gli scapoli ch'esse sviano dal matrimonio.
Varedo sorrise; ella si morse il labbro, pentita d'essersi lasciata sfuggire una frase che tradiva il suo risentimento personale. Asserivano infatti che qualche anno addietro, prima del ritorno dei Nocera a Venezia, ella, nonostante la grande differenza d'età, avesse gettato l'occhio sopra l'ingegnere Gustavo Aldini come su uno sposo possibile.
Frattanto, appunto per opera dell'ingegnere che tirò il discorso su alcune ultime pubblicazioni letterarie francesi e italiane, la conversazione mutò indirizzo. Quelle pubblicazioni chi le conosceva chi no, ma dal più al meno si conoscevan gli autori, e ognuno volle dire la sua. Inopinatamente alleati, la pudica signora Susanna Duranti e lo sboccato consigliere Nocera si scagliarono contro Emilio Zola che qualificavano a gara d'immorale e di corruttore. Già per loro fra i romanzieri francesi non c'era che Ohnet. Le maîtres des forges, quello era un libro. Che caratteri! Che situazioni! Che ambiente confortable!
Il cavaliere Duranti non aveva, per Zola, l'antipatia di sua moglie. Aveva letto poco, ma quel poco gli era piaciuto. Era uno scrittore che sapeva sviscerare i suoi argomenti e trovar il dramma in tutto quanto. Oggi la miniera, domani la Borsa, doman l'altro le strade ferrate. Avrebbe potuto, volendo, fare un romanzo sull'amministrazione della finanza, e ce ne sarebbero stati degli aneddoti piccanti e dei tipi gustosi!
—Il romanzo del registro e bollo!—esclamò Nocera in tono canzonatorio.
—Non c'è niente da ridere—rimbeccò, seccato, l'ex intendente.
Allora scese in campo, zoliano convinto, non fanatico, Gustavo Aldini, e pur non negando i difetti dello Zola ne mise in rilievo gli altissimi pregi, specie la virtù evocatrice e l'arte di far mover le masse, onde se molti lo superano nello scrutare i misteri d'una coscienza individuale, nessuno l'uguaglia nel rappresentarci gli stati di una coscienza collettiva.—Certo—concluse l'ingegnere—non è una lettura per tutti; non lo darei nè alle persone frivole che vi cercano solo le indecenze, nè agli adolescenti, maschi o femmine, a cui è inutile anticipar le brutalità della vita.
—Ma che adolescenti?—replicò la signora Susanna Duranti—Io dico che nessuna donna per bene può tener sul suo tavolino quei libri… Io mi vergogno di averne letti due o tre.
La signora Susanna ignorava che sua figlia li aveva, di nascosto, letti quasi tutti.
Il consigliere Nocera, che, mentre Aldini parlava, aveva manifestato il suo dissenso con energici cenni del capo, gridò:—Sentiamo l'opinione del professore. Scommetto che il professore è con noi.
—Ma io non mi occupo di letteratura amena—rispose Varedo. Però, poichè gli altri insistevano ed egli non voleva che il suo silenzio fosse interpretato come un'approvazione delle idee esposte da Gustavo Aldini, egli dichiarò che conosceva assai poco dell'opera di Emilio Zola e che si limitava a dire una sua impressione. Ed era questa. Che Zola, mezzo francese e mezzo italiano, era, anche letterariamente, il prodotto di due nazioni e di due civiltà decadute. Aveva, nonostante una speciale tendenza al pessimismo, la visione lucida del mondo esteriore: gli mancava la facoltà di penetrare nel mondo delle anime; dipingeva con efficacia i vizi e le brutture del suo tempo, ma le vere cause gliene sfuggivano, ma non aveva nemmeno la più lontana intuizione dei mezzi acconci a promuovere un rinnovamento morale.
Alberto Varedo svolgeva questi concetti con abbondanza d'argomenti. Aveva principiato semplice e piano; e poi l'abitudine della cattedra gli aveva fatto alzar la voce ed arrotondare le frasi tantochè il suo discorso prendeva via via il carattere d'una lezione o d'una conferenza. Bello o brutto che fosse, in quell'ora, in quel luogo, fra l'acciottolìo dei piatti e il tintinnio dei bicchieri, e il cicaleccio allegro delle tavole vicine, esso aveva il torto d'esser perfettamente stonato.
E appunto dalle tavole vicine si porgeva all'autore un'attenzione canzonatoria.
Diana udì dietro di sè una signora che diceva:—Par d'essere alla predica.
A lei quel pranzo sembrava interminabile. La svogliatezza fisica era il meno; ella soffriva d'una grande depressione morale, provava una irritabilità nervosa contro tutto e tutti, avrebbe dato non so che per esser sola e per lasciar colar le sue lacrime. Perchè non avevano desinato anche oggi in piena libertà, a casa loro? Perchè le toccava subir la compagnia di quei Duranti, di quei Nocera, assistere alle smorfie dello zio Gustavo e dell'Adelaide? Ma s'ella discendeva in sè stessa trovava al suo disgusto, al suo turbamento un'altra causa più intima. La discussione di poco fa l'aveva profondamente umiliata. Se c'era soggetto che dovesse interessarla era quello; s'ella aveva attitudini speciali d'ingegno erano attitudini letterarie. Ebbene, da prima del suo matrimonio, da quando s'era promessa sposa, da un anno e mezzo insomma, ella non aveva aperto un volume di letteratura, non s'era occupata che degli studi di Varedo, non aveva visto che le opere che piacevano, che occorrevano a lui, non aveva sfogliato che i giornali scientifici di cui era piena la casa. Onde oggi s'era accorta d'ignorar perfino il titolo di parecchi fra i libri che i vari commensali, tanto men colti di lei, levavano a cielo o vituperavano. Così ell'aveva accondisceso a sacrificar le sue inclinazioni, a sopprimer la sua personalità? E con qual frutto? Era felice?
Mentr'ella rivolgeva a sè medesima questa grave domanda sentì lo zio Gustavo che diceva a suo marito:—Caro nipote, tu hai sollevato delle questioni che non si risolvono su due piedi e sarebbe già lungo determinare i punti ove andiamo d'accordo e ove no. Propongo il rinvio, tanto più che c'è un magnifico chiaro di luna, e che sarà meglio godercelo in santa pace.
La proposta incontrò l'approvazione generale.—Sì, sì, non guastiamoci la digestione.
Fra le cose che avevano bisogno d'esser digerite c'era anche il discorso, ammiratissimo, di Alberto Varedo.
Di lì a poco tutti s'erano alzati di tavola.
Diana, dopo di aver scambiato qualche parola con sua madre, si affacciò al parapetto della terrazza, sul mare.
—Che notte d'incanto!—esclamò, posandole una mano sulla spalla, l'Adelaide Nocera.
—Discutono ancora?—chiese Diana.
—No. I nostri signori uomini stanno regolando i conti.
—Non c'è aria nemmeno qui—riprese la Varedo.
—Figurati—replicò l'Adelaide—che le Duranti vorrebbero persuadere la tua mamma a chiudersi nella sala per sentir quella parodia di operetta.
—Per amor del cielo! E la mamma consente?
—Non credo. Finiranno con l'andarci loro, le Duranti, insieme con mio marito ch'è appassionato di questi spettacoli. Noi resteremo sulla terrazza o faremo quattro passi sulla spiaggia ove sarà anche più fresco.
—Diana!—chiamò qualcuno.—Diana!
—Scusi—ella disse staccandosi dall'Adelaide. E si avvicinò a suo marito di cui aveva riconosciuto la voce.
Alberto la trasse in disparte e le parlò concitato.—Perchè mi sforzi a ripeterlo?… Non voglio che tu stringa dimestichezza con la Nocera… Tuo zio non ha il diritto d'imporci le sue concubine.
—Bada!—supplicò Diana pallidissima e tutta tremante. Ella s'era accorta che lo zio Gustavo era lì presso e sentiva ogni cosa.
—Ah!—fece Varedo, mutando colore.—Ormai…
I due uomini si trovarono faccia a faccia.
Varedo s'era ricomposto.—Mi duole che tu abbia inteso—egli disse fissando in viso l'ingegnere Aldini—ma non ho nulla da ritirare.
Aldini lo guardò con piglio sarcastico.—Sapevo ch'eri un pedante, vedo che sei anche un villano.
E si tolse di là bruscamente, senza dar tempo al suo avversario nè di reagire, nè di rispondere.
La scena, svoltasi in un lampo, fu avvertita da due sole persone; dalla signora Valeria i cui occhi non lasciavano mai la figliuola e dall'Adelaide Nocera che aveva indovinato esser lei la causa di quella disputa.
Stava ella ritta, immobile, con le mani dietro la schiena, col dorso appoggiato al parapetto della terrazza, la piccola testa ed il busto spiccanti in ombra sul nitido azzurro del cielo ove sorgeva alta la luna. Aldini la raggiunse, e si allontanarono insieme.
Ma la signora Valeria piantò il crocchio degli amici e corse ov'erano sua figlia e suo genero.—Che c'è?… Cos'è successo?
—C'è cara suocera mia—replicò, irritatissimo, Alberto—che suo fratello ha bisogno di una lezione… E se non fossimo in un luogo pubblico…
—No—supplicò Diana—no, Alberto.—E soggiunse lasciandosi cader su una sedia:—Io lo prevedevo che la presenza dei Nocera avrebbe recato dei guai…
—Ma, insomma, spiegatevi…
—Insomma—riprese il professore—io non amo che mia moglie abbia contatti con certa gente… E mi meraviglio che una donna come lei…
Diana si portò il dito alla bocca.—Parlerete a casa… Zitto adesso, ve ne scongiuro… Non siamo soli…
In fatti si avvicinavano la signora Susanna e la Olga, e dietro di loro, fumando, il cavaliere Duranti e il cavalier Nocera.
—Che conciliaboli avete?—dimandò la signora Susanna.
—Nulla, nulla—rispose con fretta affannosa Diana Varedo.—Sono io che non mi sentivo… che non mi sento bene… Anzi, Alberto, te ne prego, fammi avere un bicchier d'acqua.
S'era un pretesto, non poteva esservene alcuno che avesse maggiore apparenza di verità.
Diana aveva arrovesciata la testa sulla spalliera della sedia, era bianca come un cencio lavato, un pallore freddo le imperlava la fronte e le gote.
—Abbiate pazienza, tiratevi un momento indietro—disse la signora
Valeria agli altri.—Le levate l'aria.
Si curvò ansiosamente sulla figliuola e le chiese sottovoce:—Ti senti poco bene, proprio?
—Sì… ma passerà…
—Sarà stata quella brutta scena?…
—No, non credo… La scena di poco fa m'ha recato un dolore immenso… Ma ero già mal disposta… Credo invece che tu abbia ragione…
E Diana bisbigliò qualche parola nell'orecchio di sua madre.
—Magari!—esclamò questa battendo palma a palma.—Magari!… Ti ostinavi sempre a negare.
—Impressioni!… Adesso ho un'impressione contraria… Siamo un impasto di contraddizioni… Forse m'inganno adesso…
—Speriamo di no… Ecco tuo marito che torna col bicchier d'acqua…
Diglielo anche a lui…
La signora Valeria si riaccostò agli amici.
—Dunque? Dunque?
—Effetto del caldo, del pranzo… in una donna che potrebb'essere in una condizione anormale.
—Ma senza dubbio—disse con enfasi la signora Duranti.—Io n'ero sicura malgrado le vostre negative.
—E anch'io—soggiunse la Olga.—Appena ho visto Diana, ho pensato subito: quella è una donna incinta.
—Ma Olga…
—O che male c'è a chiamar le cose col loro nome?
Il consigliere Nocera, che non aveva sentito, chiese schiarimenti al cavalier Duranti, e accolse la notizia con segni di approvazione.—Egregiamente… S'era già tardato troppo, e quasi toglievo la mia stima al nostro professore… Gli scienziati qualche volta dimenticano l'essenziale. Così va bene. Crescite et multiplicamini… Si può congratularsi con gli sposi?
—No, consigliere, stia buono—pregò la signora Valeria.—Li lasci in pace gli sposi… Sono ipotesi, semplici ipotesi.
Nocera fece una spallucciata; poi ripigliò guardandosi intorno:—A proposito, dove diamine si sarà cacciata mia moglie?
—Era con l'ingegnere Aldini—rispose pronta l'Olga Duranti.—Mi pare che siano usciti da quella parte…
E accennò con la mano a sinistra.
Se la maliziosa ragazza credeva d'aver svegliato con le sue parole la gelosia del consigliere, ella s'ingannava a partito.
—Ah—disse placidamente Nocera—mi immagino che quelle due creature romantiche saranno andate a passeggiare sulla spiaggia, al chiaro di luna… Buon divertimento!… Hanno fatto il dente del giudizio tutt'e due, e non c'è pericolo che si perdano per la strada.
—Oh, ecco Diana a braccio di Varedo—osservò la signora Duranti.—Va meglio?
Diana si sforzava di sorridere e di stringer le mani che l'erano tese.—Sì, va meglio, molto meglio… A ogni modo, è opportuno ch'io vada a casa subito… Alberto m'accompagna… Tu, mamma, puoi restare…
—No, no, io vengo con voi… Gli amici mi scusano…
—Ma nemmeno noi abbiamo nessuna ragione di rimanere—disse la Susanna
Duranti.
Il cavaliere marito si offerse di perlustrare la spiaggia in cerca della signora Adelaide e dell'ingegnere. Così si sarebbe fatta tutta una carovana.
—Oh—saltò su Nocera—prima che li trovi!… Li aspetterò io, nel salone dei concerti… Di là è probabile che passino.
—Quello che non capisco—notò la Olga Duranti—è come non si siano accorti del malessere di Diana… Erano appunto con lei.
—Che vipera!—pensò la Varedo. E disse forte:—Non se ne potevano accorgere… m'è capitato dopo.
Il professore mostrò a sua moglie l'orologio dello Stabilimento—Se vogliamo prendere il tram e partire col primo vapore abbiamo appena il tempo necessario.
Il cavaliere Duranti interrogò la consorte.—E allora che cosa si decide?
Alberto Varedo ebbe un gesto d'impazienza. La signora Valeria se ne accorse e intervenne a proposito.—Si decide che partiamo noi tre, Diana, Alberto ed io; gli altri non devono sacrificar la serata per colpa nostra.
—Non era un sacrificio—replicò la signora Susanna—ma sarebbe fuor di luogo l'insistere. Buon viaggio e buona notte. Domattina poi soneremo il vostro campanello per aver notizie.
—Grazie… ma è inutile.
—O niente affatto… Una notizia l'avremo… una bella notizia… autenticata nelle debite forme.
—Zitto, zitto…
L'Olga Duranti volle dar un bacio a Diana.—Mi rallegro, sai, mi rallegro sinceramente… Sarà per Febbraio o Marzo?…
—Lascia stare i pronostici… Se fosse una bolla di sapone?… Addio, addio…
—Quanto dispiacerà all'Adelaide di non averle salutate!—gridò Nocera mentre Diana e la signora Valeria s'allontanavano. Indi borbottò:
—Quel professore Varedo ha una prosopopea intollerabile. Fa una grazia a toccarsi il cappello.
—Finalmente vi siete liberati dagl'importuni—disse Alberto a sua moglie e a sua suocera, allorchè furono soli.—Pare impossibile il tempo che le donne impiegano a congedarsi…
Erano sul ponte che dallo Stabilimento mette al piazzale ove si fermano i tram a cavalli. Uno di questi tram arrivava allora.
—Presto, presto!
Salirono trafelati in vettura.
La signora Valeria chinandosi su Diana rinnovò per la centesima volta la solita domanda:—Come ti senti?
—Non c'è male—mormorò Diana. E fece segno che aveva bisogno di riprendere fiato.
La Inverigo si voltò verso suo genero.—E adesso si può sapere che parole son corse tra Gustavo e te?
Ma Diana toccò lievemente il braccio della madre.—Oh mamma, perchè torni su questo argomento? Alberto e lo zio si riconcilieranno… Per amor mio—ella soggiunse, fissando con occhi supplichevoli il marito.
—L'insolente è stato lui—disse Alberto.
—Tu l'avevi provocato…
Varedo troncò il discorso.—Non agitarti ora… Non hai forza per discutere… Auff! Che viaggio interminabile!… A piedi, in carrozza, in vapore… Neanche se si andasse alla Mecca.
Per fortuna il vaporino era pronto, e non c'era molta gente.
—Che delizia! Qui si respira meglio—disse Diana sedendo a prora. Appoggiò il gomito alla sponda del bastimento e d'una mano si fece puntello al capo mentre l'altra cercava, con un rinnovato bisogno di carezze, la mano di Alberto. Il chiarore latteo del cielo, lo scintillìo argenteo dell'acqua su cui batteva la luna, i bruni contorni dell'isolette lontane, e i campanili e le cupole e le piccole, tremule luci della città verso cui filava con moto uniforme il battello silenzioso l'avvolgevano in un'atmosfera di sogni. Ed ella, sforzandosi di dimenticare il penoso incidente di poco fa, sforzandosi di bandir dal suo spirito ogni triste pensiero, si cullava nella dolcezza del sogno. Appunto perchè, nelle ultime ore, ell'aveva cominciato a dubitare della sua felicità coniugale, aveva sentito i primi impeti di rivolta della sua personalità compressa e asservita, appunto per questo ella si aggrappava al suo sogno che, divenendo realtà, la avrebbe salvata da' suoi dubbi, dal suo orgoglio, da tutto.
Intanto la signora Valeria ed Alberto parlavano piano fra loro…
Nel travaglio del parto.
Una lampada a petrolio sul cui globo era accomodata una ventola di cartone proiettava un cerchio luminoso sulla tavola piena di carte e di libri. In quel cerchio spiccava la testa, già accennante a un principio di calvizie, del professore Varedo, e la sua mano si moveva di quà e di là per prendere ora questo volume ora quello. Il rimanente della stanza era nell'ombra. Di tratto in tratto il professore si alzava dalla sedia, si accostava all'uscio, tendeva l'orecchio, poi tornava al suo posto e si rimetteva al lavoro. Si capiva però ch'egli non era tranquillo e non lavorava con la solita lena. Nella camera nuziale, che il salotto da ricevimento e il salottino da pranzo dividevano dallo studio, sua moglie era nel travaglio del parto. Aveva cominciato a sentir le prime doglie alle cinque del pomeriggio, e benchè non vi fosse la minima complicazione le cose procedevano con lentezza.
—Ci vorranno altre quattro o cinqu'ore—aveva detto la levatrice ad Alberto l'ultima volta ch'egli verso le undici, era venuto a veder sua moglie. E, poichè a questa notizia egli s'era lasciato sfuggire un gesto d'impazienza, Diana sforzandosi di sorridere, aveva sussurrato dolcemente:—Se dipendesse da me!
E la signora Valeria, riaccompagnando il genero fino all'uscio dello studio, aveva soggiunto:—È meglio che tu cerchi di dormire…. A suo tempo ti chiameremo.
Il letto era stato improvvisato nella camera da studio, liberando un divano dai libri che l'ingombravano e che adesso erano sparpagliati sulle sedie o ammonticchiati negli angoli.
Ma Alberto Varedo non seguì il consiglio della suocera. Voleva finir l'esame d'un pajo d'opere nuove che s'era fatto mandar dalla biblioteca della Scuola, voleva terminar la correzione di certe stampe speditegli dagli editori due giorni innanzi. Quest'ufficio di corregger le stampe Diana l'aveva conservato anche durante la gravidanza, e le prime cartelle delle bozze che Varedo esaminava erano state riviste da lei la mattina stessa. Ora Alberto pensava che per un bel pezzo neanche questo piccolo aiuto egli avrebbe potuto aver da sua moglie. Meno male che c'era Bardelli.
Ed era appunto di Bardelli, del nostro amico Eugenio Bardelli, la timida voce che, di dietro l'uscio chiuso, domandava:—È permesso?
—Avanti!—gridò il professore.
E soggiunse:—Non l'ho sentito nè sonare il campanello, nè camminare.
È entrato pel buco della serratura?
—Ho sonato adagio e ho camminato in punta di piedi… Passavo di qui e desideravo saper qualche cosa, anche per conto della mamma.
—Grazie, non c'è ancora nulla di nuovo.
—Lo so… Ho parlato con la signora Valeria… La mamma rinnova le sue offerte… Se c'è bisogno di lei, è sempre a disposizione… Ha pratica di parti, la mia mamma.
—Grazie, grazie. Ma vede bene, non può occorrer nulla… C'è la levatrice, c'è mia suocera, c'è la mia cameriera, c'è stato il dottore… Tutto va in regola; non c'è che da lasciar tempo al tempo.
—Eh, capisco—riprese Bardelli girando fra le mani il cappello a cencio.—A ogni modo anch'io se posso…
—Lei, caro Bardelli, può anche meno delle donne… Dica piuttosto, fa freddo fuori?
—A bastanza… Un freddo asciutto però.
—E qui le pare che si stia bene!
—Qui si sta da papi.
—A me pare tutt'altro… I caloriferi sono spenti e ho dovuto chiuderne le bocche… Prima di mattina si gelerà.
—In camera della signora Diana c'è la stufa?
—Sì, ed è accesa… Ma quella non riscalda me.
Eugenio Bardelli atteggiò il viso ad un'espressione di sincero rammarico, come deplorando di non poter mutarsi lui in una stufa o in un braciere per riscaldare il suo amato professore.
Non essendo facile il tradurre in parole un sentimento così generoso, il giovine assistente (perchè fin dall'ottobre Bardelli aveva conseguito il posto onorifico) balbettò:—Per domattina all'Università, vado io…
—Sì, va lei, e fa ripetizione… Ma mi raccomando, Bardelli, non abbia quell'aria d'uomo che domanda perdono di esistere. Il sapere è una bella cosa, ma bisogna anche mostrar di sapere, sopra tutto quando s'ha da fare coi giovani…. Se no, malgrado la sua dottrina finiranno col prenderla di sotto gamba.
Era pur troppo quello che avveniva, ma Bardelli non osava confessarlo.
—L'arte di tener la disciplina, caro amico—continuò Varedo—non c'è maestro che la insegni. Ci sono di quelli che la sanno già il primo giorno che salgono in cattedra; ce ne sono altri che non la imparano mai.
Bardelli chinava il capo in segno d'assenso, sbirciando nello stesso tempo i frontispizi dei libri nuovi sparpagliati sulla tavola.
—Sono gli ultimi acquisti della Biblioteca della Scuola—spiegò il professore.—Ci son anche due volumi di Spencer, ancora intonsi… Vuol portarseli via?
Gli occhi dell'assistente brillarono di compiacenza.
—Così mi risparmia la briga di tagliar le carte. A me basterà riaverli entro domani.
—E delle prove di stampa ce n'ha?—disse Bardelli.
—Queste finisco di correggerle io, tanto fa—disse Alberto.—Da domani in poi, fin che mia moglie è impedita, ricorrerò a lei.
—Si figuri!—esclamò l'altro, contento come una Pasqua.—Sarà un onore per me.—E soggiunse tentennando la testa:—Eh, la signora Diana dovrà stare in riposo per un bel pezzetto.
—Chi sa?… I parti delle donne son faticosi, son dolorosi, non c'è dubbio; però, nella peggiore ipotesi, è una fatica, è un dolore di uno, di due giorni… Noi uomini di studio, siamo nel travaglio del parto tutto l'anno, e le nostre creature fatte, rifatte, distrutte persino con le nostre mani ci costano molti più spasimi di quelle che non abbiamo costato noi alle nostre genitrici.
Il professore Varedo parlava come persona convinta di esser vittima d'un'ingiustizia sociale. O che forse non meritava anch'egli una parte dell'interesse, della sollecitudine ansiosa che in quel momento si consacrava a sua moglie?
Non avvezzo a considerar la questione sotto questo aspetto originale,
Bardelli se la cavò con poche frasi sconnesse.
—Sicuro… Anche gli uomini di studio…. è positivo… sono in gestazione continua.
Varedo lo licenziò.—Buona notte… Vada, vada, lei che può coricarsi tranquillamente…. Prenda i due libri, e arrivederci…
Dopo aver dato un'altra capatina in camera di Diana, Alberto riprese la correzione delle sue stampe. Finita che l'ebbe, principiò a camminar su e giù per la stanza col capo chino, con le mani intrecciate dietro la schiena, sotto la vestaglia. Camminava adagio nel poco spazio lasciato dai libri e dai mobili, camminava riflettendo ai casi propri e commiserandosi. Lo assaliva un amaro rimpianto dei primi mesi del suo matrimonio, allorchè Diana era tutta sua, tenera, espansiva sovente, devota, affezionata sempre, sempre pronta ad accogliere le sue confidenze, ad assisterlo nei suoi studi. Così egli lo comprendeva il matrimonio; quella poteva chiamarsi davvero l'unione di due anime. O perchè non era durato così? Dal giorno che Diana s'era sentita madre, tutto era mutato d'aspetto. Egli le parlava ed ella lo ascoltava distratta, mal dissimulando la propria indifferenza pegli argomenti ch'egli era riuscito a renderle cari e domestici. E cercava sviare il discorso e tirarlo sul grande avvenimento che stava per compiersi e a fronte del quale ogni altro pensiero le pareva vano. Che s'egli, alla sua volta, non rispondeva a tuono alle domande di lei circa alla cuna del bimbo, al corredo, alla diversa disposizione da darsi al loro quartierino durante il periodo dell'allattamento, una nuvola le si stendeva sulla fronte, una lacrimetta le spuntava negli occhi, ed ella biascicava con voce dolente:—Ecco, non gli vuoi bene.—Santo Iddio, che bene doveva volergli se per lui egli non esisteva ancora? Ma guai se Varedo non avesse soffocato questo grido dell'anima! E si difendeva dall'accusa di non volergli bene, quantunque non potesse volergliene come lei che lo portava nel suo grembo e lo nutriva del suo sangue… Erano dispute brevi che si rinnovellavano spesso e turbavano l'antica armonia. Senza dire del dissidio latente che c'era tra Alberto e Diana a proposito dello zio Gustavo. La scenata del Lido non aveva avuto conseguenze; i due uomini s'erano in apparenza riconciliati, ma non vi poteva esser buon sangue fra loro. E Gustavo, che non voleva metter la nipote in una condizione difficile verso il marito, non le scriveva più, ed evitava di venir a Torino ove pure gli affari della sua Compagnia d'Assicurazioni l'avrebbero chiamato di quando in quando. Diana sentiva amaramente la mancanza di questa corrispondenza e di queste visite, e sebbene i suoi principî rigidi le impedissero di giudicar in modo diverso da Alberto le relazioni fra lo zio e Adelaide Nocera, non permetteva alcuna allusione men che rispettosa a un parente che nel cuore di lei aveva tenuto un posto vicinissimo a quello occupato dalla sua mamma.
Comunque sia, nelle meditazioni peripatetiche di quella notte, Alberto Varedo dedicava appena un pensiero fuggitivo al mondano ingegnere. Non era lui il nemico del suo benessere coniugale; il nemico vero (la dichiarazione aveva almeno il merito della franchezza) era il nascituro. Era inutile; questo marmocchio che gli avrebbero presentato forse di lì a pochi istanti dicendogli:—È il tuo figliuolo—non destava nell'animo del professore il minimo senso di tenerezza. Avrebbe fatto, si intende il suo dovere verso di lui (quando non lo faceva, egli, il proprio dovere?) avrebbe lavorato per non lasciargli mancar nulla; l'avrebbe protetto, consigliato, difeso; ma come gli sarebbe stato riconoscente se fosse rimasto in mente Dei!… E pure non gli accadeva nulla che non fosse nell'ordine naturale delle cose, e il suo collega professor Feroni, grande odiatore del bel sesso, a cui egli non aveva saputo dissimulare la sua noia per la gravidanza della moglie, aveva esclamato per spaventarlo:—Eh caro mio, le donne son capaci di tutto, anche di darvi due gemelli… Chi non vuol disgrazie segua il mio esempio e ne stia lontano.
Certo il dubbio che in fondo a questa mala soddisfazione per l'imminente paternità ci fosse una buona dose d'egoismo veniva ogni tanto a molestare il professore Alberto Varedo, a turbar l'alto concetto ch'egli aveva della sua perfezione morale. Anche adesso una voce importuna gli ripeteva di quando in quando:—tu che non soffri, tu che puoi, se ti piace, stenderti sul tuo letto e dormire, tu ti lagni e ti crucci, e tua moglie che patisce da nove mesi, tua moglie che ora si dibatte negli spasimi, che potrebbe soccombere alla prova, è raggiante di gioia nell'aspettativa della gracile creatura che uscirà palpitante dalle sue viscere. E questa creatura ella per un anno la nutrirà del suo latte, consacrerà ad essa i suoi giorni e le sue notti, le insegnerà a balbettare le prime parole, a provare i primi passi, ne scruterà ogni moto, ogni gesto, sentirà ripercotersi in cuore l'eco d'ogni suo lamento, tremerà d'ogni ombra che ne offuschi le pupille, che ne veli le gote;… tu frattanto accudirai alle tue occupazioni ordinarie, correrai dietro come prima a' tuoi sogni ambiziosi; non avrai del bambino che le carezze e i sorrisi… E osi lagnarti?
Ma Varedo non durava fatica a soffocar queste timide rampogne della sua coscienza. Chi discute con sè medesimo finisce sempre col trovar gli argomenti che gli danno ragione. Egli non negava nè le sofferenze presenti nè le passate di Diana; non negava il coraggio con cui ella dissimulava i suoi dolori; nè l'abnegazione piena d'entusiasmo con cui si disponeva ad adempire ai suoi uffici. Ma che per ciò? Se l'ideale della donna è quello d'esser madre, se nel conseguimento di questo ideale è la sua maggior voluttà, si capisce bene che per raggiungerlo ella affronti risoluta e serena qualunque pericolo e si sobbarchi a qualunque sacrifizio. Il dolore, il pericolo sono condizioni indispensabili della sua gioia; il sacrifizio, o quello che ci par tale, è anch'esso una gioia per lei. Non convien quindi magnificare oltre misura i suoi meriti.
Alberto Varedo era arrivato a questo punto della sua ingegnosa dissertazione quando lo ferì un grido acuto, straziante, come d'un animale colpito a morte. E a quel grido ne succedette un secondo, ed un terzo più straziante, più acuto… indi un gran silenzio… Il professore sentì un brivido corrergli dalla punta dei piedi alla radice dei capelli, sentì bagnarsi d'un sudor freddo le tempie e le mani, guardò istintivamente l'orologio che segnava le tre del mattino, e barcollando sulle gambe uscì dalla stanza.
Era entrato appena nel salotto attiguo che si incontrò con la suocera la quale, a vederlo così pallido, diede un passo indietro. Ma ricompostasi subito—Sei tu?—disse.—Venivo ad annunziarti che tutto è finito.
—Finito?—balbettò Alberto.
—Già… finito in bene… e prima di quello che non si credesse… Ma per questa volta bisogna aver pazienza. È una femmina…
Che fosse una femmina o un maschio non era cosa che importasse molto a Varedo; ond'egli non fece un grande sforzo di magnanimità a dichiarare che gli bastava di saper Diana fuori di pena.
—Vieni a darle un bacio—proseguì la signora Valeria. E lo precedette dalla figliuola.
Nella camera nuziale una matrona baffuta, con un neo sul mento che sembrava un cespuglio, immergeva in una vasca d'acqua tepida un mostriciattolo paonazzo e strillante; la donna di servizio cacciava in un angolo un mucchio di panni sanguinolenti. Bianca come il guanciale su cui posava la testa, la puerpera si voltò languidamente verso il marito, e gli sussurrò in un soffio:—Sto bene adesso… L'hai vista?
—Or ora gliela porto—disse la matrona baffuta, mentre Alberto, docile agli eccitamenti della suocera, si chinava su Diana e accostava la bocca alla bocca scolorita di lei.
La matrona, conosciuta in arte sotto il nome di Carlotta Rossetti, levatrice approvata, infarinò rapidamente con la cipria il corpicciuolo umido e viscoso della bambina, e la presentò in tutta la sua seducente nudità al felice genitore.
—Baciala—suggerì la signora Valeria.—È una bellezza.
Reprimendo un gesto di maraviglia all'audace affermazione, Varedo sfiorò con le labbra la guancia della sua primogenita.
—Una bellezza—sentenziò la levatrice approvando le parole della signora Valeria. Ma soggiunse con arguzia:—La prossima volta faremo un maschio.
Diana tirò fuori faticosamente una mano dalla coperta e accennò ad
Alberto d'avvicinarsi.
—Non sei andato a letto?—gli chiese.
—No…
—Povero Alberto!… Vacci ora… Tra poco spero anch'io di dormire.
—Sarai stanca.
—Tanto stanca.
—Hai sofferto molto?
—Molto… Ma è passato… E dopo si prova una gran pace.
—Tss, tss!—fece la signora Valeria, appressandosi alla figliuola.—Non affaticarti a discorrere… E tu, Alberto, procura di riposare il resto della notte.
—È quello che gli dicevo—bisbigliò Diana.
—Tutti, tutti dobbiamo pigliarci qualche ora di riposo… Anch'io guardo con desiderio a quel letto lì…
E la signora Valeria accennò al letto di suo genero ch'ell'avrebbe occupato per quella notte e per le seguenti.
Indi rispose:—Appena la signora Carlotta avrà finito i suoi affari con la principessina…
—Ho finito, io… Ecco Madamigella
E prima di collocarla nella cuna tepida e civettuola che l'aspettava la riofferse, avvolta in pannolini caldi, al bacio della nonna e dei genitori.
—O perchè non posso tenerla qui accanto?—chiese Diana.
Sua madre si oppose.—No, assolutamente no.
—Perchè?… Dovrò alzarmi per vederla.
—Abbi pazienza… Per questa volta fa conto d'aver dieci anni di meno e ubbidisci alla tua mamma… La cuna è attaccata al tuo letto… Non hai che da voltare un momento la testa… Tutti questi lumi li porteremo via… Non resterà che il lume da notte là sul cassettone… proprio in fianco alla cuna… Guarda, la piccola s'è chetata subito… O dov'è la signora Carlotta? Se ne sarebbe andata alla romana?
La donna di servizio rispose:—No, si mette il cappello e torna.
In fatti, la signora Rossetti riapparve col cappello in testa e imbacuccata nella pelliccia.
—Son qui a dar la buona notte a tutti… principiando dalla nostra sposa…
S'accostò alla puerpera, la palpeggiò in tutto il corpo con la mano esperta, e diede segni di viva soddisfazione.—Bene, benissimo… Sarò qui domattina alle dieci.
—Domattina verrà anche il dottore.
—È naturale—osservò la levatrice.—Ma non avrà da ordinar nulla.
—E—domandò ansiosa Diana—la piccola non avrà bisogno di niente…
Non avrà fame?… Non avrà sete?
—Che fame?—protestò la signora Carlotta.—Che sete?… Fin dopo la mia visita di domani non le diano neppur un gocciolo d'acqua.
—E per domani mi verrà il latte?
—Sì, non dubiti… E stia di buon animo… Se si agita, guai… Buona notte…
—Buona notte.
La signora Valeria accompagnò la levatrice fino nell'anticamera.—Tutto in regola, non è vero?
—Perfettamente.
—Sia ringraziato Iddio… E se ne va così sola?… … Oh, lei qui di nuovo?
Queste ultime parole erano indirizzate a Bardelli apparso come per incanto.
—Sì… Passavo… Sento che la signora Diana s'è liberata… Mi rallegro, anche in nome della mamma.
—Grazie, signor Bardelli… ci vedremo domattina… Adesso si va tutti a letto…
—E il professore?
—È di là… Ma è meglio lasciarlo stare…
—Diamine! Se posso servire in qualche cosa?
—Niente, signor Bardelli, niente… O piuttosto, sì… forse potrebbe far un tratto di strada insieme con la signora Rossetti.
—Ben volentieri…
Ma la levatrice, che aspettava il momento buono per congedarsi definitivamente, dall'alto della sua statura di un metro e 82 centimetri squadrò il piccolo e sbarbato professorino e disse non senza malizia:—Chè? Chè? Ho l'abitudine di andar sola a qualunque ora… Con un giovinotto poi, comprometterei la mia riputazione…
—A ogni modo—ripigliò sorridendo la signora Valeria—il professor
Bardelli potrebbe chiamarle un fiacre.
—Immediatamente. Ce ne dev'essere in Piazza Vittorio Emanuele.
E Bardelli si precipitava; ma la signora Rossetti lo trattenne.—Non si disturbi… fin che posso, preferisco trottar con le mie gambe che, grazie a Dio, sono ancora buone.
Battè due colpi con la palma sulla rotella del ginocchio e soggiunse:—A me nessuno osa dar molestia… E poi, creda a me, madama Inverigo, quando una donna ha un certo contegno…
Terminò d'infilarsi un paio di grossi guanti di lana, alzò il bavero della pelliccia, e uscì con passo marziale.
Eugenio Bardelli, sgattaiolò per proprio conto.
. . . . . . . . . . . . . . .
Rientrando nella sua camera da studio, Alberto ebbe l'ingrata sorpresa di trovarsi in un'atmosfera densa ed irrespirabile. La lampada a petrolio s'era spenta; il fungo formatosi in cima allo stoppino mandava un chiarore rossastro. Il professore dovette spalancare la finestra, posar il lume sul davanzale, e lasciar aperto per qualche minuto. Era una notte di marzo limpida e fredda; il termometro all'esterno segnava otto gradi sotto zero; i tetti, bianchi di neve, scintillavano ai raggi della luna. Non saliva dalla strada suono di passi o di voci. Allorchè Varedo si decise a rinchiudere i vetri, anche la stanza era una Siberia, ed egli, messosi a letto, non potè dormire nè riscaldarsi per quanto si coprisse. Prima dell'otto era in piedi, starnutando e tossendo. E queste furono per lui le prime dolcezze della paternità.
Nuovi orizzonti.
L'avevano battezzata per Valeria, ma, poichè il nome pareva troppo solenne, preferivano, fin che era piccola, di chiamarla Bebè. A sei mesi ell'era piuttosto brutta che bella, piuttosto cattiva che buona, e spiegava istinti voraci ch'esaurivano il petto materno e costringevano a ricorrere all'aiuto del latte di capra, delle pappe e degli zuccherini, di cui la bimba era ghiotta fuor di misura, tanto da strillar di gioia quando glieli davano e da strillar di rabbia quando non volevano ripeterglieli. Del resto, indipendentemente dagli zuccherini, quegli strilli da pavone empivano spesso la casa, e il professore, turandosi gli orecchi, urlava da una camera all'altra alla moglie:—Per carità, falla tacere.—Ma Diana si maravigliava della estrema suscettibilità del marito, e domandava ingenuamente:—O che disturbo ti dà?… A ogni modo, chiuderò anche quest'uscio.
E, pif paf, si sentiva il rumor d'un'usciata, che aveva il significato dispettoso d'una protesta. Tuttavia i due coniugi vivevano in passabile accordo. Ella si sforzava di consacrare ad Alberto le ore che l'eran lasciate libere dalla figliuola e gli ricopiava qualche pagina di manoscritto, gli correggeva qualche bozza di stampa; egli dal canto suo cercava coscienziosamente di far vibrar dentro di sè le corde ribelli della paternità, e di tratto in tratto consentiva a prender Bebè sulle ginocchia, e ad ammirarne le riposte bellezze. Ma era una disdetta. La piccola non poteva star due minuti col suo babbo senza rendersi colpevole di infrazioni più o meno gravi alle regole della creanza; allora il professore, inorridito, restituiva il dolce pondo a Diana che si metteva a ridere, e, ridendo, lo faceva arrabbiare.—O, vorresti pigliar queste cose in tragico?—diceva lei. E Varedo, di rimando:—Sarebbe ben meglio che tu la lasciassi con la bambinaia.—Meno che posso gliela lascio—ribatteva Diana.—Le madri devono badar esse ai loro figliuoli.
Quel famoso dovere ch'era stato per tanto tempo ed era ancora, come direbbero i vagneriani, il leit-motiv dei discorsi di Varedo, aveva trovato in Diana un terreno propizio per fruttificare. E innestandosi adesso sull'amore vivissimo ch'ella portava a Bebè dava a quell'amore quasi la rigidezza d'una disciplina militare. Alla massima generica e indiscutibile che le mamme devono occuparsi personalmente della loro prole si aggiungevano altri precetti particolari che la giovine sposa non avrebbe trasgrediti per tutto l'oro del mondo. Così per esempio ell'aveva voluto continuar ad allattare benchè l'allattare la estenuasse; così ella non cedeva a nessuno l'ufficio di fare ogni mattina il bagno alla bimba; così ella s'imponeva la regola di uscir pochissimo di giorno se non poteva portar seco Bebè, e di non uscir mai la sera nemmeno se Bebè dormiva tranquillamente. Non doveva ella invigilarla sempre? Non doveva esserle accanto se si svegliava?
Che se Alberto la rimproverava di esagerare, ell'aveva la risposta pronta:—In fatto di dovere, melius abundare quam deficere; l'hai detto tu, in un latino che capisco anch'io. Tu fai il tuo dover di professore, di scienziato, io faccio quello di buona mamma.
Sarebbe stato facile di replicare che nella vita i doveri son molti e che l'essenziale è di saperli conciliare, mentre a prenderne troppo in epico uno solo si rischia di mancare agli altri; ma Alberto Varedo non aveva neppur lui un concetto abbastanza limpido del rapporto esistente fra i vari doveri per dare una risposta così semplice e naturale; anch'egli era propenso a considerar come tali soltanto quelli che convenivano a' suoi gusti e a' suoi fini, e la distinzione fatta da Diana implicava in favor suo un certo grado di libertà che non gli tornava sgradito.
Ond'egli si limitava a borbottar qualche parola e lasciava cadere il discorso.
Fu appunto in quel tempo, fra il sesto e il settimo mese di Bebè, quando l'apparizione del primo dente in bocca alla figliuola era salutata da Diana come il primo apparir della terra dai compagni di Cristoforo Colombo, fu appunto allora che il professore Alberto Varedo veniva sollecitato all'adempimento d'un nuovo dovere, quello di servir la patria nella politica.
Rimasto vacante per la morte d'un deputato un collegio della provincia di Cuneo, gli elettori pensaron a lui e delegarono una Commissione di notabili a offrirgli la candidatura nei termini più lusinghieri. Sarebbe stato singolarissimo onore pel collegio l'essere rappresentato da un uomo di tanto merito, un uomo che, così giovine, era già una gloria dell'Università, uno spirito liberale, un parlatore facondo, un luminare degli studi giuridici, ecc., ecc. La verità si era che il collegio constava di tre frazioni in lotta fra loro, nessuna delle quali era capace di far riuscire il candidato del suo cuore, nè rassegnata a lasciar trionfare il candidato d'una delle frazioni rivali. Bisognava quindi cercar uno che non fosse della provincia, meglio ancora che non fosse della regione, e Alberto Varedo possedeva questo prezioso requisito.
Già più d'una volta era balenata alla mente di Varedo la possibilità di entrare presto o tardi nella vita pubblica. Più d'una volta, al Caffè Romano, in quei crocchi di neo-professori ove si parlava d'arte, di letteratura, di filosofia, di matematica et de omnibus rebus, egli aveva difeso la politica contro gli attacchi furibondi di alcuni colleghi.
—La politica guasta tutto ciò che tocca—urlavano quelli.—Sciupa gl'ingegni e annebbia le coscienze.
—Il nostro Senato è un ospizio d'invalidi, la nostra Camera è un immondezzaio—soggiungevano i più arrabbiati.
Ma egli, senza scomporsi, sosteneva che quanto più basso era caduto il Parlamento italiano tanto più era necessario di rinnovarlo, di purificarlo con elementi incontaminati.
—O che poni la tua candidatura?
—Che c'entro io?—replicava Varedo.—Si discorre in tesi generale.
E, tra serio e scherzoso, egli citava una sentenza di Cicerone da lui già tradotta per uso di Diana:—Neque enim est ulla res in qua propius ad deorum numen virtus accedit quam civitates aut condere novas, aut conservare jam conditas.
Ella, Diana, dubitosa sulle prime, trepidante al pensiero che se Alberto fosse deputato sarebbe troncata la tranquilla intimità della loro vita domestica, ella a poco a poco era andata mutando opinione. Se la gioventù avesse effettivamente una missione da compiere? Se portando alla Camera dei criteri rigidi, austeri, ella potesse arrestare la corruttela che dilagava, cooperare alla rigenerazione morale di quella terza Italia riuscita così inferiore all'aspettativa, o ch'era lecito alle donne d'intralciare il cammino ai figliuoli, ai mariti, ai fratelli? Non era anzi obbligo loro di aiutarli a svolgere tutte le proprie attitudini?
Ma già da un bel pezzo nè Diana pensava a ciò, nè Alberto tirava in campo l'argomento. Ella era così assorbita dalla sua maternità che Varedo, uso a non ammettere che si potesse distrarsi mentre egli parlava, aveva finito coll'intrattenerla molto più raramente de' suoi disegni, delle sue aspirazioni.
Adesso però il silenzio era impossibile, e Varedo informò sua moglie della proposta che gli era fatta. Non disse ch'era deciso in cuor suo d'accettarla; finse per cortesia di attendere il parere di lei, le rammentò le dispute romorose con gli amici al Caffè Romano, e la parte ch'ella pure vi aveva preso, e l'ardore con cui ella lo aveva appoggiato nella sua lotta contro l'egoismo scientifico.
A Diana quei giorni sembravano tanto remoti. La piccola cuna ove, placida e rosea, Bebè dormiva i suoi sonni innocenti aveva scavato un abisso fra il passato e il presente. Le dispute del caffè l'erano quasi sfuggite dalla memoria; non capiva com'ella vi si fosse immischiata, come avesse mostrato uno spirito così battagliero, come avesse potuto prender sul serio cose e questioni che oggi le parevano di piccolissimo conto.
Benchè nella sua perspicacia ell'avesse subito capito che Alberto era ormai legato da una promessa e non la consultava che per salvar le apparenze, ella non mostrò d'aversene a male, nè volle mettersi in contraddizione con le sue opinioni d'un tempo. Ma i suoi motivi erano affatto diversi. La missione della gioventù, la fede negli alti e severi propositi con cui Alberto sarebbe entrato alla Camera, l'orgoglio di essergli consigliera ed ispiratrice, tutto ciò insomma che le aveva brillato dinanzi agli occhi come un sogno di gloria e di poesia oggi la faceva sorridere come un'illusione infantile. Sentiva la vanità della gloria, e, in quanto alla poesia, sentiva che per la donna non ce n'è nessuna che valga il bacio e la carezza d'un suo bambino….
Ell'accolse quindi le comunicazioni di Varedo senza entusiasmo e senza ostilità, con una calma benevola in cui c'era un fondo d'indifferenza.
—E sei poi sicuro d'essere eletto?
—Spero… Non ci sono competitori seri… Dovrò andare nel collegio a tenere un discorso.
—Quando?
—Mi avviseranno. Forse domenica prossima… Oh, un viaggio breve….
Sarò di ritorno la sera….
Ella sorrise.—Quando sarai deputato le tue assenze saranno più lunghe.
—Sfido io… Ma ormai non ci sono distanze, e anche da Torino a Roma si va così presto…. E poi, di tratto in tratto, verrai anche tu a passar qualche settimana alla capitale.
—Io?… Ora Bebè è troppo piccola.
—Quando sarà svezzata.
—E l'Università?—chiese Diana.
—Ci sono tanti professori nel mio caso.
—Professori che non fanno lezione—soggiunse ella con una punta d'ironia.
Ella rammentava le sfuriate di Alberto contro i colleghi negligenti.
—Chi dice questo?—egli replicò infastidito.—Intendo professori che sono deputati.
—E fin che sono a Roma non possono essere a Torino.
—Con un po' di attività si concilia ogni cosa—ribattè Varedo.—La Camera non è sempre aperta, non tutte le discussioni sono interessanti… All'Università c'è l'assistente; io ho Bardelli ch'è pieno di zelo;… a ogni modo, quando urge essere da una parte o dall'altra, un dispaccio è presto spedito e ricevuto.
—Che gusti!—pensava Diana.—Esser metà dell'anno in ferrovia, non aver un'ora di pace, aspettar sempre un telegramma che vi chiami di qua e di là…
E involontariamente ella confrontava quell'agitazione perpetua e febbrile con l'esistenza placida ch'era serbata a lei, sempre fra le pareti domestiche, sempre accanto a Bebè, sempre intenta a scoprire il miracolo di quella vita che sbocciava sotto i suoi occhi. Le future assenze di Alberto non la turbavano; nel suo inconscio, tranquillo egoismo ella considerava che, col marito lontano, non avrebbe avuto rivali presso la figliuola, che sarebbe stato suo, non d'altri che suo, quell'affetto onde, sin dai primi mesi, ell'era gelosa.
Quante volte, dopo la comunicazione di Varedo, mentre ferveva la lotta elettorale ed egli era in giro pel suo collegio ad accaparrarsi i voti, Diana, sola con Bebè e palleggiandola fra le braccia, le parlava come s'ella potesse intenderla.
—Il babbo chiacchiera co' suoi bifolchi, bel matto! Ci trovo ben più sugo io a chiacchierare con te!… Andrà a Roma il babbo… Ma noi che siamo qui, ci faremo compagnia… non avremo bisogno di nessuno, non è vero, caro tesoro?
Venne finalmente il giorno dell'elezione. Il professore assicurava che, in fondo, non ci teneva affatto, che aveva accettata la candidatura perchè gli sembrava doveroso accettarla, ma che, se non lo nominavano, se ne sarebbe dato subito pace. Poteva dir senza presunzione:—Tanto peggio per gli elettori;—perchè il nome su cui gli avversari suoi s'erano concertati era un nome insignificante, ridicolo e peggio. Anche prima d'esser uomo politico Alberto Varedo aveva degli uomini politici l'equanimità e la temperanza… Dunque, a sentir lui, non gl'importava riuscire, ciò che non toglie che la notte precedente al gran giorno egli non chiudesse mai occhio, e che la mattina fosse in piedi all'alba e spedisse Bardelli al telegrafo con un fascio di dispacci intesi a smentire due o tre notizie inesatte sparse sul conto suo da un foglio della provincia. Bardelli, figuriamoci, era venuto a mettersi a disposizione del professore prima che si spegnessero i lumi per le strade.
—Io me ne infischio, ma vedrà, caro Bardelli, vedrà che faccio fiasco.
Quest'era il ritornello di Varedo, a cui l'assistente contrapponeva una serie di affermazioni documentate che davano la sicurezza della vittoria. Egli aveva fatto il computo dei voti; garantiva una maggioranza schiacciante.
Il profeta di buon augurio fu trattenuto a colazione, poi mandato qua e là nelle redazioni dei giornali amici per aver notizie. In vero delle notizie dei giornali non c'era bisogno, perchè presto cominciarono ad arrivare telegrammi diretti dalle varie parti del collegio, prima sulla formazione dei seggi, più tardi sul concorso degli elettori, finalmente sui risultati, sezione per sezione. Alle cinque l'esito non era più dubbio, e Diana desiderò avvisarne sua madre con un dispaccio che l'officioso Bardelli s'incaricò di portar egli stesso al telegrafo.
