Title: La baraonda
Author: Gerolamo Rovetta
Release date: May 13, 2009 [eBook #28785]
Most recently updated: January 5, 2021
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)
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OPERE di GEROLAMO ROVETTA:
Mater Dolorosa (8ª. edizione). Milano, Chiesa e Guindani, I Barbarò, o le lacrime del prossimo. (3.ª ediz.). Treves. Sott'acqua (3.ª edizione). Milano, Treves. Tiranni Minimi (4.ª edizione). Milano, Treves. Ninnoli (5.ª edizione). Milano, Chiesa e Guindani. Il Processo Montegù (3.ª ediz.). Milano, Chiesa e Guindani. Il Primo Amante (2.ª edizione). Milano, Treves. Baby (4.ª edizione). Milano, Chiesa e Guindani. La Baraonda. Milano, Treves.
Un volo dal Nido, commedia. Verona, Münster. La moglie di Don Giovanni, dramma. Verona, Münster. Collera cieca, commedia. Verona, Münster. In sogno, commedia in 4 atti. Verona, Münster. Gli uomini pratici, commedia in 3 atti. Milano, Treves. Scellerata! commedia in un atto. Milano, Treves. La Contessa Maria, dramma in 4 atti. Milano, C. Barbini. La Trilogia di Dorina, comm. in 3 atti. Milano, Treves. I Barbarò, commedia. Milano, Chiesa e Guindani. Marco Spada, comm. in 4 atti. Milano, Chiesa e Guindani. Alla città di Roma, comm. Milano, Chiesa e Guindani. La Cameriera Nova, in dialetto venez. Chiesa e Guindani. I Disonesti, dramma in 3 atti. Milano, Chiesa e Guindani.
La Baraonda
FRATELLI TREVES, EDITORI 1894.
Riservati tutti i diritti.
Tip. Fratelli Treves.
Nora piombò nella saletta come un fulmine.
—Ho fame! Ho fame!—Poi gridò, chiamando e voltandosi verso l'uscio della cucina:
—Gioconda! Presto! La colazione!
—La Gioconda,—rispose Evelina, senza alzare il capo nè la voce,—la Gioconda l'ho mandata adesso alla posta. Torna subito.—E continuò a scrivere, curva, tutta addosso alla tavola, colla faccia sulle cartelle.
Nora, stizzita, si sbottonò d'un colpo, con una sola strappata, la giacchettina blu dagli occhielli un po' logori, poi brontolando, cominciò a camminare in su e in giù per la saletta.
Quanto più la Gioconda tardava a venire, tanto più Nora diventava rabbiosa, e il suo viso così fresco e roseo, sotto il gran volume dei capelli biondi, il bel visino spirante una leggiadrìa tutta infantile e che risaltava piacevolmente per lo splendore magnifico della persona alta e rigogliosa, si alterava, appariva contraffatto.
—Tu per altro, gioia! tu l'hai fatta colazione!
Anche la voce, non era più la solita, dalle calde modulazioni; era divenuta disarmonica ed aspra.
L'altra intanto, calma, indifferente, continuava a scrivere, rannicchiata, bassa, quasi col naso sulle cartelle.
Evelina lavorava così le intere giornate, occupando sempre il suo solito cantuccio della tavola da pranzo dove nel gran disordine di quella gente si ammonticchiava in un batter d'occhio coi libri, coi giornali, colle lettere, tutta l'altra roba che entrava o aveva finito di girare per la casa.
Sopra un fascio di bozze c'era ancora un piatto col bicchiere e col tovagliolo di Evelina: tutto sotto l'attenta e immobile sorveglianza di Numa, il gattone rosso. Ed era stata appunto la vista di quella roba, del piatto col bicchiere e col tovagliolo, la vera cagione della stizza, dell'ira crescente di Nora.
E la Gioconda non si faceva vedere!
—Tu fai il comodo tuo, senza darti pensiero di nessuno!… Quando sai che io devo tornare a casa dopo essermi spolmonata con tre ore di lezione, allora mandi fuori la Gioconda colle lettere!—e irritata anche perchè le sue parole non facevano nessun effetto, le buttò i guanti con violenza sul capo.
Numa sparì d'un tratto. Evelina asciugò la cartella che si era macchiata d'inchiostro, cercò una parola scartabellando un dizionario, e ricominciò a scrivere come prima.
—La Gioconda deve essere qui subito!—disse poi, a mezza voce, come se parlasse fra sè.
L'altra ricominciò a girare e a brontolare.
—Che vita! Che vita! Che vita! Ma presto, per fortuna….—e questo lo mormorò più sottovoce—me ne andrò! me ne vado! subito! a qualunque costo!—E camminava un po' dondolandosi, affondando le mani nella giacchetta, con un'aria di rivolta e di sfida, stirandosi ritta colla vita e colle spalle, quasi offrendosi col seno sporgente: pareva volesse sfoggiare tutte le attrattive, tutte le seduzioni della sua bellezza.
Sì, se ne sarebbe andata, e quel bel corpo doveva essere la sua potenza, la sua fortuna. Se quello che aveva in cuore le sarebbe riuscito, bene; diversamente avrebbe fatto la cantante, la mima….
E Pietro Laner?
Nora rispose a quel ricordo importuno con un'alzata di spalle.
Il suo giovane fidanzato, il giovane povero, umile, le appariva in mezzo alla luce sfolgorante del nuovo sogno, ancora più misero, ancora più meschino.—E brutto. Perchè era anche brutto; colla barbetta rada, ispida, i capelli crespi e lunghi come la parruccaccia d'un negro, e gli occhialoni grossi, colle suste dietro le orecchie, come i tedeschi!—Non aveva più un soldo ed era anche brutto.—Bel guadagno a sposarlo!
—Se gli aveva detto di sì, adesso gli direbbe di no!—E come prima, all'immagine del giovane, adesso, al rimordere leggero della coscienza rispose con un'alzata di spalle….—Duchessa!… Che sogno! Che sogno!… Ma sarebbe arrivata fin là?… Ebbene, se "fin là" proprio "fin là" non sarebbe arrivata, se non potesse giungere ad essere sua moglie—duchessa!—avrebbe accettato anche di diventare la sua amante. Essere una signora, "esser ricca", questo era il più importante—e questo era sicuro:—ed ecco la sua febbre, la sua gioia di quei giorni. Perchè in quei giorni Nora era contenta. Se si era arrabbiata, se si arrabbiava tanto contro Evelina, era per una collera tutta fisica, per il tormento acuto, irritante dello stomaco vuoto, che la rendeva nervosa. Finchè non si sfogava a mangiare aveva bisogno di sfogarsi a gridare, a strapazzare. Non c'era altri che Evelina e se la rifaceva con lei: e poi quando fu persuasa che Evelina non le badava nemmeno, se la prese colla credenza, aprendola e richiudendola con gran fracasso.
—Niente! Niente! Niente!
Si avvicinò alla tavola per cercare nei cassetti, ma Evelina si oppose:
—Sta ferma; non posso scrivere.
—Voglio mangiare!
—Mangia una fetta di panettone.
In quella casa, mancava qualche volta il pane; il panettone mai.
—No, gioia! Voglio anch'io una costoletta!—E le indicava un ossicino sul piatto, dinanzi al quale Numa era tornato a montare la guardia sospirando.
In quel punto si udì camminare nell'anticamera.
—Gioconda! Presto! La colazione!
—Come? La signorina Nora?… E non è rimasta dalla signora Schönfeld?—esclamò la Gioconda ridendo col riso grasso della donna ben pasciuta.
—Ma guarda che originale! Resta fuori ogni altro giorno o a colazione o a pranzo, sempre in aria con questa Schönfeld, e proprio oggi, signor no! Viene a casa a far colazione!—La Gioconda parlava lentamente, ascoltandosi e continuando a ridere per quello che diceva. Oh, in casa, avevano fatto un "repulisti" generale! Lei non aveva più un soldo! Prima di andare a far la spesa doveva aspettare il signor Direttore "col rinforzo!"
—Oggi a credito non si compra; tutti brontolano e mi strapazzano. Vogliono essere pagati. E si capisce. È appena morto il giornale; i bottegai sono tutti diffidenti!…—E scoppiò a ridere più forte: il fatto della signorina, che con tanto appetito doveva digiunare, era molto comico!
Nora aveva quasi le lacrime agli occhi.
—Non dire sciocchezze, che non occorre aspettare lo zio Matteo! Tu sei una milionaria!…
—Sicuro!—Il bel servone voleva negare sospirando, ma non riusciva a nascondere tutta la propria compiacenza.—Avevo quaranta o cinquanta lire e ho dovuto mandarle a mia sorella!
Questo non era vero. Aveva il gruzzolo, nascosto nella calzetta. Nei giorni dell'abbondanza nessuno badava a spendere e spandere; soltanto la serva metteva da parte.
—Ma lei, signorina? Delle sue lezioni?… Niente?—E la Gioconda soffiò sul palmo della mano per rendere la domanda più eloquente.
—Ho dato tutto allo zio Matteo.
—E io pure,—ripetè Evelina, prima di essere interrogata.
Nora tornava a strillare, ma la Gioconda, vivamente, accennando verso l'anticamera, le fece segno di tacere.
—Perchè? Chi c'è?—domandarono le due ragazze quasi insieme.
—Un…. tirolese.
Tirolese, era il soprannome che si dava in quella casa ai creditori in generale.
Perchè?—Chi lo sa?—Nessuno forse, avrebbe saputo dirlo; ma tutti i creditori venivano chiamati a quel modo: tirolesi.
—Chi è?—domandò Evelina più curiosa che inquieta.
—È il fattorino della Faré, quel gran negozio di guanti e di cravatte!—esclamò la Gioconda coll'ammirazione che destava ancora, dopo tanto tempo, nella contadinotta della bergamasca il gran lusso di Milano.
—Non gli hai detto che lo zio è fuori?
—Sicuro, ma non importa. Ha ricevuto l'ordine di aspettarlo.
—Ma io ho fame! Ho fame!—continuava a ripetere Nora. Importava tanto a lei dei tirolesi!
—Venga con me. Caffè latte e panettone è una colazione da papa!—E sempre sorridente, movendosi indolente colla persona grassa e rotonda dappertutto, passò in cucina seguita da Nora. Anche Numa, saltò giù dalla tavola e le tenne dietro, silenziosamente, fregandosi contro le sue sottane e rigirando alta la coda con tutto uno stiramento sonnacchioso.
Intanto Matteo Cantasirena, lo zio, come lo chiamavano Nora ed Evelina, il signor direttore, come lo chiamava la Gioconda, continuava a farsi aspettare. La sua gazzetta—Il Rinnovatore—era morta il giorno innanzi; ma non c'era da temere per Cantasirena: egli era più vivo che mai. Morto un giornale, ne faceva un altro, ed era allora che spiegava la maggiore attività, le più grandi risorse della sua fantasia e del suo spirito, ed era allora, sui giornali degli altri, che egli scriveva anche i suoi migliori articoli, per il bisogno stringente delle cinquanta lire, per far sapere, per far vedere e per ricordar bene, che Matteo Cantasirena era sempre quello di prima!
Egli poteva vantare tutti i titoli. Professore, avvocato, cavaliere ed anche colonnello, perchè era stato qualche cosa di simile con Garibaldi, nelle sussistenze. Lui e l'Italia si erano fatti a vicenda ed erano cresciuti grandi insieme. Egli aveva tutto veduto, tutto provato, tutto goduto, tutto sofferto; aveva fatto di tutto ed anche del bene.—Oggi era pieno di danari, di gloria, di potenza; domani danari, autorità, amici e riputazione, tutto aveva perduto, tutto: tranne la salute!… Ma poi, con la salute sempre buona, ritornava da capo; e destreggiandosi ed imponendosi, commovendo gli uni e minacciando gli altri, ma non odiando mai nessuno, nemmeno chi gli aveva tirato l'ultimo calcio, e poter così approfittare di tutti quanti, a poco a poco ritornava a galla, sempre potente e sempre gaudente…. in barba…. ai tirolesi!
La sua forza era la grande fede in sè stesso e nella minchioneria degli altri. Generoso, prodigo, anche nella disdetta, nelle angustie più terribili, ostentava una cert'aria olimpica di protezione; era il grande architetto, almeno uno dei grandi architetti, se non dell'universo, della patria.
La folla che lo vedeva sempre in piedi anche dopo le cadute più rumorose, lo stimava un valore particolare; ed era indulgente e benevola con Matteo Cantasirena, il quale, in fondo, non era mai cattivo più del necessario, e gli manteneva la sua simpatia perchè in tutto ciò che di bene o di male si raccontava o s'inventava sul conto suo, c'era sempre la parte amena, la nota dell'uomo di spirito, che faceva ridere.
E anche la sua figura era simpatica. Bell'uomo, alto, col cranio pelato, lucentissimo, col bel pancione delle persone importanti e la barba alla Mosè, si faceva subito notare in mezzo a tutti e prima di tutti, in un teatro, ad un banchetto, in mezzo alla folla, e così anche pei vantaggi della sua figura, finiva col rappresentare, dovunque si trovasse, una parte sempre spiccata. E Cantasirena, che sapeva anche questo, compiva l'opera della natura, con certi cappelloni a tuba dalle larghe tese che si faceva fare apposta e collo sparato ampio della camicia; i provinciali se lo indicavano l'un l'altro come una delle rarità di Milano, e la sua grossezza caratteristica aumentava la sua gloria.
Nora ed Evelina egli le chiamava, colla solita teatralità espansiva, "le sue care figliuole." Ma questo non vuol dire che fossero sue figlie davvero, come non erano nemmeno sue nipoti, sebbene esse lo chiamassero zio.
Era un modo appunto per chiamarsi, per farsi intendere. Ma poi, nel turbinìo rumoroso, assordante di quella casa e di quella vita così varia, così agitata e accidentata, fra un giorno di lusso e di abbondanza e un altro di ripieghi, fra l'andirivieni ai teatri, alle feste, alle inaugurazioni e alle commemorazioni, e le giornate del lavoro affrettato, disperato, affannoso, non c'era mai tempo di fermarsi per ricordare, per riflettere; e così il modo di chiamarsi diventava poi, in quella gran confusione, anche il modo di essere, e la metafora delle espansioni suppliva alla mancanza dei rapporti di famiglia, dei legami del sangue.
E tutto ciò, naturalmente, ancora di più per Cantasirena che per Nora e per Evelina. La politica, il giornale, le banche, le ferrovie; e correre in cerca di quattrini; e una cambiale da rinnovare, un'altra da non pagare, e un'altra da scontare; e il ministero da sostenere e l'impresario da difendere e il discorso di un onorevole, e tutto ciò con un duello per aria, un protesto in casa, e i vizietti da soddisfare: ecco la sua vita, giorno per giorno.
La casa, per Matteo Cantasirena, non era l'abitazione, ma uno dei suoi recapiti. Vi era sempre di passaggio, dentro e fuori, col cappello in testa, il bastone sotto il braccio, e la voce in aria: quando si fermava di più era qualche volta di notte, e qualche volta anche di giorno, colla Gioconda…
Faceva colazione al caffè, mandava alla cuoca delle sporte di roba per il pranzo e poi non ci veniva nemmeno, senza avvertire, e nessuno lo aspettava.
Ne' suoi bei momenti di gloria e di quattrini, aveva la casa piena di gente: commilitoni, genii, patriotti, tenori, deputati…. e sopratutto parenti: quando aveva quattrini gli capitavano parenti da tutte le quattro parti. Cantasirena li accoglieva sempre a braccia aperte e apriva loro anche la borsa. Si commoveva, pieno di contentezza nel rivederli, anche quando non li aveva mai visti; poi, quando tornavano i giorni della bancarotta e se ne andavano tutti com'erano venuti, Matteo Cantasirena, per il primo, non se ne ricordava più.
Quelle due ragazze, Evelina e Nora, gli erano state portate in casa, piccine, bambine ancora; poi nessuno si era più ricordato di venirle a riprendere e così vi erano rimaste, erano cresciute ed erano diventate "le sue care figliuole"; e per questo lo chiamavano zio, e tutti le credevano due sorelle, mentre forse non erano nemmeno cugine.
Eppure, preso alle strette, avrebbe potuto giurare che non erano proprio sue figlie?…—Aveva avuto moglie?
Una vera moglie, legittima, forse no. Ma fra tutte quelle donne di ogni classe e di ogni razza colle quali era stato legato in quella sua lunga vita, cominciata quando ancora era quasi fanciullo, avrebbe potuto giurare che non ci fosse stata anche la madre di Nora e di Evelina?… Dell'una o dell'altra, almeno, se non di tutte due?
Ma Cantasirena non ci pensava, e anche pensandoci, non se ne sarebbe ricordato. Forse non avrebbe saputo dire, con sicurezza, nemmeno dov'era nato. A Torino, quando aveva fondato la Dogaressa, pareva un veneto; poi, entrato con Vittorio Emanuele a Venezia, per fondarvi il Bersagliere, lo credevano un piemontese. Adesso, a Milano, si riscaldava contro l'invasione dei giornalisti esotici: dunque avrebbe dovuto essere milanese o almeno lombardo….
E anche il suo nome?… Anche quel nome: Cantasirena? Era il suo vero nome?… O non era piuttosto l'antica firma, il pseudonimo del suo primo articolo, della sua prima battaglia, de' suoi primi successi, e che rimasto nella voga popolare, era poi rimasto anche a lui, definitivamente?…
Chi lo sa!
La sua vera vita era stata la vita pubblica; il suo passato, il passato storico della nuova Italia; e invece degli anni egli contava il numero dei ministeri!
E adesso che aveva i cinquanta, e forse i sessanta, dopo tanto fare, disfare, rifare, dopo aver guadagnato e aver speso milioni, Matteo Cantasirena era ancora tal e quale, per tornar da capo: allo stesso punto come quando aveva cominciato: pieno di salute e di speranze.
In quanto alla roba; quella sua "propriamente sua" avrebbe potuto portarla con sè, tutta in un baule. E forse, anche il baule, avrebbe dovuto farselo prestare dalla Gioconda.
Evelina e Nora, fatte ormai a quella vita, prese nell'ingranaggio di quell'esistenza avventurosa e precipitosa, avevano finito col diventare due ruote del baraccone.
Nora, che Matteo Cantasirena chiamava sempre "E-lè-oo-nò-ra" compiacendosi nel far risonare tutte le vocali del bel nome armonioso, era maestra di canto e di pianoforte. Aveva una voce bella, e sapeva leggere discretamente; ma non c'erano abilità straordinarie. Eppure lo zio era riuscito colle sue aderenze, colle sue influenze, a imporla, a farla accettare come maestra al Conservatorio; e dopo quella nomina ufficiale tutte le cantanti che passavano da Milano dovevano prendere alcune lezioni di perfezionamento da Eleonora. Era come una tassa che le colpiva, tutte indistintamente, e che variava a seconda dei quartali o del loro peculio. E quelle povere prime donne, per piacere a Cantasirena, per cattivarsene l'animo e per avere la sua protezione, si scalmanavano tutte in grandi ammirazioni, e si prendevano tutte di un grande amore per la cara Eleonora. La coprivano di carezze e di regali, la portavano in giro, in carrozza, come in trionfo, erano continue feste, continui inviti; e poi le lezioni, a costo di fare un debito, si pagavano al papà, sempre prima di andare in scena.
Invece, alla buona Evelina, era affidata la compilazione del gran dizionario Dei patriotti viventi. Dei morti, Cantasirena se ne occupava soltanto quando si trattava della sottoscrizione per il monumento. Il dizionario usciva a puntate, durante i periodi più difficili, quando Cantasirena non aveva un giornale o il Ministero negava i fondi: perchè Cantasirena aveva cominciato con Cavour ad essere ministeriale, ed era sempre rimasto ministeriale, per quanto si fossero cambiati i ministri. Per la sua coscienza di pubblicista la destra e la sinistra non erano, non potevano essere altro che le due mani del medesimo corpo: la patria…. Si intende, la patria dell'ordine.
E quando c'era una nuova puntata del Dizionario dei patriotti viventi da pubblicare, Cantasirena scriveva lettere, faceva visite, domandava schiarimenti, informazioni, notizie, sapeva destramente rievocare il passato, tanto per lusingare ambizioni, quanto per incutere timori; ma il patriotta vivente, tanto perchè Cantasirena parlasse come per farlo tacere, doveva sempre pagare. E se il Dizionario non poteva mancare ai patriotti, non c'era pericolo che i patriotti mancassero al Dizionario!
Quando Matteo ebbe finito coi patriotti che avevano fatto l'Italia, cominciò con quelli che l'avevano servita e la servivano, coi patriotti che la illustravano, nelle arti, nelle scienze…. Adesso aveva cominciato una nuova, infinita categoria: i patriotti "della Beneficenza."
Matteo cercava i nomi nelle guide, negli indicatori ufficiali, e poi Evelina era capace, all'occorrenza, di fare anche cinque o sei patriotti al giorno.
È vero che anche Evelina aveva a sua volta chi l'aiutava: erano i giovani infelici che dopo essere stati lusingati da Nora, venivano piantati sul più bello. I disgraziati, pur di continuare a vederla, a respirare un po' della sua aria, e nella speranza fors'anche d'ingelosirla, si mettevano a far la corte ad Evelina, alla quale toccavano così, di seconda mano, gli abiti smessi di Nora e i suoi amanti abbandonati.
Essa viveva di riverbero, colla luce di quell'altra, ma intanto viveva.
Evelina era bruttarella davvero. Il corpicciuolo miserino, sformato: pochi capelli chiari chiari e lisci, i denti radi e un po' guasti: e tutto il viso d'una trasparenza giallognola, lustro di sudore, e col barbaglio delle lenti grosse traballanti sul nasino troppo piccolo. Eppure, così bruttina, aveva attrattive tutte sue. Più che farle danno, il confronto della bellezza florida, esuberante di Nora le tornava vantaggioso, inspirando per lei un senso di simpatia pietosa, gentile, e con quella sua aria di malatina rassegnata, si rendeva interessante. La sua voce di solito velata, nella lentezza dolce degli intimi colloqui aveva seduzioni tenere, occulte, e quando si levava il pince-nez, gli occhi bigi, un po' loschi e stanchi dietro le lenti, si ravvivavano di un lampo di luce, e avevano bagliori e carezze misteriose.
Anche per Evelina, come per Nora, l'unico pensiero era di andarsene da quella casa e di "mettersi a posto".
Nell'abbandono in cui erano sempre state lasciate, le due ragazze si erano abituate presto a pensare a sè, e a provvedere a sè, come i monelli delle piazze.
Nora non s'era neanche levata nè la giacchetta nè il cappello, una specie di berretto di lontra alla cosacca. Dopo fatta colazione avrebbe atteso un poco alla finestra per vedere se "i due" sarebbero passati di là, come avevano fatto il dì innanzi per aspettarla e per accompagnarla da lontano, fin dove andava a dar lezione….
—E se non si facevano vedere?… Sapevano che quel giorno essa doveva andare dalla Schönfeld e forse ci sarebbero capitati, per farsi presentare.
—E se non si facevano vedere nè in istrada, nè dalla Schönfeld?… Se non si facevano veder più?
—Questo è impossibile!—rispose Nora a sè stessa, tuffando una gran fetta di panettone in una piccola tazza di caffè e latte.
—Dirai al signor Laner—esclamò rivolgendosi alla Gioconda—che non venga a mezzogiorno, se mi vuol trovare. Venga dopo le quattro. A mezzogiorno ho una lezione.
—Dalla signora Schönfeld?—domandò la cuoca, succhiando gli acini d'uva passa che andava scegliendo fra le briciole, sul piatto del panettone.
Nora non rispose: non voleva rendere tanti conti.
Aveva fissato colla Schönfeld, la sua grande confidente del momento, che in tutti quei giorni sarebbe andata da lei dalle dodici alle tre per ripassare la Carmen. Ma questo non era altro che un pretesto, un piano prestabilito.
In uno di quei giorni ci doveva essere anche la visita dei due delle passeggiate, e allora, come per caso, sarebbe stata fatta la famosa presentazione.
—Sì! Sì! spiegarsi! e venire al concreto.
Nora, appena ebbe calmata a furia di panettone e di datteri quella sua fame di fanciulla sana e forte, ed ebbe bevuto in piedi, dal secchio di rame della cucina, una lunga sorsata d'acqua fresca, tornò di nuovo in saletta e andò a mettersi dietro la finestra, cantarellando.
—In questa casa,—brontolò poi, dopo un momento, perchè sentiva di non aver mangiato abbastanza,—prima di tutti c'è madama Gioconda, poi Numa, poi te,—e indicava Evelina,—e finalmente io, per gli avanzi…. quando ne rimangono!
Evelina, che non si era mai offesa sin allora, si sentì punta per quell'umiliante compagnia della serva e del gatto.
—Già,—rispose, sempre continuando a scrivere, ma con un'ironia più acuta e penetrante per la sua lentezza placida.—Già; quando sarai nel palazzo Laner, il primo posto sarà sempre il tuo!
—So anch'io, più di te, che cosa potrei aspettarmi anche con Pietro Laner! Per questo…. C'è tempo! Lascio fare allo zio Matteo!—E Nora tornò a ridere.—Ah! Ah! Ah! Lo zio!… Portentoso lo zio!… Intanto ha scoperto il decoro, la riputazione delicata delle sue care figliuole, per metter Pietro fuori della porta!
Evelina aveva cessato di scrivere; stava attentissima, e la sua ansia, per quanto volesse dissimulare, era così viva, che non sarebbe certo sfuggita a Nora, se questa appena le avesse badato. Ma Nora era troppo intenta alla finestra.
—Lo zio Matteo,—seguitò Evelina per farla parlare,—non ha avuto torto. Un giovane, in pensione nella stessa casa con due ragazze…. Non era conveniente.
L'altra si voltò per fissarla.
—Cos'è successo? Mi diventi diplomatica! Sai anche tu perchè lo zio Matteo si era tirato in casa Pietro Laner! C'erano ventimila lire! E sai anche tu, meglio di me, perchè adesso, lo zio, colla scusa del decoro, lo ha mandato fuori dei piedi!
—In ogni modo, ti sposi o no, le ventimila lire sono sue e gli si devono restituire!—borbottò Evelina con un accento strano, come di cupidigia. Poi soggiunse, guardandola bene, attentamente, quantunque Nora, sempre in piedi, alla finestra, le voltasse le spalle.—Ma e tu, non vuoi bene al signor Laner?
—Questo non ti riguarda!
Gli occhi di Nora si erano fatti più vivi, sfavillanti di contentezza e di trionfo, mentre cantarellava la Carmen con più espressione e si accompagnava suonando il tamburino colle dita sui vetri.
"L'amour est enfant de Bohème….
Il n'a jamais connu de toi…."
Poi, a un tratto, cessò di cantare, corse allo specchio, si accomodò in un attimo il berrettino, premendolo, allargandolo colle due mani sulla massa confusa, attortigliata dei capelli; si aggiustò la cravatta di seta lilla, che rendeva più delicata la freschezza rosea del suo colorito, abbottonò la giacchetta, guardandosi, voltandosi e rivoltandosi, stirandola bene sulla pienezza precoce dell'anca, poi, in fretta, preso l'ombrellino e un rotolo di musica, si avviò per uscire.
—E il signor Laner?—le gridò dietro Evelina.
—L'ho detto alla Gioconda! Ritorni dopo le quattro!—E via di corsa come un lampo.
Il tirolese che aspettava in anticamera, non ebbe tempo di vederla, di salutarla, che già gli era sparita dinanzi, e la sentiva scendere le scale col fruscìo leggiero delle vesti e il battere risonante dei piedini veloci.
Evelina, appena Nora se ne fu andata, posò la penna sul calamaio, si alzò, si avvicinò alla finestra mettendosi il pince-nez e rimase a osservare, a spiare nella strada, studiando di tenersi ben nascosta dietro le tendine.
In quel punto passava sotto la finestra, guardando in su, un signore tutt'altro che giovane, alto, secco, ma dall'aspetto, dalla figura molto aristocratica, dall'eleganza ricercata, coi baffi e i capelli di quella tinta un po' falsa dei vecchi biondi.
Un omino piccoletto, segaligno, tutto contorto e sciatto nell'abito nero, coi baffi tinti e coi capelli quasi bianchi, lunghi e crespi di sotto alla tesa del vecchio cappello a tuba, gli camminava accanto, saltellando nel tenergli dietro, saltellando nel gestire, nel parlare, anche lui guardando in su, verso la finestra.
Evelina continuava a spiare: la sua curiosità si faceva più viva, e gli occhi fissi, che diventavano acutissimi dietro il pince-nez, luccicavano di meraviglia beffarda.
—Che cosa spera quella matta?—pensava fra sè.
A un tratto, il signore alto, quello dall'aria nobile, ebbe come una scossa e toccò vivamente il braccio del compagno.
Nora usciva allora di casa, attraversando la strada, seria seria, facendo uno studio per non voltarsi e per non far capire ai due che li aveva veduti, e passando via, quasi sorvolando, andò a mettersi dinanzi a loro, camminando agile, leggera, sullo stesso marciapiede.
Evelina, sicura ormai che nessuno si sarebbe più voltato a guardare in su, aprì a mezzo la finestra, e cacciò fuori la testa, puntandosi sui piedi per vederci quanto più poteva lontano.
Nora, coi due che le tenevano dietro, camminava sempre ritta, composta, senza mai voltarsi, col passo ritmico e sicuro, col rotolo della musica sotto il braccio, alzando un po' le vesti colle piccole mani inguantate, mostrando i piedini, che parevano lunghi tanto erano sottili, nella scarpettina elegante, scoprendo a quando a quando, fra il rapido volteggiare delle sottane bianche, il morbido assottigliarsi della gamba nella calzetta nera.
Dava nell'occhio e tutti si voltavano a guardarla.
Nora sentiva intorno a sè quel calore di ammirazione e di desideri: lo sentiva e lo godeva nel cuore e nel sangue.
Camminava sempre diritta, sempre composta, senza mai voltarsi, ma il suo passo si faceva più ardito e la sua bellezza più rigogliosa….
Evelina rimase alla finestra finchè potè seguirla coll'occhio; poi richiuse i vetri, e quietamente tornò a sedersi al solito posto.
—Che cosa spera quella matta?…
Ricominciò a scrivere, ma continuando a pensare a Nora e ai due che le tenevano dietro.
—Che cosa spera quella matta?…
A un tratto si riscosse, trasalì alzando il capo, e rimase assorta, colla penna fra le dita lunghe, d'un leggero colorino d'ambra.
Numa, ch'era saltato di nuovo sulla tavola, accoccolatosi sopra un librone sgangherato, faceva, leccandosi con grazia, la toeletta delle zampe.
Evelina gli teneva gli occhi fissi addosso, ma non lo vedeva. Vedeva invece il giovanotto lungo e magro, quello che portava gli occhiali colle suste: Pietro Laner.
—Pietro Laner!… Scoperto il tradimento di Nora, che cosa avrebbe fatto?… Che colpo!… Sarebbe diventato pazzo di dolore, di collera…. Oh, ma non ci sono io?—pensava Evelina.—Col tempo, piangendo con lui, disperandosi con lui, non sarebbe riuscita a calmarlo, a confortarlo?…—E s'abbandonò riversa sulla poltrona, chiudendo gli occhi, sorridendo….
Cominciava la sua estasi, il suo incanto: una casetta tranquilla, ordinata; il pranzo e la colazione sempre a quell'ora; un marito buono, economo; guadagnare abbastanza da poter vivere senza il tormento dei debiti; far tutto lei e far tutto a suo modo; preparare per suo marito piattini squisiti che avrebbero mangiato insieme: e i figliuoli, anzi uno solo, una bambina….—Le bambine sono più affettuose, più docili….
—E il tenente Calafà?
Si riscosse di nuovo, si rizzò, appoggiandosi coi gomiti sulla tavola, premendo il capo fra le mani.
E il tenente Arturo Calafà? Il siciliano bruno, che era stato uno dei primi amori di Nora, e che adesso era diventato il suo?
Quello "spencer" spelacchiato che portava Evelina, e che aveva avuto da
Nora, Nora se l'era fatto fare appunto per mostrare il suo amore e il
suo attaccamento al tenente Calafà e alla sua batteria. Ma poi il
Calafà era partito; lo spencer aveva perduto il pelo, era arrivato
Pietro Laner, e Nora, che a scrivere si seccava, aveva ceduto ad
Evelina la corrispondenza e lo spencer.
Però, anche Evelina non era molto soddisfatta del regalo. Pazienza per lo spencer; ma dal tenente Calafà cosa c'era da sperare?
Essa gli aveva scritto una prima lettera assai patetica, a nome di Nora, pregandolo, supplicandolo di "non pensarci più."—"Lo zio Matteo ha scoperto tutto e ha imposto a Nora di troncare sul momento, ogni e qualsiasi relazione."
Il Calafà, subito, aveva risposto furibondo, minacciando vendette, tragedie. Ed Evelina, al solito, per calmarlo, un'altra letterina, poi un'altra ancora, e così via via, tutte più tenere, più malinconiche, e con maggior numero di parole sottolineate:
"…. Rinnega la fede, lei, signor Arturo? Rinnega di credere, di sperare?… Rinnega la vita?… Ma lei, almeno, può vivere del suo dolore! La suprema, la beata gioia di amare e di sentirsi amato, lei, signor Arturo, l'ha provata, l'ha goduta, sia pure per un giorno, sia pure per un'ora!…—Ma chi nella solitudine profonda del suo cuore ignorato, non ha memorie, non ha ricordi; chi sa, chi sente che non potrà mai essere amato, mai, mai, perchè sa di non poter piacere, di non poter interessare, perchè sente di non essere mai stato nemmeno osservato, nemmeno veduto…. Oh, come vorrei, come vorrei, come invidio lo spasimo della sua anima, l'atroce e grande ricchezza sua, sua!"
"Lei, signor Arturo, ha sentito il suo cuore vivo, vibrante, palpitare sotto una mano adorata! Ma…. e io? e io? e io?!—Ah, no! No! No! Dimentichi tutto!—Che cosa ho scritto?—Sono pazza! Mi deve giurare sul suo onore di gentiluomo, di distruggere, di abbruciare questa lettera, subito, subito.—Pietà di me!… Ah, Dio, Dio, Dio, quanto sono infelice!…"
E allora, anche il Calafà aveva cominciato—sempre per lettera—a consolare dopo essere stato consolato; ed Evelina sognava, la notte, di essere a far la spesa nella piazza di una guarnigione, con dietro un'ordinanza che le portava la sporta.
—Ma e poi?…
Il tenente Calafà, che non aveva avuto un soldo per la cauzione quando si trattava di Nora, come avrebbe potuto trovarne adesso per lei?…
—E dunque?…
Si udì a un tratto il campanello dell'anticamera: la Gioconda passò per andare ad aprire, poi ritornò subito, chiudendosi dietro l'uscio.
—Un altro come sopra!—Vuol aspettare anche lui il signor direttore, assolutissimamente.
—Chi è?
—Un altro tirolese: questo è positivo!
Gioconda tirò fuori la mano dalla saccoccia, nella quale andava frugando, e accomodati sul palmo due o tre chicchi di caffè tostato, se li fece saltare in bocca d'un colpo solo.
—Quest'oggi dev'essere un'invasione!
Si udì un'altra suonata di campanello.
—Ecco!… L'ho detto!—esclamò ridendo fra lo scricchiolare dei denti, e andò un'altra volta ad aprire.
—Sarà il signor Laner,—pensò Evelina.—Si lisciò in fretta colle due mani i capelli, si accomodò bene il foulard sulle spalle, e tornò a scrivere, ma tenendosi su, ritta e piegando la testina verso la spalla che aveva un po' più tonda dell'altra, riuscendo a nascondere con una grazietta la sua imperfezione.
Era proprio Pietro Laner. Lo sentì che parlava con un altro nell'anticamera.
—Lo aspetteremo al varco, il signor Direttore! È una canaglia! Questo si chiama assassinare la gente!
—Si calmi, signor Brunetti!—diceva Pietro Laner.
—È una truffa! una vera truffa!
—Si calmi: il signor direttore aggiusterà ogni cosa.
—Oh! se non aggiusta lui…. lo aggiusto io!
Ci fu un momento di silenzio, poi si udì ancora Pietro Laner che diceva, come per congedarsi:—Se permette, signor Brunetti, ho da parlare colle signorine….—E quasi subito, entrava nella saletta.
—Chi è questo signor Brunetti?—domandò Evelina con voce assai commossa a Pietro Laner.
—È il rappresentante della cartiera di Maslianico. Quello che forniva la carta per il Rinnovatore.
Il giovanotto parlava colla voce rauca, imbronciato; gli occhi rossi e lividi infossati nella faccia smunta.
Si avvicinò alla tavola, ancora col paltò indosso, sbottonato, il bavero ritto sul collo, e accarezzando Numa che si allungava, distendendosi sotto lo striscio della mano leggera, soggiunse balbettando per la collera, per l'imbarazzo di ciò che voleva dire:
—Ha ragione il signor Brunetti!… Si chiama proprio a…. assassinare.
—Anche lei?—esclamò Evelina, alzando gli occhi timorosi, che si facevano più grandi, più lucenti, mentre cercavano e fissavano, come per raccomandarsi, gli occhi del giovane.—Anche lei, signor Laner?
—Ho da pagare la pigione e il conto del mese alla padrona. Ho da mangiare e non ho altro che dieci lire!
E mostrò un biglietto sudicio, ripiegato, che ricacciò subito nel taschino del gilet.—Non posso più aspettare anche per Nora. Voglio sposarla e andarmene!
—Andar via?… Via da Milano?—domandò Evelina, con un tremito negli occhi, nella voce piena di lacrime.
—Voglio ritornare a Trento, a casa mia! a casa mia!—ripetè Laner battendo il pugno forte sulla tavola.
Numa sparì di colpo sotto il canapè, poi di nuovo saltò sopra una seggiola, in un angolo lontano, e là, al sicuro, ricominciò a leccarsi più forte e più in fretta.
—E di me? Cosa sarà di me?—mormorò la povera ragazza, e sospirando, fatto un po' di posto sulla tavola, si preparò vicino, stendendolo adagio, colle due mani, il fascio delle bozze.—Mi vorrebbe aiutare, signor Pietro?
—Come?… Nora?… Non c'è?… È fuori anche stamattina?—esclamò il
Laner con un crescendo di stupore e di stizza ad ogni interrogazione.
Egli sapeva bene che Evelina non avrebbe osato di tenerlo presso di sè,
qualora Nora fosse stata in casa.
—È andata dalla Schönfeld.
—La Schönfeld! Ogni giorno la Schönfeld!—gridò l'altro sempre più stizzito.
—Per amor di Dio!—supplicò Evelina, con un gesto verso l'anticamera.—Non si faccia sentire. Nora sarà di ritorno per le quattro: ritorni alle quattro.
Pietro Laner prese una seggiola, ma prima di sedersi la sbattè, con un colpo forte, sul pavimento; poi, sempre con indosso il paltò, col bavero alzato sul collo, cominciò a leggere le bozze, borbottando, a correggerle con grossi segnacci, facendo scricchiolare la penna, spruzzando la carta d'inchiostro. Per qualche tempo nè l'uno nè l'altra non dissero una parola.
—Io credo,—cominciò poi Evelina, lentamente, interrompendosi, perchè pareva più che mai intenta ed affrettata nello scrivere,—io credo che Nora alle tre avrà finito colla Schönfeld…. ma poi vanno tutt'e due o a fare un giro sui bastioni in carrozza…. o a passeggiare ai Giardini. Perchè non….—e qui l'interruzione fu più lunga: Evelina scartabellò cercando una parola nel Dizionario.—Perchè non va ad aspettarla? E poi…. quando la vede uscire colla Schönfeld…. finga come di passare per caso…. Le saluta e ci va insieme.
—Già! sicuro! posso fare così!—esclamò il buon ragazzo, rasserenandosi subito.
—Lei sa dove abita la Schönfeld?
—In piazza Cavour.
—Al ventisette,—rispose Evelina. E poi riprese, dopo un'altra pausa.—Ma lei, non la conosce ancora la signora Schönfeld?
—Mi farò presentare da Nora!—e sorrise—dalla mia sposa!
Evelina alzò ancora gli occhi lucenti in viso al giovanotto, ma fissandolo questa volta con una grande espressione di tenerezza e d'inquietudine, come una mammina che tremi per il figliuolo troppo buono e troppo illuso.
—Perchè mi guarda così?—domandò l'altro vivamente.
—Io, signor Laner?—No, niente. Sono io tanto…. tanto infelice! Io che resterò qui sola, sempre sola…. Io che non ho nessuno…. nessuno!
Evelina sospirò e si asciugò le lacrime con una mano. Era commossa e piangeva, piangeva davvero; ma pure pensava, sotto quelle lacrime, pensava in fondo al cuor suo che Pietro Laner, aspettando Nora sulla porta della Schönfeld, avrebbe forse potuto vedere o scoprire qualche cosa di nuovo….
A ogni modo lei, come lei, non gli aveva detto niente!
—Ohè, ce n'è un altro: il tappezziere che aspetta sul portone!—avvertì la Gioconda cacciando dentro il capo nella saletta e ridendo.—Metto fuori la bandiera?
Era questo un segnale convenuto: quando Cantasirena, ancora da lontano, vedeva la bandiera alla finestra, faceva di colpo un dietro-front.
Ma Pietro Laner, al quale premeva come agli altri di non lasciar scappare il Direttore, si oppose risolutamente.
—Ed io?…—esclamò con stizza tornando a tirar fuori e a mostrare fra le dita il famoso biglietto da dieci lire.—Ed io?… Come fo colla padrona di casa?
Piuttosto gli sarebbe andato incontro, per avvertirlo di girare di bordo, e intanto lo avrebbe messo alle strette per il matrimonio, per riavere le sue ventimila lire…. e per le due o trecento che gli occorrevano al momento.
—Se vuole, le ha!—pensava il giovanotto.—Se vuole, può far saltar fuori le trecento e poi anche le ventimila!
Era credenza generale che Matteo Cantasirena, per quanto fosse rovinato, avesse la bacchetta magica per far saltar fuori i quattrini.
—Se vuole le ha!—ripeteva Pietro Laner fra sè. Ma lo turbava l'idea di trovarsi da solo a solo col Direttore. Costui avrebbe cominciato a gridare, a strapazzare, oppure a piangere, ed egli sentiva che avrebbe finito col lasciarsi abbindolare o col lasciarsi commuovere.
In casa, alla presenza di Evelina, della Gioconda sarebbe stato più forte….
—Se vuole, le ha!—pensava pure il signor Brunetti, che aspettava in anticamera, cominciando a sospettare di essere preso in giro.—Si raccontavano certe farsette inventate da Matteo Cantasirena per burlarsi dei creditori!
—Ah! Ah! ma con lui non c'era da scherzare! Non voleva perderci dieci mila lire e far ridere la gente!—
Quasi a confermare i suoi dubbi, anche il fattorino della Faré si era messo a brontolare: Aspetta, aspetta, accidenti! e mai non torna! Il portinaio mi ha assicurato che era in casa!
L'altro lo guardò di traverso.
—In casa?
—Sissignore!
—In casa?… Per Dio!…—E con impeto, dopo aver bussato forte all'uscio, si precipitò nella saletta:
—C'è o non c'è?
—Lo zio Matteo? Non è ancora tornato.
—Il portinaio, invece, assicura che c'è.
—No, non c'è!
—Eppure, lo ha ripetuto, adesso, anche al fattorino della Faré!
—Allora vuol dire che si sarà sbagliato,—rispondeva Evelina con calma.
—Io mi sono sbagliato! Io sono stato un asino a fidarmi! Ad accettare la firma del Direttore!—continuava il Brunetti gridando.—Se io non facevo presto a pagare, avevo la cambiale protestata; ero compromesso, rovinato!… Sono cattive azioni!… È una vergogna! Ma questa volta o mi paga, o mi vendico!—e il pover'uomo, s'infuriava anche di più perchè lo lasciavano dire senza troppo inquietarsi.
Infatti Evelina continuava a scrivere, Pietro Laner a correggere le bozze, e la Gioconda lo stava a guardare col faccione tondo, beatamente stupido.
—Mi vendicherò! Sì! Voglio vendicarmi! È una vergogna! È un'indegnità! È un'infamia!—E la sua rabbia, la sua collera contro il Direttore era arrivata a un punto tale che già gli dava dell'imbroglione, del ladro, minacciandolo persino di farlo metter dentro, quando, a un tratto, spalancatosi l'uscio dell'anticamera, ecco Matteo Cantasirena, proprio lui, in persona, seguito dal fattorino della Faré, e da quell'altro—il tappezziere—che gli faceva la posta sul portone.
—Ah, finalmente! Sono due ore che vi aspetto!—Gli occhi del signor Brunetti erano ancora stravolti dall'ira, ma il tono della voce era già cambiato.
Matteo Cantasirena, acceso in volto, il cappello all'indietro, l'ampio soprabitone svolazzante, era tutto pieno di pacchi e pacchetti e cartocci di roba; e nella stessa mano che teneva la canna dal pomo d'argento, aveva un bel mazzo di fiori.
Egli rimase muto un istante, guardandosi attorno come smarrito, come invocando un conforto, poi a un tratto esclamò con grande dolore e insieme con grande espansione:
—Ah, Brunetti, Brunetti mio! Non sapete la disgrazia? Evelina,
Evelina! Sai chi è morto?
Tutti, meno Evelina, rimasero sorpresi, guardando il Direttore.
Chi era morto?
Il signor Brunetti, borbottò con un'alzata di spalle:—Altro che i morti! Con voi, sono i vivi da compiangere!
Ma lì per lì, anche il signor Brunetti era rimasto interdetto e aspettava ansioso la gran notizia.
—Adesso, all'ufficio del giornale, ho ricevuto il dispaccio da
Roma!… Dal Presidente della Camera!…
E Cantasirena dopo consegnato il bastone e i fiori alla Gioconda, colla mano rimasta libera cercava il dispaccio nelle tasche, senza mai riuscire a trovarlo.
—È una perdita incalcolabile! Uno dei grandi lutti della patria!… Lo amavo come un fratello!… Lo veneravo come un secondo padre!
—Eh! avanti!—borbottò di nuovo il signor Brunetti. Ma intanto, per via di quel dispaccio del Presidente della Camera, pensava che a Roma il Direttore, era sempre potente.
—Fuori!
Cantasirena aspettò: voleva prima raccogliere tutto il suo dolore, tutta la sua forza, poi:—È morto il capitano Fara-Bon,—tuonò col vocione rotondo, sonoro, e lanciò quel Bon proprio come una cannonata!
Pietro Laner, il Brunetti, il tappezziere, il fattorino si guardarono l'un l'altro sbalorditi.
Il capitano Fara-Bon?… Chi era il capitano Fara-Bon?
—Un magnanimo! Uno dei più gentili e forti patriotti d'Italia! Nell'epoca memoranda dei processi, siamo scappati insieme. Nel 66 è stato ferito in vece mia, per miracolo! D'ideali sinceramente repubblicani, accettò con lealtà la monarchia, e sdegnando l'inerzia passiva degli inoperosi, andò ad occupare un posto eminente al Ministero dei Lavori Pubblici. Era uno dei più illustri discepoli del massimo Paleocapa. Io conservo un suo progetto: La Navigazione Cisalpina!—Brunetti! Caro Brunetti! Ecco una grande idea!… Morto! Malattia di cuore!… Mah, il cuore, il cuore!… Non perdona ai generosi!
Cantasirena non tuonava più, sospirava, gemeva, era commosso, aveva le lacrime agli occhi, e mentre tesseva gli elogi dell'anima grande del compianto Fara-Bon, si vuotava le tasche dei pacchi, dei pacchetti, dei cartocci di roba, e a mano a mano li ammucchiava nel grembiule che la Gioconda gli teneva spiegato davanti.
Era una formetta di cacio, una scatoletta di presciutto, un mezzo pasticcio di Strasburgo, poi ancora dell'altra roba, avvolta nella bella carta rosa e gialla, coi nastrini azzurri…. Numa, riconoscente, passava, ripassava fra le gambe del Direttore, strisciando, sfiorandole colla schiena e rizzando la coda.
Il capitano Fara-Bon era realmente esistito ed era morto in quei giorni; ma Cantasirena non aveva ricevuto il dispaccio al Rinnovatore e tanto meno gli era stato mandato dal Presidente della Camera. Quella mattina egli non s'era fatto vedere all'ufficio; non voleva cadere in mano ai nemici, ai "tirolesi". Taddeo, una specie di portiere e di fattorino, che con una gamba di legno arrivava sempre in ritardo e che egli perciò chiamava Teddeum, gli aveva portato le lettere, i giornali al Circolo dei Superstiti; e appunto colà gli era capitata sott'occhio la notizia nel dare un'occhiata al Fracassa.
—Povero Fara-Bon! Un bell'originale!
E si ricordò pure di un certo progetto del capitano, di una serie di articoli che gli aveva mandato sulle Vie acquee dell'Italia Settentrionale e che non aveva mai potuto pubblicare per mancanza di spazio.
La Navigazione Cisalpina! Perchè no?… Potrebbe essere una grande idea per far denari! Trovare un bel nome da mettere alla testa del Comitato…. e avanti!… Povero Fara-Bon!…
Ma poi non ci pensò più. Aveva tanti fastidi, tante seccature; la macchina della tipografia sotto sequestro…. Quanta ingratitudine nella Costituzionale!
Come fare?… Restar chiuso in casa?… Sì; non farsi vedere da nessuno e far rispondere ai seccatori:—Il Direttore è partito per Roma!—Intanto avrebbe mandato in giro Teddeum con parecchie lettere dai patriotti viventi, dagli amici politici…. qualcheduno avrebbe risposto! E poi non ci doveva essere al "Manzoni" l'opera nuova di un nobile veronese?
Si cacciò in un brum e andò a fare le sue provviste per la colazione e per il pranzo. Chi sa? Avrebbe potuto cavarsela bene!—E il suo viaggio a Roma?… Perchè non ci sarebbe andato davvero?… Sicuro! Domani!
A poco a poco aveva cominciato a rianimarsi, aveva già ripreso un po' del suo buon umore, quando, fatalità, si accorse troppo tardi per poter tornare indietro, che i tirolesi invece di aspettarlo al Rinnovatore lo aspettavano a casa….
La carrozza si era fermata proprio dinanzi alla porta e il tappezziere gli era corso incontro aiutandolo a smontare.
—Grazie, caro Vergani! Sono tutto sconvolto! Ah, che disgrazia!—Su di corsa per le scale, e l'altro dietro. Ma di sopra non c'era quell'ignorante maleducato del Brunetti?… Quel seccatore indiscreto di Pietro Laner?…
—Ah, che disgrazia! Ah, povero Fara-Bon!
E dopo che la Gioconda, seguita da Numa, era tornata in cucina colle provviste, quando tutti stavano per riaversi dal primo sbalordimento di quella gran notizia, Matteo Cantasirena ebbe un impeto di collera contro Pietro Laner:
—Vi trovo qui ancora, voi?… E vi ho proibito di venire dalle mie figliuole quando non sono in casa!
Il giovanotto, in quel momento, e in presenza d'altre persone, non si aspettava il rimprovero; rimase un po' sconcertato.
—Ma…. avevo da parlarle….
—Ragione di più per venire all'ufficio.
—Ma….
—Basta così! Ormai ci siete: per questa volta passi! Vi serva di regola in avvenire!… E i fiori?… Gioconda!… Gioconda!… Voi, Pietro, che avete la passione dei fiori, fatene un bel mazzo per la mia Eleonora! Ahuf! Non ne posso più! È una giornata delle più tremende!… Ah, povero Fara-Bon! È un chiodo fisso qui,—e rivolgendosi al Brunetti si picchiava forte l'indice teso contro la fronte,—un chiodo qui! qui! qui!
Poi, appena uscito il Laner in cerca dei fiori, andò a baciare Evelina, correndo coll'occhio sulle cartelle.
—Il marchese Duranti? Niente Duranti! Sospeso! Teniamolo in sospeso! Gli ho scritto e non mi ha risposto: l'ho incontrato e ha finto di non vedermi! Ah, ah! Ma io gli domanderò alla prima occasione:—È diventato orbo lei, o è diventato asino?…—Ah, Brunetti, quanta ingratitudine! Tutta gente fatta da me, creata da me, che io ho messo all'onore del mondo! Mi credono un uomo finito, morto, perchè ho avuto le mie buone ragioni per far morire il Rinnovatore! Ma io sono ancora vivo! Ve ne accorgerete, signori! Alle otto e trenta,—guardò l'orologio,—parto per Roma.
—Parte?… Per Roma?…—esclamò il Brunetti.
—Se vi occorre qualche cosa, siamo a vostra disposizione!—rispose Matteo, socchiudendo gli occhi e inchinandosi leggermente, con un sorriso olimpico di protezione.
—Parte per Roma?… E la cambiale?
—Precedetemi nel mio studio. Faccio vedere qui al signor Vergani come mi ha servito colla camera da letto, e sono subito da voi.
Ma nel voltarsi per chiamare il Vergani, che a quelle parole era rimasto attonito, si trovò faccia a faccia col fattorino della Faré.
—Voi chi siete? Che volete? Cosa fate qui?
Il pover'uomo, intimidito, gli presentò il conto nella busta gialla.
—Trenta lire?… Ma questa signora Faré è sull'orlo del fallimento, se ha bisogno di trenta lire! Ma io devo pagarne trentamila, centomila delle lire, e ho diritto di non essere seccato, molestato per simili pezzenterie! Gioconda! Ma Gioconda!—gridò più forte,—perchè mi lasci venire fra i piedi tutta questa gentaglia? Passate al giornale! Andate dal Bizzarelli! Andate dal mio amministratore! Via!
E il fattorino corse via davvero, senza farselo dire due volte.
Cantasirena, sbuffando, teneva una mano sul pancione ansante, come per rimetterlo in calma, e coll'altra, preso un fazzoletto, si asciugava il sudore.
—Seccatori insistenti! Morti di fame!—Poi avvicinandosi, ancora colla voce rotta, oppressa, chiamò il tappezziere:—Sono con lei…. signor Vergani….—ma quando fu sull'uscio si fermò d'un tratto per raccomandare al Brunetti di non andarsene.—Sentirete! Una grande idea!… Aspettatemi nello studio!
—Non vado via, no!—rispose l'altro di malumore, quasi con minaccia.
Ma oramai anche il Brunetti non era più quello di prima. Erano tutti più quieti, più calmi. Il bel faccione aperto, geniale, simpatico, la sicurezza di Cantasirena, la sua alterezza, le sue espansioni, le sue minacce, le sue collere, avevano ottenuto il solito effetto.
Tutti credevano di trovarlo avvilito, disfatto, supplichevole, e invece non si era mostrato dolente altro che per la morte del capitano Fara-Bon; e un uomo che si dispera per un amico morto, non può essere lui stesso in extremis!—Ma che! Matteo Cantasirena era sempre vivo, sempre forte! Aveva troppo talento! Conosceva i segreti di troppa gente!
E anche quei pacchi e pacchetti e cartocci di ghiottonerie, contribuivano pure a tranquillare gli animi, sebbene ognuno fosse sicuro che li aveva presi senza pagare. Tutta quella roba l'avrebbe mangiata il Direttore, ma faceva bene e riconfortava anche i suoi creditori.
E poi, il viaggio a Roma?…
Anche il tappezziere che gli aveva venduto il mobilio della camera da letto e aspettava da un anno senza aver visto il becco d'un quattrino, avrebbe aspettato, diamine! il suo ritorno da Roma. Anzi, si scusò per il tarlo che qua e là cominciava a farsi vedere.
—Che vuole? Anche noi siamo i primi ad essere ingannati!—Gli promise che gli avrebbe mandato subito uno de' suoi migliori operai e che in un paio di giorni gli avrebbe rimesso tutto a nuovo.
E Matteo Cantasirena, sorridente, bonario, godeva a perdersi in chiacchiere con quel brav'uomo e gli domandava il prezzo, l'ultimo prezzo di un salottino "completo" che voleva regalare a Eleonora per la sua festa.—Ma di colpo, si ricordò che aveva ancora da pagare il brum, e allora lasciò andar via il tappezziere per correre in cerca della Gioconda.
La Gioconda era in cucina; aveva già assaggiato e riposto il pasticcio, e mangiava adagio una fetta di presciutto, colorita e sottile come una foglia di rosa. Appoggiata col dorso alla finestra, si godeva nel sentirsi scaldare a poco a poco dal sole tepido d'aprile e cogli occhi imbambolati guardava Pietro Laner.
Com'era bravo nel preparare i mazzi di fiori! Ma il giovanotto pareva insensibile all'ammirazione della serva: era serio e triste.
Oh, in quei fiori quante memorie delle sue Alpi, quanti ricordi della sua vita semplice e tranquilla!… Oh le larghe felci strane e selvagge e il capelvenere gentile! Quando era ragazzo, nella solennità del mese di Maria, aiutato dalla zia Angela e dalla zia Rosa egli adornava, copriva di felci e di capelvenere tutto il piccolo Santuario della Crodarossa!… Oh i bei ciclamini…. Come ne erano fiorite le stradicciuole ombrose e fresche di Selvapiana!…
—Gioconda!… Paga il brum!
La Gioconda lo guardò, rise, e gli rispose mangiando:
—Aspettavo anch'io il suo ritorno, signor padrone, per andare a far la spesa.
Matteo si fermò di colpo e la guardò maravigliato.
—Possibile?…
L'altra, senza esser vista dal Laner, che intento ai fiori le voltava le spalle, si soffiò adagio sul palmo della mano, come aveva fatto prima colla signorina Nora.
—Voi, Pietro,—esclamò vivamente Cantasirena:—Datemi degli spiccioli, della moneta! Non ho avuto tempo di passare dal mio amministratore.
Il povero giovane si sentì venire i sudori freddi. Lasciò il mazzo sul tavolo e gli corse vicino, balbettando colle labbra pallide, tremanti e colle lacrime nella gola:—Non ho più niente! Ho la padrona…. l'affitto, tutto da pagare, e non ho più niente! Non ho più che questo!—E quasi a testimoniare le sue angustie, la sua miseria, si levò dal taschino il biglietto sudicio, ripiegato:—Non ho più altro che dieci lire!—Cantasirena glielo prese al volo, colle dita rapide come la linguetta del rospo.
—Eh, credete che ce ne vogliano cento per pagare il brum?… Prendi,
Gioconda; gli dai due lire colla mancia.
E la Gioconda, intascate le dieci lire, se la svignò con insolita prestezza.
—Voi,—disse Cantasirena a Pietro Laner,—aspettatemi pure. Vado un momento dal Brunetti; poi vi darò due righe per il Bizzarelli—fece per andarsene; l'altro l'afferrò per un braccio.
—Che Bizzarelli! Che amministratore! Ma vuol darla ad intendere anche a me? Il povero Bizzarelli è un suo creditore come gli altri! Lei lo ha rovinato come gli altri!
—Diventate matto?—esclamò Cantasirena. Così, all'improvviso, era rimasto spaventato dal pallore, dagli occhi torvi, dalla collera di Pietro Laner; ma riprese subito il sopravvento, e divincolandosi con forza, riuscì a sciogliersi dalla stretta e a buttare Pietro Laner due o tre passi lontano.
—Osate mancarmi di rispetto?… Badate a voi! Sarà la mia Eleonora, lei stessa, che vi scaccerà da questa casa!… Malcreato!—e soffiando e sbuffando, maestoso nel suo sdegno, nel suo disprezzo, Matteo Cantasirena voltò le spalle al povero diavolo rimasto come annichilito, spaventato, andò nello studio a raggiungere il Brunetti, e gli comparve dinanzi sorridente e più espansivo che mai.
—Caro amico, da un grande dolore, una grande idea!—e siccome l'altro, stizzito, voleva interromperlo, voleva dirgli prima il fatto suo, gl'impose di tacere scotendo le due mani aperte, con una gravità solenne e misteriosa.
—Ssst! Da un gran dolore una grande idea! Voi lo meritate; mi siete sempre stato amico, ho sempre trovato in voi un gentiluomo, vi offro una fortuna. Nessuno potrà mai disconoscere due grandi qualità a Matteo Cantasirena: la memoria e il cuore. Così non avessi avuto cuore e ideali troppo alti!—Avrei dei milioni, invece di avere dei…. nemici!—Ma basta! Avanti i giovani a disfare l'Italia che noi abbiamo fatta, con tanti sacrifici, guadagnando, per conto mio, che cosa?… un rimorso!—Il rimorso, se crepo domani, di lasciare le mie figliuole senza un soldo! Ho lavorato abbastanza per gli altri e quando l'ingratitudine del mio partito….
—Finiamola—interruppe il Brunetti seccato, irritato.—Lei mi ha fatto una porcheria!
E rotto il freno per la stessa violenza della parola bassa, triviale che gli era sfuggita, accendendosi in viso, ricordando a un tratto la ragione della sua collera e perciò a mano a mano infuriandosi sempre di più,—lei mi ha truffato,—gli gridò colla voce soffocata, strozzata,—mi ha truffato!… Ladro!
Matteo Cantasirena alzò le braccia barcollando, come un uomo sul quale è stata tirata una schioppettata, e trascinandosi andò a cadere di peso sul seggiolone della scrivania soffiando, singhiozzando, gemendo, con un sordo mugolìo del pancione ansimante.
—Anche voi!… Mi coprite di fango!… Anche voi!… L'amico!… La mia fede ultima…. superstite!—Guai ai vinti! Guai!—Poi, a un tratto si riscosse, si rianimò, come avesse preso una terribile risoluzione, e cominciò a cercare, a frugare nei cassetti….—So!… So!… So che cosa mi resta a fare!—Tutto è pronto!—e trovato un revolver glielo mostrò.—Vedete? È un dono, una memoria di Nino Bixio! Povero Nino! Se avesse potuto immaginare che il suo Matteo, colui che lo ha sempre difeso strenuamente….—E a questo punto non potè più contenersi, e scoppiò in lacrime, in vere lacrime.
Il Brunetti gli si avvicinò; credeva, non credeva, ma anche senza volerlo si sentiva commosso.
—Coll'ammazzarsi non si pagano i debiti,—brontolò col suo modo burbero.
—Ma in eredità a quelle due disgraziate lascierò un nome intemerato!
—Sono spropositi; cogli spropositi non si paga nessuno!
—Siete voi che non mi lasciate nè il modo nè il tempo di pagare! Io ero disposto a rendervi il cento per cento! Siete voi che mi avete ammazzato, con una parola! Ladro! Il colonnello Cantasirena!… ladro!
E improvvisamente impugnò di nuovo il revolver: ma il Brunetti fu pronto e glielo strappò di mano.
—È anche il suo modo di trattare che mi ha offeso, che mi ha fatto andare in bestia. Tante preghiere, tante promesse, tanti giuramenti per aver la firma, e dopo non farsi più vivo! Almeno avvertirmi che non poteva pagare!
—Ho sempre sperato…. fino all'ultimo momento.
—E se mi protestavano la cambiale?
—Dopo il protesto ci sono ancora cinque giorni.
—Grazie! Ma il discredito è la rovina per chi è nel commercio! Io ho bisogno di farmi una posizione! Ho una famiglia, dei figli….—e anche al povero signor Brunetti venivano le lacrime agli occhi.
L'altro lo guardava attonito.
—Ma l'avete pagata sì o no?
—Sicuro, che l'ho pagata!
—E allora di che cosa vi lamentate, santissimo Iddio!—esclamò
Cantasirena con un'alzata di spalle.—Non correte più nessun pericolo!
—Ma l'ho dovuta pagare io e toccava a lei!—replicò il Brunetti sbalordito dalla logica del Direttore.—Io ho dovuto correre come un matto per trovare le diecimila lire e farmi strozzare.
—Tranne per il disturbo che vi siete preso, e del quale vi sono gratissimo, per tutto il resto voi non dovete perdere nemmeno un centesimo.—Io vi farò subito un nuovo effetto che voi potrete scontare.
—Sicuro, se ci metterò la mia firma; come l'altro. E per essere da capo con lo spavento di un protesto! No, no; lei mi rilascierà una cambiale e la terrò io nel mio portafoglio: ma si ricordi, alla scadenza non voglio chiacchiere!
—Come volete,—rispose Cantasirena, affermando anche col capo, con gentile accondiscendenza.—Del resto, caro Brunetti, credete ai vecchi! Il commercio, non è un giuoco d'azzardo: bisogna mantenersi calmi per essere avveduti. Voi siete troppo diffidente, e vi lasciate troppo impressionare. Ma pensate, benedett'uomo, quanti dolori, quante disgrazie vere ci piombano addosso tutti i giorni, senza andarne a pescare delle immaginarie e farci del cattivo sangue anche per quelle che ci potrebbero capitare! È il vostro difetto; è un difetto che vi fa danno, appunto per il credito del quale dite di aver bisogno. Vi vedono spaventato? Anche gli altri si spaventano. È naturale!—Poi, cambiando tono di voce e avanzandosi sul seggiolone gli domandò a bruciapelo:—Volete guadagnare centomila lire?
—Io?
—Sì, voi. E mettere il vostro nome in evidenza? E concorrere ad un'opera colossale, che formerà la ricchezza e sarà la gloria del paese?
—Lei, tutti i giorni, ne inventa una nuova!—brontolò il Brunetti con un atto di stizza; ma invece di andarsene, sedette sopra uno sgabello che era accanto alla scrivania, vicino al Direttore. Questi, sdraiandosi, allungandosi nel seggiolone e con un colpo forte battendo il palmo delle mani grasse sui bracciuoli, ripetè ancora, socchiudendo gli occhi, sorridendo con un fare da milionario, da Rothschild:—Cento-mila-lire!
—Tutti i giorni ne inventa una nuova!—tornò a ripetere il Brunetti a mezza voce, allungando il collo: non voleva credere, ma voleva sentire.
Cantasirena si voltò, si rivoltò, rimanendo lungo sdraiato come fosse in letto, e guardò il Brunetti senza parlare; poi cominciò a fare i suoi sfoghi, le sue confidenze:
—Il giornale, omai, era ridotto un semplice notiziario, una serie di dispacci. Non lo si faceva più col talento, ma coi denari: poteva avere ancora una grande diffusione, ma aveva perduta ogni influenza.—In politica?… Appassionarsi? Lottare? Combattere? Per chi?—Piccoli galantuomini, poveri d'ingegno, piccoli marioli privi d'audacia. Non un popolo di liberi, ma di liberti, sempre in cerca di un nuovo padrone.—E la rappresentanza nazionale? Non più un Desmoulins, appena qualche Mirabeau senza eloquenza!—E in arte? La macchinetta delle fotografie istantanee, sostituita ai voli, alle creazioni del genio!—Caro Brunetti, io mi ritiro dal giornalismo, dalla politica: sono vecchio e non ho più tempo da perdere. Voglio migliorare la mia condizione; lasciare uno stato alle mie figliuole, e il mio nome alla gratitudine di un popolo.
Ci fu un momento di pausa, poi rizzandosi a un tratto più alto, più largo, più maestoso:
—Volete stare con me? Da un grande dolore…, una grande idea. Il mio povero Fara-Bon è morto: dobbiamo essere noi, i raccoglitori e gli esecutori della sua grande eredità intellettuale?—E soggiunse sottovoce, parlando con una lentezza grave, mettendogli una mano sul braccio e stringendolo sempre più forte.
—Dobbiamo essere noi?…. Noi due soli, i padroni del campo?
Il Brunetti rimaneva muto; ma si vedeva la sua mano muoversi nervosamente nella tasca dei pantaloni.
—Dunque?
—Dunque, che cosa?
—Sì o no?
—Intanto…. io non so nemmeno di che si tratta!—rispose il Brunetti con un'alzata di spalle. Aveva paura di Matteo Cantasirena…. ma aveva anche paura di perdere una buona occasione….—E prima di tutto, intendiamoci bene,—esclamò con forza.—Io non anticipo un soldo! assolutamente! Non anticipo un soldo!
Il Direttore sorrise crollando il capo, in atto di compatimento; poi, restando sempre sulla poltrona, si avvicinò quanto gli fu possibile, faccia a faccia al Brunetti, e cominciò con un grosso sospiro:
—È destino comune degli uomini di genio, Aristide, l'Alighieri, Camoens, Fulton, Fara-Bon, che le loro grandi idealità, le loro grandi scoperte, le loro grandi invenzioni, debbano imporsi e trionfare soltanto dopo la loro morte!—E continuò a parlare, a parlare, a parlare sempre faccia a faccia col Brunetti, fissandolo negli occhi, magnetizzandolo, ipnotizzandolo collo sguardo vivo, acuto, sfavillante, accarezzandolo, lusingandolo colla blandizie del sorriso amabile, confidenziale, ammaliandolo quasi coll'incanto della voce morbida, insinuante, tentatrice.
Cantasirena non aveva letta una sola parola, non aveva un dato qualunque che potesse riferirsi al grandioso progetto "colossale!" del compianto Fara-Bon; ma parlò, parlò, continuò a parlare con calore, con persuasione, con convinzione, con entusiasmo delle vie acquee e delle nuove correnti commerciali; del Po messo in comunicazione col Lago Maggiore e col Lago di Garda; del Porto di Venezia che sarebbe diventato il primo del mondo, perchè sarebbe stato necessariamente il grande punto di congiunzione e di partenza fra la navigazione interna e la navigazione marittima, fra l'Oriente, il Quarnero, le Bocche di Cattaro e le tre grandi vie delle Alpi: il Brennero, il Gottardo, e il Cenisio.
—E…. i milioni?—balbettò il signor Brunetti stordito, sbalordito.
—Il concorso immancabile del Governo, delle Provincie, dei Comuni: poi una grande società per azioni, della quale io sarò l'anima, la mente, e voi il braccio.
—E il progetto è in mano sua?… Lo ha lei?
Matteo Cantasirena sorrise appena e battè le dita con lentezza solenne sopra uno dei cassetti del tavolo:—Qui.
—Una cosa sola ci occorre per lanciare l'operazione: un uomo, un gran nome; un nome che s'imponga!… Una bestia magari, ma un nome di moda per metterlo alla testa del comitato.
—Sicuro…. un gran nome!—ripetè attonito il Brunetti.—Ma come trovarlo?
—Ci sarà…. C'è!—rispose Cantasirena, socchiudendo gli occhi e sdraiandosi nel seggiolone come Giove che si riposa sicuro, nella propria onnipotenza.
—Chi?… Chi?
Non lo poteva dire: era il suo segreto. Domani avrebbe potuto parlare. Oggi no: aveva data la sua parola. Solamente, senza tanti preamboli, gli occorrevano altre cinquecento lire. Aveva piccoli impegni fastidiosi, ai quali non poteva, non voleva mancare; voleva provvedere, in certo modo, a' suoi redattori che per la morte del giornale restavano in mezzo alla strada. Pietro Laner sopratutto, il Bardo Trentino! era solo a Milano e non poteva tornare presso la sua famiglia perchè l'Austria lo avrebbe arrestato e processato. E poi anche lui, insomma, non voleva aver l'aria di un morto di fame.
Il Brunetti, sulle prime, si era messo a gridare, a protestare, arrabbiandosi, infuriandosi di nuovo. Lo aveva detto, dichiarato, non voleva più anticipare nemmeno un soldo! No! No! Assolutamente, no! E poi…. non aveva vergogna a confessarlo: lo avesse anche voluto, non avrebbe potuto! Era alla fine del mese, aveva troppi impegni ed era diventato matto anche per trovare le altre diecimila lire.
No! No! Era impossibile, impossibilissimo!—Quel giorno, in cassa, non aveva nemmeno cento lire!—Era proprio vero! Poteva giurarlo! Lo giurava sulla testa delle sue creature!—Ma a poco a poco, l'altro continuava a parlare, a pregare, a tentare, e il povero signor Brunetti aveva finito col cedere, prima trecento, poi quattrocento, poi tutte le cinquecento.
—In fine, cos'erano cinquecento lire, in confronto di tutte le altre che gli doveva il Direttore? E poi, adesso, non si trattava del giornale,—il pozzo di San Patrizio!…—Era una grande speculazione!… Erano milioni che sarebbero stati messi in giro! Ma…. c'era un altro ma. Cinquecento lire subito, sul momento, il signor Brunetti non le aveva davvero. Però gliele avrebbe procurate dall'oggi al domani: senza fallo.
—Senza fallo!—ripetè il Direttore, con una serietà grave, minacciosa.—Si ricordi bene di non promettere e poi farmi aspettare secondo il solito.
L'altro tornò ad assicurare, a protestare continuando a ripetere: Senza fallo! Senza fallo; farò tutto il possibile. Senza fallo!
—Bravo. Siamo intesi!—e il Direttore, che pareva stanco e un po' seccato, gli diede la mano per congedarlo, col solito fare di benevola degnazione.
Era diventato lui adesso, Matteo Cantasirena, il creditore del signor
Brunetti!
Pietro Laner, riavutosi dal primo sbalordimento, se n'era andato gridando, sbattendo gli usci e senza voler rispondere alla Gioconda e nemmeno all'Evelina, che gli erano corse dietro fin sulle scale.
—Non avrebbe più rimesso i piedi nè lì, nè in ufficio.—Canaglia!
Canaglia!
Era furibondo per l'insulto, e più ancora per la minchionatura.
—Di volo, zaff!… e le dieci lire erano sparite!… E Nora?—E rifece il verso del Direttore con stizza:—E-le-oo-nòò-ra?—La mia cara figliuola!—Come l'altra, la gobbina!—Che figliuola! Che figliuole! Chissà dove è andato a pescarle, per viverci alle spalle, per sfruttarle, come ha sfruttato gli amici, l'Italia, il mondo intero!—Quel pancione Dulcamara è la gran piovra di Vittor Hugo!—
Pure il nome di Nora, evocatore dell'immagine adorata, dissipava le ire e gli suscitava in cuore, a poco a poco, mille inquietudini.
—Se Nora non era sua figlia, era tenuta come tale; era nelle mani di quel cannibale, vero mangiatore d'uomini!—Ebbene, egli avrebbe parlato a Nora, a tu per tu.—Subito!—Dov'era? Dove poteva trovarla? Evelina gli aveva detto, dalla Schönfeld.—Sì, sì, dalla Schönfeld!
L'aspetterò in istrada, e aut aut: poche parole!
Ma pensando, ripensando le "poche parole" che dovevano fare impressione sull'animo dell'innamorata, tornava ad infervorarsi, a camminare in fretta, a gestire. La gente per la strada si voltava a guardarlo.
—Senti, Nora, Norina mia: quella canaglia, dopo avermi rubato tutto, ha avuto il coraggio d'insultarmi: io ho pensato a te; per questo non l'ho strozzato! Però in casa vostra, non ci metto più i piedi; mai più.—Tu mi vuoi bene?—Sì?—e allora, oggi stesso, stassera, si prende il volo. Ti porto a casa mia, dalle zie; fino al giorno del nostro matrimonio. Domattina si arriva a Trento, poi una vettura e in poche ore saremo a Crodarossa….
Ma…. i danari? La pigione? I danari per pagare la padrona di casa? I danari per il viaggio?…
Si fermò di colpo, su due piedi. Oh, quella faccia della sua padrona di casa!—Finchè non ho da pagarla, non mi fo più vedere!… E per pagarla, dove li trovo?
Pietro Laner si cacciò le mani nelle tasche del paltò, e riprese a camminare, ma assai più lentamente.
La padrona, vedendo che l'ospite trentino non si faceva vivo per il conto, glielo aveva fatto trovare in camera, sotto il calamaio. Lui, s'intende! aveva finto di non vederlo. Ma la sera lo trovò sul tavolino accanto al letto, spiegato sotto il candeliere; e il secondo giorno disteso, diritto, sulla padellina di cristallo, appoggiato alla candela. E d'ora in ora, quella faccia della padrona, già così larga di sorrisi e di cerimonie, non esprimeva più altro che un gran punto interrogativo:—Mi paga?…
—Come fare? Tornare dal Direttore? Sottomettersi? Pregare, cercare colle buone di ottenere un piccolo acconto?…
—Se Nora volesse?… Se volesse parlarne allo zio Matteo! Ma bisognava vederla subito. Invece di aspettarla giù, dinanzi alla porta, sarebbe salito a cercarla dalla signora Schönfeld: l'avrebbe fatta chiamar fuori.—Ho da parlarti: di gran premura!
—Che male c'è? Non dev'essere mia moglie? Non è omai saputo da tutti?… Da tutti no…. Le zie?
La zia Angelica e la zia Rosina non ne sapevano niente. Esse credevano che il loro Pierino a Milano, non fosse intento altro che a guadagnar denari e a diventare un grand'uomo!
Che direbbero, che farebbero la zia Angelica e la zia Rosa, quando fosse capitato a Crodarossa senza le ventimila lire, senza un soldo…. e invece colla sposa?… Una signorina in cappellino e che non sapeva far altro che suonare e cantare?… Dio! Dio!… Ma come non ci aveva mai pensato? E Nora? Se anche Nora dicesse di no?
Al dubbio solo, all'idea di poter perdere Nora, gli si empirono gli occhi di lacrime e il cuore di disperazione. Si sarebbe ammazzato!
E la padrona?… Dio! Dio! Dove aveva avuto la testa fino allora?
Era la prima volta dal suo arrivo a Milano, che Pietro Laner cominciava a vederci chiaro d'intorno a sè, davanti a sè.
—Dio! Dio!… Come mai si era ridotto a quel punto? Non lo sapeva, non se n'era accorto. Era stato uno stordimento, una vertigine di tutte le ore, di tutte le vicende incalzanti che non gli lasciavano tempo di pensare, di riflettere.
Come aveva fatto a innamorarsi di Nora? A impegnarsi senza scrivere alle zie? Perchè, come, quando aveva cominciato a lasciarsi ingannare, truffare, rovinare, da quel Mosè imbroglione?… Non aveva nemmeno cento lire per pagar la padrona!… Non aveva nemmeno un soldo per far colazione!… E la collera delle zie? E se Nora non voleva? E se Matteo Cantasirena non lo pagava?… Ma era stato pazzo? Era stato ubriaco? Dio! Dio! Dio!—Maria Vergine!—Ma che cosa aveva fatto di male perchè gli capitassero addosso tutte le disgrazie, tutte le maledizioni?…
Che cosa aveva fatto?
La risposta la sentì sorgere nell'animo angosciato e farsi strada nella mente sconvolta, come un lontano chiarore, un barlume di speranza. Era una risposta sola a tante domande, una risposta che per le sue nuove idee poteva sembrare ridicola, assurda, indegna della sua ragione, indegna del suo ingegno, ma alla quale consentivano tutti i suoi sentimenti e tutti i suoi ricordi intimi, profondi, nascosti e alla quale la disperazione stessa di quel momento, dava uno slancio più vivo di fede.
—Dal giorno in cui sono venuto a Milano, non sono più stato a Messa, non sono più entrato in una chiesa!… Ecco perchè mi sono tirato addosso l'ira di Dio!…
Gli sembrò, sperò, che entrando appena in una chiesa, sarebbe stato come ribenedetto, che tutto sarebbe tornato ad andar bene come prima.
C'era appunto, a due passi, la chiesa di San Francesco. Sbirciò di qua, di là, se per caso qualche suo conoscente, qualche suo collega giornalista non lo vedesse; nessuno!
Entrò presto, ma rimase diritto in piedi, vicino alla porta, subito intimidito da quei due o tre divoti che si erano voltati a guardarlo.
Poi, sempre diritto in piedi, rigirando il cappello fra le dita, cominciò a raccogliersi e a pregare, ma senza muovere nemmeno le labbra.
La chiesa era scura, quasi deserta; ma il biascicare sonnolento di quei due o tre bacchettoni dalla faccia gialla, gli dava fastidio, gli toglieva il fervore.
Quando aveva pregato intensamente, aveva sempre ottenuto qualche cosa!… e cercò colla memoria tutte le "grazie" ottenute in sua vita, per poter ravvivare la propria fede; e tornò a pregare. Le sue preghiere, naturalmente, non erano avemarie, non erano pater noster; diceva al suo Signore Iddio, datemi questo, datemi quest'altro.
Ma perchè il sagrestano continuava a osservarlo…. a fissarlo?
Non riusciva a chiedere intensamente, fermamente ciò che desiderava. Non era fede vera la sua; era una concessione a sè stesso, a un pregiudizio.
Però, anche da ragazzo, quando non andava a messa la domenica, gli capitava sempre, nella settimana, qualche disgrazia. E tornava a pregare, ma per poterci credere, assicurava sè stesso, che il suo Dio non era a confondersi col Dio falso dei preti, nè col Cristo di legno o di cera delle donnicciuole. Era più grande e più in alto; era l'equilibrio dell'Universo, era la forza occulta che cominciava là dove finiva la scienza, e che però nemmeno la scienza poteva negare in modo assoluto…. E poi, a questo Domineddio portentoso che reggeva l'infinito, Pietro Laner non gli aveva da chiedere che le grazie più discrete, più modeste: trovare i soldi per pagare il conto della padrona, sposare la Nora, ottenere il perdono dalle zie. Il solo miracolo, veramente grande che domandava, era di riavere le ventimila lire prestate a Matteo Cantasirena.
Ma perchè quello zoticone del sagrestano si voltava sempre dalla sua parte?… Lo conosceva forse?
Non poteva raccogliersi! Non poteva pregare con fervore!—Questo voleva dire che non avrebbe ottenuto niente; che era proprio spacciato!—Dio! Dio! Perdere Nora! Non aver più un soldo! Finire in un ospedale!…
In fondo alla chiesa luccicava un piccolo altare: una Madonna, in una gran custodia di vetro, con un abito di raso giallo tempestato di gemme. Tutti i ceri del piccolo altare erano accesi: le colonne, le pareti, erano coperte di voti, di cuori d'argento, di grucce, di gambe e di braccia di legno….
—Là devo andare a pregare se voglio ottenere qualche cosa,—pensò Pietro Laner,—e se il sagrestano mi vede, questa sarà la penitenza per meritare la grazia!
Si avvicinò piano piano alla Madonna dei miracoli: le ombre della navata, l'oscurità dietro le colonne, erano piene di misteri, d'inquietudini. Quella chiesa semivuota, si popolava a poco a poco, per la forza della sua immaginazione, di tutta la folla dei rispetti umani. Erano i suoi colleghi più beffardi, più scettici, più spregiudicati!… Era Nora che lo aveva veduto entrare da lontano in San Francesco, e gli aveva tenuto dietro! Era Matteo Cantasirena, che rideva così rumorosamente da farsi sentire per tutta Milano!
Il timore, l'oppressione, diventavano orgasmo: pure bisognava inginocchiarsi…. pregare, prosternato, dinanzi a quell'altare…. S'inginocchiò infatti…. ma provò un senso, un'impressione strana…. Sentiva dei passi dietro a sè che si avvicinavano…. poi una mano gli batteva sulla spalla!… Si alzò di colpo…. non c'era nessuno.
Soltanto una vecchierella, collo scialletto paonazzo del "Luogo Pio", borbottava il rosario fissando la Madonna cogli occhi malati….
Eppure il pensiero di essere visto da quella vecchia ad inginocchiarsi una seconda volta fu più forte di lui in quel momento. Era il timore dei pregiudizi del mondo che la vinceva su tutti gli altri timori, ed egli uscì dalla chiesa, sbirciando di qua, di là, più pauroso ancora di quando vi era entrato.
E così anche quel suo ultimo barlume di speranza, riposto in
Domineddio, nella Madonna, era svanito.
Pietro Laner era nato nel Trentino, a Crodarossa. Un paesuccio raggruppato attorno al campanile nuovo; poche casette che spiccavano in alto, scintillanti al sole, in mezzo alla montagna tutta verde fino alla cresta bigia; poche casette bianche e quiete sotto i tetti neri, colle piccole finestre, come occhietti ridenti, piene di fiori.
Pierino aveva appena cinque o sei anni, quando gli morirono, a pochi mesi di distanza, prima la mamma, e poi il babbo. Allora fu raccolto in casa degli zii: lo zio prete, don Giacomo, e le sue sorelle, la signora Angelica, e la signora Rosina. E tutti, il buon prete che aveva sempre voluto bene al suo povero fratello, e le due zitellone che erano sempre state in pace colla povera cognata si affezionarono subito a Pierino e lo tennero in conto di un figliuolo…. proprio mandato dal Signore.
Fissarono insieme e si divisero d'accordo i vari obblighi per allevarlo e per educarlo. Don Giacomo gl'inspirava il santo timor di Dio, gli spiegava la dottrinetta, gl'insegnava a leggere e scrivere e gli faceva fare delle buone camminate, arrampicandosi su per i monti.
Le zie gl'insegnavano a star pulito, a risparmiare i kreuzer che gli altri gli regalavano, a fare la somma e la moltiplica, e quando era necessario, la zia Angelica e la zia Rosina, sempre serie, sempre composte, trovavano la forza unite insieme, anche per metterlo in castigo.
Da suo padre, Pierino non aveva ereditato nemmeno un soldo. Il pover'uomo possedeva un paio di campicelli ch'egli stesso coltivava, tralasciando nei giorni della semina e del raccolto dal fare il mestiere di sarto che gli dava da vivere. Ma prima, la lunga malattia della moglie, poi altre disgrazie, i due campicelli che a vederli dall'alto, in mezzo al verde dei prati, sembravano piccoli come i tappeti da camera, rimasero alla sua morte, sepolti sotto i debiti che don Giacomo per altro si affrettò a pagare.
Don Giacomo era ricco, s'intende per quei paesi, e non era diventato ricco per merito suo, ma per la stretta economia, per le privazioni stesse a cui si assoggettavano quotidianamente le sue sorelle che adoravano Domine…. in avarizia! Esse risparmiavano su tutto, e ogni giorno di più, perchè ogni giorno erano sempre più rattristate e spaventate dallo spettacolo della miseria altrui.
"Quando in una casa manca il necessario, comincia a mancare anche il timor di Dio!" E per questa massima che concordava colla sola, coll'unica passione di quelle due esistenze, esse finivano col diventare sempre più avare anche per salvarsi l'anima; e incrudelivano sopra di sè, più ancora che sugli altri, per accumulare sul patrimonietto comune, sul benefizio della Canonica e persino sul vino della Santa Messa, e qualche volta sospirando e gemendo dinanzi al giocondo appetito del buon pretone sano e forte.
Quando presero in casa Pierino, quando ebbero da pagare i debiti del fratello, si trattava dell'onore della famiglia e non fiatarono, ma risparmiarono le uova dell'insalata e andarono a dormire senza lume per poter ricavare, col tempo, da una parte quello che era andato dall'altra. Buone donne del resto, pie, laboriose, niente affatto pettegole, e indulgenti; caritatevoli di consigli quando ne erano richieste, e di orazioni anche non richieste. C'era chi stava male? chi era minacciato da una disgrazia? Pregavano per quegli infelici mattina e sera, e colle loro divozioni fioccavano indulgenze su tutti i poveri morti del paese.
Don Giacomo soffriva per l'avarizia delle sorelle, ma timido, come tutti i Laner, non aveva trovato mai tanto coraggio da opporsi, da far valere, occorrendo, i propri diritti. Esse non alzavano mai la voce; erano sempre rispettose per l'abito, per il ministero, per la santità del fratello. Ma don Giacomo non osava contrariarle anche per non addolorarle; e tranne qualche predica, in generale, sul brutto peccato dell'avarizia, e sui doveri verso il nostro prossimo, non osava andar più in là. Piuttosto si adattava a commettere in casa dei piccoli furterelli; e nascosta la roba sotto la tonaca, la portava, raccomandando di non dir niente, a' suoi vecchietti, a' suoi ammalati. E gridava lui per il primo, contro i gatti, quando mancava la carne, contro i topi quando invece era un pezzo di lardo; contro il nibbio o la poana quando spariva un piccioncello o un pollastrino. Ma le due sorelle, appena successa la sparizione, stavano sempre più in guardia, con tanto d'occhi, e per un pezzo don Giacomo non si arrischiava…. non toccava più niente. E allora si sfogava dando tutto il suo tempo, tutta la sua persona, tutto il conforto del suo gran cuore, a' suoi poveretti. Andava lui a piedi per poter prestare agli altri, che ne aveano più bisogno, il suo cavalluccio magro, sfiancato. Quando era chiamato presso un ammalato, non lo abbandonava più; restava lì a fargli da infermiere: e una volta fece anche da contadino. Un povero diavolo si era rotta una gamba, scivolando giù da una roccia. Era d'agosto, il tempo della mietitura, e a Crodarossa, in quei giorni, non abbondano le braccia. Don Giacomo conforta il povero diavolo, poi si fa dare il suo grembiule bianco, lungo fino ai piedi, il suo cappellaccio di paglia, e passa così tutta una settimana, dalla mattina alla sera, e facendosi aiutare anche da Pierino, falciando il fieno, segando il grano, legando, ravviando, abbarcando i covoni.
E quel povero prete, così timido colle sorelle, così umile con tutti, aveva finito col dare anche la vita per i suoi parrocchiani, dopo aver compiuto atti inauditi di coraggio, di vero eroismo.
Una notte, improvvisamente, dopo un violento uragano, il fiume aveva rotto e tutto il paese era rimasto allagato.
—L'acqua! L'acqua! L'acqua!—Erano urli di spavento, di morte. Don Giacomo, sebbene ormai quasi vecchio, si cacciò dov'era maggiore il pericolo e il bisogno, coi più giovani, coi più forti, coi più temerari, consigliando, confortando, trasportando a braccia o sulle spalle i vecchi e gl'infermi. Si buscò la febbre, scoppiò la polmonite e morì in pochi giorni. E prima di morire divise il suo patrimonietto in tre parti uguali, fra le sorelle, Pierino, e i poveri del paese. In quell'istante supremo aveva trovato anche quell'altro coraggio che in vita gli era sempre mancato; quello di affrontare l'avarizia muta della signora Angelica e della signora Rosina, che inginocchiate a pie' del letto singhiozzavano sulle avemarie del Rosario, mentre le campane suonavano i rintocchi mesti dell'Angelus, mentre da tutta la casa, da tutta la strada piena di gente, saliva al suo cuore, ultimo saluto di pace e di speranza, il lamentìo sommesso dei Pater e delle Ave.
—È un santo!—sospiravano la signora Angelica e la signora Rosa, con un'istintiva scrollatina di testa.-Ha voluto morire da santo, come da santo ha sempre vissuto!—E quando sospiravano, e quando scrollavano il capo, le due vecchiette lo facevano tutte e due nello stesso tempo, colla stessa espressione addolorata negli occhi gonfi di lacrime, nella voce fievole, nella compunzione devota dei gesti.
La signora Angelica e la signora Rosa si rassomigliavano fin da piccine, ma a poco a poco, a forza di vivere unite insieme, erano arrivate al punto da essere scambiate l'una per l'altra: tanto più che anche da vecchie, come da ragazze, continuavano a vestire perfettamente allo stesso modo. Avevano la medesima sottana di lanetta scura, il medesimo scialletto nero, e sul capo, uso cuffia, il fazzoletto pur nero di maglia grossa, che annodato, stretto sotto il mento, lasciava appena sbucare la loro faccetta tonda, col naso grosso, lungo, rosolato dal sole.
Composte e silenziose, attraversavano la piazza; insieme si alzavano in piedi ai punti prescritti della messa, insieme si sedevano dopo il vangelo, si prosternavano insieme, fino a terra, al mistico irraggiare dell'ostensorio; poi le due figurette nere, piccoline, secche secche e diritte, si vedevano comparire sempre mute, sempre appaiate sull'alto della viottola del Santuario di Crodarossa, la loro passeggiata favorita. E in casa, appena una delle sorelle entrava in una stanza, o andava nell'orto o nel pollaio, l'altra subito le teneva dietro trotterellando. Dormivano nella stessa camera, si alzavano alla stessa ora; alla stessa finestra prendevano l'aria e il raffreddore, e non avevano avuto, non avevano altro, fra grandi e piccoli, fra tutte e due, che un solo peccato da confessare: l'avarizia.
Morto Don Giacomo, si attaccarono più strettamente al nipotino. Germinava in fondo al loro cuore e sotto tutte le orazioni, le divozioni che facevano, una lontanissima speranza, intima, segreta, che si erano confidato l'una all'altra cogli occhi…. Soltanto cogli occhi.—Pierino! Per via di Pierino, avrebbero un giorno, chissà! potuto riavere la Canonica e il Benefizio. Oh, la Canonica! Il bel cortile!… il ricco pollaio; l'orto e il vigneto della Canonica!
Dopo la morte di don Giacomo avevano dovuto andarsene, abbandonare tutto quanto. Che gran dolore! Che rivoluzione, che sconvolgimento, in tutta la loro esistenza!… Nel cielo buio, dopo l'uragano, dopo il terremoto, non era apparso, di lontano, che un solo, un piccolo raggio di speranza: Pierino!—Il buon Pierino, innocente come l'acqua, un vero San Luigi! Pierino avrebbe potuto farsi prete e forse diventare il successore del successore, già vecchio, di don Giacomo, e allora, chissà!, fosse almeno per morirvi, avrebbero potuto ritornare in quella loro casa così comoda, così nota, così intimamente legata alla loro vita, al loro essere.
La signora Angelica e la signora Rosina che in gioventù non erano mai state innamorate, nè avevano mai provato, certamente, qualche cosa di simile, si può dire che cominciarono allora a far all'amore, colla Canonica, col vigneto, col pero alto e frondoso che dominava dal mezzo tutti gli alberi dell'orto, e al quale, quando erano giovani, un giorno che facevano le mattone, avevano dato anche un nome strano: il Gigantesso!
Costrette ad abbandonare la casa, non avevano potuto abbandonare il luogo. Avevano preso un quartierino accanto alla Canonica, perchè le finestre davano appunto sull'orto. E lì, a una di quelle finestre, le due vecchierelle rimanevano ore e ore, fisse, mute, guardandosi negli occhi e scrollando il capo.
Quando il nuovo ortolano,—se avessero potuto odiare qualcheduno, quello, proprio, lo avrebbero odiato,—vi faceva qualche cambiamento, era per esse una rabbia, un affanno; se atterrava un albero, era un dolore. E nei mesi di quel primo inverno,—l'inverno lungo e bigio delle montagne, colla neve che continua a cader sulla neve, tacitamente,—quando tutto l'orto era rimasto sepolto, e la vigna e anche il pero maestoso non sembrò più altro che uno strano e immenso colosso bianco, le due vecchierelle, dietro le finestre, tappate colla cimasa, rimanevano tutto il giorno a guardare, a spiare, a sospirare.
—Gesù Maria Joseph!—gemeva la signora Angelica.
—Gesù Maria!—rispondeva la signora Rosina, congiungendo le palme.
—Che inverno! che siberico! Povera vigna! Povero Gigantesso!
—Jesus Maria Joseph!
—Jesus Maria!
Ma poi, quando a poco a poco la neve alta si abbassava, si dileguava, e cadeva a fiocchi, a pezzi, dagli alberi scossi dal vento, dalle frondi dondolanti, quel verde che ritornava a sbucare, ad apparire, a distendersi, a scoprir cose note e care, consolava, riscaldava, rinverdiva anche quella certa speranza, lontana lontana….
—Fra dodici…. fra quindici anni…. Pierino potrebbe esser parroco….
—Fra dodici, fra quindici anni….
—Ma non bisogna mai far calcoli sulla morte di nessuno!
E la signora Angelica si faceva il segno della santa croce.
—Che Dio accordi a tutti una lunga vita!—rispondeva la signora
Rosina, segnandosi pure alla sua volta, lentamente.
Erano sincere in questo loro sentimento di carità; e ne furono premiate perchè non dovettero aspettare per tanti anni un po' di consolazione.
Don Giuseppe, il nuovo parroco, non riusciva a farsi voler bene a Crodarossa. Il povero don Giacomo vi era ancora troppo ricordato, troppo esaltato e rimpianto. Quello era un sant'uomo!
Don Giuseppe non era cattivo; ma di tutt'altra pasta. Amava molto i proprii comodi, la propria salute…. insomma, invece di essere un mezzo santo come don Giacomo, era un mezzo filosofo della vita. Di più, era intinto dello stesso peccato della signora Angelica e della signora Rosina, sebbene non fino a quel punto; perchè se don Giuseppe era avaro cogli altri, non lo era poi con sè stesso.
Per cattivarsi gli animi, per rendersi popolare, pensò allora di stringere amicizia colle due vecchie sorelle, che per virtù del povero don Giacomo godevano la stima e la venerazione di tutto il paese.
—Aveva sentito dire che Pierino aveva la vocazione? voleva farsi prete?… Bravo! Bravo! Il nipote di don Giacomo! Oh, quando sarebbe stato il momento avrebbe parlato lui alla Curia, per averlo per coadiutore!… Poi, già, sarebbe stato di diritto suo successore…. Sicuramente! Bravo! Bravo!…
E dopo qualche visita del parroco alle vecchie, dopo il regalo d'un cesto d'uva e d'un piatto di pere, la signora Angelica e la signora Rosa per restituire le garbatezze, per ringraziare, ripresero la via della Canonica e dell'orto; un altro giorno fecero una visitina anche al pollaio…. Poi nell'orto, invitate da don Giuseppe, cominciarono ad andarci spesso, per recitare il rosario, per leggere il Manuale di Filotea all'ombra antica e fidata del Gigantesso….
—Oh, anche don Giuseppe era un degno sacerdote! E anche l'ortolano era un galantuomo! E come lavorava di lena!
Le due sorelle insegnarono al parroco e all'ortolano a conservare la carne secca e l'uva intatta per tutto l'inverno…. a risparmiar sulla semina…. a risparmiar sulle spese. In quel frattempo, si ammalò la serva di don Giuseppe, e se ne andò al suo paese a rinfrancarsi, ma poi non tornò più a Crodarossa, nè don Giuseppe si prese altre donne. La signora Angelica e la signora Rosina omai facevano tutto loro alla Canonica, come prima, quando c'era il povero don Giacomo, e alla casa nuova, non ci andavano più altro che la sera, per dormire.
E intanto le lezioni a Pierino, sospese per la morte dello zio don Giacomo, furono riprese da don Giuseppe, il quale, e non più le zie, gl'insegnava poi anche l'aritmetica.
Pierino, cresciuto in quell'ambiente, fra chiesa, sacristia e canonica, si figurava quando fosse un uomo di fare il prete per diventar vescovo, come gli altri ragazzi della sua età pensano di andar soldati, per diventar generali.
Ma nel cuore del giovinetto mancava il sentimento vero, profondo, della fede. La grande maestà di Dio non gl'incuteva alcun timore; gl'incuteva più timore don Giuseppe, forse perchè don Giuseppe aveva sempre la voce in aria e quella del Signore non l'aveva mai sentita.
Era sempre in chiesa o in sacristia: era sempre in cotta a fare il chierico durante tutte le funzioni; ma quando serviva messa, all'Elevazione, scampanellava troppo forte e troppo a lungo; in processione, dava colpi al turibolo da buttar all'aria cenere e brace. Durante la predica portava in equilibrio cataste alte di seggiole che sbatacchiava poi dinanzi ai divoti; pigliava quattrini e parlava forte, affaccendato col sagrestano. E i tridui, collo sparo dei mortaretti, e la Settimana Santa, col fracasso dei mattutini, e il mese di Maria coi fiori e i canti al Santuario di Crodarossa, erano le sue feste, i suoi divertimenti ai quali pensava e si preparava con gioia da un anno all'altro.
Don Giuseppe, che aveva notato tutto ciò, cominciava ad essere inquieto a proposito della vocazione di Pierino; ma amante della santa pace, teneva i dubbi e le osservazioni per sè.
—È un buon ragazzo,—pensava,—ma forse è troppo vivo. Quando gli parlo, sta attento, con rispetto, con sommissione…. ma non mi ascolta. Se gli dò una sgridata, diventa pallido, tremante, ma poi torna da capo. Forse ha preso troppa confidenza colla Chiesa, coi Misteri, col Signore….
E per lavarsene le mani dichiarò alle signore Laner che era giunto il momento di mandare il nipote in Seminario, a Trento.
Ma Pierino, entrato in Seminario, invece di trovarsi sulla via che avrebbe dovuto condurlo direttamente in paradiso, si trovò più che mai su quella dell'inferno.
Il rumore del mondo arrivava appena, coll'ultima onda risonante, fin lassù a Crodarossa, e si perdeva dileguandosi nella foresta immensa, tra le fenditure profonde delle rocce inabitate.
A Crodarossa la vita serena o buia la faceva il cielo così vicino, appena diviso da un ultimo strato di verde, da un'ultima cresta di pietra.
Lavorare per mangiare; mangiare e vivere per salvarsi l'anima: non si faceva altro, non si pensava ad altro a Crodarossa.
Ma il mondo che non era arrivato fin lassù, fra la sconfinata libertà delle vette alpine, era penetrato attraverso le grosse e tetre muraglie del Seminario; e subito Pierino si era incontrato in tre cose, nuove affatto per lui, e proibite per tutti in quel luogo. La patria—Garibaldi—e le belle ragazze.
Un altro giovane seminarista triestino, un piccolo chiericuzzo dagli occhi strambi, dalla faccia lentigginosa e che i parenti volevano far prete per forza, si era legato di grande intrinsichezza col piccolo montanarino—tutti italiani, per Dio!—e gli aveva confidato che voleva scappare a Venezia e che voleva fare il bersagliere, altro che il prete!
Pierino spalancava gli occhi maravigliando. E l'altro gli parlò della patria, dell'Italia, e gli mostrò un ritratto di Garibaldi che teneva nascosto sul petto, sotto la camiciola, insieme a quello della Doralice, la rotonda bambinaia di sua cognata.
La patria!… Garibaldi!… e la Doralice! Tutto ciò aveva acceso, come fiamma che divampi all'improvviso, la mente e il sangue del nonzoletto di Crodarossa, che nascosto negli anditi bui della camerata, si metteva a gridare, a bassa voce, con l'amico di Trieste, "Viva l'Italia!" senza però far seguire, il "per Dio!" che aggiungeva quell'altro, come protesta e come rinforzo. E il berrettino di Garibaldi, e il viso tondo della Doralice, la barba bionda dell'eroe e gli occhi della ragazza gli erano fissi nella mente giorno e notte e si confondevano in un desiderio smanioso, indistinto; in un primo amore arcano, irrequieto per la patria, per l'Italia che egli si raffigurava come una donna giovane e bella, colla faccia della bambinaia. Il seminarista, il chierichetto dagli occhi strambi e dalla faccia lentigginosa pareva si godesse a stuzzicarlo, ad accenderlo sempre di più in quei pensieri, in quei misteri, e gli ripeteva di nascosto anche i versi del Berchet:
"Maledetta chi d'italo amplesso
Il tedesco soldato beò!"
Amplesso?… Beò?…—Cosa volevano dire queste nuove parole?… E "la vergin ne' gaudi cercata" e "la sposa dell'uomo stranier" era la Doralice coi capelli disciolti, seminuda, stretta fra le braccia di un soldataccio ispido e nero, coi baffi impeciati….
"Maledetta! Maledetta!…" Amplesso?… beò?… Cosa volevano dire?
Anche questo lo spiegò il seminarista, cogli occhietti che luccicavano fra le grinze della pelle e il ghignetto da scimmia sulle labbra sottili e mobili. Pierino, mentre ascoltava, era diventato pallido, rosso; poi era rimasto a bocca aperta, con un sorriso stupido. Non aveva capito bene, non aveva capito tutto, ma non osò domandare di più. Dopo, dopo, che continuo lavorìo della mente per indovinare!… Era il mondo che lo aveva preso colle sue passioni, colle sue seduzioni, colle sue cattiverie; era la donna che si rivelava a mano a mano, incessantemente. E il giovinetto nell'accensione bramosa, domandava alla discreta nudità delle statue e dei dipinti dell'altare le ultime rivelazioni del mistero della forma, domandava, cercava di scoprire nei versi del Berchet, come nelle storie bibliche di Rachele e di Giuditta, nelle lodi e nelle invocazioni appassionate alla Vergine, come nelle estasi delle Sante, la rivelazione ultima del mistero dell'amore.
No! No! Non voleva più farsi prete!… Non voleva più diventar vescovo: voleva invece prender moglie, e presto, e liberar l'Italia. L'Italia bionda e grassa, l'Italia bionda e bella, come la bambinaia del suo amico triestino.
Il piccolo Laner, appena tornato per le vacanze a Crodarossa, e non osando parlare, scrisse alle zie una lunga lettera pregandole, scongiurandole "di non voler la sua morte." Cioè, di non costringerlo a ritornare in Seminario. Non sentiva più la vocazione; sarebbe stato infelice tutta la vita; piuttosto si sarebbe lasciato morir di fame!
Ma poi, appena ebbe scritta e affidata la lettera all'ortolano per la consegna, ebbe paura di aver arrischiato troppo, di non aver riflesso abbastanza; e però, aspettando gli effetti della lettera, più che per il timore di dover finir prete, stava colla tremarella per il brutto temporale che lo minacciava.
—Che strappazzata!… Che fulmini!… Quell'altro di Trieste era stato imprudente, era diventato matto consigliandogli quella lettera!—E Pierino avrebbe quasi voluto svignarsela "in Italia" non per paura dell'Austria, ma di don Giuseppe. Finì invece col correre in camera sua, e col buttarsi mezzo svestito sul letto, per fare impressione nell'animo delle zie, lasciando credere che fosse ammalato.
Intanto la signora Angelica e la signora Rosina erano rimaste assai maravigliate e molto inquiete, soltanto al vedere la lettera,—che tenevano in mano, appena con due dita, e non osavano aprire.
—Cosa sia?
—Cosa sarà?
—Bisogna leggere….
—Vedemo.
Dopo letto, erano rimaste senza fiato, come fulminate. Lentamente, colla mano tremula, si levarono gli occhiali che tutte due si erano inforcati sul naso per aiutarsi a leggere, una parola l'una, una parola l'altra, e rimasero mute a guardarsi, a fissarsi lungamente….
—Gesù Maria Joseph!
—Gesù Maria!
—Che disgrazia!
—Che ribalton!
Istintivamente si fecero il segno della croce, poi a un tratto, colte all'improvviso dal medesimo pensiero, corsero affannate, coi passettini corti, leggeri, fin sull'uscio della camera di Pierino e rimasero in ascolto.
Pierino, che le aveva sentite venire, cominciò a rivoltarsi sul letto, a gemere flebilmente. Allora, più spaventate, fecero per aprir l'uscio, e trovato chiuso, cominciarono a bussare, a battere disperatamente.
—Apri, Pierino!
—Apri!
Pierino corse appena a girar la chiave, e si buttò di nuovo sul letto piangendo, smaniando, tirando calci all'aria.
La signora Angelica e la signora Rosa gli furono attorno per calmarlo, per soccorrerlo.—Era la prova! La tentazione!… Era il diavolo!…—E nella severità silenziosa della loro faccia addolorata, appariva un'espressione insolita di inquietudine, di diffidenza, quasi temessero scorgere, a un tratto, fra i capelli neri e crespi del nipotino, due cornetti nascenti.
Gli fecero bere della camomilla, così bollente che gli bruciò il gorgozzule; poi lo obbligarono ad alzarsi, a lavarsi la faccia, a rimettersi la giacca, e lo condussero dinanzi a don Giuseppe: lo doveva benedire subito coll'acqua santa, per mettere in fuga satanasso!
Don Giuseppe era già preparato a quella fine, o quasi. Tuttavia, per scrupolo di coscienza, gridò, strepitò, e agguantando il povero ragazzo, e tirandolo per la cuticagna lo cacciò al buio, sotto chiave, nello stanzino dell'aceto.
—Speriamo un buon effetto,—disse poi calmandosi e voltandosi per confortare la signora Angelica e la signora Rosina, rimaste pallide, tremanti, a quella scena, gli occhi pieni di lacrime.—Speriamo che il Signore, coll'aiuto della Beata Vergine Maria, gli ritorni la sua grazia speciale. In ogni modo, teniamo sempre presente questa massima di ogni buon cristiano, insegnata anche da san Bonaventura: quello che fa lui è sempre ben fatto, e non casca foglia che Dio non voglia!
E tornò a raccomandare e a predicare il savio precetto, alcuni giorni dopo, vedendo che la casa seguitava ad essere sossopra per l'ostinazione di Pierino, il quale, fatto ormai il primo passo, e visto che non lo avevano accoppato, teneva duro, ostinato come un vero montanaro.
Alla Canonica non c'era più pace; e non c'erano più ore, nè per il desinare, nè per la cena. La signora Angelica e la signora Rosa che, di solito, preparavano il pranzettino particolare di don Giuseppe, con tanta premurosa diligenza, pareva non sapessero far più niente di bene; e a forza di soffrire e di piangere si erano ammalate tutt'e due. Avevano la flussione e la faccia bendata colla pappa di lino.
Don Giuseppe, se prima aveva taciuto per il quieto vivere, adesso, per la medesima ragione, spiattellò chiaro e tondo alle signore Laner tutti i dubbi, tutte le inquietudini che aveva già da tanto tempo, prima ancora che Pierino fosse stato mandato in Seminario. E concluse al solito: "Tutto per il meglio!"
—Diciamolo francamente, con quella sincerità che è obbligo di ogni buon cristiano: abbiamo preso un gambero a proposito della vocazione di Pierino; ed io più grosso di tutti! Ma se noi su questa terra siamo poveri ciechi,—Non unicuique datum est habere sapientiam,—il Signore, di lassù, tutto vede e a tutto provvede. Lui medesimo, per i suoi fini, che sarebbe un peccato di presunzione soltanto il voler lontanamente indagare, fa una scelta ristrettissima di tutte quelle persone che destina al suo servizio, e che siamo poi noi altri preti, sempre indegnamente, s'intende. Orbene; quando ha fatto una scelta, poniamo, sopra di quel dato individuo, Lui stesso,—nostro Signore—cosa fa?… Manda subito lo Spirito Santo, e quello non c'è pericolo, non sbaglia mai, a toccargli il cuore colla grazia divina, che è quanto dire, colla vocazione. E sarebbe bella, sarebbe grossa, volersi mettere davanti, al posto della medesima volontà di Dio, per scegliere e destinare in vece sua, chi lo deve servire! Anche noi, per esempio, i nostri uomini, i nostri contadini li vogliamo prendere secondo le nostre idee, secondo il nostro gusto!… Sicuro che il sacerdozio è lo stato di perfezione; ma per questo, appunto, non può essere di tutti quanti; ed è nostro Signore, per il primo, a non volere, per tutte quelle leggi superiori, umane e anche divine, del consorzio, della famiglia, della discendenza…. Mundus est et mundus esse debet. Pierino, si vede, è stato destinato, deve avviarsi per questa strada, e del resto, anche per l'anima, sempre meglio essere un buon marito, un buon padre cristiano, cattolico, come tutti i Laner, piuttosto di fare il prete per forza che è quanto dire, essere un cattivo prete!—
Le due vecchie si sforzavano di trattenere i singhiozzi: don Giuseppe prese una mano alla signora Angelica, un'altra alla signora Rosina, e stringendo, accarezzando quelle due mani secche secche fra le sue manone grosse e calde, dalle dita pelose, volle istruirle, con gran dolcezza, ma insieme con gran fermezza, anche a proposito di un altro, di un ultimo caso di coscienza, a loro particolare.
—Da brave! Da brave! Coraggio e mettiamo in pace il nostro cuore. E sopratutto, per qualunque tribolazione, non dobbiamo mai dimenticare l'adempimento scrupoloso di tutti i nostri doveri. Il Signore Iddio lo si serve in ogni modo, specialmente colle buone opere, e in ogni stato. Ma bisogna però aver l'animo tranquillo, e sopportare tutte le afflizioni che il cielo ci manda, con quella serenità dello spirito, che ci permette appunto di attendere colla solita cura alla nostra casa, ai nostri interessi, al nostro prossimo, e al disimpegno assiduo, diligente, di tutte quelle varie incombenze per le quali siamo stati allevati e destinati…. Destinati per volere di chi?… Sempre di quel di lassù!—
Povera signora Angelica! Povera signora Rosina!… Dopo quella predica si sforzarono ogni giorno più per mostrarsi tranquille, rassegnate; per attendere come prima, con ogni cura, alla Canonica, al pollaio, al desinaretto di don Giuseppe, ma era rimasta loro una grande amarezza in fondo al cuore, un continuo rodimento.
Aveva ragione don Giuseppe: meglio un buon padre di famiglia che un cattivo prete!… Pure, si erano tanto abituate all'idea di poter rivedere un giorno don Giacomo, il loro povero fratello, in don Pierino! C'era forse in fondo al cuore, anche quell'altra ragione del benefizio; non della Canonica e dell'orto perchè, ormai, quel regno lo avevano riacquistato: avevano combinato con don Giuseppe una specie di affittanza ed erano tornate loro ad essere le padrone….
Perchè quell'amarezza dunque, perchè quel rodimento?… Perchè da tutto il discorso di don Giuseppe, era sorta e rimasta fissa nel loro pensiero un'immagine nuova, viva; alla quale il prete non aveva nemmeno accennato: la moglie di Pierino.
Un'altra donna, un'estranea in quella casa, nella loro casa, sempre con loro, in mezzo a loro, e come loro padrona di tutto! La moglie di Pierino! Un'altra signora Laner! La nuova signora Laner!
Quella loro grande amarezza, quel loro continuo rodimento era un senso strano di gelosia: gelosia di Pierino, dell'orto, della Canonica, della roba; persino di don Giuseppe: insomma gelosia di tutto ciò che aveva appartenuto, che apparteneva a loro due soltanto e che sarebbe stato anche di quell'altra, della terza padrona che doveva capitare!
E tornavano la mattina, la sera, a fermarsi alla loro finestra…. vedevano quell'altra passeggiare nell'orto, raccogliere la frutta, le pere del Gigantesso…. comandare, ordinare chissà quali cambiamenti!
Sospiravano, si guardavano, si capivano; ma adesso colle occhiate lunghe e mute, invece di consolarsi si affliggevano di più.
—È tanto giovane Pierino….
—Forse, prima, avremo tempo di morire….
Ma l'idea di morire a tempo per non veder quell'altra capitare in casa, se era balenata prima nel loro animo come un sollievo, aveva finito poi col destare nel loro cuore nuove inquietudini e nuovi tormenti. Morire prima di aver educata "quell'altra" all'economia, al risparmio!… Morire prima di averle insegnato l'ordine della casa, l'andamento della piccola amministrazione, il modo di mantenere il pollaio con poca spesa, di conservare le frutta e l'uva intatta, per tutto l'inverno?
E le due vecchie, spaventate che la moglie di Pierino non avesse tutta l'economia indispensabile a una famiglia per assicurare il necessario e mantenere il timor di Dio, raddoppiavano di avarizia, risparmiavano anche quella poca fettina di lesso in due, per poter rimediare fin d'allora, per preparare un po' di largo, caso mai "quell'altra", venuto il suo momento, non avesse giudizio abbastanza.
Finite le vacanze, Pierino doveva assolutamente ritornare a Trento, per proseguire gli studi; non più in Seminario, s'intende, ma alle scuole pubbliche. Le signore Laner avrebbero certo preferito che il nipote rimanesse in paese per badare all'orto, ai campicelli e per fare un mestiere qualunque, come suo padre. Ma don Giuseppe aprì loro gli occhi anche su questo punto.
"Pierino era di un'indole troppo irrequieta e vivace; aveva del talento, ed era stato allevato troppo bene, perchè omai potesse ancora adattarsi a fare il sarto o il calzolaio, e a lavorare la campagna. A Crodarossa avrebbe finito col diventare un fannullone, un vizioso. Invece, facendolo studiare, si poteva forse cavarne qualche cosa!… Avrebbe potuto avviarsi nella carriera dell'insegnamento, oppure ottenere un posto, per esempio, nelle ferrovie, dove si va avanti, e quando si è vecchi si gode la pensione. Pietro non era un milionario, ma il capitaletto che gli aveva lasciato lo zio "quell'eccellente don Giacomo (e sempre a questo punto anche il prete alzava gli occhi al cielo e sospirava) gli poteva servire per i primi bisogni e, al caso, per una cauzione in una Banca."
Le Banche?… La signora Angelica, e la signora Rosa, non sapevano nemmeno che cosa fossero le Banche, le azioni, le carte, i valori pubblici in genere. Non si fidavano altro che della Cassa di risparmio; e i denari di Pierino erano messi appunto sopra un libretto già intestato al suo nome. Pochetti ma tocchetti: era tutta la loro esperienza e la loro furberia.
Intanto don Giuseppe, prima ancora che il ragazzo partisse per Trento, aveva procurato di metterlo a dozzina presso certi suoi parenti ai quali avrebbe pur dato l'incarico formale di sorvegliare il piccolo Laner "buono come il pane, ma troppo vivo."
Così Pierino l'aveva spuntata; non sarebbe più tornato in Seminario!… Ma pure, quando venne il momento di partire, si allontanò da Crodarossa col cuore oppresso e assai più triste di quanto non lo fosse la prima volta, allorchè era partito saltando, arrampicandosi sull'imperiale, accanto al conduttore della diligenza.
I baci delle zie erano stati adesso più caldi, per le gran lacrime versate; anche don Giuseppe aveva saputo trovare certi consigli, certe parole buone che lo avevano intenerito. Pierino, ormai, aveva già provato a rimanere un anno lontano, senza più vedere quelle sue montagne verdi dalla cresta bigia, quel suo pezzo di cielo attraversato lentamente dall'ala pesante dei corvi. Aveva cominciato a soffrire i primi dolori, a combattere le sue piccole battaglie e per tutto ciò, quel lungo anno che ricominciava, l'ignoto di quel lungo anno che doveva ancora passare prima di ritrovarsi in faccia a quei monti, prima di rivedere la casettina bianca e quieta, lo sgomentava, lo immalinconiva fino alle lacrime.
Ma partito cogli occhi rossi e a capo basso, gli scolari delle Tecniche lo videro arrivare col cappello sulle ventitrè e il sigaro in bocca: un pezzo di Virginia che gli metteva il mal di stomaco. Pietro Laner aveva vergogna di aver portato la sottana nera; coll'aria da bravo e col sigaro, sperava tener nascosta a tutti la macchia dell'esser stato per un anno in Seminario. Invece i suoi compagni lo vennero presto a sapere, ne fecero un baccano indiavolato, e d'allora in poi, per burlarlo o per attaccar briga, lo chiamavano sempre prete-spretato, baciapile, papalino! Pietro montava in furia, correvano pugni, si rodeva; ma poi, per lavarsi di quell'onta di essere stato fra i preti, per riavere la stima de' suoi condiscepoli, si sforzava persino a tirar giù certe bestemmie grosse come una casa, e che gli lasciavano poi, in fondo al cuore, un senso misterioso di rimorso e di timore.
E anche Pietro, come i suoi compagni, non andava più alla messa la festa, e gridava, ne diceva di tutti i colori contro i preti e contro i bacchettoni; ma poi, quando fu vicina l'epoca degli esperimenti del trimestre, ebbe paura, e tornò ad ascoltare la messa, in una vecchia chiesetta, fuori di mano, dove era sicuro di non essere veduto dai compagni.
L'esperimento andò a vele gonfie e le classificazioni furono tali, specialmente per la Composizione e per la Storia, da provare a don Giuseppe che non aveva preso un altro gambero, come quello della vocazione, anche a proposito del talento.
Pierino montò in superbia per le lodi dei professori e per una certa gloriola che si era procurata anche fra gli scolari con una sua ballata in versi: Napoleone a Sant'Elena. Pensò di essere un genio e credette di non aver più bisogno di nessuno, nemmeno di quella povera Madonnina quasi ignorata nella viuzza remota; e ricominciava anche di tanto in tanto a tirar giù qualche moccoletto, quando gli accadde uno di quegli avvenimenti che lasciano nell'anima un'impressione così profonda che non si cancella interamente per tutta la vita.
Nella stessa casa dove Pietro stava a dozzina, c'era una botteguccia d'un libraio con cartoleria. Pietro, che aveva la passione delle penne, della carta, aveva preso l'abitudine di entrare sempre nella botteguccia, quando andava o tornava dalla scuola. Faceva le sue spesucce, guardava le stampe, le fotografie, i libri illustrati, e un giorno appunto gli capitò sottocchio un libro, un libro nuovo, che lo colpì stranamente e che non osò nemmeno toccare per timore di essere veduto dal libraio.
Sulla copertina chiusa (bisognava tagliarla per leggere il volume) era disegnata, a colori, una donnina molto poco in camicia, colle calzette azzurre e gli stivalini neri, seduta sulle ginocchia di un brutto scimmiotto in frak e cravatta bianca. Il libro era intitolato: Le notti di Giuliana, e sotto, fra parentesi, era stampato in caratteri grossi libro segreto.
Pierino continuava a guardare il libro, continuava a fissarlo con una stupidità animalesca negli occhi immobili, col sangue che gli accendeva le guance. Lo voleva quel libro: costava un fiorino, ma egli, soltanto per poterlo leggere, avrebbe dato tutti i suoi quattrini. Ma come domandarlo al libraio? Il vecchio cerbero colla papalina bisunta gli avrebbe ficcati gli occhi addosso; quegli occhi spelati, così vivi e acuti dietro le lenti! Eppure voleva averlo; voleva leggerlo. La sua curiosità era così eccitata, il suo desiderio così cocente, da diventare un orgasmo, una vera ossessione. Gli scolari delle Tecniche ne sapevano e gliene avevano insegnate più assai dell'amico seminarista; ma più egli ne imparava, più ne sapeva, e più cresceva la sua curiosità.
Timido per indole, timidissimo per lo stesso desiderio che lo accendeva, non osava domandare, non osava spiegarsi coi compagni. Quelli si mettevano subito a ridere, a urlare, a chiamarlo don Piero o san Luigi Gonzaga.—E aveva sentito parlare di cene, di certe orgie di ricconi, di vecchi milionari….—Cos'erano? Cosa facevano?… Certo doveva essere tutto raccontato, tutto descritto in quel "libro segreto" Le notti di Giuliana.
Ci pensò tutto il giorno a scuola, a casa, con una smania che si faceva sempre più bramosa, più fissa, che gli era montata al cervello, che lo riscaldava, lo esaltava come i fumi del vino.
La mattina dopo capitò in bottega dal libraio più presto del solito: voleva comperare una grammatica francese; quell'altra l'aveva smarrita, o gli era stata rubata: insomma non la trovava più!
La grammatica francese costava appunto un fiorino come Le notti di Giuliana. Con quella spesa non gli restavano più che altri tre fiorini e mezzo, e gli dovevano bastare fino alle vacanze:—Poco male; le zie lo avevano abituato all'economia!
Avuta la grammatica, indugiò come al solito nella bottega; e intanto che fingeva di ammirare le fotografie di Meran e di Gries lasciò lì la grammatica, sul banco ingombro di quaderni, di scatole, di volumi nuovi e vecchi; la lasciò lì, come per caso, vicino alla catasta degli altri libri. E continuò per un bel pezzo a guardare, a far passare le fotografie di Meran e di Gries.
Il libraio, intento a disporre le novità nella mostra, gli domandò d'un tratto senza voltarsi:
—Non va a scuola, stamattina?
—Che ora è?
—Son le nove. Sonano adesso!
—Le nove?!—esclamò Pierino, come spaventato a quell'annunzio.—Allora scappo!—e corse via in fretta e in furia, cacciandosi in tasca il Libro segreto invece della grammatica.
—In fine che male c'è?… Tanto l'uno che l'altro costano un fiorino; dunque l'ho comperato!—Era suo, finalmente! E adesso che smania di esser solo, di rompere la copertina chiusa, di vedere, di leggere!
Sentiva quel libro pesargli nella saccoccia; gli metteva addosso un calore che gli saliva alla faccia; negli orecchi aveva uno scampanellìo cupo, come se avesse preso il chinino.
Aspettò, quieto, che fosse cominciata la lezione, poi, appena gli parve giunto il momento opportuno, alzò la mano, e avuto il cenno affermativo del professore, se ne andò difilato a rinchiudersi nel solito buco affocato, in fondo al corridoio, dove gli scolari passavano le ore a imparare a fumare. Il sole di giugno batteva colà tutto il giorno e le mosche entravano dai vetri rotti della finestrina a mezzaluna, scendevano colle striscie di luce e i pulviscoli dorati dalle fessure del piccolo tetto di legno sporgente, sbucavano di sotto, correvano sulla faccia, punzecchiavano grosse, moleste, insistenti.
Pietro Laner stracciò colle dita tremanti la copertina e le pagine del libro, e subito cercò, cercò avidamente, in ogni pagina…. Niente! Tutta la grande attrattiva era nella copertina; il resto, una raccolta di novellette insipide, tradotte dal francese.
Possibile?!… Pierino continuò a stracciare le pagine, a cercare, a cercare rapidamente nell'una e nell'altra, indietro, avanti, senza accorgersi intanto che il tempo passava.
A un tratto un pugno forte, poi un altro, scossero l'usciolo sconnesso e mezzo sgangherato.