—Dopo torni qui e resti a desinare con noi—dissero, all'unisono, i
Varedo.
La sera vi fu una processione di gente che veniva a congratularsi. Erano in maggioranza giornalisti, studenti, professori. Uno di questi, il dottor Sali della facoltà di lettere, portò anche la moglie, la signora Erminia, ex bella donna, di cui si diceva all'Università ch'era alla sua terza maniera perchè prima di sposarsi con Sali era rimasta vedova due volte, di due professori, l'uno della facoltà di scienze, l'altro della facoltà giuridica. Non le restava ormai da assaggiare che la Scuola d'applicazione.
Ma la visita che fece più colpo fu quella del Rettore professor Andriani, che aveva appartenuto alla Camera subalpina e che adesso apparteneva al Senato, brav'uomo, eloquente ai suoi tempi, facondo sempre; solo che, per una disgraziata conformazione dei denti, veri o posticci, non poteva da alcuni anni dir quattro parole senza mettere un fischio.
Sebbene côlta alla sprovvista, Diana non tardò a ricomporsi e ad adempiere convenientemente ai suoi uffici di padrona di casa. Fece accendere il gaz in tutte le stanze a eccezione della camera da letto ove dormiva Bebè (figuriamoci! quella doveva esser chiusa ai profani) accettò con garbo i rallegramenti, distribuì rinfreschi a' suoi ospiti. Certe bottiglie di vecchio Barolo che dormivano polverose in cantina furono stappate per l'occasione, e contribuirono a crescere il buon umore. Si propinò alla salute del neo eletto, gli si augurò un sottosegretariato fra sei mesi, un portafoglio fra un paio d'anni.
Egli, modesto, si schermiva.—Adulatori!… Ho proprio la stoffa del Ministro, io! E se credete ch'io sia uomo da ambire il titolo d'Eccellenza!… Lo dico a cuore aperto, non so nemmeno quanto tempo resterò deputato…
—Eh via…
—Ma sì… Quando vedessi chiaro che non si cava un ragno dal buco, darei le mie dimissioni.
Frattanto il Rettore Andriani, slanciando a destra e a sinistra i soliti fischi come di locomotiva in partenza, s'era impegnato in un discorso lungo sul periodo classico delle nostre lotte parlamentari, e citava alcune sedute memorabili del 1860 e 61, e raccontava una serie d'aneddoti del Conte di Cavour e di Urbano Rattazzi.
Ma Diana sgattaiolava di tratto in tratto in silenzio, andava in camera da letto a dar un'occhiata alla bimba, si fermava in estasi a contemplarla.
—Cara, cara… Questo è il mio Parlamento… Questo è il mio Ministero… Oggi ti ho dovuta trascurare… Ma non sarà più così, sai…
Una volta la bimba si svegliò, si mise a piangere, e Diana se la prese sulle ginocchia e si slacciò il busto per offrirle il seno, orgogliosa di quel suo ufficio di madre, ascoltando come una musica nuova e soavissima il tenue rumore del latte che, succhiato con labbra avide, scendeva a goccia a goccia nelle fauci della bambina. Anche era per lei una voluttà dolorosa il sentir sulle carni delicate la punta dei primi dentini nascenti, e le pareva che ogni sofferenza creasse fra lei e quel suo angioletto un legame di più. Ella diceva fra sè:—Di là i sogni dell'ambizione, della potenza, della gloria; di qua una povera diavola che dà il latte alla sua creatura… Sono una povera diavola, io, nonostante i grandi pronostici che si facevano sul mio conto… Non sono che la moglie di un uomo illustre… e piuttosto che brillar soltanto di luce riflessa è meglio rimanere all'oscuro.
A poco a poco il sonno dolce e benefico allargò e distese le sue ali sull'esile corpicino di Bebè; gli occhi si chiusero, le labbra si staccarono dal capezzolo, la testa ricadde alquanto all'indietro, abbandonandosi sul braccio materno. Diana, asciugata con un bacio lieve la bocca umida della bimba, la posò sulla cuna, le ravviò sul petto le coperte e tornò in salotto ove i visitatori non attendevano che lei per partire.
—Domando mille scuse, ma sono una balia, e le balie non possono far complimenti.
—Ma s'intende, ma ci mancherebbe altro!
—Beata lei che ha già una bambina!—esclamò la signora Sali.—Io, con tre mariti, non sono mai riuscita ad aver figliuoli… Che uomini mi son toccati!
Varedo, al quale sembrava che quella sera, Diana non avrebbe dovuto occuparsi che di lui e del suo trionfo, ebbe un moto d'impazienza.—Quella piccina è viziata… Si avrebbe potuto svezzarla da un pezzo.
Indi rivoltosi a Bardelli, soggiunse:—Non vada mica via, lei.
Usciremo insieme.
—Esci?—chiese Diana.
—Sì; devo andare al telegrafo e alla Gazzetta Piemontese.
In quella giunse un dispaccio. Era della signora Valeria e portava le felicitazioni di lei e degli amici che raccolti in casa Inverigo bevevano lo sciampagna alla salute del nuovo onorevole e della sua compagna.
—Povera mamma!—sospirò Diana.—Il suo cuore è sempre con noi.
Rilesse il dispaccio in silenzio. Nessuna menzione dello zio Gustavo.
Egli non era fra quelli che si rallegravano della vittoria di Alberto.
Com'era tenace nei suoi rancori!
—Piovono le congratulazioni—notò Alberto a sua moglie (erano rimasti loro due soli e Bardelli).—Non ci sei che tu che non m'hai ancora detto nulla.
Già disposta alla commozione dal telegramma della madre, Diana, a questo mite rimprovero in cui c'era un'intonazione affettuosa, sentì salirsi le lacrime agli occhi, e tendendo tutt'e due le mani a suo marito,—Io…—balbettò—io… ma io sono una parte di te.
I due sposi si scambiarono un bacio.
Due "maiden-speeches".
Un sabato sera (Varedo era già deputato da qualche mese) Diana riceveva da Roma questo telegramma.
Discorso esito trionfale. Congratulazioni deputati ministri.—Dettagli per lettera. Manderò giornali.
Era la prima volta che Varedo parlava alla Camera. Da uomo accorto egli non aveva voluto precipitar nulla; sapeva che i deputati non ci guadagnano a mostrar soverchia impazienza; che devono prima farsi conoscere e apprezzar negli uffici, e stringere amicizie personali, e acquistar la certezza che, partecipando a una discussione pubblica, saranno ascoltati. «Dall'esito di quello che gli Inglesi chiamano il maiden speech—egli aveva scritto a sua moglie—«può dipender tutto l'avvenire di un uomo politico».
Ecco dunque che il suo maiden speech egli l'aveva fatto, riportando, a quanto pareva, un vero successo oratorio.
Diana si voltò verso Bebè che, accomodata nella sua seggiolina davanti alla tavola, era occupatissima a sovrappor l'uno all'altro alcuni cubi di legno, e mugolava al suo solito: umm, umm.
—Ha fatto un bel discorso il babbo, e tu non sai dire che umm, umm. Vergogna!
Bebè guardò la sua mamma con occhi incantati, poi fece il bocchino da piangere.
—No, no, non ti sgrido mica—si affrettò a soggiunger la madre quasi scusandosi.—Buona, buona!… Non ne hai colpa tu se non parli.
La bimba aveva più di un anno ed era svezzata da un mese; capiva tutto, conosceva tutti, era, che s'intende, un portento, ma non articolava ancora nessuna parola, e quest'era un gran cruccio per Diana, che sfogava le sue inquietudini col medico di casa, il dottor Giraldi, e di tratto in tratto, sommessamente, arrischiava l'idea di consultare uno specialista.
Il dottor Giraldi rideva.—Consulti chi vuole, ma è un'idea stravagante… Bebè non ha nessun difetto alla lingua; parlerà senza dubbio, un poco dopo di qualche sua coetanea, un po' prima di qualche altra… perchè ci sono bambini che tirano avanti fino a un anno e mezzo e due anni;… ma parlerà, la sbalordirà, ne stia certa.
Le medesime cose, su per giù, le scriveva da Venezia la madre, e la vecchia Bardelli, nelle sue visite settimanali, ripeteva sempre che il suo Paolo (l'artista, quello de' suoi figliuoli ch'ella teneva in maggior conto) era stato muto come un pesce fino a sedici mesi e due giorni.
Così lo specialista era lasciato dormire, tanto più che Diana non osava nemmeno accennarvi nelle sue lettere ad Alberto; ma non per questo ell'era tranquilla, chè anzi la sua inquietudine cresceva d'ora in ora. E quella sera, sotto l'impressione che Bebè fosse rimasta mortificata dal rimprovero, a lei scendeva nell'anima una invincibile tristezza che le inumidiva le ciglia e la rendeva quasi dimentica del trionfo di suo marito.
—Caro, caro tesoro—ella esclamò prendendo in collo la bimba e coprendola di baci—che tu parli o no, la tua mamma t'intenderà sempre.
In quella stretta, Bebè ebbe un postumo desiderio del latte ond'era privata da un mese, e le sue piccole dite scorrevano indiscrete sui bottoni del vestito materno, mentre la bocca rosea mordeva la stoffa e commentava l'atto espressivo col solito suono indistinto: umm, umm.
Diana, severa, ammoniva.—Nossignora, non si può… Non c'è più niente.
Forse Bebè lo sapeva e voleva ridere soltanto. Ora aveva afferrato un bottone e lo tirava con violenza.
—Insomma se sei cattiva, vai di là.
In mezzo a questi contrasti giunse Eugenio Bardelli, l'assistente e il factotum di Varedo che lo seguiva come la sua ombra quand'egli era a Torino, e durante le sue assenze ne riceveva ed eseguiva zelantemente gli ordini, e passava mattina e sera da Diana a offrirle i propri servigi.
—Vengo dalla Redazione della Gazzetta Piemontese—egli disse.—Ho visto un telegramma fresco fresco da Roma… Il professore ha riportato un grande successo.
—Lo so, lo so—rispose Diana sorridendo.
E accennò al dispaccio ch'era aperto sulla tavola; indi soggiunse:—Grazie lo stesso… Sempre gentile, Bardelli.
—O le pare!—ripigliò l'assistente dopo aver dato un'occhiata al telegramma di Varedo.—Sì, dev'esser stato un trionfo… Ma non è da maravigliarsene… Parla così bene il professore… Che dote l'eloquenza!
Diana sospirò al pensiero che la sua figliuola non dava pel momento alcun segno di possedere questa qualità preziosa.
Intanto l'arrivo di Bardelli aveva distratta Bebè da' suoi attacchi insidiosi. Bardelli era un amico che d'ordinario s'occupava molto di lei. O perchè non se ne occupava oggi?
—Umm, umm—ella fece per richiamare la sua attenzione.
—Buondì, Bebè—disse il giovine.
Diana tentennò la testa.—Ah, è cattiva… Or ora la consegno all'Irene che la porti a letto.
L'Irene era la bambinaia.
Bebè protestò nel suo linguaggio contro la perversa intenzione.—Umm, umm.—E guardava Bardelli quasi per invocare il suo aiuto.
—Vuoi venire con me?—Chiese l'assistente. E le tese le braccia.
Ella fece altrettanto.
Diana si mise a ridere.—Bardelli, che vuol prendersi lei questo impiccio?
—Sicuro, siamo buoni amici con Bebè… Non è vero, Bebè?
—Ebbene—ripigliò la signora Varedo con una risoluzione improvvisa—gliela dò per un pajo di minuti; fin tanto che scrivo due righe di telegramma per Alberto. Me le imposta lei quando esce, Bardelli?
—Naturalmente.
—Ah, Bardelli, come ci avvezza male!
—Ma, signora Diana…—principiò il professorino. Dovette però interrompere la frase, perchè Bebè gli tirava i capelli.
—No, Bebè, no…
Appena la bimba vide che il suo amico si occupava di lei le sue mani si allentarono spontaneamente, ed ella parve tutta assorbita da un grande sforzo intellettuale.
Bardelli ebbe un'inspirazione luminosa.—Bebè, chi è quella? Dì mamma, mamma…
—Umm, umm.
Diana, con la penna sospesa tra le dita, guardava ansiosa.
—Umm, umm.
—Ecco, non le riesce—piagnucolò la madre.—Nessuno mi leva dalla mente che ha un vizio organico.
—Nemmeno per sogno… Vedrà… Dì mamma, Bebè.
Questa volta il miracolo accadde.—Umm, umm… amm… mamm… mamma.
Diana balzò dalla seggiola.—L'ha detto?… Ha detto mamma?
—Già, l'ha detto e lo tornerà a dire… Aspetti, non la confonda…
Bebè, chi è quella?
—Mam… mamma—ripetè la piccina.
Adesso poi Diana non seppe più frenare il suo entusiasmo e volle stringersi al petto la figliuola che aveva compito il prodigio.
—Cara, cara, tesoro mio, viscere mie… lo dici ancora… mamma, mamma.
Bebè, disturbata dall'impetuoso amplesso materno, non cedette all'intimazione e tornò al suo solito umm, umm, a cui però ella dava un accento di protesta.
—Cattiva! Con me gioca a dispetti!—esclamò la Varedo guardando
Bardelli con aria mortificata.—Gliela restituisco.
—Brava!… E intanto scriva il suo dispaccio.
—Ha ragione… Il dispaccio… Così annunzio ad Alberto che Bebè comincia a parlare.
—E—soggiunse Bardelli—se non le dispiace, insieme alle sue congratulazioni pel discorso mandi anche le mie.
Il discorso di Alberto! Quasi quasi Diana se n'era dimenticata; certo esso le pareva cosa di ben tenue importanza di fronte all'altro avvenimento che la empiva di giubilo.
Nondimeno si accinse a scrivere, e scrivendo leggeva:—«Deputato Alberto Varedo, Albergo di Santa Chiara. Roma.—Mille felicitazioni pel tuo trionfo, anche da Bardelli qui presente. Sappi che finalmente stasera Bebè ha detto mamma—Diana».
—Va bene?
—Benissimo.
Bardelli si alzò tenendo la bimba in collo, prese il foglio, e lo ripose in tasca.
—Badi—disse Diana,—Bebè le ha slacciato il nodo della cravatta.
—Oh, Bebè è un pessimo soggetto—rispose l'assistente celiando.—Ora gliela riconsegno…. Va dalla mamma, Bebè, va dalla mamma.
E liberatosi dal prezioso fardello, il professorino si accomiatò dalla
Varedo.—Corro subito al telegrafo.
—Grazie Bardelli, grazie…. E scusi di tutto. Spero che Alberto sarà contento della notizia che gli dò… E chi sa che quando riceve il mio dispaccio non me ne mandi uno anche lui.
Ma il dispaccio non capitò. Capitò invece il dì appresso una lettera lunghissima in cui Varedo si diffondeva con infinita compiacenza a descrivere l'effetto prodotto dal suo discorso riportandone alcuni motti arguti, alcune frasi ch'erano state più applaudite, e riferiva i complimenti fattigli dal Presidente della Camera, dai Ministri e da parecchi Deputati autorevoli. Infine egli invitava Diana a leggere i vari giornali ch'egli le spediva sotto fascia, giornali amici e avversari, constanti, gli uni con schietta soddisfazione, gli altri con noia mal dissimulata, il bel successo del nuovo oratore.—«Leggi specialmente la Tribuna—egli le scriveva—ove c'è il miglior sunto del mio discorso.» Varedo finiva coll'annunziare a sua moglie che di lì a due o tre giorni, dopo una votazione a cui egli non poteva mancare, sarebbe tornato per qualche settimana a Torino. A Bebè era appena consacrata una riga a piedi del foglio: Un bacio a Bebè.
—Non aveva ancora ricevuto il telegramma—disse Diana per scusar suo marito.—La lettera di domani sarà ben differente.
E per debito di buona moglie intraprese la lettura dei fogli che Alberto le aveva trasmessi, soffermandosi specialmente sulla Tribuna la quale portava un più ampio resoconto parlamentare. Bello senza dubbio il discorso, interrotto spesso da approvazioni e da applausi segnati fra parentesi in corsivo; bello, ma non tale che riuscisse ad appassionare, ad interessare Diana Varedo.—Sarà l'argomento—ella pensava.—Tuttavia pensava altresì che un tempo, nei primi mesi del loro matrimonio, nessun argomento trattato dal suo sposo le sarebbe parso poco interessante; ch'ella si sforzava, e non senza frutto, di rendersi famigliari gli studi di lui, che andava superba di fargli da segretario. O perchè era mutata adesso? Lo amava meno, o la maternità aveva limitato gli orizzonti del suo spirito, le aveva fatto parer vana ogni curiosità e ogni ricerca intellettuale? Certo si è che quand'ebbe finito di scorrere i giornali e potè tornar ad occuparsi di Bebè, ella ebbe il movimento di gioia dello scolaro al rintocco del campanello che annunzia la ricreazione. Tanto più che Bebè, in dodici ore, aveva fatto progressi maravigliosi. Non solo diceva ormai mamma a tutto pasto, ma mostrava le migliori disposizioni ad arricchire di nuove parole il proprio vocabolario.
Comunque sia, nei pochi giorni che precedettero l'arrivo di Alberto, Diana rifece parecchie volte il suo esame di coscienza, confessandosi in gran parte colpevole dei mutati rapporti fra lei e suo marito. Troppo lo trascurava, troppo lo metteva in seconda linea, dacchè un nuovo sentimento imperioso, dispotico, esclusivo aveva preso possesso del suo cuore. Eppure, se questo sentimento era potuto nascere in lei e recarle tanta dolcezza ella ne andava debitrice al suo sposo, come a lui andava debitrice, se non degli agi della sua vita, della stima, del rispetto ond'era circondata. Non doveva ella dunque mostrargliesene riconoscente? S'egli era assorbito da' suoi studi, dalle sue occupazioni parlamentari, se nelle lotte politiche, insieme a poche compiacenze d'amor proprio, raccoglieva una larga messe di fastidi e di note che di tratto in tratto turbavano l'equanimità del suo carattere, non era tanto più necessario che in casa sua egli trovasse accoglienze festose e amorevoli? Invece, Diana se ne ricordava con sincero rammarico, nelle brevi gite di Alberto a Torino, ella, impermalita forse di non vederlo abbastanza espansivo con lei e con Bebè, finiva col chiudersi in un silenzio dispettoso e con l'evitare a bello studio gli argomenti che soli avrebbero avuto la virtù di alimentare i loro colloqui. Indi era accaduto più volte che, tranne all'arrivo, alla partenza, e all'ora di desinare, si fossero appena visti, che, in tre o quattro giorni, non avessero scambiate che poche parole.
Questa volta non sarebbe stato così. E, in primo luogo, ella non si sarebbe limitata a semplici congratulazioni circa al famoso discorso; ne avrebbe parlato ad Alberto con conoscenza di causa, perchè lo aveva tanto letto e riletto nei sunti ch'egli gliene aveva spediti da poter ripetergliene a memoria l'esordio e la chiusa quali erano riprodotti nella Tribuna. Ma quest'era un'inezia di fronte al programma ambizioso ch'ell'agitava in mente. Non più sfinita dall'allattamento e dalle veglie, Diana voleva riconquistar presso suo marito il posto che s'era lasciata portar via dagli altri, da Bardelli per esempio ch'era divenuto un po' troppo l'uomo indispensabile della casa. Non lo faceva per secondi fini, povero Bardelli, non lo faceva per darsi importanza; era sinceramente affezionato al suo professore, a lei, a Bebè; tuttavia con prudenza, con delicatezza, bisognava moderarne lo zelo…. Ed era così buono, così giudizioso ed equanime da capir subito la ragionevolezza di ciò che gli si domandava.
In fine, nel suo momentaneo ottimismo, Diana si teneva sicura d'aver un'alleata in Bebè. Bebè era per lei la tiranna, era, per Alberto, la rivale, la Bebè aveva, appunto negli ultimi giorni, imparato a dire papà, e questa parolina doveva, come una chiave magica, aprirle il cuore del babbo…. E allora quanti malintesi sarebbero tolti di mezzo!
Fiasco.
Con queste dolci speranze, con questi forti propositi, in una bella mattina di maggio, Diana Varedo, insieme alla bambinaia e a Bebè, s'avviava alla stazione centrale incontro al marito. Incipit vita nova—le dicevano il cielo azzurro, l'aria tepida, il sole limpidissimo, l'animazione insolita della gente che pareva bevere a larghi sorsi la primavera. Incipit vita nova—le ripeteva il suo cuore.
Bebè, pavoneggiandosi in un vestito bianco con due fiocchi color di rosa sulle spalle, dava segni manifesti di voler scendere in terra, di voler provare i suoi piccoli passi nelle viottole del giardino di Piazza Carlo Felice ove altri bimbi correvano e saltellavano; ma la madre l'ammoniva a esser buona, e riserbar tutte le sue prodezze a quando avrebbe visto il suo papà.
—Come dirai?
—Pa… pà… Papà.
—Ah che amor di bimba!—esclamò Diana, non potendo trattenersi dal darle un bacio.—E come sarà contento il babbo!
Ma sotto la tettoia della stazione accadde cosa che scemò alquanto la soddisfazione della signora Varedo. Poichè Bebè, riconoscendo Bardelli in un gruppo di signori che chiaccheravano presso alla porta d'ingresso, si commosse tutta, agitò le braccia, emise alcuni suoni inarticolati che volevano esser espressione di giubilo e finì col pronunziar schietto e tondo:—Papà, papà.
Diana e l'Irene le diedero sulla voce.—Ma no che non è quello il papà… Deve venire il papà.
E Diana rivolgendosi un po' seccata a Bardelli che si avanzava officioso e sorridente e accennava a prender lui in collo la bimba,—no—disse—la lasci stare… Vede, le dà troppa confidenza.
Ordinò all'Irene di metterla giù, di farla camminare sul marciapiede.
Ma Bebè, con l'ostinazione della sua età, seguitava a voler Bardelli e a ripetere il motto incriminato:—Papà, papà.
Oh insomma—disse Diana strappando alla bambinaia la piccola riottosa e redarguendola severamente—insomma, Bebè, se sei cattiva ti mando a casa. Hai capito? E soggiunse:—Mi faccia il piacere, Bardelli, vada da un'altra parte… Finch'è qui lei, Bebè non si cheta… È venuto anche lei per aspettar Alberto naturalmente?
—Già—rispose il giovine senz'avvertire il fondo d'ironia che c'era in quel naturalmente.
—Ebbene, ci ritroveremo più tardi… Vada, adesso vada…
—Vado, vado—disse il docile Bardelli. E si allontanò pensando forse che le donne hanno l'umore molto variabile.
Intanto, toccandosi rispettosamente il berretto, si presentò il cavaliere Luini, capo-stazione, che, come Diana aveva notato, la salutava con tanta maggior deferenza quanto più in credito saliva Varedo alla Camera.
—L'onorevole arriva col direttissimo delle 10.13?—egli disse, guardando l'orologio.
—Appunto. C'è ritardo?
—Nossignora—rispose il cavaliere.—Ma non sono che le 10… Desidera accomodarsi?
E additò lì presso una panca ove ci sarebbe stato posto per lei e per la bambinaia.
—Grazie—replicò Diana.—Sto ritta volentieri.
Il capo stazione indirizzò un complimento a Bebè che s'era pacificata e coi suoi ditini pizzicava le guancie all'Irene.
—Come s'è fatta grande!
—Avrà presto quattordici mesi.
—Credevo molto di più.
La bimba per mostrarsi grata del giudizio favorevole manifestato sul suo conto dall'egregio funzionario, pronunziò la parola ormai imparata anche troppo:—Papà, papà.
—Aspetta il suo papà—spiegò Diana commentando l'uscita improvvisa della figliuola, non senza però trovar strana in cuor suo l'estrema facilità di Bebè a veder padri da per tutto.
Chiamato dai doveri del suo ufficio, il cavalier Luini sorrise e si accomiatò… Alcuni treni arrivavano, altri partivano: ci fu un momento di confusione tra il correre affrettato dei passeggeri che scendevano e salivano sulle vetture, il vocìo dei conduttori e dei facchini, i fischi delle locomotive e gli squilli delle cornette. Poi tornò una quiete relativa. In attesa del direttissimo venivano silenziosamente a schierarsi sul marciapiede le carriuole pel trasporto dei bagagli. Due signore che avevano l'argento vivo addosso scendevano ogni tanto sul binario per guardare dalla parte da cui doveva giungere il treno, un servitore in livrea stava immobile, contegnoso come se fosse nell'anticamera del suo palazzo patrizio; nel crocchio ov'era Bardelli si seguitava a discorrere animatamente.
Reputando ormai finita la sua quarantena, il professorino lasciò gli amici per riaccostarsi a Diana.—È buona adesso?—egli domandò accennando a Bebè.
—Sì, è buona… ma per carità, non la tocchi, non la guardi….
Per fortuna Bebè era assorta nella contemplazione d'un cagnetto pinch che una forastiera teneva sotto il braccio.
—E lei con chi era?—chiese la Varedo a Bardelli.
—Credevo li conoscesse… Quando il professore è a Torino vengon tutti a cercarlo a casa… qual più qual meno…
Diana guardò con l'occhialino.—Aspetti, quello alto di statura mi pare…
—Frascati, il cronista della Piemontese… quello col cappello a cencio è il corrispondente della Tribuna; l'altro che ha gettato via il sigaro…
Incapace di trattenere un moto d'impazienza, Diana interruppe:—Dica la verità, e sono alla stazione per mio marito?
—Eh—notò scherzosamente Bardelli—gli uomini illustri…
Ma Diana scattò.—sa ch'è una bella sconvenienza?… Tanto farebbe vivere in piazza… Mai un momento di pace, d'intimità… Sempre i terzi incomodi…
Ella vide che Bardelli si turbava, arrossiva, e s'affrettò a soggiungere:—Non dico per lei Bardelli; lei è come di famiglia…
Aveva capito ch'era una solenne ingiustizia il metterlo in mazzo con gli altri, e si pentiva di essersi lasciata sfuggire qualche parola che potesse offenderlo; si pentiva anche di quello che non aveva detto, ma che aveva pensato sul conto di lui… No, anzi Bardelli bisognava tenerselo caro e farsene un alleato contro quella massa d'indiscreti, d'importuni…
La campana annunziante l'arrivo del treno tolse la possibilità d'ulteriori spiegazioni.
—Ferma, Irene, ferma!—gridò Diana, richiamando vivamente la bambinaia che s'era mossa come per andare incontro alla locomotiva.—E tirati indietro.
Indi catechizzò un'ultima volta Bebè.—Adesso è qui il papà. A lui devi dire: papà, papà.
Le idee di Bebè non erano chiare e sembrava che ella avesse di nuovo tutta la propensione a dare il sacro nome di padre a Bardelli che le stava vicino.
Sbuffando e romoreggiando, il convoglio, con una celerità appena rallentata, imboccò la tettoia per poi arrestarsi con prestezza mirabile sotto l'azione dei freni automatici. Un lungo gemito roco usciva dalle ruote striscianti sul binario.
—Ecco il professore!—gridò Bardelli correndo ad aprir lo sportello d'una vettura di prima classe. E chiamava:—Signora Diana, signora Diana!
—Addio, Bardelli—disse Varedo consegnandogli una valigia.—Chiami un facchino.
—Se non ha altro bagaglio non val la pena… C'è la signora con la bimba.
—Le ho viste—rispose il deputato mentre accennava con la mano che non si affrettassero.
Disceso che fu, abbracciò la moglie, baciò la figliuola, e—State bene?—chiese a Diana.—Bebè sta bene?
—Non ti par florida?—domandò Diana. E soggiunse:—Che progressi ha fatto!
—Lo so—rispose Varedo sorridendo.—Dice mamma, me lo hai telegrafato.
—Oh dice anche di più—replicò Diana con aria di trionfo. Si rivolse alla bimba con lo sguardo appassionato e supplichevole delle madri che tremano di vedersi smentite dai loro piccoli tiranni.—Chi è questo?… Chi è venuto adesso?
Pareva lo facesse apposta Bebè a far sfigurare la mamma. Aveva rivisto il canino pinch, non aveva occhi che per lui.
—Lasciala in pace—ammonì Varedo.—Ha tempo di dir papà.
In quella egli s'accorse di Frascati e degli altri che gli facevano la ruota attorno, e con un cenno li invitò ad avvicinarsi.
Diana fremeva.—Che seccatori!… Non me li presentare.
—Andate avanti con Bardelli—disse Varedo—e fermate un brougham a quattro posti… Io mi sbrigo subito.
Ma Diana, l'Irene e Bebè erano in carrozza già da un paio di minuti prima che l'onorevole si fosse levato di dosso quelle sanguisughe. Bardelli con un piede sul predellino, ripeteva a Diana per quetarne la crescente impazienza:—Or ora viene.
E venne in fatti, scusandosi.—Cara mia, i giornalisti bisogna tenerseli amici… Salga anche lei, Bardelli, farà colazione con noi.
L'assistente, che aveva tuttora nelle orecchie le sfuriate di Diana contro gl'indiscreti che turbavano l'intimità domestica, accattava pretesti per schermirsi. E che aveva un impegno e che la colazione l'aveva già fatta.
—Non ci son scuse—ribattè Varedo.—Se non ha fame, non mangerà, ma in quanto agli impegni, abbia pazienza, non doveva prenderne. Doveva immaginarsi che avrei avuto cento commissioni da darle.
—Salga, via—soggiunse Diana.—Se no, restiamo qui fino alla consumazione dei secoli.
Bardelli ubbidì. Durante il tragitto, Bebè, seccata forse da tanti ritardi, fu d'una perversità eccezionale. Non solo si rifiutò di dir mamma e papà, ma pianse e strillò disperatamente senza lasciarsi nè intimorire nè commuovere dalle esortazioni materne.—La bell'accoglienza che fai al tuo babbo!… Cattiva!… Non ti vergogni?… Non hai un bricciolo di amor proprio?
Alberto si burlava di sua moglie.—Oh l'amor proprio a quell'età!…
Basterebbe che non rompesse i timpani.
—È sempre un angelo—diceva Diana mortificatissima.—Ha il giudizio d'una bambina grande… E oggi dev'esser così… Ho proprio paura che non stia bene.
Varedo si stringeva nelle spalle, e sforzando la voce per soverchiar gli urli della figliuola chiedeva conto d'un'infinità di cose a Bardelli. Quante lezioni aveva fatte per lui all'Università? A che punto del corso era arrivato? Era stato in tipografia a sollecitar quelle bozze? Aveva letto il suo ultimo articolo comparso nella Rivista giuridica? E quella memoria inserita nell'Archivio storico?…
Ah, non poteva rimproverarsi d'esser stato in ozio a Roma, nonostante la politica… Intanto il primo volume dell'opera sul Dovere l'aveva finito lì, tra una seduta della Camera e l'altra, e adesso sperava di dar mano al secondo…
Diana divorava le lacrime. Si sentiva messa in disparte, lei e la bimba; l'impresa di riconquistar suo marito, di ricuperare il posto ch'ell'aveva una volta presso di lui, quell'impresa che pur dianzi l'era parsa di così agevol riuscita la sgomentava ad un tratto come cosa irta di difficoltà insuperabili. Sempre più, sempre più le loro vie divergevano e ogni tentativo di ravvicinarle era vano. Ecco, egli nemmeno s'occupava di Bebè; un bacio, una carezza tanto per iscarico di coscienza, e poi tutto era finito. È vero che oggi Bebè era pestifera, ma egli doveva occuparsene per sgridarla, non far finta ch'ella non ci fosse e parlar con Bardelli della sua Università e delle sue Riviste. Ebbene; s'egli non si curava di Bebè, se non domandava a lei, alla madre, i particolari delle sue prodezze, o perchè doveva ella sdilinquirsi pel discorso ch'egli aveva tenuto alla Camera? Glielo nominò, glielo lodò il suo discorso, gli fece le sue congratulazioni (come avrebbe potuto esimersene?) ma quand'egli, preso l'abbrivo, si diffuse con singolar compiacenza a descrivere il proprio trionfo ella s'avvide che quel trionfo non destava che un'eco debolissima nel suo cuore. E quanto più egli s'accalorava tanto più ella si restringeva in sè stessa e diventava, suo malgrado, fredda, pessimista ne' suoi giudizi. Certo egli era un uomo d'ingegno, ma era anche un uomo di cuore? E quel dovere che gli tornava spesso sulle labbra non era forse una lustra per mascherare le sue ambizioni?
Così Diana rientrò sconfidata nella casa che aveva lasciata un pajo d'ore addietro piena di liete speranze, sedette senz'appetito alla tavola che aveva voluto apparecchiar con le sue mani prima d'uscire e ove aveva preparato un posticino per Bebè fra lei ed Alberto. Ma il posticino rimase vuoto, perchè Bebè, lungi dal mostrarsi degna dell'altissimo onore, seguitò a far capricci, e fu forza consegnarla all'Irene che se la portasse via.
In luogo di Bebè c'era Bardelli a cui Alberto tra un boccone e l'altro e sfogliando lettere e giornali seguitava a chieder notizie e a dar commissioni.
L'assistente prendeva ogni tanto una nota sul taccuino.
—Povero Bardelli!—pensava Diana.—È una vittima.
E le venne un'idea, l'idea più luminosa che le fosse venuta in quella giornata in cui tutto le andava a rovescio.
—Bardelli, che s'è sognato di dire che ha fatto colazione?… Non può esser vero. Lei non fa mai colazione così presto.
E ordinò che aggiungessero una posata.
—Diamine!—esclamò il professore.—O chi poteva immaginarsi che
Bardelli fosse diventato un uomo così cerimonioso?… Mangi, mangi.
Allora Varedo si accorse che sua moglie toccava appena le vivande, e le chiese:—Tu cos'hai?
—Niente, non ho fame.
Eugenio Bardelli si sente una pulce nell'orecchio.
Nelle brevi gite ch'egli faceva a Torino quando il Parlamento era aperto, Varedo era sempre occupatissimo. Moltiplicava le sue lezioni all'Università per riguadagnar l'ore perdute, spingeva innanzi con alacrità i suoi lavori scientifici, dava una capatina nel suo collegio, riceveva gli elettori che venivano in deputazione a parlargli delle loro questioni locali, aveva continui abboccamenti col Prefetto, col Sindaco e con altri pezzi grossi della politica e dell'amministrazione. Per la famiglia non gli restavano che pochi ritagli di tempo. Questa volta fu peggio del solito, e la vivacità di Bebè contribuiva a far sì che l'onorevole, quando pur era in casa, si chiudesse ermeticamente nel suo studio. Egli se ne scusava con Diana—Cara mia, tu lo sai, senza la mia quiete io non posso nè scrivere, nè leggere, nè pensare. Se vieni tu a tenermi compagnia mi fai un piacere come me lo facevi in passato; ma lascia Bebè all'Irene o mettila a dormire.
Per tentar di rivivere nel passato Diana si provava talora a venir sola nello studio di suo marito. Sedeva in silenzio in un angolo lavorando, o, a richiesta di lui, correggeva delle stampe, traduceva qualche passo di libri inglesi e tedeschi. Ma era distratta. La sua mente era altrove; ella trasaliva a ogni rumore del di fuori; e di quando in quando si alzava e andava a dar un'occhiata a Bebè.
—Che cosa vuoi?—ella diceva ad Alberto.—Non mi fido dell'Irene.
—E se non te ne fidi, cambia bambinaia.
—Gli è che non mi fiderei di nessuna.
—Allora poi…
C'erano momenti in cui la bimba strillava per voler la sua mamma.
—Dio, come urla!—esclamava Varedo.
—Se vado io, tace subito.
—Va, va… già sei sulle spine.
No, non era assolutamente possibile di far rivivere il passato. Adesso, nell'uscir dallo studio di Alberto per correre dalla sua figliuola, Diana aveva l'ali ai piedi.
A Bebè il babbo dava una gran soggezione. Troppo spesso le dicevano:—Zitto, il papà sta scrivendo—zitto, il papà ha gente,—perchè, al cospetto di lui, ella non si ammutolisse. In vero, nei pochi momenti ch'egli poteva dedicarle, ell'accettava rassegnata le sue carezze, si lasciava portar sulle spalle e cullare sulle ginocchia; ma di che gioia i suoi occhietti s'illuminavano quando egli la deponeva per terra o la riconsegnava alla madre o alla bambinaia!
Varedo s'era proposto di rimanere a Torino tre settimane. Senonchè, alla fine della seconda, gli capitarono da Roma delle lettere che lo sollecitavano ad affrettare il suo ritorno. Il ministero era vacillante, l'opposizione a cui Alberto apparteneva non disperava di assestargli un colpo mortale anche prima delle vacanze, o almeno d'indebolirlo in modo da rendergli difficile la vita a novembre. E, nell'ipotesi d'una crisi, si faceva balenare agli occhi di Varedo, ch'era tra i giovani più promettenti del Parlamento, la prospettiva d'un posto di sotto-segretario di Stato. Ma, appunto per ciò, conveniva ch'egli fosse sulla breccia.
Di questa possibilità d'un ufficio politico che l'obbligasse a una dimora permanente alla capitale, il professore parlò a sua moglie, come di cosa vaga e remota, soltanto il giorno prima di ripartire per Roma, a tavola, in presenza di Bardelli, ch'era stato invitato a desinare.
Dopo aver accennato alle condizioni precarie del Gabinetto e passato in rivista quelli che, secondo lui, avevano maggior probabilità di raccoglierne la successione, egli soggiunse:—L'uomo indicato per la Presidenza del Consiglio, quello a cui credo del resto che si rivolgerebbe subito la Corona, è San Giustino. Me ne appello a Bardelli che ha letto il suo ultimo discorso…
—Eh sicuro—confermò l'assistente;—un discorso magistrale.
—Il suo e il mio—ripigliò Varedo—serbate sempre le debite proporzioni, furono i due maggiori successi di questo scorcio di sessione… Ah, era un pezzo che non si sentiva alla Camera un discorso come quello di San Giustino, così organico, così ricco d'idee e di soda eloquenza.
—Di dov'è San Giustino?—domandò Diana.
—È toscano… Ha la lingua, ha l'accento, beato lui!
—È giovine?
—Avrà quarantadue o quarantatre anni. E non è di quelli che abbiano fretta. È dei pochi che non parlano quando non abbiano qualcosa da dire.
—Ha famiglia?
—È vedovo… ha due figliuole in collegio… e un nipote, certo Quinzani, figlio d'una sorella, un bravo giovine, dottore in legge, che vuol percorrere la carriera dell'insegnamento. Ha già qualche pubblicazione pregevole… Anzi, Bardelli, appena sarò a Roma farò ch'egli le spedisca una copia di una sua memoria di diritto internazionale… È molto ben fatta…
—Grazie.
—Con San Giustino—seguitò Varedo ch'era in vena di confidenze—ci siamo legati d'amicizia in questi ultimi mesi… Egli dice sempre che se andasse al potere si affretterebbe a offrirmi un segretariato.
—Capo di gabinetto forse?—chiese Bardelli.
—No, no, che diamine?… Sottosegretario di stato… ch'è il modo di mettersi in vista per esser ministro a una prossima occasione… Te ne stai lì incantata, Diana? Non ti sorride l'idea di esser sottosegretaria di Stato fra un anno, e ministressa forse tra due? Dov'è il bel fervore d'un tempo?… Ti ricordi delle serate al Caffè Roma, di quando mi sostenevi valorosamente nella lotta contro i colleghi arrabbiati i quali non ammettevano che un galantuomo, che uno scienziato potesse aspirare alla vita politica?… Hai mutato parere?
Prima che sua moglie rispondesse, Alberto soggiunse celiando:—Sarebbe un chassez-croisez, perchè han mutato parere anche loro, i colleghi arrabbiati. Di due, Blevio e Sarioli, si sa benissimo che cercano un collegio per mare e per terra e che non è colpa loro se non l'hanno trovato, e gli altri non devono poi averla a morte con quei poveri uomini parlamentari, se mi tempestano di lettere (Bardelli n'è buon testimonio) per ottener favori e decorazioni.
—Ebbene—disse Diana,—ho paura proprio che tu abbia ragione, che sia un chassez-croisez.
—Davvero?—fece Varedo con una risatina forzata.—Dunque ti dispiace ch'io abbia in così poco tempo conquistato un posto onorevole alla Camera?
—Oh—ella interruppe protestando,—non dare questo significato alle mie parole… Come può dispiacermi?… Ma io penso che anche fuori della Camera la tua riputazione non poteva che crescere… Meno assorbito dalla politica, ti saresti consacrato con tanto più fervore alla scienza…
—E ti pare ch'io l'abbia abbandonata la scienza?
—Neanche per sogno; ma il tempo che si dà ad una cosa non si può dar all'altra.
—Eh, del tempo ce n'è d'avanzo… Basta volere. In quanto alla scienza, io le faccio tanto di cappello, e la coltivo secondo le mie forze… Ma la scienza deve esplicarsi nell'azione, e non è coi bei libri che si manda avanti l'umanità.
Diana tentennò la testa.—Va poi avanti?
—Vede, Bardelli, quel che sono le donne—ribattè Alberto Varedo rivolgendosi al suo assistente.—Scettiche e superstiziose… Credono, se occorre, ai miracoli della Madonna di Lourdes, e diffidano del progresso, diffidano dell'influenza che gli uomini d'ingegno e d'energia esercitano sui propri simili.
—Avrò torto—disse Diana facendosi umile.—Forse in fondo alle mie querimonie non c'è che il rammarico di veder quasi sciolta la nostra famiglia.
—Quasi sciolta?—esclamò Varedo.—Che esagerazioni! Come se anche lontano io non fossi con voi? Come se le mie assenze si prolunghino mai oltre un certo limite?… Naturalmente, se un dì o l'altro appartenessi al Governo, queste mie gite a Torino sarebbero molto difficili; ma allora ci sarebbe un rimedio, verresti tu pure a Roma con Bebè.
—Tu lasceresti l'insegnamento?
—In via provvisoria… come si fa sempre, il giorno in cui si abbandona il potere si riprende la cattedra.
—Vedi se val la pena di spiantar casa!… Per quello che durano i Ministeri in Italia!… Questo qui ha poco più di due anni e trovate che ha già vissuto troppo.
—Sfido io… Quel povero Crugnoli ha perso la bussola… E ha certi collaboratori… Oh, Bebè!
Bebè, la cui comparsa arrestava sulle labbra paterne il panegirico dei collaboratori di Crugnoli, veniva in tavola, come d'ordinario, alle frutta e l'Irene, dopo averla portata in giro acciocchè tutti la baciassero, l'accomodò nel seggiolino accanto alla mamma.
Le manine della bimba si protesero subito con energia verso la fruttiera.
—Or ora, or ora—disse Diana prendendo alcune ciliege e levandone il nocciolo… Ecco… Apri la bocca, Bebè.
Ma Bebè non voleva essere imboccata, voleva mangiar da sè; ciò che diede luogo a una breve contestazione tra madre e figliuola.
E poichè Bebè principiava a strillare, Varedo si turò gli orecchi con le dita.
—Zitto, Bebè!—disse Diana.—Il papà non vuol sentir piangere le bambine.
L'ammonizione ebbe un effetto salutare; Bebè trattenne le lacrime e borbottò:—Papà citto.
A forza di sentirsi ordinare di star zitta in presenza del suo babbo ell'aveva finito con l'affibbiare questa specie di nomignolo all'autore de' suoi giorni.
Senza più curarsi di lei, il professore si voltò verso Bardelli per domandargli se avesse finito la traduzione di certi passi d'una recente opera tedesca.
—Fra tre o quattro giorni—rispose l'assistente—le spedisco ogni cosa.
Varedo parve sconcertato dall'annunzio.
—Ah, Bardelli mio, questa volta ha dormito.
—È una cinquantina di pagine fitte, sa, professore—osservò l'altro, scusandosi.—E io non supponevo che lei partisse così presto…
—Appunto, non lo supponevo neanch'io… È una disdetta, perchè io speravo di legger quella traduzione in strada ferrata.
—Domani?… Com'è possibile?
—Eh, pazienza….
Desolato, Bardelli ripigliò:—Se fosse per domani sera potrei forse….
—No, è inutile… Quando non l'ho per domattina…
Bardelli si grattava la nuca.—Per domattina?… A che ora parte la corsa?
—Alle 8.55. Ma le ripeto che non importa…. Invece mi porti il libro alla stazione…. Ci darò un'occhiata durante il viaggio… Non ho col tedesco la famigliarità che ha lei, ma lo intendo benissimo…. E a Roma, in caso di bisogno, incaricherò della versione Quinzani che ha studiato a Lipsia.
Questo nome di Quinzani, ripetuto dopo un così breve intervallo, destò nell'animo di Bardelli un sentimento istintivo di gelosia.
—Aspetti, aspetti, professore… Ancora non è detta l'ultima parola.
—Cioè?
—Non so, non m'impegno, ma, ripensandoci su, trovo che le 8,55 di domattina sono lontane.
Diana, che stava facendo il caffè con la macchina, alzò gli occhi verso Bardelli.
—O che vorrebbe patir la notte?
—Forse non sarà neanche necessario; basterà andar a letto un'ora più tardi e alzarsi un'ora prima…
—Ma Alberto, tu non devi permettere—insistè Diana; e intanto con uno spillone stuzzicava il lucignolo sotto la macchina. Bebè stendeva i suoi cubi sulla tavola, meditando qualche grande opera architettonica.
Varedo si mise a ridere.—Non si tratta di permettere o non permettere. Bardelli è fuori di minorità… Io non esigo nulla… S'egli non può portarmi la traduzione, mi riporti il volume…. senza cerimonie.
—Avrà la traduzione, professore—dichiarò Bardelli.—Ormai mi pare di poter dargliene l'affidamento.
—Oh—disse Varedo accendendo un sigaro per sè e offrendone uno al suo interlocutore,—quel libro io l'ho sfogliato e son persuaso che non abbia nulla di nuovo. Ma quei tedeschi son così pedanti che un autore il quale non tenesse conto delle loro ultime pubblicazioni avrebbe per questo solo avversa tutta la critica. E in ogni modo io desidero che la mia opera, almeno nell'esposizione delle varie dottrine, sia completa ed esauriente.
L'onorevole si stropicciò le mani in aria d'uomo contento di sè.—Ella lo sa benissimo, Bardelli, nel primo volume di cui ho consegnato giorni fa l'ultime pagine all'editore, io prendo in esame coscienzioso e sereno lo stato presente della questione. Ipotesi ottimista, ipotesi pessimista, imperativo categorico di Kant, spiritualismo, naturalismo, positivismo, evoluzionismo, tutti insomma i sistemi principali della morale contemporanea sono riassunti e discussi. Il secondo volume sarà consacrato interamente allo svolgimento della teorica del dovere che io faccio derivare dalla trasformazione dell'egoismo gretto primitivo in egoismo illuminato e dell'egoismo illuminato in altruismo. Così…
—No, non si regge—interruppe Bardelli facendo per alzarsi dalla sedia.
Ma il professore, un po' piccato, lo trattenne pel braccio.
—Come non si regge?… E che cosa guarda?
È forza riconoscere che Bardelli, perduto assolutamente di vista l'imperativo categorico, fermava la sua attenzione sopra una minuscola torre di Babele che Bebè andava via via erigendo co' suoi cubi e che minacciava rovina.
In fatti, patatrac, l'edifizio precipitò con fracasso sulla tavola e Bebè, rossa in viso ed irritatissima, se la prese coi cubi e cominciò a scagliarli di qua e di là per la stanza.
—O Diana—gridò Varedo—a che cosa badavi?
E con le palme aperte si riparava dai poco pericolosi proiettili.
—Badavo al caffè—rispose tranquillamente la signora, mentre, senza scomporsi, imprigionava nelle sue le manine della bimba.
—Il caffè ce lo manderai nel mio studio—disse l'onorevole levandosi da tavola.—Venga di là, Bardelli. Ripiglieremo in pace il nostro discorso… Non sente che strilli?
Bebè che non s'era potuta sfogare col bombardamento si sfogava urlando come un'ossessa. E nella sua disperazione invocava il soccorso del suo amico Bardelli.—Elli, Elli!
—Se provassi io a quietarla,—insinuò questi, timidamente.
—È matto?—saltò su Varedo.—O che fa la bambinaia, lei?… Venga, venga con me.
I due uomini si mossero, ma Diana li arrestò con un gesto.
—È inutile, Bebè cede il campo. La porto io dall'Irene e torno subito a versare il caffè ch'è bell'e pronto.
Così dicendo, ella uscì con la piccola ribelle che si divincolava invano e che tra minacciosa e implorante esauriva tutto il suo vocabolario.—No… Mamma… Elli… Più… Papà citto.
Alberto Varedo si rimise a sedere, accavalciò le gambe e con l'impassibilità olimpica di Farinata degli Uberti, non turbato dall'interruzione di Guido Cavalcanti, riappiccò la conversazione filosofica al punto in cui l'aveva lasciata.
—Io parto da questo concetto. La tendenza intima dell'essere si manifesta sotto due aspetti apparentemente contrari, l'egoismo e la simpatia. L'istinto personale della conservazione, estendendosi da un individuo agli altri individui con cui egli è in rapporti, basta a…
—Se prima beveste il caffè?—propose Diana ch'era rientrata tacitamente nel salotto da pranzo e aveva ripreso il suo posto.
Il professore fece un gesto d'impazienza.—Beviamo pure questo caffè, ma dopo passeremo nella mia camera da studio.
—Ecco—balbettò Bardelli posando sulla tavola la chicchera offertagli dalla padrona di casa—ecco…. se mi permettesse….
—Che cosa?
—Dovendo finire quella traduzione…
—Ah, quella del libro tedesco?… Ci tiene proprio a finirla lei?
—Sì, professore, le confesso che sarebbe per me un gran dispiacere che altri vi mettesse le mani….
—Se le sta a cuore davvero, faccia come crede…
Bardelli vuotò in fretta la chicchera e si alzò.
—Grazie… Allora vado… La signora Diana mi scusa…
—Io?… S'immagini… Piuttosto non s'ammazzi per lavorare….
Alberto, hai un assoluto bisogno di quella traduzione per domattina?
—Ma no… Quello di cui ho bisogno è il libro… Ho già detto a
Bardelli che la traduzione posso farla fare a Roma da Quinzani.
Ancora Quinzani! Tre volte Alberto Varedo lo aveva nominato nel corso di quella sera, e ogni volta Bardelli ne aveva risentito una impressione oscuramente penosa.
—Alle 8.55 sarò alla stazione col manoscritto—egli disse prendendo commiato.
Dopo ch'egli ebbe rinchiuso l'uscio dietro di sè, Diana si rivolse a suo marito.
—Povero Bardelli! Lo appoggerai al primo concorso.