—Aprite, Laner!
Era la voce del bidello.
Il libro sparì di colpo, precipitò nel vuoto, con un rumor cupo, sempre più basso.
—Aprite, Laner!—E il bidello tirò un altro pugno ancora più forte contro l'uscio.
Pierino aprì, mostrandosi pallido, confuso, al bidello che lo afferrò subito per un orecchio, come don Giuseppe lo agguantava per la cuticagna.
—È un'ora che siete qui! Vi ho veduto entrare!
—Non è vero…. potrei giurare….—ma un'altra tirata di orecchie e un forte scossone gl'impedì di farsi spergiuro.
Il bidello aveva sentito il tonfo del libro, e aveva immaginato press'a poco di che cosa si trattava.
Il direttore ed uno de' professori, passavano in quel punto lungo il corridoio: subito ci fu tra loro e il bidello un breve conciliabolo: poi fecero, su due piedi, una specie di processo, con interrogatori e minacce al povero Pierino, che rispondeva livido, tremante, senza fiato.
—Cosa facevate?
—Fu…. fumavo….
—Cos'è che avete buttato via, quando han picchiato all'uscio?
—La…. la pipa.
E non vi fu verso di cavargli altro di bocca: a testa bassa, continuava a rispondere—"Fu…. fumavo—"La…. la pipa."
Per punizione fu messo in gattabuia invece di lasciarlo andare a casa a desinare. E Pierino, in quelle ore, soffrì quello che non aveva mai sofferto in vita sua!
Il suo sgomento, il suo tormento, era che cercassero, che scoprissero Le notti di Giuliana. Ma allora sarebbe passato per ladro col libraio, coi professori, coi suoi compagni e coi parenti di don Giuseppe… con tutti quanti! Il cambio colla grammatica l'avrebbero creduta una storiella!
Ladro! Ladro! Ladro!—e immaginava quella parola "Ladro!" "Pierino ladro!" quando fosse arrivata lassù a Crodarossa!… Che vergogna! Che vergogna! Ma piuttosto la morte, mille volte la morte!
E in quello sgomento, in quel terrore Pierino cominciò a pregare il suo povero babbo, il suo povero zio ch'erano in paradiso, che gli volevano bene, e che sapevano che non era un ladro. Poi pregò la Madonna miracolosa del Santuario di Crodarossa, che aveva fatto tanto male a dimenticare, poi l'altra, quella di Trento, della piccola chiesetta lontana, solitaria, e che aveva fatto molto male a trascurare, e pregò, pregò ginocchioni, piangendo, balbettando, dandosi pugni contro il petto che gli doleva per l'affanno e per la fame. Col fervore della preghiera, colla sincerità del pentimento, faceva le promesse più solenni. Oh, se i suoi poveri morti, se la Madonna, quella di Crodarossa e quella di Trento, gli facevano quella grazia; se il libro non era scoperto; se lui non veniva accusato di aver rubato, di essere un ladro, oh, allora, prometteva di mutar vita, di non dire mai più—mai più—la più piccola bestemmia, di andare in chiesa tutti i giorni, di andare a messa tutte le domeniche, tutte le feste, e di dirlo anche, di farsi vedere, senza stupidi riguardi, da tutti i suoi compagni!…
La cosa finì con una gran lavata di capo del direttore, e dei parenti, sul brutto vizio di fumare, e non se ne parlò più. Ma da quel giorno Pierino pregava, pregava tutte le sere, tutte le mattine; pregava per ottenere il miracolo che le zie gli mandassero un po' di soldi e per ottenere la grazia di passar bene gli esami.
E ancora dopo molti anni da quel giorno della grazia ricevuta per il Libro segreto, quando Pietro Laner mandò i suoi tre primi sonetti e il suo primo articolo di critica intitolato Berchet e Mameli "All'illustre cavalier Matteo Cantasirena, direttore del Rinnovatore _e dell'_Emporio Letterario", prima di portare il manoscritto alla posta, se lo portò in chiesa, nascosto sotto il gilet. In quel momento e con tutto il male che aveva detto dei Gesuiti e del Papa nel suo primo articolo, Pietro Laner non poteva certo umiliarsi a credere nelle "grazie" e nei "miracoli" di Domineddio; ma credeva, e ne aveva paura, in quella stranissima combinazione, che quando non andava in chiesa non gli riusciva niente di bene.
E per Pietro Laner sarebbe stata una disgrazia se quell'articolo, se quei sonetti, non avessero fatto buona impressione al cavalier Cantasirena. Guai per lui se non fossero stati accettati e pubblicati nell'Emporio Letterario! La sua più grande, la sua più bella speranza sarebbe andata svanita! Era da quei tre sonetti e da quell'articolo che poteva dipendere tutto il suo avvenire, tutta la sua felicità e forse tutta la sua gloria!
Pietro Laner aveva finito con onore anche L'Istituto Tecnico, aveva passato i vent'anni, ma ancora non aveva scelta la sua carriera: era incerto, non sapeva quale avrebbe potuto essere per lui la migliore. Continuava a ripetere ogni momento che avrebbe fatto volentieri il professore; che avrebbe fatto volentieri l'impiegato con un buon posto, che avrebbe fatto volentieri anche il ragioniere, ma intanto continuava volentieri a far niente!
E la signora Angelica e la signora Rosina, che non avevano nessuna fretta di vederlo partire da Crodarossa, di vederlo toccare il suo libretto della Cassa di Risparmio, si ostinavano ogni giorno più nel loro mutismo, per non essere obbligate a far domande, a spingere il nipote a prendere una risoluzione, come avrebbero dovuto fare, ma come non avevano voglia di fare.
Soltanto don Giuseppe predicava in italiano e in latino che quello stato di ozio, di dissipazione, non doveva durare sine fine dicentes. Ma don Giuseppe e Pietro Laner erano venuti poi a rottura a proposito della "triplice alleanza" e del "potere temporale". Don Giuseppe aveva alzata la voce, e gli aveva imposto di tacere, mentre la signora Angelica e la signora Rosina, sbalordite, sbigottite, correvano intorno affannate a chiudere tutte le porte, tutte le finestre, perchè l'ortolano, perchè la gente di fuori, non avesse a sentire e a rimanerne scandalizzata.
La brutta scena era rimasta impressa nell'animo di Pierino: lo rodeva il dispetto, la stizza di essersi lasciato intimidire e di non aver avuto il coraggio di rispondere per le rime quando don Giuseppe aveva alzata la voce.
—L'ora è sonata! Bisogna passare il Rubicone! Non voglio ammuffire fra le sottane! Viva l'Italia! Viva la libertà! Abbasso i preti!—e per mostrare anche a don Giuseppe che omai voleva impipparsene di tutti quanti, gli passava vicino col suo bravo cappello col garofano rosso e il mucchietto d'edelweiss infilato di dietro, sulle ventitrè, e si faceva sentire a fischiettare l'Oi Carolì, e il Morettina tu mi lasci.
Fu appunto in quei giorni, quando Pierino era più che mai infervorato nel desiderio della ribellione, che gli capitò a Crodarossa uno dei primi numeri dell'Emporio Letterario: dono settimanale agli abbonati del Rinnovatore, speditogli da Milano da un suo amico, già suo compagno di scuola, che faceva il commesso dai Bocconi per passatempo, e di professione il poeta e scrittore di commedie per il "Teatro Milanese".
L'Emporio Letterario aveva pubblicato appunto in quel numero una sua poesia: "Il nostro fiumicel…." ispirata al Guado dello Stecchetti.
Fu una rivelazione per Pietro Laner. Ecco la sua carriera: fare il poeta, il letterato, il giornalista!
In due o tre anni poteva essere "arrivato", avere il ritratto pubblicato nell'Emporio Letterario e farlo capitare a Crodarossa.—Poeta!… Giornalista!—Propugnare l'italianità di Trento e di Trieste, e a Roma Giordano Bruno, per fare crepar di rabbia don Giuseppe. E poi vivere a Milano, la prima città d'Italia, dove tutti i letterati fanno furori e tutti i giornalisti quattrini! E poi avere la propria indipendenza. Oggi lavorare dieci ore e domani andar a spasso tutto il giorno. E la libertà? Poter gridare Viva l'Italiaa! a squarciagola, magari in piazza del Duomo!… E poi, finalmente, andare al veglione.
Si mise subito all'opera. Pensò, ripensò; cambiò più volte il posto dove mettere il tavolino:—sotto alla finestra, il troppo sole gli confondeva le idee; dove c'era troppo scuro, non gli volevano venire. Finalmente, cambiando ogni giorno la qualità delle penne e il colore della carta, scrivendo poco, cancellando molto, condusse a termine tre sonetti—L'invito—L'incanto—L'inganno—e l'articolo critico sulle poesie del Berchet e del Mameli, e spedì il tutto sotto fascia raccomandato, unitamente a una lettera autobiografica di otto pagine nella quale si presentava, si raccomandava, si sfogava col Direttore dell'Emporio Letterario.
Matteo Cantasirena aveva scritto nell'articolo programma che l'Emporio era fatto sopratutto pei giovani e doveva essere scritto dai giovani.
E Pietro Laner gli dichiarava nella sua lettera:
Primo: "che era giovane.
Secondo: "che era Trentino.
Terzo: "che domandava il suo giudizio su quei tre sonetti e su quell'articolo, che aveva buttati giù, per un esperimento, in poche ore.
Quarto: "che il suo sogno era di venire a Milano e che sarebbe orgoglioso e fiero se potesse entrare come collaboratore in uno dei suoi giornali.
Quinto: "che pur di veder pubblicati i tre sonetti e l'articolo, li mandava gratis; e che se prima di accettarlo come collaboratore fisso, il signor Direttore voleva sottoporlo a un periodo di prova, era disposto anche a venire a Milano a proprie spese. Sapeva benissimo che tutte le carriere costano, nei primordi, fatiche e quattrini. Ma per la fatica era giovane, e si sentiva forte; per il resto aveva un capitale suo di ventimila lire; e poteva anche sacrificarne cinque o seicento, pur di far carriera nel giornalismo."
E qui cominciava a raccontare, in lungo ed in largo, tutta la storia della sua famiglia, della sua gioventù sacrificata, delle sue aspirazioni, del suo amore per l'Italia, del suo odio per il papato, del bene che gli volevano le zie, e dei dispiaceri avuti con don Giuseppe.
La risposta si fece attendere; arrivò quando il Laner non l'aspettava già più e in un momento in cui il giovanotto non ci pensava nemmeno. Ma appena la vide, la indovinò, ancora fra le mani del postino, tutto il sangue gli salì al cervello con un gorgoglìo tumultuante.
—Non c'era dubbio. Veniva da Milano. E c'era stampato in un angolo della busta: Emporio Letterario!
Il bigliettino era brevissimo, ma ogni periodo fu come una scossa elettrica per il buon Laner.
"Caro Pietro:
"Amo i giovani, perchè non ho più fede altro che nei giovani.
"All'affarismo che monta, al realismo che dilaga, unico baluardo i giovani che hanno il disinteresse dell'idea e il culto dell'ideale.
"Voi avete ingegno e avete cuore: i vostri versi e il vostro articolo ne sono il documento. Bravissimo!
"Ho un grande progetto e una grande proposta.
"Venite subito a Milano. Scrivere non è prudente e non è utile. È la parola, fecondatrice del pensiero, nel dibattito delle grandi idee.
"Come stanno le nostre Alpi?—L'eco italico risponde vindice alla nordica bestemmia, col verso magnanimo e magnifico del mio povero Prati?—Salutatemele. E al Caffaro e a Bezzecca, alle Sante Termopili della terza Roma, l'evviva, l'excelsior del vecchio colonnello garibaldino!
Vostro per la vita
"P.S. Portatemi dei sigari di Virginia.—Sceltissimi.—Intendiamoci: per commissione."
Pietro Laner, tre giorni dopo ricevuta la lettera di Matteo Cantasirena, pigliava di botto una di quelle risoluzioni così coraggiose, così ardite, alle quali non arrivano, certe volte, altro che i timidi. Disse in casa che andava a Roveredo e scappò a Milano. E da Roveredo scrisse alle zie che "ormai il dado era tratto: che aveva passato il Rubicone. Era un pezzo che ci pensava, che aveva deciso, ma non aveva mai voluto parlarne per non amareggiarle; e non aveva voluto vederle, consolarle prima di partire per non perdere quella forza, quella calma d'animo, della quale aveva tanto bisogno. Del resto, non era che la prova di un paio di mesi. Dopo, sarebbe tornato in ogni modo a Crodarossa. O per fermarsi per sempre, per seppellirsi lontano dal mondo se la prova gli andava fallita; o per rivederle, per salutarle, se gli era andata bene, e ricevere allora quella benedizione che adesso pregava, supplicava, gli volessero mandare anche da lontano, col loro perdono."
La signora Angelica e la signora Rosina capitarono dinanzi a don Giuseppe esterrefatte; senza nemmeno aver la forza di piangere. Piansero dopo, un po' tutti i giorni; quando don Giuseppe le ebbe un po' confortate e rassicurate.—Tutto per il meglio: Ricordiamoci sempre di questa massima salutare: tutto per il meglio!—Poi il prete continuava, più lentamente, più a bassa voce, con mistero, quasi avesse paura che l'aria portasse in giro le sue parole:—Quando Pierino avrà imparato a proprie spese a mettere giudizio, ritornerà a Crodarossa più quieto, più umile, e sarà meno pericoloso per sè e per gli altri. Con certi discorsi, con certe imprudenze, non si scherza! Poteva farci capitare addosso dei guai seri. Tutto per il meglio, e ringraziare Quel di lassù!
Matteo Cantasirena, in quei giorni, era tutto occupato e tutto infervorato nella gran lotta per le elezioni amministrative e non si ricordava più di niente: nè di Pietro Laner, nè delle lettere, nè del "grande progetto" che aveva da comunicargli.
Quando Pietro Laner gli capitò dinanzi col viso sparuto, annerito dal carbone della terza classe, col lungo ciuffo della parruccaccia arruffata, lo prese lì per lì, invece del giovane trentino, per uno dei soliti "tirolesi".
—Passate dal Bizzarelli!—grugnì dispettosamente, continuando a scrivere più in fretta.
—Sono Pietro Laner!—balbettò l'altro porgendo, per farsi conoscere e per raccomandarsi, il grosso pacco dei Virginia, che gli era costato al passaggio del confine, mille ansie e mille pene.
—Ho detto di passare dal Bizzarelli!—gridò ancora più inferocito Cantasirena, alzando la grossa testa, dal barbone imponente.—Non ho tempo da perdere. Ho le elezioni da fare. Prima gl'interessi di Milano e dopo i miei privati. Ho sempre fatto così!
Al povero ragazzo tremavano le gambe.
—Mi ha scritto lei di venire subito a Milano. Sono Pietro Laner, di Crodarossa…. e questi sono i sigari di Virginia, proprio scelti uno a uno.
I sigari furono un lampo per Matteo Cantasirena: il lampo che rischiarò le ventimila lire. Si allungò, si sdraiò sulla poltrona, e sorridendo, accarezzandosi la barba, arricciolandone la punta colla mano bianca, un po' tremula, continuò a guardare il giovanotto, fissando gli occhietti piccoli, scrutatori.
—Pietro Laner!—replicò, facendo risonare il nome e l'accento.—Il Bardo Trentino!—e continuando a sorridere, con un lampo di malizietta benevola, cordiale, gli stese, gli offrì la mano, ma senza troppo allungare il braccio che teneva appoggiato sul seggiolone.
—Ho letto i vostri articoli e i vostri versi.
—E così? Le sono piaciuti?… Mi dica proprio la verità! Senza far complimenti!—esclamò il Laner che voleva mostrarsi indifferente, ma che aveva le labbra pallide per la commozione.
L'altro non rispose; diventò serio, grave, abbassando le palpebre, soffiando, stirandosi sulla poltrona. Poi riaprì gli occhi e tornò a guardare il giovanotto con un cenno incoraggiante.
Pietro Laner arrossì di gioia: quell'altro aveva voluto scherzare: gli articoli e i sonetti gli erano piaciuti davvero.
—Dirò a voi,—ripigliò poi Cantasirena con un lungo sospiro che si riferiva ai dolci ricordi, alle care amicizie del tempo andato,—dirò a voi quello che dicevo sempre al povero Praga, al Camerana, al Betteloni, al Boito, quando venivano a pranzo a casa mia, con quel testardo del Rovani, e mi obbligavano per forza, mi chiudevano in camera per farmi sentire i loro versi. Voi non eravate ancora nato, caro Laner!… Bei tempi!…—Ricordatevi, predicavo loro, a tutti quei matti, che la poesia è la musica,—musica italiana, s'intende!—del pensiero: verso e pensiero, pensiero e rima, tutto deve essere armonioso, tutto deve esser limpido, come le "chiare, fresche e dolci acque" di messer Francesco!—E predicherò a voi, nel momento presente: Se volete aver salute, guardatevi dal "simbolismo".
—Io?—esclamò Pietro Laner, sprezzante, sdegnoso,—non so nemmeno che cosa sia!—E fiero, reso ardimentoso da questo fatto per il quale si sentiva più innanzi nella stima e più legato al Direttore, gli tornò a presentare il pacco di sigari, cominciando a narrare la lunga iliade di patimenti e di timori, sofferta per quel pacco, alla stazione di Ala.
Ma intanto che il giovanotto continuava a raccontare le sue storie, il Direttore, distratto, pensava ad altre cose. Gli fece mettere i sigari sul caminetto, senza nemmeno ringraziarlo; poi raccogliendo sulla scrivania i fogli dell'articolo che aveva scritto, chiamò forte: Taddeum!
Si udì il rumore sordo della gamba di legno sull'impiantito; il tintinnare delle medaglie che penzolavano sul petto di Taddeo, insieme alla pipa, e subito il vecchio soldato si presentò sull'uscio diritto, in posizione, salutando colla mano al berretto da Garibaldino.
—Comandi, Colonnello?…
Le medaglie, la gamba di legno, il berretto, il colonnello fecero un effetto magico, di maraviglia, di rispetto, di commozione sull'animo del giovane trentino, ancora oppresso dalla soggezione di don Giuseppe e ancora fresco dalle ansie del confine, per via dei sigari di contrabbando. Gli parve a un tratto di sentir echeggiare nello studiolo ammuffito le note calde e libere, proibite a Crodarossa, dell'inno di Garibaldi: "I martiri nostri son tutti risorti!" e improvvisamente, con un trasporto sincero di amore e di entusiasmo, gridò forte: Viva l'Italia, per Dio!
—Evviva!—rispose il solo Taddeo, che tornò poi a domandare, sempre in posizione:
—Comandi, Colonnello?
Matteo Cantasirena gli consegnò l'articolo da portare in stamperia, poi quando Taddeo fu sull'uscio lo fermò con un cenno, e rivolgendosi al Laner gli domandò se aveva già fatto colazione.
—No….
—Allora la farete con me. Va bene?
—Grazie,—rispose Pietro arrossendo dal piacere.
—Tornate a prendermi qui all'ufficio; a mezzogiorno. Oggi poi pranzerete a casa mia. Voglio presentarvi alle mie figliuole, che hanno letto i vostri versi.
—Grazie….—disse ancora Pierino, arrossendo questa volta per il piacere, per i versi, e per le figliuole che li avevano letti.
—Dove siete alloggiato?
—In nessun posto, ancora. Appena arrivato, sono venuto qui direttamente.
—Per oggi potete scendere al Roma o all'Europa.
E dato ordine a Taddeo, sempre fermo sull'uscio, di prendere un brum e di condurre il signor Laner all'hôtel, si rizzò di colpo, si buttò addosso allo scrittoio e ricominciò a scrivere in fretta, in furia, facendo scricchiolar forte la penna.
Pietro Laner voleva ringraziarlo, voleva stringergli la mano, salutarlo, ma l'altro, intento a scrivere, non lo guardò nemmeno.
—Il signor Direttore è stato il suo colonnello?—domandò il Laner ancora tutto pieno di ammirazione, a Taddeo, appena furono sulle scale.
—Nossignore,—rispose l'altro.—Il mio colonnello era il signor
Chiassi, che è morto a Bezzecca.
—E anche lei è stato ferito a Bezzecca?
—Sissignore.
—Allora gli avranno data la pensione?
—Quella della medaglia: novanta lire all'anno.
—Ma….—Pietro esitava,—per…. la gamba?
—Niente. Me l'hanno tagliata due anni dopo: quando mi si è riaperta la ferita. Ho mandato le carte al Ministero, ma non sono mai arrivate!
Pietro Laner si sentì raffreddare tutti gli entusiasmi. Era in Italia o era ancora…. di là?—Ma poi, il ricordo dell'invito a colazione e a pranzo, avuto dal Direttore dell'Emporio Letterario, e il pensiero delle figliuole, che avevano letti i suoi versi, tornarono subito a farlo diventare di buon umore.
Il Direttore lo condusse a colazione al Cova, nel gran salone. Matteo Cantasirena si avanzava pettoruto, maestoso, battendosi dei colpettini leggeri sulla schiena, col bastone dal pomo d'argento. E Pierino dietro, si sforzava per stargli alle falde del soprabitone, per far vedere ch'era in compagnia del Direttore. Confuso, intimidito da quel lusso, da quell'andirivieni, da quel mormorìo composto, garbato, così nuovo e imponente per il contadinotto di Crodarossa, non sapeva più camminare, non sapeva più muoversi, urtava nella gente, nei camerieri. E quando vide il signor Direttore sedersi a un tavolino, dove tutti si erano alzati per fargli posto, complimentandolo e festeggiandolo, Pierino rimase in piedi, a bocca aperta, rigirando fra le mani il cappello a cencio alla tirolese, sorridendo e facendo saluti a tutti quei signori, che non lo guardavano nemmeno.
—Fatevi portare una sedia e sedetevi,—gli disse poi Cantasirena, quando sembrò ricordarsi del suo invitato e di presentarlo.—Il signor Pietro Laner; un giovane trentino, scrittore di gran talento.
Ma anche la presentazione, anche il gran talento, non fecero effetto. Lì, tutta quella gente, era di gran talento. Un'occhiatina di traverso, e poi il nuovo venuto rimase sepolto nell'oblìo.
Erano infervorati nelle elezioni. Si arrabbiavano, si invelenivano, ridevano, gridavano gli uni contro gli altri, senza intendersi; tutto per le elezioni. Soltanto quando parlava Matteo Cantasirena si chetavano, tacevano: lo ascoltavano con interesse, con piacere, sorridendo. Matteo Cantasirena parlava poco a colazione, perchè mangiava molto; ma quel poco era prezioso. Erano notizie, informazioni particolari, comunicate sommessamente, confidenzialmente. Erano risposte pronte, salate; arguzie felici, dette sempre in tono grave, colla faccia seria e che sollevavano un coro di risate e di approvazioni. Oppure, finalmente, era un'aspra invettiva lanciata contro la Costituzionale e gli inamovibili che rovinavano il partito e il paese. Fra la comitiva, che rimaneva impressionata, c'era allora un momento di silenzio profondo. Matteo Cantasirena sospirava: come un oracolo socchiudeva gli occhi e poi tornava a mangiare.
Pietro Laner, un po' impacciato col suo "osso buco alla gramolata" che rivoltava sul piatto senza lasciarsi tagliare, schizzando la salsa sulla tovaglia, rideva anche lui, quando ridevano gli altri. Ma il suo riso era una smorfia stentata, che invece di metterlo di buon umore gli faceva sentire più grande e più profondo il suo isolamento, il suo avvilimento; e lì, in quel bel caffè, in mezzo alla folla, sentì di esser solo, sentì di non esser "più niente" e dinanzi a quell'"osso buco alla gramolata" che non voleva lasciarsi tagliare, lo assalì profonda, amara, la nostalgia delle sue montagne.
Pure, avrebbe voluto vincersi, avrebbe voluto parlare, dir qualche cosa. E stava attento, ansioso, se gli veniva il destro di poter entrare in qualche discorso. La colazione era alla fine, l'"osso buco" era sparito, quando Pierino vide il Direttore cercare attentamente un buon sigaro nella scatoletta del cameriere. Allora forzò la voce, che gli era diventata fioca nella strozza, e ricordò i Virginia sceltissimi, che gli aveva portati da Trento.
—Sicuro,—esclamò Cantasirena,—il bravo Laner mi ha portato dei Virginia austriaci che devono essere eccellenti.
Gli amici del Direttore si voltarono per guardare il bravo Laner dei Virginia, che diventava interessante.
Oh, finalmente!—pensò Pierino, e col suo frasario mezzo veneto, cominciò a raccontare tutte le angosce del dover nascondere il pacco alla dogana.
—Ma dovevate pagare il dazio,—esclamò seccato il Direttore, che sdraiato, sonnecchiando, guardava il fumo dell'Avana, che bruciava lentamente alla candela.—Dovevate pagare il dazio; era più semplice!
Gli altri tutti del tavolino, tornarono a voltar le spalle al Laner.
—Già…. sicuramente….—rispose Pietro, e non aprì più bocca. Quella colazione era durata due ore, ed era stata un supplizio di due ore. Ma per fortuna, appena fuori del caffè, Cantasirena, che se n'era andato col suo trentino prima di tutti, per via del giornale, fu subito un'altra cosa. Diventò più affabile, più espansivo. Prese a braccetto l'egregio Laner, e fermandosi ogni tratto per dar maggior peso al discorso, cominciò a fargli delle confidenze, a dirgli cose che non aveva mai voluto dire a nessuno al mondo.
—Capite, giovane amico, queste elezioni le ho tutte io sulle spalle; e quando saremo in novembre, o in gennaio, ed avremo poi le elezioni politiche…. Non ne parliamo! Il Governo è inabile; la Costituzionale è un museo di antichità mal conservate; il paese comincia ad aprire gli occhi…. e io comincio a sentirmi stanco. L'ho detto anche l'altro giorno, a Monza.
Pierino si sentiva consolare da quel braccio che stringeva il suo, da quella voce affascinante, da quell'intimità affettuosa, amichevole:—Ah!… tornava a non esser più solo, tornava ad essere ancora qualche cosa!
A un tratto Matteo Cantasirena, che dopo aver parlato di Monza era rimasto come preoccupato e compreso dalla solenne gravità del colloquio avuto, si fermò su due piedi e fissando il Laner proprio in faccia, tanto da farlo arrossire, gli disse a bruciapelo:—Volete dunque che lavoriamo insieme?
—Magari!—Pietro cercò una parola più bella, più forte, più viva, ma non ne trovò altre e dovette ripetere:—Magari!… Magari!…
—Allora prendete voi la direzione dell'Emporio Letterario. E poi, chissà…. mi siete simpatico: un giorno sarò forse disposto a cedervi anche la proprietà del giornale. Come stanno le zie? Vi siete lasciati in pace?
A questa domanda inaspettata tutta l'animazione e la gioia di Pierino svanirono d'un tratto; e a voce più sommessa, con qualche reticenza, raccontò al Direttore in che modo era partito da Crodarossa e come aveva lasciato le zie.
—Ho detto che andavo a Trento e da Trento ho scritto che venivo a Milano. Riceveranno soltanto stasera la mia lettera. Ma ad ogni modo, adesso sono qui e non mi muovo, per tutto l'oro del mondo.
Matteo Cantasirena dopo averlo ascoltato crollando il capo, gli parlò da padre.
—Scrivete subito subito, anche da Milano, a quelle brave signore. E ricordatevi: sopratutto bisogna essere sempre in pace e d'accordo colle zie! Oh i vecchi—sospirò—sono la benedizione dei giovani! E seguitò a parlare degli ideali, della poesia, della famiglia, degli affetti domestici, i soli veri, i soli legittimi e duraturi…. Pierino intanto abbassava il capo, perchè il Direttore non gli vedesse gli occhi pieni di lacrime.
Ma allora, per scuotere la malinconia, Cantasirena cambiò tono di voce, e tornò a parlar d'affari.
L'Emporio Letterario aveva avuto un'espansione incredibile, inaspettata. Gli aveva presa la mano, assorbiva troppo della sua attività; e d'altra parte, c'era il giornale politico: la responsabilità sua verso il partito—e indirettamente verso il Governo—che esigeva e voleva tutte le sue cure.
—Io sono solo al Rinnovatore: devo rivedere tutto io; non posso fidarmi di nessuno. Buona gente, bravi ragazzi; ma senza iniziativa, senza colpo d'occhio—e aggiunse ridendo argutamente, in un modo che poteva parere un complimento per l'egregio Laner—e senza grammatica!… E poi non ho tempo da perdere: ho da pensare alla dote delle mie figliuole. Vedrete la prima, Eleonora (e cantò quasi le sillabe: E-le-oo-nò-ra!). Vedrete che splendore!…
Giunti sulla porta del giornale, il Direttore si fermò ancora a parlare, a parlare; poi diede all'amico Pietro l'indirizzo di casa sua avvertendolo che si metteva in tavola alle sette "preciso" e che per quel giorno venisse pure senza l'abito nero, perchè le sue figliuole erano state avvertite, e non si trattava che di un piccolo pranzo di famiglia: come a Crodarossa, ma senza don Giuseppe!—Poi, nel congedarsi sulla porta, coll'ultimo saluto della mano, gli ripetè ancora, colla malizietta bonaria del critico verso un autore che gli è simpatico:—E sopratutto…. guardiamoci dal simbolismo!
…. E dopo?… Dal suo arrivo a Milano? Dalla sua visita al
Direttore?… Da quel pranzettino così squisito e così intimamente
cordiale?… Con Eleonora che gli aveva cantato la Carmen e con
Evelina che gli aveva recitato l'invito, L'incanto, L'inganno?…
Dopo, dopo come gli era successo di fare il capitombolo?
Pietro Laner, riandando confusamente, come in sogno, tutto il suo passato, era arrivato al numero 27 di piazza Cavour, la casa della Schönfeld. Egli, certo, non avrebbe saputo rispondere a tutte queste domande. In quel momento non vedeva più che Nora, la sua Nori! Si era placata anche la fame. Le zie in collera, la faccia padrona, il Direttore che a furia di parole, di parole gli aveva fatte sparire le ventimila lire per far risorgere l'Emporio colle grandi illustrazioni del Figaro, per tirare innanzi il Rinnovatore fino alle elezioni politiche del novembre, nelle quali avrebbe preso un nuovo, uno straordinario impulso da Roma, tutto svaniva, lontano lontano, come i lampi d'un temporale che si dilegua.
Non vedeva più che Nora, la sua Nori; Nora che lo amava e che lo avrebbe salvato.
—La signora Schönfeld, dove sta?—domandò Pietro Laner alla portinaia del numero 27.
—Scala grande, terzo piano, l'uscio a sinistra.
Il giovanotto salì lentamente, cacciando fuori il capo, per guardare nel vano il giro ampio della ringhiera e ripetendo fra sè: terzo piano, scala grande, l'uscio a sinistra. Quando fu su, l'uscio lo trovò subito. C'era nel mezzo, in alto, un biglietto di visita:—Edita Schönfeld—e sul nome una corona di contessa. Pietro Laner vide subito anche il bottone lucente del campanello, ma non lo toccò. Prima si spolverò le scarpe col fazzoletto, si abbottonò il paltò, si aggiustò la cravatta, tirò fuori i guanti, si levò gli occhiali per ripulirli, poi tornò a rimirare il bottone del campanello…. ma invece di toccarlo, sospirò.
—Se l'andare lui dalla Schönfeld a cercar di Nora, non fosse stato assolutamente "come si deve?" Se poi Nora si fosse arrabbiata?—E rimaneva irresoluto dinanzi all'uscio, quando l'uscio, a un tratto, si spalancò: era la cameriera, una bella ragazza, che aveva aperto ad un garzone di caffettiere, il quale passò via portando sulle spalle un gran cesto vuoto.
—Cerca della signora Schönfeld?—domandò la bella ragazza a Pietro
Laner.
—Vorrei sapere…. avrei da dire una parola, per parte di suo zio, alla signorina Nora. È venuta oggi? è qui la signorina Nora?
—Sissignore; cioè credo: adesso andrò a vedere.—E la cameriera aprì l'uscio del salotto, ch'era in faccia a quello dell'anticamera, e lo richiuse in fretta, appena entrata.
Fu un attimo, ma in quell'attimo Pietro aveva veduto come in un'apparizione, la Schönfeld e la Nora che sedevano sdraiate, quasi abbracciate sul canapè. Aveva veduto il salotto pieno di fiori, i tavolini pieni di dolci, di bottiglie: aveva veduto due signori che scherzavano galantemente, e in quell'attimo aveva pur sentita anche la voce di quello dei due più vicino a Nora, e che le offriva un bicchierino di rosolio: una vocetta alta e tremula…:—Non mi dica di no, signorina Eleonora!… Non mi dica di no!…—poi l'uscio si era richiuso: tutto era sparito.
Ci fu subito nel salottino un gran silenzio, che durò qualche minuto. Di là, certo, confabulavano a voce bassa. Poi tornò la cameriera, ma da un'altra parte. La bella ragazza non aveva più la faccia sorridente: era sossopra, aveva il broncio; dovevano averla strapazzata.
—Venga di qua,—disse sgarbatamente al giovanotto facendolo entrare in una camera piena di vestiti, di sottane sulle seggiole, sul divano; e in mezzo, sotto il baldacchino, un gran lettone di mogano, colla coperta di lana azzurra, damascata.
—Viene subito!—e la cameriera, piantò il giovanotto e se ne andò sbattendo le portine coi vetri a smeriglio.
—Per Dio!—mormorò Pietro Laner, sbuffando, battendo i piedi furioso.—A noi due! Adesso a noi due, signorina Eleonora!
Nora non si fece aspettare: piombò in camera rossa, furente.
—Cosa c'è? Cosa vuoi? Cos'è successo?—domandò colla voce bassa, rotta dalla collera.
Pietro Laner le afferrò un braccio e se la tirò vicino, addosso, per fissarla bene in faccia.
—Chi sono quei due? Chi sono quei due? Chi sono quei due?
La gelosia, la collera, la passione, il dolore, rendevano terribile quel povero diavolo, solitamente così innocuo, così timido.
La fanciulla, di primo colpo, ne rimase un po' impressionata; ma poi riprese subito tutta la sua franchezza, tutta la sua audacia.
—Sono amici di Edita; e non seccarmi; e non venire in casa degli altri a far scene, che non voglio rendermi ridicola! Non sei in montagna qui, non sei in mezzo ai bifolchi, in mezzo a' tuoi villani!… Sei a Milano, fra persone come si deve!—Poi, liberatosi il braccio ch'era diventato bianco, violetto ai polsi, fra le mani del Laner, gli disse di andar via subito: di andarla ad aspettare ai Giardini dinanzi al Museo.
La collera dell'amata, indizio sicuro della sua innocenza, quell'appuntamento ai Giardini che provava l'amore e l'arrendevolezza di Nora, calmarono subito il giovane. E col tono sommesso di chi vuol scusarsi, le raccontò che c'era stata una gran lite fra lui e il Direttore e che si erano guastati per sempre.
—Ero venuto anche per questo; per dirti che in casa tua non ci metto più i piedi.
—Lo zio è di primo impeto,—rispose la ragazza un'alzata di spalle;—ma poi gli passa presto.
—Ma non passa a me, se non mi paga! Se non mi rende quello che mi deve!… Non è per me che voglio la roba mia, quanto per te!… E poi le zie non ti conoscono. Non possono sapere che tu sei…. tutt'altra cosa.
Come faccio a dir loro "non ho più le ventimila lire e ho preso moglie?" Preso moglie?… E chi hai preso?—La nipote di quella canaglia che mi ha truffato!
Gli occhi di Nora si fecero torvi. In mezzo alla fronte rosea da bambina, alla fronte tersa e lucente, si scavò una piccola ruga sinistra, bianca, sottile come una cicatrice.
Pietro capì subito: si era lasciato trasportare e l'aveva offesa. La ragazza, lei, poteva dire tutto il male possibile dello zio Matteo; ma gli altri, Pietro Laner, no. Questi, come per scusarsi, raccontò allora, ma più pacato, contenendosi, anche la scena di quella mattina.—Di volo: zaff!—e le ultime dieci lire erano sparite. Non aveva più niente; non aveva…. ancora fatto colazione.
—Va bene, va bene;—rispose Nora sempre seccata, sempre imbronciata.—Aspettami ai Giardini, vicino al Museo. Omai bisogna spiegarsi.—E borbottò ancora nell'andarsene stizzosamente:—Tant'è, oggi o domani, bisogna spiegarsi!
—Spiegarsi?—pensava Pietro, girando attorno al gran fontanone asciutto dinanzi al Museo, e voltandosi ogni tratto sperando di veder la Nora entrare dai cancelli che apparivano tra i rami degli abeti, in fondo al prato verdissimo.
—Avrà voluto dire: bisogna spiegarsi collo zio Matteo.—Ma Pietro non era tranquillo. Si sentiva fiacco. Si sentiva addosso una irritabilità dolorosa. Anche quel sole pallido, bigio, tristo era snervante.
—Ma chi erano quei due? Amici di Edita! Oh, quella Schönfeld!… come l'avrebbe mandata al diavolo!
Tornò a voltarsi: essa non veniva ancora. I lunghi rami degli abeti e delle magnolie e il prato verde formavano come un quadretto attorno ai cancelli di ferro; ma il quadretto era vuoto: Nora non si vedeva.
Era stanco, sfinito, eppure avrebbe adoperata la poca forza che gli rimaneva per strozzar qualcuno. Come erano uggiosi quei giardini! Tutto vi era falso, artificiale; quella fontana senz'acqua, quei fiori troppo rossi, quegli alberi e quei prati troppo verdi; persino quei bambini infagottati, che parevano pupattole!—Si voltò ancora….
—Ah, finalmente!…
In mezzo al quadretto dai rami frondosi, in fondo al prato verdissimo, c'era la bella figuretta blù, colla cravatta lilla e il berrettino di lontra.—Era lei!—Tutto il giardino sembrò ravvivarsi.
Pietro andò ad aspettarla nel piccolo viale dopo il Museo, ma quando
Nora lo raggiunse, sempre diritta, col suo passo ritmico e sicuro,
Pietro non si ricordò di levarsi il cappello, sconvenienza che dava
tanto ai nervi a Nora.
I due giovani camminarono l'uno a fianco dell'altra, silenziosamente. Il Laner voleva mostrarsi offeso, e Nora pensava come doveva incominciare.
—Chi erano quei due?—domandò Pietro pel primo, colla voce cupa e affondando il muso nel bavero alzato del paltò.
—Amici di Edita.
—Va bene; ma chi sono?
—Uno, il banchiere Kloss; l'altro…. il duca di Casalbara.
Al Laner, subito, montò il sangue alla testa. Il Casalbara, quel decrepito damerino, gli era indifferente, ma il Kloss?… Il Kloss era un vizioso, un dissoluto! Un vecchiaccio sudicio, osceno! Era una vergogna, un'onta per una ragazza, soltanto l'averlo vicino. E smaniava geloso, furibondo, perchè il Kloss, certamente doveva aver messo gli occhi addosso a Nora. Perchè certo era per lei, per Nora, che andava dalla Schönfeld!
Il Kloss! E non aveva avuto tempo, in quell'attimo, di riconoscerlo nel salotto!… Meglio così. Se l'avesse visto con Nora…. Il Kloss vicino a Nora!… Per Dio! Avrebbe commesso uno sproposito!
Nora, impassibile, camminava sempre diritta, affondando le mani nelle tasche della giacchettina aperta, colla sua aria di sicurezza e di sfida. Soltanto, con indifferente naturalezza, guardava di qua e di là, per vedere se la gente, quei pochi che passeggiavano e quegli altri seduti sulle panchine, notavano, osservavano le smanie di quel pazzo.
Pietro si sforzava di parlare a bassa voce: ma tutti dovevano indovinare quel furore, dalla faccia stravolta, dal gestire concitato.
—Almeno…. faccia il piacere…. si ricordi…. siamo in mezzo alla gente!—E Nora, con la voce armoniosa dal timbro infantile, non gli disse altro. Il giovane la guardò, colpito da tanta freddezza, e le disse con più calma, col tono risoluto di chi s'impone e ha diritto d'imporsi:
—Ti proibisco, intendi bene, ti proibisco d'ora in poi, di mettere i piedi in casa della Schönfeld. E se io vengo a sapere che il Kloss si è trovato ancora con te o che ti ha ancora parlato,—anche una volta sola,—quel giorno, ricordatelo bene, tu vai per la tua strada, ed io per la mia.
—Pur troppo,—rispose la fanciulla con un sospiro ostentato,—pur troppo!… È quello che bisogna fare.
La sua voce non ebbe un tremito, il suo volto rimase fresco e roseo.
—Come? Spiégati!… "Quello che bisogna fare?…" Perchè subito ti arrabbi con me?…Sei in collera?—domandò il giovanotto andandole così vicino, per vederla negli occhi, da sfiorarle, da toccarle il braccio col suo braccio. E poi soggiunse con passione:—Parlo così per tuo bene: perchè ti voglio bene e quel Kloss è capace di tutto!
Nora non rispose: continuò a camminare, sempre diritta, dimenandosi elegantemente colla bella persona.
—Nora!… Nora!…—esclamò il povero ragazzo, con un'espressione appassionata, disperata, in cui c'era tutta l'anima sua, tutta la vita sua.
L'altra si fermò di colpo. Poi cominciò a parlare concitata, agitatissima. Che quelli che passavano, o stavano seduti sulle panchine, la guardassero pure: non le importava più niente. Le importava di spiegarsi, di dir tutto, di finirla una buona volta!
—Guarda come son conciata!—e sollevando un po' la veste, mostrò la scarpettina elegante, aggiustata con una pezzetta sul fianco.—Ho le scarpe rotte: e queste sono le migliori. Guarda,—e gli mostrò gli occhielli logori e la fodera rappezzata della giacchetta,—e non ne ho un'altra. E nella mia camera manco di tutto; e anch'io stamattina non ho fatto colazione: un po' di caffè col latte. E tutti i giorni il tormento dei debiti; la paura di qualche scenata. E credi che io voglia adattarmi a far sempre questa vita impossibile, da cani?… Ah no! Piuttosto vado in America a cantar nei caffè!
—Certo,—esclamò il Laner, trionfante. Non gli aveva fatto impressione la tirata dell'America: era una delle solite frasi, tanto per dire. Ma era contento della collera di Nora, del suo sdegno che credeva tutto rivolto ormai contro lo zio Matteo, e la vita "da cani" che lo zio Matteo le faceva condurre.
—Certo! Hai ragione! Mille ragioni: bisogna finirla!
La ragazza capì subito lo sbaglio.
Come?… Crederesti che io voglia finire da una parte, per ricominciarla dall'altra?… Piantare lo zio Matteo, aver dei dispiaceri, sembrare un'ingrata, perchè? Per andare con un altro a fare la stessa vita? Anzi peggio, perchè potrebbe capitare anche la miseria dei bambini da allevare, da curare, da mantenere, per crepar d'inedia tutti insieme!—No, caro mio, no!—Io sono una ragazza onesta e preferisco dirtelo prima; finchè c'è tempo, per tutti e due. Io non mi sento nata per i sacrifici, per gli eroismi, per stentare la vita tutti i giorni; ma almeno, sono sincera, e ho il coraggio di dirlo prima, francamente. Ti sembrerò cattiva, senza cuore, leggera, quello che vuoi. Ma preferisco dirlo oggi, finchè tutti e due siamo liberi e possiamo rimanere buoni amici, piuttosto che commettere, dopo, uno sproposito, fare un colpo di testa, piantarci allora, un bel giorno, quando fossi tua moglie, e non ci potessi più resistere.
—Dio! Dio! Dio! Ma era vero?—Pietro Laner la guardò.
Nora, accesa, rossa in viso, aveva le narici e le labbra frementi, il petto ansante e in mezzo alla fronte la piccola ruga sinistra, bianca e sottile come una cicatrice.
—Dio! Dio! Dio! Ma era vero? Era Nora, la Nori che parlava così? Tutto era finito? E nel suo cuore, nella sua mente, quella parola "finito! finito!" pareva ripetersi, diffondersi; pareva prorompere, ripercuotersi nel vuoto:—Finito! Finito! Tutto era finito!… Dio! Dio! Dio!—Non aveva più forza, non aveva più voce. Soltanto quella parola, e l'idea tetra, accasciante, spaventosa.—Finito! Tutto era finito!…—Una solitudine immensa, desolata. Più ancora del dolore, della disperazione, era un senso cupo, profondo di sgomento. Morire! Morire! Oh la consolazione di poter morire, di sprofondarsi lì, sotto terra; di non vedere, non sentire, non soffrire più niente!
Il povero ragazzo, curvo, colla faccia dentro il bavero alzato del paltò, tremava tutto convulsamente; quando voleva parlare le parole rimanevano rotte dal batter dei denti. La guardò ancora, ancora…. colla vista oscurata dagli occhiali pieni di lacrime.
—Ma pure era lei…. Era Nora…. Nori, che camminava diritta, colla persona alta, bella, che pareva come illuminata dallo splendore dei capelli biondi. Era Nora, col passo ritmico e sicuro, risonante nell'ombra quieta del viale, sotto i tigli, Nora, Nori che camminava diritta, sempre diritta per la sua via, come il destino.
Pietro Laner, così misero, così infelice, si sentì vicino, accanto a Nora, ancor più oscuro, più umile; e timidamente, ma con tutto il fervore di quella grande angoscia, la pregò, la supplicò. Era la sua divinità che pregava; era la sua Madonna sfolgorante; e le domandava la grazia della vita.
—Ritorna buona!… Ritorna buona!… Ritorna la Nori, la mia Nori—e aggiunse per smuovere la sua ragione, dopo aver tentato di toccarle il cuore.—Lavorerò giorno e notte. E poi devo avere le ventimila lire.
—Ci vuol altro che le ventimila lire!—rispose Nora sorridendo sdegnosa, con un'alzata di spalle.—Lavorare?… Tu poi, che non hai il talento del mestiere, le risorse che può avere lo zio Matteo. Ci vuol altro!
A questo punto fu tutta una sollevazione, una ribellione nell'animo di
Pietro. Egli sentì l'offesa ancora più forte del dolore.
—Ah no! Questo no! Non ho il talento di essere una canaglia come tuo zio! Di essere un truffatore, un ladro, come tuo zio! E nemmeno di essere "onesto" a modo tuo. Di quella onestà che tu vanti. Di quella onestà che è una vergogna, una menzogna, un'infamia. Ah, l'ho capito il tuo giuoco "onesto!" ho tutto indovinato.—Innamorato sì, lo sono stato, ma imbecille no; imbecille mai!… Il tuo gioco e la tua onestà, è visibile, è chiara, è sconcia! Ti eri messa d'accordo con tuo zio per ingannarmi, e poi adesso mi pianti per i milioni del Kloss! Eccola la verità! Ecco la tua onestà!… Per essere falsa, come tu sei stata falsa con me, per trattar così bassamente dopo avermi tanto ingannato, devi essere diventata, o stai per diventare, l'amante del Kloss! Sì! L'amante del….
—Signor Laner!—intimò Nora con voce sommessa, ma così vibrata, da fermarlo sull'attimo.—Signor Laner!—Era livida, contraffatta: lo fissò cogli occhi torvi, saettanti la collera, il disprezzo, l'odio: lo vide diventar pallido, esitare…. Lo fissò ancora, poi con un'alzata di spalle, con un ultimo atto di disprezzo,—buon giorno!—borbottò seccamente, beffardamente e se ne andò piantandolo solo.
Pietro rimase immobile, muto. Lungo il viale di tigli sentì dileguarsi il fruscìo delle vesti, il rumor dei passi ritmici, sicuri. Si guardò attorno come per cercarla…. Era solo. Non si mosse, non fece un passo: rimase così, immobile e muto, senza una parola, senza una lacrima.
Matteo Cantasirena declamava, lamentando le lunghe assenze di Nora.
—Oh, si figuri!—esclamava la Gioconda.—Comincia troppo presto a predicare! Non sono ancora le due; fino alle cinque, verso l'ora di pranzo, la signorina Nora non si lascia più vedere!
Ma il Cantasirena continuava lo stesso. Costretto a restare in casa perchè gli era morto il Rinnovatore, e per paura dei "tirolesi", si sfogava a predicare l'ordine, la morale e gli ideali. Colla veste da camera color marrone, strascinando i lunghi cordoni rossi, passava dal salotto alla cucina, e dalla cucina allo studio, sempre colla voce in aria, declamando. Con Evelina, che continuava a scrivere il suo Dizionario, si sfogava contro l'ingratitudine dei "patriotti viventi" e ripeteva, forse per la ventesima volta: "Quell'asino del marchese Duranti, in sospeso!… Ha sempre amoreggiato coll'Austria!…—Ma procura di mettere un po' d'ordine su questa tavola. I piatti colle bozze di stampa, il gatto colle mie note!" "Ft!… Marche!…" e Numa spariva sotto il canapè, dopo aver ricevuto una staffilata forte, sulla groppa, colla nappa e il cordone della veste da camera.
In cucina, il Direttore guardava nelle pentole, nelle casseruole; e con un braccio attorno alla vita della Gioconda, e stringendo colla sua affettuosità paterna il bel servone contro il petto, assaggiavano insieme, sulla stessa forchetta, un pezzetto di stufato, o sorbivano il consommé un po' per uno, nel mestolino. E negli intervalli egli continuava a predicare contro "E-le-oo-nò-ra".
—Questo andare in giro tutto il santissimo giorno, senza che io sappia dov'è, dove va, cosa fa, non è bello, non è decoroso, non è morale! La gente fa presto a sparlare, e l'onore di una ragazza è subito compromesso. Se quel tanghero del signor Laner non sa imporsi, non sa mettere un po' d'ordine, ci penserò io. Vita nuova!
E diceva alla Gioconda che Eleonora non lo faceva presagir bene, perchè mancava di idealità.—Senza ideale,—e intanto continuava a stringere la serva,—l'arte diventa una fotografia, la famiglia, un albergo.
Poi, frugacchiando nello studio, gli tornava a ronzare nel cervello quella certa idea che sarebbe stata davvero colossale.—La Navigazione Cisalpina!—Perchè no?… Perchè no? Trovare un bel nome, che faccia effetto, da mettere alla testa del Comitato. Trovare un argomento, una ragione forte, incalzante per aver l'appoggio e anche i denari dal governo….—una grande campagna elettorale per esempio, fatta nel nome della "Navigazione Cisalpina" e con tutto l'esercito degli interessati….
Ma il Comitato, il bel nome, il governo, la "Navigazione" gli facevano risovvenire del più importante: delle cinquecento lire che gli doveva mandare il Brunetti; e allora andava sull'uscio dello studio e si metteva a gridare:
—Ma Taddeum! Quella tartaruga di Taddeum è tornato sì o no?
Era la seconda volta che lo aveva mandato dal signor Brunetti. La prima, con una lettera in cui gli diceva che gli mandasse, intanto, anche solo quattrocento lire; poi un bigliettino:—Che si mettesse in quattro, che si facesse in pezzi, ma almeno trecento, gli occorrevano sul momento."
La Gioconda rispondeva che Taddeo non si era visto: il Direttore pestava i piedi, sbatteva gli usci, e tornava a domandare di Eleonora e tornava a predicare sulla condotta impossibile di quella ragazza senza testa e senza cuore. E sempre ripeteva con forza: "senza cuore per nessuno!"
Finì col sedersi vicino a Evelina, dopo aver cacciato Numa fuori del salotto, buttandogli dietro un vecchio ombrellino rotto.—Ft! Marche!… Quella bestiaccia infingarda e golosa non la poteva soffrire!
—Il marchese Duranti lo farò io!… E comincerò da suo padre, che ha firmato il famoso manifesto a Francesco Giuseppe!—Poi, siccome aveva volontà di sottoporre Evelina ad uno de' suoi soliti interrogatorii, di quando non aveva altro da fare, prese via la penna dalle dita umide della ragazza e abbassò il coperchio a molla del calamaio.
—Lascia un po' stare tutta quella gente! Una massa d'ingrati! Non val la pena di metterli in luce. Piuttosto bisognerà dire alla signora Eleonora, che invece di star fuori tutto il giorno, aiuti a mettere un po' d'ordine in questo salotto: faccia qualche cosa anche lei, che lavoriamo tutti!—Poi le domandò piano, rabbonito:
—Credi che Eleonora si trovi col Laner?
Evelina si tolse il pince-nez per riposare gli occhi, e fissò lo zio
Matteo, sorridendo.
—Trovarsi col Laner?—Il Laner è in gran ribasso.
—Oh!… Questo mi fa piacere!—Cantasirena si tirò colla seggiola ancor più dappresso ad Evelina.—Ce n'è un altro?
—Forse.
—Chi? Chi?…
La ragazza lanciò un'occhiata verso l'uscio della cucina: la Gioconda poteva sentire.
Matteo si alzò maestosamente, e allacciandosi i cordoni della vestaglia, col bel fiocco in mezzo al pancione, andò fin sull'uscio della cucina.
—Gioconda! Non è tornato Taddeum?
—Nossignore.
—Quel Brunetti è un inconcludente. Un vero pasticcione. "Senza fallo! Senza fallo!" e manca sempre ai propri impegni. Gente screditata! Non trovano la miseria di cinquecento lire!
Finito di brontolare, chiuse l'uscio della cucina, chiuse pure quello del salotto, e tornò a sedersi accanto all'Evelina, battendole colla mano sulle ginocchia puntute e sottili come quelle di un ragazzetto.
—Chi è? Chi è?…
—Ce ne son due.
—Due?
—Ma non so qual è dei due quello che faccia davvero, o che sia il preferito.
—E…. chi sono? Chi sono?
—Il duca di Casalbara e il banchiere Kloss.
I due nomi fecero una grande impressione: lo zio Matteo li ripetè quasi macchinalmente, scandendo le sillabe.
—Il duca, il senatore Giovanni di Casalbara? Il banchiere, il commendatore Francesco Kloss?…—Si alzò, accarezzò, prendendole fra le sue mani, le guance in sudore di Evelina, e la baciò sui capelli fini e radi, con tutto un mugolìo di tenerezza.
—Fanciulla mia cara! Raccontami tutto; tutto quanto, tutto quello che sai!
Evelina non aveva molto da raccontare, perchè poco ne sapeva, e anche a quel poco, era arrivata per induzione. La Nora era sospettosa, e stava in guardia. Temeva forse che le volesse fare la spia con Pietro Laner!
Matteo Cantasirena la interruppe:—Dunque? Dunque? Cos'hai potuto sapere?
Evelina raccontò che le erano venuti i primi sospetti, per il gran cambiamento di Nora verso Pietro Laner: le era diventato uggioso, antipatico….
—Ha ragione. Mi sono ingannato anch'io sul conto di quello spiantato!
—Sono stata attenta, e ho notato i due che passavano, ripassavano…. e quell'altra, che correva alla finestra e poi si vestiva in fretta, scappava giù, in istrada…. e i due dietro, a braccetto.
—A braccetto?… Insieme?
—Insieme.
—Lettere?… Hai visto lettere?
—No.
—Ma si trovano? Si parlano?
—Credo…. dalla Schönfeld.
—Dalla Schönfeld?… Siamo a cavallo.
Certo, Matteo Cantasirena aveva subito pensato che quei due non avevano messi gli occhi addosso alla "sua figliuola" con le più sante intenzioni, ma non dubitava punto, ad onta delle precedenti invettive, della testolina quadra, e dello spirito accorto di Nora. E intanto c'era questo di guadagnato: il matrimonio con quel pezzente, taccagno, del Laner andava in fumo.
Per guidare, e al caso far nascere gli eventi, c'era lui, lo zio Matteo, che sarebbe stato ad occhi aperti. "Era una vera passione, irresistibile?" E allora colle figliuole, col sangue di Matteo Cantasirena non si scherza!—Era una semplice flirtation?—Il Dizionario dei "Patriotti viventi" sarebbe stato messo a disposizione del Casalbara e del Kloss… tedesco questi, ma non monta: patriotta della finanza, della fratellanza fra i due popoli e poi, come banchiere, patriotta…. internazionale!
—Ma che!—esclamò ad un tratto il Direttore, alzandosi e parlando forte, benchè parlasse soltanto a sè stesso.—Ecco il nome, il bel nome che può produrre un effetto magico!
In quel punto tornò Taddeo colla risposta del Brunetti. "Fino alle cinque era impossibile, e anche alle cinque non era sicuro."
Il Direttore corse nello studio e scrisse in fretta un terzo bigliettino.
"Finalmente, impegnando la vostra parola d'onore per il più scrupoloso silenzio, posso mettervi a parte del segreto. Vi piacerebbe il nome del senatore Giovanni di Casalbara? Oppure quello del commendatore, del banchiere Francesco Kloss?—Non dite una parola. Pensate che la più piccola imprudenza, può mandar tutto a monte. Vostro
"P.S. Consegnate, sul momento, almeno duecento cinquanta lire. Non dovevate promettere "senza fallo." In tal caso io avrei già provveduto diversamente. Ora è troppo tardi. Col Casalbara e col Kloss devo trovarmi oggi stesso alle quattro e mezzo. Salute."
—A gran carriera, dal signor Brunetti!—disse a Taddeo consegnandogli la lettera:—prendi un brum: ti darò da pagarlo al ritorno.
"Il duca Giovanni di Casalbara, senatore del regno!" E già, Cantasirena, vedeva quel nome, quei titoli in alto, sul grande manifesto del Comitato; e già mentalmente, cominciava l'articolo: "Il duca Giovanni di Casalbara, uno dei nomi più fulgidi e intemerati di quel patriottico patriziato lombardo che alleato col popolo ha iniziato le rivoluzioni, ha fatto l'Italia!" E al Governo e al Prefetto avrebbe potuto far notare che la villa di Casalbara era a cavallo tra Primarole e Castellanzo, i due collegi del Bonforti rompiscatole radicale, e del Ghirlanda, rompiscatole socialista….
—E se invece era Francesco Kloss?… Bel nome anche quello del Kloss!—Il commendatore Francesco Kloss…. "Una delle personalità più spiccate, più reputate di quella onnipotente finanza tedesca, che contribuì quanto la politica di Bismark alla solidità granitica dell'Europa Centrale…."
Ma il Kloss gli accomodava molto meno del duca di Casalbara, anzi, ripensandoci, non gli accomodava affatto.
Il Kloss era un tedesco: una zucca dura e una volpe fina. Era un uomo capace di spendere centomila lire per cavarsi un capriccio…. che però ne valesse almeno duecentomila. Invece, il duca di Casalbara, era di tutt'altra pasta; era pasta assai più maneggevole. Vecchio, della vecchia razza, avrebbe sposato anche la figlia del portinaio, quando si fosse trattato di compiere un dovere.
Quel Kloss! Quel filone di Kloss, gli veniva a rompere le tasche.
Cosa voleva fare? Cosa ci entrava lui? Maledetti i tedeschi!
L'invasione tedesca era più terribile adesso che prima del 59!
—Li abbiamo cacciati dalla porta con tanti sacrifici e ci sono entrati dalla finestra, sempre per fare i loro interessi in casa nostra!—Maledetti i tedeschi!
Intanto udì un fruscìo e il battere dei piedini nell'anticamera. Spiò dall'uscio: era Nora.
Aspettò un momento, tornò ad allacciarsi i cordoni della veste, e poi entrò nella saletta, tranquillamente.
Evelina era andata alla finestra per prendere un po' d'aria e per vedere se "quell'altra" era tornata sola. Nora veniva allora direttamente dai Giardini, dopo la scena con Pietro Laner: era ancora sossopra, imbronciata, nervosa. Non voleva parlar con nessuno. Si cacciò, rannicchiandosi, in un cantuccio del canapè.
Era il rimorso? Era un sentimento di compassione, di pietà?… Passato il primo impeto dell'ira aveva sempre dinanzi agli occhi quella faccia livida, contraffatta, straziata dal dolore. Che cosa avrebbe fatto?… Piantato da lei? Senza più un soldo? Spogliato di tutto?… Oh, lo zio Matteo aveva agito molto male con Pietro Laner!
—Sei stata dalla Schönfeld?—le domandò dopo un momento Cantasirena.
—Sì.—E la fanciulla seccata, imbronciata, non volendo più parlar con nessuno, si ritirò, si rannicchiò ancora di più nel suo cantuccio.
—Hai visto Pietro Laner?
Nora rispose con un'alzata di spalle, e perchè capissero di lasciarla in pace, prese dispettosamente un libro ch'era lì vicino e finse di leggere.
—Hai visto Pietro Laner?—tornò a domandare lo zio Matteo.
—No….—Sì.
—No, sì,—esclamò Cantasirena ridendo.—Ce n'è per tutti i gusti!
Evelina se ne andò passo passo: voleva lasciar solo lo zio con "quell'altra".
Mentre Evelina usciva, entrava Numa chetamente. Vedendo Cantasirena il gatto si fermò, non si arrischiò di venire avanti. Rimase sotto la seggiola attento, cogli occhi fissi che luccicavano.
—Io ti dirò una cosa sola,—disse Matteo Cantasirena, mettendo in ordine lentamente le carte, i libri sparsi sulla tavola.—Nelle cose serie della vita ricordati che hai uno zio, che diventa un padre….. un padre amoroso. Quando hai bisogno di aiuto, di difesa, di consiglio, eccomi qui, pronto, a braccia aperte. Tra i miei molti errori,—e sospirò—ho avuto in abbondanza tutti quelli del cuore: è per questo che non ho fatto fortuna; nel qual caso, sarei forse amato di più. Ricordati: quando si ha una famiglia non si è mai soli nel mondo. L'ideale della famiglia, dopo quello della patria, è il più alto, il più puro. E quando non c'è ideale…. non c'è idealità. È inutile dedicarsi all'arte, nemmeno all'arte gentile, appassionata del canto!
Matteo continuò a sospirare e a metter ordine nella roba del salotto. Numa si era arrischiato di venir fuori, dall'ombra. Accosciato, diritto, in mezzo alla stanza, guardava il padrone e aspettava sempre il momento di fare un salto, movendo, strisciando la coda per terra, come una biscia.
A un tratto si fermò un brum, sotto la finestra.
—Taddeo! Taddeum che ritorna!
Se quell'imbroglione del Brunetti gli aveva mancato ancora di parola, era la volta che si disgustava davvero!…
Tutti erano un po' in ansia: Evelina tornò nel salotto; la Gioconda corse ad aprire.
—E così? Ha risposto?—domandò il Direttore, aspettando Taddeo sull'uscio.
—Sissignore!—Anche il vecchio soldato era allegro: pareva si avanzasse ballando sulla gamba di legno, al suono delle medaglie.
—Qua, vediamo!—Il Direttore gli strappò la busta di mano. C'erano le duecentocinquanta lire.
—Oh, alleluia!—esclamò la Gioconda avvicinandosi colle mani sui fianchi, e aspettando la sua parte.
—Mi darai le venti lire per il dentista!—esclamò subito anche Evelina. Essa, quando c'eran denari, ne domandava sempre, per il dentista, il dottore, la farmacia Zambelletti.
—Uno alla volta! Uno alla volta! Mi raccomando! Il Direttore consegnò subito cinquanta lire alla Gioconda.—Va bene? Va bene così?
La serva, senza rispondere, se ne andò via, contando i biglietti.
—Ecco le lire venti per il dentista.
—E tu?—domandò a Taddeo, vedendolo immobile, che lo guardava e sorrideva.—Ah, per il brum!
—Per il brum…. e se potesse…. sono ancora in arretrato….
—Tutti, figliuolo mio, siamo in arretrato, cominciando dal Governo!
Per oggi ti darò venticinque lire, e paga la carrozza.
—Grazie, colonnello!—esclamò Taddeo, e presi i denari se ne andò in fretta accompagnato dal tuc-tuc della gamba di legno, che batteva sull'impiantito. Anche Evelina, avute le venti lire, era sparita.
Nel salotto erano rimasti soli Matteo Cantasirena e Nora. Questa si alzò lentamente e gli andò vicino, sempre seria, sempre imbronciata.
—Anche tu?… Che cosa ti occorre?—le domandò lo zio sorridendo con affabilità paterna.
Numa, fatto sicuro da quel ritorno di quiete, di pace, saltò sul canapè e andò ad acchiocciolarsi nel cantuccio lasciato caldo da Nora.
—Tu non hai bisogno del dentista!… Per i guanti?… Per qualche nastrino?
—No; per Pietro Laner,—rispose Nora seccamente.—Manda subito un po' di quel danaro al signor Laner. Taddeo lo troverà ai Giardini o a casa sua; se no, vada a cercarlo. Non ha da mangiare.
—Che?… Se stamattina mi ha date dieci lire?
—Non ha da mangiare. Erano le ultime.
—Le ultime? davvero?…—esclamò Matteo colpito sinceramente.—Quando uno confessa di aver dieci lire, vuol dire che ne ha, almeno, cinquanta! Quel Laner è sempre stato un uomo inverosimile, fantastico!
Tornò a chiamare Taddeo e gli diede cinquanta lire in una busta, per
Pietro Laner.
—Sarà ai Giardini o a casa sua. Prendi un brum e gira finchè lo hai trovato.
—Va bene? Va bene così?…—tornò a domandare a Nora, quando furono soli di nuovo. Poi contò i denari che gli eran rimasti.
—Appena cento lire!—Sospirò, soffiò.—Sempre così! Non so mai misurare il cuore secondo le forze!
Il duca Giovanni di Casalbara e il commendator Francesco Kloss erano intimi fra di loro, per via delle comuni intraprese donnesche. Si erano conosciuti in casa di Madame Dupont, una vecchia parigina—forse—tutta riccioletti che tingevano come il carbone, e molto servizievole. Ma soltanto per le persone serie, ragguardevoli. Diceva ridendo, che molte volte avrebbe potuto mettersi a fare anche lei il discorso della Corona. "Signori Senatori: Signori Deputati…."
Il Casalbara e il Kloss si erano conosciuti lì; poi si erano apprezzati, scoprendosi per i due amanti della stessa donnina che costava un occhio al Casalbara e la rinnovazione di qualche cambialetta, quando c'era anche la firma solvibile della sarta o della modista, al banchiere Kloss. Da quel giorno, furono in lega. Sempre insieme, indivisibili, simpatici l'uno all'altro per i loro vizi, deridendosi reciprocamente per quel poco che ciascuno aveva di buono.
Il Kloss disprezzava il Casalbara per il fondo dolce, un po' sentimentale del suo carattere e l'orgoglioso rispetto e la venerazione quasi religiosa per il proprio nome. Il Casalbara compativa il Kloss per le sue idee moderne, per la sua grande, maravigliosa attività, per la sua febbre di lavoro, di guadagno. Erano tutti e due troppo diversi per intendersi: diversi di nascita, di temperamento e di fortuna.
La fortuna del Kloss era stato suo padre, che aveva saputo fallire a tempo e bene, mentre il suo socio si era impiccato fra i cortinaggi della camera da letto. La fortuna del Casalbara era stato il fratello Eriprando, morto a Josephstadt.
Il Casalbara era ancora giovanissimo, quando una notte, suo fratello fu arrestato, condotto a Mantova e di là seppellito nella fortezza austriaca.
I due fratelli erano orfani, e Giovanni rimaneva solo. Fu condotto a Torino da una zia, la marchesa di Castelletto-Rugarole, e a Torino, fra le signore della Corte e del bel mondo, fra emigrati, patriotti, uomini politici e giornalisti, si cominciò quasi a dimenticare il martire che languiva lontano, fra gli stenti e le sevizie del carcere, per compiangere il bel giovinettino biondo e sottile che passeggiava sotto i portici di Po, sempre vestito a lutto, sempre raccolto in una mestizia grave.
E quando giunse la notizia che il duca Eriprando era morto laggiù di patimenti e di crepacuore, si fece una grande dimostrazione sotto le finestre di Giovanni, il quale dovette uscire a ringraziare la folla plaudente. Da quel giorno, il solo, il vero martire fu lui, e dal proprio martirio ebbe, in quel periodo di baldorie nazionali, tutte le soddisfazioni, tutti i vantaggi, anche quello di un forte compenso per i beni del fratello stati incamerati dall'Austria, e la concessione di una lotteria che, affidata a mani esperte, gli fruttò un milioncino netto, senza che lui nemmeno se ne fosse accorto.
Ma se gli altri avevano dimenticato il fratello per lui, Giovanni, però, se ne ricordava sempre. Quella memoria era la sua religione, il suo culto, la grandezza più fulgida della sua razza, che discendeva dalle Crociate. Ed egli sentiva tutta l'alterezza di essere l'ultimo rampollo di quella casa, e tutta la grave responsabilità che gl'incombeva per essere il fratello di suo fratello. Soltanto la sua mente ristretta, i suoi gusti, il suo genere di vita non gli concedevano e non lo mettevano nemmeno in grado di poter compiere nulla di straordinario, di elevato. Ed egli si accontentava di andare a poco a poco in malora, pur di mantenere il lusso, il fasto della sua casa, come l'aureola, il tabernacolo degno di quella tradizione antichissima e di quella gloria recente. Il duca di Casalbara ravvolgeva la propria persona di un riserbo dignitoso che non gli permetteva di portare in pubblico i suoi vizietti: il martire superstite del martire di Josephstadt, non poteva farsi vedere colle clienti di Madame Dupont: le salutava in teatro con un sorrisetto e le mandava innanzi nel gabinettino del restaurant, dove egli entrava poi, grave e serio, per diventare subito, appena chiuso l'uscio, tenerissimo, tutto sorrisetti, languori, moine.
Era perciò che le trattative di quei convegni venivano iniziate e condotte a termine dal Kloss. Finchè c'era da mostrarsi, era sempre il Kloss che andava avanti: quando c'era da pagare andava avanti il Casalbara. Non che al Kloss spiacesse di spendere per taccagneria; soltanto per il suo amor proprio di banchiere ci teneva a far sempre un buon affare, anche quando si trattava di godere e di divertirsi.
Quell'omiciattolo dalle gambette storte, saltellante e sghignazzante, che ficcava gli occhietti vivi addosso a tutte le donne, arricciolandosi beffardamente i baffi duri colle dita pelose, nella magrezza robusta de' suoi sessant'anni, era impetuoso e violento come un frenetico. E mentre il Casalbara finiva coll'innamorarsi sentimentalmente di tutte quelle ragazze e finiva col pagarle care per la compiacenza di credersi corrisposto, l'altro s'imponeva minacciando, le intimoriva, le maltrattava, riusciva a destare dei brividi di ribrezzo dove non c'era più da vincere alcun pudore…. e non pagava.
La sua parola aveva valore, ma soltanto cogli uomini. In affari era inappuntabile: colle donne diventava una canaglia senza scrupoli. Per lui, le donne in generale, che non scontano, non hanno facoltà giuridiche, non erano, al pari dei cavalli e dei cani, altro che animali graziosi e docili allevati per il piacere dell'uomo.
Prometteva per arrivare a' suoi fini e poi, senza scrupoli, sghignazzando, mancava di parola. Ingannava, commetteva bricconate, e se ne gloriava, nel suo linguaggio mezzo meneghino e mezzo teutono. E anche negli affari e alla sua banca, colle belle donnette, "coi pei tonnett" ne faceva di tutti i colori.
Un giorno, un suo impiegato dei più vecchi, un vedovo, solo con una figliuola, per una triste necessità, non sa più render conto d'una certa somma. Il Kloss lo scaccia e lo denunzierà al procuratore del re. La figlia sorprende il disgraziato col revolver in mano. In quella pazzia del dolore, corre dal Kloss: lo supplica, lo scongiura, si butta in ginocchio…. Il Kloss ha una sola parola, tronca, rauca; una promessa che diventa una minaccia:
—Sì, subito, o il padre in galera!—E fu un impeto bestiale, un assassinio, lì sul piccolo canapè dello studio, turandole la bocca, soffocandola colla manaccia sudicia d'inchiostro, perchè l'usciere nel corridoio non dovesse udire i gemiti, i singulti, la voce tremante, spirante, che implorava pietà.
La sera, nella cameretta del terzo piano, la fanciulla pallida, disfatta, seduta al povero desco, non toccava cibo, ma colle labbra riarse e i tremiti della febbre, cercava ancora di confortare, di consolare il babbo.
—Il signor…. Kloss aveva promesso….
In quel punto arriva un signore con due guardie. La denuncia era stata fatta un'ora dopo la promessa del perdono.
Quando il poveruomo uscì dalla porta, fra le guardie, trovò sulle pietre del marciapiede una massa di vesti e di carni in una pozza di sangue: sua figlia si era buttata dalla finestra.
Era stato Francesco Kloss a scoprire la Nora.
Un giorno, sull'imbrunire, egli passava dalla via di Santa Margherita coll'involtino dalla carta rosa, di prosciutto di San Daniele e di mortadella, ch'era stato a prendersi apposta per il pranzetto, quando addocchiò quello "splentore di pionta" che entrava nel negozio di musica del Ricordi.
"Oilà! Mi, stupito, alt!"—e si fermò a guardare attraverso i cristalli delle vetrine.
Nora, infatti, uscì poco dopo, col rotolo di musica sotto il braccio, le mani nella tasca della giacchettina blù, lanciando un'occhiata fredda ma scrutatrice sul Kloss, che—essa se n'era accorta—fingeva di guardare nella mostra per aspettarla.
Nora non lo conosceva, ma quel brutto omino, col vestito nero trasandato, infarinato di forfora, non dinotava certo di essere un gran che: e Nora continuò col passo rapido e sicuro per la sua strada, senza più badargli, nè pensare a lui.
Ma il Kloss era rimasto colpito, come gli accadeva di rado: col suo involtino di prosciutto di San Daniele che ballonzolava, tenuto col mignolo pel nastrino, continuò a seguirla passo passo…. fino a casa.
La sera stessa egli ne parlò a Madame Dupont in grande segretezza, dandole il nome della via, il numero della porta e i connotati:
—"Pussè crante che mì: i spal te matrona: un vitin te popola, capelli pionti e un ginger straortinarî! E…. cito col vecc."
Il Kloss, che non nascondeva i suoi sessant'anni, dava del vecchio al
Casalbara che voleva nascondere i suoi sessantacinque.
—A so temp ghe tirò mi tutt' coss!
Due giorni dopo Madame Dupont gli mandava la risposta in un bigliettino che lo fece starnutire tanto era impregnato di muschio.
"Carissimo Commendatore—(Madame Dupont teneva molto ai titoli)—Non c'è niente da fare." E gli scriveva che c'era il fidanzato, che la ragazza era di buona famiglia, figlia, nipote o parente, nientemeno, del famoso cavalier Cantasirena, e che andava tutte le sere all'opera al Manzoni con una cantante ungherese, certa Edita Schönfeld, che si faceva passare per contessa. E ripeteva, ancora, prima di finire: "niente da fare, onesta a tutta prova."
—Per onesta, poco mal—borbottò il Kloss fra sè,—per fitanzato, poco mal…. ma Cantasirena!… Molto mal!
Tedesco, finanziere, affarista, Francesco Kloss vedeva i giornalisti e il giornalismo come il fumo negli occhi.
Ma Nora gli aveva fatto colpo.
—La g'ha cuel bel farin te me n'inpipp!…
Procurò di conoscere la Schönfeld per avere altre informazioni, e queste furono assai meno scoraggianti. Nora non era sorvegliata: Matteo Cantasirena non se ne curava: non era innamorata del suo fidanzato. Essa era una ragazza positiva e ambiziosa: il suo sogno sarebbe stato di spendere, di sfoggiare, di far la gran signora!
Francesco Kloss, arricciandosi i baffi, pensava che il sogno era bello, ma costava caro.
—El vecc! el vecc!… Mio pon amico Casalbara!—esclamò con un ghignetto.—Il Casalbara, al solito, avrebbe filato il perfetto amore…. avrebbe creduto di essere corrisposto…. e una volta che il Casalbara fosse diventato il cerente responsabile, pensassi mi per aferla in te le man!"
Quella sera all'Eden, mentre il duca batteva graziosamente le punta delle dita inguantate ad una canzonettista dell'Orpheum, il Kloss lo fermò a mezzo del suo entusiasmo, e gli parlò della splentita popola che aveva visto uscire dal negozio Ricordi: ne parlò più tardi a cena, ne parlò il giorno dopo, e quando lo vide un po' riscaldato, lo condusse al Manzoni e gli fece vedere la bella popola nel palchetto della Schönfeld.
—"Maravigliosa",—esclamò il Casalbara, dandosi un colpetto di mano ai ricciolini biondi, alzandosi in piedi per farsi vedere, e fissando Nora col canocchiale.
—Una fera primizia da imperator!
Nora, dopo aver guardato il Kloss (omai sapeva chi era), fermò lo sguardo sul Casalbara, tutto ingommato, tutto attillato, tutto legato nell'abito nero e nel gilet bianco a cuore. L'occhio profondo di Nora si fissò lungamente sul biondo senatore, ed ebbe una carezza così calda, così penetrante che gli fece sentire un dolorino acuto sotto il ginocchio, fasciato di lana.
—Maravigliosa,—ripetè il Casalbara con due o tre altri colpetti della mano ai ricciolini gialli; poi odorò il mazzo di violette che aveva all'occhiello, si grattò leggermente il ginocchio colla punta delle dita e tornò a fissarla coll'occhialetto.
—Vi guarda,—gli disse Kloss.
—Saprà che sono il duca di Casalbara.—E cominciò a filare con Nora e Nora con lui, mentre Francesco Kloss stava attento a tutti e due ripulendosi le unghie nere collo stecchino da denti, che, dopo pranzo, portava sempre con sè, per quell'uso, nel taschino del panciotto.
Finita l'opera, aspettarono la Schönfeld e Nora sotto l'atrio del teatro.
Passandogli vicina, così alta, così bella, così bionda, Nora non guardò il Casalbara, ma arrossì abbassando un po' il capo.
—Una fera primizia da imperator!—ripetè il Kloss, dandogli un altro colpo nel gomito.
Il giorno dopo cominciarono a passare sotto le finestre, il Casalbara ancora più roseo, più biondo, colle scarpettine dal tacco alto che scricchiolavano.
Nora era alla finestra. La sera tornarono al Manzoni: Nora era in teatro, e all'uscita arrossì ancora di più, ma questa volta, prima di abbassare il capo, guardò il duca alla sfuggita.
Il Casalbara era rimasto palpitante, tremolante: il suo cuore tornava a battere forte come i primi anni, a Torino, quando il martire giovinetto, biondo ed esile, passeggiava melanconicamente sotto i portici di Po.
Quella ragazza così fiorente e bianca e rosea nel candor verginale, quella bellissima fanciulla bionda che lo guardava arrossendo, timidamente, e che timidamente arrossendo, pareva innamorarsi, gli recava tra mezzo i brividi occulti della passione, gli incanti più dolci e più soavi…. come un vago risveglio, un rifiorir gentile, come l'aura tepida, olezzante che annunzia il ritorno di una nuova primavera.
Il Casalbara perdeva il giudizio e il riserbo. E quel primo giorno che si trovò colla Nora in casa della Schönfeld, quando sopravvenne Pietro Laner a guastare la festa, egli ebbe un impeto di furietta gelosa; la gelosia astiosa, rabbiosa, tormentosa dei vecchi contro un amante giovane.
—Se non fate presto—brontolò il Kloss, vedendolo imbronciato, coi baffi irti, i ricciolini scomposti, e la pelle diventata grinzosa e livida sotto la pomata,—se non fate presto, quel montanaro dalle spalle quatre ve la porta fia!
—È il mio martirio!… la mia tortura!—esclamò il Casalbara, dolorando e colla voce stridula.—"Ma santo Iddio, come si fa quando per disgrazia è una ragazza onesta!… È la prima volta che…. mi capita!… Proprio quella lì!… Col mio nome…. nella mia condizione…. non posso farla duchessa!…
—"Io le mettessi in ordine una palazzetta magnifica. Io le comperassi una vittoria. Io avessi la più bella donna di tutta Italia!"—E aggiunse con malizia che le giovanette inesperte s'innamorano facilmente dell'eleganza, della dolcezza, dei pei parolett, dei pei regalitt, degli uomini maturi, stagionati, ma bisogna approfittarne finchè sono…. in tell'error.
—Ma…. il padre…. suo zio, quello che è?…
—Poco mal: la patrona è la racazza! Contenta lei, tutti contenti. Io parlassi con lei, diretto, domani, subito.
Il giorno dopo, ritornarono dalla Schönfeld, e, naturalmente, si trovarono con Nora: essa portava le violette regalatele dal Casalbara il giorno innanzi.
Il Kloss cominciò a ridere, a scherzare colla Schönfeld, un donnone rumoroso e traballante, dal petto enorme. La Schönfeld era piena di debiti, e contava un poco sul Kloss e molto sul Casalbara per poterli pagare; contava moltissimo anche sulle raccomandazioni del cavalier Cantasirena, per essere scritturata da un impresario dell'America.
Il Kloss continuò per un pezzo a perseguitare la Schönfeld, a correrle dietro per le stanze, a volerla abbracciare; e intanto Nora e il Casalbara, tutti e due vicini, tutti e due quieti dietro le tende della finestra, continuavano a parlarsi….
—Lanciata la vostra brafa dichiarazion?—gli domandò il Kloss, appena furono soli in via Manzoni.
—Capisco che ci tiene, capisco che è innamorata…. ma santo Iddio, non posso dirle: vi amo, siate la mia amante, e non voglio nemmeno dirle: vi amo, siate mia moglie.
—Oh questo no!—esclamò l'altro vivamente.—Non farete de sti racazzat!—Questo non lo voleva nemmeno il Kloss. Amante del vecchio Casalbara l'avrebbe tenuta nelle mani colle buone o colle cattive, duchessa di Casalbara afrebbe finito a far la stupita con qualche ufficialetto di cafalleria!
E gli fece capire che bisognava agire e parlare nello stesso tempo. Dopo, quando fosse diventata la sua amante, non poteva più pretendere di diventare sua moglie.
Agire e parlare nello stesso tempo!… Il Casalbara era un po' perplesso e inquieto per molte ragioni. E anche per i rimorsi della coscienza. Non dormiva più, faceva cattive digestioni: poi finì col consolarsi pensando che anche Nora doveva ben immaginare che lui non avrebbe potuto mai sposarla, nemmeno per sogno!… Eppure essa portava sempre i suoi fiori…. e gli stringeva le mani in un certo modo…. lo guardava, lo guardava….
Un giorno, con fermezza e con lealtà, in un momento che il Kloss non poteva sentire, dichiarò alla signorina Nora che lui non avrebbe preso mai moglie…. e Nora lo guardò sorridendo, arrossendo dal piacere, e gli fece confermare quella promessa con un giuramento. La signorina aveva dunque capito che non avrebbe potuto essere altro che l'amica…. più cara, del duca di Casalbara, e che questi, non prendendo moglie, non le avrebbe mai dato una rivale.
Bisognava risolversi. La bellezza di Nora era montata anche a lui dal cuore al cervello.
Il Kloss, quantunque testa dura, aveva l'immaginazione fervida per certi intrighi. Fu lui a ideare e a preparare il colpo: la trappola per Nora.
Il Casalbara aveva parlato alle signore di un suo Pleyel famoso: per farlo vedere, per farlo provare, il Casalbara le avrebbe invitate a colazione col Kloss…. ma poi, all'ultimo momento avrebbe mandato un contro invito, a tutti, tranne a Nora. Era stato fissato che le signore, per dar meno nell'occhio, dovevano recarsi sole all'appuntamento…. una alla volta.
Il Kloss capiva che il tranello era ingenuo, ma d'altra parte, era persuaso che anche Nora aveva una voglia matta di lasciarsi prendere nella rete; e il Casalbara…. il Casalbara, ormai, non capiva più niente!
Il colpo riuscì com'era stato ideato.
—L'Edita? Non c'è l'Edita?…—domandò Nora appena entrata nel quartierino particolare del Casalbara, e fermandosi di colpo sull'uscio del salotto, tutta rossa per la corsa, per il timore che l'avessero veduta, per la confusione di trovarsi lì. Pareva esitante, dubbiosa…. pareva volesse scappar via.
—La sua Edita verrà subito, a momenti!…—balbettò il Casalbara anche lui un po' confusetto e colla vocetta tremula. Fece un po' di violenza per tirar Nora fino in mezzo al salotto prendendola per la mano e baciandogliela sul guanto nero, nuovo, inchinandosi colla più squisita galanteria.
Nora, mentre aveva sotto gli occhi i ricciolini biondastri del Casalbara attraversati dalla riga larga, rossiccia, che dal mezzo della fronte scendeva giù giù, fino alla nuca lunga, pelata, si sentì urtare da un odore troppo acuto di essenze e di pomate.
Ritirò la mano istintivamente….
—Ma il servitore?—domandò,—il servitore che era qui…. adesso?
Il Casalbara sorrise, guardandola. Il vecchio servitore, muto, rigido, era sparito silenziosamente come un'ombra, dopo aver abbassata la grossa portiera di gobelin, e chiuso l'uscio imbottito, foderato di panno.
—Siamo soli…. stella—e il Casalbara sibilò la esse tanto era riscaldato,—stella divina!… Mi lasci dire questa parola, non si può trovarne un'altra per lei!… È la prima volta che il caso…. la fortuna…. siamo un momentino soli.
—Ma, l'Edita…. perchè si fa aspettare?
—Verrà subito…. anche troppo presto,—e il Casalbara sospirò.—Ha paura a restar sola…. un momentino…. con me?—E tornò a prenderle, a stringerle la manina piccola; ma l'altra si liberò vivamente, si schermì, corse via dal Casalbara, per guardarsi attorno, per veder tutto, con una viva curiosità, un'ammirazione stupefatta e sorridente, proprio da bambina.
—Dio, com'è bello qui!… Com'è tutto bello!—E saltellante, corse di qua, di là, ad ammirare i fiori splendidi, magnifici di cui il Casalbara, apposta per lei, aveva riempito il salotto. Ammirò i gingilli, i bronzi, i quadri, persino i tappeti, i mobili, e sedutasi in una grande poltrona, si godeva ridendo, a ballarci su.—Com'è bello!… E come si sta bene!… Tutto bello!
—E tutto suo!… Me compreso!—E il Casalbara, vestito di un colorino violetto, il viola che sta bene ai biondi, dalla giacca stretta ai solini della camicia un po' scollata, pareva offrirsi anche lui, come un bel fiore.
Nora sorrise a quell'offerta, ma in un modo che non voleva mica dir di no. Poi si alzò di nuovo all'improvviso e guardò nell'altra camera dove la luce era più raccolta, più discreta; dove le tende, le tappezzerie erano chiare chiare, e dove sopra una consolle bianca dorata, luccicavano nel buio un gran vassoio d'argento colmo di tartine e il cristallo dei bicchieri.
—E di là?… Cosa c'è?…—domandò Nora che si avvicinava, in punta di piedi, per guardare appunto nell'altra stanza.
Il Casalbara la fermò, prendendole questa volta tutte due le mani, e facendo più forza.
—Prima…. prima ci leveremo i bei guantini…. il bel cappellino….
—Perchè?—domandò Nora vivamente.
—Perchè? Vuol far dejeuner coi guantini e il cappellino?…"
—Ma l'Edita?… Non è ancora venuta?…
—Se non è venuta, verrà.—E il Casalbara le slacciò i bottoncini, le accarezzò le braccia nel levarle i guanti, baciandole la mano ogni volta, l'aiutò a togliersi il cappellino, e mentre tutti e due scioglievano il nastro, il Casalbara colle dita grinzose sfiorò il mento della fanciulla. D'un tratto apparì la massa dei capelli biondi, scompigliata, luminosa.
—Dio che splendore!—mormorò il duca;—pare sia entrato il sole qui dentro!—Ma in quel punto ebbe come un piccolo sobbalzo: la trafittura del ginocchio reumatizzato era stata così acuta, che credette quasi di cadere.
Il Casalbara diventò serio a un tratto, impensierito…. ammirò ancora la gran massa viva dei capelli, ma l'iperbole era stentata.
—E l'Edita?… Perchè aspetta tanto a venire?… E il signor Kloss?… anche il signor Kloss non si vede?
—Verrà…. Verranno subito…. il mio orologio corre…. un pochino!—Poi, volendo dissimulare l'oppressione, la stizza per quel dolore sempre più acuto che sentiva al ginocchio, fece un po' il geloso.
—Le preme tanto…. del Kloss?
—Dio! Dio! Così brutto, così goffo, con quelle gambette storte e le unghie nere!—esclamò Nora ridendo, saltellando, tornando tutta allegra.
—Certo…. non può dirsi un Adone!—esclamò l'altro, soddisfatto, pavoneggiandosi nella persona alta e ancora elegante.—Venga qui…. folletto, follettino!… Non può stare un po' fermo il follettino?…—E il Casalbara che voleva star comodo, per il suo ginocchio, prese Nora per una mano, poi la spinse un po' col braccio, leggermente, attorno alla vita, la fece sedere sul canapè e anche lui le si sedette accanto, vicinissimo.—Si direbbe proprio che ha paura…. a restar sola…. un momentino, con me…. che si secca….
—Oh…. seccarmi…. seccarmi no!—esclamò la fanciulla diventata seria, diventata timida. E dopo aver guardato il Casalbara arrossendo, abbassò il capo.
—Dunque…. paura di me?…—insistè il duca lusingato nella sua fatuità, nella sua leggerezza. E quantunque fosse sempre costretto a tenere la gamba distesa e quieta, strinse la bella fanciulla all'improvviso e un po' troppo forte, col braccio che le teneva dietro la vita.
Nora si alzò di colpo, liberandosi nervosamente e allontanandosi.
—Ma l'Edita?… Non viene?…—Adesso l'inquietudine appariva più forte, più viva.—Se non viene l'Edita, vado via!
—Signorina Nora, crede alla mia parola?… Crede alla parola di un gentiluomo?—domandò il Casalbara dignitosamente, ma senza alzarsi in piedi per via della gamba.
—Oh sì!—rispose Nora guardandolo con un'espressione ingenuamente incantevole, tanto era piena di fiducia e di ammirazione.—Sì! Sì! A lei sì!…
Il duca tornò a farsela seder vicino.
—È il primo momento che mi trovo solo…. che posso esprimerle tutto quel sentimento di…. di ammirazione…. di affezione che sento per lei…. E lei…. mi dica almeno una parolina sola di…. di incoraggiamento perchè anch'io….—e il Casalbara era sincero—non so più se sono un povero pazzo o…. o l'uomo più fortunato di questa terra!… Mi dica se la sua…. bontà per me posso attribuirla a un sentimento non di…. amore…. ma di be…. bee….—e il Casalbara sospirò quel beenevolenza con una vocina così sottile e tremula che pareva il belato di una pecora.
—Perchè non viene l'Edita?…
Nora, questa volta, nel ripetere la domanda era distratta, pareva come presa da un orgasmo, da una perplessità inquieta, nervosa. Aveva un fremito forte nella voce alterata, e guardò il duca arrossendo, abbassando il capo più timida, fatta vergognosa, ma pure con un'espressione di tenerezza, di abbandono che traspariva anche da quell'angoscia, da quel turbamento da cui pareva presa.
—Dunque?—insistè il Casalbara, che osservava tutto e credeva di capire.—Dunque?…—E le strinse ancora la vita, ma con più garbo.
La fanciulla tornò a guardarlo, ad abbassare il capo; ma questa volta non si mosse, non scappò via.
—Dunque?… Sarò discreto…. discretissimo per oggi. Le assicuro, le do la mia parola d'onore…. non vorrò sapere…. di più…. Non le domanderò nient'altro.
Nora aveva la testina bassa, chinata sul piccolo ventaglietto giapponese che apriva e richiudeva con un tremito nervoso delle dita.
—Proprio?—domandò essa colla voce appena intelligibile, fra il respiro forte, anelante, senza osar di muoversi, senza osar di guardarlo.—Proprio?
—Lo giuro!—tornò a ripetere il Casalbara con forza, con sincerità e internamente con un senso di sollievo. Dalle prime trafitture dei reumatismi aveva temuto, aveva capito che quel giorno avrebbe avuti tutti i suoi sessantacinque anni…. non uno di meno.
—Mi dica questo soltanto, signorina Eleonora…. Mi dica se si è accorta che io…. se si è accorta del sentimento vivissimo, inestinguibile che io provo…. che ho provato per lei fino dal primo giorno, dalla prima sera che l'ho veduta…. che mi è apparsa sfolgorante, come una regina, al Manzoni. Se n'è accorta?… Se n'è accorta?—Le si tirava così vicino che Nora ne sentiva la gravezza dell'alito, mista a un odor di menta.
—Se n'è accorta?… Mi dica per oggi soltanto questo…. e per oggi basta. Lo giuro, parola d'onore: e io non manco mai alla mia parola. Se n'è accorta?
Nora abbassò il capo di più; strinse, aprì il ventaglio più nervosamente, ne lacerò la carta colle unghiette e bisbigliò un—Sì—appena appena, come un soffio spirante.
—Grazie!—rispose l'altro con un sospiro: e non osò nemmeno toccarla. Fece capire alla fanciulla che aveva data la sua parola e che la sua parola era sacra. Ma in quel punto, a un tratto gli parve di vedere la faccia del Kloss, di udirne la sghignazzata alta, rumorosa. Doveva abbracciarla almeno? Baciarla?… Ma e poi?… Quella testina capricciosa si era montata—non domandava più nemmeno dell'Edita…. E poi?… Se lo assolveva dalla parola data?…—E il Casalbara non vedeva nemmeno quella maraviglia di capelli, di bellezza, di giovinezza…. vedeva soltanto il grugno da satiro del Kloss e ne udiva la sghignazzata beffarda.
Pure, bisognava fare qualche cosa. La ragazza era sempre lì vicina…. coi capelli gli sfiorava le spalle, il mento. Si decise, si alzò, e si allontanò di colpo, dissimulando l'impaccio che gli dava il dolor del ginocchio.
—Lei, è una bambina cara, cara, cara…. lei non capisce ancora niente, niente…. ma quando capirà…. allora saprà misurare l'immenso sacrificio che io le faccio in questo giorno, saprà valutare quanto costa la parola di un gentiluomo, e mi compenserà colla sua stima e… con un po' di bene…. Me lo promette?
Ma la fanciulla, invece di ammirarlo, sorrideva coi grandi occhi lucenti, tentatori. Era in mezzo al canapè, sdraiata, colla testa appoggiata alle due mani congiunte dietro, contro la spalliera, e i piedini irrequieti che uscivano incrociati sotto il vestito blù. Si vedeva anche un po' di calzetta nera, dove la gamba era più sottile.
Bisognava fare qualche cosa… o farle fare qualche cosa!
Il Casalbara aprì, cercò un dolce in una bomboniera di cristallo.
In quell'attimo, non vista da lui, il volto di Nora diventò serissimo guardando l'orologio grande del caminetto; ma quando il Casalbara le si avvicinò col piccolo dolce fra le dita, essa sorrideva come prima.
—Questo sarà il premio…. per un'altra grazia che mi deve concedere la mia regina.
Nora sporse le labbra appena, senza muoversi di più. Il Casalbara le mise in bocca il confettino delicatamente. Nora lo sorbì con delizia, sempre guardando il duca, sempre sorridendo cogli occhi vivi e umidi.
L'altro le indicò il pianoforte:
—Per me solo, tutto per me solo: l'Ideale del Tosti!
—Come vuole—rispose Nora sempre sorridente, e gli porse le due mani perchè la tirasse su.
Il Casalbara gliele prese fino al braccio.—Uno…. due…. tre!—e appena Nora, fu su, in piedi, la strinse con un braccio attorno alla vita, e la condusse, mentre l'altra si faceva un po' trascinare, verso il pianoforte.
—Tutto per me…. solo per me.
E quando la fanciulla seduta al pianoforte, cantando e accompagnandosi, cominciò colla voce calda di contralto: "Caro ideal…. torna a sorridermi ancora…." il Casalbara in estasi, gongolante, cominciò a cantare anche lui, colla vocetta tremula da pecora:
—"Ca-a-a-ro ideal…. Caa-a-ro ideal…."—mentre col palmo della mano si faceva un po' di massaggio al ginocchio reumatizzato.
Era bella, Nora! Che splendore di ragazza! La voce era penetrata persino nelle ossa al Casalbara. Standole di dietro, mentre essa era seduta sullo sgabello, e si chinava accompagnandosi, egli le vedeva il collo morbido, fin giù, dove comincia la curva delle spalle. E la gran massa dei capelli biondi, e la nuca candida col nimbo dorato dei riccioletti nascenti, e il seno rigoglioso e forte che si alzava, col vibrare della nota appassionata; e quell'odore di giovane, e quell'odore acuto di bionda, tutto lo accendeva…. anche il ricordo, l'immagine, la gelosia astiosa, tormentosa, contro quel mascalzone, quel montanaro dalle spalle quadre che la voleva sposare per forza. La vocetta del Casalbara, nel cantare il "Ca-a-ro idea-al" tremava sempre di più, stonava maledettamente. Ci fu un punto in cui lo prese come una vertigine improvvisa e non sentì più nemmeno i reumi.
—Sarà quel che sarà,—pensò, risoluto ormai al gran colpo. Ma tremava tutto nell'orgasmo di quell'eccitamento improvviso, che gli era montato alla testa come un bicchier di Sciampagna.—Sarà quel che sarà, e chiuse il pianoforte.
—Perchè?—domandò Nora meravigliata, alzandosi.—Cosa succede?
—Andiamo…. di là. Non vuol mangiare una tartina, con un ditino di
Xerez?
—Ma l'Edita?… Il Kloss?… Dunque non vengono?—esclamò Nora, guardandolo, fissandolo.
—Sì…. non so…. sono anch'io…. stupito…. L'avranno magari anche fatto apposta….
Nora diventò triste, abbassò il capo. Ormai si era compromessa…. l'avevano compromessa.
—Venga di là…. un ditino di Xerez…. e c'è anche un piccolo ricordo…. per lei.
Nora, muta, triste aveva abbassato il capo, presa da una grande confusione, da un grande avvilimento. Il Casalbara, sempre tenendola abbracciata alla vita la condusse nella stanza più raccolta, più discreta. Era tutta chiusa dalle tende, e fra le tende, i cortinaggi, le trine, a poco a poco, in fondo, dov'era quasi buio, appariva l'alcova.
—Qui…. cerchi qui….—le disse il Casalbara avvicinandosi al piccolo tavolino, dinanzi a un gran sofà basso, tutto circondato da cuscini ammonticchiati.—Sieda qui con me e cerchi in questo cassetto; poi prenderà una gocciola di Xerez, poi scapperà via!
Nora si lasciò condurre quasi macchinalmente. Il duca la fece sedere con lui, e mentre allungava la gamba, che gli tornava a dolere, aprì il cassettino e la forzò a mettere la mano dentro, sopra un astuccio di velluto.
Nora lo lasciava fare e non parlava.
—Cos'è?… Vediamo cos'è?…
Dall'astuccio il Casalbara levò un filo di perle con un piccolo fermaglio di brillanti.
—Oh le perle!… Le perle!… Dobbiamo provare se le perle stanno bene alla mia regina?… alla mia bee—e tornò a belare, colla vocetta da pecora, "mia bee-ella regina!"
Le passò il vezzo attorno al collo, accarezzandole il mento colla mano.
Nora abbassò il capo: ma il duca nel chiudere il fermaglio, coll'orgasmo delle dita tremanti, le chiuse insieme, le strappò qualche capello. Nora fece una piccola mossa.—"Ahi!…"
—Oh! cara, cara, cara…. Ho fatto male alla regina mia cara, cara, cara!—e la baciò lì, fra i riccioli della nuca, vicino al fermaglio di brillanti.
—Cara, cara, cara….—e tornò a baciarla.
Nora, sempre a capo chino non si muoveva. Perchè non si moveva? Il Casalbara tenendola stretta, abbracciandola più forte, le alzò il capo per guardarla. Essa piangeva, piangeva silenziosamente, lacrime grosse, goccioloni, che le eran caduti sulle mani, sul vestito.
—Oh, bimba mia! Povera bimba mia!—esclamò il Casalbara esaltato, commosso.—Cosa c'è da piangere?… Perchè?… Ma perchè?—E con un trasporto sincero di tenerezza, e col trasporto smanioso della passione, la baciò sui capelli, sugli occhi, sulla bocca, mentre continuava a domandarle:—Perchè? ma perchè, santo Iddio?… Perchè?
Nora, vivamente, gli allontanò la faccia colla mano, graffiandolo, e scoppiò in singhiozzi.
—Perchè? Perchè? Perchè non volete essere la mia regina?
Allora Nora si sfogò, balbettando, singhiozzando, ora nascondendosi il viso per la vergogna, ora torcendosi le mani per il dolore, per la disperazione.
Aveva capito tutto; la colazione coll'Edita, col Kloss, era stata un pretesto: una cosa combinata. Lui agiva così perchè non la stimava: sì, non la stimava; e aveva ragione di non stimarla: sì, con lui era stata troppo leggera, senza testa, aveva dimenticato tutto. Ma egli si era mostrato così buono, così nobile, così rispettoso…. Doveva capire che lei era una testa esaltata, malata; doveva compatirla, ma non trattarla così! E presa da un impeto di furore, si tolse convulsamente il vezzo di perle, strappandosi ancora qualche capello, e lo ricacciò nel cassetto.
—Doveva capirmi e compatirmi; non insultarmi così! No! No! No! Così no! Così no!
Il Casalbara, sempre più sbalordito, quasi quasi piangeva anche lui….
Nora parlò della sua famiglia. Oh! nella sua famiglia essa era odiata da tutti; parlò della vita agitata, angosciata ch'era costretta a condurre; dell'abbandono e insieme della tirannia che doveva sopportare. Era stata lì lì per ricordare anche quel matrimonio che le si voleva imporre, ma ne ricacciò il pensiero, e soffocò il rimorso improvviso suscitatole dalla faccia pallida, straziata di Pietro Laner. Aggiunse soltanto ch'era sempre stata infelice, e che aveva sperato in un'amicizia, in un affetto sincero, leale. Aveva sperato, sognato, di essere creduta sincera…. di essere creduta una ragazza onesta; sì, onesta! anche se gli voleva bene, perchè infine lei era libera, padrona del suo cuore e di sè stessa, e non doveva render conto di niente a nessuno, a nessuno!… Aveva sognato, sperato di essere creduta quello che era: una ragazza pronta anche a rovinarsi per una passione, ma disinteressata!
Il Casalbara gemeva, sospirava, implorava pietà.
—Le domando perdono in ginocchio! Le domando perdono in ginocchio!—continuava a ripetere, a balbettare; e una volta fuori di sè, aveva anche fatto per inginocchiarsi davvero, ma poi, aveva ritirato subito la gamba.—Non sono stato capito: non sono stato capace di spiegarmi. Dicendovi se volevate essere la mia regina, volevo dire che io sarei stato pronto per voi a qualunque sacrificio; "bee-ato"—e il Casalbara tornava a belare—"bee-ato" felice di qualunque sacrificio! La mia regina non ha che a impormi la sua volontà; tutto, tutto per lei…. e io non le domando altro che di lasciarsi adorare…. adorare in ginocchio….
Ma in questo punto il Casalbara tese l'orecchio, perchè gli sembrò udir chiamare dall'altra stanza, e Nora si spaventò subito, prima ancora che avesse potuto avere il tempo di accorgersene, di sentire, di capir niente.
—Dio! Lo zio Matteo!
—Che! Che!—esclamò il Casalbara sorridendo, sicuro; e chiuso l'uscio anche di quella camera e abbassata la portiera entrò nel salotto. Vide in fondo, dall'altra parte, il servitore pallido, sconvolto….
—Che c'è?
—Il padre…. il padre di quella signorina!…
—Imbecille! Perchè non lo hai cacciato fuori?
—Ho fatto di tutto!… Strepita!… urla!… Fa il diavolo a quattro! La gente può sentire….—Il vecchio si curvò, tese l'orecchio.—Sente, signor duca?
Dal di fuori, in fondo all'anticamera, si sentivano colpi che rimbombavano sull'uscio chiuso, e una voce che gridava:
—Domando del signor duca di Casalbara! Voglio vedere il signor duca di
Casalbara!
Il Casalbara prese in fretta il cappellino e i guanti di Nora e si avvicinò all'uscio della camera da letto, dicendo piano alla ragazza:
—Prenda il cappellino, i guanti. Vada a nascondersi nell'alcova. Dietro c'è un piccolo gabinetto di toelette, vi si chiuda dentro. Poi, voltandosi al servitore gli accennò di far entrare quell'altro.
Mentre il servitore andava ad aprire, il duca si aggiustò i riccioli sulla fronte, i baffi, la cravatta, tranquillamente.
Il direttore entrò, piombò nel salotto, gli occhi fuori della testa, il cappello in una mano, il bastone col pomo d'argento nell'altra, il pancione ansante e tuonò:
—Sono Matteo Cantasirena!
Rispose calmo il Casalbara:
—Mi dica in che cosa posso servirla. Non ho mai avuto il bene di conoscerla.
—Suo fratello Eriprando, il martire di Josephstadt, quello avrebbe riconosciuto Matteo Cantasirena!
—Questa è una ragione di più per dirmi in che cosa posso servirla.
Matteo Cantasirena indicò il domestico, poi, appena quello fu uscito, andò quasi addosso al Casalbara, squadrandolo dalla testa ai piedi con un'occhiata terribile:
—Lei conosce mia figlia?… Eleonora?
—Cioè, io ho avuto l'onore di conoscere dalla contessa Edita Schönfeld, una signorina di questo nome: Ma…. non era sua figlia, mi pare; era soltanto sua nipote.
—Signor duca! Sappia che le mie nipoti diventano mie figlie quando hanno bisogno di un padre!…
—Io ho conosciuto appena la signorina Eleonora, e…. non capisco. Che cosa vuol dire?
Matteo Cantasirena si rizzò ancora più terribile: anche il lungo barbone si agitava, fremeva.
—A Matteo Cantasirena non si risponde in questo modo.
—In casa mia rispondo come più mi pare e piace: se non le accomoda è padrone di andarsene.
—Andarmene? Io?…
Il Casalbara sentiva che tutto quello sdegno, quella collera non erano sinceri. Perchè veniva lì a fargli quella scenata?… Per quale interesse? Per che scopo? Quanto voleva? In ogni modo Nora era libera di sè, padrona di sè: nè lui, nè lei, non avevano da render conto a nessuno delle loro azioni.
Per tutto ciò, quando Cantasirena tuonò per la seconda volta:
Andarmene?… Io?…—il Casalbara gli rispose con maggior alterezza:
—Sissignore; e sul momento.
—….Prima vendicherò il mio sangue! L'ammazzerò!—E Matteo levò in alto i pugni formidabili e pareva volesse scagliarsi sul Casalbara fermo, sdegnoso, quando a un tratto, improvvisamente, con un grido, Nora si precipitò nel salotto: e si buttò fra le braccia dello zio Matteo supplicandolo, piangendo, accusando sè stessa, difendendo il Casalbara.
—Signorina….—balbettò il duca maravigliato, sorpreso.
Ormai Cantasirena non smaniava più. La vista di Nora lo aveva come annichilito, fulminato. Col fazzoletto bianco si asciugò le lacrime, il sudor della fronte, la vergogna, l'onta.
—Disgraziata!—balbettò, e non potè dir altro.
Anche il Casalbara era rimasto colpito stranamente. Non sapeva più cosa dire, cosa pensare; era rimasto confuso, colla testa bassa. Matteo Cantasirena che minacciava lo faceva ridere; Cantasirena che piangeva lo rendeva perplesso.
—Signorina….—balbettò,—io….
—Ma disgraziata!—esclamò ancora Cantasirena fra le lacrime,—se hai dimenticato l'onore di questo povero vecchio…. come hai potuto dimenticare Pietro Laner? Quell'uomo ti ammazzerà.
Sulla fronte di Nora apparve la piccola ruga sottile e bianca. Perchè parlavano allora di Pietro Laner? Pure riuscì a vincersi e rispose con calma:
—Non lo amo…. non l'ho mai amato.
—Signorina Nora….—tornò a balbettare il Casalbara avvicinandosi…. Ma non sapeva…. e non avrebbe potuto dir altro. Tutto era andato a finire in un modo così strano, così diverso da ogni previsione! Cosa poteva dire? Cosa poteva promettere?…
Matteo Cantasirena vinse la commozione e prendendo Nora per un braccio e scotendola forte:
—Il cappellino, i guanti,—le disse brutalmente. Poi, mentre Nora calma, tranquilla, andava a prendere la sua roba, tornò a rivolgersi al duca, ma questa volta con una freddezza dignitosa.
—Io le accordo tre giorni di tempo, per interrogare il suo cuore e la sua coscienza. Pietro Laner, che appartiene ad una delle famiglie più ragguardevoli del Trentino, uno dei più indefessi cooperatori del movimento irredentista, al presente ignora tutto quanto è successo: se si tratterà di salvare l'onore di… colei, ignorerà tutto, sempre. In caso diverso, se una macchia dovrà offuscare il nome di una Cantasirena, della fidanzata di Pietro Laner, allo spirare del terzo giorno,—e Matteo guardò l'orologio,—sono le undici—allo scoccare delle undici precise del terzo giorno, io e Pietro Laner le manderemo i nostri rappresentanti. Ai miei ho già provveduto prima di venir qui. Uno sarà il mio compagno d'armi, il generale Clemente Della Torre, l'altro il deputato Argenti.
Nora, intanto, si era messo il cappellino, i guanti, ed era pronta per uscire.
—Venite!—mormorò fremente di collera lo zio Matteo.—Datemi il braccio!—e aggiunse a mezza voce:—Svergognata!
Il Casalbara fece un altro passo, come per avvicinarsi: poi si fermò.
—Signorina Eleonora, io…—e non disse più niente. Che poteva offrire? Che poteva promettere?
Ma Nora prima di dare il braccio allo zio Matteo ebbe un istante di perplessità, di timidezza, poi risoluta, stese la mano al Casalbara e gliela strinse forte.
La fanciulla voleva dire in quel momento, con quella stretta di mano, che era fiera di avergli sacrificato tutto, il suo onore, il suo avvenire, la sua pace, forse la sua vita.
—Signorina Nora,—balbettò il Casalbara,—anch'io….—ma non aggiunse altro. Passò innanzi e sollevò la portiera…. Poi, quando Nora e lo zio Matteo furono usciti, la lasciò ricadere, e restò lì, confuso, sbigottito….
Il Casalbara andò subito in cerca del suo amico Kloss, alla banca Kloss e C.º, per confidarsi e per consigliarsi con lui.
Francesco Kloss ascoltò il duca attentamente, attorcigliandosi i baffi.
Poi, d'un tratto, saltò su dalla seggiola, sghignazzando.
—Staterata! Robb de Statera!
La Stadera era un vecchio teatro di Milano, dove si rappresentavano i drammi più impressionanti, a gran colpi di scena.
—Robb de Statera! Tutti d'accordo; e la racazza, pussè anca mò!
Francesco Kloss, subito, alle prime parole, aveva aperti gli occhi, e Nora, diventata troppo pericolosa, aveva perdute tutte le attrattive. Anche i capelli pionti marafigliosi, erano rimasti offuscati dal barbone minaccioso di Matteo Cantasirena. No, no, no!… Alla larga! Non era una racazza, era un trabocchetto! Quella scena di seduzione, di collera e di lacrime, col sopraggiungere improvviso del padre nobile, gli ridestava più forti i primi sospetti e i primi timori. Quando non si fosse trattato altro che di denari, il Casalbara avrebbe pagato e basta; ma la furbona tirava il gran colpo; voleva farsi sposare, e quella volpe vecchia del Cantasirena teneva dalla sua! No! No! No! In tutti i pasticci che ne potevano nascere, anche lui correva il rischio di aver noie, seccature, di aver contro i giornali, di esser portato in piazza!
—A quella racazza non pensiamoci più: ghe n'è pussée te cent mila a
Milan, ti pei tosanett!
Ma il Casalbara, povero vecchio, era preso. Quelle parole del Kloss lo ferivano nel cuore e nella vanità.
—Bene! Bene!—esclamò interrompendolo, infastidito.—Adesso non è il momento di parlare della signorina Eleonora! La signorina Eleonora non c'entra affatto nel consiglio che io sono venuto a domandarvi! Io sono stato provocato dal padre. La mia quistione l'ho col padre.
—Che patre!—borbottò il Kloss con un'alzata di spalle.
—Collo zio!
—Che zio!
—Ebbene con…. quello che è! Con Matteo Cantasirena.
—Sto scîor,—osservò il Kloss col suo ghignetto,—è un pirpone colossal!—e si fregò le mani allegramente. Secondo il Kloss, coi birboni, in generale, era un pellissimo trattar, perchè colla prudenza e coi tenari si poteva accomodare ogni cosa.
L'altro si mostrava sempre più perplesso e meditabondo.
—Intanto…. in questi tre giorni, che cosa devo fare?
—Mi stassi cito: mi stassi queto.
—E se mi manda a sfidare anche il…. quel Laner? Appartiene ad una ragguardevole famiglia del Trentino!
—Raccuardevole strazzon!—rispose il Kloss con un'alzata di spalle.
Per lui, il Casalbara non aveva nessun obbligo perchè, scientemente, non aveva offeso nessuno; ma messo al punto di doversi battere o di dover sposare la signorina Cantasirena, piuttosto pattersi tieci folte!
—Naturalmente!—Di ciò era convinto anche il duca.—Ma se Cantasirena fa nascere uno scandalo?
—Con Matteo Cantasirena, cuistion te tanee: me ne incaricassi mi.
Colla racazza, cuistion te tanee: mi incaricassi la signora Schönfeld.
Il Kloss non voleva più trovarsi con Nora. Aveva paura di essere travolto da un momento di vertigine, e finire poscia in quelle medesime reti, che lo zio e la nipote avevano teso, d'accordo, per cuel vecc… straortinarî!
Il Casalbara era preso. Se ne andò scrollando il capo. Avrebbe pensato, avrebbe meditato; si sarebbero trovati insieme più tardi per parlarne ancora; ma intanto provava un senso di sollievo ad essere solo, a non udire più la sghignazzata plebea, oscena, che offendeva l'immagine purissima della fanciulla bionda; la fanciulla che arrossiva tremante, cogli occhi pieni di lacrime, quando lui la baciava appena sui capelli, e che si ribellava fiera e sdegnosa, offesa nella sua delicatezza e nel suo amore, quando le regalava un vezzo di perle.
E forse…. non la vedrebbe più!… Le scenate del Cantasirena, le violenze di quel montanaro odioso, sarebbero tante e tante che quella povera creatura così sola finirebbe col cedere, col sacrificarsi.
E sospirava pensando a Nora e immaginando che anche Nora avrebbe forse sospirato e pianto pensando a lui.
Quel tedesco era un barbaro, un brutale!… Non conosceva le donne; non era mai stato amato!… Nora, era troppo semplice, troppo ingenua, e si era mostrata troppo disinteressata, per non essere sincera.
Non vederla più! Non averla più lì, sola sola, nel suo salotto; così vivace e così bella quando era allegra; così cara, ingenua e appassionata quando abbassava il capo vergognosa, quando i suoi occhi diventavano mesti, timorosi, pieni di lacrime.
Non vederla più! Chissà in che stato l'avrebbe ridotta quel tanghero villano!… Le avrebbe fatto fare anche la serva….
La serva, alla sua regina!
Non aveva in mente altro che Nora: non poteva vincersi; non poteva stordirsi. Vedeva il bel corpo palpitante, quando vibravano le note calde del contralto; era tormentato da quell'odore di giovane, da quell'odore di bionda. Perchè era stato così goffo?… Così discreto?… Non era lì, sola con lui?… E così sola con lui non ci sarebbe tornata più! Si sarebbe trovata sola, tutta sola, con quel trentino che le stava dietro, che la voleva, che non avrebbe avuto tanti rispetti, nè tanti riguardi…. nè….—una voce astiosa, in fondo al cuore, soggiungeva…. nè tanti reumi!
—Portarsela via?… Andar a passare l'inverno a Nizza, a Mentone?… Anche più lontano: in Ispagna, a Madera, dove nessuno lo avrebbe conosciuto!… Essere adorato, accarezzato, da quella creatura splendida!… Quanto rumore avrebbe sollevato Eleonora nel bel mondo, e lui quanta invidia!
In fondo, anche il Kloss doveva crepare d'invidia. E il Casalbara sorrideva trionfante nella propria fatuità; ma poi tornava serio: e se dopo averla compromessa…. avesse dovuto finire a sposarla?… Avrebbe potuto abbandonare Milano…. andarsi a nascondere a Casalbara…. o nel suo palazzo a Bergamo…. accontentare il ragionier Vigliani…. fare un po' di economia…. e invece di essere solo con un servo, avrebbe avuto un angelo che gli avrebbe prodigate carezze e cure….
—E il nome?… Il nome dei Casalbara?
Così, fra le irritanti cupidige della passione senile, fra la gelosia dolorosa, gli stimoli della vanità, i timori, i pregiudizi aristocratici, e un sentimento nobile di dignità, e un impulso sincero del cuore, il povero duca passava ore agitatissime. Quella sera, per non doversi trovare col Kloss, che, certo, avrebbe sparlato di Nora, andò a far visite; e poi a letto presto. Si sentiva stanco, pieno di acciacchi.
Dormì pochissimo, sempre tormentato da Nora, dai soliti pensieri, dalle solite incertezze; e la mattina si alzò mezzo malato. Aveva palpitazioni terribili. Oh! non poteva scherzare col suo mal di cuore! Il medico gli aveva prescritto la tranquillità, il buon umore…. Anche per la salute doveva prendere una risoluzione e subito.
—Partire con lei o partir solo, ma mettersi in calma: colla salute non si scherza!
Mentre stava preparandosi la solita polverina digestiva e rinfrescante, gli giunse una lettera di Nora.
"Mi preme parlarle. Andrò dall'Edita, oggi, prima di mezzogiorno, appena potrò fuggire da questa gente. ELEONORA."
Il Casalbara versò la polverina nell'ostia bagnata, distesa sul palmo della mano. Ne fece un batufoletto, l'ingoiò, bevette un sorso d'acqua, e pensò con un sospiro di tenerezza e di compiacimento:—Povera ragazza!… È proprio innamorata!
Guardandosi nello specchio, mentre finiva la sua toeletta ed era ancora fresco di colori, di pomate, ed olezzante di profumi, egli capiva benissimo che il duca di Casalbara poteva, doveva scaldar la testa di una ragazzina poetica, un po' romantica, dal gusto molto fine e delicato, più assai di un rozzo contadinaccio!… E intanto che ammorbidiva col cold cream la pelle floscia, grinzosa delle sue mani, intanto che tagliava, limava, brillantava le unghie piatte e giallognole, egli vedeva riflettersi in tutti gli specchi il viso e la figura di Nora; di Nora bionda e buona come un angelo, viva e ridente come un folletto, di Nora, che si era appena destata con lui, appena alzata con lui….
—Che regina!… E che bel sole!… Che primavera!…
—Mah!…—Il Casalbara sospirava. Il nome, la patria, imponevano penosi sacrifici. Non fosse stato il duca di Casalbara, oh, come avrebbe mandato al diavolo tutti i pregiudizi…. e tutti i Kloss!… Se la sarebbe sposata allegramente e sarebbero andati tutti e due, soli a godersela, a vivere in pace, lontano…. in un bel paese, al caldo!
Intanto "quella stella" gli aveva scritto! L'avrebbe riveduta, sarebbero stati ancora insieme, forse soli!… Ma a questo punto anche la prudenza astuta del vecchio faceva capolino:—E il primo passo—pensava—lo ha fatto lei! La prima mossa è partita da lei! Con questa lettera, nasca quel che sa nascere, io mi salvo e sono a posto! Lei mi scrive, io sono un gentiluomo e devo rispondere. Lei mi chiama, io sono un gentiluomo e devo correre.
—Povera figliuola!… Se lui non fosse stato il Casalbara e Nora non avesse avuto quella specie di padre o di zio, nessuno avrebbe avuto da ridire anche se l'avesse sposata. Era una ragazza come tante altre! Anzi meglio di tante altre, perchè Nora era una ragazza onestissima…. e questo tutti lo ammettevano; persino il Kloss!… Oh! ma il signor Kloss, quel rospo, quel teutono, non era in buona fede!
—Vorrei vederlo al mio posto….—pensava il duca tutto ringalluzzito e gongolante.—Se soltanto Eleonora gli avesse permesso di toccarle la punta di un ditino! E i tre giorni?… Il duello con Matteo Cantasirena?
Il Casalbara continuò a sorridere.
—Se dovrò battermi col vecchio, lo risparmierò. Al caso, mi lascierò anche ferire…. leggermente.
Si sentiva bene. Era cessato il mal di cuore: era una bella giornata; erano scomparsi anche i reumi, e mentre Andrea, il vecchio servitore, ammesso ai segreti de' suoi amori e de' suoi cosmetici, gli cingeva attorno alla vita la fascia a maglia, con gli ossicini di balena, il Casalbara, tutto rapito coi pensieri dietro alla bella fanciulla, canticchiava "il caro ideal."
"Io ti seguii com'iride di pace
Lungo le vie del Cielo…."
—Stringi, Andrea!
Andrea tirò forte, tutta la cinghia: il pero epatico sparì di colpo, ma anche "l'Ideale" restò interrotto. Il Casalbara, diventato violetto, soffocava…. Era stata l'impressione del primo momento; poi ricominciò a respirare e ripigliò il canto, sebbene colla voce più tremula e più sottile:
"Torna, caro ideal, torna un istante
A sorridermi ancora…."
Quando il Casalbara andò dalla Schönfeld, anche questa era appena alzata: fu ricevuto nella camera da letto, dove la cantante stava pettinandosi. E lì, subito, cameriera e padrona, cominciarono a gridare, a strapazzarlo.
—Cos'ha fatto a quella povera signorina!—strillò la cameriera.
—Vous êtes un mauvais sujet!—esclamò a sua volta la Schönfeld mezzo in collera, mezzo ridendo.
Era seduta dinanzi allo specchio, e nel voltarsi sullo sgabello, per dargli la mano, mostrò dall'accappatoio lasciato aperto, il seno enorme, e le spalle grosse, rigonfie.
—Vous êtes un mauvais sujet!
—Se non ho potuto invitarvi a colazione, v'inviterò a pranzo.—E il
Casalbara l'adocchiava galantemente, ma soltanto per farle piacere.
—Che colazione!…
—Jamais! Jamais! Vous êtes un mauvais sujet!
—Perchè santo Iddio? Perchè?—E il Casalbara continuava a fare l'ingenuo, il modesto.
—Lei può vantarsi d'averla stregata, quella povera ragazza.
—Vous l'avez ensorcelée!
—Niente affatto, parola d'onore!
Ma la cameriera continuava a minacciarlo col pettine, e la padrona colle occhiatacce.
—Vous êtes un malin!—esclamò in fine la Schönfeld, alzandosi di colpo.—Andate ad aspettarmi nel salotto. Vi devo parlare.
—Perchè mandarmi via?—E il Casalbara continuava ad adocchiare il contessone tremolante sotto l'accappatoio.—Perchè non posso star qui?
—C'est joli ça! Perchè mi devo vestire.
—Allora non mi muovo!—E il duca sedette sopra una poltroncina bassa, vicino allo specchio, mentre padrona e cameriera gridavano più forte, prendendolo una da una parte, l'altra dall'altra, per tirarlo su, per spingerlo fuori.
Il buon vecchio resisteva; non voleva.
—Lasciatemi qui!… Terrò aperto un occhio solo!
—Vergognoso!… Se lo sapesse la povera signorina Nora!—strillava la cameriera.
—Non deve saper niente! Non le diremo niente!
—Caaro da Dio!—strillava anche la padrona,—credete che io mi accontenterei di dividere? Pas du tout, mon cher! Allons! Allons!
E siccome l'altro, spinto fin sull'uscio, voleva ancora fermarsi, la Schönfeld, coll'accappatoio tutto aperto, svolazzante, prese il piumino della cipria e passandolo sul naso e sulla faccia del Casalbara, lo fece scappare nel salotto. Ma lo raggiunse quasi subito; appena ebbe infilata una vestaglia rossa, mentre stava ancora allacciandola e abbottonandola:
—Bel mobile! come dite voialtri in Italia. Une demoiselle di buonissima famiglia! Presque un enfant! Voi l'avete innamorata! Vous l'avez grisée!—E la Schönfeld, tenendosi in piedi, col Casalbara, vicino alla finestra, gli cominciò a parlare molto seriamente, molto gravemente.
Non pareva più il solito donnone rumoroso e incoraggiante; pareva una brava signora piena di cuore e di saggezza; addolorata per lo stato in cui si trovava la sua cara amica Eleonora, addolorata, impressionata e spaventata per la grande responsabilità che pesava sul duca di Casalbara, e per tutto ciò che poteva andare a succedere…. di molto brutto!