Varedo sorrise.—Oh i ragionamenti delle donne! Perchè ci è devoto, perchè ci è affezionato…. del resto anche noi gli usiamo molte attenzioni… deve aver i titoli per vincere un concorso universitario…
—Ma li ha, i titoli.
—Può darsi…. Bada però che non è mica un'aquila.
Diana sbarrò tanto d'occhi.
—Se lo lodavi sempre?
—È un bravo giovine, è un giovine colto, studioso, ma non è un'aquila… E poi prometteva di più di quello che non ha mantenuto.
Diana non soggiunse verbo:—Bardelli è un debole e un sentimentale—ella pensava.—Sarà schiacciato dai forti.
Nella bottega dell'orefice.
Era una domenica di luglio e stava per sonare il mezzogiorno. Uno dei garzoni si avvicinò al padrone e chiese:—Si deve chiudere?
—Chiudete pure—rispose Girolamo Bardelli.
Una signora vestita a bruno, ch'era in compagnia d'un fanciullo fra i sei e sett'anni e ritta dinanzi al banco chiacchierava confidenzialmente con l'orefice, esclamò:—Diamine! È così tardi?… Vado, vado… Su, Pinotto…
—Eh, non c'è fretta, signora Merlini—disse Bardelli.—Prima di tutto a chiudere ci vogliono dieci minuti… Poi si può uscire per la porticina di dietro: e in fine si può anche restare, perchè io resto.
Pronunziate queste parole, Girolamo Bardelli diventò rosso come un papavero, perch'egli era timidissimo col bel sesso, e una proposizione siffatta gli pareva il colmo dell'audacia, quantunque dovesse capire che la presenza di Pinotto era una salvaguardia contro tutti i pericoli.
La signora Merlini sorrise maliziosamente.—Eh, signor Bardelli, che direbbe il mondo?… No, no, me ne vado… E siamo intesi… Occorrendo, posso fare assegnamento su lei per la stima di quei pochi oggetti…
—Ma per qualunque cosa, si figuri…
—Già se non potessi proprio fare a meno di venderli, verrei qui…
Lei non è uno speculatore, è un amico….
—Questo sì, ma speriamo che non abbia bisogno…
—Eh, una povera vedova con un figliuolo da educare, non si sa mai… Una gran brutta condizione, caro signor Bardelli, quella d'una vedova che sia ancora abbastanza giovine e che voglia restar ligia al proprio dovere… Se non è un mostro—e la signora Merlini ebbe un gesto che significava: «Io non sono tale;»—se non è un mostro, degli appoggi ne trova in quantità; ma a qual prezzo?
Questa volta l'orefice arrossì per conto della signora Merlini e balbettò:—Pur troppo gli uomini sono raramente disinteressati.
Ella lo interruppe.—Ce ne sono però; siamo giusti. Ce ne sono e ne conosco anch'io… molto da vicino….
Così dicendo, la vedova porse al signor Girolamo una mano bianca e grassottella ch'egli prese con delicatezza in una delle sue, mentre con l'altra accarezzava i capelli di Pinotto.
La signora Merlini puntò sul banco tutti e due i gomiti e chinandosi verso Bardelli sussurrò a bassa voce:—C'è una cosa ch'io non riuscirò mai ad intendere.
—Ed è?
—Perchè gli uomini migliori non si facciano una famiglia.
La onesta curiosità della signora Merlini rimase inappagata, perchè giusto in quel momento due persone irruppero nella bottega che i garzoni non avevano ancora finito di chiudere. Era la signora Marianna Bardelli in compagnia del figliuolo Eugenio.
—Scappo—disse la vedova ripigliando la posizione verticale. E soggiunse in un soffio:—Stasera alle nove conduco Pinotto a prendere una boccata d'aria al Valentino.
Indi, voltandosi verso i nuovi arrivati.—Buon giorno, signora Bardelli, come sta? Buon giorno professore… Pinotto, da bravo, levati il berretto. Questi ragazzi non imparano mai la creanza.
Scambiati i saluti, la signora Merlini uscì rapidamente, tenendo a mano il figliuolo.
La signora Bardelli la seguì con uno sguardo sospettoso e malevole.—Che civetta!
—Oh Dio—obbiettò l'orefice.—Non vedo…
—Civetta sopraffina—ribadì la madre.—E come si dipinge gli occhi!
—Non mi pare…
—Tu non te ne intendi, caro mio… E bazzica molto in questa bottega, la signora…. Grandi affari, ha…
—Desidera ch'io le stimi degli oggetti d'oro…
—Uhm!… Son donne da starne lontani le mille miglia…. Basta, spero bene che non cascherai nella rete…
—Oh mamma, che idee!—E mutando discorso, domandò:—Hai da parlarmi?… Anche tu, Eugenio?
A un cenno affermativo degli interrogati, egli si rivolse ai garzoni:—Andatevene pure e date i catenacci anche per di fuori… Io uscirò dalla porticina di dietro, e chiuderò a chiave da tutte e due le parti.
Quando non ci fu più nessun estraneo, Girolamo Bardelli precedette sua madre e suo fratello nella retrobottega ove spirava un po' d'aria, li fece sedere e disse:—Che cera scura avete! Ci son dei guai?
—Pur troppo—sospirò Eugenio.
La signora Marianna gli diede sulla voce—Oh, lui esagera sempre.
Certo ch'è una cosa sgradevole.
—Ma spiegatevi, in nome del cielo—insistè Girolamo.
Eugenio tirò fuori una lettera dalla tasca del soprabito, e la consegnò a suo fratello.—Leggi: è del professore Varedo.
Con molte circonlocuzioni, Alberto Varedo scriveva da Roma a Bardelli ch'era dispiacentissimo di non poter conservargli il posto di assistente che egli occupava già da due anni. Questi posti destinati a essere un utile tirocinio pei giovani aspiranti all'insegnamento non erano mai dati a perpetuità allo stesso individuo; anzi molti professori ad ogni nuovo anno scolastico prendevano un assistente nuovo. Egli, Varedo, aveva resistito fino allora alle molte sollecitazioni che gli venivano fatte, e se adesso aveva ceduto non era certo per mancanza di stima e d'affezione verso Bardelli alla cui opera efficace si onorava di render giustizia; era soltanto per non incorrer nell'accusa di favoritismo. Sperava che questa deliberazione non sarebbe stata presa in mala parte dal suo valido collaboratore col quale egli si riprometteva di mantenere intatti i rapporti di amicizia personale e di fratellanza scientifica.
—È una bella lettera, non si può negarlo, una lettera che si potrebbe metter in cornice come qualunque diploma—osservò la signora Bardelli facendosi fresco col ventaglio.
L'orefice ripiegò il foglio, lo rimise nella busta e lo restituì a
Eugenio, dicendo:—Sì, la lettera è gentile, ma…
—Ma la conclusione si è che ho perduto il posto—continuò l'assistente.—Lo so benissimo che non son posti conferiti a perpetuità, e nemmeno io potevo pretendere di esercitar questo ufficio fino alla consumazione dei secoli. Aspettavo sempre che s'aprisse un concorso a qualche cattedra della mia materia o di materia affine… Quello che mi pesa di più è il modo…. Perchè il professore non m'ha detto niente l'ultima volta che ci siam visti? Perchè, volendo mutare, non ha scelto uno dei giovani usciti dalla nostra Università? Perchè mi dà per successore un certo Quinzani che ha fatto i suoi studi parte a Pisa, parte a Lipsia, e che qui non si conosce punto?…
—Nella lettera non c'è nessun nome—interruppe Girolamo.
—Quest'è il peggio… Il nome l'ho saputo all'Università a cui il professore Varedo l'ha comunicato per le formalità d'uso…. Quinzani! Una assoluta mediocrità che ha pubblicato una memoria insignificante di diritto internazionale… Ma è nipote d'un uomo politico…
La signora Bardelli che aveva la pretesa di esser una donna pratica e positiva rimise in carreggiata la discussione.
—Son chiacchiere vane… Sia uno o l'altro il successore, è lo stesso. L'essenziale è d'intendersi sul quid faciendum. Eugenio crede che ormai sia inutile qualunque passo per far recedere il professore Varedo dalla deliberazione presa.
—Inutilissimo.
—Sarà. A ogni modo è necessario rispondere. E poichè il professore mostra tanta amicizia, tanta deferenza, bisogna coglier la palla al balzo e sollecitare il suo appoggio in un prossimo concorso… Non ho ragione, Girolamo?
—Sì…. veramente—rispose il figliuolo maggiore….—Ma c'è questo concorso?
—Pare che il Ministero si deciderà ad aprirne uno a Bologna—disse
Eugenio Bardelli.
—Non c'è dubbio—ripigliò la signora Marianna con l'usato ottimismo—non c'è dubbio che il professore favorirà la tua nomina… È una specie d'obbligo morale per lui… Io però farei qualche cosa di più… Io senza perder tempo andrei a visitare la signora Diana, ch'è in villeggiatura sul Lago Maggiore fra Stresa e Belgirate, e la pregherei di patrocinar la mia causa… Quella è un angelo…
—Oh sì, sì—esclamò Eugenio con enfasi.—E m'ha anche invitato ad andarla a trovare… Gli è che non vorrei cascare in un giorno che ci fosse il professore.
—Perchè? Se ci fosse, meglio. Vi spieghereste a voce. Ma già ora è a
Roma… E poi ci s'informa.
Non ci volle molto a persuadere Eugenio Bardelli dell'opportunità di questa visita. Più ancora che del posto perduto egli si crucciava all'idea di non poter frequentare la casa Varedo con la solita intimità, e gli pareva mill'anni di assicurare la signora Diana che i suoi sentimenti per la famiglia erano inalterati, e che, assistente o no, egli era sempre al servizio di lei, del professore e di Bebè.
Adesso la loquace signora Bardelli venne al nocciolo della questione. Se Eugenio non aveva il posto, naturalmente egli non riscuoteva neanche lo stipendio.
L'orefice capì a volo.—Quant'era?
—Una miseria. Cento lire al mese—replicò la madre.—Ma gli bastano pel suo vestito, per i suoi libri, pe' suoi minuti piaceri… Un giovinotto non può star senza un centesimo in tasca… Se davo retta a lui, non te ne parlavo…
—No, proprio—disse Eugenio mortificato. Tu hai tutto il carico della casa sulle spalle.
Girolamo sorrise con bontà.—Non pensare a questo, oggi…. Tu avrai col tempo la tua brava cattedra e sarai indipendente. Frattanto per quel che occorre, son qua io.
Mentre Eugenio, commosso, si profondeva in ringraziamenti e la madre tributava i dovuti elogi alla bontà del suo primogenito sempre disposto ad aiutare i fratelli, Girolamo faceva tra sè e sè alcune giudiziose considerazioni.—Già io non ho inclinazione pel matrimonio, ma se pur ne avessi, sfido io a prender moglie fin che questi benedetti ragazzi non siano sistemati…. E la signora Merlini non capisce la ragione per cui certi uomini vivono scapoli…. Gliela spiegherò io la ragione, stasera, al Valentino.
—Girolamo!—riprese con qualche esitanza la signora Marianna.
Egli si scosse e credendo ch'ella volesse andarsene disse pronto:—Eccomi qua. Vi faccio uscire per la porticina…. Io rimango un paio d'orette sinchè ho finito un lavoro.
La signora Bardelli, impacciata contro il suo solito, accennò negativamente col capo.
—No…. Abbi pazienza… Dovrei dirti ancora qualche cosa….
—Oh Dio!… Altre disgrazie?
E l'orefice interrogò con lo sguardo Eugenio che teneva gli occhi fissi al suolo.
La madre intervenne pronta.—No, no, lui non c'entra.
—Paolo allora!… Ha da gettare dei nuovi quattrini nei suoi progetti colossali?
—Oh Girolamo—saltò su la vecchia signora in tuon di rimprovero.—Tu pure diffidi del genio di Paolo?… E sì che presto o tardi quello farà strabiliare il mondo.
Girolamo mise un sospirone.—Aspetta cavallo che l'erba cresca.
—Oh—ella seguitò con amarezza,—lo sa il povero Paolo, lo sa, che i primi a dubitare di lui sono i suoi fratelli… Meno male Eugenio che non ha l'obbligo d'intendersene d'arte. Ma tu…
—Io, mamma—rispose Girolamo—non son che un povero manuale innamorato degli antichi… L'arte moderna non la comprendo, ciò che non vuol dire ch'io non apprezzi l'ingegno di Paolo e che non gli auguri i maggiori trionfi…. Sentiamo, via, mamma, che cos'ha Paolo? Non hanno accettato il suo bozzetto a Monaco?
—Oh sì—ribattè la signora Marianna agitando furiosamente il ventaglio—vorrei vedere che non glielo avessero accettato… Il bozzetto non lo ha spedito lui all'ultimo momento perchè non finiva di piacergli… È coscienzioso, Paolo… Ma non si tratta di questo.
—Di che si tratta dunque?
—Ecco—principiò la vecchietta, e non c'era verso che trovasse la sua parlantina—ecco…. tu conosci la Gegia, quella che ha servito di modella a tuo fratello per la sua magnifica baccante?….
—Sì, la conosco di vista… Gira sempre sotto i portici.
—Girava…. Ora non più.
—Insomma—chiese Girolamo inquietissimo—che significa questo preambolo?
—Se ti riscaldi… disse la madre.
—No, sono calmo… Ma vorrei sapere…
—Or ora… Ecco… da circa un mese la Gegia vive con Paolo…
—È per questo ch'egli dorme nello studio, con la scusa d'esser pronto la mattina a lavorare?… E tu, mamma, eri a parte del segreto?
La signora Marianna si mise una mano al cuore.—Giuro che fino a oggi ero all'oscuro di tutto.
—Tu almeno Eugenio, sarai stato nelle confidenze…
—Io?… Neanche per sogno…
—Ma, in conclusione, se ha taciuto prima perchè parla adesso? Che c'entriamo noi con le sue sudicerie?… Gli artisti, pur troppo, in tutti i tempi hanno avuto di queste debolezze, ma è inutile che vengano a raccontarle in famiglia…. Pensi piuttosto a sbarazzarsene della sua Gegia, che già non avrà mica lo scrupolo di averla compromessa… O che si compromettono quelle donne?… Ah, spero di aver indovinato… Paolo ha bisogno di qualche centinaio di lire per liberarsi… Quanto, via…?… Glieli presterò io i denari… Me li restituirà con comodo… e se potrà… dopo la prima commissione…
Sempre più confusa, la signora Bardelli si guardava attentamente le unghie, tentennando la testa.
Girolamo perdette la pazienza.—Non è questo?… In nome di Dio, che cosa è?
La signora Marianna si decise a spifferar la verità intera.—È… è… che sembra vi siano delle conseguenze.
Vedendo che il figliuolo sgranava gli occhi, ella soggiunse timidamente:—Sembra… non si è ancora sicuri… magari non fosse!…
—E se fosse?—gridò l'orefice.
—Se fosse—rispose la madre—pensa quel che faresti tu.
—Ha intenzione di sposarla? Di sposar la Gegia?
—Mettiti nei suoi panni…
—Ah no, mamma—proruppe Girolamo, e la sua faccia ingiallita fuori dell'aria e del sole si colorava rapidamente e i suoi occhi smorti mandavano lampi—no ch'io non posso mettermi nei panni di mio fratello, perchè io non sarei stato tanto minchione da convivere con una baldracca a rischio ch'ella mi affibbiasse un figliuolo non mio…
—Oh Girolamo! Ma se tu avessi invece l'intima persuasione d'esser il padre?…
—Con la Gegia?… Figurati se l'avrei!… Se l'avessi?… Non so… forse riconoscerei la creatura, povero innocente, ma non farei certo la pazzia di sposare la madre… E in ogni caso, qualunque sproposito io commettessi, vorrei subirne io tutta la responsabilità e tutta la vergogna… Non proporrei alla mia mamma di accettar per nuora una Gegia; non domanderei a un fratello che lavora e suda da mattina a sera di far nuovi sacrifici per mantenere oltre a me anche la mia rispettabile consorte e il bimbo di cui mi fosse piaciuto assumere la paternità… Perchè—continuò Girolamo Bardelli animandosi sempre più—tutti i salmi finiscono in gloria, e se si ricorre a me non è per domandar consigli (o che sono in grado di darne io dei consigli alla gente ch'empirà l'Italia di capolavori?); è per aver quattrini.
—Ma Girolamo!—esclamò la signora Marianna congiungendo le palme. Non aveva mai visto il suo primogenito così acceso in volto, non aveva mai inteso da lui una simile sfuriata.
Egli s'accorse di aver passato il segno, si pentì d'aver tradito il malanimo dell'artista coscienzioso, disinteressato, modesto verso il sognatore spavaldo che vuol conquistare d'un sol colpo la gloria, e chinandosi sulla madre ne' cui occhi luccicavano due lacrimette, la baciò in fronte e le disse:—Perdona, mamma, qualche volta si perde la testa.
—Oh, sei stato ingiusto, molto ingiusto con Paolo—ella replicò poco opportunamente.
Ma l'orefice aveva ormai ricuperato il dominio di sè.—Paolo—egli soggiunse con calma—io l'ho aiutato, io seguiterò ad aiutarlo in tutto quanto si riferisce alla sua arte. Se non ha ancora avuto fortuna, pazienza. La fortuna e il merito non sono l'identica cosa… E se il suo ideale è diverso dal mio, non gliene faccio mica una colpa… Questo diglielo pure; glielo avrei detto io s'egli non avesse preferito d'incaricar te delle sue ambasciate… Ma circa al resto, circa ai suoi progetti di matrimonio… di quel matrimonio… non parlatemene più, chè tornerei ad andare in escandescenze.
Insistente per sua natura, e mortificata di non poter recare una migliore risposta al suo figliuolo prediletto, la signora Marianna era lì lì per replicare; ma Eugenio s'interpose.
—Basta per oggi, mamma… Ormai Girolamo sa quello che doveva sapere… Egli è così buono che possiamo fidarci interamente di lui… Non c'è pericolo ch'egli abbandoni nessuno della sua famiglia…
Girolamo protestò contro questo certificato di bontà che pareva un certificato di debolezza.
—Buono, buono… Non tre volte però…
E avrebbe forse ribadito le sue prime dichiarazioni se gli sguardi supplichevoli del fratello non lo avessero indotto a smettere.
—Adesso, mamma, vi apro la porticina—ripigliò Girolamo.
—Anche di festa lavori?—sospirò la signora Marianna.
—-È necessario—egli disse. E dandole il braccio l'accompagnò fin sulla soglia.
Quand'ebbe richiusa la porta dietro a sua madre e a suo fratello Eugenio, egli s'avviò pian piano al suo banco, accese una lampada ad alcool, e tirò fuori da un cassetto una catenella d'oro di cui s'accinse a saldare le maglie con la stessa minuziosa sollecitudine con cui avrebbe cesellato una coppa o sfaccettato un diamante.
Nella bottega chiusa giungevano gli echi del giorno festivo, giungevano i canti dell'allegre brigate che andavano a passare il pomeriggio in campagna. Per Girolamo Bardelli non c'era vacanza; a lui non era lecito di bever un mezzo litro con gli amici; non gli era lecito di far la corte alle ragazze e meno che mai di avere una bella moglietta al suo fianco…. No, no, egli non si sarebbe recato quella sera al Valentino in cerca della signora Merlini; che le avrebbe detto? Che il suo dovere era di tirar la carretta per gli altri e di restar scapolo tutta la vita… come forse il dovere di suo fratello Paolo era quello di sposar la modella…?… Sono pur comiche le cose di questo mondo!
Effusioni epistolari.
I fiocchi bianchi scendevano lenti, assidui, silenziosi. Era come se una trina interminabile si svolgesse dal cielo verso la terra. Regnava intorno la gran quiete dei giorni di neve, in cui ogni tono si smorza, ogni eco si spegne, e perfin la voce umana sembra frenare i suoi scatti.
Nella camera da letto, seduta a un tavolino, Diana scriveva, interrompendosi di quando in quando per dare un'occhiata a Bebè che dormiva tranquilla nella sua cuna, con le manine ingiunte sul petto e i giocattoli sparsi sulle coperte.
Diana scriveva a sua madre.
—Non turbarti, mamma, se la mia lettera è triste. È una giornata fatta apposta per metter uggia addosso. Nevica incessantemente da stamattina, e chi sa per quanto nevicherà ancora… e siamo in principio dell'inverno… Voi altri forse avrete la pioggia, lo scirocco, l'alta marea… forse avrete il sole… Il nostro inverno veneziano è molto più mite e comincia molto più tardi. Ad ogni modo, se fossi accanto a te, nel tuo salottino, povera e cara mamma, come il tempo mi volerebbe! Te ne ricordi, mamma, di quegli anni in cui t'ero sempre attaccata alle gonnelle? Ti ricordi la rabbia di Miss Jeanne perchè volevo star con lei il meno possibile, ti ricordi le tue rampogne amorevoli per indurmi a esser più espansiva con l'istitutrice? Son passati quegli anni… tutto passa…. E anche se fossi rimasta con te sarei ora una vecchia zitella, malcontenta, brontolona, inacidita come la Olga Duranti… Eppure, non so, mi sembra che se fossi rimasta con te sarebbe stato meglio; mi pare che ci si farebbe buona compagnia e ch'io sarei ormai rassegnata a non maritarmi, ad avvizzire tranquillamente sul ramo come un frutto non côlto… Si sta tanto bene sul ramo!… È vero che non avrei Bebè!
«Così, per conciliar tutto, mi basterebbe che fossero ancora i bei giorni di Belgirate quando noi due, quasi sempre sole con Bebè, ci godevamo in pace il magnifico lago… Non son corsi che quattro mesi e mi pare un secolo, un secolo che non ti vedo mamma; come mi pare un'eternità, a pensarci, il tempo che dovrò stare senza vederti.
«Ecco, mamma, lo sento, ti dò un dolore tenendo questo linguaggio. Sei tanto buona che tu preferiresti, non già ch'io ti dimenticassi (son cose da dirsi queste?) ma che ti desiderassi meno, che le mie lettere non fossero che variazioni sopra un identico tema. Sono felice, sono felice!… Io avrei ben l'obbligo di esser tale perchè il mio matrimonio l'ho fatto io con quell'ostinazione ch'è una delle mie prerogative!
«Comunque sia, dinanzi alle disgrazie vere che ci sono nel mondo, ho torto a lagnarmi, e probabilmente lo spleen di oggi deriva dal cielo grigio e dall'indisposizione di Bebè… Non te lo avevo detto ancora che Bebè è indisposta, o, piuttosto, è stata indisposta? Ha avuto due febbricciattole reumatiche di nessuna importanza, ma che mi avevano messo in un orgasmo! Ora è senza febbre, ma la tengo a letto per precauzione. Mentre scrivo, ella dorme tranquilla, e io, alzando gli occhi dalla carta, vedo il suo visino affilato dalla breve malattia, vedo le sue manine rosee che spiccano sulla coperta bianca… Caro, caro angiolo! Se non avessi lei!… Com'è buona, com'è docile e ubbidiente, come ha preso la medicina che le fu ordinata dal dottore, una piccola dose di citrato e magnesia! Hai ragione tu, è una bimba che non somiglia a nessun'altra.
«Alberto, per miracolo, è a Roma, e non sarà qui che verso Natale quando la Camera andrà in vacanza. Ci scriviamo un giorno sì e un giorno no; ma che lettere fredde! Io gli parlo di Bebè, egli appena mi risponde e mi parla invece di politica; mi dà notizie del Ministero, il suo incubo!… Non casca mai questo benedetto Ministero… o non sanno farlo cascare. Due occasioni, secondo Alberto, due occasioni di rovesciarlo si son perdute per irresolutezza, per accidia dei capi dell'opposizione. Così Alberto se la prende anche coi suoi amici che si mostrano impari alle circostanze.
«Io, qualche volta, tanto per farla finita, vorrei che succedesse questa famosissima crisi e che vedessimo i successori alla prova. Per farla finita, proprio per questo soltanto, non per fede ch'io abbia negli uomini nuovi. Non l'ho più la fede. L'aveva nei primi mesi del mio matrimonio, quando credevo che Alberto non vagheggiasse la deputazione che per amore di patria, per sete di giustizia e di verità. Oggi son convinta che quello a cui si mira è di sopraffarsi a vicenda, e che le frasi ridondanti e sonore non servono che a mascherare le ambizioni piccine. E come sono obliosi questi signori! Varedo per esempio non rammenta più che i medesimi individui sono stati a vicenda esaltati e vituperati da lui, a seconda che hanno o lusingata o ferita la sua vanità. Ma guai a rilevare queste perpetue contraddizioni! A provarmici un giorno mi sono attirata addosso una risciacquata di capo! Con l'acredine di chi sa d'aver torto e non vuol riconoscerlo, Alberto mi disse che le donne non capiscono nulla, che, mancando esse di logica, tacciano d'incoerenza le più naturali evoluzioni dello spirito, e, mancando di profondità, non sanno intendere i motivi che possono determinare delle mutazioni di giudizi su persone e su cose… Niente meno!
«Dunque acqua in bocca. Perchè in quanto a far la parte compiacente dell'eco, ah questo no… Saremo creature inferiori, noi povere donne (così affermano i nostri padroni) saremo frivole, leggere; ma la nostra personalità l'abbiamo noi pure, abbiamo un criterio, una coscienza nostra che non possiamo, che non dobbiamo lasciar soffocare. Non ch'io non intenda quello che c'è di alto e fecondo nella fusione di due cuori, di due anime, di due intelligenze… Era questo anzi il mio sogno. Fondersi come si fondono il rame e lo stagno per formare un metallo più nobile e più resistente, il bronzo: ecco l'ideale. Ove si tratti invece di non esser che la lega bassa e spregiata che serve a mantener la coesione delle particelle d'oro e d'argento e si perde in esse, io mi ribello con tutte le mie forze.
«Già, lo riconosco lealmente, una vera e propria comunione spirituale è tanto difficile. Talvolta nelle prime ebbrezze dell'amore noi crediamo che il miracolo si sia operato. Quale ingenuità! Gli è che l'amore agisce sopra di noi come un anestetico; addormenta le nostre suscettività nei nostri rapporti con l'essere amato; quando ci si sveglia, e ci si sveglia di certo, allora si notano i solchi e le lividure che il passaggio d'un estraneo ha lasciato in noi. Per toccare un'anima senza ferirla occorre maggiore abilità che non occorra al chirurgo per penetrare in un corpo col bisturi senza lederne gli organi vitali. Ci riusciranno forse i semplici di cuore; non mai gli uomini illustri, siano uomini di studio o d'azione. Che mai vedono costoro fuori di sè, fuori della meta che si son prefissi?
«Tu cascherai dalle nuvole! Non riconoscerai più la tua figliuola educata al rispetto, alla disciplina, alla religione del dovere! Eh, mamma, noi siamo un oggetto di costante maraviglia a noi stesse. La vita mi sembra uno di quei calendari ove non si può leggere la pagina di sotto se non si strappa la pagina che sta sopra; con questa gran differenza che nei calendari si sa sempre che giorno succede al giorno in cui siamo; nella vita non si sa mai che cosa ci serba il domani e che cosa noi saremo domani.
«Oimè, una scampanellata!… Chi può essere, con questo tempo?
. . . . . . . . . . . . . . .
«Ho dovuto interrompere la lettera per la visita della signora Marianna Bardelli venuta, povera vecchietta, in mezzo alla neve per sentir notizie di Bebè. Quante me ne ha contate! È piena di fede, di energia, di vivacità, ma ha le sue tribolazioni anche lei. Il suo Eugenio, quello che hai visto a Belgirate, lavora per prepararsi al famoso concorso di Bologna che il Governo si è finalmente deciso a bandire, ma intanto non ha nessuna occupazione retribuita, perchè, come sai, le mie sollecitazioni in favor suo presso Alberto non approdarono a nulla. Il figliuolo scultore accumula nello studio le statue che non vende e s'impunta a voler sposare una modella, nonostante l'opposizione del fratello orefice, il quale, alla sua volta, è aizzato da una vedova inframmettente che cercherebbe di accalappiarlo per sè. E capisco che il possibile matrimonio del suo primogenito con la vedova spaventa la signora Marianna assai più di quello dello scultore con la modella.
Ma sono argomenti che non possono interessarti, perchè, dal mio professorino in fuori, non conosci alcuno della famiglia Bardelli. Il mio professorino buono, ingenuo, entusiasta, quello sì ha conquistato anche te, e son sicura che saresti contenta di saperlo a posto. Io temo invece che, appunto per la sua eccessiva bontà e credulità, egli si vedrà soverchiato da altri che valgono meno di lui. Quando, dopo ciò ch'è successo, lo vedo così fiducioso nell'appoggio di mio marito, rabbrividisco al pensiero dei disinganni che gli si preparano. Peggio poi quando lo sento vantarmi le belle qualità del suo successore Quinzani, una volpe fina che lo sfrutta lisciandolo. In principio, Bardelli guardava con sospetto questo nuovo venuto, non perchè gli serbasse rancore dell'averlo snidato dall'Università, ma perchè temeva, povero grullo, che colui cercasse di soppiantarlo anche presso di me e della bimba. Ci voleva proprio Bardelli per supporre che un giovinotto elegante qual è Quinzani, giunto qui con lettere di raccomandazione per la highlife torinese, perdesse il suo tempo con noi altri due. Quinzani, compitissimo, fa alla moglie del suo professore una visita al mese, manda ogni tanto a Bebè una scatola di dolci di Baratti e Milano, e lascia a Bardelli il gradito ufficio di mettersi a disposizione mia e di giocar con mia figlia. Allorchè Alberto è a Torino, egli viene in casa più spesso, ma io non lo vedo o lo vedo appena, e Bebè nemmeno si accorge della sua presenza. Rassicurato su questo punto, Bardelli gli si è fatto amico, lo scusa, lo giustifica, lo loda perfino. Non è un ingegno originale, questo no, ma è uno che sa il conto suo, ed è un lavoratore indefesso, che ama parlar di studi, provoca le obbiezioni, e, se le trova giuste, le accetta con gratitudine.—Badi a me Bardelli—dico io—badi a me; Quinzani si adornerà delle sue penne e finirà coll'arrivare in porto prima di lei.—Ma quel buon uomo, già te lo immagini, protesta energicamente contro le mie parole e sostiene che gli studiosi devono aiutarsi a vicenda e che quando uno ci espone un dubbio o ci chiede un consiglio non è lecito rispondere con un rifiuto.
«Oh mamma, che lettera ti scrivo! I foglietti si ammucchiano sul tavolino proprio come i fiocchi di neve sul davanzale della mia finestra. E non ho terminato e penso di dedicare a te anche una parte della sera ch'è già cominciata… e non sono ancora le 4!
«La bimba è svegliata e guarda me, e guarda il lume, e mi chiama di tratto in tratto:—Mamma! Mamma!… Non è insistente però, non è noiosa; basta ch'io m'avvicini un momento, che l'accarezzi, ella si cheta subito. E quando le dico:—Scrivo alla nonna. Che cosa mandi alla nonna?—ella che capisce a volo, che capisce tutto, risponde:—Baci.—E con che enfasi pronuncia quella parola baci! Pare che ci metta due ci… Sta benino Bebè e se domani fosse una giornata migliore l'alzerei. Ma c'è poco da sperare. Nevica sempre, nevica più fitto di prima, e non mi stupirei che si dovesse starsene tappate in casa per una settimana. Pazienza! Ce la conteremo con Bebè.
«Io poi mi son rimessa a leggere. E dacchè son discesa di grado e non faccio più la segretaria, nè ho da ingolfarmi nei trattati di sociologia mi sfogo coi libri di letteratura amena. Alberto non ne compra, e mi rimprovera se ne compro io col mio budget particolare, ma io sono abbonata a una biblioteca circolante, e ho inoltre una fornitrice generosissima nella signora Erminia Sali, nata Frigidi, vedova Maranzi, vedova Silveri. Il suo presente marito, professore di filologia comparata, non ha che opere noiose, ma i due mariti precedenti avevano una passione matta per i romanzi, e fra l'uno e l'altro ne raccolsero parecchie centinaia che la moglie ereditò. Io attingo a piene mani in questa grazia di Dio, e così mi metto al corrente e faccio intima conoscenza con quegli autori che le mamme savie non permettono alle loro figliuole. Ho divorato quasi tutto Zola, e Guy de Maupassant, e Bourget… Non aver paura, mamma, che le letture mi corrompano. Credo di non esser nè sentimentale, nè sensuale, e l'adulterio, in qualunque salsa lo condiscano, è una vivanda ripugnante al mio stomaco. Aggiungi che appena alzo il naso dai libri immorali, non vedo che manoscritti e riviste e volumi stillanti austera virtù. Basterebbe il primo tomo, testè uscito, dell'opera di Alberto: Le basi del dovere. Come vuoi che caschi, o scappucci, una donna seduta sulle basi del dovere?
«Sai piuttosto una cosa? Non dirlo a nessuno, ma ho scovato uno de' miei vecchi quaderni, ho scorso un bozzetto di dieci anni fa e, modestia a parte, mi è sembrato che, forse, qualche qualità di scrittrice l'avrei avuta. E oggi, con un po' più d'esperienza del mondo, che gusto sarebbe per me il poter ritrar le macchiette che mi passano innanzi e il dar forma letteraria alle commedie di cui sono spettatrice! Ma ho lasciato irrugginire le mie attitudini artistiche, se pure ne avevo, e temo che, se mi mettessi alla prova, mi preparerei amare delusioni.
«E ora, mamma, imita il mio esempio. Scrivimi a lungo (non come ti ho scritto io, chè sarebbe importi una troppa grave fatica) ma scrivimi meno brevemente delle ultime volte, e narrami delle tue serate e parlami, oltre che di te, di tutti gli amici. Parlami anche di quel cattivo dello zio Gustavo che non mi manda mai una riga, che non vuol vedermi, che ha fatto fare da un altro in vece sua un'ispezione per conto della sua Compagnia d'Assicurazioni all'Agenzia di Torino. L'ho saputo in modo positivo e ne son rimasta così male! Che lo zio non voglia incontrarsi con Alberto, pazienza. Gli sarebbe stato facile scegliere uno dei momenti (son tanti quei momenti!) in cui Alberto era a Roma, e da me poteva ben venire. Così puntiglioso non lo credevo. Ammesso pure che il puritanismo di mio marito sia esagerato, o che lo zio pretende che gli si chieda perdono in ginocchio per non aver approvato la sua tresca con l'Adelaide Nocera? Fin lì non ci arrivo neanch'io, quantunque veda le cose in un modo assai diverso da quello che le vedevo una volta, tutto ciò che posso fare è di conceder le attenuanti all'Adelaide ed a lui. Sento adesso che l'Adelaide è in procinto di rimaner vedova. Che, avverrà dopo? Lo zio la sposerà?
«Diglielo tu intanto allo zio che io gli voglio sempre bene, digli che gli sono riconoscente della compagnia che ti fa. Come vorrei ringraziarli tutti quelli che fanno compagnia alla mia mamma!… Povera mamma! La tua figliuola è così lontana, e in Febbraio sarà più lontana ancora, perchè Alberto sembra ormai deciso di condurci a Roma per un paio di mesi. Questo non sarebbe che un esperimento; in avvenire, s'egli abbrancasse il sottosegretariato o semplicemente ottenesse il trasloco all'Università della capitale, converrebbe addirittura mutar domicilio. È un'idea, te lo confesso, che mi sgomenta. La distanza che ci separa sarebbe accresciuta di duecento chilometri. E, inoltre, chi sa come mi troverei in quella baraonda? Chi sa se il soggiorno sarebbe propizio alla bimba?
«Non crucciamoci prima del tempo. Consoliamoci invece col pensiero che passeremo insieme anche l'estate prossima, o di nuovo sul lago, o a Venezia.
«E qui, proprio, metto il punto fermo. Non è una lettera questa; è un pacco postale, che affiderò di qui a qualche ora all'immancabile Bardelli…. Bebè, Bebè, che cosa devo mandare alla nonna? Baci…. Ecco ha risposto baci e non credo di poter finir meglio che con questa parola. Tanti baci anche da me, mammina, cara.
La tua
DIANA.
A Roma.
L'onorevole Varedo, lasciata la sua solita camera all'Albergo di Santa Chiara, aveva fissato per un trimestre, per sè e la famiglia, un quartierino ammobigliato in vicinanza di Piazza del Panteon. Ivi Diana era venuta a raggiungerlo verso la metà di febbraio, portando seco Bebè, l'Irene e un'altra donna di servizio, la Lisa, che faceva da cameriera e da cuoca.
Nel piano di sotto abitavano i padroni di casa, certi Feana, oriundi piemontesi, moglie e tre figliuoli, più una vedova sulla quarantina, che il signor Giacinto Feana chiamava sempre la cognata sofferente. Il signor Giacinto era un uomo di svariate attitudini; sonava l'oboe in orchestra, scriveva epigrafi per le tombe e versi giocosi per le scatole di fiammiferi, dava lezioni di francese applicato alla profumeria a due garzoni di parrucchiere, e faceva a ore perse il regio impiegato presso il Ministero d'agricoltura, industria e commercio. Ma tutti i ritagli di tempo che gli restavano liberi egli li consacrava alla cognata sofferente, al cui lutto profondo egli partecipava con discrezione, portando un velo nero intorno al braccio; ciò che gli permetteva di conciliare il dolore e la economia. La sofferente, che dal defunto consorte aveva ereditato un buon gruzzolo di quattrini, era stata una manna del cielo per i Feana i quali, nonostante l'ingegno versatile del signor Giacinto, avevano menato fino allora una vita piena di tribolazioni. Invece, rimasta vedova quella povera signora, i parenti erano riusciti a persuaderla che la solitudine non le conveniva e ch'ella non aveva da far nulla di meglio che riunirsi alla sorella, al cognato e ai nipoti. Presa quindi una casa grande, di cui si subaffittava ammobigliata una parte, si era assegnata alla signora Daria (così si chiamava) la camera migliore coi migliori mobili (è vero che se li era portati con sè) e non le si lasciava mancar nulla di nulla. Buona tavola, buon servizio, passeggiate igieniche a piedi o in carrozza, la sua brava partita la sera, la sua conversazioncella con gente seria, matura, coniugata, senza fisime pel capo. La sofferente doveva essere difesa tanto dalle correnti d'aria quanto dalle correnti matrimoniali.
Desiderosi d'ingraziarsi un uomo autorevole come Varedo, i Feana si misero subito a disposizione di Diana, che per le occupazioni di Alberto restava sola la maggior parte della giornata. Comandasse liberamente, in qualunque cosa potesse occorrerle; scendesse da loro di mattina, di sera, senza cerimonie, ogni volta che desiderava avere qualche notizia o scambiar qualche parola. O se preferiva che salissero essi da lei non aveva che da chiamarli; o l'una o l'altra delle sorelle, o tutt'e due insieme sarebbero venute col loro lavoro. Così, pure approfittando con parsimonia delle larghissime offerte, Diana era entrata presto nelle confidenze de' suoi padroni di casa. L'enciclopedico signor Giacinto le parlava delle sue cure di pater familias, della responsabilità che si era assunta col tener presso di sè la cognata, dei pensieri che gli dava l'educazione dei figliuoli, e veniva pian piano a discorrere degli organici del Ministero ove c'erano favoritismi indegni che l'onorevole conosceva sicuramente ma ch'era vano sperar di togliere fin che non cambiassero gli uomini al Governo. In quanto a lui, non era che un povero travet, e gli conveniva usar prudenza. Non aveva che un unico modo di protestar contro gli abusi; ed era quello di andar all'ufficio meno che fosse possibile.
Anche la signora Amalia Feana s'apriva volentieri con la Varedo circa alle inquietudini da lei provate per la sorella ch'era una testa debole, e se non la guidavano, sarebbe stata capace di qualche corbelleria. E sì che a quarantacinqu'anni (gliene cresceva quattro) e dopo quello che aveva patito avrebbe avuto l'obbligo di ringraziare il Signore che le permetteva di godersi in pace quel po' di ben di Dio che l'era rimasto. Manco male che c'era chi stava in guardia.—E poi—soggiungeva la signora Amalia nei momenti di maggiore espansione—non abbiamo l'obbligo di cercare, mio marito ed io, che i nostri figliuoli i quali son pieni d'attenzione per la zia, non siano defraudati in favore d'un estraneo di ciò che può spettar loro in futuro?
Diana se la cavava con monosillabi, senza scandalizzarsi troppo di questa curiosa interpretazione del dovere… Non si scandalizzava più, ormai.
Con la stessa mite ironia ella stava ad ascoltare gli sfoghi della sofferente, se questa riusciva a coglierla sola. Volevano farla passare per malata (in verità non ne aveva l'aspetto, bianca rosea e grassa com'era) volevano tenerla sotto una campana… tutto per paura ch'ella riprendesse marito. Ella non aveva nessun proposito deliberato di passare a seconde nozze; ma, in fin dei conti, una donna a trentasei anni (se ne calava cinque) non può mica imporre al suo cuore di non batter più… E ad illustrare questa dichiarazione il cuore della sofferente emetteva un sospiro che gonfiandole il seno voluminoso faceva scricchiolar le balene del busto. Un altro sospiro le strappava il ricordo di una sua bambina mortale a trenta giorni e che adesso sarebbe stata quasi una ragazza da marito… Ma! Se quella benedetta fosse vissuta, ella, dopo la sua vedovanza, si sarebbe ben guardata dall'accettare le offerte di suo cognato e di sua sorella.
Così ragionava la signora Daria, quando non c'erano testimonî; ma in presenza dei Feana ella ripigliava la sua maschera d'impassibilità, il suo sorriso languido di donna grassa ed apatica, a cui pesa ogni fatica del corpo e dello spirito. Discorreva poco, stava lunghe ore in ozio, sonnecchiando in una poltrona.
C'era al terzo piano, un'altra inquilina con la quale Diana Varedo non tardò a far conoscenza. Era costei una pittrice inglese, da parecchi anni stabilita in Italia, Miss Olivia Harrison, d'età incerta, intrepidamente brutta come le inglesi sogliono essere quando non sono bellissime, schietta di modi, originale di carattere e d'ingegno. Amava il nostro paese come pochi di noi lo amano; parlava, forse, in virtù del suo lungo soggiorno in Toscana, un italiano, se non fluido, corretto e preciso, cercando talvolta la frase, trovandola sempre.
Miss Olivia concepì una schietta simpatia per la Varedo fin dalla prima volta che la vide. Indovinò in lei una donna non volgare, e, ciò che più la interessava, una personalità non ancora ben sicura di sè, ma vagamente desiderosa di affermarsi e di svolgersi. Ella pure, Miss Olivia, era stata una ribelle; nella sua passione per l'arte, nella sua smania d'indipendenza, aveva abbandonato la famiglia e la patria, e mentre avrebbe potuto goder tutti gli agi nella casa paterna preferiva di viver meschinamente del suo lavoro peregrinando in paesi stranieri. Perchè c'era questo di singolare; che malgrado il suo ingegno, la sua coltura, il suo finissimo senso estetico, ella non era che un'artista mediocre. E sapeva di esser tale, e vi si rassegnava con dignità, e non attribuiva all'ingiustizie del mondo la sua scarsa fortuna. Non però accettava la sentenza che vieta ai mediocri i campi dell'arte.—Sciocchezze!—ella diceva.—Ognuno faccia lealmente ciò a cui le sue inclinazioni lo portano. Se non riesce, non è colpa sua. Riuscirebbe ancora peggio nel resto. Io sono una cattiva pittrice. Pazienza. Sarei stata una pessima maestra di scuola, una pessima sarta, una pessima contabile, una pessima impiegata ai telegrafi. Così almeno respiro l'aria che si confà ai miei polmoni, m'inebrio delle visioni che si confanno ai miei occhi. Se copio male una Madonna di Raffaello o del Perugino, ho almeno il conforto d'aver tentato di penetrare nell'anima di quei due sommi; se non posso rendere ne' miei acquarelli la maestà della campagna romana ho la gioia religiosa e profonda d'interrogare, ammirando, quegli orizzonti e quelle rovine. Vivere con sincerità, ecco l'essenziale. Non lasciarsi traviare dall'ambizione o dal tornaconto, adattarsi a essere oscuri, incompresi, derisi, pur di seguir docilmente gl'impulsi dell'anima, ecco il dovere d'ogni creatura che si rispetta.
Date queste idee, è facile immaginarsi come Miss Harrison incoraggiasse la Varedo a coltivar le sue attitudini letterarie. Diana gliene aveva parlato per celia, ma ella, l'Inglese, aveva preso subito la cosa con la serietà della sua razza, e non si stancava di eccitarla a tentare la prova, magari coprendo i suoi primi saggi col velo dell'anonimo. Carlo Dickens aveva cominciato così: Maria Evans era rimasta nascosta per un pezzo dietro il nome di battaglia di George Eliot.
—Ha un bel dire, lei—rispondeva Diana ridendo.—Lei non ha marito, non ha figliuoli.
Miss Harrison, alla quale non isfuggiva la gravità dell'obbiezione, tentennava la testa. Era un arduo problema che, per conto suo, ell'aveva risoluto negativamente. La famiglia tende a sminuire l'individuo; ella, nella sua smania sfrenata d'indipendenza, aveva fatto a meno della famiglia. Lo capiva bene che l'esempio non poteva trovare molti imitatori e non disconosceva i pregi d'una istituzione accettata da tutti i popoli civili. Ma per lei non era virtù quella di sacrificare interamente sè stessi all'esigenze tiranniche di un ente collettivo; era una rinunzia pusillanime degna di spiriti piccini.
Le due donne discutevano non intendendosi che a mezzo; tuttavia Diana sentiva che, in fondo, ella era d'accordo con Miss Olivia in molti più punti che non avrebbe voluto. Anche visitando Roma (vista una sola volta nella confusione del viaggio di nozze) sia che Alberto, con uno sforzo meritorio, consentisse ad accompagnarla in rapida corsa, sia che le facesse da guida Miss Harrison o qualche conoscente presentatole da suo marito, sia che fosse sola soletta col suo Baedeker, ella notava una profonda diversità fra le impressioni e l'emozioni provate adesso e quelle di pochi anni addietro. Allora ell'accettava facilmente le opinioni fatte, oggi aveva una ripugnanza invincibile ad accogliere i giudizi che udiva pronunziare intorno a sè o leggeva stampati nei libri. Le accadeva di rimaner fredda dinanzi a vantati capolavori e d'esser colpita invece da ciò che la sua Guida e i suoi ciceroni non degnavano menzionare, e di fantasticarvi su a lungo, indifferente a tutto il resto, e poco curandosi se altri interpretavano a rovescio la sua aria distratta. Una notte non dormì avendo sempre negli occhi un ritratto femminile d'una galleria privata sotto cui era scritto: Ignota d'ignoto. C'era tanta dolcezza nel viso di quella donna sconosciuta, morta da' secoli; c'era tanta passione, tanta pietà, tanto amore nel suo sguardo. Pietà, amore per chi? Forse per l'uomo, sconosciuto anch'egli, che la ritraeva?
Pur le Gallerie ed i Musei non esercitavano la maggiore attrattiva su Diana. Già le pareva una pretensione assurda quella di gustare i grandi maestri fermandosi pochi minuti dinanzi alle loro opere. D'altra parte, se stava troppe ore lontana da Bebè (e naturalmente ai Musei non poteva condurla) le si metteva addosso una tale inquietudine da toglierle la serenità necessaria alla contemplazione artistica. Ciò ch'ella preferiva era di girellare per la città in compagnia dell'Irene che non le dava disturbo e della bimba che pareva divertirsi un mondo in queste gite all'aperto. Di rado prendeva il fiacre; andava spesso a piedi, talora in tram o in omnibus, sostando di preferenza nelle vicinanze del Foro Romano o del Colosseo; o, spingendosi oltre il Tevere, scendeva a San Pietro, saliva al Gianicolo, si fermava a contemplare da San Pietro in Montorio il panorama di Roma. Dinanzi al grande spettacolo il sangue le correva più rapido nelle vene, s'agitavano nella sua mente i forti e virili pensieri, seppellendo in un oblìo momentaneo le sue piccole cure, i suoi piccoli crucci, il piccolo dramma della sua esistenza sciupata.
Quasi tutto il giorno ella viveva nella Roma del passato; gli echi della Roma contemporanea giungevano al suo orecchio la sera. Alberto arrivava a pranzo carico di gazzette, vibrante ancora dei dibattiti appassionati della Camera, degli uffici, dei corridoi, a vicenda sfiduciato e baldanzoso, secondo che le sorti del Ministero abborrito parevano più sicure o più vacillanti. A Torino era taciturno; qui alla capitale la vicinanza del campo di battaglia lo rendeva loquace. Checchè pensasse di Diana, comunque giudicasse lo scarso interesse ch'ella prendeva alle aspirazioni ambiziose di lui, egli, quasi avesse bisogno a ogni costo d'un uditorio, continuava con sua moglie i discorsi interrotti con gli amici e con gli avversari politici, le parlava delle prossime discussioni, dei prossimi voti, trinciava giudizi su uomini e cose. Non erano momenti lieti per l'Italia; il disagio economico si faceva sentire in tutte le classi sociali e in tutte le parti della penisola; la gravezza dei balzelli, la scarsità dei raccolti, la rovina di molte industrie esacerbavano gli animi, alimentavano le inquietudini per l'avvenire. Di là dal mare i nostri possessi d'Affrica apparivano sempre come un formidabile enigma, e benchè non vi fosse guerra aperta inghiottivano vite e danari. Ma peggio della miseria interna, peggio dell'Affrica, era la corruzione che dilagava, era la quotidiana rivelazione d'abusi, di scandali, d'indulgenze colpevoli, onde si proiettava una luce sinistra sui nomi cari alla patria, e nell'animo delle moltitudini periva ogni fede, e la stessa risurrezione politica, già nostro vanto ed orgoglio, pareva macchiarsi d'una postuma infamia. Varedo aveva parole roventi contro i prevaricatori; a loro imputava il decadimento della nazione, a loro l'imbaldanzire dei partiti estremi, che trovavano un aiuto nella coscienza pubblica offesa dai vizi delle classi imperanti. Ah, colpire bisognava, colpire inesorabilmente, mostrar che la giustizia e la legge non erano simboli vani, ristabilire la moralità, risollevar l'ideale… Ma che sperar dalle mummie che s'aggrappavano al potere? Mai essi avrebbero avuto l'energia necessaria. E come averla, se neppure la loro riputazione era illesa? Se d'alcuni si diceva che spendessero oltre alle loro forze, che non si peritassero di ricorrere a quei banchieri e a quegli affaristi ch'essi avrebbero avuto l'obbligo d'invigilare? Gente nuova ci voleva, gente a cui le debolezze proprie non imponessero di chiuder gli occhi alle debolezze altrui…
Di tratto in tratto le filippiche eloquenti di suo marito riuscivano a scuoter lo scetticismo di Diana. Se fosse vero? Se realmente gli ardesse in cuore la sacra fiamma del bene? S'egli fosse realmente destinato a grandi cose? Che scusa avrebbe avuto ella, sua moglie, di condannarlo come ambizioso? Ma l'ambizione che si volge ad alti fini non è vizio, è virtù, e solo gli spiriti gretti possono farla oggetto dei loro sarcasmi. E non era forse anche lei, Diana, inconsapevolmente ambiziosa? Non si lasciava montar la testa da Miss Olivia, non sentiva risorgere i desideri lungamente repressi, non vagheggiava la gloriola di scrittrice e di romanziera?