—Pardon…. responsabilità….—cominciò quell'altro; ma la Schönfeld non lo lasciò continuare. Parlava soltanto lei, con gran foga, con molti gesti, corrugando la fronte minacciosa come una profetessa di sciagure.
Il suo caro amico, monsieur le duc, si era terribilmente compromesso! Même pour le monde, dans le grand monde, qu'est-ce qu'on en dirait? Sarebbero tutti furenti contro di lui!
—Ma…. pardon!—ripigliò il Casalbara, quando alla fine potè parlare.—Perchè devono essere furenti contro di me? Non si tratta altro che di un sentimento di…. simpatia…. reciproca e innocentissima!
—Caaro da Dio, quell'innocente!—esclamò la Schönfeld scrollando il capo con gran forza.—Ne plaisantons pas, je vous en prie, mon cher. I fatti, non li potete negare: e io vi parlo francamente, da buona amica. Voi, nel caso vostro, avete una sola scusa: l'amore, l'aveuglement de la passion. La pauvre petite a perdu la tête et vous aussi! Vous vous êtes grisés ensemble! anche voi non misurando, non pensando alle conseguenze e perciò tacitamente predisposto a sopportarne poi tutto il peso!
—Io?—esclamò il Casalbara, scosso, inquietissimo.
—Certainement, mon cher! E se voi non aveste per vostra scusa l'amore e la passione, allora voi sareste un vilain, un gros scélérat. Bel merito farle perdere la testa…. e rovinarla!—Presque un enfant! Bella bravura! Alla vostra età! Colle vostre arti sopraffine, colla vostra pratica di gran viveur! Sfido io che ci doveva cascare la pauvre petite! Il duca di Casalbara! Una bella persona; l'eleganza più raffinata; toujours sur quatre épingles! E poi un eroe; e anche questo serve a montar la testa a une blonde enfant pleine de poésie! Bella bravura! Bel vanto, ingannarla, sedurla e poi piantarla, come dite voi altri en Italie.
—Parola d'onore,—protestò il Casalbara vivamente.—Io non l'ho sedotta, non l'ho ingannata…. e perciò non posso averla…. piantata.
—Piantata ancora…. no! E voglio sperare, non succederà mai; e più per il vostro onore, che per l'onore della mia amica Eleonora. Ma per il resto…. caaro da Dio, cosa volete di più? Lorsque vous avez contremandé votre invitation, io lo confesso, avevo creduto…. tutto il contrario. È un uomo di testa, è un vero gentiluomo, pensavo fra me e me; ha capito che l'amoretto va troppo per le lunghe e ha pensato di troncarlo di colpo. Invece, grazie tante! C'était toute une machine pour attraper la pauvre petite. Caaro da Dio! Ne plaisantons pas! Per qualunque altra persona tutto ciò potrebbe costituire anche una bricconata in danno di madamigella Nora, ma per il duca di Casalbara non può essere altro che une bêtise…. e chi rompe paga! On n'est plus Bajard lorsqu'on a des taches!
—Bêtise…. Bêtise! grazie del complimento!—borbottò il Casalbara stizzito.—Io non ho mai commesso bêtises e ho sempre pensato molto prima di… agire!
La Schönfeld sospirò; levò gli occhi al cielo.—Mon Dieu! Mon Dieu!—Poi gli prese una mano, l'affondò premendola sul petto abbondantissimo ma cedevole, e cominciò a guardarlo, a fissarlo, finchè gli occhi si inumidirono, si gonfiarono di lacrime.
La contessa era commossa.
Avrebbe dovuto capir subito che la sua amica Eleonora prendeva quella corte troppo sul serio; avrebbe dovuto aprirle gli occhi e chiudere la porta a monsieur le duc, senza tanti complimenti. Ormai era troppo tardi e la Schönfeld tornò a sospirare:—Pauvre petite! era in uno stato da far pietà!… E più la tormentavano, e più si esaltava e più si ostinava in quella passione!
—Lei…. l'ha veduta?—domandò il Casalbara colla voce fievole.
—Ieri sera, tardi: piangeva, si disperava, voleva fuggire, correre a casa vostra! Voleva che io venissi a cercarvi, a chiamarvi! Era in uno stato da far pietà; ed era ancora più bella, ancora più ravissante. Io ho potuto vederla di nascosto, perchè l'hanno a morte contro di me. L'ho veduta in camera sua…. Nel suo lettino, la pauvre petite! Oh, je vous assure, mon ami, qu'elle était ravissante! Seulement de la voir, avec cette toison de cheveux blonds tous decoiffés, et toute rose par les sanglots et par la fièvre de son amour, je vous assure que tout le monde aurait compris votre bêtise et la fureur de Peter Laner. Parce qu'il l'aime, le malheureux garçon! Il l'aime avec toute l'ardeur d'un jeune italien.
—Il Laner?
—Oh, il signor Laner le perdonerebbe certamente, se la pauvre petite avesse due dita di testa e il coraggio di abbandonarvi.
—Era lì?… Era in casa quel…. Laner?—domandò il Casalbara subito insospettito e irritato.
—Certainement; mais pas avec la petite. Era col cavalier Cantasirena. Eleonora non avea voluto vederlo, quantunque, anche per ciò, il cavaliere le avesse fatto una scenata terribile.
—Ma infine, chi è questo cavalier Cantasirena?—strillò il Casalbara colla vocetta aspra.—È suo padre? È suo zio? È il suo tutore? Cos'è?
—Son oncle, je crois, par son père:—e soggiunse pianino, parlandogli all'orecchio:—et je crois son père…. par sa mère! Che sia poi il suo tutore, questo è sicurissimo.
—Che confusioni…. che pasticci!
—Oh, del resto è una famiglia distintissima. I Cantasirena sono nobili.
—Nobili? Nobili triestini?—domandò il Casalbara, che pur sorridendo ironicamente, prestava molta attenzione a queste notizie.
—Il cavalier Matteo è nato, credo, a Trieste, oppure a Venezia; ma anticamente la sua famiglia doveva essere della Dalmazia o della Rumenia.
—Già…. già….—osservò il Casalbara, interessandosi seriamente alla nobiltà della signorina Eleonora.—Ci sono infatti i Cantacuzeno…. i Cantasemir….
—Et alors, très bien!… Anche i Cantasirena! Il cavalier Matteo ha sempre avuta una grande importanza nel mondo politico. I suoi amici sono tutti ministri, deputati, generali. Anche lui è stato colonnello sotto il vostro Garibaldi. Capirete, anche per la sua condizione, sente l'onore della famiglia in un modo straordinario. In questi giorni è esaltato! Pare diventato matto! Strepita vuole ammazzarvi, e che se non vi ammazzerà vi farà un processo.
—Oh, poi…. staremo a vedere!—esclamò il Casalbara, stizzito e offeso per quella parola plebea.—Non c'è niente da far processo.
—La pauvre petite est très jeune, vous savez; è minorenne.
—Che importa, se è minorenne? So quello che mi dico,—e anche il
Casalbara alzava la voce.—Non c'è niente da far processi!
—Ne plaisantons pas, mon cher! Dovete sapere che Eleonora stessa effrayée,—sono riuscita a stento a levarla mezzo morta toute pleine des meurtrissures dalle mani di monsieur Cantasirena—Eleonora stessa ha confessato tutto "tutto quanto!"
—Confessato?… Che cosa?
—Fino all'ultimo! Ed è inutile che vi mettiate a fare con me il gentiluomo misterioso!… La mia cara amica Eleonora, mi ha confessato tutto quanto! Voi…—La signora Schönfeld s'interruppe, si raddrizzò tragica, solenne; poi ripigliò colla voce più bassa, ma col gesto, coll'accento severo, inesorabile del giudice:—Voi avete abusato dell'innocenza, della inesperienza, del cuore, della passione….—Poi, d'un tratto, cambiando tono:—Caaro da Dio!—esclamò con tutto lo scoppio della sua natura rumorosa:—Vous êtes un monstre d'iniquité!
—Ha confessato?… Lei?…—Il Casalbara era rimasto stupefatto.
—Sì.
—A chi?
—A suo padre, cioè a suo zio! E poi anche a me.
—Anche a voi?
—Sì! Vous êtes un monstre d'iniquité!—Ma per quanto sdegnata, per quanto in collera, per quanto furente, dagli occhi, da tutta la faccia della Schönfeld, sprizzava la malizia, la furberia, l'ammirazione. E il Casalbara che negava, assicurava, protestava che non era vero, pure non sapeva dire di no con abbastanza forza, con abbastanza energia: intimamente si sentiva lusingato da quel monstre d'iniquité!
—Mi ha detto anche,—soggiunse la contessa ammiccando l'occhio, e come a conferma del "tutto quanto"—di avervi scritto…. che vi sareste trovati qui, da me.
—Sì…. è vero,—confermò il Casalbara.
La Schönfeld tornò a gemere, a sospirare. "La pauvre petite, mi ha tanto pregato, tanto supplicato! Non ho avuto cuore di resistere: le lacrime mi fanno male…. E poi…. già è inutile…. Eleonora può far di me tutto ciò che vuole! Je l'aime! Je suis éprise d'elle…. Quelle beauté mon Dieu! Il faudrait l'avoir vue hier au soir dans son petit lit, toute blanche, toute rose, toute blonde…."
In quel punto la portina si aprì pian piano…. i due si voltarono. Eleonora entrò nel salotto…. Ma appena veduto il Casalbara, per la commozione, per la confusione stessa della gioia e della verecondia, si buttò con tutto l'impeto fra le braccia della Schönfeld, nascondendo la faccia, timida, pudibonda, contro la faccia dell'amica. Non voleva che lui vedesse come l'aveva fatta diventar rossa!…
Anche il Casalbara si trovò impacciato; e lì per lì, riuscì appena a balbettare qualche parola, salutandola.
—Mon cher amour! Mon petit bijou; tu te portes bien, n'est-ce pas?—E la Schönfeld, dopo averla baciata, ribaciata con gran trasporto, la condusse ancor più vicino alla finestra, per vederla bene.—Oh, les beaux yeux qui ont pleuré tant de larmes!—e tornò a baciarla anche sugli occhi—Mon ange adoré!…
Era proprio stata l'apparizione di un angelo!… Com'era entrata? Aveva suonato il campanello?… Sì?… Non avevano sentito niente!… Ma erano tanto infervorati nei loro discorsi!… Poi, il contessone fu magnifico nella sua franchezza, nella sua lealtà. "Perchè ménager delle scuse, dei pretesti? Lo aveva promesso a Eleonora: voleva lasciarli soli. Era cosa troppo naturale! Capiva anche lei, dopo tutto quello che era successo avevano bisogno di parlarsi, di consigliarsi, di intendersi. Ma con altrettanta franchezza dichiarò a monsieur le duc che da quel giorno, e finchè la sua posizione vis á vis della signorina Eleonora, non fosse diventata chiara e regolare, la porta della contessa Schönfeld sarebbe stata sempre chiusa per lui." Ciò detto se ne andò, col passo maestoso e collo strascico della vestaglia rossa che spazzava la polvere. Se ne andò…. ma solo nella stanza attigua, dove la sentivano camminare, vestirsi, frugacchiare, parlare ad alta voce colla cameriera.
Nora si tirò in fondo, proprio in un canto, dentro il vano della finestra, e chiamò lì con un invito degli occhi e con un cenno del capo anche il Casalbara: lo fissò colle pupille lucenti, e gli parlò, vicino vicino, a voce sommessa, perchè la Schönfeld, caso mai ascoltasse dietro l'uscio, non potesse sentir niente.
…. Finalmente!… Era lui!… lo rivedeva…. Era lì…. Gli poteva parlare! Oh, quanto aveva sofferto!… Com'era stata cattiva quella gente! Adesso voleva una sola promessa, un giuramento da lui…. Doveva partire quel giorno stesso!… Andar via, molto lontano, senza dir dove…. lo avrebbe detto soltanto a lei! Lo zio era fuori di sè!… Voleva ammazzarlo!
Il Casalbara, guardandola, sorrise intenerito, ma sicuro di sè; e Nora, in un impeto, coll'abbandono naturale in chi ama e ritrova l'amor suo, dopo aver tanto temuto per lui, dopo aver tanto sofferto, gli gettò le braccia attorno al collo, e così, tenendo la testina reclinata sul petto del Casalbara, in un atteggiamento dolcissimo di riposo e di pace, parlando e sorridendo mentre dagli occhi socchiusi scorrevano tacite, scorrevano calde le lacrime; parlando, bisbigliando appena colla voce bassa, sommessa, leggera come un lamento e come una carezza, continuava a pregarlo, a supplicarlo di partire, subito subito, senza dir dove, a nessuno, proprio a nessuno…. soltanto a lei…. a lei sola, a lei sì…. a lei tutto!
Oh, finalmente respirava! Tornava a vivere!… Non gli dava più del lei nè del voi, gli dava del tu. Lo chiamava Giovanni, arrossendo ancora nel vincere la propria timidezza. Ma voleva chiamarlo Giovanni, semplicemente, perchè aveva diritto, come aveva diritto a quell'ora d'incanto, di beatitudine. Oh! l'aveva guadagnata!… L'aveva meritata!… E si stringeva più appassionatamente al collo di lui; si abbandonava tutta sul suo petto, amorosa, desiderosa, e col piedino inquieto, fremente, premeva il piede del Casalbara, che avendolo rattrappito nella scarpetta attillatissima che gli faceva male, cercava di sfuggire, di sottrarsi adagio, delicatamente a quella pressione.
—Rispondimi…. rispondimi…. Dimmi di sì!… Prometti, giura….
Andrai via?
—Stella…. Stella cara! Come potrei prometterti una…. viltà?
—E allora?…—esclamò la fanciulla alzando il capo, fissandolo spaurita, ma sempre tenendosi colle braccia strette al suo collo.
—Vedremo, cara…. penseremo insieme!… Ma tu non tremare così…. non aver paura per me…. Rassicurati…. credimi…. non hai nulla a temere.
Anche il Casalbara parlava assai sommessamente, colla voce rotta, velata. Quella fanciulla così buona, che non vedeva altri che lui, che non pensava che a lui, alla sua vita, alla sua sicurezza, lo commoveva profondamente.
—Va via! Va via! Sono troppo inquieta! Sono troppo spaventata per te!—e gli disse ancora:—Va via,—con un'espressione, una supplicazione così tenera e dolce come lo sfiorare di un bacio. Poi tornò ad appoggiare la testina, a riposarsi affranta dal dolore e dall'amore sul petto del Casalbara.
Il duca la guardò, si chinò, la guardò più vicino…. e la baciò sulla guancia accesa, bagnata di lacrime. La baciò lentamente, leggerissimamente, trattenendo il respiro, come se baciasse una cosa santa. E non c'era la passione, non c'era la sensualità in quel bacio, ma tutta la gratitudine più viva che gli traboccava dall'anima: un senso di rispetto, di adorazione umile, religiosa.
—Ti hanno spaventata, povera bambina mia?
La fanciulla rispose con un fremito, ma non si mosse. Rimase lì, quieta, con gli occhi socchiusi come a godere l'estasi di quell'istante.
—Ti hanno fatta soffrire…. bambina mia cara?
—Sono cattivi…. tanto tanto cattivi….
—Chi lo è stato di più?… quel…. Laner?
—No!—esclamò la fanciulla con un'altra voce, rizzandosi a un tratto e allontanandosi.—Lo zio Matteo!
Il Casalbara si avvicinò lui, di nuovo. Nora, che era subito riuscita a vincere quel sentimento strano, improvviso, istintivo di dispetto, di rivolta, tornava a guardarlo buona, timida, amorosa…. Il Casalbara, con un braccio cingendole la vita, la portò di nuovo nel cantuccio della finestra, dietro le tende, accarezzandole delicatamente la testina bionda, appoggiandola, premendola delicatamente sul proprio petto.
—Cosa ti ha fatto lo zio Matteo?… Ti ha sgridata?
—Mi ha battuta.
—Batterti?… Ha osato batterti?—esclamò il Casalbara, tremante di collera.—Ah! ma per Dio!… questo no! no! Non succederà mai più!… Guai! Ci sono io!… Guai!
—Era come pazzo, voleva strozzarmi. A fatica mi hanno strappata dalle sue mani; mi hanno portata via. Guarda!—E diventando rossa, di fuoco, per la nuova prova d'amore, di tutto il suo amore che gli voleva dare,—il sacrificio più grande e più caro della amante all'amato, il sacrificio, l'oblio del proprio pudore,—sciolse di colpo il nodo della cravatta lilla, slacciò nervosamente, precipitosamente i bottoni del vestito, della camicetta, e sul collo, fin giù sulla spalla, gli mostrò un livido e una piccola graffiatura.
—Povera…. povera bambina mia….—balbettò il Casalbara, e mentre appassionatamente la baciava lì su quel livido, su quella graffiatura, piangeva, piangeva commosso, intenerito.
—Où diable as tu fourré l'eau de Cologne, ma bête?—strillò a un tratto, nell'altra stanza la contessa Schönfeld.
Nora trasalì, respinse il Casalbara, si abbottonò in fretta la camicetta, il vestito, e rifece il nodo alla cravatta.
—È stata anche colpa mia….—mormorò abbassando il capo ancor più timida, più titubante.—Perchè mi lasciassero in pace…. perchè non mi tormentassero più coi loro progetti, colle loro idee di matrimonio…. per farla finita una buona volta e per essere assolutamente libera, padrona di me, ho…. ho confessato…. ho esagerato….
Non potè finire: si nascose il viso colle mani: aveva troppa vergogna!
L'altro sorrise a quella bimba, scrollando il capo: adesso capiva il "tutto quanto" della signora Schönfeld! Ed era un'altra prova del come era amato, del come Eleonora aveva perduta la testa, si era esaltata per lui! E anche il Casalbara, si esaltava a sua volta, era fuori di sè.
—Non piangere più! Non piangere più! Nessuno avrà più il diritto di tiranneggiarti, d'imporsi. Devono rispettarti tutti…. come una regina: la mia regina!—E balbettando, esitando, tremando, le domandò:—Al…. al caso…. sa…. saresti di…. disposta…. anche a…. a…. ad abbandonare Milano? A venire con me? A Casalbara…. poi qualche mese d'inverno a…. Bergamo?
—Con te?… Subito. Dove vuoi, quando vuoi. Subito!
—No! No! Subito no!—esclamò l'altro spaventato per quello che aveva detto, per essere andato tanto innanzi senza accorgersene.—Bisognerà…. aspettare qualche mese e intanto…. non una parola a nessuno…. soltanto, se sarà assolutamente necessario, a tuo zio, ma colla sua parola d'onore di non dir verbo, di non fiatare con anima viva. Si saprà poi…. a suo tempo quando tutto sarà…. sarà già stato combinato e celebrato…. fra di noi…. a Casalbara….
Nora finse allora di comprendere che si trattava del matrimonio.
—Tua moglie?—rispose vivamente, ma risolutamente, diventando grave, serissima.—Questo mai!
—Perchè?… Non vuoi?…—domandò il duca maravigliato.
—No, non voglio: tua moglie mai!
E Nora, fissa, risoluta, più che mai ostinata, non rispondeva altro che "no, perchè di no, tua moglie no, assolutamente no" a tutte le domande, a tutte le interrogazioni del Casalbara. Ma si capiva bene che non voleva essere sua moglie perchè non voleva che lui gli facesse quel sacrificio, che abbassasse il suo nome fino a lei, perchè non lo voleva legare, sacrificare, perchè non gli voleva pesare nella vita. Voleva essere amata, soltanto amata, senza mai un rimpianto, senza mai un pentimento, senza mai costargli il più piccolo dolore, il più piccolo rammarico.
E il Casalbara, sempre tutto sossopra, con la testa, col cuore, col sangue in fiamme, il Casalbara che non capiva più niente, nè quello che diceva, nè quello che faceva, nè quello che voleva, nè quello che prometteva, implorava lui stesso perchè Eleonora non fosse così fiera, così ingiusta, così ostinata, così crudele, perchè cedesse alle sue brame, perchè lo rendesse felice, orgoglioso, accettando di essere sua moglie…. lei che si era mostrata degna di diventare una regina, di essere innalzata sopra un trono sfolgorante, lei che era una stella, la sua stella del paradiso….
Tremava, ansimava, sudava, tossiva. Tutti e due, sempre nel cantuccio della finestra, dietro le tende, tutti e due abbracciati, continuavano sempre a parlare, tutti e due piano, sommessamente. Lei continuò a dire di no, "no, soltanto no, tua moglie no." E il Casalbara a scongiurare, a protestare che era lui immeritevole di un tanto tesoro, di un tanto sacrificio; del sacrificio immenso che essa gli faceva della sua giovinezza, del dono splendido della sua bellezza divina…. a lui povero vecchio…. Era la prima volta che la commozione e la gratitudine gli strappava quella confessione "a lui, povero vecchio" che sarebbe stato degno appena appena di adorarla in ginocchio. Era lei, la fanciulla grande, generosa, sublime che recava, su quei suoi ultimi anni, tanta ricchezza, tanta benedizione di amore, un così vivo raggio di felicità e di vita.
E mentre la fanciulla, abbracciata, baciata, supplicata, s'irrigidiva nel suo "no, no" e scrollava il capo tristamente, melanconicamente, come se da quella domanda, da quell'offerta di matrimonio fosse stata strappata al suo sogno, a' suoi incanti, mentre il Casalbara continuava a pregarla, a scongiurarla, ad implorarla, la contessa Schönfeld, nell'altra stanza, faceva tremare i vetri coi passi pesanti e strapazzava la cameriera:
—Le diable m'emporte, caara da Dio, ma tu faresti perdere la pazienza anche a un santo! Dove hai ficcato lo spazzolino dei denti e l'acqua del dottor Pierre?…
Matteo Cantasirena aspettava il ritorno di Nora, seduto nel seggiolone del suo studio. In quel momento non fantasticava progetti, non ruminava articoli: l'occhio fisso, l'orecchio attentissimo, aspettava ansioso di udire i passettini rapidi, risonanti sulla scala. Ma d'un tratto, si accorse dallo sbattere degli usci, dal gridare, che Nora era già tornata a casa, senza che l'avesse sentita venire.
—Nora! Eleonora!—e si precipitò nella camera della ragazza.—E così?… Dunque?…
—Adesso…. un momento!…—Chinata sulla catinella, Nora si lavava diguazzando, spandendo l'acqua tutt'intorno. Si lavava la faccia, le mani…. Forse i baci, le lacrime del Casalbara?
—Ah!… Che delizia!—e respirava forte, ridendo di piacere, mentre si asciugava il collo e il viso morbido e fresco.
—Dunque?… E così?—ripetè Matteo. E diventava sempre più ansioso.
Nora, mentre infilava il corsè, guardò lo zio con un'occhiata espressiva, accennando di sì. Poi si voltò verso lo specchio per ravviarsi i capelli.
Matteo, rassicurato, riprese colla calma l'aria sua dignitosa. Guardò nel corridoio se Evelina stesse a spiare, chiuse l'uscio, si sdraiò nella poltrona più comoda, e colla mano indicò a Nora di sedersi sopra un'altra piccola poltroncina accanto alla finestra.
—Sentiamo.
Nora gli disse in due parole della domanda formale di matrimonio e come lei avesse finito per accettare.
—Ci sono per altro, due condizioni.
—Quali?
—Fin dopo il matrimonio, che si farà a Casalbara, il segreto dev'essere assoluto, generale.
—Poi?
—Poi, quasi tutto l'anno rinchiusa a Casalbara, e i tre mesi d'inverno passarli a Bergamo!
—In quanto al segreto,—ripigliò Cantasirena, dopo qualche istante di meditazione,—noi potremo anche, mettiamo, non parlarne. Ma gli altri? I giornali? Si tratta del più fausto avvenimento domestico di due famiglie insigni nel patriottismo italiano! Io stesso, come potrei tacere, per esempio, col ministro dell'interno, col presidente della Camera…. e con Ernesto Rossi che ti ha tenuta a cresima? In quanto poi al vivere a Casalbara e a Bergamo, ciò dipenderà…. da te!
Che cosa aveva Nora? A che pensava? Certo, non a quanto lo zio Matteo le andava dicendo. Seduta presso la finestra, si sventolava adagio adagio. Le gambe incrociate, strette nel vestito, diritte, distese, certe volte avevano tremiti: le punte dei piedini si movevano irrequiete. A che pensava?… Guardava, fissava l'ultima striscia luminosa del cielo, che appariva appena sulle case alte…. A che pensava? Era assorta, intenta, era diventata pallida: pallida e triste. Erano i nervi, eccitati dalle commozioni di quei giorni? Era la stanchezza, la fatica fisica, morale che aveva dovuto sostenere e che si faceva sentire allora, in quel primo momento di riposo? Oppure, adesso che era tutto finito, che aveva raggiunta la sua mira, che il sogno si era avverato, adesso che l'ambizione era soddisfatta, sentiva forse, per la prima volta, che non era soddisfatto il suo cuore? Era il rimpianto occulto, profondo, per la grande rinunzia dell'amore?… Era il rimorso?…
Matteo continuava ad osservarla.
—Sei un po' nervosa?… Sei nervosa; si capisce. Mah!… Sono i momenti più solenni della vita.
Si alzò e la baciò sui capelli.
—Figliuola mia; bisogna battere il ferro finch'è caldo! Domani andremo insieme a casa del tuo Giovanni, a fargli una bella improvvisata. Voglio essere il primo a dimenticare…. Giovedì poi, lo inviteremo a pranzo. E che pranzettino! Colla mia brava Gioconda faremo miracoli! Intanto, subito, gli potresti scrivere due righe, per avvertirlo che io già so tutto e che vi ho perdonato. Giovanni è un gentiluomo, e manterrà la sua parola. Ma è amico del Kloss, e noi dobbiamo diffidare del Kloss!… Oh! quei boemi! Nemici sempre dell'Italia.
La ragazza continuava a tacere e a guardar per aria: ma batteva i piedini e si sventolava più forte. Soltanto quando lo zio Matteo si avviò per andare a chiamare la "cara Evelina" e la "brava Gioconda" per metterle a parte di quella gran notizia, Nora si alzò e gli andò incontro, fermandolo sull'uscio, fissandolo.
—E Pietro Laner?
Cantasirena divenne rosso dalla collera.
—Non parliamo di quell'ingrato! Non avvelenare la mia prima ora di felicità!
E siccome Nora non si mostrava scossa da quel furore, corse di là a prendere una lettera.
—Leggi!…
Quella lettera non era scritta dal Laner, ma dal suo avvocato. Era l'intimazione per il pagamento delle ventimila lire ed il resto, entro otto giorni.
—Ben venga la guerra!—gridava Matteo Cantasirena.—Non ho mai indietreggiato di fronte al nemico. Faremo causa!
—No, il signor Laner deve essere pagato.
Lo zio Matteo si lasciò cadere sulla poltrona gemendo.
—Come si fa? Milano è diventato irriconoscibile! Tutti spiantati, diffidenti!
—Parlerò io.
—Col Laner?
—No, con…. quell'altro.
—Con Giovanni?
—Sì. Gli confesserò io stessa questo debito e dovrà pagarlo!—esclamò Nora collo sprezzo sdegnoso, astioso di tutte le donne, nobili e plebee, per il danaro di colui che le compera, sia marito, sia amante.
—Per amor di Dio! Non seccare Giovanni con queste miserie! Tutto a suo tempo! E poi, ricordati: tu non gli devi mai parlare del Laner; mai! L'amore dei vecchi, cioè…. dei mariti, è sospettosissimo, gelosissimo!
—Tanto più se è geloso. Pagherà tanto più in fretta, trattandosi appunto del signor Laner.
—Ma la mia, e anche la tua dignità?…
—Ha dato le ventimila lire per il giornale quando…. quando c'erano in casa…. altri progetti.
Matteo Cantasirena guardò Nora maravigliato:
—Brava!… Bravissima. E poi è la verità! E ricordati: non si può inventar niente che sia più vero della verità! Il Casalbara dovrà apprezzare moltissimo questo tuo sentimento di delicatezza. Benissimo!… Ma non è una confidenza che tu possa fare al tuo Giovanni nè oggi, nè domani…. Bisogna ottenere da quel…. Laner la dilazione di un mese. Fra un mesetto, anche il mio amico Fara-Bon, anche La Navigazione Cisalpina, avranno fatto, mercè questo nostro matrimonio, un passo gigantesco!… Allora anche per le ventimila lire, ci penso io!… Stasera parlerò col Prefetto. È indecoroso, che ancora non si sia pensato a un ricordo marmoreo per il Paleocapa milanese!
Ma a questo punto, s'interruppe, battendosi la fronte:
—Ecco un'idea!… Il duca Giovanni di Casalbara, senatore del Regno, firmerà per il primo…. E a Pietro Laner, ci penso io!… Abbaia…. ma non morde. Se potessi averlo sottomano….
Cantasirena tornò a rannuvolarsi; tornò meditabondo: raccomandò a Eleonora di scrivere subito "al suo Giovanni" e passò nello studio lentamente, a capo chino, strascicando, al solito, i cordoni della vestaglia.
Era un affar serio col Laner! Quel trentino era diventato un tirolese senza creanza!…
E pensava come pigliarlo.—Scrivergli?… Che cosa?… Dove?…
Ma era una buona giornata, ed ebbe un nuovo lampo di genio:—Evelina!
E corse sull'uscio a chiamarla.
—In quali rapporti sei con Pietro Laner?
Evelina fissò lo zio attentamente.
—Non so…. Come prima.
—Non ti ha più scritto? Non ha più cercato di vederti?
—No.
—Bell'asino!—Ma subito Cantasirena tornò a calmarsi, e prese la mano di Evelina, stringendola con effusione.—Tu devi aiutarmi; devi farmi trovare col Laner! Gli scrivi di venire. Gli devi parlare, per cosa che ti preme, anzi che gli deve premere assai. Venga alle dieci: fino a mezzogiorno sei sola.
Evelina continuava a fissare lo zio Matteo attentamente, ma non arrivava a capir bene.
Quell'altro sorrideva, ma non voleva spiegarsi di più, e cambiò discorso.
—Saprai che il Casalbara si è deciso. Mi ha scritto, domandando la mano di Eleonora, e giovedì l'avremo qui a pranzo.
—Il Casalbara? la sposa davvero?… È sicuro?…—ed Evelina si rizzò più gobba, fissò lo zio Matteo cogli occhi più loschi, mentre una vampa rossiccia, biliosa, le accendeva la faccia gialla.
La ragazza era invidiosa; bisognava calmarla.
—Povera Nora!…—sospirò lo zio Matteo.—La sposa…. ma…. a qual prezzo!… Un marito vecchio, gelosissimo. Io poi, non mi stupirei, se Nora, adesso che l'ha spuntata col Casalbara, cominciasse a sentire un po' di bruciore per l'irredento menestrello.
—Capacissima!—ed Evelina diventò ancora più rossa.
Cantasirena notò il livore, l'invidia e una punta ancora più feroce di gelosia.
—Bisognerebbe sapere,—soggiunse poi,—dove quel Laner è andato a ficcarsi.
—È correttore di bozze alla Gazzetta Lombarda.
—Come lo hai saputo?
—Da Taddeo. Quando lo hai mandato a cercare ai Giardini, coi cinquanta franchi, Taddeo lo ha trovato in uno stato da far compassione: non lo ha voluto lasciare; aveva paura a lasciarlo solo! Più tardi hanno incontrato Paolo Jona; allora il signor Laner è rimasto con lui e Taddeo è tornato a casa.
Al nome di Paolo Jona, il direttore della Durlindana, giornale umoristico illustrato, la faccia di Matteo Cantasirena si oscurò. Era l'unico giornale che gli incutesse un serio timore fra quanti lo attaccavano sempre, a sangue.
A Giulio Cesare faceva paura la gente cupa, taciturna: a Matteo Cantasirena faceva paura la gente che sapeva ridere. Alla polemica, all'attacco violento di un giornale serio, rispondeva, o se ne infischiava: la caricatura, a volte profondamente atroce, che faceva rider tutti per una settimana, gli rompeva le scatole.
—Paolo Jona,—borbottò.—Buffoni del giornalismo!… È stato Paolo
Jona a farlo entrare alla Gazzetta Lombarda?
—Sì; ma soltanto tre giorni fa.
—E questo come lo hai saputo?
—Da Taddeo.
—Ma con quel Taddeum non fai altro che parlare di Pietro Laner?
Da gialla, da rossa, Evelina diventò verde per la rabbia, e non disse più una parola. Dopo un momento, stirò lo scialletto sulla spalla gobba, e uscì tranquillamente, come un'ombra, colla testina storta e gli occhi più loschi.
Matteo Cantasirena passeggiava in su e in giù sbuffando, borbottando contro la Durlindana, contro quello "sparafucile delle plebi" di Paolo Jona….
Ma però—pensava—anche Paolo Jona dovrà andar adagio…. col duca
Giovanni di Casalbara: coi morti non si scherza.
Coi morti; perchè il Casalbara era un vivo che rappresentava un morto glorioso; era il tabernacolo delle sante memorie…. E il Casalbara sposava Eleonora!
Era vero? Il Casalbara diventava suo nipote! Che nipote? Diventava suo figlio!… Era vero; proprio vero!
Era stato tutto così improvviso, così strano, così incredibile! Cominciava soltanto allora a capire, a persuadersi, a sentire tutta la gioia di quella gran fortuna. Si fregava le mani, rideva.
Che angelo, quella sua Eleonora cara!
Non più nemici! Non più inquietudini, e la "Cisalpina" a gonfie vele, col nome del Casalbara sui grandi manifesti! Quel casato glorioso avrebbe sollevato l'entusiasmo…. e le azioni! Non era vero che la nota del patriottismo fosse spenta! L'Italia non era mai stata ingrata co' suoi martiri, co' suoi fattori…. Era la gran madre comune, era la patria!
E Matteo Cantasirena s'inteneriva, mormorando:
—Oh la patria! La patria! Una gran bella cosa la patria!…
Ma un nuovo pensiero lo turbò:
—Basta che il Kloss,—sempre l'Austria!—non ci si metta di mezzo!
Guai perder tempo!
Corse fuori, raccomandò a Nora, traverso all'uscio, perchè si era chiusa in camera, di scrivere subito a Giovanni, e si precipitò in cucina, abbracciando commosso la Gioconda, con effusione paterna, mentre Numa, ancora spaurito per le burrasche di que' giorni, scappava ad appiattarsi nella buca nera sotto i fornelli.
—Anche tu, finalmente, la mia brava Gioconda, avrai il giusto premio del tuo disinteresse!—E dopo averle data quella gran notizia del matrimonio di Nora, cominciò subito a concertare il pranzettino pel giovedì.—Un pranzettino…. proprio coi fiocchi! Un poema! Un vero poema…. paradisiaco!—e gli occhi del direttore s'incontravano in quelli della cuoca, e sfavillavano insieme per la lussuria della gola.
Poi uscì di casa: andò a passeggiare per Milano. Voleva far vedere a quei pezzenti della Costituzionale, che lui era sempre vivo! Vivo più che mai!… Era gongolante, raggiante…. Avrebbe fondato subito un altro giornale "Il Fara-Bon!"
E i tirolesi?… Ma che! Lo zio, più che lo zio, il suocero, più che il suocero, il padre del duca di Casalbara, non aveva paura dei tirolesi! Quando ne incontrava qualcuno, era lui il primo a fermarsi sorridente.—Carissimo!—e profondeva le strette di mano.
L'altro, sebbene titubante, stava per battere la solita solfa, ma
Cantasirena gli chiudeva la bocca.
—Non amareggiate il mio primo istante di benessere, di felicità!…—E, raccomandando il segreto, perchè prima, per un doveroso riguardo, la gran notizia doveva essere partecipata a Roma, annunziava il matrimonio della sua cara Eleonora.
—A Milano, siete il solo a saperlo. Ma è giusto che io faccia un'eccezione per voi! Matteo Cantasirena non è un ingrato!
E ricevute le congratulazioni, e ricambiati i complimenti, egli indugiava ancora, stava lì fermo, su due piedi, lisciandosi il bel barbone striato d'argento, pompeggiandosi, continuando a parlare, a parlare, a descrivere, socchiudendo gli occhi, maestoso, le ricchezze, gli splendori della villa, ma che villa!… della reggia di Casalbara; e a raccontare, a ricordare sospirando, soffiando, la ferocia della repressione austriaca, e gli orrori di Josephstadt.
Anche quei tirolesi, in fondo, erano buonissima gente. La Gioconda li calunniava!… Oh, assai migliori degli uomini del suo partito!…
Con la notizia ufficiale del matrimonio di Nora, tornò dal Brunetti a farsi dare dell'altro denaro, e riuscì a cavare un'ultima goccia di sangue al suo ex amministratore, il povero Bizzarelli. Poi, tornando a passeggiare, entrò dal Ferrario a ordinare dei fiori per la sua Eleonora; dal Testa a comandare una sporta di roba e di bottiglie. Si sentiva appetito, ma era ancora troppo presto. Prese un brum, andò a fare un girettino sui bastioni, ma in carrozza cambiò idea, e invece che a casa, andò a pranzare al Cova passando prima dalla pasticceria, dove in un orecchio, annunziò la fausta novella anche alla signorina Annetta, che stava al banco.
Più tardi, pausando, attraversò la Galleria per andare al Manzoni.
Voleva vedere il prefetto: Fabio Cunctator!
Bisognava muoversi per le elezioni del novembre! Le istruzioni del
Governo erano manifeste. Combattere a tutta oltranza nel collegio di
Primarole il Bonforti, nel collegio di Castellanzo il Ghirlanda!
—Questo prefetto…. un'incapacità assoluta! Crede che l'"abilità" consista nel non far niente. È un funzionario gretto, un burocratico senza slancio!
Quando Matteo entrò al Manzoni, il dirigente che lo vide passare, voleva scansarlo; ma l'altro gli corse dietro. Si conoscevano da tanti anni: in varie occasioni si era prestato cortesemente. Matteo Cantasirena dimenticava qualche volta i nemici: gli amici mai. Sua figlia era sposa.
—Ma…. silenzio con tutti. Mi date la vostra parola d'onore? Sposa il duca di Casalbara.
E cercava nelle tasche la lettera della domanda ufficiale….
Il prefetto lo accolse freddamente, con un cenno del capo, senza dargli la mano, che teneva fra i bottoni del soprabito, e continuò a star attento al dramma: si rappresentava il Nerone.
Cantasirena si avanzò in punta di piedi, per non disturbarlo…. gli si sedette accanto…. Il prefetto rimase impassibile. Solo dopo qualche tempo, coll'accento marcato, meridionale, osservò che la ragazza che faceva da Egloge era abbastanza bravina.
Cantasirena guardò anche lui col cannocchiale.
—Sì, bravina,—rispose,—specialmente le gambe.
L'altro non sorrise; continuò a stare attento.
Recitavano male.
—Ah, povero Nerone!—esclamò di nuovo Cantasirena;—assassinato dai comici dopo esserlo stato dai pretoriani!… I pretoriani, sempre infidi, allora come adesso!
Questa volta anche il prefetto sorrise e assentì col capo.
—Senza contare che adesso abbiamo i pretoriani…. rompiscatole, come quel Bonforti! Quel Ghirlanda!
—Sicuramente!—e il prefetto sospirò.
Sospirò anche Matteo Cantasirena con tutto il fiato del suo pancione. Poi si alzò, restò ritto in mezzo al palco, guardando il teatro, guardando la scena, e finito l'atto sedette egli pure al parapetto.
—Non c'è che un mezzo,—disse poi sommessamente, e avvicinando il bel faccione tentatore, mentre il prefetto rimaneva rigido al suo posto—non c'è che un mezzo per vincere a Primarole e a Castellanzo.
—Per me…. io me ne lavo le mani; e l'ho scritto anche a Roma. Dov'è impossibile vincere, la lotta è inutile e pericolosa. Primarole e Castellanzo sono due rocche inespugnabili.
—Inespugnabili col fuoco…. Ma coll'acqua?—E Matteo sorrise, socchiuse gli occhi, tornò a sorridere. Era un sorriso di adulazione, di protezione, di finezza, d'ironia….
L'altro, che non capiva, stava sempre sulle sue, e sempre più in sospetto.
D'un tratto, Matteo si alzò, tornò a sedersi accanto al prefetto, nell'ombra, e gli disse cambiando tono, risolutamente:
—Commendatore: verrò a trovarla domani: dobbiamo discorrere a lungo. Si tratta di un progetto colossale, che indipendentemente dalle elezioni, da ogni idea politica, può essere di una straordinaria importanza per l'avvenire economico del paese. Noi non abbiamo bisogno del Governo. L'idea è grandiosa: pareva un'utopia al Paleocapa, e il Fara-Bon ha saputo renderla attuabile. Il Comitato è pressochè costituito. Metteremo alla testa il duca di Casalbara.
—Benissimo!—esclamò il prefetto, con un'affermazione che pareva anche un saluto, per quel nome,—Casalbara.
Matteo soffiò più forte, e ripetè con maggiore solennità:
—Noi non vogliamo niente dal Governo; il solo appoggio morale; e in ricambio—questo lo prometto io, Matteo Cantasirena, privatamente—il Bonforti e il Ghirlanda saranno battuti. Il sottosuolo politico-elettorale di que' due collegi rimarrà sconvolto dai nuovi interessi e dai nuovi interessati alla Navigazione Cisalpina.
Il prefetto era tornato rigido, serio, impassibile.
—Il duca di Casalbara è con noi; e la villa di Casalbara è vicina a
Primarole, vicina a Castellanzo.
—Ma come potete assicurare che…. il Casalbara sia con voi?
—Sposa la mia figliuola, Eleonora!—esclamò Matteo Cantasirena, sorridendo, senza dare nessuna importanza a quella notizia.—Non volevo parteciparle questo matrimonio perchè ancora vogliamo tenerlo segreto; ma, sono sicuro, mi userà la cortesia di non parlarne!…
…. Quando Matteo Cantasirena fu per andarsene, il prefetto lo accompagnò fin sull'uscio del palchetto:
—Dunque, domani, vi aspetto alla prefettura, dopo le due?
—Farò di tutto per non mancare. Al caso, manderò un bigliettino;—e Matteo soggiunse, sorridendo maliziosamente:—Vado a portare i vostri saluti a Egloge!
Poi se ne andò, dondolando, sul palcoscenico per vedere Egloge da vicino.
La notizia della risurrezione di Matteo Cantasirena, del matrimonio, si era sparsa per tutto il teatro. Nerone gli corse incontro, con Egloge, circondato dai romani.
—Sono cinque sere che recito al Manzoni e lei ancora non si è lasciato vedere! Non è il modo di trattare cogli amici. No!… Mi lasci parlare perchè io—basta…. io…. sarò un cane….—e Nerone rideva lui per il primo della enormità che diceva—ma qui, qui—e si batteva sul cuore—ce n'è! ce n'è!—E mi deve fare un favore grande: mi deve sentire in questa scenettina che faccio adesso con Atte….
—Se proprio…. è per farvi piacere….
Matteo Cantasirena sbadigliò. Si avviò lentamente, più faticosamente lungo il corridoio; entrò in un palchetto che l'amministratore stesso della compagnia era corso innanzi a fargli aprire. Si ammirò nello specchio; si fece portare un cannocchiale, cercò, guardò Egloge fra le quinte…. si sdraiò al parapetto, sorrise a Nerone che appena entrato in iscena lo aveva cercato coll'occhio…. poi chinò sul petto il grosso testone e, taffete, si addormentò.
Pietro Laner era infelicissimo. Sconvolto, straziato dal dolore, dall'amore, dalla collera, aveva impeti di passione e di gelosia terribili;… eppure sperava, sperava sempre. Ed era quel barlume di speranza che lo teneva ancora a Milano…. forse era soltanto quell'ultima illusione del cuore che gl'impediva di diventar pazzo, pazzo davvero, e di commettere un delitto contro sè stesso o contro quella svergognata, infame, che si vendeva a un vecchio!
Ma la svergognata, l'infame era Nora; Nora che gli aveva promesso, giurato tutto l'amore colla sua bella voce armoniosa, cogli occhi appassionati e teneri:
"….Ti amo! ti amo! ti amerò eternamente!…"
Era credibile che Nora potesse tutto dimenticare? Dimenticare col cuore, coll'anima…. dimenticare coi sensi?
No, non era credibile; era impossibile. Era uno stordimento dell'orgoglio, della vanità, dell'ambizione, dei danari!… Era quell'essere ignobile del direttore che l'aveva abbindolata, raggirata; era un'illusa o una sedotta, ma pure era Nora, la sua Nora, e non avrebbe potuto dimenticare….
"….Ti amo! ti amo! ti amerò eternamente!"
Ma Dio, Dio santo, non avesse cuore, era pur fatta di carne e di sangue!… Doveva sentire la diversità del suo amore, dall'amore d'un vecchio, la diversità de' suoi baci dai baci di un vecchio! Ma non avrebbe mai, mai, un fremito di ribrezzo, un impeto di rivolta, un pentimento, un rimorso?…
E Pietro Laner tornava a sperare. Aspettava una lettera di Nora, a tutte le ore del giorno. A casa, spiava, tremava quando arrivava il postino. Alla Gazzetta Lombarda aspettava sempre il cupo tuc-tuc della gamba di Taddeo, che arrivasse con un biglietto. A condurlo dall'avvocato, a spingerlo a fare quell'intimazione delle ventimila lire, era stato Paolo Jona. Il Laner aveva accettato il consiglio perchè era l'unica via, anche indiretta, anche odiosa, per riavvicinarsi a quella gente…. a Nora. Avrebbero dovuto rispondere, e lui, finalmente, avrebbe saputo qualche cosa: questo soltanto gli premeva.
Se Nora gli avesse scritto, gli avesse detto una parola, egli le avrebbe subito perdonato. Perdonato?… L'avrebbe amata ancora di più! Sarebbe stato più umile.
E soltanto per Nora, per farle migliore impressione, caso mai rincontrasse, le aveva sacrificato anche quegli occhialacci colle suste, che le erano tanto antipatici…. E faceva la posta alla Gioconda.
Per ciò, quando gli giunse la lettera di Evelina, il povero ragazzo, che non era ancora diventato matto pel dolore, quasi lo diventava per la gioia. Certo, Evelina gli aveva scritto per incarico di Nora; di Nora pentita, ma che non voleva essere la prima a cedere….
Le ventimila lire, il direttore, la citazione, non gli passarono nemmeno per il capo!
Nora! Nora! Era stata Nora! Evelina era d'accordo con Nora!
Aveva ricevuto la lettera prima di sera, tornando a casa dalla Gazzetta Lombarda: e doveva aspettare fino alle dieci della mattina dopo!
"Quante ore!… Quante ore!… Come far passare tante ore?…"
In mezzo a quel primo impeto di gioia, sentì nell'animo rinato anche un trasporto più vivo di fede; e insieme con tutte le nuove speranze, ritornarono a galla i pregiudizi paurosi. Corse a ringraziare la Madonna, "la sua" Madonnina buona di San Francesco!… Ma nell'uscir di chiesa si turbò, per aver incontrato un frate: gli avrebbe portata la jettatura!
Che notte eterna, affannata, angosciata!… Sempre dinanzi la Nora e il
Casalbara,—come una volta, nelle notti dell'adolescenza, sempre la
Doralice e il croato. Ma adesso, per di più, che strazio, che furore di
gelosia, che delirio!…
Voleva alzarsi tardi perchè giungessero più presto le dieci; ma poi, appena l'alba, saltò giù dal letto, uscì: aveva bisogno di camminare.
Nora, sarebbe venuta lei ad aprire?… O egli l'avrebbe trovata lì, nella saletta, con Evelina?… Sarebbe rimasta in camera sua ad aspettarlo?…—Ma che importava dove, quando?…—C'era! Ci sarebbe stata! L'avrebbe riveduta!…—E l'immagine di Nora riempiva tutta quella contrada dalla quale non era più passato, altro che di notte; tutta quella casa, che non aveva più riveduta, altro che di notte, quando stava lì, per ore e ore, pauroso di essere scoperto, come un ladro in agguato; stava lì per ore e ore, a girare, a guardare, a spiare…. e ad almanaccare, a fantasticare, a sospettare le cose più strane, più terribili.
Sperava di veder Nora alla finestra; o che le finestre fossero socchiuse, come quando la ragazza era in collera e lo aspettava nascosta dietro le persiane, per vederlo senza lasciarsi scorgere. Invece la finestra era spalancata, il piccolo tappetino del letto buttato sul davanzale….
La Gioconda faceva la camera?… Nora era uscita?
Il Laner si fermò di colpo: non aveva più una goccia di sangue.
—Oh, il signor Pietro!—esclamò la Gioconda, che spazzava l'anticamera. Era quello il giorno del gran pranzo al duca di Casalbara, e tutta la casa, per ordine del direttore, doveva essere in ordine e lucente come uno specchio.
—Il signor Pietro!…—E la Gioconda continuava a fissarlo, col faccione attonito.—Ma sa che lei è diventato brutto?… Brutto da far spavento?
—C'è la signora Evelina?…—balbettò l'altro, che non riusciva a vincersi.
—È di là!… In saletta! E non c'è che lei in casa. La signorina Nora è fuori; il signor direttore è fuori!
E mentre il Laner, colle lacrime alla gola, si avviava per entrare nella saletta, la Gioconda lo seguì con una lunga occhiata canterellando: "Ah, l'amore, l'amore è un dardo!"—e ricominciò a scopare.
—Oh, il signor Laner!—esclamò Evelina alzandosi allegra e sorridente, per corrergli incontro e stringergli la mano. Ma poi, guardandolo, anche Evelina rimase colpita.
—Come sta, signor Laner?
—Bene!—rispose Pietro arrossendo, perchè la ragazza si era levato il pince-nez per fissarlo faccia a faccia.—Bene!…—e abbassò il capo, si chinò, accarezzando Numa che gli era capitato, sfregandosi, fra le gambe.
Evelina era vestita di nero, con un foulard celestino sulle spalle; il vestito e il colore che le stavano meglio. Tornò subito a sedersi e a scartabellare il dizionario.
—Sto facendo il conte Bobboli.
—Il conte Bobboli beì?—domandò distrattamente Pietro Laner, guardandosi attorno in quel salotto che gli pareva mutato, diverso. Era già pentito; aveva rabbia di esserci tornato.
—Sì, il conte Bobboli e Pio Calca. Lo zio Matteo, credo, li vuol cucinare per le prossime elezioni, per contrapporli al Bonforti a Primarole e al Ghirlanda a Castellanzo!—soggiunse sorridendo Evelina, col disprezzo che le veniva dal suo mestiere di fabbricar grandi uomini a un tanto la riga.
Ma l'altro, ascoltava senza capir niente: Evelina ricominciò a scrivere.
—Dunque?—domandò il Laner colla voce grossa, soffocata.—Dunque?… è proprio vero?
—Sì,—rispose la ragazza più col capo che colla voce, lentamente. Poi soggiunse:—Quella lì, non ha mai saputo cosa voglia dire amare…. essere amati!… Oh, non aver cuore…. è una gran fortuna!
Pietro Laner si buttò sopra una seggiola, nascose il capo fra le braccia incrociate sulla tavola, e scoppiò in lacrime.
Evelina si alzò, gli andò vicino, per confortarlo, per consolarlo, accarezzandogli i capelli colle dita leggere, col fiato caldo.
—No! No! signor Pietro!… Non pianga così!… Mi fa troppo male!… Pensi…. lei non è mai stato apprezzato! Non è mai stato capito!… È un grande dolore, sì, è vero; ma se invece fosse poi stato infelice tutta la vita?… Lei è giovane; potrà ancora dimenticare, amare ancora; essere tanto tanto amato, lei così buono, colla sua nobile intelligenza; lei che merita tutto: amore, adorazione, tutto, tutto! Signor Pietro, la supplico, non faccia così!… Mi guardi!… Abbia un po' di compassione anche per me!
Evelina gli alzava il viso con le due mani, perchè la vedesse in faccia, perchè vedesse anche le sue lacrime, poi ricominciava sempre più vicina, sempre più a ridosso:
—E io allora, signor Pietro?… Io che non ho una speranza al mondo? Io che non ho nessuno, che non avrò mai un'anima che mi voglia bene? Nora mi odia, lo zio Matteo mi tiene qui soltanto perchè gli sono utile…. Che cosa sarà di me?…—E la ragazza pure singhiozzava mormorando:—Morire…. morire…. finirla…. morire!
Pietro si asciugò gli occhi, fece forza per vincersi, per non dar troppa pena alla buona Evelina.
—No…. no. Lei troverà sempre chi le vorrà bene…. perchè lei ha molto cuore!
Si guardarono, s'impietosirono l'uno per l'altra e sospirarono insieme. Poi il Laner, con una matita, distrattamente, cominciò a disegnare figure e geroglifici sur un vecchio libro.
Evelina, in piedi, accanto a lui, gli aveva preso l'altra mano e gliela stringeva, con affetto, per confortarlo.
Dopo un istante si guardarono di nuovo: la stretta di mano fu assai più forte, più lunga, e seguitarono a sospirare e a tacere.
Nel salotto non si udiva che il russare di Numa sul canapé, e dalla cucina il rumor sordo dei colpi della Gioconda che batteva le costolette.
—Che cosa sarà di me?—tornò a gemere la fanciulla sospirando.—Cosa farò?… Dove andrò?
—Perchè?—domandò l'altro, tornando a sentir più vivo il suo dolore e soltanto tutto il suo dolore, dopo quel primo abbattimento, dopo quello sfogo di lacrime.
Lì, sulla tavola da pranzo, dove andava sempre a finire tutta la roba, c'era un ritratto di Nora: una prova, mandata dal fotografo.
—Perchè?—ripetè il giovane fissando il ritratto.
—Perchè…. io…. resterò sola,—rispose Evelina,—quando Nora si mariterà…. Resterò sola…. e sarà presto.
—Allora, lei, perchè m'ha scritto? Perchè m'ha fatto venir qui?—proruppe il Laner brutalmente.
Evelina lo fissò smarrita, poi balbettò, chinando il capo:
—Se ho fatto male, mi perdoni!… Che cosa le ho scritto? Non so: non ricordo più. Avevo bisogno di aiuto, di conforto…. Credevo, speravo…. che anche lei desiderasse il conforto di una parola amica….
—Io?… Perchè?… Confortarmi?… Io?…—gridava Pietro, accendendosi, fuori di sè.—Confortarmi?… Se tutti si congratulano della mia fortuna! Sì! Per essermi salvato a tempo!… Anche Paolo Jona me lo diceva: Sei stato fortunato: devi ringraziar Dio!… Oh, se lo ringrazio Dio!… Ti ringrazio! ti ringrazio! ti ringrazio!—E il giovane levava diritto verso il cielo il pugno chiuso. La voce rotta da un tremito convulso, il viso contraffatto, sconvolto, livido, gli occhi torvi, stralunati, ansava, smaniava, pestava i piedi, barcollava come un ubriaco.
—Signor Laner! Signor Laner!—balbettava Evelina spaventata.
—Le fo paura? Ha paura?… Perchè mi ha fatto venir qui, lei? Risponda!—E il giovane, fissandola, le si avvicinò, mentre l'altra premeva già la mano sulla maniglia dell'uscio per essere più pronta ad aprire e a scappare.—Perchè? Deve esserci il suo perchè, se mi ha fatto venir qui! Io sono caduto nel laccio anche stavolta!… Sono corso qui, come una bestia, senza capir niente, ma adesso voglio saperlo! Voglio saperlo!—E perduto affatto il lume degli occhi afferrò Evelina per il braccio, e la buttò in mezzo alla saletta, minacciandola.—Perchè mi ha scritto di venire? Perchè mi ha fatto venire?…. Voglio saperlo!
—Gioconda! Gioconda!—strillò Evelina tutta tremante.
Ma invece della Gioconda, si presentò di colpo Matteo Cantasirena.
—Voi qui? In casa mia? Che volete?
L'esaltazione del Laner era arrivata a un punto tale che più nulla poteva frenarlo.
—Da lei, intanto, voglio essere pagato!… Cogli altri la discorreremo!
—Egregiamente!—rispose il direttore, con solenne sicurezza.—Preme a me, più che a voi di finirla; finiamola! Venite di là!
E si avviò maestoso, mentre l'altro lo seguiva a testa bassa, cogli occhi stravolti.
Entrato nello studio, Cantasirena andò a sedersi alla scrivania, cercò un foglio e lo distese sulla cartella, domandando al Laner che gli stava dinanzi immobile, muto:
—Quanti ne abbiamo oggi del mese?
—Non so,—rispose l'altro colla voce alterata.
Il direttore cercò la data sopra un giornale, poi cominciò a scrivere, e continuò a scrivere sereno, sorridente.
Pietro Laner era sempre in piedi, dinanzi alla scrivania. Dacchè era entrato nello studio col direttore, gli era cominciato un ronzio nelle orecchie, insieme a un rumor sordo, cupo, che diventava sempre più forte. Colla mano si premeva la fronte, si premeva gli occhi: vedeva guizzi, scintille di fuoco.
—A voi!—gli disse il direttore quando ebbe finito di scrivere, piegando il foglio, mettendolo in una busta.—Dal momento che invece di fare una quistione di cuore, voi non fate che una quistione misera d'interesse, tutto resta definito in piena regola.
Matteo Cantasirena dichiarava in quella lettera di avere ricevuto da Pietro Laner di Crodarossa lire ventimila, e si obbligava di restituirle entro un mese, cogli interessi al sei per cento.
—A voi.
E il direttore gli porse il foglio; l'altro non si mosse.
—Se invece del sei per cento, volete il sette, siamo ai vostri ordini.
—Nora…. E Nora….—balbettò il Laner: gli tremavano le braccia; tutta la persona era scossa da un sussulto violento; poi a un tratto barcollò, annaspò colle mani, e stramazzò di colpo, per terra.
—Evelina! Gioconda!—gridò Cantasirena spaventato e commosso.—Evelina! Gioconda!…
Le due donne si precipitarono nello studio.
—Dio! Dio!
—Cos'è successo?
—Il povero Pietro,—balbettò Matteo ansando, sudando, cercando di sollevarlo e di tenerlo fermo.—Ha le convulsioni! Diventa matto! Aiutami, Gioconda!… Evelina! Prendi dell'acqua! Dell'aceto! Una di quelle bottiglie di cognac che ho mandato dal Cova per il pranzo!
Evelina corse a prendere la roba: Matteo e la Gioconda portarono Pietro sul canapé.
—Tienlo forte, Gioconda!
Il Laner diede ancora due o tre scossoni violenti, un gran sobbalzo…. poi rimase fermo, disteso, irrigidito, il viso contraffatto da una smorfia dolorosa, le labbra stirate, la schiuma alla bocca.
—Pietro! Pietro! Signor Pietro!
Evelina lo chiamava per nome, colla voce più tenera, più affettuosa, lo spruzzava delicatamente, gli bagnava leggermente coll'aceto la fronte e le nari.
Invece Matteo Cantasirena, rimesso dal primo spavento, cominciava a brontolare.
—Anche questa mi capita, anche le convulsioni!… Anche il Laner che mi diventa matto in casa…. Ma Gioconda!… Ma Evelina?… Come si fa? E col Casalbara che viene a pranzo! E tutto ancora da preparare!
La Gioconda gli rispose stizzita:
—Bisogna fargli bere qualche cosa di spiritoso.
—Il cognac! Il cognac!—Cantasirena sturò la bottiglia del cognac.
—Pietro! Signor Pietro!—Evelina lo alzò un pochino, lo tenne su diritto col capo, esortandolo carezzevole, mentre la Gioconda gli fece ingoiare due o tre bicchierini di cognac, quasi di seguito: il Laner dolorava, sbatteva i denti.
Matteo ricominciò a camminare in su e in giù, brontolando e se la prese anche con Numa. Una volta che gli capitò tra i piedi, gli tirò un calcio terribile: il gatto rotolò con un miagolio sordo e sparì.
—La finisca! Vergogna!—gridò la Gioconda, strapazzandolo.—Mandi invece a prendere un brum, e faccia presto.
Il direttore uscì, chetamente, senza più fiatare.
Evelina sciolse al Laner il nodo della cravatta; la Gioconda gli sbottonò la sottoveste.
—Appena si può farlo scendere, lo si pone in carrozza, e il signor direttore col portinaio lo conducono a casa.
—Andrò io, invece del portinaio,—soggiunse Evelina.
Pietro aprì gli occhi, ma non capiva più niente, non sapeva più niente, non aveva forza di camminare, di muoversi.
Una carrozza, dopo qualche momento, si fermò dinanzi alla porta.
—Ecco il brum!…—esclamò Matteo entrando nello studio.
—Vengo io pure con te, ad accompagnare il signor Laner,—gli disse
Evelina con voce grave, ma sicura.
Tutti e tre alzarono Pietro, lo tennero in piedi, lo trascinarono adagio adagio…. Matteo Cantasirena e la Gioconda lo portarono fuori sulla scala, lo portarono giù, quasi di peso, tenendolo sollevato per le braccia. Evelina andava innanzi ad aprire gli usci: aprì anche lo sportello del brum…. poi, infine, montò anch'essa in carrozza, e si sedette in faccia a Pietro Laner, prendendogli le mani, accarezzandole, stringendole forte, per fargli coraggio.
Il Casalbara arrivò in punto all'ora del pranzo. Nora lo aspettava alla finestra, e quando vide il magnifico equipaggio, arrossì di piacere e di orgoglio. Sarebbero stati suoi quei cavalli, quella carrozza, quei servi in livrea!… E corse lei ad aprire al duca: lei sola!
Appena il Casalbara fu entrato, stretto nel lungo soprabito, tutto profumato, lucente e biondo, l'uscio fu richiuso pianino pianino….—per non farsi sentire di là!—dicevano gli occhi maliziosetti della fanciulla. La piccola anticamera era buia, e mentre il Casalbara stringeva la mano a Nora, essa gli porse i capelli a baciare, poi si alzò in punta di piedi e gli offrì la bocca.
—Stella!
—Cattivo!… così tardi!
Il duca sorrise di piacere e di orgoglio: ormai tutte le malinconie erano scomparse. Si sentiva sicuro di sè; era fiero e incantato della sua conquista. Con Francesco Kloss non si vedevano più. Il Casalbara gli aveva dichiarato, con un tono altero che non ammetteva replica:
—Professo la maggiore stima, il maggior rispetto alla signorina
Eleonora. Vi proibisco di parlarne leggermente.
E il Kloss gli aveva voltato le spalle.
—Afessi mai prefetuto un così pel…. minestron!
…. Nella piccola anticamera buia avevano durato un pezzo le parolette dolci e le moine.