Questo ella diceva fra sè, e avrebbe voluto pronunciar di nuovo le parole piene di calore e di fede, ond'ella, a Torino, incoraggiava Alberto disputante con gli amici beffardi. Ma non c'era verso. Una forza maggiore di lei le paralizzava la lingua, mozzava sul suo labbro le frasi già incominciate. Troppi rancori personali, troppe bizze, troppi puntigli facevano capolino nei discorsi di Alberto Varedo perchè le disposizioni benevole di sua moglie potessero durare a lungo. Peggio se, come gli accadeva talora, egli portava a pranzo o un collega del Parlamento o un rappresentante del cosidetto quarto potere. Erano, così almeno affermava Varedo, i migliori uomini del partito; non mercanteggiavano il voto, non bazzicavano negl'Istituti di credito, non s'impicciavano in losche speculazioni; eppure, che povertà d'ideali, che intemperanza di linguaggio, che fiacchezza di convincimenti! Quel San Giustino, il preconizzato Ministro, che delusione era stata per Diana! Con che voluttà strana e feroce aveva egli, uomo di governo, narrate dinanzi a lei, che conosceva appena, le cronache del Quirinale, ripetuti i pettegolezzi che correvano sulla vita intima di questo o quello fra i membri del Gabinetto, sollevando tutti i veli, penetrando in tutte le alcove!
Ma nulla nauseava Diana quanto certi voltafaccia improvvisi, onde il deputato, il giornalista ieri coperto d'obbrobrio era giudicato oggi con singolare indulgenza, se si poteva sperare di tirarlo a sè, o di strappargli una lode.
—Povero diavolo!—si diceva.—Val meglio della sua fama.
—È guastato dall'ambiente, ma il fondo è buono.
—E non è senza ingegno, nè senza cultura.
Che miserie, santo Dio, che miserie! E come Diana ne arrossiva per suo marito, per gl'interlocutori di suo marito, per l'abbassamento morale di cui questa mobilità d'opinioni era uno dei sintomi più eloquenti!
Comunque sia, ella non sempre si lasciava vincere dallo sconforto; non tutto era a' suoi occhi privo di nobiltà e di grandezza in questa terza Roma precocemente invecchiata. Forse ciò che vi era di nobile e grande mostrava meglio l'intima virtù sua resistendo alla prova dei tempi corrotti. Ben potevano essere impari all'ufficio la Reggia, il Parlamento, la stampa; restava sempre il fatto maraviglioso di questa Italia ridestata dopo un sonno di secoli, affermata nella sua capitale di fronte all'eterno nemico della sua unità e della sua indipendenza. Diana aveva assistito a un paio di sedute della Camera; nè alcuna voce di potente oratore era salita fino a lei, ma ell'aveva visto nella tribuna diplomatica gli ambasciatori stranieri seguire intenti la discussione, e aveva pensato che mezzo secolo addietro l'Italia era chiamata un'espressione geografica; in due occasioni ell'aveva incontrato il Sovrano, ne' dalla persona di lui l'era parso emanasse alcun fascino particolare; ma egli era il Re d'Italia, era il simbolo intorno a cui si raccoglieva le sparse membra della nazione… Ah, questa nazione che vibrava d'un unico palpito dall'Alpi al Mar Jonio, perchè non si sarebbe risollevata, dalle umiliazioni presenti, perchè non avrebbe adempiuto le promesse mirabili del suo riscatto? Intanto qual degno studio per un pensatore, per un filosofo l'investigar le ragioni onde lo sviluppo del risorto organismo s'era arrestato per via, e i caratteri s'erano infiacchiti, e allo spirito di sacrifizio era succeduta la caccia agli onori e alle sinecure, la smania dei godimenti, la febbre dell'oro che non conosce scrupoli e freni? Quanti germi morbosi ereditati dagli avi s'erano desti in noi col nuovo calore di vita che aveva rimesso in movimento il sangue nelle nostre vene? Quanti vizi avevamo acquisiti dagli altri? Quanti ce ne venivano dall'oppressione straniera e domestica a lungo patita? Quanti dalla libertà male usata?
Problemi che non ella, debole donna, avrebbe risolto; che già le pareva prosuntuoso enunciare. Più accessibile alla sua mente, più conforme alle inclinazioni del suo spirito era un altro modo di considerar la questione. Prendere un uomo, un giovinotto di 18 a 19 anni nel 1859, vigoroso, intelligente, entusiasta, appassionato, sensuale; condurlo, spettatore ed attore, attraverso tutte le vicende italiane contemporanee, dalle battaglie dell'indipendenza alle dispute del Parlamento; farlo salire, salire ai gradi supremi, esposto a ogni specie di tentazioni; farci assistere alle sue lotte con gli avversari e con sè stesso, alle sue vittorie e alle sue cadute; mostrarcelo ora levato sugli altari ora travolto nel fango; portarlo sino ai confini del secolo che muore, e dare per sfondo alla sua matura virilità, alla sua imminente vecchiezza questa magnifica Roma, ove dal Campidoglio, dal Vaticano, dal Quirinale parlano tre diverse epoche della storia, s'affacciano tre diversi aspetti dell'umanità; che quadro, che romanzo da invogliare un redivivo Manzoni!
—Non nobis—ella doveva soggiungere;—non nobis. Il protagonista del suo romanzo ideale giganteggiava per modo che il suo occhio non riusciva ad afferrarne i contorni; il gran quadro si spezzava in cento quadretti di genere ove si movevano piccole figure subalterne illuminate solo da una luce riflessa. Erano i tipi ch'ell'aveva sottomano; erano i Bardelli, era Quinzani, era lo zio Gustavo, era l'Adelaide Nocera, erano i Feana con la cognata sofferente, era Miss Jane, la sua antica governante, e Miss Olivia, la pittrice inglese, era Varedo, anche lui… e anche lui, oimè, una figura subalterna, nonostante il suo ingegno, la sua dottrina e la sua interminabile opera sul dovere.
Passavano e ripassavano tutte queste figurine sotto gli occhi di Diana, si modificavano, si elaboravano nella sua fantasia, ed ella sorrideva loro con tenerezza materna, e le vedeva col desiderio acquistar forma e rilievo sotto la sua penna, e pregustava l'emozioni d'autrice.
Finora però ella resisteva valorosamente alla tentazione. Anzi negl'istanti in cui la fregola letteraria le si faceva sentir più forte, ella come per antidoto, prendeva in collo Bebè ed esclamava:—Io sono una sciocca. Devi esser tu, tu sola, il mio romanzo, la mia letteratura, la mia gloria.
Una festa che principia male….
Alberto Varedo, seduto al tavolino fra due riviste aperte, finiva di scrivere una lettera:
«… e vi sarò grato se in forma puramente obbiettiva vorrete rilevare la vacuità e superficialità di quella critica della Revue des sciences sociales, raffrontandola, se così vi pare, all'articolo alto e sereno comparso intorno al primo volume della mia opera nell'ultimo numero della Deutsche Rundschau. Da un lato tutta la leggerezza e presunzione francese; dall'altro la coscienziosità e la dottrina tedesca. Bisogna pur convenire che oggi Germania docet.
«Del resto, la mia povera persona è il meno, e voi sapete ch'io non vado in cerca di panegirici. M'irrita solo il veder disconosciuto dai nostri vicini d'oltralpe il risveglio scientifico del nostro paese.
«Fraternamente, come sempre,
Vostro
ALBERTO VAREDO».
Il professore piegò il foglio e lo ripose in una busta già pronta, indirizzata
All'illustre signor cav. Ugo Soardi-Morini
Direttore della Rassegna giuridico-economica
MILANO
Indi chiuse con dispetto la Revue che lo tartassava, chiuse con amore la Rundschau che lo portava alle stelle e si accostò alla finestra.
Ma un suono di passi lo fece voltare.
Era Diana che teneva per mano la bimba.
—Ecco Bebè che viene a darti il buon giorno—disse Diana.
Varedo si chinò sulla piccina, e le stampò un bacio sulla guancia morbida.—Buondì, Bebè.
Un'occhiata di sua moglie lo avverti ch'egli dimenticava qualcosa ed egli soggiunse:—A proposito, mille auguri.
—Su, Bebè, non rispondi?—sollecitò Diana che s'era spolmonata fino allora a insegnar la lezione alla sua figliuola.
—Azie, papà.
—Mostragli—continuò la madre—mostragli che cos'hai di bello.
Bebè, alzando le sue manine, additò le buccole che le pendevano dagli orecchi e ch'erano appunto un regalo del babbo pel suo secondo anniversario, ricorrente oggi 27 Marzo.
—E chi te le ha date quelle buccole?
—Papà.
—Dunque?
—Azie, papà.
—Azie, azie; non dirà mai grazie questa bricconcella?… E… senti, Bebè, quanti anni compi oggi?
Bebè aggrottò le ciglia, cercò la risposta negli occhi materni e finalmente pronunziò schietto:—Due.
—Brava la mia piccina!—esclamò Diana palpeggiando Bebè in uno slancio d'entusiasmo.—Chi sa che bravure faremo l'anno venturo!… Oggi intanto la giornata è in onore di Bebè… Andremo stamattina a spasso a piedi… Andremo più tardi in carrozza… col vestito nuovo che ha mandato la nonna… E noi che cosa abbiamo mandato alla nonna?
—Baci.
—Non era troppo grande quel vestito?—chiese Varedo.
—Era un po' grande… L'ho fatto ridurre… Ora sta a pennello… Tu non verrai fuori con noi?
—Io, cara mia—disse Alberto,—uscirò subito dopo la posta e non tornerò che per pranzo… Ho seduta agli uffici, seduta alla Camera e si finirà tardi perchè i deputati vorrebbero cominciar le vacanze sabato sera… Anche il Ministero ha fretta di congedarci, tanto per guadagnar qualche giorno… Ma ormai è bell'e liquidato, e al riaprirsi della sessione gli daremo il benservito.
—È più d'un anno che gli cantate il de profundis—osservò Diana.
—Sì, ma questa volta son pronto a scommettere che non campa tre mesi—ribattè Varedo fregandosi le mani con l'aria soddisfatta d'un deputato italiano che fiuta una crisi.
—Vedremo—disse Diana.—A ogni modo, ti raccomando d'essere a casa per le sette e mezzo.
—Procurerò… Se no, mettetevi a tavola senza di me.
—Non far questo torto alla regina della festa.
—Oh, la regina della festa, quando ha un pezzo di dolce, è arcicontenta.
—Abbiamo altri commensali; i Feana e Miss Olivia.
—Dio, quei Feana, che noia!
—Son pieni di premure che bisogna ricambiare.
—Non avrai mica invitato i figliuoli, spero?
—Non ci sarebbe stato nemmen posto a tavola. Pranzano da una zia…
Quieta, Bebè, cosa fai?
Bebè, ch'era seduta sopra alcuni vecchi giornali sparsi sul pavimento, s'era levata una scarpina e una calza e guardava con grande ammirazione uno de' suoi piedini nudi. Anzi lo spettacolo pareva aver per lei una tale attrattiva che quando sua madre volle calzarla di nuovo ella protestò con tutte le sue forze.
—Per amor del cielo, mandala di là—disse Varedo che non aveva pazienza pei capricci infantili.
—Ora la porto io… Saluta il papà, Bebè… Buondì, papà, buondì…
Via, Bebè, non esser cattiva il giorno della tua festa.
Ma Bebè non era punto compresa dalla solennità della giornata, e anzichè salutare il suo babbo strillava disperatamente, agitando le braccia e le gambe.
Entrò in buon punto la Lisa, la cameriera, con la posta della mattina; un fascio di lettere e di giornali. Dietro di lei un fattorino con due pacchi.
—Son per la signora—avvertì la Lisa.—E c'è anche qualche lettera per lei… Oh, Bebè…
—È pessima—dovette confessar Diana, mortificatissima. E la consegnò alla cameriera perchè la desse all'Irene.
—Via, via, presto—seguitava a dire il professore, mentre firmava la ricevuta dei pacchi sul libro del postino.
La bimba ricalcitrante e divincolantesi slanciò dalla soglia lo strale del Parto.—Papà citto.
Da qualche tempo s'era detto a Bebè ch'era ora di finirla con quest'antifona del papà citto, ma ella con la precoce malizia infantile infrangeva spesso il divieto, e a costo di provocar la collera della mamma, pronunciava con più gusto la frase incriminata.
—Bebè!—intimò Diana in tono di rimprovero.
Ma la Lisa, da donna prudente, aveva già chiuso l'uscio dietro di sè e allontanata la piccola ribelle.
Senza mostrar di curarsi delle bizze della figliuola, Varedo diede a sua moglie un giornale e un paio di lettere, di cui sbirciò la soprascritta.—Una è della tua mamma—egli disse.—E una di Bardelli.
—Saranno auguri per Bebè.
—Ed è certo di Bardelli anche questo scatolone di dolci che vien da
Torino.
—È di lui sicuramente… Mi pareva impossibile ch'egli dimenticasse l'anniversario della bimba.
—L'altro pacco poi—riprese il professore,—arriva da Venezia.—Di chi sarà mai?… Forse te lo spiegherà la tua mamma.
—No—rispose Diana che aveva già scorso rapidamente l'epistola della signora Valeria e si accingeva a legger quella di Bardelli.—No, la mamma non accenna all'invio di nessun pacco.
—Pazienza allora… Scioglieremo l'enigma più tardi—soggiunse Varedo. E cominciò ad aprire la sua corrispondenza. La quale pare non fosse quel giorno di grande importanza perch'egli aveva già rimesso nella busta le sei o sette lettere ricevute prima che Diana avesse finita quella dell'antico assistente di suo marito.
—Per bacco!—esclamò il professore.—Bardelli ti scrive un volume?
—Non un volume, ma quattro pagine fitte.
—Per far gli auguri a Bebè e annunziare l'invio d'una scatola di dolci?
—L'annunzio dei dolci e gli auguri non occupano che una mezza facciata. Il resto è per te.
—Per me?… che novità ci sono? È un gran buon diavolo quel Bardelli, ma è anche un gran seccatore.
Diana passò il foglio a suo marito, e ripigliò:—Sembra che il concorso di Bologna gli prepari una nuova delusione. Povero Bardelli! Ha la fortuna contraria, ed è sempre vittima di qualche intrigante, senza che i suoi amici si affannino troppo ad aiutarlo.—
Varedo fece una spallucciata.—O che pretende?
E di mano in mano che andava innanzi nella lettura, la sua impazienza cresceva, e i suoi commenti diventavano più acri.—Bardelli è un imbecille. Si lagna perch'io non son voluto entrare nella Commissione di concorso, come se entrandoci avessi il mandato imperativo di votare in suo favore.
—Non questo—interpose Diana.—Conoscendolo a fondo, avresti potuto illuminare i tuoi colleghi.
—In qual modo?… Ma che idee vi fate di una Commissione di concorso alle cattedre universitarie? Si giudica sui titoli che sono presentati; chi ha titoli maggiori riesce.
—E se uno s'è procurato i titoli con un atto di malafede come il tuo
Quinzani?
—Che mio?—protestò Varedo.—Io non ho predilezioni nè pel mio
Quinzani, nè pel tuo Bardelli, e se non volli entrare nella
Commissione si è appunto perchè vi son fra i candidati il mio antico e
il mio nuovo assistente.
—E dunque Quinzani rischia di trionfare per merito di una gherminella indegna,—ribattè Diana.—Perchè hai visto come stanno le cose? Hai visto che il titolo principale di quel caro signore è un lavoro di cui Bardelli gli fornì in massima parte i dati e le idee? E ciò dopo aver promesso che il lavoro sarebbe stato condotto a termine solo nell'anno venturo, e non avrebbe servito pel concorso di Bologna.
—Ho visto tutto—rispose il professore,—ho visto anche che Bardelli vorrebbe ch'io mettessi sull'avviso la Commissione. Ma non capisce la sconvenienza della sua domanda?… Appena uno scolaretto di ginnasio commetterebbe una goffaggine simile.
—Bardelli sarà goffo—obbiettò Diana—ma è senza dubbio leale e sincero. E si può giurare che quello ch'egli dice è la verità.
—Tanto peggio per lui. S'è stato un minchione, se invece di lavorare per sè ha lavorato pel suo competitore, impari ad esser più accorto per l'avvenire, nè aggiunga allo scorno del probabile fiasco il ridicolo di questi pettegolezzi e la confessione della sua dabbenaggine.
—Sicchè—riprese Diana il cui senso della giustizia si ribellava alle teorie di suo marito,—sicchè i giudici del concorso dovranno ignorare il plagio inverecondo commesso da Quinzani?
—In primo luogo—disse il professore—non è il caso di plagio. Può darsi che il Quinzani si sia valso d'idee suggeritegli e di notizie raccolte da Bardelli, o che per questo? Se di quelle idee, di quelle notizie Quinzani è riuscito a far un tutto organico, il merito è suo, e l'accusa non regge. La paternità d'un'idea? Ma un'idea è di tutti e di nessuno; un'idea è nell'aria; cento uomini possono coglierla a volo; essa appartiene soltanto a quello fra i cento che sa fecondarla. E poi Bardelli è padronissimo di rivolgersi alla Commissione; basta che non si sogni nemmeno ch'io mi ingerisca in questa faccenda.
—Te ne lavi le mani?
—Sfido io. Non entro mai in ciò che non mi tocca.
—I fautori di Quinzani non avranno di questi scrupoli.
—Avrebbero torto a non averne. Ma Quinzani ha più tatto; non sarà indiscreto co' suoi amici.
—È vero—notò Diana con amarezza.—Egli usa d'altre armi per vincere.
—Oh!—replicò, infastidito, Varedo.—Voi donne parlate per simpatie e antipatie. Bardelli t'è simpatico, e ha sempre ragione. Quinzani t'è antipatico, e ha sempre torto. Io sono più equanime. Vedo che hanno entrambi i loro pregi e i loro difetti, e son ben contento di non aver da pronunciarmi fra i due.
—Sì, sì,—soggiunse Diana—ma è triste assai che i furbi abbiano costantemente il sopravvento sui galantuomini, e non è men triste che non si possa mai far nulla per un uomo il quale si getterebbe nel fuoco per noi.
Alberto Varedo allargò le braccia.—Bardelli è l'artefice delle sue disgrazie. Gli manca il senso pratico della vita, e io non sono in grado di darglielo… Ma con queste chiacchiere il tempo passa, e io per le dieci sono aspettato.
Diana capì ch'era inutile trattenerlo, ch'era inutile prolungare il colloquio. Ell'era forzata a riconoscere che in molte cose Alberto aveva ragione, che Bardelli si rovinava da sè e che gli uffici ch'egli sollecitava in suo favore non erano facili a compiersi; tuttavia ella sentiva come la vantata equanimità di suo marito non fosse che una maschera accomodata sul proprio egoismo. Egli sapeva ben transigere con la sua rigidezza quando si trattava degli affari suoi, sapeva ben trovar gli argomenti che servono ad allargar le maglie elastiche del dovere. Quelli ch'egli ignorava, quelli che avrebbe sempre ignorati erano gli slanci generosi che ci fanno intuire anche nei nostri rapporti coi terzi una giustizia superiore alla giustizia convenzionale del mondo, e c'inspirano i sacrifici, e c'incoraggiano a sfidare, in nome d'un nobile scopo, le censure dei formalisti.
—Non vuoi vedere che cosa ci sia nel pacco misterioso?—ella chiese ad Alberto, riprendendo dalle mani di lui la lettera di Bardelli.
—Vediamo pure, ma subito—diss'egli. E franse i suggelli e tagliò col temperino i lacci che chiudevano il pacco.
Indi apparve, in mezzo al cotone, una bambola coi capelli biondi, col viso bianco e roseo, con gli occhi ceruli moventisi in atto sentimentale.
—E ha un meccanismo nella pancia—notò Varedo.—Aspetta.
Premette una molla, e la bambola rispose:—Mamma! Papà!
—Oh, come sarà contenta la bimba!—esclamò Diana. E cercava sempre un indizio del donatore, quando, sotto il nastro di seta rosa che cingeva la vita della pupattola, scoprì un cartoncino su cui era scritto in una calligrafia a lei notissima: Auguri a Bebè dallo zio Gustavo.
Le pupille di Diana si velarono di lacrime.—Povero zio!—ella sospirò.—Si ricorda della sua nipotina.
Il professore senza far motto riadagiò la bambola sul suo letto di cotone. Poi domandò ironicamente:—La sposa non la sposa la sua vedova?
Egli alludeva all'Adelaide Nocera il cui marito era morto da un mese.
Diana si oscurò in viso.—Credo che la sposerà dopo passato l'anno di lutto. E sposandola farà il suo dovere, come dite voi altri.
—O piuttosto espierà i suoi peccati—borbottò Alberto Varedo.—Addio, addio. Arrivederci.
—Per le sett'e mezzo, mi raccomando.
—A meno di casi imprevisti ci sarò… E, a proposito, credo che porterò anch'io un commensale.
—Chi?
—Il collega Zonnini…. che conosci.
—Ci starà a fatica, e s'annoierà coi Feana.
—Oh in quanto a starci, magro com'è, occupa poco posto; e pel rimanente non ti confondere. I Feana, per una volta tanto, possono esser tipi divertenti.
Appena sola, Diana riprese in mano la bambola dello zio Gustavo e stette in forse se tenerla in serbo per un altr'anno. Era ancora così piccina, Bebè.
Ma no, no; ella non aveva il diritto di far questo. Sarebbe stata usare uno sgarbo allo zio.
Di nuovo i suoi occhi s'inumidirono. Ella provava una tenerezza grande per quello zio, che senza sua colpa, s'era alienato da lei, provava un desiderio acuto di riveder il suo viso aperto e gioviale, di sentir la sua voce, di sedergli sulle ginocchia come quand'era fanciulla… Sicuro che i suoi difetti egli li aveva, sicuro che non era da lodarsi quella sua relazione con una donna maritata… Ma era buono e leale…. così premuroso verso la sorella, così tenace ne' suoi affetti… Ecco, adesso che l'Adelaide era rimasta vedova egli la sposava. Fortunata Adelaide!… Anche oggi, come circa tre anni addietro sulla terrazza del Lido, ma con assai minore acrimonia, Diana pensava a queste donne che traversano la vita col sorriso sul labbro, infedeli spesso agli amanti, fedeli sempre all'amore, a queste donne che la morale austera condanna e che pure hanno in sè qualche cosa che le fa compatire ed assolvere. E la vinceva una curiosità femminile d'imparare, non certo per usarne, il loro segreto, di penetrare nelle loro anime, di farsi un'idea esatta dei loro sentimenti, delle loro gioie, dei loro dolori. Chi sa, un giorno, quando l'Adelaide fosse diventata la signora Aldini e lo zio Gustavo si fosse riconciliato con Varedo e con lei, chi sa? Fors'ella avrebbe potuto, a momento opportuno, tirare in disparte la sua novella zia e dirle:—Spiegami un po'….
Diana si strinse nelle spalle. Che idee bislacche le frullavano in capo? E che stava ella ad annaspar nebbia nello studio di suo marito, mentre all'altro angolo dell'appartamento Bebè (se ne udiva benissimo la voce) si sgolava a chiamar mamma, mamma, e faceva disperare l'Irene?
In fondo, Bebè non aveva torto. Perchè sua mamma la trascurava nel giorno della sua festa?
Per calmarla, Diana andò da lei coi dolci e la bambola e parve un momento che gli umori della bisbetica fanciulla si rasserenassero. Ma fu un breve intervallo fra due tempeste. Nella persuasione fallace che la puppattola dovesse amare le chicche, Bebè le fregò sul viso uno dei cioccolattini che si trovavano nella scatola di Bardelli, e quando la madre saggia, per evitare maggiori disgrazie, portò via scatola e bambola, Bebè, offesa nei suoi diritti di proprietaria, si rotolò rabbiosamente per terra. In seguito di che, la regina della festa fu messa in castigo fin dopo colazione.
…. e finisce peggio.
Nel pomeriggio, la bimba si mansuefece alquanto, e potè figurare con onore davanti ai Feana, venuti a portare i loro auguri e a ringraziar Diana dell'invito a pranzo. Venivano in pompa magna, marito, moglie e cognata sofferente, e oltre agli auguri, portavano fiori in quantità acquistati dallo stesso signor Giacinto in Piazza di Spagna. Ma la dimostrazione più lusinghiera era quella di aver uniformato il vestito all'esigenze della lieta solennità. Non solo il Feana aveva levato dal soprabito il velo ch'era documento del suo mite cordoglio; non solo la signora Amalia indossava un vestito con sbuffi rossi alle maniche e tre falde di gale; ma persino la sofferente rompeva il rigore delle sue gramaglie vedovili con una blouse di color cenere chiaro che la faceva parere ancor più grassa del solito e dava maggior risalto alle sue mobili rotondità.
La sorella e il cognato, vedendola ansare, manifestavano ciascuno a modo suo, la loro amorosa sollecitudine.
—Ecco,—diceva, con un po' di rabbietta repressa, la signora Amalia,—ecco, non mi hai voluto ascoltare. Ti predicavo d'andare adagio per le scale.
Ma il signor Giacinto, tutto latte e miele, posava una mano sulla spalla della diletta congiunta.—Sta tranquilla, cara, non parlare.
—Desidera un bicchier d'acqua?—offerse Diana.
La signora Daria protestò, prima con la mano, poi con la voce.—No, grazie, signora Varedo, non ho bisogno di nulla.
E rivolgendosi ai Feana soggiunse:—Dio, che casi fate!
Accennò a Bebè di avvicinarsi, l'aiutò ad arrampicarsele sulle ginocchia, la coperse di baci.
Bebè, cullata in quel mare di gelatina, provava una sensazione gradevole, ricambiava le carezze, rideva, sprofondava le dita sottili nelle guance piene, nel collo carnoso della sofferente.
Siamo amiche noi, siamo vecchie amiche, non è vero, Bebè?—diceva la signora.—Come mi chiamo?
—Signoa Aia—rispose l'interrogata.
—Cara, cara, cara!
Il signor Giacinto e la signora Amalia discorrevano con Diana del più e del meno; lui di politica, della Camera, del Ministero, dell'impiego, del bisogno che il paese aveva d'uomini nuovi, come sarebbe stato per esempio l'onorevole Varedo; lei della casa, dei figliuoli, del movimento che c'era a Roma all'avvicinarsi della Pasqua, della difficoltà di trovar buone persone di servizio, eccetera, eccetera.
Diana fece girar lo scatolone dei dolci di Torino, e invitò la signora
Amalia a prenderne senza cerimonie per sè e pei figliuoli.
Di lì a un quarto d'ora il signor Giacinto si alzò. Non poteva trattenersi, pur troppo, in causa della pedanteria dei superiori che l'avevano già messo in mala vista di Sua Eccellenza, perchè qualche giorno marinava l'ufficio… Grazie a Dio che Sua Eccellenza aveva i minuti contati.
Intanto la signora Amalia s'era alzata in piedi pur essa, e la signora Daria aveva deposto Bebè per terra e pareva accingersi a seguir l'esempio de' suoi tutori.
—Loro poi non devono aver questa fretta—disse Diana alle due sorelle.—Non vanno mica all'ufficio, loro…
—Eh, cara signora—replicò la Feana—tre figliuoli maschi son peggio dell'ufficio.
E soggiunse che aveva il bucato da rattoppare.—Quei ragazzi sciupano tutto. Proprio mi dispiace, ma devo scendere…
—Resti lei almeno, lei che non ha figliuoli,—insistè Diana verso la signora Daria, i cui movimenti erano ancora nella fase preparatoria, come di nave che sta per levar l'áncora…. Passi la giornata qui… Usciremo più tardi in carrozza con Bebè.
Così fu deciso, dopo una serie di negoziazioni coi coniugi Feana…
Pur che la Daria si coprisse bene. Aveva tanta facilità d'infreddarsi.
—Ma non è vero…. Non mi raffreddo niente più degli altri….
—Se non avessimo giudizio noi!—interpose la signora Amalia in tuono di protezione.—Basta, ti manderemo uno scialle.
—Degli scialli ne ho io in abbondanza—assicurò Diana.—Non abbia paura, signora Amalia, usciremo coperte in modo da poter andare in Siberia.
—E adesso fa un caldo da aprile avanzato—disse la vedova.
—Non è da fidarsene. Ci son tanti sbalzi di temperatura in questa Roma—notò gravemente il signor Giacinto. Sbirciò l'orologio e soggiunse con galanteria:—Diamine, diamine…. Da lei signora Varedo, il tempo vola… Bisogna proprio ch'io dia una capatina in ufficio… Vieni, Amalia?
—Arrivederci a ora di pranzo.
Libera dall'incubo dei parenti, la signora Daria s'abbandonò a uno dei suoi soliti sfoghi. Non ne poteva più. Assolutamente non ne poteva più… Quel voler farla passar per malata era una cosa che le urtava i nervi fuor di misura.
E per mostrar ch'era sana, e che la sua corpulenza non le inceppava troppo i movimenti, si mise a giuocar con Bebè. Se la palleggiava sulle ginocchia, la prendeva sulle spalle, la rincorreva, si accovacciava per terra con lei. E in verità, benchè soffiasse come un mantice, e le balene del busto le facessero crac, crac e un rossore intenso le salisse alla faccia, ell'era assai più agile e svelta che non si sarebbe creduto.
Bebè andava in estasi.—Signoa Aia, signoa Aia!
—Badi—ammoniva Diana ridendo.—Non dia troppo libertà a madamigella, che se sapesse quanti capricci ha fatto questa mattina.
—Oh, lasci fare. In quell'età lì anche i capricci sono graziosi… Io, io ho tre nipoti grandi e grossi che sono tre furie scatenate… C'è il maggiore specialmente, tra i quattordici e i quindici anni, che non so che cosa gli frulli… mi mette sempre le mani addosso…. da per tutto…. e fossero di queste manine morbide e delicate!
Bebè si divertiva tanto che ci volle del bello e del buono a persuaderla che si lasciasse portar in camera dall'Irene per farvi la sua toilette da passeggio. Non si chetò che quando le dissero che s'era docile, ragionevole, la signora Daria sarebbe venuta anche lei in carrozza; se no tornava a casa subito.
D'ordinario, Diana si serviva modestamente del primo fiacre capitato; oggi ell'aveva preso un landau di rimessa.
La carrozza fece un lungo giro. Traversò la Piazza del Panteon, la Piazza della Minerva, tagliò il Corso Vittorio Emanuele, salì al Campidoglio, scese al Foro romano, costeggiò il Colosseo. Un bel sole primaverile splendeva sulle rovine, rievocava la vita in quel mondo defunto. Fra le colonne infrante, sotto gli archi vetusti passavano i grandi fantasimi; scintillavano le corazze, gli elmi, l'aste, gli scudi; si agitavano i brandelli dei vessilli gloriosi provati dall'ingiurie di tutti i climi; uomini, donne, fanciulli, patrizi e plebei, fremendo nell'ansie dell'attesa, irrompevano nel Circo; i campioni della prossima lotta esercitavano in giochi atletici le membra poderose, mentre forse li assaliva un ricordo delle native selve germaniche, e la pupilla si velava al pensiero dell'infanzia lontana, della morte imminente.
Ahi, ma ben presto Diana s'accorse che per lei sola si movevano questi fantasmi, che a lei sola parlavano queste voci. Bebè aveva posato la sua testina sulla spalla dell'Irene e dormiva; e la signora Daria guardava distratta di qua e di là, dondolando il capo sonnolento, e scuotendosi solo quando si incontrava per la via qualche carrozza di forestieri. Allora quelle foggie strane, quei tipi esotici, quelle pronuncie gutturali, sibilanti le suggerivano sempre la stessa osservazione profonda:—C'è di tutto in questa Roma. Una vera Babele.—Ella poi confessava candidamente che sebbene ci vivesse da oltre un anno non ci si era ancora potuta assuefare, e sospirava Torino dov'era nata o Milano dov'era andata a stabilirsi con suo marito. Una gran città Milano; molto meno cara di Roma, anche pel prezzo dei viveri e degli alloggi… Non conosceva Venezia… assai bella la dicevano…. ma una città in cui non c'eran carrozze e cavalli non faceva per lei.
La Varedo diede un ordine al cocchiere che rimontò per San Pietro in Vincoli, traversò Via Cavour e per Via dei Serpenti e Via della Consulta si diresse alla Piazza del Quirinale ove un gruppo di curiosi oziava dinanzi alla reggia. La fisonomia smorta della signora Daria si animò tutta.
—Oh, se vedessimo i Sovrani!
—Niente di più probabile—disse il cocchiere voltandosi da cassetto.—Spesso la Regina va a passeggio in quest'ora.
L'Irene sgranò gli occhi, e Bebè che s'era svegliata volle seder tra la signora Daria e la mamma.
—Fermiamoci un minuto lì—disse Diana additando la balaustrata di marmo di dove si vede così bene San Pietro.
Ma non occorse fermarsi troppo; chè proprio in quel punto si notò un certo movimento nel vestibolo del Palazzo, una vittoria con le livree rosse sboccò dal portone, la sentinella presentò l'arma, i cappelli si agitarono, la bionda regina chinò, risalutando, il capo gentile, slanciò uno sguardo fuggitivo alla cupola della basilica vaticana e scambiò una parola con l'unica dama che l'accompagnava. La carrozza infilò la Via del Quirinale e disparve; solo per qualche secondo si intese ancora lo scalpitìo dei cavalli rattenuti nella ripida discesa.
Bebè, ritta sul sedile, gridò:—La egina!
—O che la conosce?—esclamò, maravigliata, la signora Daria.
—Conosce le livree rosse. Ogni volta che le vede dice:—La regina.
—Che bella combinazione è stata!—soggiunse la sofferente.—Peccato che non fosse che un lampo.
—Già sarebbe stata sempre la medesima cosa—rispose Diana, sorridendo. E ordinò al cocchiere:—Andiamo al Pincio adesso.
—Per il Corso?
—No, è meglio andarci per Via Sistina. Si fa più presto.
—Lei è pratica delle strade di Roma assai più di me—osservò la signora Daria.
La bella giornata primaverile aveva attirato al Pincio sull'ora del tramonto una quantità di pedoni e d'equipaggi signorili e di vetture da nolo; era un brusìo allegro di voci, era una festa di luce, una fantasmagoria di colori, in quello sfoggio di vesti chiare, in quel chiudersi e aprirsi degli ombrellini di seta spiccanti sul doppio fondo del cielo azzurro e della verde spalliera degli aloe e dei cactus; era un fremito di vita nel ronzìo degli insetti e nelle fragranze dell'aria.
—La egina!—gridò nuovamente Bebè, battendo palma a palma.
—Dove? Dove?—E la signora Daria tese il collo come fanno i colombi quando vanno in cerca d'esca.
Ma non era la regina. Era, a cassetto d'uno stage a quattro cavalli, una giovinetta bellissima, avvolta in un gran mantello scarlatto, una forestiera, forse un inglese.
—Oh scioccherella!—disse Diana.—Ti basta veder del rosso per credere che sia la regina.
Bebè però ripeteva ostinatamente:—La egina! La egina!
Diana la prese sulle ginocchia e le disse:—Guarda laggiù com'è bello!
Dal Piazzale del Pincio si dominava la città nuotante in un mare di luce; la cupola di San Pietro spiccava grigia tra i vapori del tramonto; il sole cinto da nuvole d'oro calava lento su Monte Mario. Di nuovo Diana fece fermar la carrozza, di nuovo le grandi visioni e i grandi pensieri si affollarono dinanzi ai suoi occhi e nella sua mente. Nel suo entusiasmo comunicativo, ella insisteva perchè gli altri ammirassero almeno la splendida veduta.
—Ma guarda. Bebè… Ma guardi, signora Daria… Anche tu, Irene…
Guarda com'è bello!
La signora Daria assentiva per deferenza, l'Irene per soggezione; ma per loro era spettacolo assai più piacevole quello delle carrozze che di corsa lasciavano il Pincio, quali scendendo verso Piazza del Popolo, quali avviandosi per la Trinità dei Monti.
Bebè seguitava a cercar la regina e ogni momento, o sul serio, o per celia, credeva d'averla trovata.—La egina!
Il sole disparve; le rosee nuvolette si scolorarono come bragie spente, un brivido passò per l'aria, un tenue sussurro si levò dagli alberi tentennanti il capo in cenno di saluto, quasi dicessero addio al giorno che moriva.
—La mantellina di Bebè—gridò Diana scotendosi di soprassalto.—Anche lei, signora Daria, si copra bene.
—Eh, son già avviluppata nello scialle come una mummia d'Egitto—replicò la sofferente.
—Sono responsabile verso sua sorella e suo cognato—soggiunse Diana.
La signora Daria ebbe un sorriso enigmatico, a significare che non eran quelli i maggiori pericoli che i suoi cari congiunti volevano stornare da lei.
—A casa per la più corta—ordinò la Varedo.
Un po' perchè i cavalli erano stanchi, un po' perchè le strade erano affollate, non si giunse a destinazione che cinque minuti prima delle sette e mezzo. I Feana avevano anticipato, e la cameriera li aveva fatti accomodare in salotto; Miss Olivia arrivò subito dopo, seguita a brevissimo intervallo dal professore e dall'onorevole Zonnini.
—A tavola, a tavola!—disse Alberto a sua moglie.—Zonnini ed io abbiamo fame.
L'onorevole protestò contro questo abuso del suo nome, e s'affrettò a chieder dove fosse Bebè alla quale, come regina della festa, egli desiderava presentare i suoi omaggi.
—Ah!—rispose Diana.—Bebè farà la sua comparsa soltanto all'ora del dolce.
A tavola Zonnini fu invitato a sedere tra la padrona di casa e la signora Daria. Varedo prese posto fra le due sorelle. Giacinto Feana, ch'era alla sinistra di Diana e alla destra di Miss Olivia, allungava il collo per sorvegliar sua cognata, mentre lo stesso ufficio di vigilanza sospettosa esercitava dall'altra parte la signora Amalia. Quell'ignoto signor Zonnini accanto alla rispettiva cognata e sorella minacciava di turbar la digestione dei coniugi. Se fosse stato maritato, pazienza, ma l'uomo era capacissimo d'esser scapolo. E la Daria con tutto il suo grasso, aveva una facilità a prender fuoco! Ecco che già faceva la ruota come un tacchino in fregola.
L'onorevole Zonnini era stato ammonito da Varedo.—Bada di lasciar tranquilla una vedova che troverai a casa mia e ch'è custodita come un tesoro prezioso dai suoi parenti.
—È giovine? È bella?
—Avrà quarant'anni, e peserà cento chili.
—Dio liberi!
Messo poi a fianco di quel macchinone ansante e sbuffante, Zonnini aveva di nuovo rassicurato con uno sguardo l'amico Varedo. Ma ora, tra per gli occhiacci che i Feana gli piantavano addosso, tra per certe smorfie della signora Daria, egli cedeva alla tentazione di fare, così per ridere, un po' di corte alla vedova. Era una corte discreta, riguardosa, da persona educata che non voleva trascurare i propri doveri verso la padrona di casa che gli sedeva a destra, nè tralasciar d'interloquire nelle quistioni sollevate da Miss Harrison.
Miss Harrison era in quel giorno estremamente battagliera e aggressiva. Certi bizzarri progetti edilizi annunziati dalle gazzette avevano esasperato il suo malanimo contro i profanatori di Roma.
—Siete peggio dei Vandali—ella esclamava. Quelli almeno si contentavano di distruggere. Voi distruggete… e rifabbricate. Ov'erano cose belle d'una bellezza eterna, sacre all'arte e alla storia, voi avete edificato le vostre moli grottesche e disarmoniche; avete ucciso la poesia delle rovine e della solitudine per sostituirvi il frastuono d'una vita artificiale e infeconda.
I due onorevoli protestavano contro questi giudizi. Non si facevano paladini della nuova edilizia romana; tutt'altro; ma sostenevano il diritto che ha ciascuna generazione di adattare l'ambiente ai propri bisogni; l'Italia non aveva proclamato Roma a sua capitale unicamente per custodirvi le rovine e per mantenervi inviolato il silenzio, ma per riaprirla a tutte le correnti del pensiero moderno, ma per farne una vera e rispettata metropoli del mondo civile.
La ruskiniana Miss Olivia si strinse nelle spalle.—È poi civile il nostro mondo?
—Miss Harrison stasera ama i paradossi—disse sorridendo
Varedo.—Parla su per giù come il Papa.
—Il Papa!—gridò l'Inglese, punta sul vivo, e non riuscendo a spogliarsi, benchè fosse di spiriti larghissimi, de' suoi rancori di protestante.—Il Papa (spero che il mio linguaggio non offenda qui nessuno) è la piaga sempre aperta d'Italia… oh non c'è pericolo ch'io vada d'accordo col Papa… Ero una giovinetta alla caduta del poter temporale, e ricordo la gioia che provai quando il telegrafo ne portò la notizia. Non ne avrei avuta di più per una gran vittoria delle nostre armi… Amavo, adoravo l'Italia, che non avevo ancor vista, ma di cui conoscevo già un poco la lingua e di cui, fanciulla, avevo seguito con ansietà le vicende dal 1859 in poi… Saperla ora compiuta con Roma per capitale mi pareva l'avverarsi d'un magnifico sogno… E quanti eravamo, in Inghilterra, uomini e donne, abbiamo salutato l'avvenimento come uno de' più fausti della storia… Non c'era miracolo che non ci aspettassimo da voi. E certo siete diventati una nazione rispettabile; avete navi, soldati, strade di ferro, vapori, telegrafi; ma dove sono le alte idealità che voi, Italiani, avreste dovuto bandire, dove la rinnovazione morale che Roma avrebbe dovuto iniziare nel mondo?
Questa benedetta rinnovazione morale era stata per tanto tempo il tema favorito di Alberto Varedo che Diana non dubitava di sentir suo marito far eco alle parole di Miss Olivia.
Ma Alberto aveva la gravità ed il riserbo dell'uomo ch'è presso ad abbrancare il potere, nè voleva compromettersi con troppo esplicite dichiarazioni, almeno fin che non avesse afferrato bene il concetto della sua focosa interlocutrice.
Miss Olivia ripigliò:—Per esempio nella questione religiosa chi vi capisce? Ora ostentate la maggiore indifferenza, fate quasi professione d'ateismo; ora amoreggiate con la Chiesa; quando pure non facciate tutt'e due le cose in una volta, come certi mangiapreti che mettono i figliuoli in educazione dai Gesuiti o dalle Dame del Sacro Cuore.
Ahi, l'Inglese aveva toccato un cattivo tasto, perchè appunto l'onorevole San Giustino, il futuro Presidente del Consiglio, aveva due ragazze alle Mantellate a Firenze, e perchè nel programma dell'opposizione a cui appartenevano Varedo e Zonnini c'era una politica conciliativa verso i cattolici. Il Gabinetto che si stava per buttar giù aveva radicaleggiato in materia ecclesiastica; era quindi naturale che gli avversari, convinti o no, assumessero un atteggiamento affatto contrario. Anzi Zonnini, dopo un discorsetto un po' mistico pronunziato alla Camera, s'era guadagnato il nomignolo di specialista pel sentimento religioso. E poichè egli stesso, antico volterriano, aveva bisogno di rafforzarsi nelle sue nuove opinioni, non gli dispiaceva di far di tratto in tratto qualche prova che lo rinfrancasse nella sua parte.
—Argomenti delicati, cara Miss Harrison—egli disse posando la forchetta,—argomenti delicati. Che si affoghi negl'interessi materiali, in Italia e altrove, non ci sarà chi lo neghi.
Miss Olivia fece un segno d'assenso.
—Squisiti questi tordi—esclamò con un grido involontario dell'anima Giacinto Feana, ch'era un mangiatore coscienzioso e non si lasciava distrarre da questioni estranee alla tavola.
—Ma ne prenda ancora—insistè Varedo il quale, dal canto suo, avrebbe desiderato troncare la discussione.
—Dunque in questo siamo d'accordo—continuò Zonnini rivolgendosi a Miss Harrison.—E saremo d'accordo anche in un altro punto: che la prevalenza degl'interessi materiali non può esser vinta, se non dalla persuasione che la vita ben lungi dall'esser fine a sè stessa si compie in luoghi o in modi che noi ignoriamo, ma con un senso di giustizia atto a correggere le disuguaglianze del mondo. Tutto si riduce lì, cara signora. Ripæ ulterioris amor, come dice il poeta. Amore del di là.
—Naturalmente—replicò Miss Olivia troppo buona anglosassone da non aver un fondo di fede.—Ma il cattolicismo, che s'impernia intorno alla Chiesa di Roma comprime, atrofizza, non risveglia, questo sentimento elevato.
—Piano, piano. È necessario distinguere—ribattè l'onorevole Zonnini; ma Varedo fu pronto ad interloquire.
—Lo so, il nostro risorgimento nazionale avrebbe dovuto essere integrato da una riforma religiosa. Il male si è che le riforme religiose non si fanno che dai popoli credenti, e noi crediamo troppo poco. Siamo simili a chi abbia sul focolare domestico un mucchio di ceneri calde. Soffiandovi dentro sul posto si può forse sprigionarne ancora qualche scintilla; portando le ceneri altrove si ha la sicurezza di non trovar che della brace spenta.
—Sì, sì—disse Diana che fino allora aveva taciuto.—Ma per me l'essenziale è la sincerità. Siete sinceri voi altri col vostro sentimento religioso? O non ubbidite soltanto a ragioni d'opportunità politica?
Varedo si accingeva a rispondere allorchè un incidente puerile pose fine alla giostra oratoria. La signora Daria, la quale aveva un'ammirazione schietta e profonda per le cose che non capiva ed era rimasta a bocca aperta durante le varie fasi dell'interessante conversazione, lasciò scivolare per terra il tovagliolo e fece l'atto di chinarsi per raccoglierlo. Ma Zonnini prevenendola con un movimento rapido era già sotto la tavola quand'ella stava piegando a fatica la gran mole inerte, e ricomparve tosto alla superficie col lino prezioso. Senonchè, in quel tramestìo, i capelli dell'onorevole sfiorarono la guancia sinistra della vedova il cui volto si colorò intensamente al fuggitivo contatto.
Non ci volle più di così perchè i Feana concepissero chi sa quali atroci sospetti, che, al solito, presero la forma di amorosa ansietà per la rispettiva sorella e cognata.
—Daria, o Daria—gridarono a una voce il signor Giacinto e la signora
Amalia,—cos'hai? Ti senti male?
—Ma non ho niente… Ma non era che un tovagliolo caduto per terra.
—Già, ma basta qualunque inezia a farti venir i tuoi vapori… Se tu vedessi come sei rossa…
—Desiderano che si apra un momento la finestra?—suggerì la padrona di casa.
—Oh, non occorre—rispose la signora Amalia.—Forse il meglio sarebbe che mia sorella mutasse posto.
Il signor Giacinto, alzando gli occhi dal piatto, slanciò uno sguardo severo a sua moglie che, per eccesso di zelo, comprometteva la causa comune.
—Che mutar posto d'Egitto?—protestò la sofferente con inusata energia.—-O che non è lo stesso?… Io sto benissimo dove sono.
E quasi per invocar protezione la florida signora si strinse di più al suo vicino.
In quella entrò la cameriera col dolce.
—E Bebè?—chiese Diana.
Ma avendole la Lisa sussurrato piano qualche parola, ella scattò dalla seggiola, e disse:—Scusino un momento… Torno subito… Ti prego, Alberto, fa che tutti si servano.
E uscì rapidamente dalla stanza.
—O che cos'è accaduto?—domandò Varedo alla cameriera.
Questa rispose che la bimba aveva avuto un disturbo di stomaco.
—Avrà mangiato troppe di quelle chicche giunte da Torino—osservò il professore stringendosi nelle spalle.
La Lisa accennò di no col capo. La scatola era stata messa sotto chiave dalla signora fin dalla mattina.
—In carrozza era di buonissimo umore—assicurò la sofferente.
E colse l'occasione per dire dell'incontro con Sua Maestà in Piazza del Quirinale, e del grido di Bebè: La egina!
—Ha il discernimento d'una persona grande—sentenziò la signora
Daria.
—O piuttosto che non abbia preso freddo?—insinuò Miss Olivia.
—Nemmen per sogno—ribattè la signora Daria che tra per la sua corpulenza, tra pei vapori del vino, era incapace di concepire la sensazione del freddo in sè e negli altri.—Eravamo così coperte.
La conversazione procedeva lenta, slegata, in attesa di Diana che non tornava. Varedo frattanto faceva passare in giro il dolce, il formaggio e le frutta.
Il pranzo era quasi finito quando Diana comparve turbata in viso, recando l'annunzio che Bebè aveva la febbre. Le aveva messo il termometro, ed era salito a 39 gradi e 6 linee. Bisognava chiamare il medico quella sera stessa.—Andrai tu, Alberto?
—Sì, sì, andrò. Ma non esageriamo. Sarà una effimera, come quest'inverno a Venezia.
—Non era un'effimera neanche quella—replicò Diana.—Tu non c'eri, tu non sai… Sono state due febbrette reumatiche… assai più leggere però, con una temperatura massima di 38 gradi.
—Benedetti termometri!… Saranno una bella invenzione…—borbottò il professore.
—In quanto a me—disse la signora Amalia—li ho banditi da un pezzo.—Già non vanno mai bene.
—Quest'è vero—soggiunse Zonnini.—Mi raccontava Gastaldi, il celebre medico, che qualche anno fa, nella sua clinica, per parecchi giorni, si notò una strana esacerbazione febbrile in tutti i malati. Bastò cambiare i termometri perchè ogni cosa rientrasse nello stato normale.
Diana ascoltava appena. S'era rimessa a sedere al suo posto, ma non aveva voluto prender più nulla, nemmeno il caffè. Il suo cuore era di là, i suoi occhi si voltavano ogni tanto dalla parte dell'uscio.
E indi a poco ella si alzò, dicendo a bocca stretta:—Se desiderano restare accomodati in salotto…
Miss Harrison le bisbigliò all'orecchio:—Se non le dispiace, vado dalla piccina… Me ne intendo io di febbre…
Diana fece un segno d'assenso e le strinse la mano con gratitudine.—Or ora vengo.
Molto opportunamente, i Feana pensarono di andarsene. Già, per le 9,1/2, il signor Giacinto aveva a casa uno de' suoi due scolari di francese.
Uno, due, tre, anche la signora Daria fu in piedi; ma sia che non trovasse subito il suo equilibrio, sia che il farsi reggere avesse qualche attrattiva speciale per lei, ella si appoggiò con tutto quanto il suo peso al braccio di Zonnini.
—Le gira il capo?—egli le domandò con premura.
—Oh… passerà…
E la sofferente soggiunse con aria sentimentale:—Che brutto contrattempo questo della bimba!… Era una serata così gradevole, in così buona compagnia!… Sarei rimasta fino a domattina! Pazienza!… Adesso conviene disporsi a far questa scala.
—Per la scala l'accompagno io, se non ha nulla in contrario.
—Si figuri!… Troppo gentile…
Ma il signor Giacinto, stimolato dalla moglie, fu pronto alla riscossa.
—Prego, signor commendatore—(veramente Zonnini non era che cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro)—prego… non si disturbi… Tocca a me…
—Le pare?…
—È il mio dovere—insisteva Feana, sempre col braccio in arco.—Noi scendiamo naturalmente.
La nobile gara sarebbe durata a lungo senza il provvido intervento di
Alberto Varedo, infastidito delle sciocche galanterie di Zonnini.
—Se resti mi fai un favore—egli disse al collega.—Ho bisogno di te.
La bella contrastata trasse un profondo sospiro dal petto.—Buona sera, signor Zonnini… E grazie della sua cortesia.
Si staccò dall'onorevole e concesse il dolce pondo della sua persona al cognato.
Accomiatatisi gli ospiti a eccezione di Zonnini, Diana sollecitò nuovamente suo marito:—Ti raccomando, non indugiar più oltre… Va e torna col medico… Ma se vuoi prima vederla…
—Sì, sì. Eccomi…. Zonnini avrà la cortesia di aspettarmi qui…
Usciremo insieme.
Dopo cinque minuti, i due deputati scendevano le scale, chiacchierando.
—Ha realmente la febbre—diceva Alberto Varedo.—Ma non mi par cosa grave…. Bastava chiamare il medico domattina… A ogni modo servirà a tranquillare mia moglie, che per solito è una donna calma, ma quando si tratta della sua figliuola…
—Eh, le mamme son tutti eguali—notò Zonnini.—A proposito, avevi bisogno di me?
—Era un pretesto—rispose Varedo con una spallucciata.—T'avevo tanto raccomandato di lasciar in pace quella vedova!
—Ah, era per lei!—esclamò l'altro ridendo.—Io mi ci diverto un mondo.
—Sì, e i Feana eran verdi della bile.
—Appunto… Quest'era il più comico.
—Sarai eternamente un fanciullo.
La fuga.
I Feana uscirono sul pianerottolo per scambiar gli ultimi saluti coi
Varedo che stavan per partire.
—Ma è una fuga—disse il signor Giacinto.
—Si figuri ch'è proprio una fuga—assentì l'onorevole.—Diana s'è cacciata in capo l'idea che Bebè non possa rimettersi se non a Torino, e tant'è, la riaccompagno a Torino.
Diana con gli occhi fissi sulla sua bambina che era in collo all'Irene beveva avidamente le parole incoraggianti della signora Amalia e della sorella.
—Non è vero che abbia l'aria così patita… Oh Dio, ha avuto tre o quattro febbri piuttosto forti, ed è naturale che sia rimasta un po' fiacca… Ma vedrà come rifiorisce presto.
—Cara… e sorride anche—diceva la sofferente.—Chi sono io?…
Non ti ricordi della signora Aia?
Certo che Bebè se ne ricordava, ma i suoi trasporti per la signora Aia erano molto diminuiti. Non lei aveva visto al suo letto durante la breve malattia, bensì Miss Olivia che con la mano le faceva le ombre sul muro, che le raccontava tante belle storie, che le cullava i sonni con una sua dolce canzone. Bebè ignorava quanto la signora Aia, poveretta, si fosse crucciata di non poter venire ad assisterla, impeditane dai parenti i quali temevano ch'ella si incontrasse col pericoloso Zonnini.
Comunque sia, la bimba girava inquieta lo sguardo in cerca di Miss
Olivia e finì col balbettare il nome della sua nuova amica.
—La troveremo alla stazione Miss Olivia—disse la madre.—È là che ci aspetta.
Gli addii s'intrecciavano.
—Buon viaggio.
—Grazie… Diano loro notizie.
—Non mancheremo… E anche lei, signora Varedo, c'informi della salute di Bebè… Buondì, Bebè…. Ancora un bacio.
—Su Bebè, dà un bacio a quella signora….
—Buon viaggio… E torni, torni fra poco, signora Varedo…. Per noi sarà sempre un onore il mettere a sua disposizione il quartiere… Anche se avessimo altri inquilini, faremmo in modo da liberarcene.
—Arrivederci, arrivederci—continuavano i Feana.
—Arrivederci—rispondeva il professore.
Ma Diana non diceva che—Addio.
Ell'aveva paura di Roma; la teneva responsabile della malattia di Bebè, la incolpava d'aver, col suo fascino, distolto lei da' suoi uffici materni, d'aver reso meno assidue, men vigilanti le cure di cui, sino allora, ell'aveva circondato la sua creaturina.
Il signor Giacinto scese le scale, ajutò i Varedo a montar in carrozza. Avrebbe voluto accompagnarli alla stazione, ma aveva due impegni prima d'andar in ufficio, e se tardava troppo, apriti cielo! I superiori quando si trattava di lui, avevano sempre l'orario alla mano. Bella libertà che si gode in Italia!
—Auff!—fece Diana, quando la carrozza si mosse. Le pareva mill'anni d'essere in treno.
E chinatasi sulla bimba le rassettò la mantellina sulle spalle.
—Non avrà mica freddo?
L'Irene protestò energicamente.—O signora, come vuol che abbia freddo? Ha il vestito pesante.
Povera Bebè! Ci nuotava dentro quel vestito, tant'era divenuta sottile dopo pochi giorni di febbre.
Diana se l'era presa sulle ginocchia, ne lisciava i capelli, ne cercava sotto l'inviluppo dei lini le gambine stecchite, la palpava da ogni parte; e un'espressione di pena, d'angoscia si dipingeva sulla sua fisonomia.
Bebè piagnucolava, tendeva le braccia alla bambinaia.
—Lasciala all'Irene—disse Alberto a sua moglie.—E tu non ti crucciare così… Di qui a una settimana avrà ripigliato il suo solito aspetto.
—Dio lo voglia!—sospirò Diana.
In Piazza di Trevi la carrozza s'incrociò con un fiacre ove un signore solo leggeva un giornale. Era San Giustino.
—Ferma, ferma!
I due legni s'avvicinarono; i due uomini politici si strinsero la mano. San Giustino salutò cortesemente Diana.
—Ci abbandona?
—La bimba è stata poco bene e la riporto a Torino.
—Mia moglie—soggiunse Varedo—ha i vecchi pregiudizi contro l'aria di Roma.
—Non creda…—principiò San Giustino.
Ma i due cocchieri fecero segno che non era possibile rimaner fermi in quel piccolo spazio, e le vetture si rimisero in cammino, ciascuna dalla sua parte.
San Giustino gridò:—Buon viaggio.
E rivolgendosi in particolare ad Alberto:—Voi almeno tornate presto… Se non si batte il ferro fin ch'è caldo….
Mentre queste parole oscure si perdevano nel romore dell'acque scroscianti, l'Irene tirava fuori misteriosamente un soldo dalla tasca del vestito e lo slanciava lontano. Era uno scongiuro insegnatole da una bambinaia con cui aveva fatto amicizia. Chi parte da Roma procuri di passar davanti alla fontana di Trevi e di gettar, strada facendo, un soldo nell'acqua. Se il soldo va diritto nella vasca, quello che l'ha gettato a Roma ci torna; se no, no.
All'Irene lo scongiuro non riuscì. Forse perchè ell'aveva impacciati i movimenti da Bebè, il soldo andò a battere sopra una colonnina della balaustrata e rimbalzò sulla strada ove un monello si affrettò a raccattarlo.
—Ah!—fece l'Irene turbandosi in viso.
—Cosa c'è?—chiese Diana che non aveva capito nulla.
Il professore scrollò le spalle.—Sciocchezze!… L'Irene prende gli auspicî.
—Quali auspicî?… Parla chiaro.
Cedendo alle insistenze di sua moglie, Alberto dovette dar una spiegazione sommaria di quel pregiudizio popolare.
—L'ha gettato l'Irene il soldo?—domandò Diana ansiosamente.—L'ha gettato con le sue mani?
—Sfido io! Vuoi che sia stata Bebè?
Pentita d'aver messo così a nudo il proprio egoismo, Diana cercò di consolare la bambinaia.
—Non devi pensarci altro. Sono fanfaluche a cui la gente che ha un po' di sale in zucca non crede… Ci tornerai a Roma, ci tornerai con noi e con Bebè.
L'Irene si sforzava di sorridere, ma era manifesto ch'ella non riusciva a scacciare un triste presentimento.
E anche sul volto già malinconico di Diana si calava un'ombra più scura. Aveva ragione suo marito, erano sciocchezze; e nondimeno!… Quando si comincia ad almanaccarci su, è come un tarlo che lavora dentro… È vero; il pronostico si riferiva all'Irene, ma l'Irene aveva in collo Bebè… e Bebè era tanto pallida!… Per solito, in carrozza si divertiva; oggi i suoi occhi smorti giravano qua e là indifferenti come se nessuna immagine ci si fermasse; e i suoi labbretti esangui si aprivano a fatica per qualche monosillabo.
Solo davanti alla stazione ella si rianimò.—Ivia—ella disse.
Miss Olivia era sul marciapiede, ad aspettare i Varedo. Teneva con la destra la sua seggiola a libro, teneva con la sinistra la scatola dei colori, ma consegnò le due cose a un fattorino perchè gliele custodisse, e aperse le braccia a Bebè che si protendeva verso di lei.
—O Bebè, darling.
—Una stoia—implorò la piccina, memore delle fiabe che Miss Olivia, con inesauribile fantasia, raccontava seduta al suo capezzale.
—Non si può adesso, cara. Un'altra volta…. Quando tornerai.
E Miss Olivia, palleggiava la bimba, leggera come una piuma.
Diana tentennò la testa.—Com'è magra, non è vero?
—Oh, ingrasserà.
—Almeno rifacesse un po' di colore.
—Lo rifà il colore. L'ha già rifatto… Non vede?
Fosse l'impressione fisica d'esser sollevata in aria, fosse il piacere d'esser con Miss Olivia, certo si è che Bebè aveva la fisonomia assai più animata di prima, e che un leggero incarnato s'era diffuso sulle sue guancie.
Sotto la tettoia ell'accondiscese a far qualche passo, retta per mano da Miss Olivia.
Diana guardava commossa quella zitellona lunga, angolosa, ribelle ai legami domestici, che pur trovava in fondo al suo cuore, per distrar Bebè, un tesoro di tenerezza.
—Che buona mamma sarebbe stata!—ella disse.
Ma l'Inglese che non rinunciava alle sue teorie si affrettò a protestare.
—Non creda… Non avrei avuto pazienza.
—Ne ha tanta coi bambini degli altri.
—È forse per questo, cara signora Varedo, è perchè i bambini degli altri non ci prendono che un ritaglio del nostro tempo, non assorbono che una piccola parte del nostro pensiero… Vengono, passano, lasciandoci alle nostre occupazioni, ai nostri sogni… I figliuoli propri, invece…
—Ah, quelli ci vogliono tutte intere—esclamò Diana con accento risoluto.
—Lo so, la famiglia non è che un egoismo raffinato e ampliato.
Miss Harrison non perdonava alla famiglia e alla maternità (a quest'ultima sopra tutto) d'esser le nemiche capitali di quel vigoroso affermarsi della personalità umana ch'era la pietra angolare della sua filosofia, e forse le sue parole tradivano anche il rammarico di veder sfuggirsi irrevocabilmente l'amica che per un istante ell'aveva sperato di convertire alle proprie idee.
Intanto Varedo aveva ottenuto dal capostazione uno scompartimento riservato e vi faceva metter la roba.
Quando tutto fu a posto, egli disse a sua moglie:—Se vuoi montare?
—Si parte?
—Manca qualche minuto, ma coi bambini è meglio non aspettar l'ultimo momento.
Allora successe la scena tragica. Bebè respingeva l'Irene, non dava retta alla sua mamma, voleva a ogni costo che Miss Olivia montasse in vettura anche lei.
Miss Harrison, esitante, stava per chiamare il conduttore.—Potrei scendere a Portonaccio…
Ma Varedo intervenne opportunamente.—No, Miss Olivia, sarebbe peggio… La si lusingherebbe per nulla.
Diana consentì nell'opinione del marito.—Sì, temo anch'io che sarebbe peggio.
L'inglese staccò dolcemente dal collo l'esili braccia che l'avvincevano, baciò ancora una volta Bebè, e la consegnò, strillante e dibattentesi invano, all'Irene.
Diana e Miss Olivia s'abbracciarono.
—Grazie, grazie—diceva Diana, durando fatica a frenare i singhiozzi.—E addio.
—Non addio—replicò Miss Harrison.—Arrivederci.
—Ebbene, sì, arrivederci—ripetè Diana con improvvisa energia. La sua avversione per Roma era ormai vinta da un altro pensiero; quello di distrugger coi fatti lo sgomento superstizioso che il fallito scongiuro dell'Irene le aveva messo in cuore.
—Così mi piace—soggiunse Miss Olivia.
—In vettura, signori, in vettura.
Alberto salì ultimo, dopo aver barattato due parole con un collega che partiva per la via di Bologna e aver preso tutti i giornali del mattino.
Indi a poco a poco il treno si mosse.
Affacciata allo sportello, Diana agitava il fazzoletto verso Miss Olivia che salutava con la mano. In fondo al vagone Bebè seguitava a chiamar disperatamente:—Ivia, Ivia!
Il treno, slanciato a tutto vapore, lasciava dietro di sè la città, lasciava a sinistra il Tevere affrettantesi alla foce, volgeva bruscamente al Nord, lungo la spiaggia tirrena. Ogni tanto la vista si apriva sul mare, d'un turchino intenso, qua e là filettato di bianco, silenzioso, quasi deserto. Nelle insenature della costa pochi trabaccoli, poche barche peschereccie posavano accanto, parevano dormire, lievemente cullate dall'onda; qualche vapore passava lontano, segnando il cielo azzurro d'una striscia sottile di fumo.
—Guarda il mare, guarda le barche, guarda laggiù in fondo il vapore—dicevano a Bebè, tenendola ritta dietro il finestrino chiuso.
Ora Bebè non chiamava più Ivia; aveva capito ch'era inutile, ma la sua fisonomia s'era irrigidita in un'espressione triste, e di quando in quando due grosse lacrime colavano sulle sue gote smunte. Quelle lacrime mute su quel visino affilato di bimba facevano più pena a vederle che non avesse fatto la disperazione di prima.
Diana si struggeva.—Piange come una persona grande per un grande dolore. È uno strazio.
Alberto alzava gli occhi dai suoi giornali, dai suoi libri.
—Tu esageri sempre. Bebè è debole perch'è convalescente, e ha la lacrima facile perch'è debole… Ma in quell'età non ci son grandi dolori.
Una volta Varedo smise la sua lettura, e con insolita degnazione consentì ad occuparsi della piccina. A lui però riusciva meno che a Diana, meno che all'Irene e alla Lisa di spianarne la fronte, di richiamar sul labbro di lei il gaio cicaleccio infantile. Non che piangesse quando era sulle ginocchia paterne; la soggezione le asciugava il ciglio; stava lì quieta, con le manine in croce, senza parlare, senza rispondere.
Tuttavia, a vederlo intento sulla figliuola, Diana sentiva fondersi la barriera di ghiaccio che a poco a poco s'era levata fra lei e suo marito. Se avremo questo affetto, se avremo questa cura comune, ella pensava, non saremo interamente divisi.
Ora egli aveva deposto Bebè sul sedile, e la bimba, stanca forse dal lungo piangere, s'appisolava.
—Ecco, s'addormenta—disse la madre. E le stese uno scialletto sulle gambe, mentre le accomodava un guancialino sotto la testa.
—Dorme già—osservò l'Irene.
Varedo tirò fuori dalla valigia un numero della Nuova Antologia, non ancora tagliato, vi cercò una recensione del primo volume della sua opera e non avendola trovata chiuse con aria sprezzante il fascicolo:—Non c'è mai nulla in questa Rivista… Se vuoi darci un'occhiata?
—No—rispose Diana,—a leggere in ferrovia mi viene il dolor di capo.
Dopo una breve pausa soggiunse:—Ho scritto a Giraldi pregandolo d'esser domattina da noi prima di mezzogiorno.
—Per Bebè?
—Naturalmente.
—Non avrà nulla da ordinarle.
—Chi sa? A ogni modo, quanto più presto egli la vede tanto meglio è… Mi fido di lui più che di tutti i medici romani.
—Eppure il dottor Lenni che ha curato la bimba ha un'eccellente clientela.
—Sarà… Io non ero tranquilla.
—Sono idee preconcette… Del resto, non c'è che l'imbarazzo della scelta, e quando ci stabiliremo a Roma potremo prenderne un altro.
—Ci stabiliremo a Roma?—ella disse in un tuono dubitativo che rispondeva allo stato particolare della sua anima.
—Eh sì… Se entro al Governo…
—Abbiamo la casa a Torino ancora per due anni…
—È facile intendersi col proprietario.
—In due anni—notò Diana—il vostro Ministero, che non è nato, ha tempo di morire.
Varedo sorrise.—Speriamo che abbia la vita più lunga… E poi non mancherà il mezzo di aver la cattedra alla capitale… Non c'è rimedio, chi aspira a rappresentare una parte non ultima sulla scena politica, chi ha delle idee da far valere, una propaganda da esercitare dev'esser sempre sulla breccia, a Roma, dove s'agitano i grandi interessi della nazione…
—E dei deputati—si lasciò sfuggir di bocca Diana, quasi involontariamente.
—Appunto—disse Alberto, trovando nell'insinuazione di sua moglie un nuovo argomento in favore della sua tesi.—Non di tutti ma di molti deputati… E questi ci stanno sempre a Roma, siane sicura. Ragione di più perchè ci stiano anche gli altri, perchè all'azione malsana di quelli oppongano la propria, e non abbandonino i governanti, quali pur siano, in balìa dei cavalieri di industria.
—Purchè non avvenga—oppose Diana—che l'ambiente guasto corrompa i migliori. A esser in mezzo a colleghi che trafficano il voto, a giornalisti che vendono la loro opinione al maggior offerente, ad avventurieri che arricchiscono giocando alla borsa, c'è più probabilità di essere inzaccherati che di levare il fango agli altri.
—Con queste massime—ripigliò Varedo—ognuno resterebbe nella sua nicchia senza curarsi di nulla e di nessuno… È la glorificazione dell'egoismo.
Diana era di nuovo assorta nella bambina che s'era svegliata piagnucolando.
Il professore tornò ad immergersi nella lettura, fin che a poco a poco, rannicchiatosi in un angolo, s'addormentò per non destarsi che alla stazione di Pisa, al rumore d'una disputa scoppiata sotto la tettoia.
Era un collega, l'onorevole Vinciliati, che strepitava per avere un intero compartimento di prima classe a sua disposizione.
—Oh, oh—disse Varedo affacciandosi allo sportello. Per miracolo Vinciliati attacca lite col personale della ferrovia. È la sua specialità…. Abbiamo già avuto alla Camera tre o quattro domande a procedere contro di lui… che, naturalmente, si sono respinte.
—Bella giustizia!—borbottò Diana.
Ma Vinciliati che, urlando, correva lungo il treno, seguito dal capo conduttore e da un facchino con due valigie, nel passar davanti alla carrozza ove c'era Varedo, si quetò per incanto.
—Voi qui?… O che c'è un posto?
—Per esserci un posto, c'è—rispose Varedo.—Guardate voi… Siamo in quattro, compresa la bimba… Se volete?…
—Se non disturbo alla signora?…—chiese Vinciliati, toccandosi il cappello.
—S'accomodi—disse Diana a denti stretti.
Il deputato salì, e Varedo fece la presentazione.
—Mia moglie… L'onorevole Vinciliati.
—Domando perdono—riprese costui, poichè ebbe collocato alla meglio le valigie nella reticella.
—È un servizio abbominevole su queste ferrovie… Un materiale scarso, schifoso… un personale ineducato… Nessun riguardo… E sì che per quello che la deputazione ci rende si dovrebbe aver almeno il diritto di viaggiare coi propri agi.
—Se avevate l'intenzione di riposare o di lavorare sarà un affar serio—osservò Varedo accennando a Bebè che continuava la sua nenia.
Vinciliati si strinse nelle spalle.
—S'ero solo, avrei fatto un sonnellino fino a Genova… Mi fermo lì… Ma poichè trovo un collega, preferisco discorrere.
I due uomini non appartenevano allo stesso partito; ma pel momento erano legati dall'odio comune contro il Ministero, ch'essi andavano a gara nel qualificare con gli aggettivi più vituperevoli. Per un deputato dell'opposizione il Ministero ch'è al potere è sempre il peggiore che ci sia mai stato.
—Non saremo noi che raccoglieremo l'eredità—diceva Vinciliati.—Sarete voi altri. E vi combatteremo. Ma almeno avremo da fare con avversari rispettabili.
—E credete pure che su molti punti potremo intenderci—soggiunse
Varedo.
Vinciliati assentì.—L'essenziale è di disinfettar l'aria.
—Ah—pensava Diana silenziosa nel suo cantuccio.—Eccoli da capo con le loro disinfezioni.
Ella non aveva fede nei ventilatori. Aveva capito che, in politica, disinfettar l'aria significa soltanto cacciare dal Governo quelli che ci sono e prenderne il posto.
L'inquietudine di Bebè cresceva col procedere della giornata. A volte, ritta dietro il finestrino chiuso, mentre l'Irene la reggeva con un braccio e con la mano libera tamburinava i vetri, ella pareva distrarsi a guardar la campagna; ma si stancava subito e voleva andar in collo alla mamma, star seduta, o distesa; o diceva che aveva fame, e poi, disgustata, gettava via qualunque cosa le dessero, e ripigliava quel suo piagnucolìo di bimba sofferente che metteva tanta angoscia in cuore di Diana.
—Via, Bebè, sii buona… Sai che il papà va in collera. Lo vedi, il papà sta discorrendo con quel signore.
Così, in tuono dolce, carezzevole, Diana ammoniva la bimba.
Ed ella, la piccina, quasi per trovar la forza di ubbidire, balbettava:—Papà citto.—Ma la volontà non aveva presa sulla fibra svigorita, ed ella tornava a piangere e a lamentarsi senza sapere il perchè. Oh lacrime di bambini gracili, malati, in cui sembra ci sia come un presentimento di morte!
A Genova Vinciliati discese e il resto del viaggio si compì in un silenzio triste.
Era notte e Bebè s'era riassopita. Anche Alberto aveva rinchiuso gli occhi, anche l'Irene lasciava ricader la testa sonnolenta sul petto. Solo Diana vegliava, cercando invano di frenare la sua agitazione. Le sue dita sottili si affondavano nervosamente nel velluto del sedile; i suoi piccoli piedi battevano sul tappeto con ritmo affrettato; il suo sguardo ora si posava su Bebè, ora interrogava l'orologio, o, di là dai cristalli, scrutava le tenebre per indovinar da qualche segnale a che punto della strada si fosse.
Quando un lungo fischio annunziò che si era in prossimità di Torino, ella trasse un gran respiro di soddisfazione.—Finalmente.
Varedo si scosse, raccolse la roba, abbassò uno dei vetri, cacciò la testa fuori dello sportello.
Il treno entrava, rumoreggiando, sotto la tettoia.
—Facchino! Facchino!… Oh, c'è Bardelli!…
—Gli avevi scritto?
—Tre giorni fa, senza precisargli nulla circa al nostro arrivo…
L'avevo informato dell'esito del concorso.
—Povero Bardelli!—esclamò Diana.—Vedersi posposto a Quinzani!
—A ogni modo, ha avuto l'eleggibilità… Zitto… Eccolo qui…
—Oh, buona sera!—diceva l'ex-assistente.—Hanno fatto buon viaggio?… E come sta Bebè?… Dia la valigia, gli ombrelli…
—Chiami, chiami il facchino… E come ha saputo?…
—Ho visto la cameriera, ieri, che arrivava coi bauli.
Diana gli strinse con effusione la mano.—Sempre così gentile, sempre così premuroso, lei…
—Oh, si figuri… E dunque?… Bebè?…
L'Irene discese ultima, con la bimba.
—Bebè! Bebè! Non mi conosci?… Non conosci Bardelli?… Elli,
Elli?
—Ah!—sospirò Diana.—È ancora tanto svogliata… No, è inutile; adesso non dà retta e nessuno.
—Sarà il viaggio… A star più di dodici ore in ferrovia!… Domani mi farà festa come una volta…
—Bravo!… Venga domani…
Bardelli dissimulava a fatica la sua triste impressione per l'aspetto macilento di Bebè.
Diana si accorse e riprese:—Si ricorda come era fiorente quando siamo partiti?
—Si rimetterà subito, non abbia paura.
—Lo spero. Guai se non lo sperassi.
Bardelli voleva chieder all'onorevole qualche particolare circa al concorso di Bologna, ma non n'ebbe il coraggio, e s'accommiatò dopo aver accompagnato i Varedo fino al fiacre.
—A domani—disse Diana.—Venga a colazione con noi.
Ormai il fedele Bardelli sembrava a Diana un presidio, una difesa; le sembrava che l'averlo accanto dovess'esser di buon augurio per la completa guarigione della sua piccina.
Fra i crucci propri e gli altrui.
Anche il dottor Giraldi trovò Bebè molto pallida e dimagrita e gli parve strano che poche febbri fossero bastate a portare un tale deperimento. Pur non volle far tristi pronostici; lodò Diana di aver affrettato la partenza da Roma, mostrò di confidare negli effetti del cambiamento d'aria, in estate poi alcune settimane passate in montagna o in riva al mare avrebbero compiuta la guarigione.
Diana non si dava pace.—Ah, perchè, perchè siamo andati a Roma?
—Via, non si crucci—diceva il dottore.—Roma è una città sanissima.
—Sì, ma se non ci si andava, Bebè non prendeva le febbri.
—Chi lo assicura?… Un'infezione si può prender da per tutto…
Basta una mala disposizione del momento… Vedrà che ci tornerà a
Roma, che ci si troverà bene con la bambina… quando suo marito sarà
ministro… o giù di lì.
Ormai nessuno più dubitava della rapida carriera politica di Alberto
Varedo.
Ma Diana si stringeva nelle spalle. Ben altro ella pensava. Quando, come, Bebè aveva assorbito il veleno ch'ella non riusciva ancora a eliminare dal sangue? Era stato quel giorno, al Pincio, allorchè, sparito il sole, la temperatura s'era abbassata d'improvviso? O il germe fatale era già penetrato prima nell'organismo, al Colosseo, al Palatino, al Foro Romano, in una di quelle passeggiate artistiche ove Diana aveva l'imprudenza di portar seco la bimba; in una di quelle lunghe soste presso al cavalletto di Miss Olivia che deponeva i pennelli per lanciare i suoi paradossi, mentre Bebè era lasciata all'Irene?
Così alle angustie per lo stato della figliuola, si mesceva nell'animo di Diana il rimorso della propria trascuratezza, si mesceva un po' di malanimo verso Miss Harrison, pur tanto servizievole e buona, che le aveva empito il capo delle sue fisime e aveva svegliato in lei rivolte sopite e ambizioni latenti.
Non che Bebè peggiorasse; anzi, sulle prime, era parso che il ritorno a Torino avesse giovato al suo umore. Andava volentieri la mattina al Valentino, faceva oneste accoglienze a Bardelli, e poichè i baffi cominciavano a spuntargli adesso, a ventisett'anni, ella, ammirata della novità, si divertiva a tirarglieli. Ma non ricuperava l'appetito, non rimetteva nè sangue, nè muscoli; era sempre trasparente come un alabastro, esile come un giunco. Di tratto in tratto, verso sera, il suo visino pallido s'imperlava di sudore, un brivido passeggero le correva per le membra, seguito da una grande stanchezza, da un sonno pesante che, anzichè ristorarla, la lasciava più abbattuta di prima. Giraldi che veniva spesso a vederla in quell'ora, diceva ch'era un resto di febbre malarica da vincersi col tempo e colla pazienza senza abusar dei rimedi.
Varedo si trattenne a Torino, occupatissimo, per oltre quindici giorni. L'Università, già sua cura assidua e sollecita, non gli dava molestia, tanto più che duravano ancora le vacanze di Pasqua; ma aveva da sbrigare una corrispondenza voluminosa, da assistere a un'infinità di sedute, da ricevere, sia pur licenziandoli con buone parole, un nugolo di seccatori, che, subodorando in lui il futuro sottosegretario di Stato, provavano il bisogno di metterlo a parte delle loro idee e di manifestargli i loro desideri.
Appena qualche ora di notte egli poteva consacrare a quel secondo volume della sua opera sul Dovere, ch'era di ben maggiore difficoltà e maggior importanza del primo. Imperocchè, appunto in questo secondo volume, conveniva integrare con un lavoro di ricostruzione il lavoro critico precedente, e i giudici arcigni aspettavano al varco l'autore, presentendo, non forse a torto, che l'originalità non fosse in lui pari all'erudizione.
E anch'egli aveva i suoi scoramenti, i suoi dubbi, anch'egli si crucciava per questo libro, che gli editori chiedevano con insistenza e che non gli usciva di getto. Certo erano i continui sopraccapi della vita pubblica che gli offuscavano la limpidezza del pensiero scientifico, ed egli principiava a domandare a sè stesso se le due cose potessero andare di conserva, e se l'uomo politico non recasse danno allo studioso. Ma egli sentiva ormai che, messo alle strette, avrebbe accondisceso a rinunziar piuttosto alla scienza che alla politica; anzi quando più sfiduciato egli lasciava cader la penna sulle pagine del suo libro, si confortava dicendo ch'era nato per l'azione, e che solo in questo campo avrebbe potuto applicar le sue idee e svolgere ampiamente le sue facoltà. Le grandi ambizioni sono come i grandi incendi; si alimentano di ciò che dovrebbe soffocarle.
Coricandosi verso l'alba, Varedo trovava spesso sua moglie svegliata, con l'orecchio intento al respiro di Bebè.
—Dio mio! Come vai a letto tardi!—ella esclamava.—Troppo, troppo lavori.
Poi parlava della bimba che la teneva sempre con l'animo sospeso. O aveva chiesto da bere due volte, o s'era lamentata nel sonno, o aveva una temperatura più alta della normale.
—Quel benedetto termometro!—borbottava Varedo.—Bisognerebbe sequestrarlo e sequestrarti, per un paio di mesi, anche la bambina, che guarirebbe più presto se non si fosse eternamente lì a palpeggiarla, a guardarla, a contarle le pulsazioni.
Diana sbarrava gli occhi inorridita, ma non aveva il coraggio d'iniziar discussioni con suo marito, a quell'ora, mentr'egli era così stanco e aveva tanta necessità di riposo. Ed egli, spogliatosi in fretta, si cacciava sotto le coperte, e vinto dalla fatica si addormentava nel letto gelido, senza baci, senza carezze. La mattina, per solito, ella era in piedi prima di lui, e fino all'ora di desinare lo vedeva appena qualche minuto, di volo, perchè s'egli non era fuori di casa (e la colazione la faceva sempre fuori) era chiuso nel suo studio, a scrivere, o a dare udienza.
—Papà citto—diceva Bebè, portandosi il dito alla bocca, quando passava accanto all'uscio dello studio. Diana non la sgridava più per quel suo intercalare, non la sgridava più per nessuna ragione. Ogni lacrima che colava sulle guance smunte della piccina era come una goccia d'olio bollente che cadesse sul cuore della madre.
Intanto la Camera stava per riaprirsi, i telegrammi all'onorevole fioccavano, e Varedo si preparava a rimettersi in viaggio.
Bench'egli stesse così poco con lei, ora Diana si sgomentava di questa partenza. Non avrebbe egli potuto aspettar qualche giorno fin che l'avesse vista più tranquilla sul conto di Bebè? Non aveva pietà della sua solitudine?
Ma ella non voleva infastidirlo con le sue querimonie; se certe cose egli non le capiva da sè, perchè umiliarsi a ripetergliele? Oh, ella sapeva bene ciò che Alberto avrebbe risposto. Ch'era per lui un dovere imprescindibile d'essere a Roma, che Bebè non aveva nulla di grave, che, al bisogno, un telegramma si manda presto, che, durante la sua assenza, dipendeva da lei il non esser sola pur che avesse approfittato delle relazioni, già numerose, che aveva a Torino e che, dal prefetto in giù, sarebbero state pronte a mettersi a sua disposizione. E in ogni caso, non c'era sempre quel buon diavolo di Bardelli, nato a posta per far servigi?
Povero Bardelli! Sicuro che c'era, pieno del solito zelo, della solita abnegazione; pieno di fede nelle promesse di Varedo che non si adempivano mai.
Al fiasco di Bologna s'era rassegnato; gli bastava aver l'eleggibilità per valersene in un altro concorso che si sarebbe aperto presto a Palermo, e nel quale l'onorevole l'aveva assicurato del suo appoggio.
—È lontano Palermo, pur troppo—egli sospirava—e sarà per me un gran dispiacere lo staccarmi dalla mia famiglia, lo staccarmi da loro… Ma, chi sa, potrò forse indurre la mamma a venir meco laggiù… e, in quanto a loro… ah non ci voglio pensare.
All'idea che, in qualunque evento, gli sarebbe toccato separarsi dai Varedo, Eugenio Bardelli sentiva spuntare le lacrime agli occhi… Non veder più la signora Diana, non veder più Bebè!…
Diana lo confortava.—Ci vedremo, non abbia paura… Verrà a trovarci, tanto se rimanessimo a Torino, quanto se fossimo a Roma. A Torino avrà almeno i fratelli; a Roma ci potrà fare qualche capatina, non foss'altro che per parlare coi signori del Ministero… So che tutti hanno bisogno di farle di tratto in tratto quelle scale dei Ministeri.
Bardelli scoteva la testa sfiduciato.—Eh, non sarebbe la stessa cosa.
Inoltre, s'egli avesse ottenuto la cattedra e sua madre si fosse decisa ad accompagnarlo, egli presentiva che non si sarebbe più mosso, anche per non lasciar sola la buona vecchietta che non aspettava i sessant'anni, e negli ultimi mesi era assai deperita…—Ma!… In quell'età lì bisognerebbe non aver mai ragioni d'inquietudine.
E co' suoi monosillabi, con le sue frasi sibilline Bardelli lasciava intendere che le faccende di casa sua non procedevano come una volta.
Ma non si spiegava chiaro, e Diana, sempre preoccupata della salute di
Bebè, non insisteva per aver maggiori particolari.
Li ebbe invece, senza chiederli, dalla Bardelli che il giorno dopo la partenza dell'onorevole si sentì in dovere di farle una visitina e di tenerle un'oretta di compagnia… se non recava disturbo, s'intende.
Messa sull'avviso dalle parole del figliuolo, Diana s'accorse subito che la signora Marianna era realmente invecchiata, meno ritta della persona, meno agile nei movimenti, più magra, più pallida. E anche la penna del cappellino era scomparsa, e tutto il vestito era più semplice, più consentaneo all'età; solo che la stoffa un po' logora e i manichini sfilacciati tradivano un'insolita incuria o un incipiente disagio.
Diana che la credeva addolorata per l'insuccesso del suo Eugenio a Bologna non tardò ad avvedersi che questo era il minore de' suoi crucci.
—Ha ottenuto l'eleggibilità—disse la signora Marianna—e riuscirà un'altra volta… Non gli mancano i Santi protettori a lui—ella soggiunse mostrando la sua fede robusta che resisteva alle successive delusioni.—Sono gli altri due figliuoli che mi danno pensiero…
Ed ella raccontò come fra Girolamo e Paolo non ci fosse buon sangue da un pezzo, e come ora, pur troppo, fossero in lotta aperta. Paolo, già la signora Varedo lo sapeva, s'era sposato con quella modella, e questo aveva fatto montar sulle furie il fratello primogenito che non aveva nemmeno voluto conoscere la cognata… Oh Dio, non era stato un bel matrimonio, quello di Paolo… ma quando ci son delle conseguenze, che via di uscita c'è?… Il dovere è il dovere, e Girolamo aveva torto a non persuadersene… Il peggio era che la fortuna seguitava ad accanirsi contro il povero Paolo, un artista di tanto valore!… Il pubblico non lo capiva, le commissioni non venivano… e intanto… bisognava ben vivere con la moglie e un bambino… bisognava pagar la pigione dello studio, e la creta e il marmo per lavorare… Girolamo, così generoso con la sua mamma e con Eugenio, quando si trattava di Paolo, diventava un basilisco, protestava di non voler più spendere un soldo.
—E ha torto, ha torto marcio—continuava la signora Marianna che prendeva l'imbeccata dal suo beniamino—perchè, come dice Paolo, quello che c'è in bottega non è mica tutto di Girolamo, e la divisione dell'eredità paterna non è mai stata fatta… Se Girolamo non vuol più aver rapporti con suo fratello Paolo gli renda i conti e gli dia la sua parte…. Oh sì, Girolamo, a toccargli questo tasto, va in furia… Sicuro, li renderà i conti, mostrerà che Paolo ha avuto due o tre volte tanto quello che gli compete… ma, per maggior garanzia, esige che ci sia di mezzo il tribunale… Pensi, signora Varedo, andar per le mani dei tribunali, esser su tutte le bocche… una famiglia come la nostra!… Paolo, poveretto, m'aveva incaricato d'una proposta conciliativa… Non si discorra del resto, ma almeno si venda d'amore e d'accordo quel famoso calice che rappresenta una bella sommetta e che non c'è sugo di tener sempre chiuso in una cassa forte… C'è un Inglese che lo pagherebbe perfino seicento sterline… Via, è giusto dar un calcio alla fortuna? Le cinquemila lire e più che toccherebbero a Paolo sarebbero una manna del cielo per lui; gli permetterebbero d'aspettar le ordinazioni senza domandar la carità a nessuno… Ebbene, come crederebb'Ella che Girolamo abbia accolto una proposta così ragionevole? Pareva che gli avessi offerto il disonore. M'ha minacciato di regalar il calice al Museo, di disseccare il negozio e di andarsi a stabilire in America… Paolo poi, che non è un minchione, protesta di non voler cedere alla prepotenza, e dichiara che farà metter il sequestro su quel calice che Girolamo non ha nessun diritto di regalare… A questo punto siamo, madama Varedo…, alle liti, ai sequestri, alla carta bollata… Tra fratelli!
In altri tempi le emozioni della signora Marianna si manifestavano coi movimenti convulsivi del pennacchio, adesso il pennacchio essendo scomparso, la buona donna si portò il fazzoletto agli occhi e lasciò scorrer le sue lacrime.
—E anche Eugenio è in lite?—chiese Diana.
—No, no. Eugenio anzi si dispera di queste discordie… Ma in fondo egli parteggia per Girolamo… e così non dice una parola per appianar le cose… E sì ch'egli potrebbe far molto, perchè Girolamo ha un debole per lui, e gli dà assai più retta che a me… Tutti, tutti sono ingiusti con Paolo—singhiozzò la signora Marianna;—non capiscono che i grandi artisti non vanno giudicati alla stregua comune… Devo aiutarlo io di nascosto, il mio Paolo… Guai se Girolamo sapesse che mi privo di tutto, che non mi faccio un vestito nuovo, per passare qualche cosa ogni mese a quella famiglia lì….
E la Bardelli finì il suo sproloquio supplicando la signora Varedo di esercitar la sua influenza perchè Eugenio, che l'ascoltava come un oracolo, persuadesse Girolamo a non metter Paolo alla disperazione… Di Paolo, ancora per tre o quattro giorni, rispondeva lei.
Diana cercò in tutti i modi di schermirsi dall'ingrato ufficio. E ch'erano affari delicati nei quali l'ingerenza degli estranei faceva più male che bene, e che lo stesso Eugenio, non parlandogliene ancora, aveva mostrato di non voler portare in piazza questo dissidio domestico, e ch'ella, Diana, angustiata com'era per la sua bambina, non sarebbe stata un'abile negoziatrice. Ma la signora Marianna insisteva tanto che l'altra si lasciò strappare una vaga promessa. Se le veniva la palla al balzo, se i discorsi di Eugenio gliene porgevano il destro, ell'avrebbe parlato.
Una scaramuccia coniugale.
Uno scrupolo molto naturale aveva trattenuto Eugenio Bardelli da metter la Varedo a parte dei dissapori che covavano nella sua famiglia. Ma quand'egli seppe ch'ella n'era già stata informata da sua madre, la ragione del suo silenzio cessò, ed egli ebbe anzi un motivo di più per spesseggiare e prolungar le sue visite in casa Varedo. Ah, quei dissensi domestici erano una gran pena per lui, ch'era nato per viver nella pace e nella concordia. La sua mamma, poveretta, aveva una predilezione per Paolo, e diceva che i fratelli non lo stimavano secondo i suoi meriti, perchè ne avevano invidia. Eh, sicuro che dell'ingegno Paolo ne aveva a bizzeffe, ma voglia o non voglia aveva anche fatto un mucchio di corbellerie e quella del matrimonio non era stata la minore. E si capiva, che Girolamo, il quale lavorava per gli altri da mattina a sera, non fosse disposto a lasciarsi smunger di più. Non era mica un Creso, Girolamo, e se non fosse stato così economo per sè avrebbe durato una bella fatica a tener in piedi la baracca. Di questo la mamma non si capacitava, ed ella che accusava tutti quanti di esser ingiusti con Paolo non s'accorgeva poi che era ingiusta con Girolamo, l'unico, pur troppo, de' suoi figliuoli che avesse ormai una posizione assicurata. Bisognava conoscerlo a fondo Girolamo per apprezzarlo. Non era espansivo, non aveva una gran parlantina; ma che caratterone, e sotto la ruvida scorza che delicatezza di sentimenti! Che prontezza ai sacrifizi! Due, tre volte, anche recentemente, aveva rinunciato a sposarsi per non far dispiacere a sua madre che s'era fitta in capo di volerlo scapolo… mentre poi era stata così sollecita ad accettar per nuora la moglie di Paolo!… Sul punto del calice forse Girolamo aveva torto;… quando non si è ricchi, non si può concedersi il lusso di tener gli oggetti d'arte ad ammuffire nella cassaforte, e dal momento che si presentava una buona occasione di vendita sarebbe stato bene non lasciarsela scappare… E la sua opinione in proposito Eugenio l'aveva detta; ma non si sentiva d'insistere… perchè un diritto, un vero diritto egli non credeva d'averlo, ed era convinto che la loro quota dell'eredità paterna tanto lui quanto Paolo l'avevano avuta ad esuberanza, e che nell'ipotesi d'una resa di conti Girolamo sarebbe apparso creditore e non debitore….
Eugenio Bardelli non era conciso, e a Diana che aveva sempre in cuore la bimba accadeva talvolta di distrarsi mentr'egli parlava. Allora egli si profondeva in mille scuse: e ch'era indiscreto, e che la signora Diana aveva anche troppa pazienza, e ch'egli non avrebbe dovuto abusarne… Gli è che ell'era l'unica persona al mondo in cui egli avesse una confidenza assoluta e il suo unico sollievo era quello di sfogarsi con lei.
Indi i suoi occhi si empivano di lacrime, e Diana, quasi a scusarsi dei segni di stanchezza di poco prima, lo animava a riprender il suo discorso, lo confortava con parole amorevoli, sinceramente commiserando questo giovine così ricco d'ingegno e di dottrina, e pur destinato a non riuscir nella vita per eccesso di buona fede, per mancanza di tatto, d'energia, di coraggio.
In fin dei conti, Diana Varedo ed Eugenio Bardelli erano due disgraziati che si consolavano a vicenda. Perchè anch'ella, da quando l'erano sopraggiunte le inquietudini per Bebè, anch'ella si sentiva infelice. Lontana dalla madre, lontana quasi sempre da suo marito, e più sgomenta che lieta di ciò che l'avvenire preparava ad Alberto, aliena del pari dal mondo politico e dal mondo elegante, decisa ormai a non cedere alle lusinghe tentatrici dell'arte, ella passava le ore a fissar il volto pallido della sua piccina, a combattere i terrori che l'assalivano di tratto in tratto con incredibil veemenza, lasciandola affranta, spossata come dopo una malattia. Visite ne riceveva poche e ne restituiva pochissime; alle sedute a cui la s'invitava quale patronessa di qualche scuola e di qualche Istituto pio cercava di restare il meno possibile; a passeggio non andava che con Bebè, e per condur fuori Bebè occorreva il cielo sereno, la temperatura mite, e il barometro sopra il variabile. Così ell'era quasi sempre sola, e le due apparizioni regolari di Bardelli, alla mattina e alla sera, erano divenute una consuetudine della sua giornata. E poi, agli occhi di Diana, egli aveva il gran merito di esser desiderato da Bebè. Nelle sue bizze infantili, in mezzo alle sue lacrimette, fattesi, ohimè, tanto frequenti, la bimba lo chiamava, lo invocava:—Elli! Elli! E alla vista di lui ella si rasserenava, e gli tendeva l'esili braccia, e voleva ch'egli la portasse sulle spalle in giro per la stanza. Aveva dimenticato Bardelli per la signora Daria, la signora Daria per Miss Olivia, e ora tornava agli antichi amori, e a Bardelli più che alla stessa sua mamma serbava i rari sorrisi.
Ai primi di giugno l'onorevole fece una scappata a Torino. Veniva per veder la famiglia, ma aveva i minuti contati; arrivato il giovedì, doveva senza fallo ripartir la domenica per esser alla Camera fin dagl'inizi della battaglia decisiva, finale, che il Ministero, vissuto oltre all'aspettazione a forza d'espedienti e d'intrighi, era pur costretto ad accettare sul bilancio d'assestamento. Già i vari gruppi degli oppositori erano d'accordo, già le parti erano distribuite, già si sapeva che col pretesto del bilancio si sarebbe attaccata tutta la politica del Gabinetto, tutta la sua opera nefasta di tre anni… tre lunghi anni di sgoverno e di corruzione… Questa, s'intende, era l'antifona degli avversari. Dell'esito non si dubitava; secondo i calcoli più scrupolosi, la mozione di sfiducia avrebbe ottenuto cento voti di maggioranza. Dunque la caduta del Ministero era sicura, nè si vedeva chi altri, da San Giustino in fuori, potesse raccoglierne l'eredità.
Ora San Giustino Ministro voleva dire Alberto Varedo sottosegretario di Stato. Questi poi, come a guadagnarsi le spalline, era inscritto fra gli oratori nella prossima discussione, e ruminava un discorso destinato a consolidar la sua fama d'oratore dotto e facondo.
Tornando a casa alla vigilia di sì gravi avvenimenti, Varedo avrebbe avuto bisogno di trovar in sua moglie, se non la partecipazione entusiasta dei primi tempi, almeno l'attenzione paziente e benevola che per un pezzo ell'avea continuato a concedergli. Ma Diana non aveva occhi nè orecchi per cosa alcuna che non si riferisse alla bimba, e anzichè appassionarsi ai sogni di grandezza e di gloria che Alberto le faceva balenare dinanzi, mal dissimulava la sua crescente antipatia per la politica che toglie gli uomini alla famiglia, all'arte e agli studi.
Per colmo di disgrazia, il sabato di quella settimana Bebè ebbe una delle sue febbriciattole, e sebbene l'accesso non durasse che poche ore i nervi già agitati di Diana n'ebbero una scossa violenta che fece scoppiare la sua sorda irritazione.
—Spero bene che non ti sognerai di partire—ella disse ad Alberto.
—Cara mia, lo sai che devo partire.
—Devi?… Anche se tua figlia sta male?
—La bimba ha avuto una delle sue piccole febbri… pur troppo non si rimette ancora com'io vorrei… ma non c'è nulla di nuovo…. nulla che renda necessaria la mia presenza…
—Sarà sempre più necessaria qui che a Roma—ribattè Diana in tuono provocante.
Varedo si sforzò di esser calmo.—Mi sono impegnato ad essere a Roma lunedì mattina, e io non vengo meno a' miei impegni.
Diana scattò.—Me l'immaginavo… È il dovere… Quel famoso dovere che voi altri uomini fate consistere in ciò che v'accomoda…
—Diana!—interruppe Alberto severamente.—Non t'ho mai sentita parlare così.
—Tacevo—ella disse cedendo a quello spinto di rivolta ch'è forse nel cuore di ogni donna;—tacevo, soffrivo in silenzio… Ma giunge il momento che il vaso trabocca… Il dovere!… Prima di tutto convien vedere qual sia, e allora, quando si è certi di non prenderlo in iscambio per qualche cosa di molto diverso, allora sì ch'è lecito invocarlo… Ne ho la religione anch'io, non dubitarne, e se m'è accaduto di non esservi fedele, non ho avuto più pace.
Le parve di scorger l'ombra di un sospetto sulla fronte di suo marito, e riprese ironica:—Oh non aver paura… Non è quello che credi… Non ci son di questi pericoli nè per te nè per me… Noi viviamo fuori della vita… Non siamo della pasta di mio zio Gustavo, noi; siamo gente seria…. Ma le infrazioni al dovere sono di tante specie!… E se ho potuto trascurare un giorno, un ora la mia figliuola per correr dietro a qualche ubbìa, ah, te lo giuro, mi son procurata uno di quei rimorsi che bastano ad avvelenar l'esistenza… Perchè questo è il dovere; quando si ha una creatura innocente che non ci ha domandato di nascere, il dovere è di metterla in cima dei propri pensieri; quando si ha una famiglia che ci siamo fatta spontaneamente, usando del nostro libero arbitrio, il dovere è di occuparcene, di non sacrificarla alle nostre ambizioni, alle nostre vanità.
Varedo era esterrefatto. La ribellione di sua moglie lo coglieva di sorpresa. Ch'ella non s'accalorasse pe' suoi successi parlamentari, che non rallegrasse di vederlo vicino al potere; di questo Alberto s'era accorto, e pazienza!… Ma che ella lo investisse fieramente come un marito e un padre snaturato perch'egli non chiudeva il suo orizzonte entro quattro pareti, perchè non consentiva a rimpicciolire in tal guisa l'ufficio dell'uomo nel mondo, ecco ciò che lo faceva cader dalle nuvole e gli paralizzava la lingua.
Ed egli si contentò di posar la mano sulla spalla di Diana e di dirle:—Tu sragioni oggi… Sei più ammalata di Bebè.
—Magari!—ella replicò con esaltazione crescente.—Magari fossi ammalata! Magari morissi! Che liberazione sarebbe per te se morissimo tutt'e due insieme, la bimba ed io!… Hai commesso un grande sbaglio sposandomi, povero Alberto!… E così si correggerebbe tutto…
Adesso, rapida, succedeva in lei la reazione, e la sua voce, e il suo accento si raddolcivano, e i suoi occhi si gonfiavano di lacrime.