—Basta! Adesso basta!—disse Nora a un tratto vivamente, sciogliendosi dal Casalbara.
Poi subito si calmò, tornò sorridente.
—Lo zio Matteo ha sentito la carrozza: guai, farlo aspettare a pranzo!
E allegra, saltellante, prendendo il duca a braccetto, lo condusse nel salottino.
—Eccolo! Eccolo, zio Matteo!
Il Cantasirena, sorrise paternamente, ma assai dignitosamente al "caro
Giovanni", e mentre gli stringeva la mano, baciò Nora sulla fronte con
una cert'aria che pareva dicesse: vi abbraccio idealmente tutti e due.
Poi sospirò.
—Questo bel fiore,—e con due dita sotto il mento di Nora, le alzò il visino,—vi compenserà, caro Giovanni, se la mia casa è troppo modesta.
Il Casalbara ringraziò cortesemente, inchinandosi.
—Avrei voluto presentarvi anche l'altra mia cara figliuola, Evelina, la buona Evelina. Ma è fuori di Milano, presso una sua amica ammalata.
Il duca rispose con un complimento; Nora, invece, si oscurò in viso.
Evelina era rimasta presso il Laner per assisterlo, per vegliarlo. Ma il direttore aveva proibito a tutti di far parola con Nora di quanto era successo, fino al giorno dopo. Conosceva e temeva l'umorino bizzarro della ragazza. Avrebbe potuto seccare, far perder tempo, mentre tutti erano occupatissimi per il gran pranzo. E lo zio Matteo aveva detto a Nora che "quel trentino" dopo aver fatto un casa del diavolo, se n'era andato colla sua brava ricevuta! In quanto a Evelina, si sa, non voleva mostrarsi perchè crepava dall'invidia.
Nora aveva creduto tutto…. anche lei, per non guastar la festa. Pure non poteva reprimere il sospetto; e certe volte, col sospetto, un impeto di collera.
—Adesso, caro Giovanni, prima di metterci a tavola, berremo l'amaro
"Etneo". È un regalo del Florio, il buon Florio. Florio e Rubattino!…
Nora portò innanzi al Casalbara, un piccolo tavolinetto intarsiato, colla bottiglia dell'amaro, coi bicchierini di cristallo, e cominciò a versare. Cantasirena, intanto parlava, raccontava del suo caro amico Florio che aveva conosciuto nel sessanta, e di Garibaldi che chiamava soltanto "il Generale", e finalmente del vino di Marsala….
Nel salotto tutto era nuovo, o rimesso a nuovo, ma il salotto non era poi altro che lo studio del direttore, col pianoforte al posto del tavolo da scrivere: il pianoforte aperto, colla musica dell'Ideale spiegata sul leggìo. C'era un profluvio di fiori maravigliosi; le pareti erano coperte di stoffe antiche e di trofei d'armi; e dapertutto ritratti; grande abbondanza di ritratti. Ritratti di personaggi importanti, ritratti di bellezze femminili; queste, per lo più, erano le scolare della ragazza. Il vecchio sofà rimaneva coperto da un magnifico tappeto, ma ancora col cartellino del prezzo…. per una dimenticanza del signor Vergani, che aveva prestato tutta quella roba. E vicino al sofà, un'ampia sottocoppa piena, colma di biglietti di visita; tutti, almeno quelli sparsi sulla superfice, degli uomini più illustri: ministri, altezze, grandi scrittori.
—Un altro bicchierino?…—domandò Cantasirena.
—Eccellente, ma basta così!—E il Casalbara si asciugò i baffi premendovi sopra il fazzoletto con garbo, per non portar via, colle gocce del liquore, anche il color biondo, dorato.
Nora, che aveva voluto bere anch'essa due dita di amaro, scrollava il capo, pestava i piedini, faceva le smorfiette più adorabili, tanto che lo zio Matteo, incantato della grazia, della bellezza della sua "cara Eleoonòra" le prese la testina bionda, la baciò, la premette dolcemente sul petto, dallo sparato ampio, candidissimo…. e fissò il Casalbara cogli occhi umidi. Poi, vincendo la paterna commozione:—Andiamo, figliuoli miei,—disse prendendo Nora sotto braccio da una parte e il Casalbara dall'altra,—andiamo…. a mangiare la pappa!
Anche nella saletta da pranzo, via i libroni, gli scartafacci dei Patriotti viventi, spirava un'aria ammodo, con un odorino di tartuffi delizioso; la tavola, piuttosto piccola, scintillava di cristalli e di argenterie in mezzo alla luce raccolta…. Tutta roba quella, mandata dal Cova; il garzone che l'aveva portata, aspettava in cucina, dando intanto una mano a preparare i piatti.
Il Casalbara, appena a tavola, si sentì subito bene, subito a posto. Nora era incantevole, coll'abitino rosa di foulard, un po' scollato; Matteo Cantasirena era un bel mangiatore e un bel parlatore; il pranzo eccellente, e la Gioconda, che serviva in tavola, metteva appetito anche lei col faccione rotondo e le braccia sode.
Cantasirena parlava di Mazzini, di Cattaneo, di Tito Speri…. A ognuno di quei nomi il Casalbara si tirava su impettito, e salutava con un cenno del capo, coll'aria di essere quasi della famiglia; e anche Nora diventava seria, attenta. Poi, Cantasirena, divagando, entrò a parlare di politica; e allora il Casalbara cominciò a distrarsi e cominciò a cercare col piede sotto la tavola…. Ma quando lo cercava lui, il piedino di Nora gli sfuggiva di sotto e gli occhi della fanciulla sorridevano birichini;… quando, invece, egli stava fermo, il caro piedino veniva subito tentatore, istigatore, a premere il suo lungamente e allora gli occhi dell'amata gli sorridevano languidi.
"Stella!… Stella!… Che stella!…"
—Voi, a Casalbara,—gli domandò d'un tratto il Cantasirena,—cosa ne pensate del Bonforti e del Ghirlanda?
—Io?… Non ci penso affatto!
La risposta ottenne una risatina allegra della ragazza. Sorrise anche il direttore, ma scrollando il capo melanconicamente.
—Vi piace questo Chateau-Laros, caro Giovanni? È del settanta. Epoca memorabile!… Il settanta!… Anche allora la politica a coeur léger, ricordatelo, è stata quella che ha perduto l'Impero! Mah!… E qui, da noi?… Non vedo uscita!… Di questo passo, andiamo incontro allegramente al nostro Sedan…. Alla bancarotta del senso morale! Che cosa rappresentano il Bonforti e il Ghirlanda alla Camera?… Lo scandalo: nient'altro. Lo scandalo eretto a sistema, lo scandalo che getta il discredito sul governo, sul parlamento, sul paese, e che scalza, pensateci, caro Giovanni, che scalza….—Cantasirena col petto di una pernice à la belle vue, tenuto in alto, infilato sulla forchetta, abbassò il capo, abbassò la voce—….che scalza le istituzioni!—Ciò detto sospirò, soffiò, si pose in bocca religiosamente il petto di pernice e lo mangiò, masticando adagio, socchiudendo le palpebre, col godimento delicato, squisito di un conoscitore coscienzioso.
Invece il duca, a quelle parole, si era sentito urtato, turbato nella dolce tranquillità del suo benessere.
Era il giornalista, che saltava fuori a un tratto nello zio Matteo; e il duca diventava inquieto; diffidente, temeva di esser seccato, tirato in ballo in mezzo ai pettegolezzi della politica.
—Scusatemi, caro voi,—rispose con un tremito nella vocetta fessa, che indicava la stizza,—io non mi occupo di quello che succede e a Primarole, a Castellanzo!… La mia parte l'ho fatta quando la politica era…. un sentimento!… A Casalbara non vedo nessuno, voglio vivere in pace!
Ma a questo punto egli sentì il piedino di Nora che premeva il suo forte forte…. Nora lo guardava amorosissima, e gli diceva cogli occhi e col sorriso della bocca umida e rossa "Sì…. Sì…. Sì…. a Casalbara vivremo in pace, noi due soli, sempre soli…."
Tutte le inquietudini svanirono alle promesse di quel sorriso inebriante.
Sposava il suo angelo, la sua regina, non sposava lo zio barbone! E cogli zigomi accesi dal Chateau-Laros, i baffi irti, che per il troppo caldo perdevano l'arricciatura, e la testa in fiamme, il duca accennava di sì alla sua volta: "Sì…. sì…. sì…." fissando Nora, divorandola con un ardimento insolito negli occhietti lustri, luccicanti fra le rughettine fonde.
"Stella!… Stella!… Che stella!…"
Sentì un tocco leggerissimo come una carezza, un soffio che gli sfiorava il braccio: il Casalbara si voltò; era Gioconda, la Gioconda dal faccione tondo e placido, che gli presentava il gelato all'arancio.
—Avete ragione, caro Giovanni,—riprese Matteo Cantasirena diventando tenero egli pure, mentre seguiva con uno sguardo desideroso il gelato all'arancio e la Gioconda.—Avete ragione!… Niso più non sacrifica ai mani d'Eurialo…. "e tutte cose involve l'oblio nella sua notte"…. anche le sante memorie!… Che cos'è oggi la vita politica in Italia?… Corruzione e affarismo!… Io per me sono stanco, sfiduciato e riverisco tutti quanti! Eppure…. faccio dispetto a me stesso,—e diede un colpo secco sul piatto, rompendo il gelato col cucchiaio.—Un uomo non può chiamarsi impunemente Matteo Cantasirena, come non può chiamarsi Casalbara, il….—stava per dire il senatore, ma gli sembrò che l'alta carica stonasse in quel pranzo di fidanzati,—come non può chiamarsi impunemente Giovanni di Casalbara! Anche abbandonando la politica…. dovremo svolgere la nostra attività in un altro campo più elevato. Ricominciare a combattere, a "cospirare" se occorre, per un'idea grandiosa!… Un'opera colossale!… Degna dei più grandi nomi di questo secolo, che ci ha dato un Lesseps…. un Sommeiller…. e ultimamente un Fara-Bon!
"Ahi! Ahi!" Il duca era di nuovo inquieto, ma il piedino, il caro piedino, tornò a premere il suo, e il duca si trovò sul piatto una mandorla verde ch'era stata sbucciata e spellata dalle ditine rosee, trasparenti della fanciulla.
"Stella! Stella! Che stella!"
La Gioconda aprì l'uscio senza far rumore:
—Il caffè è pronto nel salottino.
Nora si alzò per la prima, leggera, graziosa, e corse incontro al Casalbara, che dopo essere stato tanto tempo seduto, faceva i primi passi stentatamente, colle gambe larghe, aggranchite.
La ragazza rideva, prendendolo a braccetto e tirandoselo dietro.
—Faccia presto! andiamo! Faccia presto!
Furono i primi a entrare nel salotto: Nora, appena l'uscio si richiuse, stampò un grosso bacio, in fretta, sulla guancia del Casalbara, poi tutta rossa, scappò a mettere lo zucchero nelle tazzine del caffè.
Il duca, tremante, balbettante, le corse dietro: "Stella!… Stella!… Regina!" ma sentendo i passoni gravi dello zio Matteo, si avvicinò subito al pianoforte, esclamando, colla voce stonata per l'orgasmo, per l'eccitazione: "Oh, l'Ideale! Ca…. aro ideal!… Proviamo un pochetto d'ideale!"
—Dopo il caffè, figliuoli miei! Dopo il caffè!
Bevendo il caffè e sorseggiando il cognac, Matteo diventò espansivo. Rosso, lucente, sventolandosi la faccia, e il collo grosso, di toro, col fazzoletto bianco, dimenticò la guerra atroce, le ingiustizie, l'ingratitudine della gente del suo partito.
—Le sue figliuole!… La famiglia!… Quanto tesoro di affetti, di conforto!… E quanta fortezza d'animo nelle più fiere batoste!… Erano una razza gagliarda i Cantasirena!… Tutto per la patria! Da secoli!… Da padre in figlio! Per ciò gli splendori, le ricchezze erano state sacrificate, ma gli era rimasto inesauribile il patrimonio del cuore!—E negli occhi di Cantasirena scintillavano le lacrime; il suo intenerimento era sincero.—Le figliuole! Ecco la nuova e cara ricchezza! Così…. soavi! Evelina, buonissima anche Evelina, ma il suo amore, la sua debolezza, lo confessava…. eccola lì!…. Era "Eleoonòra!"
Poi domandò al Casalbara come trovava il caffè.
—Buono, non è vero? Eccellente? Il caffè della Gioconda è famoso!—E toccò alla Gioconda la sua parte di elogi.
—Fedele a tutta prova! Di una nettezza, di una pulizia straordinaria! E…. artista. Ha la passione, il genio della sua arte. E anche lei, piena, esuberante di cuore!
Numa più grosso, più gonfio, più obeso, guardava assonnito il sofà, ma non si arrischiava di fare il salto per via del tappeto nuovo. Cantasirena lo acciuffò di colpo, pel collo, presentandolo al Casalbara.
—E questo è Numa! Il nostro Numa!… Guardatelo bene, caro
Giovanni: costui non è una bestia: è un pensatore!
Numa, insensibile ai complimenti, dopo essere stato un pezzo colle zampe tese, tentava liberarsi dando scossoni, facendo giravolte.
—È un'intelligenza fenomenale!… È un cuore!… Se appena ho un dispiacere, il povero Numa capisce tutto, diventa subito malinconico, non mangia più….
E Matteo, commosso, fece per accarezzarlo, ma il gatto, pronto, gli graffiò una mano e riuscì a svignarsela.
Succiando il sangue, Cantasirena passò allora a fare gli elogi di
Taddeo.
—Un eroe…. superstite…. incosciente!
Mandò Eleonora a cercarlo in cucina, e quando Taddeo entrò nel salotto, gli fece bere un bicchierino di cognac.
—Grazie, colonnello!
—E poi?…
—Viva l'Italia, colonnello!
—Bravo.
Anche il Casalbara, rimasto colpito dalle medaglie, dalla gamba di legno, gli stese la mano.
Mentre se ne andava, mentre il "tuc-tuc" risonava allontanandosi nel corridoio, Matteo prese il duca a braccetto, e gli disse piano, con una lacrima che gli gocciolava perdendosi nel barbone. "Mi ha salvato la vita, al Volturno!" E allora confidò pure, al caro Giovanni, qual'era la più grande consolazione di tutta la sua vita: "Essere amato…. Sì! Questo sì! Era adorato nella sua famiglia!"
Anche il Casalbara si sentiva leggermente intenerito, Un'intima dolcezza, il benessere, il blando calore, lo invitavano alle confidenze, alle espansioni, e già cominciava anche il duca a parlare della sua famiglia, de' suoi ricordi…. quando, a un tratto, gli corse l'occhio sopra una macchia di vino, caduta proprio in mezzo allo sparato bianco dello zio Matteo. Quella macchia gli fermò le parole in bocca e arrestò il corso di tutta la sua commozione.
—Vedete?—Cantasirena gli voleva mostrare adesso le rarità del salottino.—Vedete? questa è una zagaglia sudanese; un dono del mio amico, il compianto Romolo Gessi…. Questo è uno scudo abissino; questa la mia carabina del '59!
Poi gli fece vedere i ritratti:
—La Patti!—e lesse la dedica:—"All'illustre amico Matteo Cantasirena, Adelina Patti riconoscente."—E socchiuse gli occhi, sorrise, sospirò, come dinanzi alla pernice à la belle vue. Pareva che avesse mangiato un pezzettino anche della Patti.—Sarah Bernhardt: "A mon ami Cantasirena."—Lo zio Matteo battè sulla spalla al "caro Giovanni."—Un po' faisandée… ma….—E tornò a sorridere, a socchiudere gli occhi, a soffiare.
—E questo è l'unico ritratto che si conservi di Rosolino Pilo.
Nora seguiva pure quella specie di via crucis, sorrideva ancora al Casalbara, ma la sua vivacità era sparita. Si sentiva oppressa, le fiamme alla faccia, alla testa. Avrebbe avuto bisogno di respirare, di uscire all'aria, di camminare, di arrabbiarsi con qualcuno. D'un tratto l'aveva presa il suo cattivo umore, con un orgasmo, un'irritazione, una noia nervosa.
E lo zio Matteo continuava a girare, tenendosi il "caro Giovanni" stretto sotto il braccio.
—Adesso ti farò vedere—passava dal voi al tu colla distrazione affettuosa di un vecchio verso un giovanotto—adesso ti farò vedere il ritratto di un…. magnanimo. Uno dei più gentili e forti patriotti d'Italia, il capitano Fara-Bon!—e lo fermò dinanzi a una vecchia fotografia stinta, sbiadita: un signore con una gran barba, e in testa un berrettone di pelo.
—Chi è?—domandò il Casalbara.
—Il capitano Fara-Bon: il Paleocapa milanese, morto, pare una fatalità, lo stesso giorno in cui è morto il Rinnovatore. Adesso si stanno raccogliendo le sottoscrizioni per un ricordo marmoreo.—E Matteo Cantasirena sospirò profondamente, dolorosamente.
—Si è segnalato, nel '49, alla difesa di Venezia; l'Austria lo ha processato, condannato, poi graziato all'ultimo momento. Deve aver conosciuto il nostro…. fratello…. Eriprando.
A questo nome seguì un lungo silenzio.
—Sediamoci!—disse poi Matteo Cantasirena, con un altro sospiro.—Il progetto del compianto Fara-Bon, la Navigazione Cisalpina, sarà annoverato fra le grandi audacie del secolo!
Il duca sedette sul canapè e Nora sedette essa pure vicino, dopo avergli acceso uno sigaro di avana. Matteo si adagiò comodamente nella poltrona di faccia, e cominciò a parlare del risorgimento economico d'Italia, della sua indipendenza commerciale, dei nuovi, dei veri patriotti…. i patriotti dell'abnegazione, che lontani dalla politica, scevri di ogni vanità personale, preparavano la sua ricchezza, la sua grandezza avvenire.
E parlò delle vie acquee, dell'Italia settentrionale, della difesa del paese; parlò di Primarole e di Castellanzo, che dovevano essere il centro dei primi studi, del primo movimento della grande impresa; di Pio Calca e del conte Bobboli, che si dovevano portare nelle prossime elezioni contro il Bonforti rettorico e il Ghirlanda paradossale.
Pio Calca, sostenuto dai preti, avrebbe speso per l'ambizione, nel suo caso innocentissima, di essere deputato, un po' dei milioni della mamma, e in quanto al conte Bobboli, a quel trafficatore d'ebano scioano, una volta tirato in ballo, avrebbe dovuto sacrificare, occorrendo, alla propria fama, e quindi al trionfo della grande idea, anche gli ultimi medjidié d'Ismail pascià!
Il duca di Casalbara, sdraiato sul canapè, con Nora accanto, stretta al suo braccio, subiva quella voce lenta, insinuante, come un ronzìo misterioso, senza avere la lena di rispondere, di muoversi…. Attraverso alla seta morbida, sentiva il calore, lo forme del corpo di Nora; ne sentiva il profumo vago dei capelli, e ne sentiva l'odore… quell'odore acuto di ragazza bionda. Sarebbe stato lì, senza muoversi, tutta la vita. Soltanto la macchia di vino sulla camicia bianca dello zio Matteo, lo offendeva colla sua volgarità: era una stonatura…. una stonatura che insensibilmente, di minuto in minuto, rendeva stonato e volgare tutto il salotto, collo scudo abissino e la zagaglia sudanese, e l'eleganza ardita della signorina, e i modi e il languido abbandono….
—Sua moglie?… Sua moglie?… Era fissato! Non c'era più verso di tornare indietro!
E Nora?…
Nora, colle guance accese e l'occhio fisso, a che cosa pensava?
Essa guardava quell'uomo che le stava vicino, assonnito, col respiro greve, l'occhio imbambolato…. il sigaro spento fra le labbra….
—…. E tutti i giorni, tutte le sere sarebbe stato così? Sempre con quell'uomo?… di quell'uomo?
Provava un senso di ripugnanza, di ribrezzo…. eppure non poteva fare a meno di guardarlo, era costretta a guardarlo!
Pietro Laner era quasi bello in suo confronto. Com'era diverso nell'amore, nell'ardore!… E com'erano diversi i baci della sua bocca fresca e sana!—E Nora aveva bisogno di stordirsi, di eccitarsi, pensando al lusso, allo sfarzo, alla ricchezza, ai divertimenti.
—No! No! Mai così!… Subito, dopo pranzo, a teatro, poi alle feste, ai balli!… Mai così!
Cantasirena continuava a parlare, a parlare, a parlare, contento di sè, innamorato di tutti, soddisfatto di tutto. Egli non si era accorto della piccola ruga che appariva sulla fronte nitida, fulgente di Nora, e che diventava profonda, sinistra;… non si era accorto nemmeno della macchia rossa di vino che aveva in mezzo allo sparato, sulla camicia bianca; quella macchia rossa che il Casalbara, nel suo torpore sonnolento, vedeva farsi sempre più grande, fastidiosa, opprimente, e che, adesso, gli ricordava i giornali, i debiti, le gesta dello zio Matteo, che gli faceva sentire, persino in quel benessere, nella quiete raccolta del salotto, così vicino a Nora, così riscaldato, così inebriato da Nora, la sghignazzata plebea, cinica, brutale del Kloss!
Pietro Laner era stato colpito da congestione cerebrale, e per i primi giorni, specialmente, il suo stato fu gravissimo. Evelina non abbandonava quasi mai la camera del malato: silenziosa, premurosa, infaticabile, era la maraviglia della padrona di casa e del dottor Foresti, un medico giovanissimo, al quale non pareva vero di aver per le mani un malato giornalista. E che giornalista!…
—Un altro mio figliuolo di elezione e di adozione!—Queste erano le precise parole con le quali Matteo Cantasirena aveva raccomandato il suo "redattore capo" alla padrona e al dottorino, trovato per caso alla farmacia più vicina, dove avevano mandato in fretta e furia.
—Uno spirito eletto!… Una tempra adamantina!… Mi raccomando: non manchi di nulla!—e soffiando, pausando, lisciandosi il barbone, conchiuse maestosamente:—In ogni modo sto garante io!
Il dottore, visto il caso grave, avrebbe voluto si scrivesse subito alla famiglia, ma Cantasirena si oppose, arrabbiandosi.
—Il cuore! il cuore!… Non c'è cuore in una simile proposta! La sua famiglia?… Due zie…. superstiti!—e sospirò profondamente, come se avesse visto morire tutti gli altri,—due vecchie signore, che vivono in pace, ritirate nella loro villa di Crodarossa!… Spaventarle con una simile cannonata!… E inutilmente, perchè lei m'insegna, caro dottore, che i giovani superano sempre, o quasi, simili assalti. Ghiaccio! Ghiaccio! Ghiaccio a profusione! Giorno e notte, sempre ghiaccio!—E Cantasirena si dilungò nella diagnosi e nella cura, mentre il dottor Foresti approvava col capo.
Il giorno dopo, Matteo capitò che non c'era il dottore; fece una gran predica a Evelina per indurla a tornare a casa; fece un po' di corte alla padrona, le consegnò il denaro che si era fatto dare alla Gazzetta Lombarda per il Laner, poi se ne andò, dicendo di tornare di lì a mezz'ora, e non si lasciò più vedere. Mandava invece Taddeo, tutti i giorni, a prender notizie; mandava dei pezzi di rosbiffe, del panettone per sua nipote, e fiori e complimenti per l'amabile padroncina.
Ormai aveva capito tutto. Sua nipote era innamorata e predicare agli innamorati è come predicare ai sordi: lui non aveva tempo da perdere. Il matrimonio di Eleonora, la Navigazione Cisalpina, le elezioni di Primarole e di Castellanzo, il nuovo giornale Le Risorse Italiche da fondare—un giornale giovane, fatto dai giovani e per i giovani—non gli lasciavano tregua. Era continuamente in faccende, era continuamente sossopra: ora in visita dal prefetto, dal sindaco, ora a spasso col Casalbara, ora alla caccia del Brunetti, che doveva essere il direttore amministrativo della "Cisalpina" ed ora in lunghi conciliaboli con chi ne sarebbe stato il tecnico, l'architetto Carlo Fontanella, un vanitoso sfrenato, che era già passato, a quarant'anni. dai moderati ai radicali, dai radicali ai socialisti, e che adesso, pur di farsi innanzi ad ogni costo, tornava indietro, schierandosi fra i legalitari.
Nondimeno, ogni volta che Taddeo, fedele alla consegna, portava al colonnello le notizie del Laner che erano di giorno in giorno sempre migliori, Cantasirena, dopo averci pensato, per raccapezzarsi, aveva una grande esclamazione di contentezza.
—Oggi!… Senza fallo!… Vado a vederlo!… L'avevo detto, io, a quella bestia di dottore!… Ghiaccio! Ghiaccio! Ghiaccio in abbondanza, e lasciar operare la natura! E voglio farmi sentire anche da quella testarda di mia nipote!… Eleonora ha ragione!… È una sconvenienza inconcepibile!… Però ha torto di arrabbiarsi con me!… Non posso mandarle i carabinieri! Oggi! Oggi!… Ricordarmelo, Gioconda: passare dal Laner!
Ma per quanto Matteo si sfogasse a dar della bestia al dottor Foresti, per quanto Nora fosse furente contro Evelina per quel suo cacciarsi attorno al Laner, non era men vero che il dottore e la ragazza erano stati la provvidenza, la salvezza del povero giovane.
Tutt'e due, il dottore da una parte del lettino, Evelina dall'altra, rimanevano immobili, assorti, per ore e ore, vigilando il malato, notando ogni suo movimento, studiandone il respiro…. Pure, la loro ansietà così premurosa, gli occhi fissi, intenti in quella faccia accesa, contraffatta, affondata nel cuscino, sotto la grossa vescica di ghiaccio, esprimevano tutte le preoccupazioni, le inquietudini di chi lotta per un interesse proprio, contro un caso gravissimo, non mai la tenerezza di chi ama, nè il dolore di chi soffre vedendo soffrire. L'una e l'altro, pallidi, cupi, pareva avessero impegnata una seria partita attorno a quel letto, attorno a quell'ammalato, una grossa partita, dalla quale poteva dipendere tutta la loro fortuna e il loro avvenire.
La padrona si faceva vedere raramente: appena alzata, all'alba, per dare il cambio all'Evelina, che aveva dormito sul canapè, e che usciva soltanto allora per lavarsi, per respirare un po' d'aria alla finestra.
Il dottore, che non aveva molte visite, veniva subito la mattina, veniva ancora di giorno, tornava la sera, e faceva sempre le stesse interrogazioni all'Evelina, brevemente, colla voce grave, sommessa, senza mai rispondere alle domande che la ragazza gli faceva a sua volta, pur sommessamente, ma con grande ansietà.
—E così?… Lo trova meglio, signor dottore?… È sicuro adesso che guarirà?
Il dottore, aiutato da Evelina, alzava il Laner a sedere sul letto, lo visitava lungamente, minutamente, poi, sempre coll'aiuto della ragazza, che nel frattempo aveva voltato e ribattuto il cuscino, lo riadagiava lentamente, e lentamente gli riponeva sul capo la vescica del ghiaccio, floscia e tremolante.
—E oggi?… lo ha trovato meglio?
Il dottore continuava a guardar l'ammalato, a fissarlo, a studiarlo, sempre coll'occhio fermo, le ciglia aggrottate, la faccia immobile.
Pietro, dopo alcuni giorni di pericolo, poi di sosta, cominciava davvero a migliorare. Aveva passato tutto quel tempo in un assopimento affannoso, pesante, turbato dai sogni più strani, dalle visioni più fantastiche, spaventose…. Quando si svegliò la prima volta, era ancora quasi notte: si svegliò con un senso di affanno, di sgomento. Dov'era…. Dov'era?… Dove lo avevano sepolto? Che disgrazia gli era capitata?… Era caduto?… Era stato ferito?…—Credette ancora di sognare.—Dio! Dio!… Un altro sogno angoscioso, spaventoso!…—Fece uno sforzo per destarsi, e sentì il bruciore acuto dei vescicanti. Dio! Dio!… Era desto! Ricominciava a vivere un'altra volta!… Ma dov'era?… Dov'era?…—Si sforzò per muovere il capo, per vedere: sentì uno spossamento profondo.
La cameretta, ancora colle finestre chiuse, era appena rischiarata da un chiaror rossastro, basso, lontano…. era il lumino da notte per terra, in un angolo. Da prima non riconobbe la sua camera. Tutto era in disordine; avevano cambiato di posto il cumò, il sofà, il tavolo. Il letto non era più vicino alla parete, ma in mezzo alla stanza…. dappertutto roba ammucchiata, vestiti, coperte…. Sul cumò, sul tavolo, un'infinità di boccettine, vasetti, scatolette….—Dio! Dio! Era all'ospedale?…—Spalancò le palpebre umide, pesanti. Vicino al sofà si moveva una figura confusa, strana…. una donna…. Si allacciava la sottana…. guardava l'orologio…. versava del liquido in un cucchiaio….
Pietro, colle palpebre socchiuse, rimase immobile, ma attentissimo. La donna, a piedi scalzi, lentamente, si avvicinò come un fantasma, nel silenzio cupo, fra gli sprazzi e le ombre sinistre del lumicino crepitante…. Si fermò accanto al letto…. si chinò, lo guardò…. cogli occhi loschi, lividi…. gli avvicinò il cucchiaio alla bocca…. Pietro, istintivamente aprì le labbra, ingoiò la bevanda. L'altra, l'affannosa apparizione, rimase immobile a guardarlo, a fissarlo acutamente, poi avvicinò la faccia ancora di più…. Una faccia smunta, emaciata, sudicia per la veglia e pel sudore, colle ciocche dei capelli corti, irti, abbaruffati sulla fronte….
Pietro, oppresso, impaurito, chiuse del tutto gli occhi, ma subito li riaperse, attratto dal suo stesso sgomento…. e allora, sotto l'abito di quella donna che si era aperto alquanto, vide il candore delicato di un piccolo seno di fanciulla…, improvviso, strano contrasto colla bruttezza della faccia orrenda, del corpiciattolo esile, gobbo…. Era gobba!… Dio! Dio! Era Evelina!…
Pietro richiuse gli occhi con un nuovo senso di terrore, di scoramento, e li riaprì soltanto quando sentì che l'altra si scostava, si allontanava. Allora senza muoversi, senza voltare il capo affondato nei guanciali, rimase immobile a guardarla….
Evelina! Ma lui, lui, dov'era? E che faceva lì Evelina? A poco a poco riconobbe la camera;… era proprio la sua camera!… C'erano ancora sul cassettone, in mezzo alle boccettine, ai vasetti, alle ampolle le due melagrane che gli avevano mandate la zia Angelica e la zia Rosa, coll'ultima cesta della biancheria.
Allora capì tutto, senza però ricordarsi bene. Capì di essere stato ammalato, sentì per lo spossamento doloroso, per la gravezza del capo, di esserlo ancora. Ma Evelina?… Perchè era lì?…
Tornò a guardarla: adesso gli voltava le spalle, aveva finito di assettare, di accomodare il sofà; aveva tirato su, contro la parete, i grandi cuscini su cui aveva dormito la notte, e preso il guanciale bianco al quale il chiaror vagolante dava una tinta fosca, lugubre, lo nascondeva dietro lo scialle che aveva servito da coperta. Poi Evelina si voltò, sedette sul sofà, si chinò, tutta gobba, per mettersi le scarpe…. e dal vestito aperto, dalla camicia scollata, cadente, riapparì il bel seno piccolo, ma fermo, eretto. Anche quell'ombra tormentosa, la gobba, la faccia, il seno, tutta la visione, riusciva opprimente per il povero malato: lo angustiava, lo esaltava, lo affannava.
Poco dopo entrò un'altra donna nella cameretta: vi fu un bisbigliare sommesso…. Evelina uscì quietamente e l'altra adagio andò ad aprir la finestra. Era la padrona: ma in mezzo alla luce bigia, all'umidore scialbo che entrava nella stanza, come i mobili, le tende, le pareti, la padrona, tutto tutto, appariva volgare, uggioso, triste!
Pietro si volse con un moto rapido, per scansar quella luce, e sentì le fitte, l'indolimento per tutto il corpo, e fu così, con un acuto senso di dolore, che egli capì che tornava a vivere, che cominciava a guarire, che era salvo.
—Dio…. Dio…. giacchè era andato di là…. perchè non vi era rimasto?
La padrona, ch'era uscita, ritornò con una piccola tazza fumante. L'ammalato sentì un profumo delicato, e una delizia nuova, ristoratrice lo involse tutto. Guardò la padrona, come per ringraziarla, poi fissò la tazza cogli occhi bramosi.
—Come si sente, signor Laner?
—Grazie…. ho fame.
Il malato, lentamente, tirò fuori la mano scarna, di cera, l'alzò tremante…. ma subito la lasciò cadere sulla rimboccatura delle lenzuola.
—Buon segno, se ha fame! E si consoli che l'ha scampata bella e ha fatto presto!—Poi la padrona avvicinandosi al tavolino per deporre la tazza, soggiunse, sicura di fargli piacere:—Vado a chiamare la signora Evelina.
—No! No!—rispose Pietro colla voce fioca.
—È sempre lei che le dà il brodo e le medicine. Se non la chiamassi potrebbe aversene a male.
—No! No!—ripetè il Laner agitando il capo sul guanciale, e fece per tirarsi su a sedere, ma lo assalì vivissimo il bruciore dei vescicanti in tutto il corpo rotto, e mormorò ricadendo disteso:—Non posso…. Non posso….
—Vuol far troppo il bravo, lei!…—E la padrona mentre gli faceva sorbire il brodo, tenendogli un po' la testa sollevata, e soffiando sul cucchiaio pieno, si sfogò in grandi elogi pel dottor Foresti, per la forza, il coraggio della signora Evelina e specialmente sul cavalier Cantasirena, un cavaliere vero, pieno di talento, pieno di cuore, di nobiltà e compitissimo sempre, colle signore!…
—Quanto tempo…. sarà?—domandò Pietro, riadagiando sul guanciale la testa intronata, col viso più acceso, tutto in sudore.
—Quasi due settimane!—e la padrona gli contò come avesse avuto il primo attacco e le varie fasi della malattia e ricominciò cogli elogi alla signora Evelina, che non aveva mai abbandonato il suo letto, sempre lì, giorno e notte!
—Non so nemmeno come abbia potuto resistere!… Ringrazi la
Provvidenza, signor Laner!… Le ha dato una sorella nella signora
Evelina: una vera sorella!
La parola "sorella" fece bene al Laner: mise come un po' d'ordine in quella sua confusione, in quel suo turbamento di ogni idea, di ogni ricordo: lo tranquillò, lo consolò.
—Sì!… Sì!… la signorina è buona!… tanto buona! Una sorella!… una vera sorella! Non potrò mai ringraziarla abbastanza….—e si commosse, s'intenerì profondamente: sentì attorno agli occhi e sulle guance riarse, scorrere calde le lacrime.
E non si commosse soltanto per Evelina, ma pur anche vedendo la padrona, che si moveva adagio per la stanza, in punta di piedi, facendo qua e là un po' di pulizia. Oh, come aveva bisogno di riattaccarsi a tutte quelle persone che lo circondavano, come aveva bisogno che quelle cure, quell'affetto non gli mancassero mai!
—Signora….
—Comandi!—esclamò la padrona voltandosi di botto, collo strofinaccio in una mano e nell'altra la lucernetta che stava spolverando.—Comandi?
—Anche lei è stata…. tanto buona con me!—e aggiunse subito col timore che avesse a scemare quel premuroso interessamento della padrona:—Scriverò alla Gazzetta Lombarda…. per avere del denaro.
—Ma neanche per idea!—esclamò la padrona quasi offendendosi.—Il cavaliere Cantasirena ha già dato quanto basta: vedrà la nota. Lei non pensi che a guarire; è questo che preme!
Pietro continuò a guardar la padrona: sentiva che quella donna doveva aver molto cuore, anche per la delicatezza con la quale metteva in fila i boccettini e le scatolette sul cumò e spolverava il tavolo.
Dalla finestra socchiusa entrava colla luce più chiara, più viva, il rumore confuso delle carrozze, della gente, delle campane lontane.
—Che giorno è oggi, signora padrona?
—Oggi?… Venerdì.
—Venerdì?…—La tenera letizia del Laner scomparve d'un tratto; egli ricadde in uno scoramento, in uno sgomento pauroso:
Venerdì! Ricominciava a vivere di venerdì!… E Nora?… Nora?… E le ventimila lire?… E le zie?… Se le zie, senza lettere, inquiete, spaventate, correvano a Milano, e lo trovavano ridotto a quel punto…. e senza più un soldo?
"Dio! Dio! Dio!" e Pietro alzò gli occhi all'immagine della Madonna, che aveva accanto al letto, e le si raccomandò con tutta l'angoscia, con tutto il fervore dell'anima.
—Signora….
—Comandi?
—Non sono venute lettere da casa mia?
—Tutto quanto è arrivato per lei, è stato consegnato alla signora
Evelina. Eccola!—esclamò la padrona con gioia.—Allegri, signorina!…
Il nostro ammalato non si accontenta più del brodo! Non è vero, signor
Laner?
Evelina entrò in camera, bene assettata, ben pettinata, il fazzolettino azzurro sulle spalle e la testolina dolcemente inclinata da una parte. Si avvicinò al letto premurosa, ma senza fare il minimo rumore, e subito, delicatamente, accomodò i cuscini sotto la testa del malato, rimboccò le lenzuola, stirò con garbo la coperta.
—Si sente benino? Lo so. Me lo aveva detto il dottore. Ha dormito tranquillamente, come un bambino, tutta notte. Ma la prego, tanto tanto, ancora non deve parlare; non deve stancarsi.
La voce, gli sguardi della fanciulla avevano una seduzione dolce, soave, ma senza timidezza, senza turbamenti. Era proprio la tenerezza sicura, onesta di una sorella.
—Grazie….—mormorò Pietro con voce rotta: e fece per darle la mano. Evelina gliela prese, ma stringendola appena, la ripose con affettuosa sollecitudine sotto le coperte, che gli assettò di nuovo, gli serrò bene attorno al collo e sotto le spalle.
La padrona, nel frattempo, se n'era andata collo strofinaccio sotto il braccio e portando con una mano la tazzetta vuota del brodo, coll'altra il lumicino da notte ancora acceso.
Il Laner fissò Evelina con un'intensità che rivelava tutti i suoi timori.
—E le zie?—domandò con un tremito.
—Hanno scritto quasi ogni giorno; anche ieri sera—rispose Evelina cercando la lettera nella saccoccia del vestito.—Cioè…. chi ha scritto è don Giuseppe. La signora Angelica e la signora Rosa aggiungono sempre i loro saluti.
E appoggiandosi alla sponda del letto, sempre sorridendo, spiegò subito le cose. Essa, consigliata anche dal dottor Foresti, aveva scritto a Crodarossa alle signore Laner avvertendole che il signor Pietro era indisposto, ma che il dottore assicurava che non c'era da prendersi nessuna pena: il male, un male alla testa, una febbre reumatica, era cosa seccante, che richiedeva cure e riguardi, ma affatto passeggera, affatto senza pericoli. Aveva aggiunto che il signor Pietro era assistito come fosse in famiglia, e che del resto lei stessa avrebbe mandato tutti i giorni le notizie; e in prova di quella corrispondenza, Evelina mostrò le lettere delle zie, colle raccomandazioni e i ringraziamenti di don Giuseppe e sotto ad ogni lettera la calligrafia grossa, stentata delle due vecchiette: "La zia Angelica ti manda i suoi saluti e le sue benedizioni.—La zia Rosa invia pure benedizioni e saluti…."
Dopo aver letto ad alta voce tutti quei bigliettini, la ragazza li ripiegò con cura e li mise nel cassetto della piccola scrivania. Pietro la guardava e piangeva silenziosamente.
—No! No!… Non deve commuoversi così!… Le fa male!…—e gli asciugò gli occhi col suo fazzoletto.
—Non so cos'è…. I nervi…. è una convulsione….—balbettò il Laner vergognoso della propria debolezza.
Aveva un'altra domanda che gli pesava sul cuore…. ma non osava, e intanto ne faceva molte altre che si avvicinavano a quella.
—E…. il direttore?…
—So che sta bene. L'altro giorno mi ha scritto. Per le ventimila lire è tutto a posto e lei ci può contare quando vuole. Sono alla cassa di risparmio, sopra un libretto col suo nome.
—Dio! Dio! Fosse vero!…—balbettò il malato,—più per le zie, sa, che per me!
Era proprio vero: Nora aveva confidato al Casalbara delle ventimila lire prestate dal Laner, e il duca, dopo parecchi giorni, era riuscito a procurarle, e d'accordo con Nora, erano state messe sopra un libretto nominale, intestato al Laner. Ma di tutto ciò, Pietro non ne seppe niente, mai, nemmeno da Evelina. Era il giornale le Risorse Italiche, gli affari della Navigazione che avevano rimesso in fondi lo zio Matteo!
Il nome di Nora che gli riempiva tutta l'anima, tutto il sangue, gli era corso alle labbra, ma lo ricacciò indietro arrossendo.
—E lei, non ha avuto dispiaceri per cagion mia?… Per essere rimasta qui…. a curarmi…. a salvarmi?
—A me che importa?… Dicano, facciano quello che vogliono!… Io sono padrona delle mie azioni; non devo renderne conto a nessuno. Il mondo….—ed Evelina s'interruppe con un sospiro profondo,—oh, il mondo non si occupa di me! Chi si occupa di me?… Sono troppo brutta.—Ma a questo punto la tristezza, l'amarezza sembrò vinta dalla bontà del cuore.—E c'è il suo bene anche ad essere brutta!—ripigliò con un sorriso.—Almeno sono libera, e se sono stata qui, con lei, nessuno ci ha trovato a ridire, nè la padrona, nè il dottore!… Soltanto chi mi odia…. approfitta di tutte le occasioni, anche di questa, per farmi del male.
Non c'era più bisogno di profferire il nome di Nora e però il poveretto ebbe più coraggio di domandare di lei.
—E…. è già successo?—Anche la parola matrimonio non gli voleva uscire dalla gola.
—No. Non ancora.
—E…. è sempre…. sicuro? È fissato?
—Sì, alla fine del mese.
Evelina vide l'occhio del Laner girare per la stanza. Capì che cercava qualche indizio, una data, per sapere quanto mancasse ancora a quel giorno.
—Fra tre settimane,—soggiunse pianino, con un filo di voce, ma con un'intonazione ben chiara, penetrante.
Pietro rimase immobile, ma la sua faccia affondata nel guanciale diventò più bianca, più contratta: gli occhi ebbero un tremolìo lucente…. poi si voltò di colpo e scoppiò in singhiozzi.
—Ah! Signor Iddio! Signor Iddio!… Signor Pietro, si faccia forte,—gemeva a sua volta Evelina, anch'essa colla voce rotta dal pianto, e cercava di farlo voltare, come prima, di calmarlo, di tenerlo quieto, ben coperto sotto le lenzuola.—Non faccia così!… Pensi che ancora non è guarito!… Pensi alle zie che lo vogliono tanto bene! Lo faccia un pochino anche por me!… Lei vuol tornare a star male!… Peggio di prima!…
E siccome il Laner era sempre voltato colla faccia, e continuava a singhiozzare, la ragazza si era chinata sul letto, e gli parlava vicino vicino, nei capelli. Il malato ne sentiva l'alito caldo, e il piccolo seno che si appoggiava, che premeva la sua spalla.
Dopo, durante tutto quel giorno, Evelina dimostrò una timidezza pudibonda, una selvatichezza quasi sospettosa. Non si appoggiava, non si chinava più sul letto, non assettava, non gli accomodava più le coperto…. Quando il Laner la chiamava, essa trasaliva, e si avvicinava appena di qualche passo, arrossendo, ma tenendosi sempre discosta, silenziosa….
Pietro, che si era addormentato verso l'imbrunire, si svegliò molto tardi. C'era il dottore, ritto in piedi, accanto al letto, c'era la padrona che gli faceva lume, ma Evelina non c'era più. Era tornata a casa sua. Ormai il malato non aveva più bisogno di un'assistenza continua: la padrona, che dormiva lì vicino, sarebbe accorsa, qualora avesse chiamato o l'avesse sentito inquieto.
Pietro dormì benissimo, placidamente tutta la notte. La mattina, appena svegliato, cercò subito cogli occhi Evelina, ma non c'era, non era ancora venuta.
Entrò invece la padrona ad aprir la finestra, a portargli il brodo col pane affettato; ma la padrona lo infastidiva col suo continuo girare, col suo continuo parlare. Eppoi non aveva il garbo di Evelina. Dopo averlo aiutato a mettersi a sedere sul letto, lo piantava li, solo, senza nemmeno accomodargli i guanciali, senza ricacciargli sotto, per bene, le coltri.
—No, no. Non aveva garbo, nè cuore. Mostrava un po' di premura per interesse, nient'altro!
Pietro continuò ad aspettare la ragazza tutto il giorno: la ragazza non si lasciò vedere. Ma la sera, seppe poi da Taddeo, venuto, al solito, per le notizie, che Evelina aveva avuto una gran lite col colonnello.
—E anche…. colla signora…. Eleonora?
—La signorina Nora era fuori. Sta fuori tutto il giorno colla contessa Schönfeld, per le spese del matrimonio: vestiti, cappellini, biancheria….
Il povero Laner, quella sera, stentò assai a pigliare sonno. Pensava, sospirando, alla buona ragazza che soffriva tanto per lui, che aveva tanti dispiaceri per lui. E il direttore? Che canaglia! E se anche le ventimila lire fossero una delle solite promesse? E le zie?… E Nora?… Nora?… E i vestiti, i cappellini…. la biancheria di Nora?… E Nora e il Casalbara, e Nora del Casalbara, era tutto un tormento, un orgasmo, un eccitamento affannoso.
E anche il giorno dopo…. tutto il giorno solo! La padrona, che veniva a intromettersi, a chiacchierare finchè c'era il dottore; e poi solo, sempre solo, senza poter leggere nemmeno i giornali, senza poter scrivere nemmeno una parola alle zie, a nessuno. Voleva far dire a Evelina da Taddeo, che non lo abbandonasse, che non lo dimenticasse, ma anche Taddeo, tanto aspettato desiderato, non fu visto comparire.
—Ah, mio Dio!—sospirava il povero Laner quella sera, col dottor Foresti, senza sapere quanto fosse profonda la filosofia della sua noia,—ah, mio Dio!… pensare che la vita è così corta, e i giorni sono tanto lunghi!
—Domani le permetterò di alzarsi da mezzogiorno fin verso le quattro. Mangerà una buona zuppa la mattina, e sul tardi un'ala di pollo e le permetterò pure di bere due dita di vino, del barbera vecchio, o meglio ancora del bordò.
Infatti, il giorno dopo, quando venne il dottore, Pietro Laner era presso la finestra, sdraiato in un vecchio seggiolone, imbacuccato in uno scialle, colle gambe avvolte nelle coperte.
Il dottor Foresti lo trovò bene: notò che ogni giorno faceva passi da gigante, e, dopo essersi congratulato, gli portò i saluti del cavalier Cantasirena, incontrato allora sul Corso.
—Mi ha detto che oggi o stasera, verrà certo a vederla. Occorre che lei faccia presto a guarire. Deve essere il suo alter ego, il suo segretario particolare.
Il Laner volse al dottore lo sguardo incerto, smarrito:
—No, no; appena in gambe…. torno a Crodarossa!
—Ma come? In questo momento?
Pietro tornò a fissare il dottore: non capiva bene.
—Tutte le cantonate sono tappezzate di manifesti della Navigazione Cisalpina! Si tratta, pare, di un'impresa di molti milioni. Lei saprà di che si tratta. Mi dica, mi spieghi; cos'è?
Pietro scosse la testa; non ne sapeva nulla, e tornò a borbottare:
—Appena è possibile, vado a Crodarossa!
E anche dopo, rimasto solo, continuava a scuotere la testa, a dir di no, di no, fra sè e sè.
Andarsene, fuggire, fuggire da Milano, fuggire da Nora, fuggire da quel desiderio che lo accendeva, fuggire da quella gelosia che lo divorava!
E sospirava Crodarossa. E il paesello gli appariva ancora più tranquillo, più chiaro, più ridente colla chiesa bianca, circondata dal piccolo cimitero, sulla collinetta alta, in mezzo al sole.
Là erano sepolti il suo povero babbo e il suo povero zio. Vedeva la fossa del babbo colla croce arrugginita, la tomba dello zio colle lettere dell'iscrizione ancora rilucenti. E ricordava le feste, i tridui, le campane, i mortaretti, e gli pareva che appena fosse tornato, appena si fosse rifugiato lassù, vi avrebbe ritrovato la pace di un tempo; senza pensare che quella pace tanto rimpianta, allora era lui che l'aveva dentro di sè, era lui, allora, che la portava nel cuore.
Sì, sì!… Le zie! Vivere unito sempre alle sue buone vecchiette…. Confidar tutto a don Giuseppe!… Farsi perdonare…. farsi assolvere…. e ricominciare una nuova vita, in pace con tutti, anche con Dio! E in fondo al cuore si acquetava anche il pregiudizio pauroso del venerdì. Avrebbe cominciato allora veramente a rivivere, a rivivere la vita dello spirito, la vita della grazia, la vita nuova!
Oh, come sospirava quel giorno! E vedendo il suo letto candido si sentì attratto anche da quel rifugio, da quella promessa di riposo, di oblìo.
Vi si trascinò solo; e la padrona, quando capitò col pollo e il bordò del Cova portato da Taddeo, lo trovò già in letto.
Il Laner mangiò, divorò tutto in furia, e quando ebbe bevuto le "due dita" di vino eccellente sentendosi rianimare ne domandò ancora:
—È così piccolo il bicchiere…. un bicchierino da rosolio….
La padrona si lasciò commuovere: versò un altro dito di vino, poi se ne andò, portando via la bottiglia.
Ma il cibo, il bordò, gli diedero un orgasmo affannoso, un caldo insopportabile…. Si soffocava…. Che afa! voleva far temporale!
—Oh Nora! Che infame! Che infame! Darsi, vendersi a un vecchio!
Quell'ora vicina al crepuscolo era più fosca e buia por il cielo annuvolato.
—Che caldo! Dio! Che noia! Sempre solo, senza poter leggere, senza poter scrivere….
A un tratto, sentì un passo, un fruscìo nell'altra camera, poi la voce di Evelina.
—Si può?
—Venga! Venga!—esclamò il Laner tutto consolato.—Finalmente, signorina! Credevo mi avesse dimenticato, che non venisse più, nemmeno per farsi ringraziare!
E Pietro, le pupille lucenti, le prese tutt'e due le mani e gliele strinse con un'effusione tenerissima, appassionata.
—Perchè?… Perchè sparire così? L'ho tanto aspettata, l'ho tanto desiderata in questi giorni!
—Lei non aveva più bisogno di me,—rispose la ragazza scrollando mestamente la testina inclinata e ben pettinata. Aveva il viso meno pallido, meno patito per il riposo di quei giorni.
—Ho sempre bisogno di lei; di lei così buona!
E il poeta dell'Invito, dell'Incanto, dell'Inganno, soggiunse con tenerezza maggiore:—così sororalmente buona!
Evelina, sempre a capo basso, faceva rigirare il pince-nez, torcendone il cordoncino colle dita nervose.
—Adesso sono sola, sempre sola,—disse poi arrossendo un poco,—e in casa ho tanto da fare. Poi, ancora, il dizionario!
Ci fu un momento di silenzio. Pietro pensava dolorosamente a quel "sola—sempre sola!" Voleva dire che Nora era sempre con quell'altro!
Evelina continuava a far girare e rigirare il pince-nez, torcendone il cordoncino e a volte sogguardando il Laner con una timida carezza negli occhi languidi.
—Perchè non verrebbe qui da me, col lavoro?—domandò poi il Laner.—Io potrei aiutarla a correggere le bozze.
—Sì, sì; questo sì!—esclamò la ragazza vivamente, avvicinandosi al letto.
Pietro la guardò, l'osservò bene: aveva indosso la vecchia giacchettina blù di Nora!
Oh, quante memorie dolci, care, suscitava nel cuore dell'abbandonato, quella povera giacchettina logora! Come stava bene a Nora, quando camminava diritta col suo passo leggero, ardito, le mani affondate nelle tasche e tutto il bel corpo si disegnava alto e florido! Quante, quante volte aveva baciato Nora su quella giacchetta!… Per Nora era un po' corta, stretta; per Evelina, pareva quasi un paltò!
Povera Evelina!…
Ma pur compassionandola per il contrasto dal quale rimaneva offuscata, ricordò istintivamente che anche il povero corpicino non era così misero come pareva.
—Allora, a domani, se appena mi sarà possibile!
Ed Evelina, forse mortificata o impermalita per quel lungo silenzio, si preparava ad andarsene.
—Va via?… Così presto?—esclamò Pietro con uno smarrimento quasi pauroso, fissando sempre la giacchettina blù, che gli appariva in mezzo alla camera buia, come il fantasma di Nora.
—Si fa tardi,—osservò Evelina, con un sospiro, avvicinandosi alla finestra.—Si fa tardi; e poi minaccia un temporale.
—La supplico tanto, signorina! Non mi lasci solo. Ha poco, sa, da portar pazienza per me. Ha pochi giorni ancora da sopportarmi. Vado! Me ne vado! Torno a casa mia! Appena posso muovermi, vado via subito, subito, subito!
E nella voce, nell'accento, nell'angoscia del Laner vi era tutto il rimpianto, tutto lo strazio del suo grande amore, del suo immenso amore.
Evelina non rispose. Dov'era?… Non si vedeva più.
Era sparita?
Non si vedeva nell'oscurità che il chiaror cupo, rossastro della finestra, e il bianco del letto.
—Dov'è signorina? Venga qui! Signora Evelina!—ripetè Pietro dopo un istante, più vivamente.—Cosa fa? Ma dov'è? Venga qui!
Poi, alzandosi un po', vide che la ragazza si era buttata nel seggiolone presso la finestra: aveva il capo basso, il viso nascosto nelle mani…. piangeva.
—Piange!—esclamò il Laner, rizzandosi di colpo sul letto.—Piange?
Venga qui! Ma venga qui! Perchè piange?
L'altra non rispose, non si mosse, scoppiò a piangere più forte, dirottamente.
—Venga qui! Voglio che venga qui!—gridava il Laner fuori di sè.
Evelina, sempre piangendo, singhiozzando, si alzò lentamente, si avvicinò, attratta contro il voler suo dal fascino, dalla voce imperiosa del giovane. Quando fu in mezzo alla stanza, un lampo la rischiarò all'improvviso: aveva la faccia nascosta nelle mani, tutto il corpo sussultava convulsamente, rotto dai singhiozzi.
—Venga qui!
E il Laner, sporgendosi dal letto, quasi a cadere, scivolando, riuscì ad afferrarle un braccio, l'attirò a sè. Evelina non voleva; voleva opporsi, liberarsi.
—No, no, signor Pietro!
Poi barcollò e gli cadde addosso.
—Perchè piange così? Perchè piange così?—continuava a domandarle il Laner teneramente, affettuosamente, accarezzandole i capelli, baciandole le mani, e baciando ancora, farneticando dietro a "quell'altra", la giacchettina blù.
Evelina, a sua volta, non poteva più frenarsi. In un trasporto di tenerezza, di singulti, di lacrime lo scongiurò di salvarla, prima di partire, prima di abbandonarla per sempre; salvarla per carità! o lei faceva uno sproposito, si buttava dalla finestra!
…. Parlasse, quella sera stessa, parlasse alla sua padrona così buona, perchè la prendesse con sè. Nora la odiava, la detestava, le aveva messo contro lo zio Matteo, l'aveva fatta strapazzare, maltrattare. E quando Nora fosse maritata, non voleva, non poteva restare in casa lei sola, in mezzo alla tresca vergognosa dello zio colla Gioconda, con quella servaccia che tutti i giorni diventava più sfacciata, più cattiva, più insolente!
—Lo prometto, lo prometto! Stasera stessa parlerò. La padrona la terrà certo con sè. Ma non pianga così. Si calmi! Potrà combinare, fissare di restar qui. La padrona sarà contentissima. Fra poco…. resta libera la mia stanza….
—Sì! sì!—esclamò Evelina tremante, vibrante, trasfigurata, con un'altra voce, con un'altra espressione.—Sì! sì!… Sempre! Quando lei, Pietro, non ci sarà più, almeno vivere qui, morir qui, sempre, sempre!
Ma poi, come tornando in sè, spaventata e vergognosa di ciò che aveva detto, del segreto, del "segreto suo" che le stava per sfuggire, si ritrasse allontanandosi. Il Laner, più pronto, le prese la giacchetta. Evelina fece uno sforzo per divincolarsi, e la giacchetta, dagli occhielli logori, si sbottonò d'un colpo: sotto, non aveva che la camiciuola di mussola leggera, scollata. In quel buio, apparì il bianco del collo, il bianco del seno. Pietro commosso, acceso, esaltato, sporgendosi con un piede giù dal letto, cingendole con un braccio la vita esile, strinse Evelina fortemente, appassionatamente…. La faccia, la barba lunga, ispida, toccò, il collo, il seno ignudo…. Sussultando, arrossendo, Evelina gittò un grido, un riso folle di piacere. Si buttò sul letto di colpo, serrandosi con uno spasimo convulso addosso a Pietro. Lo avvinghiò col corpo magro, serpentino; lo baciò come una pazza sugli occhi, sulla bocca, sul petto, soffocandolo col fiato caldo, mormorando parole rotte dai singulti, dai tremiti:
—Prendimi, prendimi, prendimi!
Cercò, trovò la mano madida del convalescente, la strinse, l'accarezzò, si accarezzò tutta con essa ridendo, rabbrividendo, tenendola amorosa, premendola forte sul piccolo seno balzante, anelante….
—Prendimi, prendimi!… Sono sola! Sono libera di me! Sono padrona di me! Voglio esser tua! Lo voglio io! Fammi morire…. morire tua…. Voglio…. voglio…. tua….
La finestra si spalancò per un colpo furioso di vento: nella contrada, lontano, sbattevano, echeggiando le imposte: un lampo, un fragor lungo, uno scoppio, un tuono terribile, e subito la pioggia cadde a dirotto, scrosciante.
Ecco il grande manifesto che tappezzava le vie di Milano.
Cittadini!
L'Italia che ha dato al mondo latino i superbi acquedotti, che ha congiunto Roma al Tirreno, che ha scavato fra le pianure dell'estrema Europa il Vallo di Trajano; l'Italia che ha dato alla civiltà moderna la diga di Malamocco, che ha prosciugati i suoi laghi, fecondate le sue maremme; l'Italia dalle grande conquiste dell'intelligenza, del lavoro, del raccoglimento e della pace; l'Italia nostra sta per conseguire una nuova vittoria, per assurgere a nuove grandezze.
A Parigi, alla Francia, giustamente orgogliose di un Ferdinando di Lesseps, Milano, Venezia, l'Italia, contrappongono, parimenti orgogliose, un nome, un uomo, non meno insigne e benemerito nella sua modestia operosa: Il capitano Fara-Bon. Un nome, un uomo sorto da quel popolo che ha dato con Giuseppe Garibaldi il genio eroico dell'azione, con Cavour e con Mazzini il genio "come la luce provvida" del pensiero.
Il secolo XIX riassumerà la sintesi della gloria di Suez e del Panama, con una gloria italica:
La Navigazione Cisalpina.
È questo il Sodalizio fecondo e ardimentoso che intende affratellare il Genio, la Scienza, il Capitale; affratellarli in un fascio di energie e di risorse nuove, rinnovellate.
La Navigazione Cisalpina ha per iscopo:
a) Mettere in comunicazione il Po col Lago di Garda.
b) Unire Torino a Pavia rendendo navigabile l'Eridano antico, tra le due insigni città.
c) Imprimere nuova vita al porto di Venezia, punto di fusione, fra la navigazione interna, la Cisalpina, e quella esterna, dei mari.
Italiani!
Al problema sociale che ogni giorno incombe più grave e più doloroso, per il disagio economico derivante dallo scemare delle industrie, dal languire dei commerci, alle innumeri e minacciose falangi dei disoccupati invocanti lavoro e pane, la Navigazione Cisalpina offre la soluzione pronta, efficace. Sarà la risposta illuminata, umanitaria, delle classi dirigenti, a chi soffre non solo, ma altresì agli agitatori, ai banditori delle teorie fallaci, delle esotiche idee, perturbatrici di ogni ordine sociale.
Italiani!
Ieri ancora, alla Camera, uno dei più autorevoli patriotti denunciava le necessità urgenti della scarsa Difesa Nazionale.
La Navigazione Cisalpina, determinando le nostre linee di difesa, di operazione, d'arroccamento, dotando le nuove vie acquee di potenti mezzi di trasporto indispensabili ai grandi movimenti strategici, sarà fonte di economia in tempo di pace, di augurati trionfi in tempo di guerra. Così
La Navigazione Cisalpina.
assicurerà profetica l'Augusta Parola che dai sette colli della Terza Roma, proclamava intangibile l'Italia degli Italiani, l'Italia di Dante e di Galileo.
La Navigazione Cisalpina, Società Anonima Cooperativa a Capitale illimitato.
Per la sottoscrizione delle azioni (Lire 2000 cadauna, in una sola rata) rivolgersi tutti i giorni, tranne i festivi, alla sede del Comitato promotore, Via Manzoni, n. 90, piano nobile, nelle ore d'ufficio.
Il Comitato promotore:
Presidente, il marchese FERDINANDO FRATTA, Principe di ROCCA TOLOMEI.
Vicepresidente, il conte cav. ASCANIO BOBBOLI.
Direttore tecnico
Il cav. uff. ing. arch.
CARLO FONTANELLA
Direttore amministrativo
Il cav. ENRICO BRUNETTI
Segretario generale
MATTEO CANTASIRENA.
Membri del Comitato
Dott. cav. PIO CALCA, Possidente; avv. comm. PASQUALE TODDO-BERTÙ,
Deputato; barone comm. VINCENZO LO FORTE DI SANTA TRINITA,
Deputato; PIETRO LANER, Possidente-Pubblicista; AMBROGIO VERGANI,
Industriale; CAMILLO BERETTA, Banchiere; marchese comm. GIAN
FRANCO DURANTI, Possidente; SERAFINO CARLI, Possidente; FRANCESCO
PALAZZOLI, Costruttore; NAPOLEONE SALVALAJ, Pubblicista; cav.
MARCO SALÒ, Imprenditore; GIOVANNI BIZZARELLI, Ragioniere; BLASE E
PAOLY (Losanna), Agenti di Pubblicità.