—Parlo senza rancore… Tu staresti meglio solo…. Ma son discorsi vani… Non muoio io, no, pur troppo… E voglia Iddio ch'io non sia invece destinata!…
Non finì la frase, rabbrividendo. Si nascose la faccia tra le palme, e balbettò:—Oh Alberto, ho paura… Ho dei tristi presentimenti… Faccio sogni orribili… Oh la nostra bimba… il nostro caro angioletto…
E lasciando cader la testa sul petto, ruppe in singhiozzi.
Ad Alberto corse un freddo per l'ossa. Benchè egli vedesse Bebè così lenta a riaversi dopo la sua malattia di Roma, non gli era mai venuta l'idea di perderla, e benchè in mezzo a tante cure e preoccupazioni egli non avesse avuto agio di coltivare il sentimento della paternità, ora, per la prima volta forse, alle frasi sconnesse di Diana, egli comprese per quali intime fibre i figliuoli siano legati alla nostra esistenza.
—Oh Diana!—egli esclamò.—Non pensarle nemmeno queste cose. Bebè non è in pericolo. Il dottore non lo ha mai detto.
Ella piangeva, piangeva senza rispondere.
Ma in seguito all'insistenza di suo marito, ella accennò negativamente col capo.
—Dunque non l'ha detto? Proprio?
—No, no… I medici pesano le loro parole… sopra tutto con le mamme.
—L'ha detto a qualchedun altro, che tu sappia?… A Bardelli forse?
—No… no… Non credo.
—Ebbene, perchè vuoi essere pessimista?… Su, su, coraggio.
Diana alzò le pupille al cielo con una muta preghiera. Indi guardò Alberto come dubbiosa se dovesse chiedergli scusa pel suo linguaggio intemperante di prima. Egli, magnanimo, le risparmiò l'umiliazione e le tese la mano in atto d'uomo che perdona.
A lei sovvenne ch'egli nulla aveva concesso.—Parti?—gli domandò.
La fisonomia di lui si rifece scura.—Sfido io!
Le loro dita, che s'erano intrecciate, si sciolsero.
Giraldi visitò quella sera stessa la madre e la figliuola. A Bebè non s'era rinnovata la febbre; ella stava come il solito.
Messo alle strette, il dottore dichiarò che nello stato presente della bimba egli non trovava nulla d'allarmante, che spesso le infezioni malariche sono ostinate e occorrono mesi e mesi e estirparle. Confidava, in estate, nella montagna; intanto non sapeva suggerire che una cura igienica non disgiunta da molti riguardi; perchè questo egli non poteva dissimulare, che un organismo indebolito era sempre più esposto alle insidie ed era meno resistente di un organismo robusto… In quanto alla signora Diana, ella non aveva alcuna malattia; aveva solo un'eccitazione nervosa che si sarebbe calmata da sè. Prescriveva intanto piccole dosi di bromuro.
Varedo volle dar un nuovo saggio della sua equanimità.
—Sia giudice lei, Giraldi. Di fronte a ragioni gravi, imperiose che mi chiamano, a Roma, ne vede di più imperiose, di più gravi che mi vietino di partire?
Un sorriso doloroso sfiorò il labbro di Diana.
A un quesito posto così, Giraldi da quella persona accorta ch'egli era, non poteva rispondere che in un modo. Quando, nelle famiglie de' suoi clienti, lo si voleva arbitro in qualche questione, egli, se non gli veniva fatto di cavarsela con una frase ambigua, si metteva dalla parte del più forte, non per viltà, non per secondi fini, ma per amore del quieto vivere, ma per abborrimento dalle discussioni lunghe.
—Ah no, professore—egli disse—non è il caso ch'ell'abbia da trascurare i suoi doveri civici. Salus publica suprema lex. Siamo al gran cimento, e guai se i capi non conducono le loro schiere al fuoco… Perchè lei, onorevole Varedo, è ormai uno dei capi… È inutile schermirsi, quest'è la verità… Una bella soddisfazione, signora Diana, aver un marito a cui tutti tengono gli occhi addosso come a un luminare del Parlamento… Sicuro che c'è il rovescio della medaglia: le frequenti assenze, le molte occupazioni…. Ma come si fa?… Non c'è rosa senza spine.
Di lì a poco Giraldi e Varedo uscirono insieme discorrendo di politica.
A un certo punto, côlto da uno scrupolo, l'onorevole riprese:—Dunque, dottore, per Bebè, mi rassicura?
Quantunque non ci fosse nessuno, Giraldi abbassò la voce.
—Senta, non vorrei esser frainteso… Oggi pericolo non ne vedo… Non vedo niente che mi autorizzi a mettere il veto alla sua partenza per Roma ov'ella non va per un capriccio, ma perchè deve andare… Inoltre, se mettessi il veto oggi, converrebbe che lo mettessi domani, e doman l'altro, e chi sa per quanto ancora… La bambina è gracile, pur troppo, ha avuto una scossa forte, non si può aspettarsi che rifiorisca in pochi giorni…. Siamo, direi così, in un periodo di equilibrio instabile dal quale, spero, usciremo col tempo e con la pazienza.
Varedo tentennò la testa.—Mi dispiace di lasciar Diana sola… nell'agitazione in cui è… Se potesse esser qui mia suocera…
Il dottore esclamò:—Bravo! M'ha levato le parole di bocca. Perchè la signora Inverigo non potrebbe venir a passare un mesetto con la figliuola?
—Gli è che Diana preferirebbe d'aver la compagnia di sua madre in montagna, nel luglio o nell'agosto….
—Per la signora Valeria non si tratterebbe che d'anticipare di qualche settimana.
—Questo è appunto il difficile; ch'ella s'induca a una troppo lunga assenza da casa sua… A ogni modo, ben pensandoci, potrei scriverle io di mia iniziativa.
Confortato dall'approvazione di Giraldi, Alberto Varedo si appigliò a questo partito che conciliava le sue sollecitudini domestiche col suo desiderio di stare a Roma una ventina di giorni senza esser disturbato.
Quando le disgrazie cominciano…!…
—Dio! che ciera da funerale!—disse Diana a Eugenio Bardelli venuto come il solito a sentir se le occorreva qualche cosa e a prender notizie della bimba.
Egli si sforzò di ricomporsi e sviando il discorso chiese:—Bebè?
—Così… Ha dormito discretamente… Ora è di là con l'Irene che la veste per condurla fuori… Io stamattina non posso… La giornata è buona?
—Deliziosa.
—Non c'è vento?
—Punto.
—E il sole non dà disturbo?
—No… È proprio una temperatura giusta.
Diana sospirò:—Purtroppo non ci sono mai tutele che bastino.
Bebè entrò a mano dell'Irene; vide il suo Elli e gli tese le braccia sottili. Egli la tirò a sè, la sollevò, se la pose sulle ginocchia.—Hop, hop, cavallo!
La testolina della bimba dondolò alquanto come frutto maturo sopra un ramo esile; poi, vinta dalla stanchezza, si abbandonò sulle spalle dell'amico.
Diana si torceva le dita.—E non ride, e non si diverte più nemmeno con lei, Bardelli!
Questi riconsegnò la piccina alla bambinaia, dicendo malinconicamente:—Sono io che non so più farla divertire.
Di nuovo la Varedo fu colpita dall'espressione dolorosa della sua fisonomia.
—Ma che cos'ha oggi?… Altri dispiaceri in famiglia?
Egli chinò il capo in silenzio.
Diana, fatta un segno all'Irene, riaccompagnò lei e Bebè fino all'uscio, aggiunse alcune raccomandazioni e tornò con ansiosa sollecitudine presso Bardelli che teneva gli occhi fissi a terra per nasconder le sue lacrime.
—Parli, via—insistè Diana.—Che cos'ha?
Senza mutare atteggiamento, egli borbottò con voce sorda:—Ho torto… Non è permesso portare in giro le proprie miserie… specialmente dove ci sarebbe bisogno d'un po' d'allegria.
—Non dica questo—ribattè la Varedo.—Sa che io… sa che noi le siamo amici, e gli amici si cercano appunto nei giorni tristi… E—soggiunse—sono più atti ad intenderci quando hanno anch'essi le loro afflizioni.
—Ella è buona, signora Diana!—esclamò Bardelli alzando il viso commosso.—È una santa, meglio di quelle che si adorano sugli altari.
—Lasci le iperboli—ella interruppe con un languido sorriso,—e mi racconti… Si tratta sempre di quella disgraziata questione domestica?
Bardelli accennò di sì. E, guardandosi intorno, narrò che in casa sua erano ai ferri corti. Paolo era riuscito a far mettere un sequestro sul calice che suo fratello s'impuntava a regalare al Museo piuttosto di venderlo, e Girolamo dal canto suo protestava che il giorno in cui quell'oggetto di arte gli fosse stato portato via avrebbe appiccato il fuoco al negozio… Non lo si riconosceva, Girolamo… Un uomo così mite, così pacifico, che non aveva in vita sua torto un capello a nessuno, adesso schizzava veleno da tutti i pori, non ascoltava consigli di moderazione, rispondeva seccamente alla madre, rispondeva male a lui verso il quale s'era pur mostrato sempre tanto affettuoso; insomma una trasformazione completa, di quelle che non si credono possibili da chi non ne sia testimonio… E come sarebbe andata a finire?… Come sarebbe andata a finire?
—Ma l'altro—disse Diana—ma Paolo non intende ragione? Non capisce che non gli conviene spinger le cose agli estremi? Perchè Girolamo, l'orefice, ha qui a Torino molte aderenze, è stimato un perfetto galantuomo, un figlio e un fratello esemplare, e sarà difficile persuader la gente ch'egli sia dalla parte del torto.
—Paolo—ripigliò Bardelli—ha un gran cattivo inspiratore, il bisogno… E se non bastasse, è sobillato dalla moglie, dagli amici malfidi, da quel leguleio di pochi scrupoli che ha assunto la sua causa… È un artista, Paolo, è un ragazzo impressionabile, non si può domandargli il sangue freddo… Ah, cara signora Diana, che disgrazia! E pensi, la mia mamma, alla sua età, assistere a questa catastrofe!
Eugenio Bardelli singhiozzava.
La Varedo si provò a rincorarlo.—Andiamo, non si perda d'animo. È il solo che possa interporsi fra i litiganti… Si rimetta all'opera con calore, con perseveranza, con fede in sè stesso…
Egli scrollava la testa.—Non ne ho più della fede in me stesso… Non ho diritto di averne… Non c'è cosa che non mi vada a rovescio… Che autorità ho io sui miei fratelli, io che vivo a carico d'uno di loro, io che dopo tanti anni di studi non mi sono ancora fatto una posizione indipendente?… E non ero mica pessimista per natura… può dirlo lei… anzi m'illudevo troppo, m'illudevo sempre… Adesso basta…
—Perchè si accascia in questo modo?—soggiunse Diana.—Lei ha ingegno, cultura, buon volere… dunque?…
Ma Bardelli seguitava a far segni negativi col capo.
—No, signora Diana… Vedrà che anche a Palermo sarà un fiasco… Tutti ne sono convinti… Tutti, mio fratello Paolo per primo, mi ricantano l'antifona che già io non concluderò mai nulla… Non c'è che lei, signora Diana, che creda nel mio avvenire!… E io non mi sento un po' rinfrancato che vicino a lei… Ma nemmen questo durerà… Non ci verrò più da lei, non mi riceverà più.
Diana lo guardò stupita.—Vuol proprio crearseli i dispiaceri….
Perchè non dovrei riceverlo più?
D'improvviso egli le afferrò la mano, e gliela coperse di baci.
Ella si svincolò dolcemente ritraendosi alquanto, mentre Bardelli, esaltandosi, diceva:—Com'è buona! Com'è misericordiosa!… Come meriterebbe di esser felice!… Invece, per una delle solite ingiustizie della fortuna, è piena di tribolazioni, è trascurata da chi…
Diana, severa, gli troncò le parole in bocca.
—Non si occupi di me, Bardelli, non tenga questo linguaggio… Glielo proibisco.
Mortificato, confuso, il giovine ammutolì per un momento; poi, come se una forza irresistibile lo spingesse, riprese con l'impeto, con la furia disordinata e scomposta di un timido che ha paura della propria resipiscenza:—No, bisogna ch'ella mi lasci terminare… Sarà l'ultima volta… Non ci tornerò più in questa casa… non avrò più neanche questa consolazione… ma non posso tacere…. non posso… Mancherei di sincerità se le tacessi questo sentimento che provo per lei…
Pallidissima, Diana s'era levata in piedi, e con la voce alterata e col gesto intimava a Bardelli di smettere.
—Basta, Bardelli, basta… Non può immaginarsi che dolore mi dà… Se avessi supposto, se avessi avuto il più lontano sospetto…
—Neppur io credevo—balbettò l'antico assistente di Varedo,—neppur io… Avrei voluto esser sempre il suo servo docile, devoto, che non osa alzare il pensiero fino alla sua signora… E a poco a poco, quasi senza ch'io me ne accorgessi vedendola così pietosa con me, così buona e paziente con tutti… vedendola soffrire, piangere in silenzio…. oh la ho sorpresa più d'una volta che piangeva… a poco a poco ho capito che la mia affezione per lei era d'altra natura… ch'ella era per me quell'ideale che ogni uomo ha nel cuore…
—Insomma, Bardelli—ripetè Diana non ancora rimessa dallo stupore dell'inattesa rivelazione,—le ho ordinato di smettere…—E vada via… perchè avrà anche capito che ormai…
Egli le risparmiò l'ufficio penoso di pronunciar la parola di sfratto, e retrocedendo a piccoli passi con l'aria umile del cane percosso che accetta la sua condanna,—Lo so—singhiozzava,—lo dicevo io stesso… È finito… Addio, signora Varedo… E dia per me un bacio a Bebè… E che il cielo faccia risanare, faccia rifiorire quel suo angioletto…
Appena l'uscio si fu richiuso dietro Bardelli, Diana, come esausta di forze, si abbandonò sulla sedia e si coperse il viso colle mani. Le pareva d'uscire da un sogno. Era possibile? Eugenio Bardelli, il giovine goffo, impacciato, dall'aspetto d'adolescente, ch'ella, a Torino, era usa a vedere ogni giorno e a trattare con la dimestichezza d'uno di famiglia, il piccolo Bardelli le aveva fatto una dichiarazione d'amore? A lei che non aveva da rimproverarsi la più innocente civetteria con nessuno, a lei per cui la donna galante era un fenomeno incomprensibile? Ed ecco che ora un'amicizia di oltre tre anni era rotta per sempre e Bardelli non sarebbe entrato più in casa!… Oh, egli aveva ben compreso che non poteva rientrarvi, e Diana gli era riconoscente di essersi licenziato da sè… E pure, a pensare ch'egli non sarebbe venuto nè quella sera, nè il dì appresso, nè mai, ch'egli non avrebbe mai ripreso in collo Bebè a cui voleva tanto bene, ella provava una pena, uno strazio!… E l'assaliva il dubbio d'esser stata troppo rigida, troppo impassibile, e la crucciava il rimorso di non aver saputo fermar sul labbro dell'imprudente ragazzo le frasi irrevocabili… Se subito, assumendo verso di lui non già l'aria d'una regina offesa ma quella d'una sorella maggiore, ella lo avesse richiamato al senso della realtà, forse egli si sarebbe ravveduto in tempo, forse…
Diana scattò dalla seggiola, si mise a passeggiar su e giù per la stanza.
No, a nulla avrebbero approdato le sue ammonizioni; no, quand'anche Bardelli non avesse detto tutto ciò che aveva nell'animo, la condizione delle cose non sarebbe stata diversa, e l'incendio nascosto non sarebbe stato meno pericoloso. La dichiarazione Bardelli gliel'aveva fatta prima ancora di parlare, quand'egli, afferrandole con impeto la mano, l'aveva coperta di baci. Diana li sentiva quei baci, come una bruciatura acuta, sul dorso della sua mano bianca, sentiva in tutta la persona, il calore dell'atmosfera di fuoco che l'aveva investita. Ben è insidioso e maligno l'amore se, pur non diviso, turba così. E in questo turbamento, troppo comprensibile in lei che udiva per la prima volta il linguaggio della passione, Diana trovava una scusa alla propria severità. Oggi, non mai, era il caso d'invocar quel dovere, che, in bocca di suo marito, le suonava da un pezzo come una parola vana, ma ch'ella non aveva cessato un istante di considerar legge suprema della vita. Sì, ella doveva condursi come s'era condotta, doveva stare in guardia contro ogni debolezza improvvida, contro ogni indulgenza funesta.
Mentre per la disposizione, insita in noi, di esagerar l'importanza di ciò che ci accade, Diana ingrandiva la sua facil vittoria, e il povero Eugenio Bardelli prendeva a' suoi occhi le forme d'un seduttore temibile, spuntava nel suo animo e si mesceva alle impressioni dolorose, inavvertito forse, non confessato certo, un sentimento diverso, quasi un risveglio di femminilità, quasi una compiacenza segreta d'aver potuto inspirare un palpito, un desiderio, una simpatia che non avesse i soli caratteri della rispettosa amicizia.
Ah, se Alberto sapesse! Ma Alberto non avrebbe saputo. Ella non gli avrebbe dato un comodo pretesto di non occuparsi più affatto di quell'infelice Bardelli, il quale, adesso sopra tutto, aveva la necessità imprescindibile di ottenere un impiego… Senza dubbio, Alberto, tornando a Torino, si sarebbe maravigliato di non aver tra i piedi il suo fido satellite, ma, come sogliono gli uomini pieni d'affari, egli avrebbe accettato per buona moneta qualunque pretesto.
Intanto la posta di quella sera recava a Diana nuove emozioni e nuove sorprese.
«—Mi son decisa a venir a passar teco qualche settimana—le scriveva sua madre da Venezia—e spero che Gustavo mi accompagni. Mi par mill'anni d'abbracciar te e la bambina le cui condizioni non buone di salute mi affliggono».
E subito dopo la signora Valeria soggiungeva:—«Sono tutta sossopra per la morte (dopo due giorni di malattia; una pneumonite acuta) d'una mia carissima amica, l'Adelaide Nocera. Tu le facevi il viso dell'arme, e io non pretendo che fosse una donna perfetta; ma era così buona, così intelligente e vivace! E aveva il segreto della eterna giovinezza. A quarantacinque anni ne mostrava poco più di trenta… Anche adesso, composta nel suo letto, se tu la vedessi!… L'abbiamo assistita, Gustavo ed io… Povero Gustavo che l'amava tanto, da tanto tempo, che affrettava col desiderio il momento di darle il suo nome!… Povero Gustavo!… In che stato è ridotto!… È per questo che lo voglio portar via da Venezia… Andrà a Parigi, andrà a Londra… Domani ci sono i funerali… Partiremo doman l'altro mattina, telegrafandoti…
«Non badare alla sconnessione di questa lettera. Io domando ancora a me stessa: È vero, o non è vero?… L'Adelaide, qualche ora prima di morire, ha nominato anche te.—Credo—ella mi diceva—che Diana avrebbe finito col volermi bene…».
Nelle condizioni d'animo in cui Diana si trovava, l'annunzio datole da sua madre le fece una impressione immensa. Sì certo, ell'aveva sempre resistito al fascino che l'Adelaide Nocera esercitava su quanti l'avvicinavano, ell'aveva sempre giudicata con severità quella donna briosa e leggiadra, che, vivente il marito, aveva una tresca palese e alla quale la voce pubblica attribuiva, almeno in passato, altre galanterie. Ma, tra perchè alcune sue idee andavano a mano a mano modificandosi, tra perchè l'Adelaide, ormai vedova, sarebbe diventata presto sua zia, Diana non aspettava che un'occasione per riannodare i suoi rapporti con lei. Non le aveva parlato più dopo la sera di quella scena breve e violenta, al Lido, tra lo zio Gustavo ed Alberto, (eran quasi tre anni!) e le sembrava ancora vederla ritta, immobile, con le mani dietro la schiena, col dorso appoggiato al parapetto della terrazza, la piccola testa ed il busto spiccanti in ombra sul nitido azzurro del cielo ove sorgeva alta la luna… Ah, nella memoria di Diana riviveva, minuto per minuto, quella sera, in cui, provvida diversione allo scandalo minacciato, il suo repentino malessere aveva attratto la curiosità dei presenti, ed ella, per segni non dubbi, s'accorgeva d'esser madre… Così un intimo, misterioso legame univa il suo ultimo incontro con l'Adelaide alla nascita di Bebè… E oggi l'Adelaide, l'immagine della forza e della salute, era morta, e Bebè era tanto gracile, tanto pallida, tanto debole!
Diana scacciò da sè con un grido le terribili suggestioni di queste coincidenze fortuite, corse dalla bimba, la prese sulle ginocchia, la baciò e ribaciò, le disse che domani sarebbe venuta la nonna… Non se la ricordava la nonna Valeria, che la faceva giocar l'estate scorsa a Belgirate, sul lago… dove c'era il piccolo battello con la banderuola azzurra, e c'era Cinci, il cane dell'ortolano….?
—Bau, bau—fece la piccina.
Sicuro, bau, bau… Ma adesso bisognava accoglier bene la nonna che si moveva apposta per abbracciar la sua bimbetta, e chi sa che belle cose le avrebbe portate da Venezia….
—Nonna—ripetè Bebè, senza entusiasmo, e piuttosto perch'era avvezza a sentirla nominare che perchè ne conservasse, dopo un anno, l'immagine chiara e distinta.
Diana invece pensava con infinita tenerezza, con riconoscenza infinita alla sua mamma che cercava un conforto al proprio dolore venendo a star qualche tempo con lei; ne magnificava in cuor suo la bontà operosa, lo spirito equilibrato, il consiglio sicuro… Ah com'era provvidenziale questo arrivo della mamma, in questo momento, come avrebbe potuto giovare anche a Bebè!… E il povero zio Gustavo, chi sa se si sarebbe trattenuto almeno un pajo di giorni a Torino?… A ogni modo, col solo venirci, egli mostrava di volersi riconciliare appieno con lei… Ah sì, sì; troppo era stato penoso, troppo a lungo era durato il dissidio, troppo era triste che occorresse una sventura per porvi termine.
Nella sua impazienza di far giungere a' suoi cari una parola d'affetto, Diana buttò giù due righe di telegramma alla signora Valeria:
Profondamente commossa, vi aspetto a braccia aperte.
E firmava. Ma non le parve d'aver detto a bastanza, ed aggiunse: I vostri lutti sono i miei lutti. Dì allo zio Gustavo che soffro con lui.
—Al telegrafo, subito, con questo dispaccio—ell'ordinò alla Luisa.
—Signora—obbiettò la cameriera che adempiva anche agli uffici di cuoca;—com'è possibile?… Ho l'arrosto… Se andasse l'Irene?
—No, non mi piace che l'Irene esca sola di casa a quest'ora.
—Non è poi una Venere—rispose, alquanto piccata, la cameriera,—e non credo che gli uomini debbano correr dietro più a lei che a un'altra.
—Tss, tss!—fece Diana.—Tornate pure in cucina, e mandate qui l'Irene.
La Luisa rimase un istante perplessa, divisa fra il pensiero dell'arrosto e gli stimoli della nativa petulanza; indi l'arrosto prevalse ed ella si ritirò in dignitoso silenzio.
—Scendi in portineria—disse la Varedo all'Irene—e prega in mio nome il portinaio o sua moglie d'impostare immediatamente questo telegramma.
La bambinaia tentennò la testa.—Ho paura che non ci sia nessuno di disponibile… Gasparo è fuori senza dubbio, e la moglie ha i suoi reumi e non è in grado di muoversi… Se vuole, vado io.
—Quando non ci sia altri, per forza…
—Ha furia?
—Un telegramma, s'intende… Perchè?
—Perchè, se non aveva una gran furia, sarebbe capitato il professor
Bardelli…
—Non viene oggi Bardelli—interruppe precipitosamente Diana, imporporandosi in viso.—Vai tu allora… Va e torna… Ecco il danaro…
—E ce la darà lei la pappa a Bebè?
—Ce la darò io… Va, va.
Seduta sopra un tappeto, con un simulacro di bambola (erano i miseri avanzi della bambola che lo zio Gustavo le aveva spedita a Roma pel suo dì natalizio) Bebè si era mantenuta tranquilla, assorta nella grave occupazione di strappar gli ultimi quattro capelli all'infelice pupattola. Ridotta ch'ebbe costei nello stato di assoluta calvizie, la prese uno de' suoi accessi d'inquietudine accorata, e voleva l'Irene e voleva Bardelli, e piangeva, piangeva di quel pianto irrefrenabile ch'è proprio dei bambini gracili e malaticci.
—Oh, Signore, Signore, non vedrò più la mia Bebè d'una volta?—esclamava Diana dopo aver tentato inutilmente con celie, con fiabe, con baci e sorrisi e carezze di rasserenare quella piccola fronte.
Nella notte insonne che seguì la tempestosa giornata Diana non riuscì a staccar la mente dall'Adelaide Nocera.—«Domani ci sono i funerali»—le aveva scritto sua madre, e Diana evocava con la fantasia la chiesa affollata, le armonie solenni dell'organo, il fumo degli incensi, la luce gialla dei ceri, la bara coperta di fiori… Ma ormai la chiesa era deserta, e muto l'organo, e spenti i ceri, e dissipati gli incensi… Ormai l'Adelaide era sepolta, forse, amara ironia, accanto al marito ch'ella non aveva potuto soffrire, e le ghirlande appassivano sul tumulo recente nella triste isola di San Michele.
Del resto, non era ella stata felice? Non aveva attraversato la vita come in una striscia di sole, nel calore degli sguardi accesi ed intenti, nella musica delle parole dolci ed appassionate? Non aveva conservato oltre i limiti ordinari del tempo il bene supremo della giovinezza? Non aveva avuto al suo capezzale fino all'ultimo l'uomo nobile, integro che l'aveva tanto amata, che l'amava tanto?… Perchè dunque commiserarla? Che poteva ella sperare di più vivendo altri dieci, altri venti, o trent'anni?… Le gioie d'un esistenza casalinga, d'un tramonto placido e sereno?… Ma s'ella non era nata per gustar quelle gioie, per apprezzar la quiete di quel tramonto? Se avesse ripreso le sue abitudini leggere, se a dispetto dell'età avesse voluto essere ancora una donna galante, se avesse reso ridicola sè stessa, ridicolo il nuovo marito?… Ah in tal caso meglio per lei, meglio per lo zio Gustavo che fosse morta!
Vani discorsi! Intanto lo zio spargeva sulla tomba dell'Adelaide Nocera assai più lacrime di quelle che non avrebbe sparse Alberto sulla moglie e sulla figliuola se le avesse perdute entrambe in un giorno. O che Alberto si curava di loro, laggiù alla capitale, in mezzo agli intrighi parlamentari, in mezzo ai preparativi della grande battaglia per rovesciare il Ministero abborrito?
Ricondotta insensibilmente a meditar sulle proprie miserie, Diana tornava col pensiero alla dichiarazione di Bardelli, allo strappo irreparabile che n'era seguito, al vuoto che la mancanza di quell'amico fedele lasciava nella casa. E le spuntava una strana domanda sul labbro:—Come si sarebbe regolata in una contingenza simile l'Adelaide Nocera?
Per un calice.
La mattina dopo, Diana, uscita di casa sola per far qualche spesa, trovò a pochi passi dalla sua porta cinque o sei individui che, fermi sul marciapiede, parevano discutere animatamente. Mentre essi si ristringevano per farle posto ella colse una frase:—Peccato! Era un fior di galantuomo.
Proseguendo nel suo cammino, s'imbattè in due popolane una delle quali diceva all'altra:
—Non c'è più timor di Dio. Ecco perchè succedono ogni momento di queste brutte cose.
In fine, nello sboccare in Piazza Castello, la Varedo udì queste parole che un fiaccheraio, dall'alto del suo cassetto, slanciava a un compagno:—S'è avvelenato col cianuro di potassio.
Dunque si trattava d'un suicidio accaduto da poco, e se tutti quanti ne discorrevano doveva trattarsi del suicidio di persona ben nota. Chi era mai?
In preda a una vaga inquietudine, Diana girò gli occhi intorno in cerca d'un conoscente a cui chieder notizie. Non ne vide alcuno, non osò interrogare gli estranei, e tirò innanzi voltando dalla parte dei portici di Po.
Ma, inconsciamente, ella s'era avvicinata al luogo della catastrofe, e notò subito un fermarsi e sciogliersi di capannelli sotto le arcate, sulla soglia dei negozi, e un affrettarsi di curiosi verso un punto ove molta gente era già agglomerata e ove sulla massa confusa di teste spiccava un pennacchio di carabiniere.
—Povero Bardelli!—esclamò qualcheduno.
Diana credette che le mancasse il terreno sotto i piedi. Bardelli!
Avevano proprio detto Bardelli?
E forse non si sarebbe potuta reggere senza l'aiuto del professore Sali, della facoltà di lettere, che passava in quel momento, avviato all'Università.
—Signora Varedo—egli disse offrendole il braccio,—non stia in questa baraonda….
La tirò fuori della folla e fattala entrare nel Caffè di Parigi ordinò al tavoleggiante di portarle un bicchierino di cognac.
—Certe cose producono una penosa impressione a tutti—egli soggiunse.—Figuriamoci poi a loro signore che sono più delicate.
Finalmente Diana potè articolar la domanda tanto naturale che non le voleva uscir dal labbro.
—Ma scusi, professore… quale dei Bardelli è?
—Come? Non lo sa?—replicò il Sali con accento di meraviglia.—È l'orefice… Il nome non lo ricordo…
—Ah!… È l'orefice?—ripetè Diana. E un po' di sangue tornò sulle sue guance scolorite, e la sua fisonomia contratta andò a grado a grado ricomponendosi.
Così è. Quando a un male temuto se ne sostituisce un altro che sia o ci appaja minore, noi sulle prime non proviamo che un senso di liberazione; lieti che una determinata cosa non sia avvenuta, ci accorgeremo solo più tardi della gravità di quella che avviene in sua vece.
Diana, pur dianzi, a udir pronunciato il nome di Bardelli, era corsa immediatamente col pensiero ad Eugenio, e non dubitando che il suicida fosse lui aveva creduto scoprire un'intima connessione fra questa tragedia e la scena di ieri. Per colpa di lei dunque quell'uomo s'era tolto la vita? Ed ella avrebbe sempre quel rimorso nel cuore, avrebbe sempre quell'immagine negli occhi!
Ora l'incubo tremendo l'era levato di dosso… Non era Eugenio, era
Girolamo…
E il professor Sali riferiva a Diana ciò ch'egli aveva raccolto sul triste avvenimento.
Girolamo Bardelli s'era recato quella mattina per tempissimo nella sua bottega (appunto la bottega sotto i Portici, a guardia della quale stavano adesso i carabinieri) e vi si era chiuso dentro col suo garzone apprendista per finire un'opera di cesello che gli premeva. Arrivati alle sette i lavoranti, egli s'era ritirato nella retrobottega a scrivere una lettera a suo fratello Eugenio che poi aveva consegnata al ragazzo con l'incarico di recapitarla. Verso le otto, uno dei giovani gli aveva chiesto se dovesse aprir la bottega ed egli aveva risposto che aprisse pure. Di lì a qualche minuto s'intese un tonfo ed un rantolo. Gli accorsi al rumore non trovarono che un cadavere. Una boccettina di cianuro di potassio era, vuota, sul tavolino.
Con un gesto di ribrezzo, Diana accennò a volersi alzare.
—Tornerei a casa—ella balbettò.
—L'accompagno io, diamine—disse il professore.—Ma è meglio aspettare ancora… è meglio che si rinfranchi di più… E poi…
Di fuori s'udiva il sordo mormorio ch'è proprio della folla la quale speri d'esser finalmente ricompensata d'una lunga attesa.
—Lo portano via—sussurrò uno dei camerieri.
Lo portavano via in fatti, dopo le constatazioni di legge, sopra una barella dell'ospedale; ma dal caffè non si vedeva nulla, non si vedeva che la schiena dei curiosi assiepati sotto le arcate e guardanti verso la strada.
Passato che fu il triste corteo, la gente si disperse alquanto delusa.
Un signore di complessione apoplettica brontolò, asciugandosi i sudori, e con l'aria d'un cittadino leso ne' suoi diritti:—Non valeva la pena di prendersi il sole in faccia per così poco.
Diana si levò in piedi.—È finito, sembra. Grazie di tutto, professore… Posso benissimo andar sola.
—Nemmeno per sogno—protestò Sali.—Non la lascio che sul pianerottolo del suo appartamento… Desidera che chiami un fiacre?
—No… È qui presso… Preferisco camminare. E poich'ella vuole a ogni costo accompagnarmi….
—Questo s'intende… S'appoggi, s'appoggi.
—Che colpo per la vecchia Bardelli!—sospirò Diana quando fu all'aperto.
—La conosce?
—Sì.
—E il fratello del defunto, quello ch'era assistente di suo marito, viene sempre in casa sua?
Diana fece un segno affermativo col capo. Non poteva, non voleva dire che avrebbe cessato di venirci.
—Ma!—soggiunse il Sali.—Attribuiscono questo suicidio a dispiaceri coi fratelli…
—Non però con Eugenio—interruppe vivamente la Varedo.
—Appunto… Dev'esser con l'altro… lo scultore… un cervello balzano… che ha fatto un certo matrimonio… Ah, le donne!… Che parte hanno nella nostra vita… in bene e in male!… E chi sa che anche nel suicidio di questo disgraziato non c'entri una donna?… Dicono ch'egli avrebbe voluto sposare una vedova, e ch'era stato costretto a rinunziarci in causa delle mignatte che gli succhiavano il sangue… Non ha sentito?
—Sarà… Non ricordo…
—Cherchez la femme, cherchez la femme, hanno ben ragione i Francesi.
Il professore Sali, da quel dotto uomo ch'egli era, s'avventurò in una disgressione sull'influenza della donna attraverso i tempi. Diana lo ascoltava appena, di null'altro desiderosa che di arrivare a casa, e, poichè la strada era breve, ci arrivò prima che il suo interlocutore avesse oltrepassato la guerra di Troia.
Ma nemmeno a casa ebbe pace. Quanto più ci pensava tanto più le pareva grave, irreparabile la sventura che aveva colpito i Bardelli. Il momentaneo sollievo da lei provato apprendendo che il suicida era Girolamo e non Eugenio ora quasi svaniva dinanzi alla considerazione che la morte del primo aveva, per la madre, conseguenze infinitamente maggiori. E forse per lo stesso Eugenio, il cui destino era d'esser soverchiato dai violenti e dai furbi, per lo stesso Eugenio sarebbe stato meglio il morire che l'assistere allo sfacelo della famiglia… Che se poi gli veniva lo scrupolo di non aver saputo con un po' d'energia impedir la catastrofe, quale strazio doveva essere il suo!… E a quelle anime buone, a quella madre, a quel figliuolo che si sarebbero fatti a pezzi per lei, ella, Diana, in un'occasione simile, non avrebbe mandato, non avrebbe portato una parola di conforto? Portarla? Andar dunque dai Bardelli, incontrarsi con Eugenio, dopo la scena di ieri? scrivere invece?… Scrivere una delle solite lettere di condoglianza, accozzar le solite frasi contorte che non dicono nulla, mentre si può dir tanto con una stretta di mano, con una lacrima? E scrivere a chi? Alla signora Marianna? O che quei poveri occhi logorati dal piangere sarebbero stati in grado di decifrare una sillaba?… E se scriveva ad Eugenio come avrebb'ella potuto fingere che niente fosse accaduto fra loro? O come avrebbe potuto alludervi in una lettera non certo destinata a rimanere segreta?
Nella dirittura della sua mente, Diana prese il partito migliore, e nel pomeriggio, coricata Bebè che ogni giorno era messa a dormire un paio di orette, si recò in persona dai Bardelli.
Una vicina che la riconobbe in portineria la precedette per le scale, annunziò il suo arrivo, gettò lo scompiglio nelle donnicciuole che attorniavano la signora Marianna, pose in fuga Eugenio ch'era anch'egli presso la madre.
Questa volle alzarsi in piedi a ogni costo, raggiustò con un movimento istintivo la cuffia che ricadeva per indietro lasciando a nudo il suo cranio pelato, e sorretta da un'amica fece due passi verso la visitatrice e le si abbandonò fra le braccia singhiozzando.
Era un'ombra, una larva; così bianca come se le sue vene avessero dato tutto il loro sangue.
—Oh signora Varedo—ella gemeva,—che disgrazia, che disgrazia!… Ma dov'è Eugenio?… Era qui or ora. Credevo che le fosse venuto incontro…
E interrogava con gli occhi le femminette che s'eran tirate in disparte.
Una di esse mostrò l'uscio a sinistra.—È andato di là.
—Ma che venga dunque—ripigliò la Bardelli con la sua voce fioca.—Deve aver capito male… Quando saprà chi è… Chiamatelo, chiamatelo.
—Forse avrà da fare—disse Diana Varedo.—Non lo disturbino.
La signora Marianna s'ostinava.—No, no, lui stesso non mi perdonerebbe se non lo chiamassi… E poi è lui che ha la lettera… la lettera terribile… Vedrà, signora Diana, vedrà…
S'era rimessa a sedere, teneva, parlando, nelle sue mani la mano della
Varedo, di tratto in tratto un tic nervoso le scomponeva la faccia…
—È stato per quel calice… Oh, se il mio povero marito avesse potuto immaginare?… Ma Eugenio le dirà meglio… Ah, eccolo che viene…
Eugenio Bardelli apparve sulla soglia. C'era tanto dolore nel suo volto, c'era tanta trepidazione e tanto sgomento che Diana cedette senz'altro all'impulso del suo animo buono, e svincolatasi con dolcezza dalla madre si avvicinò con la destra tesa al figliuolo.
—Coraggio, Bardelli!
Egli quasi non credeva a se stesso. Gli perdonava ella dunque? Era disposta a dimenticare?
Egli rimase perplesso un istante; quindi prese la mano pietosa che gli si offriva e la portò alle labbra. La mano baciata era quella di ieri; era quella di ieri la bocca baciante; ma come diverso era il bacio! Non più caldo e fremente di passione repressa, ma discreto, ma rispettoso, ma timido… Diana sentì che tutto era finito.
—Coraggio!—ella ripetè.—Pensi alla sua mamma.
La vecchia Bardelli si voltò verso il figlio.—Dalle la lettera.
Eugenio esitava.—Perchè funestarla?
Ma l'altra insistette.—Oh la signora Diana è come una di famiglia… La signora Diana ci perdona… Lo sa che veniva in mezzo alle tristezze… Voglio che la veda quella lettera… lei che conosceva il mio Girolamo, che lo apprezzava… non è vero?
—Molto, molto—assentì Diana.
—Era più giusta di noi con quella santa creatura… che non ha fatto che del bene nella sua vita… e che anche morendo non ha una parola d'astio per nessuno—seguitava la signora Marianna logorata dall'ahi tardo rimorso di aver disconosciuto quel modello di figlio, di fratello, di artista.
Appoggiata ai bracciuoli della sedia, ella si chinava verso Diana che stava scorrendo la lettera consegnatale da Eugenio.
—Legga ad alta voce, signora Diana… se non le dispiace—supplicò la
Bardelli.—Io non posso… non posso vederci…
Bella invero e toccante, nella sua semplicità, era la lettera di Girolamo.—«Fin che ho creduto d'esser utile—egli scriveva—ho lavorato serenamente, ho serenamente vissuto con voi e per voi. Ora la mia testa è confusa, ora dubito, vivendo, di far più male che bene. Forse Paolo ha ragione, forse io ho usurpato diritti che non avevo, e sarebbe stato meglio per tutti di far delle divisioni nette sin dal principio. A ogni modo vi giuro, e tu, Eugenio, puoi assicurarne la mamma e il fratello, che alla resa dei conti e alle divisioni mi sarei prestato anche adesso se non ci fosse stato di mezzo quel calice che per sè solo rappresenta due terzi del nostro piccolo patrimonio e di cui per conseguenza bisognava privarsi. Non sapevo adattarmi all'idea che quel prezioso oggetto d'arte, quel gioiello del nostro Rinascimento, andasse in mano d'estranei, fuori d'Italia ove vanno tante cose nostre… Regalarlo al Museo era una pazzia, lo capisco… oltre che io non potevo regalare ciò che non apparteneva a me solo… e non dò colpa a Paolo s'è ricorso alle vie legali per impedirmelo… Ma a Paolo e a te, Eugenio mio, raccomando di tentare almeno che il compratore, se pur non vuol essere il Governo o uno dei nostri Musei, sia un Italiano. Ce ne sono ancora dei ricchi in Italia, i quali non dovrebbero permettere questa continua spogliazione del loro paese.
«Non lascio un centesimo di debiti. Nella cassaforte troverete 450 lire in biglietti di banca, un libretto della Cassa di risparmio con 1148 lire, e una cartella di duecento lire di Rendita. I pochi crediti sono registrati in un quaderno che c'è nella scrivania. Un altro libro, chiuso nella scrivania anch'esso, contiene l'inventario fatto in Gennaio. Le variazioni avvenute poi le desumerete dallo sfogliazzo che vi mostrerà Giovanni, il mio lavorante anziano.
«Di lui potete fidarvi come di me stesso. E con lui non vi sarà difficile intendervi per l'andamento della bottega. È buono, bravo, onesto allo scrupolo, vi farà patti convenienti.
«E ora un abbraccio a tutti. A te cara mamma, che mi perdonerai d'abbandonarti nella tua vecchiaia, a te, Eugenio mio, che diventi il capo della casa e che spero avrai presto la cattedra di Università che ti meriti; e anche a te, Paolo, a cui non serbo rancore, a cui auguro gloria e fortuna.
«Addio, addio, e rammentate con affetto e con indulgenza,
Il vostro
GIROLAMO».
Due volte Diana, profondamente commossa, aveva dovuto interrompere la lettura di questa lettera; due volte le preghiere insistenti della Bardelli l'avevano costretta a riprenderla.
Quando la sua voce malferma si fu spenta sulle ultime righe, la signora Marianna ebbe un nuovo accesso di disperazione. E fra pianti e singhiozzi incolpava sè del suicidio del figliuolo… Lei, lei era stata la vera causa, non Paolo che aveva ceduto ai cattivi consigli, ch'era esacerbato dalle ingiustizie del mondo e aveva la grande scusa del bisogno… Lei, lei che era la madre, che avrebbe avuto l'obbligo di ricordare i sacrifizi fatti da Girolamo per la famiglia, la sua bontà da bambino in su, la sua delicatezza, la sua pazienza infinita… Non una parola acerba mai, nemmeno se lo si rimproverava a torto; non un'osservazione amara, neppure durante la dolorosa questione nella quale ella gli si era messa risolutamente contro… Solo ieri, dopo una breve disputa in cui ella non aveva saputo tenere in freno quella sua maledetta lingua, egli, carezzandola, le aveva detto con dolcezza:—No, mamma, tu non dovresti parlarmi in questo modo.—Così si erano separati. Ella non lo aveva più visto… ella non lo rivedrebbe più… neanche morto… perchè lo avevano trasportato all'Ospedale e a lei non permettevano di andarci… C'era Paolo a levar la maschera… per scolpir poi il busto… Ecco quello che le sarebbe rimasto del suo Girolamo!…
Diana si strappò a fatica a quella scena straziante promettendo di tornar presto.
Timido, peritoso, Eugenio Bardelli la seguì sul pianerottolo. Non osava alzar gli occhi verso di lei, non osava formular la domanda che meglio avrebbe espresso il suo pensiero:—Mi ha perdonato?
Chiese invece, e gli parve una grande audacia:—Come sta Bebè?
—Così… Non come vorrei—sospirò Diana. E soggiunse:—Quando sarà più tranquillo, venga a vederla.
La fisonomia contraffatta del giovine professore si trasfigurò per un istante; per un istante egli scordò le sue pene, la tragedia domestica, le angustie dell'avvenire… Ella gli riapriva la sua porta, ella consentiva a gettare un velo d'oblìo sul passato…
—Grazie, grazie…
E Bardelli avrebbe voluto accompagnar Diana almeno fin giù delle scale, manifestarle la sua immensa gratitudine.
Ella lo fermò con un gesto.—No… La sua mamma l'aspetta.
Non gli lasciò tempo di replicare e si dileguò, rapidissima.
Ma, nel frastuono della strada, il vigore fittizio che l'aveva sostenuta fino allora l'abbandonò ad un tratto per dar luogo ad un senso di smarrimento e di prostrazione, ed ella si affrettò ad accettare l'offerta d'un fiaccheraio che, agitando la frusta e rallentando la corsa, le passò vicino con la sua vettura.
A casa, a casa! Già troppe ore n'era stata lontana in quel giorno, troppe ore era stata lontana dalla sua bambina… E quante emozioni da ieri in poi! E che soffio di tempesta aveva traversato la sua vita uguale, opaca, monotona!
Era la Provvidenza che aveva inspirato alla sua mamma di accorrer da lei in questo momento! Cara mamma! Care braccia amorose sempre pronte ad aprirsi! Caro porto sicuro ove le procelle si quietano!
Diana guardò l'orologio. Erano quasi le 4, e la corsa sarebbe arrivata poco dopo le 7.
Fra due doveri.
—Non è solo?—chiese Alberto Varedo al servo dell'onorevole San
Giustino che lo precedeva per annunziarlo.
Il San Giustino abitava in un piccolo quartiere al secondo piano in corso Vittorio Emanuele.
—Nossignore—rispose il domestico.—C'è con lui l'onorevole Zonnini con quel giornalista… Fraschetti, credo sia il direttore della Rupe Tarpea.
—Ah, Fraschelli?
—Appunto.
—Che seccatura!—pensò Varedo che avrebbe preferito discorrere a tu per tu col futuro ministro. Pur dissimulò la sua noia ed entrò nel salotto ov'erano riuniti i tre amici politici. Il direttore della Rupe Tarpea era sempre l'amico politico degli uomini in auge.
—Che buon vento?—disse San Giustino.
S'erano lasciati da due sole ore, dopo un lungo colloquio in una delle sale di Montecitorio.
—Non è un buon vento, pur troppo—replicò Varedo.
—Oh, oh!… Qualche cattiva notizia di casa vostra?… La bambina s'è aggravata?
I conoscenti di Alberto sapevano che la sua figliuola era inferma.
—Mi arriva questo telegramma. Leggete.
E il professore consegnò a San Giustino un dispaccio di poche parole:—Condizioni peggiorate. Giraldi inquieto. Parti subito. Diana.
—Però la vostra signora è apprensiva?—soggiunse San Giustino, restituendo il foglio.
—In quanto a questo sì… Non per sè, ma per la bimba… Apprensiva al massimo grado.
—E allora è probabile che esageri—osservò Zonnini.
E Fraschelli, tanto per dir qualche cosa, spifferò questa sentenza peregrina:—Quando si tratta dei loro figliuoli le mamme esagerano sempre.
Alberto Varedo tentennò il capo.
—Vorrei che fosse così anche questa volta… ma perchè mia moglie mi avrebbe telegrafato proprio stasera sapendo che avrei da parlare domani alla Camera?… Perchè, se non ci fosse un'urgenza?
—Le donne, caro amico—ripigliò San Giustino,—certi riguardi non li capiscono… Io ho avuto la disgrazia di perder la mia ancora giovane e la ricordo e la rimpiango… Credo tuttavia che con lei la mia carriera politica sarebbe stata troncata a mezzo… Quello che mi ha tempestato di lettere e di dispacci una volta che la nostra primogenita ammalò di morbillo! Pareva che una catastrofe fosse imminente… Io ebbi la debolezza di darle retta; abbandonai la capitale, piantai in asso il Parlamento, gli uffici, due commissioni che dovevo presiedere, corsi in Toscana nella nostra villa e trovai la mia figliuola già in piedi… ciò che non toglie che la mia signora consorte mi strapazzasse come un cane perchè non ero arrivato prima… Ell'aveva una scusa, ell'era sola, in una campagna fuori di mano… Vostra moglie invece è in una grande città, ha compagnia…
—Ha sua madre e suo zio… Ho pregato apposta mia suocera di andar a
Torino.
—Vedete bene!—soggiunse il vedovo rassegnato con un accento che suonava amaro rimprovero all'egoismo di Diana Varedo.—Vedete bene!… A ogni modo, non è possibile che partiate subito.
—Veramente quest'era la mia intenzione…
—Di partir subito? Stasera?… Se non c'è una corsa?
—Per la Maremmana è tardi, lo so… Quando è capitato il telegramma… forse, con un buon cavallo, volando, sarei potuto giungere in tempo alla stazione… Forse… non ne son neanche sicuro… E poi come partirei senza che ci fossimo scambiati due parole?… Adesso potrei prendere la via di Bologna.
—Parte alle 23,10—notò Zonnini.
—Siete matto?—esclamò San Giustino.—Una corsa eterna che sarebbe a Torino domani alle sette pomeridiane… Via, non ci pensate nemmeno… meno… Partirete domani sera… Anche se non ci sarà stato il voto… pazienza… Avrete fatto il vostro discorso, svolto il vostro ordine del giorno… Se no, chi lo svolge?… Voi, Zonnini, siete il secondo firmato… Toccherebbe a voi…
L'idea di dare il gambetto al suo carissimo amico non era lungi dal sorridere al buon Zonnini; però egli fece il modesto e il ritroso.
—Per carità, allontanate da me questo calice… Non si renderebbe un servizio al partito… Io non ho l'eloquenza di Varedo… Certo che se fosse assolutamente necessario, mi sacrificherei… Ma sarebbe una tegola che mi casca sul capo.
Quanto più Varedo s'accorgeva che Zonnini sarebbe stato disposto a sacrificarsi, tanto maggior riluttanza egli provava a spianargli il cammino.
—Vedremo—egli sospirò.—Capisco che prima di domattina non mi converrebbe di partire… Intanto spedirò un telegramma.
—Naturale… Usciremo insieme, se non vi dispiace—propose San
Giustino.
—Ma scusa—disse Zonnini a Varedo,—che tu parta stasera o domattina, se non vieni domani alla Camera per me è lo stesso. Bisogna ch'io lo sappia.
—Te lo farò sapere, diamine.
—Presto.
—Prestissimo. Magari con un telegramma.
—Me ne incaricherò io—dichiarò San Giustino.—Ma non partirà, non partirà.
Ormai erano discesi tutti e quattro in istrada.
—Io volterei verso Ponte Sant'Angelo—disse Varedo.—Imposterò il mio dispaccio alla succursale di Borgo Nuovo.
—Vengo anch'io volentieri da quella parte—soggiunse San
Giustino.—S'incontra meno gente.
Ma Zonnini e Fraschelli erano dispiacenti di dover prendere la direzione opposta.
—C'è questo demone tentatore—spiegò Zonnini accennando al giornalista—che vuol condurmi all'Alhambra, a veder la rivale di Venere.
Fraschelli protestò.—Non gli date retta. Ne ha più voglia lui di me… Ci va tutte le sere.
—Che esagerazioni! Ci fui due volte… Ma vi assicuro io ch'è un bocconcino…
A commento delle sue parole, l'onorevole Zonnini portò la mano alla bocca e si baciò le punte delle dita.
—Basta; tu Varedo, hai ben altro pel capo, e poi, si sa, sei un puritano. Di San Giustino è in un momento in cui tutti gli occhi son fissi sopra di lui e non deve prestar il fianco alle malignità… Se no, insisterei perchè ci faceste compagnia… È un vero godimento estetico…
—Addio, addio, capiscarichi.
—Buona sera, Varedo—gridò Zonnini, e Fraschelli gli fece eco,—ti auguro di ricevere migliori notizie da Torino.
—Grazie, buona sera.
—Ecco il ristoratore del sentimento religioso—disse Varedo a San
Giustino appena furono soli.
—Bah, Zonnini è un furbo che sente di dove il vento spira.
—Se partissi domattina alle 8—ripigliò Alberto—sarei a casa prima di mezzanotte.
—Ma no, ma no—insisteva San Giustino—non potete partire che domani sera.
Era una bella notte estiva, un po' fresca come sogliono esser le notti di Roma. I due camminavano frettolosi; solo quando furono sul Ponte Sant'Angelo rallentarono alquanto il passo.
Gonfio per le pioggie recenti, il Tevere s'ingolfava con un rumore cupo sotto le arcate; torreggiava di fronte, quasi in atto di minaccia, la mole Adriana; a sinistra, slanciandosi altera fuor del viluppo degli edifizi minori, s'ergeva la cupola di San Pietro; la curva del Gianicolo si protendeva con netti contorni sul cielo limpido, senza luna; qua e là, mobili o fissi, brillavano piccoli punti luminosi.
—È pur suggestiva questa Roma—notò San Giustino.
Varedo fece un segno d'adesione, ma il suo pensiero era altrove.
—E dire che tutta quanta la colpa è di questo sciagurato Ministero il quale non ha mai avuto un lampo d'ingegno, non ha avuto altro che una qualità (se si può chiamarla tale), quella di saper menare il can per l'aia.
—È vero—rispose San Giustino che non intendeva bene.—Ma, scusate, la colpa di che?
—La colpa del bivio terribile in cui mi trovo—ripigliò Alberto con impeto.—Non siamo qui da più di due settimane? Non si doveva spicciarci subito?… Oh sì, il Ministero è riuscito a guadagnare ancora otto o dieci giorni… Con che frutto poi? che la caduta è forse meno sicura? Solo che invece d'esserne fuori, si è proprio oggi al momento critico, e io sono in questa bella situazione: che, se resto, manco ai miei obblighi verso la famiglia, se parto, manco a quello verso me stesso, verso i principî, verso le idee che sostengo, che desidero di far trionfare.
Era buio, e San Giustino, scettico amabile, poteva liberamente sorridere. Più che della ingenua sfuriata contro il Ministero temporeggiatore egli sorrideva di quell'allusione superba di Varedo alle idee da far trionfare. O che si va al potere per questo?
—Partendo domani sera voi concilierete ogni cosa—egli disse.—Del rimanente, a dispetto del Ministero, voi avreste fatto il vostro discorso e la Camera avrebbe già dato il suo voto, se, al solito, non si fossero avuti troppi oratori… Anche dalla nostra parte, Dio buono, quanta eloquenza!… Quanti aspiranti a un portafoglio o a un sottosegretariato!… Come contentarli tutti?… E gli scontenti non tarderanno a diventare avversari.
—È ignobile.
—Non lo nego… E non nego che vi saranno eccezioni… Voi, per esempio, non ne dubito… Però, siate sincero, o che non mi serbereste rancore se dessi a Zonnini o a un altro il posto che ho promesso a voi?…
Varedo si voltò bruscamente.—Scusate… Questo non c'entra… Qui c'è una promessa.
—Lo so, e volevo scherzare.
San Giustino non aveva parlato a caso. Il miglior modo di trattenere Varedo era quello di ricordargli che fra i suoi cari amici ce n'era più d'uno pronto a levargli la polpetta di bocca.
All'Ufficio di Borgo Nuovo, Alberto Varedo spedì un lungo telegramma a sua moglie. Diceva che il dispaccio di lei non gli era giunto in tempo da permettergli di prender il diretto di quella sera, che i colleghi lo scongiuravano di assistere alla importantissima seduta di domani alla Camera e di svolgervi il suo ordine del giorno, che sarebbe partito domani sera al più tardi. In ogni modo si sarebbe regolato sulle ulteriori notizie che pregava di fargli aver subito e che sperava migliori.
—Va bene così?—egli chiese a San Giustino mostrandogli la minuta.
—Benissimo. E fatevi animo. Il diavolo non sarà tanto brutto come pare.
Poich'erano in via e non avevano voglia nè l'uno nè l'altro di rincasare, si spinsero fino a San Pietro, discorrendo animatamente di politica, facendo il computo dei voti pei quali il Ministero sarebbe stato battuto, almanaccando sulla maggiore o minor probabilità di risolver presto la crisi. Sicuro di ricever l'incarico dal Sovrano, San Giustino aveva già il suo bravo Gabinetto in pectore, ma egli era troppo pratico dell'ambiente parlamentare da non temer gli ostacoli, le sorprese, le insidie dell'ultima ora.
La vasta piazza era quasi deserta; pochi fiacres immobili erano allineati a destra e a sinistra lungo il colonnato del Bernini; nel gran silenzio s'udiva solo la voce liquida, monotona, delle due fontane i cui zampilli ricadendo a terra spargevano intorno come un pulviscolo acqueo.
—Si sta più freschi qui—disse San Giustino fermandosi tra l'obelisco e una delle fontane.
Alberto Varedo levò gli occhi verso il Vaticano.
—Ecco la forza.
Di San Giustino lo guardò.—Siete un convertito?
—Non mi fraintendete… La forza d'inerzia, una delle più formidabili che ci siano. Aver dietro di sè una tradizione di diciotto secoli; per diciotto secoli aver bandito gli stessi dogmi, aver ripetuto, con poche varianti, le stesse parole, aver detto audacemente alle generazioni che si succedono:—Noi siamo la salute, noi siamo la luce, ecco la potenza vittoriosa, inespugnabile della Chiesa…. Anche una menzogna ribadita per diciotto secoli diventa, agli occhi di molti, una verità… Noi, che militiamo nell'altro campo, siamo più leali e sinceri negando l'esistenza d'una verità assoluta, immutabile, sostenendo il principio dell'evoluzione; ma le nostre schiere si sgretolano, ma non avremo mai intorno a noi un esercito compatto, disciplinato come quello che ci sta di fronte.
—Credete dunque che la Chiesa finirà col vincere?
—Ah no. Non vincerà nessuno… Noi non costruiremo nulla di solido, di durevole, ma non saremo vinti per questo. Nè noi, nè loro. Nessuna tendenza dello spirito umano può esser vinta. Non quella che porta verso la fede e s'appaga d'una certezza comunque ottenuta, non quella che ricerca e che dubita e si gloria delle sue affannose inquietudini. Sarà una lotta lunga quanto il mondo.
—Caro Varedo—interruppe San Giustino tra serio e scherzoso,—voi parlate d'oro ma vi raccomando di non dir queste cose domani alla Camera. Fareste arricciare il naso a più di qualcheduno… in tutti e due i campi. E non dimenticate che il nostro dovrebb'essere un Ministero conciliativo.
—La politica a base di puntigli e dispetti, le guerricciuole meschine non piacciono neppure a me—replicò Alberto Varedo.—E poi non giova esasperare i nemici che non si possono spegnere.
Chiacchierando così, ritornarono sui loro passi. Di San Giustino accompagnò Varedo fino all'albergo di Santa Chiara.
—Procurate di riposar qualche ora—gli disse nel prender commiato—e ricordatevi che per domani facciamo assegnamento sopra di voi… No, non voglio fermarmi sull'ipotesi che siate costretto a partir domattina… E, in qualunque caso, badate di non partire senza che ci siamo rivisti… Non abbiate riguardi, potete passar da me alle sei, alle cinque, quando vi piace… Se non vi vedo prima delle sette e mezzo è buon segno, e ci troveremo più tardi a Montecitorio.
Alberto Varedo andò a letto ma non dormì. Per quanti sofismi egli accumulasse, la sua coscienza non era tranquilla. Il suo posto non era a Roma, non era in Parlamento, era a Torino presso sua moglie, presso la sua piccola Bebè. Da oltre a due settimane egli l'aveva lasciata pallida, malaticcia, simile a una pianta che intristisce miseramente, e dopo d'allora non era stata mai bene, nè mai egli aveva ricevuto da Diana o dalla signora Valeria una lettera che gli concedesse d'aprir l'animo a liete speranze. E più d'una volta l'intonazione di quelle lettere gli era parsa amara, più d'una volta egli vi aveva trovato un'allusione alla sciagurata politica che lo teneva lontano; non lo si richiamava però, si era rassegnati a vederlo rimanere a Roma sino al termine della battaglia parlamentare… Che cosa era accaduto nella giornata di ieri, da un momento all'altro? Che cosa aveva indotto Diana a telegrafargli? Era stata un'ispirazione sua? O un suggerimento del medico? Se Giraldo aveva consigliato il dispaccio, le condizioni della bimba dovevano esser ben gravi!… E allora perchè non usare un linguaggio più esplicito? Perchè non dire:—C'è pericolo imminente. La tua presenza è indispensabile?
Ma, in fin dei conti (e di nuovo Varedo s'arrampicava sugli specchi per giustificare la propria condotta) aveva egli forse risposto con un rifiuto? No, aveva chiesto una breve proroga di ventiquattr'ore per compiere il suo ufficio di cittadino, di deputato, di uomo al quale il vigor dell'ingegno, la tenacità dei propositi, la serietà degli studi assegnavano una parte cospicua nella vita del suo paese. Questo a casa sua non volevano intenderlo; non volevano intendere che vi sono obblighi pubblici sacri quanto i privati e che il venirvi meno è colpa e viltà.
Nella notte insonne tornavano in mente a Varedo i passi principali del suo discorso, frutto di lunghe meditazioni, destinato, se non lo illudeva l'orgoglio, ad allargar gli angusti orizzonti della politica italiana, a sollevarla dalle miserie parlamentari, ad additar forse lui, Alberto Varedo, come un possibile rinnovatore della coscienza nazionale. A nessuno, neanche a San Giustino, egli aveva comunicato tutti i punti salienti di quella arringa; egli ne serbava le primizie alla Camera di dove la sua voce, udita dai colleghi, raccolta dagli stenografi, sarebbe volata lontano… E ora, alla vigilia del suo trionfo, egli avrebbe disertato il campo? Avrebbe lasciato che Zonnini parlasse in vece sua? Che impicciolisse le questioni con quel suo spirito di stenterello?… Varedo si rifiutava a fregiar del nome di emulo questo Zonnini leggero, superficiale, che aveva inforcato per snobismo il cavallo delle idealità religiose, e mentre pretendeva ristorar la fede in Italia frequentava assiduo i cafés chantants e correva dietro a tutte le cocottes di Roma… In verità, se non sorgevano rivali più formidabili!… Però qualche volta anche i mediocri, se le occasioni li favoriscono, fanno un buon tratto di via e sarebbe stata per Zonnini una gran bella occasione quella di potere, in una giornata memorabile, prendere alla Camera il posto di Alberto Varedo…
Prima delle cinque Alberto era in piedi, meravigliato di non veder giungere altre notizie da Torino, incerto sul significato da darsi a questo silenzio. Aveva aperto la finestra, e ogni tanto si affacciava al davanzale, guardando nella via di Santa Chiara ancora buia e deserta.
E pensava: Veglieranno essi pure laggiù…. Veglieranno accanto a una culla…. Diana, mia suocera, forse lo zio Gustavo che deve voler molto bene a sua nipote, se, nonostante la sventura che l'ha colpito, ha rinunziato al suo viaggio in Francia e in Inghilterra per restare in mezzo alle malinconie della mia casa… Veglieranno tutti… chi sa che non ci sia Giraldi con loro… mandato a chiamare in fretta…
L'aria frizzante della mattina gli metteva dei brividi addosso: l'ora grigia lo disponeva ai tristi presentimenti. Varedo si ricordava d'aver letto che sul far dell'alba è maggiore la depressione nervosa degli organismi, maggiore quindi il numero delle morti… Se adesso, appunto adesso, la sua Bebè?… Ma no, ma no, perchè accoglier queste lugubri idee, perchè disperare?… Ecco il sole rischiarava già i comignoli delle case, rigava di una striscia luminosa le cornici e gli sporti; in alto il cielo si tingeva d'azzurro; il giorno s'annunziava pieno di liete promesse agli uomini; perchè sarebbe stato apportatore di sventura a lui solo?
Da Piazza della Minerva, da Piazza del Panteon veniva il rumore di qualche carrozza; qualche pedone attraversava la via solitaria di Santa Chiara. A ogni passo che Varedo sentiva avvicinarsi, il sangue gli dava un tuffo.—Sarà il fattorino del telegrafo.
Le cinque e mezzo, le sei, le sei e mezzo… Nessuno…. Ormai la città era svegliata; come acqua che uscendo da' suoi serbatoi si riversa per mille rigagnoli, da per tutto si spargeva la vita.
L'onorevole finì di vestirsi.—Che faccio?—egli chiedeva a sè stesso.—Se per le sette e mezzo non mi capita nessun telegramma parto o rimango?…
E non sapeva decidersi, e si crucciava con quelli di Torino che lo lasciavano in queste ambasce. Egoisti! Egoisti!
Zitto! Qualcheduno sale le scale, qualcheduno s'inoltra nel corridoio, s'arresta all'uscio, picchia.
—Avanti!
Varedo, pallidissimo, strappò dalle mani del telegrafista il dispaccio e lo aperse con dita tremanti. Quando alzò gli occhi dal foglio, vide che il fattorino era immobile in mezzo alla stanza, aspettando.
—Ah,—disse il deputato.—Scusate.
Firmò rapidamente la ricevuta, la consegnò con pochi soldi di mancia, e rilesse:
Condizione stazionaria, sempre grave. Parti appena puoi.
Ahimè, il dispaccio non recava nessuna parola confortatrice. E tuttavia in quella frase appena puoi, Varedo credette scorgere un tacito assenso alla sua dichiarazione che sarebbe partito la sera, perchè prima non poteva. Se una vera urgenza ci fosse stata, sua suocera (perch'era lei e non Diana che gli telegrafava) avrebbe usato un diverso linguaggio. Inoltre la condizione, benchè sempre grave, si dipingeva come stazionaria; dunque ci era una tregua, un respiro; c'era ancora tempo da lottare, da resistere…
Dopo qualche altra piccola esitazione, il nostro onorevole decise di rimaner tutta la giornata a Roma e di fare il suo discorso alla Camera; poi senza indugi ulteriori, e quand'anche avesse avuto migliori notizie, si sarebbe messo in viaggio per Torino col direttissimo delle 20,50.
Formati ch'ebbe questi propositi nella mente, egli corse all'ufficio centrale, telegrafò a San Giustino per dirgli che restava, telegrafò a casa sua annunziando il suo arrivo per le 10,25 dell'indomani, e pregando di fargli avere ancora un dispaccio a Roma prima di sera.
Così gli parve d'esser in pace con la sua coscienza, gli parve d'aver acquistato il diritto d'astrarre per poche ore dalle sue angustie domestiche e di consacrar tutte le forze dell'ingegno e dell'animo a ciò che in quel dì memorabile si attendeva da lui.
Strada facendo, egli comperò i giornali del mattino. Tutti quanti, favorevoli e avversi, accennavano all'aspettazione vivissima che c'era nei circoli parlamentari pel suo discorso; solo la Rupe Tarpea conteneva questa noticina:
«Abbiamo visto iersera il nostro amico, onorevole Varedo, molto inquieto circa alla salute di una sua bimba, ammalata a Torino. Egli ci diceva che, ove non avesse avuto nella notte notizie migliori, sarebbe partito questa mattina rinunziando a parlare oggi alla Camera. In questo caso, che vivissimamente auguriamo non abbia ad avverarsi, il noto ordine del giorno sarà svolto dall'altro egregio amico nostro, onorevole Zonnini».
—Ah—esclamò Alberto Varedo—è lui, non c'è dubbio, è Zonnini che ha inspirato questo entrefilet. È lui che si prepara garbatamente il terreno… Ma l'uva non è matura, carino.
I conoscenti che lo incontravano per via lo fermavano.
—Dunque non parti? Dunque hai ricevuto migliori notizie?
Ed egli era costretto a rispondere:—Pur troppo la condizione è sempre gravissima… C'è una sosta, ecco… Partirò stasera a ogni modo…
—Ma lo fai il discorso?
—Sicuro; rimango appunto per questo… Mi pareva d'aver assunto un impegno morale… Ah, beati quelli che stanno fuori della vita pubblica!
Altri insistevano per aver biglietti.
—Onorevole, onorevole, se potesse favorirmi due bigliettini, uno per me e uno per mia moglie?… La mia signora non va mai alla Camera, ma quando ha saputo che deve parlare l'onorevole Varedo ha dichiarato subito che non voleva perder l'occasione di sentir uno dei nostri primi oratori.
—Sarà una grande delusione—notava, modestamente, Varedo.—Io sono sempre un oratore di seconda o di terza categoria. Si figurino oggi! Con questo tarlo che mi rode.
Quanto più presto potè, e dopo aver dato l'ordine che gli portassero a Montecitorio i dispacci che arrivassero per lui, Alberto Varedo si rifugiò nella biblioteca della Camera ad attendervi l'ora della seduta.
Un intermezzo glorioso.
Nonostante il caldo, l'aula di Montecitorio presentava quello che i giornalisti dicono un aspetto imponente. C'erano bensì, durante la lettura del processo verbale, parecchi vuoti nei vari settori, ma si sapeva che i deputati erano sparsi nei corridoi, e avrebbero preso il loro posto al momento opportuno. Gremite erano le tribune; così quella della stampa e la diplomatica come quella riservata al pubblico; due dame di Corte erano nella tribuna reale. E le signore, in eleganti toilettes estive, abbondavano. Mogli e figliuole di senatori e di deputati, donne politiche e semplici curiose, forestiere di passaggio per Roma, attratte dal desiderio di veder la Camera italiana e di assistere a quell'interessante spettacolo che si chiama la caduta di un Ministero.
Poichè sulla crisi non c'era dubbio, e il Gabinetto combatteva puramente per l'onor delle armi.
Nei crocchi femminili, dall'alto, si additavano i morituri. Il Presidente del Consiglio vecchio e floscio benchè gli scintillassero ancora sotto le lenti gli occhietti furbi; il Ministro della guerra troppo grasso; il Ministro della marina troppo magro; quello del tesoro troppo mastodontico quasi avesse ingoiato il collega delle finanze che infatti non era presente perchè indisposto; il Guardasigilli troppo negletto nel vestire e come tale poco indicato a regger un dicastero che s'intitola di grazia e giustizia; solo i titolari degli esteri, dei lavori pubblici, dell'agricoltura e commercio, delle poste e telegrafi avevano l'aria comme il faut, e avrebbero meritato di salvarsi dalla catastrofe.
Ma quando il Presidente disse: l'onorevole Varedo ha la parola, il cinguettìo delle tribune cessò: solo si udì quel bisbiglio caratteristico ch'è segno d'intensa aspettazione e precede i grandi raccoglimenti. Nell'aula gli scanni ancor vuoti si empirono quasi tutti, parecchi deputati scesero nell'emiciclo per esser più vicini all'oratore.
Alberto Varedo cominciò con una discreta allusione alle sue angustie domestiche che alla Camera non fece nè caldo nè freddo, ma gli conciliò la simpatia di buona parte del pubblico.
Solo un supremo dovere lo induceva oggi a parlare, solo la convinzione profonda che vi siano momenti nei quali chi ha accettato un ufficio non possa, per sue private ragioni e per quanto il cuore gli sanguini, in alcun modo sottrarvisi. Il più sacro degli affetti umani lo chiamava altrove e certo egli avrebbe risposto all'appello; non prima però d'aver sciolto l'obbligo ch'egli primo firmatario dell'ordine del giorno, aveva assunto verso gli amici, verso il partito, verso sè stesso.
Ed egli proseguì dicendo che quantunque l'ordine del giorno si limitasse a esprimere sfiducia assoluta verso il Gabinetto, egli credeva d'interpretare, oltre al proprio, anche il pensiero degli amici suoi affermando ch'essi miravano a un fine molto più alto che non fosse quello di dar l'ultimo colpo ad uomini personalmente rispettabili ma politicamente già morti. E forse appunto perch'egli li considerava morti consacrò dieci minuti a farne l'autopsia rilevando tutte le malattie mentali da cui erano afflitti e provocando gli applausi e l'ilarità dei vari gruppi dell'opposizione. Ma questi, egli ripetè, non erano che esercizi da sala anatomica, e il paese voleva ben altro che la critica degli errori passati.
Dopodichè, l'oratore si elevò a un esame sereno e obbiettivo della situazione presente, ne additò i pericoli economici, politici, sociali; le istituzioni insidiate, perfino il concetto dell'unità e della libertà della patria affievolito nelle coscienze; ogni disciplina dello spirito scossa; ogni più formidabile problema gettato in pascolo alle moltitudini analfabete; ogni decoro prostituito dinanzi ai due idoli della giornata, il danaro e la folla.
Era un conservatore che parlava, e le sue sferzate contro le aberrazioni demagogiche suscitavano qualche mormorio sui banchi della montagna, ma egli riebbe il favore dell'intera sinistra stigmatizzando le cosidette classi dirigenti che nulla dirigono e di nulla si curano tranne che di accumulare e di goder la ricchezza, e mendicano croci e trafficano titoli nobiliari, e costituiscono a poco a poco una nuova aristocrazia che della vecchia ha i vizi e non le virtù.
Indi Alberto Varedo proclamò la necessità d'una riforma morale che nessun Governo può operare, ma che un buon Governo può agevolare se comincia a dar l'esempio della probità e dell'austerità, se non vizia le elezioni, se non corrompe i suoi funzionari, se non cede ai sollecitatori, se non promette ciò che non può mantenere, se non induce negli animi il sospetto che la giustizia sia un nome vano, se colpisce pronto gli abusi, se onora i degni e prostra gli abbietti, se rinuncia a viver di sotterfugi e d'intrighi.
Uno scroscio d'applausi salutò le generose parole. Non applaudivano solo i puri, i sinceri, gli ingenui: quelli ch'erano stati a vicenda corruttori e corrotti, quelli che avevano sollecitato e ottenuto, quelli che avevano promesso e fallito agl'impegni, quelli che avevano mercanteggiato il voto, quelli che si erano inchinati alla viltà trionfante, quelli che, potendo, avrebbero rinnovato domani gli errori e le colpe di ieri, applaudivano con più calore degli altri.
Al sommo d'una delle scalette che scendono nell'emiciclo comparve un usciere di servizio con un dispaccio in mano. E accennava a dirigersi verso il banco di Alberto Varedo, ma ristette vedendo che il discorso non era ancora finito, e, a un deputato che lo interrogava con lo sguardo, disse a bassa voce:
—C'è un telegramma d'urgenza per l'onorevole Varedo.
—Or ora—rispose piano il deputato. E gli fece segno d'attendere.
Varedo concludeva intanto la sua arringa con una perorazione a cui la brevità non toglieva efficacia.
—Sì, l'Italia domanda un Ministero che abbia un programma di Governo e sappia attuarlo. Ma se questo non fosse consentito dalla malignità dei tempi, sarebbe già un gran passo verso la rinnovazione morale che tutti invochiamo l'aver su quei banchi un gruppo d'uomini irrevocabilmente decisi a cader con la propria bandiera (bravo, benissimo). Voi che delle bandiere ne avete agitato una mezza dozzina (ilarità fragorosa), voi che per prolungare una tisica esistenza avete innumerevoli volte mutato idee, amicizie, indirizzi (bene) voi dovete rassegnarvi ad abbandonare ingloriosamente quel posto che sarebbe stato meglio per la vostra fama e per noi non aveste mai occupato.
Tranne i pochi rimasti fedeli al Ministero, tutti i deputati si levarono ad acclamar l'oratore.
—La seduta è sospesa per dieci minuti—disse il Presidente. E soggiunse per ossequio al regolamento:—Prego le tribune di far silenzio.
Intanto i colleghi si affollavano con braccia aperte o con mani tese intorno a Varedo, prodigando gli epiteti ammirativi.
—Splendido!
—Superbo!
—Stupendo!
—Tanto più terribile quanto più misurato.
—Come li hai bollati!
—Che chiusa!
—Tutto, tutto era bello.
Le congratulazioni di San Giustino e di Zonnini non erano le meno calorose, quantunque il primo trovasse che il suo collaboratore aveva avuto torto a far un discorso da Presidente del consiglio, e il secondo, invidiosetto per sua natura, giudicasse in cuor suo l'eloquenza di Varedo un po' vuota ed enfatica. Magnifiche frasi, chi lo nega? Ma sotto il brillante involucro, che cosa c'è?
Comunque sia, e San Giustino e Zonnini si guardarono bene dal lasciar trasparire i loro intimi sentimenti.
—Bravo!—disse il capo preconizzato del futuro Gabinetto.—Avete avuto una delle vostre migliori giornate.
—Quando si parla così—seguitò Zonnini—non è permesso di cercar sostituti… Sarai contento del tuo trionfo.
—Eh, miei cari—replicò Varedo—io vi ringrazio dal fondo dell'anima, ma non posso pensare a quello che voi chiamate il mio trionfo… Sono sulle spine… Dopo questa mattina non ho ricevuto altre notizie di casa mia…
Di San Giustino principiò:—Nessuna nuova…
Ma dovette interrompersi alla vista dell'usciere che s'era fatto coraggio e s'insinuava tra i deputati biascicando:—Con permesso, con permesso… Un dispaccio per l'onorevole Varedo.
—Ah—disse questi scartando bruscamente i vicini e afferrando il telegramma.
Un gran silenzio successe alle congratulazioni clamorose di prima. Dalle tribune qualche signora sporgendosi con mezza la persona, guardava curiosamente in giù.
Varedo lesse, impallidì, e con faccia stravolta si slanciò fuori dell'aula seguito da San Giustino, da Zonnini e da altri intimi.
—Morta?—si arrischiò a chiedere San Giustino.
—No, ma è lo stesso… E prima di stasera non c'è una corsa… E prima di domani alle 10.25 non posso essere a Torino… Fatemi la grazia, consultate gli orari… Se ci fosse modo di anticipare… per la via di Sarzana e Parma… che so io?… Ah perchè, perchè non mi avete lasciato partire?
Zonnini ebbe un'impercettibile scrollatina di spalle.
Gl'indicatori ufficiali delle ferrovie, sfogliati in ogni senso, non davano un responso favorevole. Ormai non c'era altra corsa da prendere che quella delle 20.50.
I campanelli elettrici tintinnavano in tutte le sale di Montecitorio chiamando a raccolta i deputati.
—Andate, andate—insisteva lo stesso Varedo.—La seduta ricomincia.
La Camera è impaziente, e forse si voterà oggi.
—Se c'è il voto, dobbiamo farti avvertire?
—No, il mio voto non conta… Il Ministro avrà contro di sè una maggioranza enorme… E io passerò all'albergo per gli ulteriori preparativi… Addio, addio… e grazie… Scusate, che ore sono?
—Quasi le cinque.
—È già tardi… Non ho tempo da perdere.
—Ci rivedremo a ogni modo alla stazione… Se si vota oggi ci sarà un assalto ai treni.
—Mi raccomando—ripigliò Varedo.—che la stampa non dia notizie inesatte… Pur troppo non ho illusioni, ma la catastrofe non è ancora successa.
In fatti il telegramma, spiegato sul tavolino, diceva soltanto:
Le cose precipitano. Nessuna speranza. Non tardare di più.
Continuava il disperato appello dei campanelli elettrici.
—Andate, andate.
Nell'uscir da Montecitorio dopo aver, dall'ufficio stesso del Parlamento, spedito alcuni dispacci, Alberto Varedo non potè evitare lo sciame infesto dei reporters, petulantemente ossequiosi e curiosi.
—Onorevole, che successo!
—Onorevole, ci permetta di stringerle la mano.
—Onorevole, che fortuna sarebbe se alla Camera parlassero solo quelli che parlano come lei!
—Onorevole, ed è vero ch'ella parte subito?
—Per la ragione già accennata dalla Rupe Tarpea?
—Dev'essere molto piccola la sua bimba.
—Ed è un pezzo ch'è ammalata?
—E che male ha?
Ah, dover rispondere a tutti questi indiscreti, dover almeno trovar per tutti una parola garbata, non poter chiuder loro la bocca quand'essi vogliono penetrare nel vostra santuario domestico, scrutare i moti del vostro cuore, che supplizio, che umiliazione! E come sbarazzarsene, Dio buono, se appartengono anch'essi alla razza
degl'imi che comandano ai potenti,
e l'averli ostili significa spesso inimicarsi i giornali ch'essi infiorano della loro prosa di studenti bocciati?
Da Roma a Torino.
—La Tribuna con la caduta del Ministero.
Questo grido caro al suo orecchio aveva accolto l'onorevole Varedo nell'atto di montare in fiacre per recarsi alla stazione, e lungo tutta la via, in mezzo al brulichìo della folla, in mezzo al rumore delle vetture e dei tram, da cento voci di ragazzi e d'adulti, egli aveva sentito ripetere:
—La Tribuna con la caduta del Ministero.
Anch'egli aveva comperato un numero del giornale e alla fioca luce del crepuscolo vi aveva letto il resoconto della seduta, scorrendo rapidamente il sunto abbastanza esatto del suo discorso, e soffermandosi in particolar modo sugli incidenti successi poi: l'impazienza febbrile della Camera; le poche, incisive, efficacissime parole di San Giustino: le confuse dichiarazioni balbettate dal Presidente del Consiglio, Crugnoli, le grida di basta, basta, ai voti; la votazione nominale infine, che nonostante una cinquantina di astensioni, aveva dato una maggioranza schiacciante contro il Gabinetto, e l'esito della quale aveva provocato una salva d'applausi, raddoppiati d'intensità quando Crugnoli annunziava ufficialmente la crisi con le frasi di prammatica:—Il Ministero si riserva di prender gli ordini di Sua Maestà.
Sotto la rubrica Ultime notizie, il giornale si scusava di non poter, per l'ora tarda, diffondersi in ampi commenti, e si limitava a constatare il successo trionfale dell'onorevole Varedo, il cui discorso aveva superata l'aspettativa che pur era grandissima.—Le sorti del Gabinetto erano già decise—soggiungeva la Tribuna,—ma è certo che la poderosa requisitoria dell'onorevole deputato di… vinse molte perplessità e rinforzò di parecchi voti l'opposizione.
Alcune righe più basso e proprio in fondo alla terza pagina, si leggeva in caratteri cubitali:
«Secondo le informazioni che ci giungono al momento di andare in macchina, i Ministri appena sciolta la seduta si sono recati al Quirinale per rassegnare le loro dimissioni che non si dubita saranno accettate da Sua Maestà. Tutto fa prevedere che la crisi sarà di breve durata. Qualche amico intimo dell'onorevole Crugnoli afferma ch'egli stesso indicherà al Sovrano l'onorevole di San Giustino come l'uomo voluto dalle circostanze».
In Piazza di Termini l'onorevole Varedo ripiegò il foglio e lo ripose in tasca. Omnibus d'albergo, tram, vetture di piazza e vetture private convergevano da ogni parte verso la stazione che, ormai illuminata, spiccava bianca sul fondo grigio del cielo crepuscolare. Nel Piazzale dei Cinquecento numerosi capannelli discutevano intorno alla crisi; qualche cittadino, che aveva comperato il giornale della sera ne perlustrava le fitte colonne al chiarore d'una lampada elettrica; i rivenditori seguitavano a urlare:—La Tribuna con la caduta del Ministero.
Quando Varedo scese di carrozza, più d'uno lo riconobbe e lo salutò. Egli ricambiava macchinalmente i saluti, toccandosi la tesa del cappello, ma non si fermò con nessuno ed entrò difilato in stazione.
Qui non potè sfuggire a una dozzina di colleghi che prendevano anch'essi il suo treno, e gli toccò subire congratulazioni, condoglianze, auguri, e rinunziare alla speranza di viaggiar solo. Ma forse era meglio così. Meglio aver il capo intronato dalla politica che fermarsi su quell'altro, orribile pensiero.
Sotto la tettoia lo raggiunse di San Giustino, e lo tirò in disparte. Parlava piano, breve, concitato, nella sorda irritazione prodottagli dai cent'occhi che gli erano piantati addosso.
—La crisi si risolverà presto. Anche il Presidente del Senato oltre a quello della Camera suggerisce il mio nome. Credo che domani sarò chiamato al Quirinale. In quarantott'ore presenterò la mia lista. Terrò per me la Presidenza e gl'interni, e voi sarete il mio sottosegretario di Stato…. Meritereste di più, meritereste un portafoglio…
Questo, Varedo lo sapeva benissimo. Pure la coscienza della propria forza gli permetteva d'attendere ed egli non aveva mai profferito una parola che tradisse il suo intimo pensiero.
—Grazie—egli disse, interrompendo San Giustino;—ma in Italia si diffida dei giovani e la mia età potrebb'essere una debolezza pel Gabinetto.
San Giustino fece una spallucciata.
—Ciò importerebbe poco… Vi vedrebbero alla prova… Gli è piuttosto che si son presi tanti impegni….
—Non vi confondete, caro amico. Il sottosegretariato agl'interni è già un bellissimo posto.
—E contate d'esser presto di ritorno?—chiese San Giustino.
—Che impegni posso prendere con questa spada di Damocle che mi pende sul capo? Vi telegraferò.
—Signori, in vettura.
Varedo salì in uno scompartimento ove c'erano già tre colleghi.
Gli sportelli si chiusero, ma prima del fischio della partenza arrivò trafelato Zonnini il quale veniva a stringer la mano all'amico.
—Meno male che arrivo in tempo… Con quei benedetti tram non c'è regola… E hai avuto altre notizie?
—Nessuna… Ne troverò a Pisa o alla Spezia…
—Speriamo bene.
Varedo tentennò la testa sfiduciato.
Dalla macchina all'ultimo vagone corse il grido: Pronti! Pronti!
Il treno si mosse.
—Ricordati di farmi spedir le bozze del discorso—gridò Varedo a Zonnini cacciando il capo fuori del finestrino e salutando a destra e a sinistra.
Nell'interno della vettura i tre colleghi almanaccavano sulla crisi e sulla sua probabile soluzione.
—Ecco chi la sa lunga—disse uno di loro accennando a
Varedo.—Specialmente dopo la conferenza avuta or ora col divo.
—Io ne so quanto voi—rispose Alberto.
—Già, già, non vogliamo essere indiscreti.
L'onorevole Cataldo, ch'era il più anziano dei tre e aveva cinque medaglie, cominciò a spifferar la sua lista. San Giustino, Presidenza e interni, Rutigliano, esteri, Lentini, guerra, Bavardi, marina, Pietrasanta, tesoro…
—Neanche per idea—interruppero gli altri. Erano d'accordo nel tener per fermo che l'incarico sarebbe dato a San Giustino, ma circa alla formazione del Ministero ognuno aveva la sua opinione.
—Se non fate parlare Varedo, è inutile—disse con la sua vocina di musco l'onorevole Orsara ch'era seduto a uno degli angoli e succhiava un pezzetto di cioccolata.
—Quando vi ripeto che non so niente…
Senza curarsi delle proteste, Cataldo seguitava la sua enumerazione.
Modica, finanze, Brusasco, grazia e giustizia, Sardi Gallese, istruzione pubblica…
—Ma che? Non è adatto…
—Importa molto!—replicava Cataldo.—Un Ministero si fa come si può, e nemmeno San Giustino farà miracoli. Del resto, caro Varedo, oggi noi vi abbiamo aiutato a rovesciar Crugnoli che era ormai un Presidente del Consiglio impossibile. Ma non ostante il vostro magnifico discorso, non siamo così ingenui da credere che sorgerà un'era nuova. Ne ho acquistata dell'esperienza in cinque legislature, e vi assicuro io che plus ça change plus c'est la même chose. La Camera è quella che è.
—La Camera si cambia—notò Varedo.
—La scioglierete, non c'è dubbio, e probabilmente di San Giustino salendo al potere, avrà il suo bravo decreto in tasca…. Ma il paese vi rimanderà su per giù gli stessi uomini…
Continuarono a discutere per un poco; poi l'onorevole Orsara fece una proposta.
—Se cercassimo di dormire per qualche ora?
E si levò in piedi per abbassar la fiamma del gaz, ma, breve di statura com'era, non ci arrivava.
—Son qua io—disse il suo vicino, l'onorevole Francioni, ch'era una pertica.—Ma io mi guarderò bene dall'addormentami. Scendo a Grosseto.
—E noi scendiamo a Pisa—soggiunsero i due compagni.—Non c'è che
Varedo il quale faccia un viaggio lungo.
—Pur troppo. E che viaggio!
—Ma!—sospirarono i colleghi con quell'accento di simpatia discreta che le persone educate hanno sempre a loro disposizione come la moneta spicciola che si tiene nel taschino della sottoveste.
Il treno divorava lo spazio. Col berretto calato sulla fronte, l'onorevole Orsara russava, Cataldo e Francioni sonnecchiavano a occhi aperti.
Alberto Varedo era ben desto, e il suo sguardo fisso esprimeva l'angoscia di chi non sa scacciare da sè una visione dolorosa. Quanto più egli s'allontanava da Roma, e gli cresceva la solitudine intorno, e si smorzava l'eco degli applausi che gli avevano, poche ore addietro, dolcemente accarezzato l'orecchio, tanto più egli sentiva la terribilità della tragedia domestica che lo aspettava. No, egli non l'avrebbe trovata viva, la piccola Bebè, egli non avrebbe udito la sua vocina esile, non avrebbe visto le sue manine bianche, sottili, quasi trasparenti, scorrer volubili sui balocchi sparsi ai suoi piedi…
E anche un altro pensiero lo crucciava, lo sgomentava. In qual modo lo avrebbe accolto sua moglie? Gli avrebbe perdonato il suo ritardo? Avrebbe ascoltato pazientemente le sue ragioni? Perchè nessuno degli ultimi dispacci era firmato da lei? Perchè non aveva ella almeno fatto rispondere alle parole di conforto, d'affetto che egli le aveva mandate sulle ali del telegrafo?
Dio, Dio, com'ella s'era, a grado a grado, appartata da lui! E pure ella lo aveva sposato per amore, e pure c'era stato in principio un pieno consenso delle loro anime, ed ella pareva appassionarsi pe' suoi studi, per la sua gloria, pel suo avvenire! Che barriera s'era levata fra loro.
E Varedo ricordava che la freddezza di Diana aveva cominciato sin da quando ell'era rimasta incinta di Bebè. La maternità che suole ravvicinar le donne al marito aveva prodotto su lei un effetto contrario. Certo ella lo accusava di non aver prodigato sufficienti tesori di tenerezza alla bimba, di non averle dedicato una parte maggiore del suo tempo e delle sue cure. Ma non era un'accusa ingiusta? Possono gli uomini dimenticar ciò che devono alla scienza, alla patria, alla società? E Diana pretendeva questo, ella che era intelligente e colta, ella che nel primo anno di matrimonio lo stimolava alle grandi cose?
In vero una fatalità pesava sulla loro unione, un complesso di circostanze cospirava a dividerli, a renderli pressocchè estranei l'uno all'altra. Ma non mai come ora questa fatalità li aveva perseguitati. L'aggravarsi repentino di Bebè proprio nei giorni in cui motivi imperiosi lo tenevano assente sembrava l'opera d'un cattivo genio che provasse la voluttà crudele di nuocere.
Il treno correva, correva nella notte profonda; tutta la vettura oscillava, scricchiolava, tremava. Alla fioca luce che pioveva dall'alto, Varedo vedeva i suoi compagni dormire, diversamente atteggiati: Orsara, rannicchiato in un angolo, coi pugni serrati sotto il mento; Cataldo con la cravatta sciolta, le braccia ciondoloni, la testa dondolante, la bocca aperta; Francioni rigido come una sbarra, con le lunghe gambe distese fin sotto il sedile dirimpetto. Nei cristalli dei finestrini, chiusi, nonostante il caldo, per paura della malaria, si riflettevano con linee indecise le immagini del di dentro: la lampada, le pareti, i divani, le valigie nella reticella, le persone dormienti… e, insieme col resto, una faccia pallida, ansiosa…. Di tratto in tratto, con la rapidità di uno strale, fischiando e rumoreggiando, guizzava, diretto in senso opposto, un altro convoglio; di tratto in tratto, nel passare senz'arrestarsi davanti a una stazione secondaria, veniva dall'esterno un chiarore improvviso, sorgeva, spariva un fabbricato, una tettoia, una pompa, una grù, una fila di vagoni immobili; poi le tenebre si addensavano più fitte e più nere.
—Oh… oh… oh…—fece a un certo momento Francioni, agitando le lunghe braccia a guisa di due assi di un telegrafo ottico.—Ho dormito?… Ove saremo?… Che ore sono?
Si alzò che, quasi toccava con la testa il cielo della carrozza, e guardò l'orologio.
—Per bacco! Siamo proprio vicini a Grosseto… Se non mi svegliavo da me…
—Vi avrei svegliato io; non dubitate—disse Varedo.
—Oh grazie, Varedo… Credevo che dormiste anche voi… Questi qui sono due ghiri.
In fatti Orsara e Cataldo non si mossero nemmeno quando a Grosseto
Francioni fece aprir lo sportello e discese salutando Alberto Varedo.
—Coraggio… Chi sa ancora… Suppongo che ci rivedremo presto a Roma, perchè il nuovo Ministero… il vostro Ministero… dovrà presentarsi alla Camera a far votare l'esercizio provvisorio… Addio, addio…
E la magra figura donchisciottesca scomparve nell'ombra.
Il convoglio ripigliò la sua corsa sfrenata. Ormai esso non si sarebbe fermato che a Pisa, e a Pisa Varedo avrebbe trovato indubbiamente un telegramma da Torino. Oimè, che altro poteva dirgli quel telegramma se non ch'egli sarebbe giunto troppo tardi per veder viva Bebè?
L'atmosfera era soffocante. Benchè si fosse ancora in piena Maremma, l'onorevole abbassò i vetri del suo finestrino, mise fuori la testa, guardò il cielo stellato, sentì, o credette sentire, la voce del mare, sentì il mormorio dei cipressi carezzati dal vento; indi richiuse di nuovo la finestra, e stette raccolto nel suo cantuccio cercando di rievocare il suo trionfo di ieri, le congratulazioni, gli applausi, rimuginando le parole dettegli quella sera stessa da San Giustino: Meritereste un portafoglio.—Sì certo, presto egli se lo sarebbe conquistato un portafoglio, e allora sarebbe divenuto arbitro del Parlamento, iniziatore felice di radicali riforme che avrebbero mutato faccia all'Italia!… Ah come impallidivano al paragone le gioie, i dolori privati, com'erano vani i giudizi che poteva pronunziare sul conto suo una donnicciuola inetta ormai ad abbracciare un orizzonte più largo di quello delle pareti domestiche!
Ma ai voli superbi della fantasia succedevano le precipitose cadute. Sarebb'egli stato pari alle circostanze ed alla fortuna? Possedeva egli veramente le grandi qualità che le magnanime imprese richiedono: il colpo d'occhio sicuro, il volere tenace, il dominio assoluto di sè, la prontezza nel decidere e nell'eseguire, il coraggio di affrontare le responsabilità ed i pericoli, lo sdegno della facile popolarità? E se falliva alla prova? Se incappava nei lacci che gli avrebbero teso gli avversari e gli amici malfidi, invidiosi della sua troppo rapida esaltazione? Se di lì a qualche mese si fosse parlato di lui come d'una delle tante meteore apparse sul nostro firmamento politico e dileguate senza lasciar traccia? Vinto sui campi dell'azione, avrebbe egli potuto trovar la calma, la serenità necessarie a chi coltiva gli studi? Avrebbe potuto riprendere con buon successo la sua opera interrotta? O le antipatie accumulate sul suo capo mentr'egli era al Governo non avrebbero continuato a sfogarsi contro l'uomo di scienza?
Così, in quella insolita depressione di spirito, tutto il suo bel sogno di gloria si scioglieva in fumo, e nella sua visione interiore si riaffacciava la scena funebre: una bambina moribonda o morta, una madre disperata. E quella bambina era Bebè, e quella madre era Diana!
Uno dopo l'altro, automaticamente, mentre il treno s'avvicinava a
Pisa, si svegliarono Orsara e Cataldo.
—Oh bella!—disse Orsara spalancando la bocca a un enorme sbadiglio.—Siamo in tre soli?
—Naturale—soggiunse Cataldo….—Francioni è disceso a Grosseto.
—E non ce ne siamo accorti?
—Sfido io… Quando si dorme… Voi, Varedo, non dormite in ferrovia?
—Questa notte non dormirei in nessun posto…
—Ah, è vero…. Scusate…
Cataldo tirò giù dalla reticella le valigie sue e quelle del compagno, infilò un leggero soprabito e aperse i finestrini.
—Auff, si respira…
Un lungo fischio echeggiò nell'aria.
Orsara, ancora sonnolento, si scosse tutto come un cane bagnato.—Ci siamo.
Varedo scattò in piedi.
—Aspettate qualcheduno qui?—domandò Cataldo.
—Un dispaccio aspetto, o qui, o alla Spezia.
Ma a Pisa non c'era niente, e Alberto, ormai solo in vettura, dovette rassegnarsi a un'altra ora e mezza d'attesa. Dalla stazione aveva telegrafato egli stesso a Torino, lagnandosi delle ritardate notizie, confermando il suo prossimo arrivo.
Spuntava l'alba; la tinta grigia della campagna si staccava dalla tinta grigia del cielo; indi le cose andavano via via prendendo forma e colore; un colore prima scialbo, poi più chiaro e più vivo. Tenui vapori lambivano la superficie del mare che, or sì or no, appariva all'occhio tra le piante e i caseggiati della costa tirrena.
Ed ecco Viareggio la cui spiaggia salubre avrebbe fra qualche ora brulicato di vita, e Pietrasanta, e Serravezza, e Massa, e Sarzana, biancheggianti di marmi che nel silenzio dei crepuscoli mattutini davano ai luoghi l'aspetto di cimiteri.
E a guardia del suo golfo ecco Spezia, bella e gagliarda, che sorride dalle sue verdi colline e minaccia dai suoi arsenali e dalle sue rocche munite.
Prima che il treno si fermasse, Alberto Varedo, sporgendosi fuori con mezza la persona, cercava di girar la maniglia dello sportello.
Un signore che già da un pezzo passeggiava sotto la tettoia si precipitò verso di lui.
—Alberto! Alberto!
Più che la fisonomia, Varedo riconobbe la voce. Era l'ingegnere
Gustavo Aldini.
Non si vedevano da tre anni, e non s'erano lasciati amici. Ma le nuove sventure scancellavano gli antichi rancori.
—Morta?—disse Alberto indovinando il significato di quell'incontro.
L'ingegnere l'abbracciò, salì con lui nello scompartimento.—Coraggio!
E facendo scivolare un biglietto da dieci lire nella mano del conduttore che rinchiudeva lo sportello, accompagnò l'atto eloquente con una raccomandazione sussurrata a bassa voce:—Procurate di lasciarci soli.
—Morta?—ripetè Varedo.—Quando?
—Iersera… Dopo le sette e mezzo… Era tardi per telegrafarti a Roma… Si poteva, lo so, telegrafar lungo la via… Ma per dar questa notizia era meglio che venisse qualcheduno… E son corso alla stazione appena in tempo di prendere il diretto delle 8.15… A Pisa non era possibile d'arrivare…. A Spezia ero già da due ore…
Alberto chinò la fronte.
—Dev'esser stato un peggioramento improvviso—egli disse dopo una breve pausa.—Quando son partito io da Torino, il medico mi aveva assicurato che non c'erano pericoli…. Pregai la mamma d'affrettarsi, unicamente perchè tenesse compagnia a Diana.
—A noi—soggiunse lo zio Gustavo—fece subito un'impressione penosissima. Io non l'avevo vista, fuori che in fotografia, ma mia sorella se la ricordava florida, vispa, sana, l'anno scorso a Belgirate.
—Era un bocciolo di rosa—gemette Varedo.—Sino a pochi mesi fa… sino al momento in cui s'ammalò a Roma. E pure io speravo sempre… A quell'età… E nemmeno le ultime lettere di Diana, nemmeno le lettere della mamma lasciavan preveder quel ch'è successo.
—Le donne s'illudevano… E poi le cose potevano tirare in lungo… Per me la bimba era condannata, ma io non mi sarei certo maravigliato se fosse vissuta ancora alcuni mesi.
—E Giraldi—seguitò il professore—come mai Giraldi non s'accorgeva della crisi imminente?
—Ah, se i medici fossero onniscienti!… Del resto, se n'è accorto l'altro giorno… E fu per suo consiglio che Diana ti mandò quel dispaccio….
—Ero legato—esclamò Alberto Varedo volendo scusarsi.—Legato con le mani e coi piedi… Non potevo partire.
—È stata una fatalità!—disse l'ingegnere Aldini con un'intonazione che cresceva gravità alle parole.
—Chi lo nega?—replicò il deputato con veemenza.—Ma non potevo… Si trattava della mia riputazione, del mio avvenire…
—Ieri ci fu un consulto con Mazzioli—riprese lo zio per evitare una discussione intempestiva.
—Tardi, tardi…
—In qualunque momento sarebbe stato lo stesso… Mazzioli approvò interamente la cura seguita dal collega.
Varedo si strinse nelle spalle.—È sempre così.
Poi chiese, esitante:—Soffriva molto?
—No—rispose l'ingegnere.—S'è spenta.
—Non conosceva più nessuno?
—Fino a iermattina la sua mamma… Più tardi nemmeno quella.
Alberto si passò il fazzoletto sugli occhi.
—E Diana—egli replicò.—in che stato è?
—Puoi figurarti.
E adesso quelle due donne son sole in casa… sole con la cameriera e con l'Irene?
—No… C'è il portinaio, e c'è Eugenio Bardelli che ha voluto restare a ogni costo!
Varedo tentennò il capo.—Povero Bardelli!… Anche lui ha avuto una gran disgrazia in famiglia…
—Tutti ne hanno delle disgrazie—mormorò Aldini con voce sorda.
L'altro si risovvenne.—Tu pure. È vero.
Tacquero per qualche minuto. Un'ombra s'era levata fra loro; l'ombra della donna leggiadra che Varedo aveva insultata e di cui Aldini portava il lutto sul volto e nel cuore.
E poco più si dissero fino a Genova, mentre, ansando e sbuffando, il convoglio passava di tunnel in tunnel. Seduti dirimpetto, immersi nei loro pensieri, i due viaggiatori appena alzavano la testa quando nell'intervallo di due gallerie il sole irrompeva nella vettura e si svolgeva dinanzi a loro il panorama incantevole della riviera ligure: il mare azzurro, scintillante; gli scogli neri, dalle forme fantastiche, investiti, schiaffeggiati dall'onda; i borghi industri, popolosi schierati lungo la spiaggia o inerpicati sui monti; le ville, i giardini ove difese dai venti crescevano le palme e fiorivano i cedri.