Questo grande manifesto, la prima emanazione del nuovo Comitato, per poco non fu causa che mandasse a monte l'impresa.
Ma come?… Era forse il manifesto che avevano tanto discusso e finalmente approvato tutti insieme, nella sala del ristorante Canetta?… Tutti insieme, meno il Toddo-Bertù e il Santa Trinita, ai quali Cantasirena aveva scritto, poi telegrafato a Roma per avere l'adesione e la firma. Ma come? Erano stati burlati, mistificati, ingannati! E ognuno dei soscrittori si sentiva compromesso, e minacciava, voleva dare assolutamente le proprie dimissioni.
Il marchese Tolomei protestava indignato. Aveva finito coll'accettare la presidenza del Comitato soltanto dopo aver avuto l'assicurazione formale che il duca di Casalbara aveva a sua volta accettato di esserne il presidente onorario!… Quel Cantasirena era dunque un uomo di malafede, un mistificatore!
Il conte Bobboli, il Fontanella, il Brunetti, erano non meno furibondi per il carattere anonimo e cooperativo che il segretario generale, di motuproprio, aveva impresso alla società. E Pio Calca?… Pio Calca avrebbe certo avuto dispiaceri per l'ultimo inciso, per quel Roma intangibile. Figurarsi i suoi parenti, e sua madre….—soa mader!—Quel Cantasirena era un matto! Un imbroglione!—E Pio Calca, piccolino, biondino, con una vocetta stridente da musico in convulsione, gesticolava scalmanato, spiritato, gridava coll'uno, coll'altro per giustificarsi, per difendersi.
—È un'indelicatezza! Una sconvenienza! Doveva aver riguardo per mia mader, che ha già preso cinque azioni, per me…. e anche, in certo modo, per i mee pajsan! Chi ha un gran patrimonio, come il nostro, quasi tutto in terreni, Domeneddio deve tenerlo in piedi, al suo posto…. anche per i pajsan! E poi di noi due la più ricca è sempre mia mader e sarebbe una vera pazzia il mettersi in urto per sciocchezze inconcludenti come il credere sì o no in Domeneddio, o il voler restare a Roma più o meno!…
E anche Pio Calca, arrabbiatissimo, avrebbe voluto dare le dimissioni da membro del Comitato. Avrebbe voluto, perchè se aveva paura per soa mader, per la parentela, per i pajsan…. era inquieto anche per via di Matteo Cantasirena, il quale con Pio Calca alzava subito la voce e minacciava di portare la quistione sul terreno personale.
—Per me, tanto, mi batterei anche dieci volte! Ma non posso farlo per le idee di mia mader! Impossibile!… Sarebbe capacissima di lasciare tutto il suo alla chiesa o all'ospitale!
In quanto al Cantasirena, egli se ne infischiava allegramente delle proteste e delle minacce. Ormai li aveva nelle mani, presidenza e membri del Comitato, prefetto e governo, e anche i piccoli pesciolini, come il Vergani, il Beretta, il Palazzoli, il Bizzarelli che si erano lasciati indurre a metter la firma, per correr dietro ai propri denari, e adesso per paura di perderne degli altri, gli obbedivano ciecamente e ciecamente votavano per lui.
Matteo Cantasirena nella costituzione del Comitato promotore aveva avuto la mano abbastanza felice. Trovato irremovibile il Casalbara, che alle sue continue insistenze perchè accettasse la presidenza onoraria, aveva risposto, seccato, con uno di quei—no—che non ammettono replica, era riuscito a trappolare il Tolomei, che se non era simpatico e popolare come il Casalbara, era altrettanto influente e risonante di titoli. Era, nientemeno, che il capo del partito radicale a Castellanzo e a Primarole: una reliquia autentica dell'aristocrazia in malora, che si era buttato rabbiosamente fra le braccia dei democratici, perchè la gente del suo mondo gli avea voltato le spalle, omai ristucca di aprir la borsa.
—Bisogna cominciare sul momento l'azione e l'attacco,—aveva detto al prefetto Matteo Cantasirena.—Bisogna cominciare gli studi, i lavori per la "Cisalpina" molto prima che la lotta elettorale abbia preso il campo, e bisogna mirare dove l'avversario è più forte. Il marchese Tolomei è il grande elettore del Bonforti e del Ghirlanda?… Ebbene, per disorientare, sgominare l'inimico, è alla merlata rocca tolomea, che bisogna tirare il primo colpo!
—Sicuramente!—aveva risposto il Prefetto,—il poter conquistare il
Tolomei farebbe buona impressione al Governo.
Il viso tondo, scialbo, dalle fedine rossicce, dell'alto funzionario rimaneva sempre impassibile, impenetrabile. Soltanto quando profferiva quella parola—Governo,—nell'occhio cerulo, improvvisamente immalinconito, errava, spirava l'amarezza triste dei rassegnati.
—Capisce, commendatore? Sono già d'accordo col Fontanella: si compera il palazzo Tolomei a Primarole…. una topaia, mezzo disabitata. Pagandola bene, specialmente pagandola subito, facciamo entrare il Tolomei nel Comitato, lo facciamo presidente, e il palazzo Tolomei, restaurato alla bell'e meglio, diventa la sede della Direzione generale degli studi per la Navigazione Cisalpina, dalla quale si stende una gran rete d'interessi e di interessati, su tutta la zona dei due collegi. Anche su di ciò siamo d'accordo io e il Fontanella. Gli studi devono procedere febbrilmente, colla maggiore alacrità e senza risparmio. Il risparmio, nel movimento delle grandi imprese, è sempre stato la tomba del capitale! Un corpo di venti ingegneri!… Cinquanta assistenti!… Tutta gente del luogo, il Tolomei alla presidenza…. e abbiamo vinto!
—Sicuramente.—E il Prefetto, lì per lì, promise i fondi per un giornaletto elettorale "Le Risorse Italiche."
Il Tolomei non aveva accettato che ad una condizione: che il Comitato non avesse colore politico…. e per esser tranquillo e convinto di ciò, bastava notare e far notare com'era composto. Il marchese Tolomei, radicale, e Pio Calca, clerico-moderato: il Salvalaj, socialista, e Marco Salò, protezionista; Pietro Laner, trentino, scrittore di prima forza, poeta di prim'ordine, irredento sfegatato, e il marchese Duranti, un ex devoto dell'Austria. E siccome appunto il Tolomei brontolava per l'inclusione del Duranti, Matteo Cantasirena gli faceva capire che aveva torto.
—Caro Tolomei: gli uomini sono mutati e anche il valore delle parole. Austriacante non ha più lo stesso odioso significato. In mezzo alla confusione dei partiti nuovi, della gente nuova, delle nuove scuole, delle nuove teorie e delle nuove follie, austriacante, ha, direi, alcunchè dell'austero, dell'antico, dell'aristocratico, del finanziariamente solido….
—Ma…. il Casalbara? C'è o non c'è? Se c'è lui, ci sto anch'io, se no, no!
—Giovanni?… Mio nipote?… Più che nipote, figlio direi quasi di elezione e di affetto?… Eccolo qui.—E gli fece vedere la prima minuta del manifesto, col duca di Casalbara presidente onorario.
Allora il Tolomei accettò la presidenza effettiva, e accettò anche una forte anticipazione sul palazzo di Primarole…. e però quando il nome del Casalbara non apparì sul manifesto, il Tolomei non potè più ritirarsi.
Così il conte Bobboli: costui non pensava che a godersi in pace i suoi milioni, e sopratutto a vivere all'ombra, quietamente, schivando ogni rumore, dando sempre ragione a tutti quanti, per la tema di poter essere tirato in ballo anche nella più piccola quistione.
Ma ecco, un bel giorno, legge sulle Risorse Italiche la gran notizia che gli elettori di Primarole, "gli elettori della libertà nell'ordine", lo vogliono portare contro il Bonforti, "un rumoroso atleta dello scandalo, un furibondo iconoclasta di ogni più pura immagine del patriottismo nazionale."
Fu una mazzata sul capo. Il Bobboli traballò, gli sembrò che il terreno gli mancasse a un tratto sotto i piedi, e scrisse subito al giornale che non voleva saperne di deputazione, che era malandato in salute, che partiva subito per Parigi! Ma in risposta gli capitò una lettera misteriosa di Matteo Cantasirena colla quale lo pregava di passare in giornata al "Le Risorse Italiche" per il decoro, l'interesse morale del partito, riverberantesi sulle istituzioni.
Il conte Bobboli si precipitò all'ufficio del giornale, tutto rosso, sconvolto, sossopra: sossopra anche il parrucchino di solito così leccato e lucente.
Il direttore lo accolse con gran sussiego:
—Scusi, caro conte, il disturbo; ma è certo che il suo rifiuto inaspettato, inesplicabile….
—È inesplicabile, inaspettata l'offerta!… Io non ho mai domandato altro che di restar tranquillo.
—Tranquillo lei? L'uomo dalle grandi imprese, dai grandi affari, dalla vita avventurosa, regale, anzi diremo, vice-regale?—E Matteo Cantasirena sorrise, socchiuse gli occhi.—Non sarà; ma è pur certo che il rifiuto sembrerà strano; avrà quasi l'apparenza di una ritirata, susciterà commenti, indiscrezioni.—E Matteo Cantasirena tornò a socchiudere gli occhi, ma soffiando e sospirando.—Io dovrò difenderla, indirettamente, dovendo difendere l'uomo scelto dal nostro partito, il gentiluomo beneviso in alto luogo; e, prima di impegnarmi in una lotta fierissima, usque ad finem, mi necessita la piena conoscenza dei fatti.—E qui, Cantasirena con un'aria da giudice istruttore gl'indicò la seggiola di faccia, dall'altra parte della scrivania:
—S'accomodi.
Da rosso, il povero Bobboli era diventato pallidissimo.
—No…. no…. Non voglio lotte, non voglio polemiche! Io non accetto la deputazione perchè la politica non è affar mio, perchè non so nemmeno parlare….
—Il deputato che ci occorre oggi è il rara avis: è quello appunto che sappia tacere.
—Ma che io…. non sia più padrone della mia libertà?
—Nessuno può vantarsi libero in un paese sinceramente libero. Guardate l'America!
Vi fu un lungo silenzio.
—"Calomniez"—riprese poi Cantasirena,—"il en restera toujours quelque chose!"—E avvicinando il faccione sfrontato e scrutatore alla faccia allibita del candidato di Primarole, domandò colla voce cupa, penetrante:—Lei conosce bene la leggenda egiziana, che corre per il mondo?
—Chi può far ta…. tacere le canaglie?—balbettò l'altro senza fiato.
Matteo Cantasirena lo fissò, continuò a fissarlo. Con una mano si accarezzava la barba lunga, fluente: coll'altra, tesa sulla scrivania, suonava il tamburino colle dita, sempre più forte, con un'irritazione, una minaccia crescente…. E intanto lo fissava, continuava a fissarlo.
Il povero Bobboli-beì in quell'occhio acuto, luccicante, in quel viso severo, minaccioso, vide riapparire, ritornare a galla, tutto il suo passato…. Il traffico dei neri…, il commercio delle bianche…. le cambiali…. la rovina d'Ismail pascià. Allora, sentendosi perduto, perdette la testa; ebbe paura dei morti, paura dei vivi, paura, più di tutti, di Matteo Cantasirena, e per ciò gli si abbandonò nelle mani senza nemmeno venire a patti.
Invece, per risolvere la madre di Pio Calca a permettere al figliuolo di portarsi deputato e ad inscriversi fra i promotori della "Cisalpina", furono messi in moto tutti i preti dei due collegi, con monsignor Meneguzzi alla testa. L'architetto Fontanella avrebbe comperato, per conto della Società, certi fondi della fabbriceria di Castellanzo, che non rendevano un soldo, e provveduto al restauro, colla fondazione di una messa, per i lavoranti e gli operai, di una certa chiesa detta di San Vicenzino…. grave oggetto di scandalo per tutti i devoti.
Figuriamoci! L'aveva presa in affitto un prete spretato, fattosi pastore protestante, e vi teneva le sue adunanze, le sue conferenze per la propaganda evangelica!
E così era cominciata la lotta elettorale e così cominciava a diffondersi, a prender piede e a prender corpo la Navigazione Cisalpina e si raccoglieva attorno a Matteo Cantasirena tutta una schiera, tutto un esercito, tutta una popolazione d'interessati.
Oltre al Tolomei, al Bobboli, a Pio Calca, oltre al marchese Duranti—che dopo aver rinnegato Cantasirena quando ormai lo credeva liquidato e morto, adesso, per riamicarselo, comperava le azioni della "Cisalpina"—oltre al Brunetti, al Vergani, al Bizzarelli, si mettevano in moto, si agitavano tutti i parenti e i dipendenti di costoro. E i radicali che lavoravano per il Tolomei, e i clericali che lavoravano per Pio Calca, e gli avversari del Bonforti, che volevano ad ogni costo il conte Bobboli!… Poi i venti ingegneri, poi i cinquanta assistenti, poi tutti gli altri che avevano da guadagnare, da lavorare, da sperare nella "Cisalpina" e anch'essi, alla lor volta, colle loro famiglie, i loro amici, le loro aderenze. E da una parte il prefetto e gli agenti del Governo, e dall'altra i sindaci, i comitati, le associazioni…. Più aumentava la folla, più s'ingrossavano gl'interessi, le speranze crescevano, si accendevano le passioni, gli odî, le guerre, le cupidige. E in mezzo a quella turba, a quella folla, l'architetto Fontanella, intrigante, strisciante, petulante; e sopra la folla, sopra tutto, Matteo Cantasirena, sempre olimpico, maestoso, sereno, sempre convinto nella giustizia della lotta elettorale, nella bontà dell'impresa, nel genio di Fara-Bon, che ritornava a fare, che continuava a fare ciò che aveva sempre fatto e disfatto: raccogliere quattrini a palate per buttarli a cappellate!
Il direttore, abbandonato l'antico quartiere, aveva preso in affitto tutto un villino in via Ricasoli. Nel pianterreno, aveva messo gli uffici delle Risorse Italiche; al piano nobile il suo appartamento, colla Gioconda innalzata al grado di governante, e Taddeo, press'a poco, a quello di maggiordomo. Di sopra, lo studio dell'architetto Fontanella, la cameretta di Pietro Laner, e il quartierino di Evelina, che viveva tutta sola, affatto ritirata, con una servetta più gialla, più brutta, più gobba di lei.
Evelina avea voluto così, e ormai era Evelina la coccola, il cuore, il grande amore dello zio Matteo. Eleonora, quell'egoista superbiosa, non si poteva più nemmeno nominare, o lo zio Matteo—non più zio per lei!—strepitava, montava in furia. La cagione di un così gran mutamento era stata la condotta di Nora, la quale s'era rifiutata di seguire i consigli, le esortazioni dello zio, non avea voluto prestarsi per indurre quel vecchio testardo di Giovanni, pieno zeppo di pregiudizi di casta, di albagia, ad accettare, nientemeno, che la presidenza onoraria della Navigazione Cisalpina! E non solo questo, ma pareva di più, che "quella bisbetica indomabile" cercasse di scavare l'abisso fra lo zio, non più zio, e il suo biondo senatore! Così, un duca di Casalbara, faceva in certo qual modo il paio con un Marco Salò di Trieste, l'unico dei firmatari del comitato promotore che dopo ricevuto il manifesto s'era incaponito a voler dare e mantenere le proprie dimissioni!
E anche alle nozze celebrate a Casalbara in forma privatissima, Matteo Cantasirena aveva avuto un contegno rigido e severo. Un solo momento di commozione alla partenza, nell'abbracciare quel povero Giovanni! Ma per lady Macbeth, niente! Era felicissimo di non rivederla più per un bel pezzo! Andasse pure a Nizza, a Parigi, a Londra…. e a Bergamo! Tanto meglio! Lui aveva fatto il suo dovere di padre, l'aveva messa a posto…. e adesso basta! Quando i suoi affari gliene avessero lasciato il tempo si sarebbe dedicato a quell'altra, alla buona, alla cara Evelina!—Oh, Evelina!—Era Evelina la sua figliuola vera, l'unica, la soave Cordelia dello zio Matteo! La bontà la rendeva piacente, la rendeva perfino bella!…—Quel Laner! Un melenso, un ignorante! Trascurava tanto tesoro di tenerezza, di poesia, di vera poesia,—altro che i suoi versi!—Mah! I contadini, i villani, misurano tutto a palmo! Ciò che ad essi fa colpo non è la qualità, è la quantità! Quell'altra, era più grande, più grossa, e gli aveva fatto più colpo!
Lo zio Matteo, in conclusione, avrebbe voluto che il Laner sposasse Evelina, non tanto per Evelina, quanto per le ventimila lire del libretto della Cassa di Risparmio.
Come tutti i prodighi, egli aveva l'avarizia, la smania di quei denari che non poteva toccare e buttar via colle sue mani. La somma sborsata dal Casalbara per pagare il Laner, la considerava sua, per la ragione che era suo il debito; e impiegata al tre per cento, per la gretteria sospettosa della signora duchessa, era, per lo zio Matteo, un capitale suo, sciupato!
—Quell'irredento chitarrista, è stato lui, colla sua cocciutaggine, colla sua classica inabilità, che ha ammazzato l'Emporio Letterario!… Tocca a lui a pagar le spese!… Tocca al direttore "responsabile" dell'Emporio, non a quello del Rinnovatore!
Soltanto la speranza di far sposare Evelina al Laner, lo aveva calmato, rabbonito. Le ventimila lire sarebbero state la dote della sua cara Evelina, e per quella figliuola era sempre pronto a sacrificarsi.
E di nuovo si era tirato in casa Pietro Laner, creandolo suo "segretario di gabinetto", mandandolo di qua, di là, facendolo lavorare per il nuovo giornale, per il comitato, per le elezioni, strapazzandolo come un cane per vendicarsi di Nora; quell'ingrata, che non gli scriveva, che non faceva un passo, che non gli domandava perdono….
—Dopo che mi deve la sua fortuna, la sua posizione, una delle "prime posizioni" di Milano!
Pietro Laner, quando lesse il suo nome sul manifesto della "Cisalpina" si sentì stringere il cuore, prevedendo nuovi guai. Era il primo giorno che usciva di casa per rinfrancarsi un po' sulle gambe. Si sentiva indebolito, fiacco, era malinconico e triste; e leggendo quel manifesto, vedendo il suo nome e col fantasma di Evelina sempre fisso in mente, tornò a pensare con un brivido di terrore superstizioso che aveva proprio ricominciato a vivere di venerdì!
Ah, come avrebbe voluto ritornare a Crodarossa!… Ma non osava più parlarne: Evelina scoppiava subito in lacrime.
—Sola?… sola?… sola?… Lasciarmi sola nel mio stato d'angoscia, orribile, tremendo?… No, no, Pietro, non lasciarmi sola! Se in un impeto di smarrimento, di disperazione perdo la testa, Dio, Dio, per te…. che rimorso!
E intanto, anche a Crodarossa, cominciavano a inquietarsi, a spaventarsi.
Evelina non mandava più lettere; e Pietro, preso dall'inerzia, dall'abbattimento, lasciava passare i giorni ripetendo sempre a sè stesso: Scriverò domani, scriverò domani!
La signora Angelica e la signora Rosina stavano ancora nel lungo riposo del dopo pranzo alla finestra della loro cameretta, ma non sospiravano più guardando l'orto, guardando il "Gigantesso" e pensando a quell'altra, alla nuova padrona. Si guardavano mute nei poveri occhi pieni di lacrime e sospiravano, sospiravano pensando a Pierino.
Un giorno—era tornato l'ortolano dalla posta ancora senza lettere—non si sentirono più la forza di resistere ed ebbero invece, tutt'e due, nello stesso tempo, lo stesso pensiero:
—Andemo a Milan?
—Andemo.
Trotterellando, corsero a confidare la loro risoluzione, il loro colpo di testa a Don Giuseppe, che rimase attonito, a bocca aperta, un po' perplesso e impensierito per quella partenza.
—Certo, certissimo, un'inspirazione del loro buon cuore, non può essere che un'inspirazione di Quel di lassù. Intanto, in quanto a me, per tirare innanzi in questi giorni…. Dio vede e Dio provvede!
E Don Giuseppe,—erano in cucina,—sospirò guardando malinconico i fornelli.
Ma la signora Angelica e la signora Rosa si affrettarono a tranquillarlo. Per una settimana avevano date tutte le istruzioni e anche le provviste occorrenti alla Nunziatina, la figlia dell'ortolano. Prima di partire avrebbero preparato il golasch colle patate per due giorni; per altri due giorni, pollo e patate a lesso; per i giorni di magro il merluzzo, le uova, e insalata di patate. Avrebbero consegnato alla Nunziatina il quantitativo occorrente di burro, di caffè; poi sarebbero tornate, giusto in punto, per il giorno della lavandaia, e Don Giuseppe non si sarebbe nemmeno accorto della loro assenza.
E così, piene di borse, di fagotti, con un'oca "bella grassa" e un sacchetto di noci, le due vecchierelle, sempre collo scialletto nero e col fazzoletto di maglia grossa annodato sotto il mento, capitarono a Milano, tenendosi vicine vicine, per non perdersi in quel diavolesso, in tutta quella gran confusion!
Ma, subito, si rincorarono alla vista di Pierino che le accolse festoso, giubilante, e che esse—Dio sia lodato!—ritrovavano, dopo tante angosce, perfettamente rimesso in salute; soltanto con un colorito un po' più pallido, "più civil!" Poi tornarono a confondersi, a smarrirsi alla vista del "signor commendatore direttor Cantasirena" e alle sue espansioni rumorose, assordanti. Ma di nuovo si rinfrancarono, si consolarono con Evelina, così modesta, insinuante, economa, tutta di casa, e così piena di attenzioni e di premure.
La signora Angelica e la signora Rosa, piombate da Crodarossa a Milano, spinte dal presentimento, dal dubbio di una disgrazia, vi ritrovavano invece il loro Pierino rimesso in gamba, colle ventimila lire ancora intatte, e "vicinissimo a farsi uno stato magnifico, sotto la protezione del signor commendatore direttor." E trovarono pure il buon tempo, l'allegria, quegli svaghi che in tutta la loro vita non avevano mai avuto, non avevano mai sognato.
Pierino sentiva ormai che della sua grande felicità d'un tempo non aveva più altro che quelle due vecchierelle, e si mostrava assai più affettuoso e amoroso. Matteo Cantasirena faceva loro, col vocione rimbombante, elogi e complimenti straordinari, ch'esse, magari, non capivano bene, ma che cercavano poi di spiegarsi l'una all'altra quando erano sole, e le teneva allegre, le rendeva arzille, coi pranzi squisiti e coi vini prelibati. Evelina le portava in giro per tutte le chiese, pregava con esse, con esse faceva tutte le sue divozioni, baciava tutte le reliquie. Poi le conduceva a passeggiare sotto la Galleria, o lungo il Corso a vedere i negozi. La signora Angelica e la signora Rosina erano ancora intontite, spaurite, in mezzo al trepestìo della folla. Si tenevano per la sottana, ma abituandosi a mano a mano, cominciavano ad ammirare, ad estasiarsi. Il Duomo esse non lo vedevano nemmeno: era troppo grande, troppo immenso pei loro piccoli occhi esterrefatti, ma rimanevano immobili, attonite dinanzi ai Bocconi, si dilettavano, si godevano, si maravigliavano dinanzi alle trottole, ai topolini, ai pulcinella dei rivenditori ambulanti. E strabiliavano, trasecolate, per i prezzi enormi, "esageratissimi" di tutta quella roba, e poi sospiravano, si guardavano mute, titubanti per via d'un panettone che il loro cuore voleva portare a Don Giuseppe, ma la cui spesa era l'unico tormento, l'unico affanno di quei giorni felici.
Pietro continuava a trovarsi colle zie, sempre insieme alle zie. Pure, a un tratto, sebbene le due vecchiette, sballottate in quello stordimento, non se ne fossero accorte, egli era diventato taciturno, cupo. Fissava spesso Evelina con una domanda ansiosa negli occhi, e la ragazza gli rispondeva con un brivido, impallidendo.
Alcuni giorni, appunto, dopo l'arrivo delle zie da Crodarossa, si erano ripetuti più gravi i primi sintomi; e una domenica, tornati insieme dalla messa, mentre la signora Angelica e la signora Rosa trotterellavano innanzi, passando per le prime nel salotto, Evelina, fermato il Laner sull'uscio, gli aveva bisbigliato in fretta, tutta tremante:
—Ho paura…. ho paura.
—Paura di che?—aveva risposto l'altro pur con un tremito.
—Se fosse vero! Ah, se fosse vero! Un veleno, subito, fulminante! La morte!… La morte!
Ma la signora Angelica e la signora Rosa non sapevano leggere sotto la maschera del sorriso forzato. Esse credevano a tutti, credevano a tutto, sempre confuse, commosse per la grande, immeritata bontà di cui si vedevano circondate. E furono esse medesime che indussero Pierino ad accettare "subito subitissimo" le offerte di "quel grand'uomo, del signor commendatore direttor." Cioè, tornare a star in casa con lui, e assumere "per intanto" il posto, importantissimo, di suo primo consiglier particolare!
E le signore Laner, così festeggiate, accarezzate, naturalmente, invece di una settimana, si fermarono a Milano più di un mese. Sempre spaurite, stupefatte, sempre senza parole, non sapevano resistere alle preghiere di Pietro, agli abbracci di Evelina, alle intimazioni amabilmente imperative di Matteo Cantasirena, il quale le vedeva soltanto a pranzo, ma le incantava, le affascinava, le istupidiva per tutto il giorno.
—Bisogna partir….
—Dovemo proprio partir….
E intanto i giorni passavano, ed erano sempre a Milano, e appena appena osavano guardarsi, mute, sbigottite con lunghi sospiri, all'idea della collera "giustissima" di Don Giuseppe, rimasto solo, abbandonato a Crodarossa, colla Nunziatina, bona de gnente, oppure pensando alla lavandaia, alla biancheria, alle mele cotogne "de cernir" e alla canonica, tutta quanta in rivoluzion!
—Bisogna partir….
—Dovemo proprio partir….
E si decisero a partire, veramente, ma quando gli altri non pensavano più a trattenerle.
Pietro aveva promesso, subito, di accompagnarle fino a Crodarossa; poi, dopo, per via di quell'altra che faceva il muso, che si sentiva male, soltanto fino a Verona. Ma all'ultimo, Evelina, sempre in sospetto, sempre col timore che egli volesse scappare, gli tolse d'un colpo ogni lena e ogni forza di muoversi:
—Dio, Dio!… È sicuro! Il dottor Foresti se n'è accorto…. Ha capito tutto! È sicuro!
Pietro lasciò che la zia Angelica e la zia Rosina partissero sole. E alla stazione, salutandole, dimenticava quasi di abbracciarle. Era troppo sconvolto, troppo spaventato….
Che viaggio lungo, uggioso per le signore Laner, e come arrivarono tristi e malinconiche alla canonica! Osarono appena presentare a Don Giuseppe "coi saluti particolari del signor commendatore direttor" il bel panettone che Evelina aveva finito col regalar loro, per levarle dai triboli.
Don Giuseppe le aveva ricevute senza guardarle in faccia, con un muso "tremendo". Egli parlava soltanto colla Nunziatina; dava i suoi ordini, faceva tutte le sue raccomandazioni soltanto alla Nunziatina.
E la loro cameretta?—Cos'era successo?—Anche la cameretta non sembrava più quella di prima. Era diventata squallida, oscura….
Oh, quel gran silenzio che le circondava, come pareva cupo, come pareva vuoto!
—E l'Evelina?… Che angelo!
—Un vero angelo!
Così mormoravano, tra di loro, nello svestirsi per andare a letto, col pensiero e col cuore sempre a Milano.
—E Pierino?… Poveretto, alla stazion, per lo sforzo del trattener le lacrime, era tutto pallido, smorto….
—Smorto cadaverico, poveretto.
S'inginocchiarono, bisbigliarono le preghiere, intonandole più alto la signora Angelica, rispondendo a voce più sommessa la signora Rosa. ….Poi, dopo, a tutte due, nel coricarsi, sfuggì il medesimo sospiro.
—E il signor commendatore direttor?… Che belle maniere…. e che bella testa!
—Una vera testa da san Gerolamo!
—E che mani bianche, delicate….
—E la voce?
—El parla cussì ben come uno che canta!
E le vecchierelle, rannicchiate sotto le coperte, sospirarono ancora, sospirarono più volte, prima di addormentarsi.
Ma poi, passando i giorni coi giorni, sempre uguali, la gran città fu dimenticata a poco a poco, perdendosi, confondendosi lontano, nella memoria. E Don Giuseppe, l'economia, l'orto, la canonica avevano già ripreso il primo posto nella loro vita e nei loro pensieri, quando, d'un tratto, furono nuovamente sconvolte da un altro "rebalton", il più terribile di tutti!
Era capitata una lettera del Laner, scritta collo stile di Evelina, ma questo le zie non potevano capire, nella quale Pietro confessava il suo "ardente amore" per la giovane alla quale esse avevano dimostrata tanta bontà e tanto affetto, "per la nipote del signor direttore", e finiva col chiedere il loro consenso al matrimonio, e la loro benedizione.
—Jesus Maria Joseph!
—Jesus Maria!
E al solito, corsero smarrite, trafelate in cerca di Don Giuseppe.
Il buon prete, che con sua grande soddisfazione aveva visto la canonica riprendere, finalmente, la vita placida, tranquilla d'un tempo, non aveva adesso altro che un timore: qualche trambusto, qualche nuovo guaio e dalla parte di Milano. Però, sentito il caso, si affrettò, tanto per fin di bene, quanto per il quieto vivere, a calmare e a confortare le signore Laner.
—Tutto per il meglio, signora Angelica! Ma tutto per il meglio, signora Rosa! È sempre Quel di lassù che vede e provvede, e dobbiamo ringraziarlo come di un nuovo, segnalato favore. Pierino non è più solo a Milano, esposto a tutti i pericoli dell'anima, e diremo anche del corpo. Mi hanno ripetuto, tante volte, non è vero? che la ragazza, la sposa prescelta, è savia, modestissima, di ottimi principî?
—Oh, per questo, una vera perfezion! E anche economa.
—Economicissima…. Tutta di casa.
—E allora dunque?… Ma si potrebbe desiderare di più e di meglio, dal momento che è l'ispirazione, è la volontà diretta e medesima di nostro Signore? Mundus est et mundus esse debet!
—Ma…. Pierino, non ha ancora uno stato sicuro.
—Un impianto stabile….
—Quel signor commendatore, così potente, padrone dispotico di tutta
Milano, penserà certo alla sua fortuna, al suo avvenire. Diamine!…
Sposa una sua nipote!
—Ma…. la salute…. È malatina, esilina….
—Bruttina, anche, per dir la verità.
—E questo forma il più grande elogio del loro nipote, che non si è innamorato della bellezza del corpo, che è la dote del diavolo, ma della bellezza dell'anima, che è il dono più prezioso di Quel di lassù, essendo come una parte della sua stessa essenza divina! Da brave, coraggio, e ringraziamo tutti insieme con umiltà, con gratitudine il nostro Signore, l'Altissimo onnipotente, che tutto vede e provvede. Ed io, che per l'appunto, come servo, e indegnissimo s'intende, lo rappresento ai suoi fedeli, mando in questo momento al nostro Pierino, a Milano, la sua santa e paterna benedizione.
Il prete, diritto in piedi, si levò la berretta, e dopo aver fatto l'atto della benedizione, congiungendo le palme devotamente, intonò compunto, a bassa voce, le litanie:
—Kyrie eleison…. Christe eleison….
E le due vecchiette, inginocchiate a' suoi piedi, vicine vicine, come per dar più forza alla loro preghiera, come per unire in uno solo il loro fervore e il grande affetto per il loro Pierino, balbettavano colla voce fioca, tremante, rotta dalle lacrime:
—Ora pro nobis….
—Ora pro nobis….
Due seccature, una leggera, l'altra assai grave e pericolosa, turbavano il buon umore e il successo del direttore delle Risorse italiche, segretario generale della Cisalpina. La seccatura piccola, un'inezia, ma insistente, irritante come la punzecchiatura di una mosca, era Paolo Jona colla sua Durlindana. Ormai la Navigazione e Matteo Cantasirena facevano le spese di tutto il giornale umoristico. Appena affisso il manifesto del Comitato, la Durlindana, subito, era uscita con una grande caricatura a colori: Mosè salvato dalle acque. E Mosè, si capisce, era Matteo Cantasirena, le acque i debiti, le cambiali, i protesti; l'Arca, la Cisalpina, le vele il giornale le Risorse italiche, gonfiate dal Prefetto, che soffiava fondi segreti.
—Ragazzacci viziosi e sgrammaticati!—Matteo Cantasirena diventava furente, ma si arrabbiava fra sè, soltanto fra sè. Rispondere? Sfidare? Dar querela?… Avrebbe fatto ridere di più alle proprie spalle. Però, il vecchio giornalista fingeva, con sprezzante noncuranza, di non vedere, di non leggere mai la Durlindana, tanto "quel giornalaccio" era volgare, e senza spirito!
Non così, per altro, egli avrebbe potuto comportarsi alla seccatura più grossa: la guerra che faceva alla Cisalpina quel maledetto boemo "trasudante col sudiciume, i milioni e le canagliate!"
—Col Kloss non si può scherzare!
E si trattava appunto di Francesco Kloss, e l'odio, la guerra che gli faceva il Kloss, egli la metteva in conto di un altro regalo che gli venisse da Nora.
Il Kloss, adescato e poi rimasto a bocca asciutta, non potendo vendicarsi contro "madama Du Barry" si sfogava contro la Cisalpina.
—Beneficate!—brontolava lo zio Matteo.—Raccogliete le orfane dei vostri amici, e avrete in ricambio l'ingratitudine, sempre l'ingratitudine!
Era vero che Francesco Kloss, abbandonando il solito riserbo, s'era buttato accanitamente contro la Cisalpina, e i giornali radicali, avversari dell'impresa, più che per altro, per ragioni politiche e per mire elettorali, si facevano forti de' suoi giudizi, della sua aperta ostilità. Uno, fra gli altri, aveva appena pubblicata l'intervista di un reporter col commendatore Francesco Kloss a proposito delle "manovre nautico elettorali di Primarole". E l'intervista era riuscita tanto più impressionante per il tono burlesco. Il Kloss non faceva altro che ridere e sghignazzare, assicurando, che per conto suo avrebbe sempre aspettato l'acqua della "Cisalpina…. per correre ad annegarsi!" E il reporter riferiva il motto preciso, nel suo dialetto internazionale:
"Mi aspettassi cuell'acqua, per cour diretto a neccar!"
Ma nella guerra mossa dal tedesco alla nuova impresa non entrava affatto la "macchina a tispiasé" come egli chiamava la duchessa di Casalbara. Forse gli era rimasto per Nora un senso di dispetto, di antipatia unito alla diffidenza, ma ci voleva ben altro per muovere il Kloss, in pro o contro un'impresa, e per spingerlo a fare ciò da cui era sempre rifuggito quasi con terrore: parlare coi giornalista, trattare coi giornalista, concedere interviste ai giornalista!
Per indurlo ad un passo così avventato era occorso tutto il suo odio di razza contro gli "imbrojamestee" degli affari, della speculazione. E più ancora: tutto il suo proprio, il suo vero, il suo solo interesse!
Quella "carnevalata" della Navigazione Cisalpina poteva di contraccolpo, suscitare diffidenze, timori nel pubblico per le grandi speculazioni della Borsa, per gli affari sul serio, insomma per gli affari della banca Kloss e C.
—Cunt i tannée del pubblich se scherza no!—dichiarava il Kloss senza più ridere nè sghignazzare, perchè istintivamente, per abitudine, i denari del pubblico li considerava già suoi.
Le Risorse italiche non raccolsero il fiero attacco di quell'intervista. Soltanto il giorno dopo, recavano al posto d'onore "in corpo nove" un avviso interessante, ch'era anche una stoccata.
"Il segretario generale della Navigazione Cisalpina, commendator Matteo Cantasirena, terrà domenica 1.º giugno, nella fausta occasione della Festa Nazionale una conferenza nel gran salone del "Palazzo dei Lavori" a Primarole, sul tema: "La Navigazione Cisalpina.—Il passato, il presente, l'avvenire."
"L'onorevole conferenziere spiegherà il concetto creatore del compianto capitano Fara-Bon e illustrerà l'estrinsecazione pratica che di esso sta per assumersi il suo degno discepolo e continuatore, l'ingegnere cav. Carlo Fontanella, giovane ricco di censo, di mente, di cuore e di studi. Il Fontanella risolverà uno dei problemi più utili alla grandezza italiana, rispondendo colla vittoria dei risultati, alle guerre coperte e insidiose degli atrabiliari e dei settari i quali soffocano ogni sentimento di patria nei loro odî, nelle loro cupidige ascose e tenebrose.
"L'illustre oratore, infaticabile segretario della Cisalpina, darà conto altresì delle numerose e preziosissime adesioni che continuamente pervengono al Comitato: ed inviterà gli intervenuti alla cerimonia di chiusura del concorso, per la scelta del bozzetto di un monumento al grande Ideatore."
Una noticina in corpo sette, soggiungeva poi:
"A proposito del concorso. Siamo in grado di prevedere che i suffragi del pubblico, come già quelli della competentissima e solerte commissione aggiudicatrice, si raccoglieranno indubbiamente sul bozzetto dello scultore Gesualdo Arcangeli: "Fara-Bon dinanzi a Malamocco." È questa un'opera d'arte nella quale l'alta e patriottica idealità del concetto si rivela nella severità classica della forma, scevra da ogni ibrida concessione alle volgarità del cosidetto verismo. Nè poteva essere altrimenti. Gesualdo Arcangeli è cittadino dell'eroica Brescia, è figlio di quel prode Agesilao, a noi più che compagno, fratello nelle lotte e nelle congiure, morto sulle barricate, colpito in fronte dal piombo di un caporale croato…. anzi boemo."
Ma dalla freddezza colla quale erano stati accolti e riportati dagli altri giornali, anche dagli stessi giornali del partito, i "comunicati" riguardanti la conferenza di Primarole, il monumento e le nuove adesioni, Matteo Cantasirena, col suo fiuto finissimo, aveva subito capito di essere un po' in ribasso dopo la famosa intervista.
Si trattava, per il pubblico, di metter mano alla borsa e facevano più colpo il gergo barbaro e lo scetticismo del banchiere, che dava l'allarme, di tutti i pistolotti e le evocazioni nazionali…. per cavargli quattrini.
—Italia! Italia!—gemeva dolorosamente Cantasirena. Poi pensava al modo di difendersi e concludeva:—Bisogna neutralizzare il Kloss!
Il direttore era solo nel suo studio, alle Risorse italiche: uno studio artistico e patriottico: il busto del Fara-Bon, dal solito barbone e il berretto di pelo, e, in alto, in una gran cornice, una lettera autografa di Garibaldi.
—Bisogna rendere l'Austria neutrale…. o meglio ancora, farsela alleata!…
E pensava, continuava a pensare, accarezzandosi la barba, arricciolandone la punta, nervosamente.
Aveva bisogno di denaro, di molto denaro. Aveva pagato i debiti vecchi…. ma cominciavano già ad invecchiare anche i debiti nuovi….
—Il Brunetti, il Bizzarelli, il Palazzoli…. tutti spiantati!… Il Fontanella…. un pusillanime! Gli operai, i giornalieri, si sa, sono un branco di affamati! Ebbene, quando strepitano, quattro schioppettate in aria e si cacciano in prigione! E quel chierichetto ambizioso di Pio Calca? E quel trafficante di carne umana del Bobboli-beì? Vogliono esaminare i conti!… I conti! I conti!… Se abbiamo fatto l'Italia è perchè non abbiamo mai contato nè i nemici nè i denari! I conti!… Io non accumulo! Io non nascondo i milioni!… Non ci credono? Vengano a vedere!
E il direttore sbuffò stizzito, con un'alzata di spalle. Se ne infischiava di quella gente! All'occorrenza il Fontanella, il Calca, il Bobboli, tutti quanti, avrebbero dovuto tirar fuori degli altri quattrini. Ma per la Cisalpina, per la riuscita della grande impresa, occorreva il capitale fluttuante, enorme, inestinguibile del pubblico, delle azioni.
—Maledetto boemo!… Bisogna agguantarlo per il collo!… Per lo meno imporsi, spaventarlo!… Spaventarlo?… Sicuro, perchè no?
Matteo, era seduto dinanzi alla scrivania; si allungò, si distese sulla poltrona.
—Spaventarlo?… Tedesco, affarista, donnaiuolo…. non dovrebbe essere difficile!
Rimase a lungo immobile, coll'occhio fisso ad un punto del soffitto: con una mano aveva afferrata tutta la barba, e si grattava il mento coll'indice… Poi gli sembrò… ebbe un lampo. Allora si scosse, si alzò come per seguire l'idea che gli era balenata…
—Gli spezzati d'argento…. Gli incettatori… Gli avoltoi della
Borsa… e delle borse! Benissimo!
Si avvicinò all'uscio e chiamò a mezza voce:—Signor Perego!
Un omino entrò quasi subito nello studio: piccolo, sudicio, sparuto, colle scarpe rotte e l'abito nero tutto liso; una faccia tra l'affamato e il delinquente. Egli si fermò dinanzi al direttore con un atteggiamento ch'era un mezz'inchino, e portandosi con un moto abituale della mano il grosso cordone del pince-nez dietro l'orecchio.
Il Perego poteva vantarsi di rappresentare tutta intera la redazione delle Risorse italiche. Il giornale "dei giovani e per i giovani" aveva infatti sempre piene di giovani le sale della direzione e le tasche del direttore. Ma a tutti quei giovani Matteo Cantasirena raccomandava di portar quattrini e abbonati: quando portavano articoli… questi finivano nel cestino.
Mariano Perego era straordinario nella sua qualità di giornalista utilité: aveva letto tutto, conosciuto tutti, ricordava tutto; era uno sgobbone portentoso, instancabile, un assimilatore dello stile di prima forza.
E per questa sua abilità, i colleghi lo chiamavano il falsificatore…, ma non per questa soltanto. L'appellativo aveva un senso recondito, ingiurioso e perfido: si riferiva alla prima colpa del Perego, quella che lo aveva disonorato, rovinato.
A diciott'anni, egli faceva ancora l'ultimo corso di liceo; pazzo per una donna, aveva falsificata la firma di un suo compagno di scuola, sotto una cambiale di cento lire: prima ancora della scadenza, il Perego si butta alle ginocchia dell'amico, gli confessa la colpa; l'amico perdona, paga, ritira la cambiale. Ma dopo, dopo forse una decina d'anni, mentre Mariano Perego, già molto innanzi nella carriera, nella fama, si trova impegnato in una fierissima polemica che appassiona tutta una città, che deve risolversi in un duello, in un seguito di duelli, ecco saltar fuori una prima voce, vaga, che ricorda quel fatto; poi, a mano a mano, la voce si fa più insistente, più precisa…. I padrini della parte avversaria esigono un giurì, il fatto delle cambiali è provato irrecusabilmente, e Mariano Perego, dichiarato indegno di battersi, infamato, deve abbandonare la sua città, il giornale fondato da lui, reso potente con tanti sforzi, con tanto ingegno, lo stesso partito politico al quale aveva dedicato la vita e pel quale sarebbe stato pronto a sacrificarla…. deve abbandonar tutto; ritrarsi, sparire!
Tutti, contro di lui e con più furore quanto più egli era salito in alto; tutti contro di lui, senza tregua, senza misericordia e gli amici più dei nemici, tutti i protetti, i difesi, i beneficati.—Giù, giù la nuova canaglia, giù, nel fango!
E Mariano Perego, il giornalista caduto, collo stesso fango di cui lo avevano coperto, s'era dato a sfogare i livori, gli odî, l'amarezza; e a quel fango aveva ricorso, anche per mangiare. Per mangiare soltanto, e male, e poco, perchè la gente rispettata e piena di onore, si valeva della sua miseria, della sua abiezione per sfruttare il suo talento, il suo lavoro e occorrendo la sua disonestà.
Matteo Cantasirena, meno male!… Nei giorni di abbondanza lo pagava senza contare e senza farsi pregare; quando era ridotto al verde non lo pagava affatto, ma lo invitava a pranzo e lo trattava a bordò. Il Perego, sfamato, ringalluzzito, lo serviva… e lo ammirava per fargli piacere.
—Pronto?—domandò il direttore fermandosi diritto in mezzo alla stanza.
—Prontissimo!—rispose il Perego: seduto alla scrivania si era preparato dinanzi un monte di cartelle.
—Si spara contro il Kloss?
—Già,—rispose Cantasirena, tenendo sollevata, colle mani incrociate sulle reni, la gran coda del soprabitone, e tornando a girar su e giù, dimenandosi, pompeggiandosi maestosamente.—Già, quattro parole per quello zingaro… banchiere! L'intervista è stata brillante; faremo anche noi un articolo allegro.
—Un po'… di Durlindana,—sogghignò il Perego che si godeva di tanto in tanto a ricordarla, appunto perchè quell'altro se ne rodeva.
—Scriva, senza interrompere!
Il Perego, si tirò il cordoncino del pince-nez dietro l'orecchio, e tutto umile, senza più fiatare, col muso basso, pronto colla penna sulla carta, aspettò che l'altro incominciasse.
—Scriva il titolo: Imperial Regio radicale: e sotto, tra parentesi: Spezzatino alla boema…. E di seguito, senza mai fermarsi, Matteo Cantasirena dettò l'articolo, parlando prima lentamente, pausando, col gesto e l'enfasi di un predicatore, poi alzando la voce a mano a mano, accalorandosi, pestando i piedi, lanciando invettive e minacce: ansava, sudava, tremolava tutto… ma non si fermava mai.
Mariano Perego lo seguiva a stento, colla penna che volava, scricchiolava sulla carta. Ad ogni periodo approvava col capo, mormorando "bene…. molto bene…. benissimo…." Infine scoppiò in un potente "maraviglioso" mentre, rizzandosi, arrovesciandosi sulla poltrona si fregava le mani con una stropicciata lunga, fragorosa, echeggiante.
E il Perego era sincero nel suo godimento! Oh, il bel pancione formidabile e incrollabile, come lo vendicava di quella folla di galantuomini così spietata e inflessibile contro di lui debole, contro di lui solo e vinto!
—Leggiamo tutto: da capo a fondo.
Il Perego lesse l'articolo con arte, con enfasi, e Matteo Cantasirena, brandito un lungo tagliacarte ne seguiva la lettura accennando ai punti, alle pause, agli "a capo" come un direttore d'orchestra.
L'articolo cominciava umoristicamente, domandando all'illustrissimo commendator Francesco Kloss, perchè aspettasse l'acqua della Cisalpina per annegarsi non solo, ma ben anche per…. lavarsi! Tuttavia lo scherzo durava poco e Matteo Cantasirena con la foga del suo stile rimbombante, lanciava contro il Kloss un'accusa esplicita, gravissima: era lui "l'Imperial Regio radicale" il capitano segreto della banda nera, il comandante in capo degli incettatori, il generalissimo dei ribassisti!
"…. Chi è l'implacabile, il feroce nemico della Navigazione Cisalpina? È il nemico più implacabile e più feroce di tutto il nostro credito, di tutti i nostri valori, è il contrabbandiere, il grande, il terribile incettatore del nostro oro, del nostro argento! È costui, l'omicciattolo saltellante e sghignazzante, lo speculatore tenebroso, che col suo gergo da barbaro e co' suoi giri e raggiri di avoltoio, diffonde il panico fra i nostri istituti di credito, fra le nostre case industriali, colla furia fatale di un'epidemia; è costui il grande, il benemerito finanziere esaltato, incensato, intervistato dai nostri avversari, dagli avversari della Cisalpina, dai denigratori del Fontanella, dagli amici, dai moretti, dai mediatori elettorali del Bonforti e del Ghirlanda!"
E rapido, ma efficace, svelate le gesta dei ribassisti, degli aggiotatori, della banda nera, prometteva per il giorno dopo "di precisare le accuse con altri nomi, con altri fatti, colle cifre e colle date."
—Badiamo!…—arrischiò il Perego, cogli occhi e il viso ancora sfavillanti, il Perego che pareva sprofondarsi dinanzi alla grandezza del direttore.—Badiamo agli estremi della diffamazione.
—Ingiuria, ingiuria semplice, finchè prometto soltanto di precisare!
Ma tuttavia Cantasirena cominciò a mostrarsi impressionato dell'avvertimento. Diventò serio, meditabondo, mormorando:—Sempre la museruola alla verità!—Sospirò, soffiò.—E poi—soggiunse dopo un momento,—e poi, caro Perego, io sono sempre stato generoso. Sopratutto sono sempre stato un uomo di cuore: è un difetto; ma non è alla mia età che si cambia natura! Seguiamo dunque la massima del Vangelo. Non domandiamo la morte del peccatore, ma che si converta e viva…. Anche lei, egregio amico, che cosa mi consiglierebbe di fare?
Il Perego, con due dita, delicatamente, tirò il cordoncino sull'orecchio, mentre per capire, per indovinare qual'era il consiglio che l'altro desiderava, lo guardava fisso, colle pupille immobili, ingrandite dietro le lenti.
—L'articolo, non uscirà che domani….—sbadigliò distrattamente
Matteo Cantasirena.
—Ah?… Domani?…—interrogò nuovamente il Perego che cominciava a capire.
—Lei non conosce… non ha mai avuto nessun rapporto con quell'orso…. del nord?
—Non conosco il Kloss, ma conosco il suo procuratore, il signor
Galli,—esclamò il Perego, che ormai aveva capito tutto.
—Se il Kloss promettesse soltanto di studiare a fondo la Cisalpina prima di combatterla… Per divertimento… io non ho mai fatto del male a nessuno!…—E Cantasirena si sdraiò sopra una piccola poltrona bassa, tornando a sbadigliare.
Il Perego, sicuro adesso del fatto suo, prese i fogli dell'articolo, dopo averli numerati col lapis e si avviò per uscire.
—Che uomo è questo signor Galli?—domandò Cantasirena, stirandosi, socchiudendo gli occhi.
L'altro sorrise; aveva il tic della definizione.
—È uno spostato del sentimento, è un romantico della riabilitazione, un precursore della giustizia sociale.
Cantasirena aprì gli occhi. Voleva essere sicuro che il Perego si sarebbe condotto con prudenza.
—Lei lo conosce bene, da molto tempo, questo signor Galli?
—Eravamo nella stessa casa in pensione. Il Galli ha sposato la figliuola della nostra padrona che un altro dozzinante, un ufficiale di fanteria…. si era presa…. goduta… e piantata lì… lei e la camera.
—E dopo, non l'ha più visto?
—Tutte le domeniche al Trenk. Il signor Galli ci va colla sua signora, una bellezzina linfatica dalla quale è adorato, quantunque il signor Galli abbia il torto di essere vecchiotto e di chiamarsi Ambrogio. La colazione al Trenk è la gran festa di famiglia.
—Ha figliuoli?
—Uno solo, quello dell'esercito.
—E un uomo così…. diremo…. umanitario, si è venduto al signor
Kloss?—esclamò Matteo Cantasirena, parlando e sbadigliando insieme.
—Venduto… no. È il procuratore della Banca Kloss e C., nient'altro. Del resto la questione del pane quotidiano… s'impone specialmente ai socialisti, caro direttore!…
Poco dopo Mariano Perego si presentava al signor Galli, alla banca Kloss e C., coi capelli lisciati, incollati sulla fronte e la barba appena fatta.
—Prima di dirle di che si tratta, le domando, in parola d'onore, il segreto più assoluto.
E siccome il procuratore del Kloss era un pochetto sordo, il Perego alzava la voce, tirandosi su, in punta di piedi, per avvicinarsi al suo orecchio.
Il Galli era un vecchio alto, forte, poderoso. Aveva la faccia tonda, completamente rasa. Una corona di capelli rossicci e crespi, gli circondava la testa calva.
Egli pure si rizzò diritto, dopo essersi chinato per udire la domanda del Perego, e lo guardò fisso, quasi severamente, coll'occhio pacato, cerulo, austero, la cui vivezza pareva trasparire e diffondersi dietro una nube di malinconia.
Il Perego schivò quello sguardo, tirandosi il cordoncino degli occhiali dietro l'orecchio.
—Secondo il caso, posso promettere il segreto; sì e no,—riprese il signor Galli colla sua voce grave, penetrante.—Secondo il caso: se si tratta di me, di un affare mio, posso anche promettere; se si tratta della banca o del signor Kloss, no.—E a quel "no" il signor Galli si rizzò ancora di più, ancora più diritto.
Il Perego invece, sembrò rimpicciolirsi, cercando l'articolo nella saccoccia.
—Si tratta del signor Kloss. Legga. Sa che anch'io sono un galantuomo e che ho bisogno del pane che mangio. Davanti a lei mi sembra d'essere dinanzi a mio padre. Prenda!—e gli porse le bozze dell'articolo.—Nella mia condizione…. può sembrare una indelicatezza verso il giornale,—continuò il Perego tossendo per schiarirsi la voce.—Ma… ho tanti obblighi di gratitudine verso di lei! Mi sarebbe parso di mancare ad un dovere sacro, non affrettandomi ad avvertirla finchè, forse…. si potrebbe essere ancora in tempo. Lei mi ha fatto del bene; ripetutamente… Questa volta vengo a domandarle, invece, un consiglio… un suo parere. Si potrebbe far parlare al direttore da qualche persona influente… perchè l'articolo dovrebbe andare domani. In ogni modo lei apprezzerà la mia condotta perchè io la rispetto, la venero, perchè ho tutta la confidenza in lei…. perchè lei non vorrà farmi del male…. non….—A questo punto s'interruppe e tornò a cacciare il cordoncino degli occhiali dietro l'orecchio.
Sotto la pupilla immobile, grave, severa del Galli, gli era mancata la voce; sulla fronte gli spuntavano, rilucevano spesse e minute le goccioline di sudore: quando l'altro, finalmente, gli levò gli occhi di dosso per mettersi a leggere l'articolo, respirò, riprese fiato.
Il signor Galli, alla banca non era più il buon uomo del Trenk, uno dei più caldi fautori, senza esservi inscritto, della Lega per la pace, il buon signor Ambrogio, che aveva sempre un sigaro da offrire… e all'occorrenza anche un biglietto da dieci lire da prestare; che guardava la sua giovane mogliettina, tutta sfarzosa e fiera nel suo lusso della domenica, cogli occhi rilucenti di tenerezza, di ammirazione; che soffiava un'ora nella minestra del piccino per raffreddarla, sempre paziente, affettuoso anche quando il marmocchio strillava, s'impuntigliava, versava il vino sulla tovaglia…. No, non era più il signor Galli! E il Perego lo guardava con diffidenza, quasi con timore, scostandosi d'un passo.
Il procuratore lesse tutto l'articolo, rimanendo sempre impassibile, poi rialzò il grosso testone fissando nuovamente il Perego, ma questa volta con un'occhiata sprezzante, sdegnosa.
—Quanto vi ha ordinato di domandare il signor Cantasirena per sopprimere questa roba?—E abbassò il capo porgendo l'orecchio. Ma l'altro non si avvicinò.
—Io sono un galantuomo!… Certe cose ripugnano a me come a lei!… Io ho agito a fin di bene!… Se il signor Cantasirena lo sapesse, sarei scacciato dal giornale!… So anch'io che Matteo Cantasirena non è come lei, come me, come noi!… È un prodigo incosciente! È un vanaglorioso! Lei non lo conosce!… Adesso che è in auge, che è pieno di quattrini, ci tiene di più a un suo articolo e al gusto di vendicarsi, che non a tutti i milioni della banca Kloss!
Il Perego, agitato, gesticolava, diventava ora bianco, ora rosso, di tutti i colori; gli occhi guizzavano obliqui dietro le lenti, la voce gli usciva dalla gola stridula, stonata per lo sforzo di mantenerla alta e di nasconderne il tremito.
—Se il signor Kloss crederà di prendere qualche provvedimento per questo articolo, scriverà direttamente al signor Cantasirena. Lei può andarsene.
—Creda, signor Ambrogio….—tentava di ribattere il Perego, mettendosi una mano sul petto,—io sono un galantuomo….
—Lei può andarsene!—intimò il Galli per la seconda volta.
L'altro se ne andò infatti, e quando fu solo nel corridoio, scosse giù con un'alzata di spalle il peso della vergogna, l'avvilimento.
—È la paura che ti fa così insolente!—mormorò, e si presentò a Cantasirena ridendo, con una delle sue lunghe e fragorose stropicciate di mano.
—Tutto è a posto, signor direttore!… Prima di sera, scommetto che il commendator Kloss avrà comperato venti azioni della Cisalpina!
—Piuttosto gliele regalo!—esclamò Cantasirena con alterezza e con sincerità.—Quell'affarista lurido, sarebbe capace di credere ad un ricatto!
Prima di sera, com'era stato previsto, Taddeo, il buon Taddeum, luccicante nella nuova livrea, una specie di uniforme di sottufficiale garibaldino, presentò al colonnello una lettera urgentissima "particolare" col timbro della banca Kloss e C. Ma, nè di quella lettera, nè del seguito delle trattative, Mariano Perego non ebbe, e non dimandò nessuna notizia.
L'accusa delle Risorse italiche aveva colpito nel vivo?… Forse; ma di sicuro, e fino a che punto, nessuno lo poteva sapere, nemmeno il signor Galli: lo sapeva soltanto il commendator Kloss, il quale, come Cantasirena, non aveva bisogno di consiglieri.
La lettera urgentissima "particolare" della banca Kloss fissava un ritrovo per quella stessa sera in una sala riservata del "Circolo Commerciale" fra il signor Galli e Matteo Cantasirena; e la mattina seguente vi fu un secondo, un ultimo convegno nello studio d'un noto agente di cambio, coll'intervento, sulla fine, del commendator Kloss in persona.
Il Kloss, invece di riceverne, dettò condizioni, sempre col cappello in testa, sempre ghignando, gesticolando, saltellando qua e là, più arrogante, più impertinente e più villano del solito.
Si lasciarono tutti e tre soddisfatti l'uno dell'altro.
Il Kloss, ghignava, mordendosi i baffi tinti: "quel giornalista imbrojamestee" era un furbo soltanto…. per i minchioni!
Il signor Galli, il buon ambrosiano, era stato conquistato dalla simpatia, dalla facondia, dallo sviscerato amor del prossimo, di Matteo Cantasirena.
—No, non era un ricattatore!—e sospirò mestamente e pur mestamente sorrise al viso dolce e devoto della sua mogliettina, e alla testa bionda e ricciutella del bimbo che aveva sempre davanti agli occhi, e che, imponendosi al suo cuore, lo tenevano lì inchiodato al servizio del signor Kloss!
Matteo Cantasirena era gongolante, e volle regalare a Evelina e a Pietro Laner, tutto il mobilio e le tappezzerie del salotto di ricevimento, per il loro quartierino di sposi:—Scegliete, ordinate tutta la roba di vostro gusto dal Vergani; e poi il conto, lo mandi a me.
La Gioconda, anzi ormai la signora Gioconda, scelse anche lei un regalo: si era alla fine di maggio, ma volle ugualmente una pelliccia d'orsetto che avrebbe messa via per l'inverno: il metter via, la passione della serva, era rimasta pure la gran passione della governante.
Matteo Cantasirena esultava ed era fiero, infatuato, convinto della parte che aveva sostenuta.
—Ah! ah! Credevano che i suoi articoli si potessero comprare?—Cessassero gli attacchi ingiusti, sleali alla Navigazione Cisalpina…. e basta!
Lo zio Matteo ne parlava, in segreto, anche col Laner.
—A voi, caro Pietro, anzi a te, oramai posso dir tutto: tu ed Evelina siete i miei soli figliuoli: ricordatevelo per il giorno che mi chiuderete gli occhi: non vi dev'essere nessun altro.—A te, caro Pietro, posso dir tutto: passar vicino ai milioni, come ci sono passato io, oggi, e uscirne completamente incolume, è una grande soddisfazione!—Gli occhi di Matteo Cantasirena luccicavano, pieni di lacrime: si commoveva.
—Vade Retro Satana!…
E si confidava anche a Numa accosciato vicino al fuoco e che lo fissava sospettoso, arricciando il muso e dirizzando il pelo.
—Caro Numa lo puoi dire alla nostra Gioconda!… Il padrone è stato un eroe del sacrificio!… e morte ai tirolesi!
Quella vittoria, quell'intimo e sereno compiacimento gli recò, col buon umore, le più felici ispirazioni per la grande conferenza di Primarole.
Di solito, la domenica dello Statuto piove sempre; quel giorno fece eccezione.
—È il sole pronubo della Cisalpina! Viva l'Italia!—esclamò il direttore, alla stazione, rivolto a Taddeo, che gli teneva dietro, traballando sulla gamba di legno, con tutte le decorazioni rilucenti e tintinnanti.
—Viva l'Italia!
—Evviva! colonnello.
Era una mattina calda, azzurra, limpida. Matteo Cantasirena costretto a vivere nell'afa ammorbante della città, subito, appena in treno, appena fuori all'aperto, col venticello leggero che agitava, gonfiava, sbatteva allegramente le tendine del carrozzone, rotte dalle strisce vaganti e abbarbaglianti del sole, si sentì ristorato, sollevato, come purificato da un senso di benessere, di liberazione.
—Ah!…—e respirò.
Erano con lui nello stesso scompartimento, i giovani collaboratori delle Risorse italiche: tutti mezzi parenti, amici, fautori di Pio Calca. Belle faccette fresche, fiere, dai baffettini nascenti, solo un po' martoriate e immalinconite dal solino enorme e rigido. C'era Evelina, modesta, aggraziata, più che seduta rannicchiata, nel suo posticino, con una positura d'indolenza languida, cascante, che dissimulava la spalla più grossa. Essa teneva sempre una delle sue manine inguantate sopra un ginocchio di Pietro Laner, come affermando, pur nella tenerezza dell'abbandono affettuoso, la sua proprietà; ma gli occhi, dietro le lenti, si fermavano or su questo or su quello dei giovani scrittori delle Risorse italiche e fermandosi scintillavano: non per civetteria, bensì per calcolo. Due di quei giovani, dovevano essere i suoi testimoni alle nozze; lo aveva fissato lei, di suo capo. E uno doveva regalarle una valigia, con un completo necessaire da viaggio: l'altro un servizio per il caffè in argento: anche tutto ciò pensato e fissato da lei, in testa sua, senza dir niente a nessuno.