Entrando nella stazione di Porta Principe, Varedo tirò bruscamente le tendine.
—Se si potesse non esser disturbati…
—Mi sono raccomandato al conduttore… Speriamo…
Non partiva molta gente e non occorse disturbarli. Passando davanti al compartimento chiuso, qualcuno sussurrò:—Ci dev'essere un malato.
I rivenditori di giornali correvano lungo il treno offrendo i fogli del mattino con la caduta del Ministero. Un ragazzo più loquace degli altri gridava tutta una filastrocca:—La Gazzetta del Popolo appena arrivata con gli ultimi telegrammi da Roma. La seduta di ieri. Il gran discorso dell'onorevole Varedo. Centoquindici voti di maggioranza contro il Gabinetto. Notizie recentissime della crisi.
—Dunque—disse Aldini,—hai fatto un gran discorso ieri?
—Ho parlato, sì… Dovevo parlare.
—E abbiamo la crisi?
—Quella ci sarebbe stata in ogni caso.
—Il Re chiamerà San Giustino?
—Non c'è dubbio… È l'uomo della situazione.
—Tu avrai un sottosegretariato?
—Certo che se San Giustino è ministro, io avrò un ufficio nel
Governo—rispose Varedo.
—Dovrai stabilirti a Roma.
—Appunto… Sarà meglio anche per Diana… Tanto meglio quanto più presto.
L'ingegnere non rispose.
Successe un lungo, lungo silenzio. Tutti e due, di mano in mano che si appressavano alla meta, si sentivano invasi da una tristezza più cupa e profonda.
Alla stazione d'Asti un giornalaio dalla voce stridula e fosca ricantava l'antifona:—La Gazzetta del Popolo con la caduta del Ministero. Il discorso dell'onorevole Varedo.
—Dio, che noia!—borbottò Alberto.
Aldini si sforzò di sorridere.—Sono gl'inconvenienti della gloria.
In quell'ultima ora di viaggio, Varedo fu singolarmente nervoso. Ogni momento si alzava in piedi, mutava posto. A un tratto, si piantò davanti allo zio Gustavo e lo interrogò a bruciapelo.
—Credi che Diana avrà difficoltà a venir subito a Roma?
—Senti—disse lo zio uscendo dal suo riserbo,—s'io avessi a darti un consiglio, ti suggerirei di non prender Diana di fronte, di non opporti oggi a ciò ch'ella desidera.
—E che cosa desidera?—chiese il professore turbandosi in volto.
—Vuol andare a Venezia con la sua mamma.
—Vuol fuggire da me… Le sono diventato odioso… È inutile che tu cerchi d'indorar la pillola… Odioso, è la parola… E quanto tempo vuol rimanere a Venezia?… Un mese?… Due mesi?
—Fidati di noi, Alberto; noi eserciteremo tutta la nostra influenza perchè vi resti il meno possibile… Ora è meglio non toccar questo tasto.
—Ah, capisco—proruppe Varedo.—Diana vorrebbe una divisione amichevole… Ma se presume di avere il mio assenso, s'inganna… Io le proibirò di partire… Io le imporrò di seguirmi…
Aldini non ismarrì la sua calma.—Tu hai la legge per te… hai la forza… Considera se ti giova d'usarne.
—Diana affronterebbe uno scandalo?
—Chi lo sa?… Tu la conosci… Quando ha preso un dirizzone…
—Ma insomma—ripigliò Alberto mettendo nel suo discorso quanto più calore persuasivo poteva,—di che colpe m'accusa?… Come giustificherebbe dinanzi all'opinione pubblica la sua rivolta?… Sono un marito che la maltratta, che la tradisce, che la disonora?… Via, modestia a parte, novantanove donne su cento invidierebbero la sua sorte, sarebbero orgogliose di portare il mio nome… Se, tre settimane or sono, non potei, cedendo alle sue preghiere, restare a Torino, se non potei ieri esserle accanto in un momento supremo della sua vita, o che le paion queste ragioni bastevoli per distruggere una famiglia?… Avrebb'ella il coraggio di sostenere ch'io fossi assente per motivi frivoli?… E la sventura che la colpì non colpisce me pure?… Come mai?… Il dolore che ravvicina sovente due coniugi fra cui le reciproche offese avevano scavato un abisso sarà causa di separazione per noi che non abbiamo nulla di grave a rimproverarci?
Nella naturale rettitudine del suo spirito, Gustavo Aldini era costretto a riconoscere che c'era molto di vero nelle argomentazioni di Varedo. Ma, data l'indole di sua nipote, egli si spiegava altresì la risoluzione manifestata da Diana al letto della bimba agonizzante:—Mi porterete subito a Venezia con voi… L'uomo che per non rinunziare a un trionfo oratorio dimentica i suoi doveri di marito e di padre ha spezzato ogni legame domestico.
Comunque sia, non erano propizi a una discussione nè il luogo, nè il tempo, e l'ingegnere si limitò a dire:—Diana oggi non può essere equanime… Bisogna compatirla.
Dinanzi alla piccola morta.
Alla stazione (perchè si sapeva che Varedo sarebbe giunto con quella corsa) c'erano due o tre colleghi d'Università, un assessore del Municipio un segretario di Prefettura, incaricato di porger le condoglianze e di offrire i servigi del signor commendatore Prefetto, il quale, poveruomo, nell'interregno di due Ministeri, voleva accattivarsi l'animo dei nuovi padroni senza provocar troppo apertamente la collera dei vecchi, capacissimi di colpire, in articulo mortis, un onesto funzionario, e ricorreva perciò al peregrino espediente di essere indisposto.
È inutile avvertire che c'erano pure alcuni reporters di giornali cittadini, occupati a notar nel loro taccuino i nomi dei presenti e i gesti e l'attitudine dell'onorevole.
I personaggi ufficiali e gli amici, con l'aria contrita voluta dalle circostanze, accompagnarono Alberto Varedo fino alla carrozza, non senza mescere all'espressioni del proprio cordoglio qualche discreta allusione alla memorabile giornata di ieri.
—Il suo nome è su tutte le bocche—disse l'assessore municipale.
E il segretario di prefettura, che non era ancora cavaliere, arrischiò una frase più elaborata:—Ella ha dato ieri un grande esempio di virtù civica.
Distribuite le necessarie strette di mano, Varedo salì in fiacre con lo zio Gustavo e fino a casa non aprì bocca.
Nell'andito gli venne incontro singhiozzante, la suocera.
—Oh Alberto, Alberto, che disgrazia!
E soggiunse, accompagnandolo attraverso le stanze impregnate d'un acuto profumo di ginepro:—Se tu fossi arrivato almeno iersera!
—Era impossibile—egli balbettò.—E poi sarebbe stato lo stesso…
Nemmeno iersera sarei arrivato in tempo…
—Per la bimba no… Ma per Diana…
—Diana?… Che cosa l'è successo?… dov'è?—chiese Varedo, turbato da questa frase sibillina.
—Sempre di là… Sempre… Son tre giorni che non si spoglia…
La signora Valeria s'interruppe per voltarsi verso un ometto tutto vestito di nero che s'era levato in sussulto da un divano ove sedeva mezzo assopito.
—Vada, Bardelli, vada a riposarsi per qualche ora… Oh Alberto, che Provvidenza è stato Bardelli per noi! Come ha dimenticato le sue pene per venire a divider le nostre!
Varedo, che sulle prime non aveva riconosciuto il suo antico assistente, gli tese la mano:—Grazie, Bardelli… E perdoni se non le ho mandato una riga di condoglianza quando mi è giunta la notizia…
—Oh professore—biascicò Bardelli. Ma le lacrime gli fecero un nodo alla gola e non potè dir altro.
La signora Valeria precedette suo genero nella camera mortuaria.
Curva sul letticciuolo della piccola estinta che ell'aveva, insieme all'Irene, finito appena di lavare e di pettinare, Diana trasalì leggermente e senza moversi di dov'era alzò lenta lenta il pallido viso.
Non però fece un gesto, non disse una parola per respingere il marito che le si avvicinava. Si sentì egli, prima di toccarla, respinto da una forza misteriosa; sentì egli al cuore e ai polmoni la stretta violenta di chi entra improvviso in una atmosfera di gelo. Le sue braccia che stavano per aprirsi ricaddero inerti, le sue labbra s'ammutolirono. E fermandosi alla sponda opposta del letto, egli si chinò a deporre un bacio sulla fronte di Bebè.
Allora, dalla bocca di Diana, uscì un'esclamazione crudele:—Tardi!
—Oh Diana—egli disse, guardandola con aria di rimprovero.—Non esser spietata.
Ella non rispose, ma sostenne lo sguardo che fra dolente e imperioso si fissava su lei. Nell'atteggiamento del suo volto non era nè sfida nè collera; era una tristezza accasciata che pareva significare: A che prò tormentarci? Quello che si è spezzato fra noi non si accomoda più.
—Diana—egli replicò.—È vero che vuoi andar via con tua madre?
—È vero.
—E se invece io volessi… se ti pregassi di seguirmi a Roma?
—No, no.
—E perchè?… Ho il diritto di chiederlo… e di saperlo.
A questa specie d'intimazione un fuggitivo rossore accese le guance sparute di Diana, un lampo passò ne' suoi occhi.
Pur si contenne, e additò in silenzio il corpicino di Bebè steso fra loro.
—È giusto—assentì Varedo.—Non ora, non qui… Più tardi.
Stettero ancora qualche minuto uno di fronte all'altro, divisi dal letticciuolo ove giaceva la creaturina innocente che, viva, li aveva disgiunti, che, morta non valeva a riunirli.
La signora Valeria passò il braccio sotto quello di suo genero, e lo ricondusse fuori dalla camera.
—Avrai bisogno di un caffè, di una tazza di brodo… Ho fatto preparare nel tuo studio… C'è anche il letto pronto…
E continuò supplichevole:—Permettile di venire a Venezia… Oggi non potrebbe nè restar qui sola, nè andare a Roma che risveglia in lei così tristi memorie… Te la riporteremo noi… spero te la riporteremo guarita.
—Ma io non intendo ch'ella disponga di sè come se io non ci fossi—ribattè Varedo.—Non intendo che mi tratti come un malfattore.
—Devi perdonare all'eccitazione de' suoi nervi—disse la signora Valeria.—Ah se aveste ieri sera confuse le vostre lacrime!… Non ne avrai colpa… non ti giudico… Ma il Signore ha voluto aggravar doppiamente la mano sopra di noi… Mi concedesse egli almeno di riuscire a far sì che vi lasciaste in buona armonia!
Sulla scrivania dello studio Alberto trovò un mucchio di biglietti da visita, di lettere, di fogli, di telegrammi arrivati per lui quella mattina. E mentr'egli prendeva in fretta una cucchiaiata di brodo e beveva un sorso di vino, altri biglietti, altre lettere, altri fogli, altri telegrammi arrivavano via via senza posa. E capitavano pure ambasciate e richieste di colloqui.—A che ora potrebbe l'onorevole ricevere?
—Non rispettano neanche questo giorno!—esclamò, scandalizzata, la signora Valeria.
—Lo vede, mamma, se noi uomini pubblici siamo padroni del nostro tempo.
—Dà la consegna di non lasciar passare nessuno—insistè la suocera.
—Nessuno, è difficile… A ogni modo, non riceverò anima viva prima delle tre… a eccezione di Bardelli… che mi aiuterà a sbrigar tante cose… Non c'è di là, Bardelli?
—Non c'è, ma tornerà prestissimo, non dubitarne.
—Perchè pur troppo ci sono tristi necessità che non patiscono indugio.
—Di quelle si occuperà Gustavo… Ha detto che può servirsi d'un paio d'impiegati della sua Compagnia di Sicurtà.
—Grazie… In questo caso…
Varedo prese un foglietto di carta e tracciò in fretta due righe di partecipazione.
—Basterà inserirle in tutti i giornali cittadini… le partecipazioni private sono inutili… Ce vorrebbero troppe e si commetterebbero infinite dimenticanze… Aggiungerete l'ora… È fissata?
—Le nove di domattina—rispose la signora Valeria. E non potè frenare uno scoppio di pianto.
—Coraggio!—sospirò Alberto.
E nel riaccompagnarla fino alla soglia disse:—Fate tutto voi…
Disponete voi… decorosamente… Circa a Bardelli, siamo intesi…
Appena viene, mandatemelo.
—E non vuoi riposare?
—Mi butterò vestito sul letto per una mezz'ora.
Di lì a mezz'ora, l'onorevole era in piedi.
Camminando su e giù per la stanza, apriva i giornali, le lettere, i dispacci, gettava nel cestino, o sulle sedie, o per terra le carte inconcludenti; poi, seguitando a camminare, dettava un telegramma, un biglietto a Eugenio Bardelli, che, seduto al tavolino con la penna in mano, aspettava gli ordini. La vita lo aveva ripreso ne' suoi ingranaggi, le superbe promesse dell'avvenire lo distraevano dalle tristezze presenti. Era lui che, di tratto in tratto, diceva una parola di conforto all'altro.
—Si faccia animo… Sia un uomo… Scriva, scriva. Non c'è quanto il lavoro per stordirsi.
Docilmente, Bardelli s'asciugava le lacrime con la manica del vestito e si rimetteva all'opera.
E Varedo pensava che mai avrebbe trovato un segretario così fedele, così devoto, d'una devozione e d'una fedeltà che resistevano a tutte le prove e a tutti i disinganni. Anche lo pungeva il rimorso di non aver fatto per Eugenio Bardelli quello che avrebbe dovuto fare. Non gli aveva conservato il posto d'assistente, non lo aveva appoggiato nei suoi concorsi universitari, non aveva seguito con l'interesse che tanti professori mostrano verso i loro antichi studenti lo svolgersi della sua attività scientifica.
Fu dunque, almeno in parte, l'onesto desiderio di riparare ai propri torti che gli suggerì la domanda:—Bardelli, accetterebbe ella un impiego a Roma?
Colto di sorpresa, il giovine alzò gli occhi mezzo trasognato.
Varedo proseguì, a modo di spiegazione:—Andando al Governo… parlo nell'ipotesi che la crisi si risolva secondo le previsioni generali… andando al Governo, avrei la facoltà di chiamar presso di me qualche persona di mia fiducia… Lei potrebbe essere, che so io, il mio segretario particolare… Ciò non pregiudicherebbe le sue aspirazioni all'insegnamento superiore… Ma quei benedetti concorsi son così rari e ci son sempre tanti aspiranti… Neppur la cattedra di Palermo sarà facile averla…
Bardelli lo sapeva già che a Palermo gli si preparava un nuovo fiasco e che probabilmente quel fiasco non sarebbe stato l'ultimo; lo sapeva che le sue condizioni economiche non eran tali da permettergli di restar lungo tempo disoccupato; e nondimeno sentiva che l'offerta del professore non era oggi accettabile… Ah, con che cuore l'avrebbe accettata quattro o cinque mesi addietro! Seguitar a vivere nell'intimità della famiglia Varedo, veder ogni giorno Diana, veder ogni giorno Bebè, non era stato questo il suo sogno?… Ora la famiglia era disciolta; Bebè era morta, Diana non avrebbe accompagnato il marito a Roma… E se pur si fosse indotta più tardi a raggiungerlo, avrebbe ella gradito la presenza assidua di un uomo che aveva osato farle una dichiarazione d'amore? Ed egli stesso, Bardelli, era sicuro appieno di sè, sicuro di non esser ripreso dalla sua follia?
Mentr'egli studiava una risposta, Alberto lo levò momentaneamente d'impaccio dicendogli:—Non importa che si decida subito… Rifletta fino a domani… Già, per oggi, non c'è nulla di positivo.
E in fatti non c'era ancora la notizia che San Giustino fosse stato invitato al Quirinale.
Alle tre cominciarono le visite. Venne il Rettore dell'Università, vennero alcuni professori, e il Sindaco che non s'era potuto recare la mattina alla stazione, e il Presidente del Consiglio provinciale, e i direttori di due fogli cittadini, e altri ch'erano o desideravano di esser creduti in dimestichezza con un uomo vicino ad afferrar il potere.
Parlavano poco della disgrazia, e molto della crisi, molto del discorso di Varedo che faceva le spese di tutti quanti i giornali. E giù elogi, auguri, pronostici di grandezza e di gloria.
Ma Varedo rifiutava gli elogi, gli auguri, i pronostici. Il ricordo di quel discorso sarebbe stato per lui un cruccio eterno. Già egli nemmeno si rendeva conto del come gli fosse riuscito trovar frasi appropriate, aggruppar gli argomenti in ordine logico avendo sempre il pensiero rivolto a casa sua… Certo era che per cagione di quel discorso egli aveva ritardato la sua partenza da Roma e giunto a Torino non aveva abbracciato che un cadavere… Ah, se i successi oratorî si pagano a sì caro prezzo!
Gli amici lo commiseravano, lo confortavano, e il collega Sali, della facoltà di lettere, citava vari esempi di personaggi storici trovatisi come Varedo nella necessità di sacrificare i loro interessi particolari e le loro affezioni più sacre a qualche supremo dovere pubblico.
Alberto tentennava la testa.—È la scusa di noi altri uomini… Non c'è dubbio poi che in parecchi casi le esigenze della vita esteriore ci distolgono dal ruminar troppo i nostri dolori privati. Le povere donne non hanno questa valvola di sicurezza.
Indi tutti gareggiavano in sollecitudine nell'informarsi di Diana. Il Sindaco, il Rettore, il professore Sali dissero che le loro consorti sarebbero venute volentieri a visitarla, ma avevano inteso ch'ella non riceveva.
L'onorevole la scusò.—Non è in grado di veder nessuno… È affranta…
E soggiunse:—La mando per alcune settimane a Venezia con la sua mamma… Qui rischierebbe di rimaner sola, perchè io non sono sicuro di non esser chiamato a Roma…
Qualcheduno interruppe:—O piuttosto siete sicuro che vi chiameranno.
—L'avvenire è sulle ginocchia degli Dei—replicò Varedo con circospezione.—Ma non importa. Io volevo dire che se mi trasferissi a Roma non mi fiderei di condurvi tosto mia moglie, indebolita com'è, fissa nell'idea che a Roma appunto la nostra figliuola abbia preso il germe della malattia che l'uccise. Ci verrà più tardi, quando si sarà ritemprata e rinfrancata.
Da savio politico che fa apparir quali concessioni spontanee le necessità a cui gli tocca piegarsi, Alberto Varedo si premuniva così contro le interpretazioni sfavorevoli che altri avrebbe potuto dare al viaggio di Diana. Egli aveva meditato sulle parole dettegli dallo zio Gustavo in strada ferrata. «Tu hai la legge per te. Hai la forza. Vedi se ti conviene d'usarne».
Come esitar nella risposta? Come non capire che uno scandalo famigliare, in quei giorni, con le ire e le invidie destate dalla subitanea fortuna avrebbe avuto conseguenze incalcolabili? Una cosa ormai sarebbe bastata a Varedo: che Diana smettesse verso di lui quella sua aria di giustiziera, che riconoscendone l'autorità spogliasse i suoi atti d'ogni carattere di ribellione.
Ma mentr'egli col suo linguaggio calmo e misurato lasciava nell'animo degli ascoltatori l'impressione di un marito pieno di mansuetudine e di riguardi verso la moglie, e con tutto il suo contegno infondeva nei presenti il mite benessere ch'è proprio di chi, recatosi a fare una visita di condoglianza, si trova al cospetto di persone bell'e rassegnate, Diana implorava da sua madre e da suo zio la grazia di risparmiarle un colloquio con Alberto.
—Date retta a me—ella diceva—consigliatelo di non insistere. Correrebbero tra noi le parole irreparabili che tolgono perfino la remota possibilità d'un ravvicinamento… E credete pure ch'io non m'illudo… Anche nell'infinita miseria di questi momenti ho la mia testa lucida… Non mi illudo… Il mondo mi chiamerà un'esaltata, una visionaria, una pazza… Io dovrei gloriarmi d'esser la signora Varedo… Che mi manca? Di che mi lagno?… O, piuttosto, quante ragioni non ho di essere invidiata?… L'uomo di cui porto il nome non è già illustre nella scienza e nella politica? Non passa di trionfo in trionfo? Non sarà domani sottosegretario di Stato e forse tra qualche mese Ministro?… E, ciò che più vale, non è onesto in mezzo a tanti corrotti, semplice nella vita, austero nei costumi, alieno da quelle galanterie che pur si considerano peccatucci veniali?… Sì tutto questo è vero; ma il mondo non sa che mio marito mi ha a poco a poco disseccato il cuore… Ero timida, schiva, ritrosa, ma ero anche assetata di affetto… Egli non ha inteso il grido che dal fondo della mia anima si levava verso di lui… Finchè ha potuto avermi docile strumento nelle sue mani, pronta a sopprimer me stessa per compiacerlo, gli fui, o gli parvi, cara… senza entusiasmo però, senza espansione, senza tenerezza… Non ubbidivo io, servendolo, a quella legge del dovere ch'egli predicava con fervore d'apostolo?… Ma quando un nuovo dovere è sorto per me e per lui, un dovere che poteva sprigionar la scintilla onde le nostre intime fibre avrebbero finalmente vibrato all'unisono, allora egli mi ha gettato in un canto come un abito frusto… Ha gettato in un canto me, e la mia, la sua, bambina… Mai non le ha voluto bene, mai non s'è occupato di lei… Sana, ella lo infastidiva con la sua vivacità; malata, coi suoi lamenti… Non le ha sacrificato un giorno, un'ora, un minuto… Poche settimane fa, io che prevedevo, l'ho scongiurato di non partire, di non lasciarci sole.
—Appunto perchè non restaste sole ha scritto a me di anticipare la mia venuta—notò, indulgente, la signora Valeria.
Diana ebbe un gesto d'impazienza.
—Oh la bella cosa di scaricarsi dei propri pesi sulle spalle degli altri… specialmente per chi si atteggia a moralista!… E che conto ha fatto delle mie lettere… delle notizie sempre più sconfortanti che gli mandavamo da qui?… Già. il dovere lo tratteneva a Roma… quello de' suoi doveri che si conciliava con la sua ambizione… Te ne ricordi, mamma? Te ne ricordi, zio Gustavo? Voi mi dicevate «Vedrai, almeno una corsa a Torino la farà». Io che lo conosco, io vi rispondevo: «No…» Neanche il mio telegramma è valso a scuoterlo… E sì che quella era la tavola di salvezza che si getta al naufrago… Perchè non l'ha afferrata? Perchè non ha udito il mio appello, il mio ultimo appello?… Perchè ha lasciato morire la sua figliuola?… Ebbene, è morto anch'egli… come lei.
Diana si pentì dell'eresia che l'era scappata di bocca, e voltandosi verso l'uscio della camera dove la bambina giaceva, tra i fiori, sul suo letticciuolo:—Che dico mai?—esclamò.—Tu non sei morta, il mio caro tesoro… Tu vivi qui dentro…
Si portò la mano al cuore che si spezzava, e balbettò:—Egli, egli è morto.
La signora Valeria le sussurrò piano, baciandola in viso:—Perdona… Ah tu non sai quante cose le donne perdonino! Perdonano il tradimento, perdonano l'infedeltà…
Ma Diana l'interruppe con un'energia ch'era veramente meravigliosa in quel corpo sfatto dalle veglie, distrutto dall'angoscia:—Oh, il perdono è facile alle donne che sono state amate, alle donne che amano… Dove c'è l'amore, c'è posto per tutto… Io non l'ho trovato mai nel mio matrimonio, l'amore… per quanto l'abbia cercato… Io non ho sentito parlare che di dovere… E ho creduto che potesse bastare!… Tu taci, zio Gustavo…. Ma allora tu leggevi nel futuro… Tu sorridevi tristemente di quella nostra pretesa d'edificar una famiglia sul solo dovere…
—Non curarti di quello che ho potuto pensare—rispose lo zio.—Io penso adesso che convien sempre fare quanto dipende da noi perchè la vita non sia peggiore di quella che è… La via che hai scelta non conduce a nulla di buono…
—Sicchè tu pure, come la mamma, sei per il perdono, per la riconciliazione?
L'ingegnere accennò affermativamente col capo.
—E io—replicò Diana—sono costretta a ripetere a te e alla mamma: No… Una riconciliazione oggi sarebbe un'ipocrisia, e io ho mille difetti, ma non sono ipocrita… Del resto che bisogno ha egli di me? Egli ha raggiunto la sua mèta; passata che sia (e passerà presto per lui) l'emozione di questa sventura domestica, egli sarà un uomo felice… Non ha bisogno del mio perdono, nè della mia compagnia… Che ne farebb'egli a Roma d'una donna sempre in lacrime, sempre fissa in un'idea dolorosa? Via, mamma, tu gli rendi un servizio portandomi teco… Solo un puntiglio feroce potrebbe indurlo ad opporsi….
—Non si opporrà, ne sono convinta—disse la signora Valeria.—Ma non ha tutti i torti se desidera che tu gli chieda licenza.
—Chiedetegliela voi in mio nome—rispose Diana.—Ancora una volta, ve ne supplico a mani giunte, risparmiatemi la prova terribile di un colloquio con mio marito… Ve ne supplico in nome stesso di quelle speranze che voi coltivate nel segreto dell'anima vostra…. Ditegli che non lo odio, che riconosco i suoi meriti, che gli auguro gloria e fortuna… ma che oggi non posso… non posso…
I singhiozzi le impedirono di continuare; le forze le vennero meno; levatasi in piedi, si sentì vacillar sulle gambe, ma prima che sua madre o suo zio accorresse a sostenerla, ella ebbe il tempo di precipitarsi nella camera vicina e di cadere ginocchioni presso il letto di Bebè.
La signora Valeria la seguì e si chinò amorevolmente a lisciarle i capelli.
—Calmati, Diana…. Non ci ostiniamo più… Faremo a modo tuo… Ma tu pure sarai compiacente, non è vero?
Diana alzò, interrogando, il viso bianco come quello della piccola morta che le aveva strappato il cuore.
—Ti coricherai per qualche ora.
—Oh…. perchè?… È inutile.
—Per essere in grado di partire domani—ripigliò la madre.—Tu non vuoi restar qui dopo che…
—No, no—disse Diana con terrore.—Non un minuto…
—Vedi dunque…
La signora Valeria passò il braccio sotto l'ascella della figliuola e l'aiutò a rimettersi in piedi.
Diana ribaciò sulla fronte e sugli occhi il cadaverino che già si dissolveva e svaniva, e mormorò con un filo di voce:—Torno, sai, Bebè.
Indi, con la testa appoggiata alle spalle materne, col fazzoletto alla bocca per soffocare i suoi gemiti si lasciò condur via docilmente.
Un Ministero fatto e una famiglia disfatta.
Quante corone! Quante corone! Del Rettore e dei professori dell'Università, dell'onorevole San Giustino (bellissima, ordinata telegraficamente da Roma), di Eugenio Bardelli, degli studenti della facoltà giuridica, dell'Associazione costituzionale monarchica, degli elettori liberali del collegio rappresentato in Parlamento da Alberto Varedo, della casa editrice che pubblicava l'opera sul Dovere, delle Redazioni di due giornali politici e di un giornale scientifico, ecc., ecc.
E quanta gente dietro il piccolo feretro! Quante carrozze di privati e di autorità, da quella del Sindaco a quella del Prefetto, il quale, la sera prima, guarito improvvisamente dalla sua indisposizione nel ricever alle sette la notizia ufficiale dell'incarico dato da Sua Maestà a San Giustino, era voluto venir in persona alle otto a casa Varedo a rinnovar le sue condoglianze! A farlo apposta la povera Bebè non avrebbe potuto scegliere un momento più opportuno per morire ed esser sepolta in mezzo a unanimi attestazioni di simpatia e di compianto.
Chiuso nel suo soprabito nero abbottonato d'alto in basso, Alberto seguiva a piedi il carro funebre, e la sua fisonomia, bench'egli si sforzasse di frenarne i moti, assumeva atteggiamenti sempre diversi. Era a volte una commozione sincera, a volte una concentrazione a cui la triste realtà del presente sembrava estranea, a volte un cruccio segreto contro qualcheduno e contro qualche cosa, un lampo fugace d'orgoglio, o una mal repressa impazienza d'uscir da quell'atmosfera di morte, di tornar nella lotta, nella vita che lo chiamava.
Nondimeno, sciolto il corteo, scambiate le parole d'uso e le strette di mano automatiche, egli entrò con Gustavo Aldini, Eugenio Bardelli e altri pochi nel recinto del cimitero, deciso a rimanervi sino alla fine. Vide calar nella fossa la bara, ahi così lieve a quelli che la portavano, udì il sordo rimbombo delle palate di terra gettate a colmar l'orribile buca, e il fruscìo delle ghirlande ammucchiantisi sul tumulo ove in brevi giorni le avrebbe arse il sole e sbattute la pioggia… E gli parve che di sotto a quei fiori, di sotto a quelle zolle venisse, fra timida e maliziosa, un'esile voce:—Papà citto.
L'ingegnere gli toccò il braccio.—Andiamo.
Varedo si scosse con un movimento brusco, come di chi vuol liberarsi da un incubo.—Eccomi.
Fuori dal cancello li aspettava un landau chiuso.
—Monti anche lei. C'è posto—disse Gustavo Aldini a Eugenio Bardelli ch'era in uno stato da far pietà.
—Sì, monti, monti pure—ripetè Alberto.—E non si lasci abbattere in quel modo.
Ormai egli aveva ripreso l'assoluta padronanza di sè, e le lacrime di
Bardelli lo infastidivano.
—Bisogna sapersi dominare—egli sentenziò in tuono cattedratico.—È più penoso, ma è più virile.
Indi si volse allo zio Gustavo.
—È stata una dimostrazione molto lusinghiera, una dimostrazione di cui serberò eterno ricordo… Scrivine tu a tua nipote.
S'interruppe per guardare il suo ex-assistente che seduto di fronte a lui seguitava a passarsi sugli occhi il fazzoletto inzuppato come una spugna, e stette in forse se continuare il discorso. Ma riflettendo che Bardelli era persona fidata cedette alla tentazione di sfogar l'animo suo.
—Le dirai che c'erano ottimi mariti e ottimi padri i quali non avevano l'aria di giudicarmi un padre e un marito snaturato… Ah, oggi Diana ha vinto il suo punto… È partita con sua madre senza nemmeno prender commiato… Per evitare pubblicità non mi son voluto valere de' miei diritti… ma ch'ella non faccia assegnamento sulla mia debolezza… E sopra tutto che non s'atteggi a vittima… Non lo tollererei; e se ci mettessimo in lotta aperta si vedrebbe…
—Non parlare con quell'asprezza—rispose l'ingegnere Aldini.—Dà tempo al tempo… Fidati nell'opera conciliativa di mia sorella.
—Di mia suocera non ho che da lodarmi—convenne Varedo.—E anche di te… che pur non avevi nessun dovere….
Aldini gli chiuse la bocca con un gesto.
—Voi avete un torto—egli disse….—intendo tu E Diana,… sicuro, anche Diana…. Avete il torto di parlar troppo di diritti e di doveri.
—E su che altra base vorresti piantare i rapporti sociali?
—Amare, compatire e perdonare—replicò l'ingegnere—sorridere qualche volta delle debolezze umane, ecco tutta quanta la mia filosofia…. Ma non discutiamo, per carità… Io non sono in grado di misurarmi teco… E poi sono uno spirito pigro e credo poco all'efficacia della discussione… Sono convinto che ogni uomo abbia le opinioni che meglio si adattano al suo temperamento e al suo ingegno.
Eugenio Bardelli taceva. Ma durante questa piccola disputa fra i due congiunti egli sentiva crescere l'ostilità latente contro il suo antico idolo, contro Varedo, reo di non aver amato Bebè, di non aver compreso Diana e di non tener adesso sul conto di lei un linguaggio abbastanza rispettoso… Oh perchè, perchè non poteva egli proclamarsi campione di quella donna santa, di quella donna perfetta?… Perchè non poteva almeno infonder maggior calore nelle difese, secondo lui, fiacche ed insufficienti che della nipote faceva l'ingegnere Aldini?
E Bardelli si risovveniva altresì ch'egli era in debito d'una risposta al professore, e che quella risposta era attesa entro la giornata. Mille ragioni lo costringevano a rifiutare l'offerta, ma non si dissimulava le conseguenze che questo rifiuto avrebbe esercitato sul suo avvenire, prevedeva le querimonie di sua madre, le beffe dei conoscenti, le aumentate difficoltà di trovare un posto anche mediocre dopo essersi lasciato sfuggir l'occasione d'averne uno di ottimo.
Tali erano i pensieri che lo angustiavano, quando, poco prima che la carrozza si fermasse, il deputato lo chiamò a nome.
Egli si scosse e arrossì fino alla radice dei capelli.
—Abbia la compiacenza di salir con noi—disse Alberto.—Sarà arrivata la posta e dovrò forse pregarla di qualche commissione. In ogni caso le staccherò uno chèque da riscuoter subito alla Banca popolare.
E soggiunse, voltandosi verso l'ingegnere:—Mi passerai la nota del danaro che hai sborsato per conto mio.
—Sì, sì, non c'è fretta….
—Anzi ce n'è molta, perchè probabilmente partiamo entr'oggi tutti e due per destinazioni diverse…. Vai a Parigi?
—Ma! Sono incerto….
Il portinaio venne ad aprir lo sportello e consegnò a Varedo un fascio di lettere e dispacci e giornali.
Su in casa la cameriera aveva apparecchiato la colazione in salotto da pranzo.
Varedo invitò Bardelli a sedere a tavola.
Il giovine si schermiva.—Se mi dispensasse… Proprio non ho appetito…
Già sulle scale s'era sentito di nuovo empir gli occhi di lacrime, aveva provato la tentazione di andarsene.
—E crede che noi ne abbiamo dell'appetito?—replicò Alberto, seccato che altri manifestasse un dolore più forte del suo.—Si prende un boccone per tenersi ritti.
E tra due cucchiaiate di minestra egli cominciò lo spoglio della sua corrispondenza. I semplici biglietti da visita li metteva da parte, senza nemmeno guardarli. E metteva insieme con quelli le lettere e i dispacci che portavano soltanto parole di condoglianza.
—A tutti questi signori converrà spedir le nostre carte di ringraziamento. Se ne incaricherà lei, Bardelli, con comodo…
A Varedo bastarono pochi minuti per prender conoscenza di quella massa di roba. Ciò che gli premeva di più non c'era. San Giustino gli aveva bensì telegrafato la sera innanzi informandolo dell'incarico ufficiale avuto dal Re, ma se l'era cavata con lo stretto necessario, aggiungendo: Il resto a domani. Ora il nostro onorevole aveva sperato di trovar una lettera o un lungo telegramma del capo del futuro Gabinetto, e benchè il ritardo non avesse nulla di strano, gli pesava d'esser rimasto deluso… Cercò quindi nervosamente, dispettosamente le notizie della crisi nei giornali della mattina, arrabbiandosi delle contraddizioni e delle assurdità che vi riscontrava. Tutti avevano le loro informazioni da ottima fonte, tutti ammannivano ai lettori una lista ministeriale diversamente combinata; non tanto pei nomi che, su per giù, eran gli stessi quanto per la distribuzione dei portafogli.
Al professore scappava la pazienza.
—Oh che balordi! Anche questi qui, come Cataldo, vogliono assegnare l'istruzione a Sardi Gallese…. Si starebbe freschi…. E questi altri che danno il tesoro a Modica!… L'agricoltura e commercio, forse… O le poste….
Erano brevi monologhi che Varedo borbottava per conto suo. Gustavo Aldini era fuori nell'andito, sollecitato dalla cameriera di sbarazzarla di certi importuni che pretendevano la mancia per uffici prestati durante i funerali; Bardelli seduto davanti al suo piatto vuoto, girava gli occhi intorno a guisa d'uomo che non sa se dorma o sia desto. Gli usci, tranne quello che dava nell'andito, erano spalancati, ed egli spingeva lo sguardo or a destra ed ora a sinistra nelle note stanze di dove non gli sarebbe più venuta incontro Bebè, dove non avrebbe più visto Diana.—Addio, Bardelli—gli aveva detto Diana quella mattina.—Grazie di quello che ha fatto per noi… E che il Signore la ricompensi….—Pochi minuti dopo, mentre il corteo si moveva, egli aveva creduto scorgere per un istante il bianco viso di lei alla finestra, fra gl'interstizi di due cortine… E adesso ell'era partita per non tornare, come non tornava Bebè…. La bambina adorabile che lo aveva amato, la donna angelica che lo aveva assolto, le due dolci creature che avevano brillato, luci benefiche, nel grigio orizzonte della sua vita, s'erano dileguate per sempre. Ogni cosa qui parlava di loro, ogni cosa ricordava la loro presenza, ogni rumore evocava il suono dei loro passi, delle loro voci; ma esse non c'erano… Una sola persona pareva indifferente a tanta miseria, ed era il capo di quella famiglia distrutta… Ambizione e vanità, ecco i moventi unici dell'uomo ch'egli, Bardelli, aveva ciecamente ammirato… No, egli non poteva aver più nulla di comune con lui… Poteva ubbidire oggi ai suoi cenni, poteva prestargli ancora per qualche giorno l'opera sua (e forse lo attirava con un fascino triste e invincibile la casa piena di memorie) ma invocarne, ma accettarne i favori, non mai.
—E ora—disse Varedo avviandosi—venga di là con me.
—Alberto, Alberto!—chiamò l'ingegnere Aldini che rientrava nel salotto da pranzo, seguito dalla bambinaia.—C'è l'Irene.
La ragazza s'avvicinò asciugandosi gli occhi col grembiule.
—Non ho altro da fare—ella balbettò.—Se il professore non ha comandi…
—Ah—replicò Varedo—bisognerà regolare i vostri conti.
—No, no; li ha regolati…. con molta generosità…. la signora…. Volevo prender congedo, domandar scusa se ho mancato… e implorare una grazia.
—Parlate…. liberamente.
—Se si contenta di lasciarmi…. come ricordo di quel caro angioletto…. queste due scarpine…. le ultime ch'ell'ha portato…
E le tirò fuori di tasca, piccole tanto che le stavano nel pugno.
—Tenetele pure—disse Varedo commosso.
L'Irene gli baciò la mano, riconoscente.
—Grazie, signor professore… E così Iddio assista lei e la buona signora…. e mandi loro altri bambini.
Nella sua semplicità popolana l'Irene non poteva ammettere che le bizze fra marito e moglie dovessero durare eterne.
Senza rispondere all'augurio, Varedo le regalò un biglietto di cinquanta lire e la congedò con parole amorevoli.
Ella uscì confusa e singhiozzante.
Con uno sforzo energico di volontà, il professore ringhiottì le lacrime che gli salivano al ciglio, e accennò a Bardelli di seguirlo nello studio, ove gli dettò due dispacci e gli consegnò lo chèque per la Banca.
—Mi fa il piacere di spicciarsi, perchè il danaro mi occorre… Quando poi sarà tornato, discorreremo con comodo di quell'affare di ieri… I dispacci li imposti strada facendo…. Aspetti, aspetti, che forse ci sarà qualcos'altro.
E mosse incontro alla cameriera che portava su un vassoio tre telegrammi.
—Tutti e tre insieme sono arrivati?
—Sissignore… Le ricevute le ho firmate io.
Varedo li aperse a caso. Lesse nei primo: Sincere condoglianze. E nel secondo: Mi associo al vostro lutto.
Diede una sbirciatina al nome dei mittenti, si strinse nelle spalle, e con impazienza febbrile ruppe la busta del terzo dispaccio.
Ah, quest'era di San Giustino, e la fisonomia del nostro onorevole, leggendolo, s'illuminava di soddisfazione e d'orgoglio.
Fatti due giri per la stanza, Alberto Varedo si fermò davanti a Bardelli:—Scriva. Deputato San Giustino—Roma.—Accetto. Parto in giornata—Sarò a Roma domani—Varedo. Questo lo spedirà primo, per urgenza…. E ora che non ci sono più dubbi sul mio ingresso al Ministero, ora che mi si offre non un semplice sottosegretariato, ma un portafoglio, quello d'agricoltura, industria e commercio, le rinnovo la domanda di ieri: Vuol venire alla capitale come mio segretario particolare con lo stipendio, per ora, di tremila lire? Sì o no?
Bardelli raccolse tutto il suo coraggio, e con voce abbastanza ferma rispose:—Grazie, professore, ci ho riflettuto… Ma proprio non ho attitudini per la politica.
—Un segretario particolare non ha bisogno di averne. Basta che sappia eseguire.
—Sarà, ma sento di non esser nato per quell'ambiente.
—Vuol rifletterci ancora? Vuol consultare la sua famiglia e farmi conoscer la sua decisione a Roma per sabato o domenica al più tardi?
Ormai Bardelli non pensava ad altro che a togliersi perfino la possibilità della ritirata.
—Io la ringrazio di nuovo dal fondo del cuore, ma è inutile. Sarei un pesce fuor d'acqua.
Alberto s'arricciò con le dita le punte dei baffi e disse in tuono gelato:—Come crede…. A ogni modo, mi fa oggi quelle commissioni.
—Vado e torno col danaro—rispose Bardelli che non vedeva l'ora di troncare il colloquio.
—Preghi l'ingegnere Aldini di passar da me—gli gridò dietro Varedo.
E prese a rileggere il telegramma di San Giustino il cui tenore lo consolava del rifiuto dianzi subìto.
Tutto va a gonfie vele. Avrei distribuito i portafogli così. (E qui seguiva la lista). Manca il titolare per l'agricoltura e commercio non essendoci potuti accordare con Modica per ragioni che esporrovvi a voce. Anche in nome dei colleghi offrovi con calda preghiera d'accettazione, anzichè il sottosegretariato interni, il portafoglio disponibile. Se aderite, il Ministero è fatto, salvo approvazione di Sua Maestà di cui non dubitasi. Telegrafate per urgenza e affrettate vostra venuta Roma.
Gustavo Aldini si fermò sulla soglia.
—Avanti!—disse Varedo.
—Chiedevi di me?
—Sì, per due ragioni…. In primo luogo t'annunzio che m'è offerto e ho accettato il portafoglio di agricoltura, industria e commercio.
—Ah, non si tratta più d'un sottosegretariato ma d'un ministero?
—Già la sera della mia partenza da Roma San Giustino aveva lasciato balenare la possibilità dell'offerta.
Questo non era vero; era vero piuttosto che si ricorreva a Varedo soltanto dopo rotte le trattative con Modica; ma ognuno dà ai fatti che lo guardano l'interpretazione che meglio gli conviene.
—Dunque sei Eccellenza?—ripigliò Aldini inchinandosi.—Mi congratulo, signor Ministro d'agricoltura, industria e commercio.
—Alcuni lo reputano un Ministero secondario—(Varedo dimenticava che fra questi alcuni c'era anche lui)—ma hanno torto… Del resto l'importanza d'un Ministero deriva dal titolare… Cavour ha cominciato di là…
Per correggere l'impressione della frase superba, Alberto soggiunse:—Si parva licet componere magnis.
E con apparente bonarietà rivolse allo zio una interrogazione delicata:—Sii sincero, non hai fede in me?
—T'ho sempre creduto un uomo di molto ingegno e di molta dottrina—rispose Gustavo.—Ma non so se, data l'indole de' tuoi studi, il portafoglio dell'agricoltura e del commercio sia il più adatto…. Hai la competenza tecnica?
—Oh!—ribattè Varedo.—Quella s'acquista.
E, tagliando corto, mutò argomento.
—L'altra cosa di cui volevo informarti è questa. Avrai certo inteso più volte da tua nipote ch'io non rendo giustizia a Bardelli, che scordo le sue grandi benemerenze verso di noi, che non lo appoggio, che non lo aiuto…. Sì, sì, è una delle accuse che mi fa mia moglie… Ebbene; io ho proposto ieri, e ho riproposto or ora a quel giovinotto di venir meco a Roma in qualità di mio segretario particolare con uno stipendio di tre mila lire l'anno… Puoi immaginarti ch'è un impiego a cui non mancheranno gli aspiranti, e non avrò che l'imbarazzo della scelta… Il signorino ha rifiutato in modo assoluto, reciso.
—E che ragioni adduce?
—Dice che non è nato per la politica… Ma è un pretesto… La ragione vera la ho capita io… e sono stato anche troppo tempo a capirla, e fino a ieri m'illudevo che Bardelli mi fosse devoto, affezionato come per lo addietro… La ragione vera, eccola. Nel dissidio sorto fra me e Diana, Bardelli ha preso partito per mia moglie. Ai suoi occhi come agli occhi di Diana io sono un reprobo, e la sua coscienza gli vieta di accettare una posizione che lo metterebbe in contatto diretto con me… Di ciò non mi curo; mi basta che tu sia in grado di testimoniare che io ho fatto per quel signore ciò che dipendeva da me.
—A Diana dispiacerà senza dubbio che Bardelli perda l'occasione propizia… E s'egli ha agito così per motivi a cui tu alludi, ella stessa potrebbe…
—Intercedere forse?—protestò fieramente Varedo.—Ci vorrebbe anche questa!… No, no, è una faccenda liquidata… Il posto sarà coperto domani da qualcheduno meno superbo e meno scontroso del professorino Bardelli.
—Oh!—replicò l'ingegnere.—Figuriamoci! In Italia i sollecitatori d'impieghi sono legione. Quello ch'è difficile trovare da per tutto è un uomo che per uno scrupolo morale, sia pure ingiustificato, sacrifica il proprio interesse.
—Tu lo approvi?
—Lo considero una rarità della specie… Posso anche disapprovarlo; non posso a meno di stimarlo.
—Oh per questo—esclamò Varedo alquanto piccato del linguaggio di Gustavo Aldini—accomodati pure… E se ti fa piacere lo stimerò anche io, ma cesserò d'occuparmi di lui.
Poco dopo Alberto e Gustavo si separarono freddamente. Ogni minuto che passava li divideva di più, dava maggior risalto alle differenze dei loro caratteri, ravvivava la vecchia antipatia, i vecchi rancori… Restando ancora insieme, avrebbero finito col trovarsi uno di fronte all'altro in aperta ostilità, come circa tre anni addietro, in quella calda sera di luglio, sulla terrazza del Lido.
Varedo prese il primo treno diretto per Roma. Aldini tornò all'albergo ov'era disceso venendo a Torino, e ove s'era sempre tenuto una camera benchè nelle ultime notti della malattia di Bebè egli dormisse in casa di sua nipote.
—Mi prepari il conto—egli ordinò al direttore dell'albergo.—Parto stasera.
—Per Modane alle 23.25?—chiese il direttore che credeva esser questa la sua direzione.
—Glielo saprò dire più tardi.
E, cedendo al suo gran bisogno di quiete e di solitudine, Aldini salì nella stanza, vi si chiuse a chiave, e s'accinse a fare le sue valigie.
—È vero—egli pensava—è vero… Nel lasciar Venezia io avevo in animo di proseguire per Parigi e per Londra, e invece sono rimasto qui ad assistere a questa nuova tragedia, e ho messo in seconda linea gli affanni miei, e ho quasi dimenticato il fine del mio viaggio… Avrei ben diritto di ricordarmene oggi, di cercare uno svago a questa cura assidua che mi rode… Uno svago?… Ma ce ne può essere?… Ma posso io volere che ce ne sia… dopo tre settimane dacchè ella è morta? Tre settimane! E un mese fa ella era sana, florida e lieta, e guardava piena di fede al futuro, e affrettava col desiderio il giorno in cui avrebbe portato il mio nome!… "Sono troppo felice—ella mi diceva una sera.—Ho paura…" E s'ammalava subito dopo… e l'ho vista morire… e ho sentito la sua mano irrigidirsi nella mia… ho letto ne' suoi belli occhi gonfi di lacrime tanto amore e tanta pietà… Come era buona e gentile! Com'era superiore ai farisei che la giudicavano!… Com'era pronta a consolare gli afflitti, a soccorrere i deboli, a sollevare i caduti!… Ah non c'è altra gioia al mondo per me… non c'è altri per amarmi…
Gustavo Aldini si pentì di questa sentenza assoluta, e mentalmente ne chiese perdono alla Valeria che gli aveva sempre voluto bene, che ne aveva voluto molto anche a lei, ed era impaziente di potere, in faccia a tutti, chiamarla sorella…. Povera Valeria!… In mezzo a quante tristezze le toccava vivere! Prima il colpo di fulmine dell'Adelaide, poi la lenta agonia della nipotina, e ora la pena immensa di veder Diana in disaccordo col marito!… Ed egli la lasciava proprio in questo momento, quand'ella aveva forse più bisogno del suo aiuto, del suo consiglio, della sua compagnia?… Ma che ci andava egli a fare a Londra e a Parigi? Che sperava da questa pazza corsa attraverso l'Europa?
Con una risoluzione subitanea egli suonò il campanello e disse al cameriere:—Anzichè la linea di Modane prenderò quella di Milano-Venezia.
Il cameriere s'inchinò:—Alle 19.55. L'omnibus parte dall'albergo alle 19.30…. Il signor ingegnere ha tempo di pranzare a table d'hôte.
—Sta bene. Discenderò. Mandate un facchino per le valigie.
E alle 19.55, allorchè il treno si mosse, Gustavo Aldini provò una sensazione d'inusato benessere. Egli s'avvicinava ai luoghi ove aveva goduto e sofferto, ove avrebbe potuto esser utile a qualcheduno e parlar con qualcheduno del suo dolore… ove la tomba recente della sua donna adorata aspettava nuove ghirlande a sostituir quelle che, tre settimane addietro, egli vi aveva deposte.
Capo I.—Una promessa di matrimonio Pag. 1
» II.—In casa degli sposi » 19
» III.—La famiglia Bardelli » 31
» IV.—Al Lido » 45
» V.—Nel travaglio del parto » 79
» VI.—Nuovi orizzonti » 97
» VII.—Due «maiden-speeches» » 115
» VIII.—Fiasco » 129
» IX.—Eugenio Bardelli si sente una pulce nell'orecchio » 143
» X.—Nella bottega dell'orefice » 161
» XI.—Effusioni epistolari » 179
» XII.—A Roma » 193
» XIII.—Una festa che principia male… » 211
» XIV.—…. e finisce peggio » 227
» XV.—La fuga » 253
» XVI.—Fra i crucci propri e gli altrui » 275
» XVII.—Una scaramuccia coniugale » 289
» XVIII.—Quando le disgrazie cominciano!… » 303
» XIX.—Per un calice » 323
» XX.—Fra due doveri » 339
» XXI.—Un intermezzo glorioso » 361
» XXII.—Da Roma a Torino » 373
» XXIII.—Dinanzi alla piccola morta » 397
» XXIV.—Un ministero fatto e una famiglia disfatta » 417