Pietro Laner, coll'aria istupidita e trasognata, timido con Cantasirena, timido con Evelina, con tutti, fissava il numero del carrozzone, il 2113: e quel tredici, in fondo, lo turbava, lo inquietava per il viaggio….
Ubbie?… No! No!…
E il poeta scrollava il capo tristamente, e guardava Evelina…. e pensava al suo matrimonio e pensava a "quell'altra" e si sentiva solo…. infelicissimo e sospirava, sospirava con un tremito di sgomento.
—No! No!… Non erano ubbie!… aveva incominciato a rivivere di venerdì!
Primarole era ridente, colle case spesse e colorite, in mezzo alla pianura immensa, inondata, raggiante di sole! Vi era nell'aria una trasparenza cristallina. I vapori del fiume invisibile, si addensavano all'orizzonte in una striscia lattea, luminosa, tenuissima sotto il cielo azzurro, come un mare lontano.
La borgata era piena di gente e di chiasso; le bandiere alle finestre, le viuzze adorne a festoni, un grande arco di alloro e di mortella, all'imboccatura della piazza.
Matteo Cantasirena fece il suo ingresso trionfale, circondato da tutto lo stato maggiore del Comitato, al suono della banda che strombettava l'inno di Garibaldi e la marcia reale, e dando il braccio a Gesualdo Arcangeli vestito all'italiana: un cappellone a larga tesa sulle ventitrè, giacca di velluto e cravatta rossa.
—L'arte! L'arte! Ecco la terza Italia! L'arte di Canova, Gesualdo mio, di Raffaello, non gli studi di osteologia e di veterinaria dei decadenti!
Le bandiere, la musica, gli archi di trionfo, gli evviva, tutto merito particolare di Mariano Perego il quale era da due giorni sul posto, ma senza figurare, senza mettersi in mostra, senza farsi vedere…. nemmeno dal piccolo Calca, nemmeno dall'ingegnere Fontanella, anch'essi in processione dietro Cantasirena, e assai irritati ed inquieti, perchè temevano una rivolta nelle squadre degli operai e dei braccianti. Questi infatti, occupati nei lavori di dissodamento e di sterro lungo il tracciato dei canali, erano tutti in fermento trovandosi in arretrato di paga, per colpa, appunto, di Matteo Cantasirena, che non aveva mandato i denari per "le settimane!"
Tuttavia, lungo la strada, in mezzo alla gente, il Fontanella e il Calca riuscirono a contenersi, a dissimulare…. Si fermarono cogli altri, al caffè, a bere il vino bianco offerto da Gesualdo Arcangeli, già un po' brillo a quell'ora, in mezzo alla schiera fracassona de' suoi puntatori, de' suoi formatori, de' suoi finitori, coi grandi cappelloni come "il maestro" e che seguivano "il maestro" dapertutto, sempre in baldoria, mangiando e bevendo alle sue spalle.
Col vino bianco si fecero evviva e brindisi al "prode Agesilao, alla Cisalpina" al genio di Fara Bon e il Fontanella rispose pure, con grande entusiasmo, a tutti gli evviva e a tutti i brindisi. Ma poi, appena giunti all'albergo del Cannon d'oro, appena gli fu possibile di chiudersi soli, lui e Pio Calca, in una stanza, col segretario generale, allora la scena cambiò di colpo.
Matteo, lì per lì, tentò, se non di scongiurare, di allontanare la burrasca.
—È il mio primo giorno di riposo…. di festa…. Lasciatemi godere un'ora, soltanto un'ora, della mia più che legittima compiacenza!…
—Siamo minacciati da uno sciopero!—esclamò con voce sorda il
Fontanella.
Cantasirena, attonito, si volse verso Pio Calca.
Rosso, di bragia, colle pupille fisse, sbarrate, il piccolo grand'uomo non lo guardò nemmeno. Girava impettito, attorno alla stanza, sventolandosi col fazzoletto, accomodandosi il solino molle di sudore. Sentiva crescere la propria importanza, quanto maggiore era l'abbattimento di quell'altro.
—Minacciano fischiate!… legnate!…—E un risolino, un certo tono di superbietta, tradivano l'interna compiacenza.
—Piuttosto di venire a Primarole a mani vuote, dovevate rimandar la festa!…—mormorò il Fontanella;—non vi ha detto niente il Brunetti?
—Il Brunetti? Il Bizzarelli? Non sono più che gemiti in sembianze umane! Ma quel turco, bei?… Quel turco bei, perchè non si è fatto vivo?… È il vice presidente della Cisalpina!… Primarole non è il suo collegio?…
—È ammalato!—borbottò il Fontanella con un'alzata di spalle.
—Almeno lo dice—osservò il piccolo Calca maliziosamente.—Sarà una cura preventiva per i soo danee!
—Io ho tentato, per quanto mi fu possibile, di scongiurare il pericolo,—seguitò il povero ingegnere.—Ho dato qualche acconto ai capi squadra….
—Avete dato degli acconti?—interruppe giubilando Matteo Cantasirena, sempre pronto a riacquistare il buon umore.—Ma allora siamo salvi!… Lasciate fare a me!… Son qua io!—E propose di andare subito, tutti insieme, a parlare ai più turbolenti, ai più minacciosi, e di prendersi in compagnia anche l'Arcangeli.
—L'Arcangeli no….—E il Fontanella fece notare che non era ben visto.
—Si mormora in paese, per tutta la gonfiatura che ne avete fatto!
—Si mormora?… Di che?
—Ma…. le solite calunnie…. le solite chiacchiere. Dicono che i denari della sottoscrizione furono…. sono…. dileguati, e che si vorrebbe scegliere il bozzetto dell'Arcangeli, soltanto perchè costui…. si accontenta della gloria.
Matteo Cantasirena, soffiò con un sorriso olimpico, di compatimento.
—Chi lo dice?
—Ma…. tutti!
—Tutti…. è una metafora che vuol dire nessuno!
In quel punto entrò Taddeo. Veniva ad avvertire il colonnello, che una commissione di lavoratori voleva essere introdotta e sul momento.
Il Fontanella guardò Cantasirena impallidendo e bisbigliando:—Lo avevo preveduto!
—Sono qua io! Niente paura!—E il direttore ordinò a Taddeo di chiamare quella brava gente.
L'ingegnere e il segretario generale erano rimasti soli: Pio Calca si era dileguato lungo i corridoi dell'albergo.
—Fino a lunedì penso io a farli aspettare. Lunedì, in un modo o nell'altro, bisognerà provvedere. Il conte Bobboli, il Duranti, il Berretta, il Palazzoli devono provvedere!
Il Fontanella scrollava il capo sfiduciato, avvilito.
—E quand'anche potessimo tirare innanzi un'altra settimana, due, tre, dove andremo a finire?… Le nostre azioni non circolano! Nel pubblico è entrata la sfiducia! Peggio ancora, si ride! È il Kloss che ci ha rovinati!
—Sursum corda, caro ingegnere! Dal boemo non abbiamo più niente da temere: preso!
Il Fontanella guardò stupito Cantasirena:
—Preso….. come il Casalbara!—borbottò con una alzata di spalle. Era l'idea fissa dell'ingegnere. Senza il nome patriottico e popolare del Casalbara, senza il Casalbara senatore, col Tolomei invece, alla testa, il Tolomei antipatico, senza credito e senza influenze, la Cisalpina era spacciata.
—Il Comitato attuale non è che provvisorio: per il consiglio d'amministrazione definitivo, avremo il Kloss e avremo il Casalbara: ve lo prometto…. perchè posso prometterlo!—dichiarò Matteo Cantasirena con gravità, con sicurezza.—Però intendiamoci bene, e fatelo capire ai "ragionieri" del Comitato: durante una guerra non si possono contare le cartucce: nella nostra campagna non si devono contare i denari.
Si udirono le voci, il trepestio degli operai in commissione, e subito, il Fontanella, frenandosi, vincendosi ancora, andò loro incontro e presentò, con grandi espansioni, l'illustre conferenziere, il benemerito segretario generale.
La povera gente che lavora è sempre di buona pasta e quando proprio non muore di fame, si lascia calmare e persuadere facilmente a parole, a promesse.
Figurarsi Matteo Cantasirena! Abbracciò gli operai e chiamò la bluse il camice precursore della gran patria nuova, universale!
—In un fascio le energie del pensiero e la santa virilità del braccio! Tutti siamo fratelli di lavoro…. stretti ad un patto! Tutti siamo fratelli di fede, la fede in Cristo, l'anarchico degli Evangeli, e in Garibaldi il redentore delle plebi! Tutti siamo lavoratori! Tutti operai! Operai del pensiero e operai dell'azione! Operai della penna e dell'aratro, sacro ai poeti e ai lari!—Taddeo porta da bere!—e correva sull'uscio a gridare:—Quattro! sei!… dieci bottiglie,—poi tornava in mezzo a tutta quella gente ansando, tornava daccapo cogli abbracci, ma faceva forza per calmarsi e prometteva, mettendosi la mano larga sul petto, e abbassando la voce con gravità profonda, solenne:
—Lunedì, a mezzo giorno, sarete pagati, fino all'ultimo soldo! E alla mia parola dovete credere! Io non posso tradirvi! Io sono popolo come voi! Sono nato col popolo, ho combattuto col popolo, ho sofferto e lavoro per i diritti, per il trionfo del popolo!—Viva l'Italia!
E al grido di "viva l'Italia" si vuotarono le bottiglie allegramente, e gridando sempre "viva l'Italia" anche la commissione degli operai e dei braccianti si unì ai membri presenti del Comitato, e colla banda in testa, si avviarono tutti insieme al gran "Palazzo dei Lavori" dove aveva luogo la conferenza.
Matteo Cantasirena si godeva il suo quarto d'ora, il suo trionfo. Capiva, sentiva, di piacere come bell'uomo alle signore di Primarole, che gremivano le finestre imbandierate, alle belle ragazze e alle contadinotte ferme sulle porte e lungo la strada, e dondolandosi, lisciandosi la barba occhieggiava da tutte le parti. Si teneva Evelina sotto braccio, sfoggiava la sua tenerezza paterna e presentava agli "onorevoli e cari amici" il suo segretario particolare "lo sposo" Pietro Laner…. il quale, povero diavolo, era tormentato da una emicrania spaventosa.
Anche Taddeo, che veniva in fine, era notato per la gamba di legno, le medaglie, il vestito mezzo da garibaldino, e destava molta simpatia. Quegli operai, quei contadini, gli facevano, press'a poco, le stesse domande che gli aveva fatte la prima volta Pietro Laner.
—Il Cantasirena era il suo colonnello? Dov'era stato ferito? Aveva la pensione?
E Taddeo zoppicando e traballando, rispondeva con quella grande semplicità che certe volte rende l'ignoranza sublime, ciò che in sostanza, gli aveva risposto, proprio in quei giorni, il Ministero:—Gli era stata amputata la gamba troppo tardi per aver diritto alla pensione!—E concludeva: Del resto, fin che posso lavorare, viva l'Italia!—Era lo stesso evviva di poco prima, gridato dal direttore a pieni polmoni. Ma Taddeo lo bisbigliava quasi a mezza voce, con un sorriso di malinconia e di amore: lo mormorava intimamente, soltanto per sè. E la mestizia di quel sorriso diventava più profonda, quando egli rispondeva che il suo colonnello era stato Giovanni Chiassi, morto a Bezzecca….
Senonchè la precisione della verità, in quel momento, disturbava la folla nel suo entusiasmo. Essa aveva dinanzi a sè, magnifico e simpatico, Matteo Cantasirena, l'eroe di quel giorno, l'eroe della Cisalpina: e l'eroe vero e grande, che aveva lasciato la vita sul campo, e Taddeo, l'umile soldato che veramente aveva sparso il suo sangue per la patria, non servivano che a dar colore e risalto alla leggenda istrionica del colonnello vivo e sano…. il bel colonnello delle sussistenze!…
Un'altra folla ben diversa di quella della strada che si godeva allegramente la festa, il sole e la musica, un'altra folla sospetta, infida, la folla di tutti gli interessati prò e contro la Cisalpina, rumoreggiava, brontolava nel vasto salone delle conferenze.
Era quella una bella sala del seicento, ma rovinata dal tempo e dall'abbandono, cogli stucchi rotti a pezzi, e le fenditure larghe nelle pareti e nel soffitto. Ci sarebbe stato pericolo, per tutta quella folla stipata, se l'ingegnere Fontanella, non avesse fatto puntellare il pavimento. Dalle finestre aperte, senza vetri, entrava il sole vivo, dardeggiante e il frastuono della strada.
Matteo Cantasirena, seduto accanto al Presidente, girava l'occhio su tutte quelle facce gravi, talune arcigne, gocciolanti di sudore, cercando istintivamente nella moltitudine che si mostrava piuttosto ostile, il volto amico sul quale fissarsi coll'occhio, mentre avrebbe fatto il suo discorso. Come tutti gli oratori, anche Matteo Cantasirena aveva sempre avuto bisogno, parlando in pubblico, della "persona bersaglio" alla quale unicamente rivolgersi, come ad una incarnazione della folla, per leggere su di essa l'effetto, la corresponsione, prevedere la noia, l'obiezione, intuire il momento opportuno per il fuoco d'artificio, o per far vibrare la corda patriottica.
La prima fila delle sedie era occupata dai giovani collaboratori delle Risorse Italiche, venuti col direttore da Milano. Le testine ben pettinate e lucenti, i visetti seri e impassibili non esprimevano altro che la boria schifiltosa di non volersi confondere coi provinciali…. Vide il Brunetti, il Bizzarelli…. Dio, quei visi lunghi come la fame!… Non ricordavano altro che debiti, scadenze, querimonie!… Cantasirena soffiò stizzito e continuò a girare collo sguardo. Il Vergani pareva mezzo addormentato…. Il marchese Duranti, seduto di sbieco sdegnoso e arcigno…. Pietro Laner—cretino, imbecille!—sospirava…. D'un tratto Cantasirena s'incontrò negli occhiali luccicanti di Evelina, acquattata all'ombra, in mezzo ad un gruppo di signore: le autorità femminili di Primarole. Ma quegli occhiali si fissavano su di lui in un modo così insistente e curioso che gli scappò da ridere e voltò via la testa in fretta.
Finalmente trovò la faccia colorita, dalla lunga barba a due punte, di Gesualdo Arcangeli, e su di esso il suo sguardo si fermò; si scambiarono un sorriso, un cenno quasi impercettibile col battere delle palpebre.
—Siamo al completo—sussurrò Cantasirena al presidente.—Cominciamo.
Il marchese Tolomei non era un oratore, quantunque, facendo l'uomo politico, fosse sempre in mezzo ai comizi e alle adunanze. Si alzò un po' pallido: le mani strette nei guanti neri, di rigore, tremavano leggermente nel raccogliere i fogli bianchi, sparsi sulla tavola grande, lunga, attorno alla bottiglia e al bicchier d'acqua.
Il conferenziere, che si era alzato con lui, gli sorrise amabilmente per incoraggiarlo a parlare…. Il Tolomei alzò una mano, mosse le labbra…. ma in quel punto, da una delle finestre spalancate entrarono le grida, gli urli di una frotta di ragazzi scamiciati che tentavano arrampicarsi sulle inferriate di uno dei grandi finestroni.
Gesualdo Arcangeli, ch'era seduto vicino, si volse, minacciando col pugno; si alzò:—lo stormo dei ragazzi sparì strillando e fischiando e il Tolomei cominciò:
—Signori….
Ma fu interrotto di nuovo. In fondo alla sala, succedeva un tafferuglio, venivano alle mani. Erano alcuni operai del Fontanella che volendo entrare ad ogni costo, urtavano, schiacciavano la gente. Tutti si volsero, si alzarono in piedi per vedere. Il presidente, coll'occhio incerto, smarrito, fisso alla porta, aspettò che la calma fosse ristabilita, poi ripigliò colla voce che nell'aspettare gli si era abbassata:
—Signori….
Questa volta il silenzio era generale, profondo…. ma il Tolomei s'interruppe lo stesso, poi si sforzò balbettando, confondendosi, impallidendo.
—Signori…. È toccato a me…. a me che veramente…. è toccato l'alto onore, che è pure una grande compiacenza, di presentare a voi che…. di presentarvi…. io…. l'insigne banditore di un'impresa la quale…. Di presentarvi il commendatore Matteo Cantasirena…. il quale…. vi dirà come la Cisalpina, come la Navigazione Cisalpina intenda esplicare il programma…. il suo programma….
Aveva perduto insieme la voce e la parola. Fece per sedersi, ma tutti intorno, gli bisbigliarono piano:—La lettera! La lettera!
Era la lettera del vice presidente, del conte Bobboli, colla quale scusando la propria assenza perchè ammalato, inviava il suo saluto e la sua adesione al conferenziere.
Il Tolomei si alzò di nuovo cercando in fretta la lettera sul tavolo, la cercò nelle tasche, credette di averla dimenticata. La trovò, la lesse, e dopo quella lettura, rinfrancato, disse forte, prima di tornare a sedersi:—Ed ora dò la parola al nostro onorevole conferenziere!
Matteo Cantasirena sorrise, s'inchinò, aspettò. Nessuno applaudì. Egli si forbì la bocca, leggermente, col fazzoletto bianco, tornò a sorridere.—Silenzio.—Allora incominciò:
"Cittadini, amici, cooperatori…."—e cercando, fissando coll'occhio Gesualdo Arcangeli che già esprimeva la sua ammirazione prima ancora che l'altro parlasse, continuò colla voce calda, forte, sicura:
"Nelle febbrili preoccupazioni di questo periodo che rimarrà nella storia delle più audaci iniziative, io pensavo, titubante, peritoso, che grave, troppo grave era il compito impostomi dal vostro benemerito e solerte Comitato: di dover riassumere, cioè, dinanzi a voi, di tracciarvi qui, nella sintesi della parola, le linee generali dell'impresa, alla quale tutta l'Italia, tutta l'Europa, tutto il mondo civile consentono, e appassionandosi e interessandosi, tendono fissi l'occhio e la mente. Ma, ve lo confesso, senza temere l'appunto, senza peccare di immodestia, ormai, ogni mio timore è svanito.
"Lo ha dissipato dall'animo mio il bel sole radiante che dissolve le nebbie sovra i pascoli opimi, cari ad Orazio, che circondano la vostra piccola, ma industre e gentile città; lo ha disperso la balsamica, la vivida aura che accarezza le messi biondeggianti nella vostra alma pianura, ed io mi sento ora fra voi, securo e sereno della mia parola e della nostra causa, securo come le annose, fatidiche querce della vostra immensa foresta, sereno come questo bel cielo italico, sul quale mi sembra scorgere, smagliante come un'aurora, propizia come l'iride, l'apoteosi dei nostri grandi, dei nostri martiri e giganteggiare titanica la figura severa, pensosa del capitano Fara-Bon!"
Un'interruzione: e subito qua e là qualche applauso, grida di: Viva
Fara-Bon! Viva la Cisalpina!
Oh, Mariano Perego, in quei due giorni, a Primarole, aveva fatto miracoli!
Sfogato nell'esordio l'impeto lirico, fatto sicuro, ormai padrone di sè, ma rivolgendosi sempre verso Gesualdo Arcangeli che con degli…. sst…. formidabili imponeva il silenzio, Cantasirena, colla parola lenta, scolpita, dalle vocali aperte e sonore, entrò nell'argomento, diffondendosi nell'esposizione tecnica e finanziaria, parafrasando "buttando in moneta spicciola" come diceva il resocontista delle Risorse Italiche, il colossale, il grandioso progetto della Navigazione Cisalpina.
Poi, a mano a mano tornò ad animarsi, a riscaldarsi:
"Le vie acquee, voi me lo insegnate…. rappresentano la massima possibile economia in fatto di trasporto: or bene l'Italia che nell'alterna vicenda dei ministeri, va tentando…. va cercando…. come Diogene cercava l'uomo e Talete la coscienza, le fonti meno accessibili delle economie e della produzione, a questa che ha sottomano, retaggio dei padri, retaggio di lavoro, di ricchezza e di gloria, non ha ancora pensato!
"La rete…. la mirabile rete dei canali navigabili dell'Alta Italia, è un tesoro nostro, che noi puerilmente, spensieratamente, scioccamente, lasciamo negletto e infecondo. Abbiamo traforate le Alpi, gli Appennini! Dovunque abbiamo tracciata, aperta la via al "bello e orribile mostro" del poeta, abbiamo eretto, lanciato sul mare, formidabili e invincibili le rocche d'acciaio, ma ai placidi e securi canali scorrenti fra le ubertose pianure, agli umili, ma fidi e provvidi amici, non abbiamo ancora rivolta la mente, il cuore…. non abbiamo dedicato le scoperte e le vittorie, tutto il progresso dell'idrografia e dell'idrostatica compiuto da Euclide ad Archimede, dai vincitori del mare sulle dune olandesi, al genio allobrogo di un Paleocapa!
"È tempo di riparare alla nostra indifferenza, alla noncuranza spensierata e dannosa, al vergognoso abbandono! La navigazione interna, esercitata coi metodi dei secoli passati, verrebbe irremissibilmente e interamente soffocata, spenta dalle ferrovie! Ma no: essa è Lazzaro dormiente nel sepolcro: lo spirito redentore della modernità la deve vivificare."
La faccia di Gesualdo Arcangeli pareva distratta; l'occhio divagava;
Cantasirena riprese con impeto:
"Post fata resurgo! Il progetto che vi sta dinanzi ha in sè la forza ingenita, irresistibile, suggestionante della semplicità!
—È vero!—bisbigliò lo scultore, rivolgendosi al suo drappello.
"Raffiguratevi cogli occhi della mente, la ricca e florida vallata del Po, colla cerchia nevosa delle alpi insuperate, ad ovest, a nord, a ponente. Ricordate i tre sbocchi…. le tre brecce che attraverso quella cerchia di ghiaccio e di granito, congiungono il nostro suolo e i nostri mari all'Europa, al mondo centrale: sono il Cenisio, il Gottardo, il Brennero: or bene, tre grandi vie acquee naturali si stendono a' pie' di quegli sbocchi: il Po, il lago Maggiore, il lago di Garda. Rendere navigabile il nostro massimo fiume da Torino a Pavia, congiungerlo col Gottardo a mezzo del Verbano, col Brennero a mezzo del Benaco, ecco nella sintesi che qui mi è concessa dalla vostra indulgenza, ecco l'idea embrionale della Navigazione Cisalpina!"
Gesualdo Arcangeli applaudì, solo, per qualche secondo, poi qualche altro…. Cantasirena sorseggiò un po' d'acqua, si asciugò il sudore, indi continuò:
"Meno agevole mi sarebbe il riassumere qui, o signori, i vantaggi immediati, sicuri, della nostra iniziativa. Voi tutti già li vedete: il minor prezzo e la maggior facilità dei mezzi di trasporto; l'incremento maraviglioso di un'industria già esistente; il lavoro assicurato a migliaia di braccia, la diffusione di prodotti speciali in regioni ove ancora non sono apprezzati; una nuova, una forte corrente commerciale tra le province settentrionali e le regioni transalpine; l'impulso straordinario dato all'irrigazione e però all'agricoltura; la migliore difesa strategica alle varie plaghe, riassumendo: economia, ricchezza, potenza!
"Ma per compiere questa trasformazione della carta idrografica dell'Alta Italia occorrono, voi mi direte, prodigi, secoli, milioni!—No!—Quanti tecnici…."
A questo punto fu il piccolo Calca e i suoi amici, che imposero altezzosamente il silenzio: pareva che i "tecnici" fossero loro.
"Quanti tecnici hanno esaminato, studiato, discusso in ogni sua parte, dirò in ogni sua latèbra il grande nostro progetto, hanno dovuto convincersi, si sono convinti, esser d'uopo, più che altro, di utilizzare i canali esistenti, di riattivare le condizioni di navigabilità per tratti più o meno brevi, ma non mai eccessivi, dei nostri fiumi; per altri tratti, è vero, scavare nuovi canali, ma in terreni piani e facili, comprendere, insomma, come poc'anzi avevo l'onore di dirvi, o signori, comprendere lo spirito, la filosofia e la poesia ad un tempo di tutto quel mirabile lavoro iniziato e interrotto di secolo in secolo e che al secolo nostro spetta, come un dovere e come un orgoglio, di compiere.
"Questo è il nostro programma di lavoro e di fede, questa è la visione che ha sorriso, fino agli ultimi istanti di sua vita, alla mente…. al genio…. al cuore del nostro povero e grande Fara-Bon!"
Scoppiarono gli applausi; ma furono tosto soffocati dal rumore, dall'accalorarsi delle discussioni varie, assordanti. Gesualdo Arcangeli gesticolava come un ossesso; si capiva, doveva trovarsi in mezzo ad un gruppo di dissidenti, di oppositori. Le parole che si udivano qua e là, più forti, più ripetute, erano "quistioni finanziarie, esposizione superficiale, quistione principalissima, utopie, denari, milioni".
Matteo Cantasirena ansava, si asciugava il cranio e la faccia col fazzoletto bianco, ma stava attentissimo a tutti quei discorsi, a tutte quelle voci.
Gesualdo Arcangeli, come per attestare pubblicamente la sua adesione, si precipitò verso il palco stringendo la mano al conferenziere ripetutamente, ma pur costatando e riassumendo nella ingenuità del suo entusiasmo, le diffidenze, le titubanze, la freddezza dell'uditorio.
—Cosa pretendono? Che la Cisalpina avesse già reso milioni e che i membri del Comitato andassero in giro a distribuirli fra il pubblico?—Matteo Cantasirena sorrise, ma con una ruga amara all'angolo della bocca. L'occhio errava inquieto. Quando vide avvicinarsi il Fontanella si alzò di scatto, e gli andò incontro.
—Così?…
L'architetto gli sussurrò all'orecchio:
—Un gran colpo o tutto è perduto!—Allora Cantasirena fece cenno al Tolomei di suonare forte il campanello, e di nuovo, dopo aver bevuto, si forbì le labbra col fazzoletto, disponendosi a parlare:
Tutti si acquetarono, si voltarono, ripresero il loro posto.
"I vostri applausi,—cominciò più grave e più solenne,—la spontanea corresponsione dei vostri animi, m'incoraggiano a mettervi a parte dell'estrinsecazione che il progetto va prendendo nel campo finanziario."
Nella folla il silenzio diventò profondo: tutti erano attentissimi: questa volta, anche Pio Calca smise di sventolarsi, e i giovani collaboratori allungarono il collo nel solino lucido. Il Bizzarelli e il Brunetti si scambiarono una rapida occhiata; il Vergani sembrò destarsi, si rizzò sulla seggiola. Soltanto gli occhiali di Evelina erano sempre fissi sullo zio Matteo, in quel modo curioso che nell'ombra pareva un luccichìo e una risatina….
"Signori!…—e l'oratore fece un moto istintivo come chi piglia a un tratto una risoluzione, superando scrupoli e rischi.—"Signori!… Posso annunziarvelo finalmente! Una delle personalità più spiccate, più influenti del ceto bancario, della vecchia aristocrazia della banca il…. il commendator Francesco Kloss ha intuito la sicurezza e la grandiosità dell'impresa che gli inspirava prima qualche dubbio, qualche diffidenza: diciamola pure la grande parola: qualche avversione…. Ebbene, signori, la Navigazione Cisalpina….—mai durante la conferenza la voce dell'oratore era stata così potente come in questo punto—la Navigazione Cisalpina…. oggi giorno, non ha alleato più convinto, apostolo più fervente del commendatore Francesco Kloss!—Questo fatto, questo nome, vi dicano, signori, quale e quanta accoglienza non potrà a meno di avere nel censo d'Italia e di fuori, sulle piazze, sul mercato dei due mondi l'appello che il comitato rivolge a voi pure per la costituzione del capitale sociale."
Vi fu un movimento in tutta la folla, e quel mormorìo che precede, che precorre lo scoppio dell'entusiasmo: Matteo Cantasirena, maestoso, imperioso, imponente lo frenò, alzando, stendendo le mani: aveva dell'altro a dire:—Abbasso! Silenzio!…—e non si udì che il—sst—di Gesualdo Arcangeli allungarsi stizzoso e sibilante, come un razzo, su tutte le teste.
"E poichè un'impresa che deve assurgere l'Italia a tanta grandezza, non può trarre i suoi auspici migliori che nelle memorie di coloro che l'Italia hanno creata e redenta, io mi auguro che la gran voce di questa prima assemblea popolare della Navigazione Cisalpina acclami l'alto patrocinio di un uomo che quelle memorie in sè stesso, nel suo nome, incarna ed onora.
"Io v'invito a preconizzare con unanime acclamazione, quale presidente del Consiglio d'Amministrazione della Cisalpina il senatore Giovanni di Casalbara, della grande famiglia dei martiri! Il vostro plebiscito troverà la via del suo cuore, e la nostra impresa sarà benedetta dagli Iddii della patria!"
Fu sul nome del Casalbara che si rovesciò tutto l'uragano dell'entusiasmo al quale il nome del Kloss aveva dato l'aire; il successo della conferenza fu così grande, così serio da permettere ormai anche a Mariano Perego di cominciare a mostrarsi e d'intervenire, la sera, al banchetto.
In pochi giorni le azioni della Cisalpina cominciarono ad essere cercate, specialmente a Primarole ed a Castellanzo, e molti piccoli possidenti del luogo, accecati dal balenìo ammaliante della speculazione, pur di diventare azionisti, davano anche i loro campi e i loro tuguri in ipoteca.
Nora "voleva" essere felice. Voleva essere felice ad onta del marito vecchio, voleva esser felice sebbene Pietro Laner avesse sposato Evelina. Voleva esser felice perchè intimamente sentiva di non esser contenta, soddisfatta: e in fine, voleva esser felice per consolare sè stessa con quell'inganno e far soffrire, colla propria felicità, tutti i suoi nemici.
E—chi lo avrebbe detto?—la più tormentosa nemica della duchessa di Casalbara—della sfolgorante duchessa che maravigliava perfino il mondo cosmopolita di Mentone e di Nizza colla propria avvenenza, colla propria eleganza,—quella cui essa pensava con maggiore accanimento, era la piccola gobba, la misera cenciosa, era la moglie di Pietro Laner!
Era quella perfida, strisciante come una biscia che aveva raggirato, sedotto, chi sa con quali arti, con quali menzogne, con quali insidie Pietro Laner!… E non per altro che per rubarlo a lei; per farle rabbia, per trafiggerle il cuore con uno spillo…. come fanno cogli uccellini i ragazzacci tristi e cattivi!…—Trafiggerle il cuore?… Farle rabbia?… Rubarle quello zotico e ridicolo montanaro allampanato di Pietro Laner?—Che doveva importarne alla Casalbara?… alla duchessa?…
Eppure era così.
Quando Nora aveva saputo che il giovane trentino era gravemente ammalato per lei, perchè lei lo aveva abbandonato, piantato per sposarne un altro, Nora si era disperata, aveva pianto, aveva sofferto dolori e rimorsi…. Ma quei dolori, quei rimorsi le erano cari come una soddisfazione, come una seduzione nuova e strana: erano la idealità, la gioventù, l'amore di cui adesso sentiva la mancanza, la nostalgia nel torpore della beatitudine materiale creatale da quel mercato di sè stessa. Nelle lunghe ore in cui doveva sopportare le carezze caute e raffinate e sorridere alle tenere parolette vecchio fidanzato, essa correva colla mente, col sangue, col calore di tutta la sua giovinezza, ai baci folli e tempestosi, alle collere tremende, alle furibonde gelosie del giovane amante….
Una sola di quelle furie, di quelle esplosioni avrebbe mandato a pezzi il vecchio duca, lo sposo ingommato e verniciato, che doveva frenare anche i palpiti del cuore, per consiglio del medico! E pur mostrandosi sottomessa e docile e amorosa in quella sua intimità legale, che pareva una tresca, sentiva ch'era per essa come una seconda vita l'agonia del giovane poeta che aveva avuto i suoi baci e che moriva per non averli più; era per essa una vita segreta, la vita dell'anima, del cuore, dei sensi che la consolava, la innalzava, la ricreava. Il Laner moriva per lei! Questa sarebbe stata la tragedia del suo matrimonio, questo il suo romanzo di duchessa, il lutto della sua anima. Un lutto sentimentale, ch'essa avrebbe portato con sè alle feste e ai teatri, come un vezzo di perle nere, come un mazzo di semprevivi. E Nora che volontariamente, per calcolo, aveva abbandonato il Laner, sentiva adesso il bisogno di ingannarsi, di persuadersi che il destino, Dio, la sventura li aveva disgiunti, che anch'essa era una vittima, che anch'essa aveva sempre amato e avrebbe amato sempre, ancora, non quell'uomo che la sposava e al quale non avrebbe immolato che il suo corpo freddo ed inerte, ma il giovane poeta, l'amante che moriva per lei e al quale offriva tutti i suoi trasporti, i suoi baci, tutta sè stessa….
Invece Pietro Laner era stupidamente guarito e sposava Evelina!
Il poeta, il "Bardo trentino" dello zio Matteo, sposava la gobba! Dopo i suoi baci, dopo aver sognata la sua bellezza, si accontentava dei baci della gobba!
Nora voleva vendicarsi: doveva vendicarsi, ma sopratutto voleva essere felice e per questo aveva bisogno subito di un altro romanzo, di un'altra poesia, di un'altra illusione: innamorarsi di suo marito.
Infatti, che cosa le mancava per essere felice e per essere ritenuta felice? Si credeva ricchissima, aveva un gran nome, era padrona della propria volontà, del proprio capriccio… Le mancava soltanto di amare suo marito: questo dipendeva da lei… e lo amò.
Quante fanciulle non si erano innamorate di uomini non più giovani?…
In fine chi le aveva imposto di sposare "il suo Giovanni?" Nessuno. Lo aveva scelto lei, lo aveva voluto lei. Inoltre l'ammanto della virtù le doveva star bene: era un nuovo lusso, una seconda aristocrazia, una gemma scintillante alla sua corona di duchessa "Domus aurea!" e un'altra salvaguardia alla pace, alla felicità, e un altro abisso scavato fra lei e "quella gente" colla quale sdegnava omai ogni contatto.
E Nora riuscì a illudere sè stessa, a illudere gli altri, a dare l'apparenza della realtà a que' suoi affetti, a quelle sue chimere.
Come era stata per il Casalbara la fidanzata docile, languida, amorosa, fu per il marito la moglie innamorata, appassionata, simulando ardori e slanci, ch'erano ispirati soltanto dalla rabbia della sua gelosia, dal suo odio contro il Laner e contro Evelina, e che facevano perdere al povero duca la poca salute e i pochi capelli.
Alla mattina, quando il Casalbara entrava all'ora di colazione nel restaurant dell'albergo, incespicando dietro la sposa bellissima, sfolgorante di gioventù, di salute, di vezzi, pur mostrandosene fiero e soddisfatto e vano, aveva nell'occhio attonito e spento una espressione strana d'inquietudine. Si mostrava beato, ma pareva anche impressionato della sua luna di miele. Era sempre attillato, leggiadretto e ricciutello; ma aveva le mani più tremolanti, le guance più flosce e violette, e sibilava "stella" colla voce fioca e affaticata mentre le presentava il menu.
—Stella… a te.
Era Nora che ordinava sempre, colla sua bella voce rotonda e flessuosa: si divertiva a leggere tutta la lista delle vivande, rideva nello scegliere.
Ed era lieto anche il Casalbara: si godeva che il cameriere notasse le occhiate espressive, quasi rivelatrici della sua giovane sposa, si godeva quando Nora si faceva sentire, a mezza voce, a chiamarlo "Nannucci mio". Soltanto avrebbe voluto poter mangiare più adagio ed esser seduto più comodo.
Tutti ormai a Nizza e a Mentone credevano "all'amore" all'innamoramento della "bella duchessa italiana" per suo marito. Il duca non era elegantissimo, simpaticissimo, non era un eroe, un gran signore?… L'essere, non vecchio, ma appartenere al bel tempo antico, era di moda: lo aveva messo di moda la "bella duchessa italiana" insieme ai larghi cappelloni di paglia nera colle margherite, insieme all'Ideale del Tosti e alla virtù.
Nora aveva raggiunto il suo scopo; tutti erano a' suoi piedi, tutti l'esaltavano. Il suo regno le dava tante compiacenze, tante soddisfazioni da farle dimenticare, da compensarla della gran rinunzia.
Quel suo regno assoluto, quella vita principesca, quella gente squisita, eletta, le piacevano; le piacevano persino le ridicolaggini, i pregiudizi, le severe esclusioni, che confacevano al suo orgoglio, a' suoi gusti, al suo capriccio.
E sarebbe stato così anche a Milano. A Milano, perchè Bergamo era stato messo da parte. Per quanto Nora fosse innamorata e adorasse suo marito, faceva sempre a suo modo: lei "voleva", lei comandava in tutto e per tutto. Voleva, comandava coi sorrisi, colle carezze, coi baci, ma il povero innamorato avrebbe tremato soltanto all'idea, non già di contrariare, ma di non poter subito indovinare i desideri della sua "stella".
La duchessa Eleonora aveva già fissato, con parecchie signore di Milano ch'erano con lei all'Hôtel Duval, i suoi giorni, in cui sarebbe restata in casa, dalle cinque alle sette, per le amiche, soltanto, e la sua sera, per ricevere il piccolo mondo, ristrettissimo, riservato, eccelso.
Il duca lasciava fare ed approvava sempre col capo tremolante: in quel suo dormiveglia si era convinto di aver sposata una Montmorency…. e la nipote dello zio Matteo faceva presto a convincersi di esserlo.
Così Nora, che voleva essere felice, ritenuta felice, vi riusciva.
Una volta sola, l'eco, il fantasma del passato capitò come una raffica improvvisa a intorbidare l'azzurro olimpico della sua nuova esistenza.
Il Duval a Nizza, era un piccolissimo hôtel, vicino alla spiaggia: il sancta sanctorum, il tabernacolo dei quattro quarti: al bisogno era l'albergo che dava o aggiungeva aristocrazia a' suoi ospiti. E però gli ospiti si conoscevano tutti, facevano vita in comune e, dal più al meno, erano sempre gli stessi.
Pel duca di Casalbara aveva fissato il quartierino sul mare, lord Paget, un cugino del defunto ambasciatore, che il Casalbara aveva conosciuto a Roma.
Un giorno, durante il pomeriggio, dopo il lunch, gli ospiti del Duval si erano riuniti nella sala "dei concerti" una galleria, a terreno, in vista del mare, dal quale era solo divisa da folti rosai.
Erano nella sala, colla duchessa Eleonora, le sue nuove amiche di Milano. V'erano lord e lady Paget, c'era la vecchia marchesa Chevrillard di Parigi e la principessa Moncalvo di Palermo, poi qualche vecchio diplomatico e qualche giovane sportsman; al pianoforte, la contessina Percy di Westmorel, una miss che pareva un fiore di sambuco, lunga, sottile sottile, colla folta capigliatura biondastra, cantava, accompagnandosi da sola, l'Ideale di Tosti.
Nora, durante il canto, guardava, fissava cogli occhi pieni di ricordi e di sorrisi il duca Giovanni che le rispondeva pure sorridendo e facendo l'occhiolino, ma che intanto pareva curvarsi, torcersi sotto quei lunghi sguardi, e inavvertitamente, con una mano, si premeva le reni.
Tutti parlavano pianino per un riguardo alla miss che cantava: quella gente, sempre così vicina alle stelle, si moveva senza far rumore, come avesse le ali; il bisbigliare sommesso pareva un soffio, uno stormir di fronde: i sorrisi erano brevi e muti, frenati dal sussiego. La vocetta stridula, stonata della miss, s'innalzava sola, libera nello spazio, accompagnata dal lento dondolìo delle teste che s'inchinavano, approvando, dal muover leggero dei ventagli, dal mormorare lontano delle onde rincorrentisi lungo la spiaggia.
La miss, animandosi, cantava, stonava più forte, quando, a un tratto, ecco, come una maschera matta in un veglione, una signora grossa, gonfia, imbellettata precipitarsi prima fra le braccia del duca di Casalbara, poi fra quelle della duchessa, gridando e gesticolando, maravigliando e quasi spaventando tutta quella gente.
—Ah bijou! Mon bijou! Tu es encore plus belle! Il matrimonio ti ha fatto benone! Ah, mon cher ami! Vous êtes toujours un gros scélérat, un miserabile come dite voi altri en Italie! Non farmi più saper niente! Io l'ho saputo per miracolo dal mio impresario di Milano! Sono qui di passaggio: vado a Montecarlo: Je veux courir la chance.—Volevo scriverti anche per farti dire de ma part à ton père, à ton oncle je ne sais pas…. ce qu'il est enfin, qu'il s'est comporté avec moi comme un vieux filou. Ha scritto che la Schönfeld n'a pas le physique du rôle per la Cavalleria Rusticana! Caaro da Dio! Mon cher ami Mascagni, au contraire, mi ha abbracciata. Oh, ma anche tu canti sempre? Mi presenterai alle tue amiche e faremo della musica, della buona musica!
Il duca e la duchessa di Casalbara chiusero le porte dell'Hôtel Duval alla signora Schönfeld, la quale se ne vendicò raccontando a tutta Nizza che quella superba, c'était presque une fille, qui avait entortillé quel vecchio scimmiotto, avec ses minauderies et ses sales complaisances!
Ma il mondo che circondava i Casalbara era troppo lontano dalla Schönfeld per potersene interessare: le chiacchiere del contessone non potevano far danno alla duchessa. Non era di "buon genere" sparlare di lei: credettero tutti invece alla Casalbara, quando essa raccontò che la contessa di Schönfeld apparteneva a una buonissima famiglia ungherese, ma che i rovesci di fortuna le avevano dato un po' alla testa, e ormai, pur troppo, non era più possibile riceverla.
Pure quella leggera nube, subito svanita, fu il primo, il sinistro annunzio della burrasca.
La felicità che Nora aveva desiderata, sognata, raggiunta, fosse la vera sì o no, ormai era la sola alla quale essa poteva aspirare.
L'unico fascino del Casalbara, quello che proprio l'aveva vinta e conquistata non erano i milioni?…
E Nora li voleva godere allegramente, pazzamente, e forse inconsapevole metteva un prezzo ad ogni sorriso, ad ogni offerta della propria bellezza, ad ogni sforzo per frenare le rivolte improvvise del suo pudore, le più ascose e invincibili riluttanze di tutto il suo essere.
Aveva la smania, la febbre dello spendere, pareva la tormentasse il timore di non arrivare a tempo a spendere abbastanza. Collo spendere i denari del marito pareva quasi sfogarsi, vendicarsi, punirlo. E il farsi pagar cara era un compiacimento, un orgoglio di donna; una scusa per perdonare il contratto a sè stessa…. Spendeva in tutti i modi: erano toilettes che ordinava a Milano, a Parigi: erano gioielli che si faceva venire da Confalonieri, da Musy, da Mortimer…. Erano le ordinazioni del nuovo, del magnifico appartamento nel grande palazzo di Milano, nella sua grande villa di Casalbara, palazzo e villa, noti e celebri anche fra gli ospiti dell'Hôtel Duval. Ordinava carrozze, voleva comperare cavalli…. Poi, tutte le mattine, dopo il lungo bagno, nel quale si tuffava avidamente, cupidamente, quasi ansiosa di purificarsi dei baci della notte, usciva, correva attorno per le splendide botteghe dell'avenue de la Gare e della place Massena, seguita dal suo "Nannucci" ogni giorno più beatamente rintontito, e si sfogava a spendere, a spendere, a spendere, a comperar gioielli, trine, stoffe, ninnoli, pur di sciupare, di sprecare, di buttar via danaro, pur di sfogare nello spendere quella smania insoddisfatta, nervosa, che sentiva nel sangue…. nel sangue giovane, forte, sano, che certe volte, e ne era il castigo, si accendeva pur negli abbandoni, negli ardori simulati, con impeti improvvisi e terribili. Spendere, spendere, spendere! Era una furia, una manìa! Riempiva le casse, le stanze, l'albergo di roba inutile, che dimenticava o regalava poi alle cameriere: ma dopo quelle corse, quelle compere, dopo tutto quel matto sciupìo, quando si sedeva a colazione, era allegra, ridente, si sentiva bene e si sentiva appetito: si era sfogata, calmata.
E per tutto ciò, conseguenza logica e ineluttabile, il giorno in cui la duchessa di Casalbara venne a scoprire la rovina finanziaria del marito, la moglie compiacente e innamorata sparì in lei, di colpo. Nora ebbe un impeto di collera furibonda, brutale, volgare; la collera della cortigiana che dopo di essersi venduta, si trova fra le mani un biglietto falso.
Quel vecchio esoso, schifoso, l'aveva ingannata, assassinata! Le aveva rubata la sua giovinezza, la sua bellezza, la sua vita, il suo amore….
…. Ma il povero Casalbara era vittima a sua volta del proprio inganno, della propria spensieratezza.
Che le importava ciò?… L'essere imbecille non era una buona scusa. L'essere imbecille non lo giustificava d'aver sedotta e rovinata una povera ragazza!
E pensare che essa a quel vecchio aveva sacrificato Pietro Laner!
Pietro Laner che quasi era morto per lei!
Il duca aveva tenute nascoste alla moglie, fin che gli era stato possibile, le gravi notizie che gli arrivavano da Milano. Per quanto inebetito, per quanto la simulazione di Nora fosse sapiente, inebriante, tuttavia, anche se egli non capiva, sentiva che era sempre la "nuova" duchessa Eleonora che amava il vecchio duca di Casalbara; e in ogni modo, fosse stato anche vero e sincero nella giovane donna quel raro caso d'innamoramento, non poteva tuttavia aver avuto per origine naturale ed onesta altro che la gratitudine, non poteva essere tenuto vivo altro che dai continui doni, dal continuo sfarzo, dai continui divertimenti.
E adesso? Quando le avesse dovuto proporre e imporre una vita oscura, quasi borghese?
Il povero Casalbara sospirava angosciato, soffriva, sentiva egli pure un senso di rimorso: aveva sacrificata, legata a lui vecchio, a lui povero, quella esistenza giovane, fiorente…. La sua spensieratezza doveva lasciar campo alla riflessione: quell'esame delle sue condizioni patrimoniali che non aveva mai fatto, avrebbe dovuto farlo prima del matrimonio per sapere che cosa egli offrisse a sua moglie, per non ingannarla, ingannando sè stesso.
Ma Eleonora aveva detto di amarlo! L'incanto era stato irresistibile! E ormai…. ormai era sua moglie, sua per sempre, e ormai egli aveva bisogno di quella donna così bionda, così bella! Aveva bisogno di quel tepore fragrante, di quelle braccia, fra le quali finiva per addormentarsi, esausto e deliziato.
Del resto essa era buona e gli voleva bene e poi era troppo altera e orgogliosa. Anche povera, relativamente sarebbe stata fiera di essere la duchessa di Casalbara. Bisognava risolversi, parlare, confessarle tutto.
La prima notizia, inaspettata e che rendeva improvvisamente, grave la sua condizione finanziaria, era stata comunicata al Casalbara da una lettera del Kloss. Il Kloss lo avvertiva confidenzialmente, che alle relative scadenze, il duca avrebbe dovuto pagare tutte le sue cambiali, per un importo complessivo di novantasette mila lire. La crisi del mercato italiano lo obbligava a realizzare tutti gli effetti che aveva in portafoglio. E per sua norma gli trascriveva le varie date delle scadenze, tutte a breve distanza l'una dall'altra: la prima, di 15 mila lire, appunto fra una ventina di giorni.
Francesco Kloss, prevedendo che cuel vecc straortinari avrebbe finito col rovinarsi interamente per i capricci e il lusso di sua moglie, non voleva pagare le spese dell'altrui balortaggine.
Il Casalbara ora rimasto indignato da quella lettera. Non rispose nemmeno al Kloss: pensò di scrivere invece al suo amministratore, il ragionier Vigliani, per quanto anche questo passo gli riuscisse penoso.
Il denaro che il Casalbara aveva avuto a mano a mano dal Kloss nel lungo periodo della loro vita in comune, gli era sfumato di tasca stupidamente, senza che egli avesse pensato mai nella sua vanagloria, che un giorno o l'altro, l'amico…. avesse a mostrare le unghie del creditore, e pretendere il saldo di quella specie di conto corrente.
Anche la cifra enorme delle varie sovvenzioni e degli interessi accumulati gli riesciva inaspettata, incomprensibile.
Come?… Novantasette mila lire?!… Aveva speso novantasette mila lire?!…
In che modo?
Per il matrimonio, per Nora aveva ricorso alla sua amministrazione.
Quell'ottimo Vigliani, sempre così affaccendato, che inventariava tutto il mondo e che aveva in mano i patrimoni di mezza Milano, sapeva de' suoi pasticci colla banca Kloss?… Ad ogni modo come seccava al duca di doverglielo confessare, lui, direttamente, dandogli l'incarico di provvedere e di regolare quelle scadenze!
Ma pure, appena scritta e spedita la lettera, il Casalbara respirò: il Vigliani avrebbe certo provveduto. E per due giorni non ci pensò più, tornò a grogiolarsi beatamente nell'adorazione di sua moglie…. ma per due giorni soltanto. La risposta sollecita, troppo sollecita, immediata del ragioniere era ben diversa da quella che il duca s'immaginava, e lo aveva sconvolto, messo sossopra.
Oh, quale doloroso e angoscioso risveglio da quel suo dolcissimo e incantevole assopimento!
Il ragioniere parlava chiaro:
"Era già edotto del fido che il signor duca aveva trovato alla banca Kloss, ma non se n'era occupato perchè "non era di sua spettanza il fare osservazioni". La risoluzione di ritirarsi a Bergamo e a Casalbara, già ventilata insieme, avrebbe riparato, come il signor duca sapeva, ai dissesti ben noti nel patrimonio, causati dalle crisi agrarie e da quel po' di eccedenze nelle spese, sempre da lui sommessamente deplorato, nel presentare gli annuali bilanci.
"Anche poco tempo prima dell'avvenuto felicissimo matrimonio, aveva dovuto improvvisamente e perentoriamente, soddisfare una richiesta di venti mila lire. Per definire la "situazione" di fronte al credito della banca Kloss ed anche per chiudere, in omaggio al decoro e alla nobiltà della casa, una pendenza di quel genere, le economie, i progetti già maturati non erano più bastanti: oltre al palazzo di Milano, bisognava forse occuparsi della vendita, e rassegnarsi anche al sacrificio, per quanto doloroso, di Casalbara.
"Era poi assolutamente indispensabile e urgentissimo che il signor duca, per tutte le pratiche necessarie, tornasse subito a Milano."
Il Casalbara si tenne quella spina nel cuore per alcuni giorni;… lottava contro sè stesso, mercanteggiava quasi colla propria coscienza fra la necessità di partire, di tornar subito a Milano, e il desiderio, la bramosìa di prolungare ancora di un altro giorno, di un'altr'ora l'incanto, la voluttà di quella vita.
Il Vigliani mandò un telegramma al signor duca, quasi ingiungendo il ritorno immediato.
…. Bisognava parlare: ma ancora non ebbe il coraggio di parlar per il primo: fu Nora, essa stessa, che l'obbligò a spiegarsi.
Una sera, ritiratisi gli altri ospiti dell'Hôtel Duval, il Casalbara si era recato, come al solito, ad aspettare la moglie sul terrazzo. Sempre, un po' prima di andare a dormire, Eleonora fumava lì, su quel terrazzo, la sua ultima sigaretta. Sdraiata mollemente, mollemente assorta e silenziosa, si godeva l'aria, il fresco, la notte, le stelle, seguendo col lento dondolìo della poltrona, il murmure quieto, lontano del mare.
Quella sera, quando la vide apparire fra le ombre, fra la luce pallida del terrazzo, ondulando, tutta bionda, tutta bianca e vaporosa nella lunga vestaglia di crespo e di merletto, sentì corrersi un brivido per le vene, e avrebbe voluto morire. Bisognava parlare!
Nora gli si avvicinò, sorridendo. Egli sentì il soffio, la vampa calda, si sentì avvolto nel suo odore di bionda e di lilas de Perse.
—Stella….—balbettò.
—Ah!… Che delizia! Che delizia!—Nora, con un lungo respiro stirò, alzò le braccia nude, rotonde, rosee, fuor della larga manica trasparente…. respirò ancora…. poi le lasciò cadere attorno al collo del marito riposandosi morbida, stanca sulle sue ginocchia.
—Hai sonno…. cara?
—Si sta bene, tanto bene qui…. così….—E accesa la sigaretta, lo baciò, ridendo, colla bocca piena di fumo.
…. Dio, Dio! Bisognava parlare: il giorno dopo bisognava partire!
—Che hai, Nannucci?…—essa gli domandò a un tratto, dopo di aver lanciato dal terrazzo la sigaretta spenta.
—Stella! Stella!—bisbigliò il duca commosso e sospirò:—Perchè non posso darti la vita?…
Nora sentì tutto il dolore, tutto lo strazio represso in quelle parole e ne rimase impressionata: si alzò in piedi rigida, appoggiandosi al parapetto del terrazzo.
—Cosa c'è?—E lo guardò fissamente.
Ma il Casalbara non sapeva risolversi, non poteva parlare. Temeva il suono stesso delle sue parole, della sua voce. Il silenzio di quella quiete serena, muta, calma e chiara si era fatto più profondo…. Anche il murmure lontano del mare era cessato.
Pareva al Casalbara, che non soltanto gli occhi fissi, attenti sul viso pallido della moglie, ma che tutto d'intorno a lui, il cielo diffuso e limpido e il mare fermo e muto, aspettassero le sue parole, la sua confessione….
Dio! Dio! Come mai era stato così spensierato? Così leggero? Così egoista?…
—Che c'è?… Che c'è di nuovo?—ripetè Nora con un leggero tremito d'inquietudine e d'ira.
—Ho…. avrei da chiederti un sacrificio. Bisognerebbe partire…. presto.
—Per San Moritz? Non è già fissato?…
La buona stagione di Nizza, infatti, era finita da un pezzo, e i Casalbara avevano combinato con lord e lady Paget di passare l'estate, tutti insieme, in Engadina.
—Ecco il sacrificio,—balbettò il Casalbara.—Bisognerebbe abbandonare la nostra prima idea…. e tornare a Milano.
—A Milano?… Tornare a Milano? Adesso che non c'è più nessuno?
Il duca tremò più forte: non ebbe il coraggio di dir tutto, subito, di affrontare di colpo lo scoppio di quella collera.
—Per una decina di giorni, soltanto!… Forse anche meno. Il tempo necessario per riparare ad una cattiveria, un'azionaccia del Kloss. Hai proprio ragione, stella! Il Kloss è un furfante!… un fur….fante!—E gli scappò uno sternuto grosso, fragoroso. Era il solito di tutte le sere: era il segnale della ritirata. La brezzolina umida del terrazzo finiva sempre per infreddarlo.
—Andiamo!—esclamò Nora dispettosamente. E senza aspettarlo, senza prendergli o dargli il braccio, si avviò sola, risoluta, imperiosa, verso la sua camera che splendeva illuminata, in mezzo al terrazzo.
Il Casalbara le tenne dietro curvo, premendosi la mano sulle reni indolenzite, gemendo:
—Ahi! Ahi!… Non mi sento bene stasera…; non mi sento bene.
L'altra non gli badò nemmeno e mandò via subito la cameriera, senza svestirsi.
—Di', su, sbrigati, che c'entra il Kloss?
Il duca cominciò a raccontare delle cambiali, del ragioniere Vigliani, ma poi, per far più presto, le fece leggere le due lettere e l'ultimo telegramma.
Nora, nel primo impeto, se la prese contro il Vigliani; doveva essere un imbecille, un impostore…. o un imbroglione; e siccome il duca voleva difenderlo, allora la tempesta si scatenò sul suo capo.
Un'altra donna, pur nelle medesime condizioni di Nora, avrebbe sostenuto quel colpo con maggior calma, con maggior coraggio…. Non avrebbe potuto capire così subito tutta la gravità di quelle notizie. Ma per Nora invece, il caso era diverso: la rovina le si era affacciata in un attimo, chiara, lampante, orrenda: per la figliuola dello zio Matteo, quei debiti, quelle cambiali, quelle minacce, erano il suo passato che ricominciava, il suo passato di angosce, di stenti, di espedienti, di privazioni, di miseria—era quella vita maledetta che avea voluto troncare ad ogni costo, a costo di buttarsi fra le braccia di un vecchio…. e che invece doveva ancora ricominciare…. e insieme a quel vecchio!
Nora tremava, piangeva, lo schianto del dolore confondendosi alla collera, all'ira.
—Ma se il Vigliani è onesto,—balbettava,—allora sei tu che mi hai ingannata; sei tu che hai ingannata una povera ragazza!
—Calmati! Non gridare! Non farti sentire!—pregava, supplicava stordito, spaventato il Casalbara, che pur temendo di sua moglie non avrebbe mai immaginato, quelle furie.—Calmati! Sei in preda all'esaltazione! Siamo ben lontani dalla miseria, dalla rovina. Si tratta di qualche piccola economia…. di qualche piccola privazione.
Nora strillò più forte e continuò:
—Vendere il palazzo di Milano! Vendere Casalbara!… Ridursi a vivere a Bergamo! Subito!… Adesso!… Subito! Dio! Dio! Dio! La disgrazia, la rovina e il ridicolo! Infelice e ridicola! Perchè tutti rideranno di me! Tutti! Tutti! Tutti!
La fierezza del Casalbara si ridestò a queste parole e lentamente, ma con gravità, con forza, le disse:
—Potrai essere infelice, questo sì: ma dipenderà da te, dal tuo cuore, dipenderà da ciò…. in cui tu avevi riposta la tua felicità. Ma ridicola no—ridicola mai! Anzi, sarai sempre più rispettata e ammirata, se saprai mantenerti nobile e dignitosa nella nostra disgrazia.
Nora non gli rispose; non lo vedeva, non lo ascoltava, non lo sentiva nemmeno. Essa vedeva e sentiva le risa di Evelina, dello zio Matteo, la sghignazzata del Kloss! Tutti, tutti, tutti ridevano di lei, e le passavano tutti dinanzi in quel momento!
Aveva voluto essere una signora, aveva abbandonato il Laner per essere una signora, e andava a finire esiliata a Bergamo, seppellita a Bergamo!… Vendere il palazzo di Milano! Vendere Casalbara!
Il dolore, era ancora più forte della collera. A un tratto fu presa da un parossismo, da una convulsione terribile. Pestò i piedi, si stracciò le vesti, si strappò i capelli, si graffiò la faccia, rompendo, buttando all'aria tutto ciò che le capitava fra le mani, poi si lasciò cadere affranta, esausta attraverso il letto, gemendo ancora, torcendosi ancora, mordendo, nei sussulti dello spasimo, le coltri e i guanciali.
Quando parve quietarsi, quando rimase immobile, distesa, supina attraverso il letto, il Casalbara, dopo averla guardata a lungo, inquieto, incerto, le si avvicinò:
—Perdonami, Eleonora. Posso giurarlo sul mio onore: non ho voluto illuderti, ingannarti; io stesso mi ero ingannato, mi ero illuso. Perdonami, sono colpevole verso di te, per la mia spensieratezza! Io non ho mai badato agli affari…. a' miei interessi. Mi credevo sempre abbastanza ricco per non dovermi preoccupare dell'avvenire. È stato un errore, una colpa. Ti domando perdono—perdonami…. adesso la sconto amaramente. Ma se avessi potuto soltanto immaginare…. questo che oggi mi succede…. sul mio onore…. ti giuro…. ti avrei detto tutto, prima….
Il povero vecchio si avvicinò di più…. Gli gocciolavano le lacrime dagli occhi gonfi.
Nora era sempre buttata distesa attraverso il letto.
—Ti avrei detto tutto…. a costo di dover rinunciare al mio paradiso…. di perdere l'amore della mia stella,—bisbigliò umilmente, quasi supplichevole, fissando il collo bianco e i capelli biondi.
Nora non piangeva più, non gemeva più: non rispose, non si mosse.
—La crisi è passata,—pensò il Casalbara, disposto a compatire, a perdonare, a dimenticare tutto quanto era successo, nell'egoismo intimo della sua passione, nel bisogno materiale di quella donna. E si consolò. Eleonora aveva gridato, si era sfogata…. ma infine si era calmata!… Era stata ingiusta; nell'impeto di quella collera era stata brutale, atroce…. villana. Da quella bocca incantevole, divina, erano uscite parole nuove, strane, parolacce volgari. Ma, ormai, si era sfogata…. si era calmata…. era lì, quieta, buttata sul loro letto…. Egli l'aveva ancora…. Che importava tutto il resto?… Essa gli era rimasta!… L'aveva ancora!…
Prese lo scialletto di crespo, il fisciù di trine, la casacchina rosa da letto tutta morbida e fragrante, che Nora nel suo furore aveva buttato qua e là, li piegò, li ripiegò, lentamente, amorosamente, li collocò sul canapé. Cercò le piccole babbucce orientali e glie le posò vicino…. accese la fiamma a gas dinanzi al piccolo specchio dove Nora usava fare la sua toeletta della notte, le preparò il largo pettine e la spazzola d'avorio pei capelli. La guardò, la sogguardò furtivamente: era sempre quieta…. Ormai la tempesta era passata…. Gli era rimasta! L'aveva ancora!…
Passò dall'altro lato del letto, ne distese, ne rimboccò le coltri dalla propria parte, si preparò l'acqua collo zucchero…. tornò in mezzo alla camera, vicino al sofà, cominciò a levarsi l'abito, il gilet…. e tornò a guardarla;… poi le si avvicinò piano, e prendendola delicatamente colle due mani sotto le ascelle per aiutarla a sollevarsi, le disse baciandole i capelli:
—Alzati…. cara…. ti farà male, star così sdraiata…. Vieni a letto.
Nora si rizzò, si voltò di colpo: la sua faccia per essere stata malamente compressa contro i cuscini, era attraversata da due solchi sanguigni. Essa lo guardò sfrontatamente, con un sogghigno ironico, beffardo, poi, a un tratto, senza dir parola, lo afferrò per un braccio e lo spinse, lo cacciò barcollante, incespicante sui tappeti, nel salottino attiguo alla stanza da letto; prese il suo abito, il suo gilet, glieli buttò dietro; e sbattè le portine, girò la chiave, sempre senza dire una parola, senza dir niente, muta.
—Eleonora!… Eleonora!…—balbettò il Casalbara, tendendo le mani nell'oscurità….—Eleonora! Eleonora!
Dai vetri opachi delle portine, passava appena il chiarore confuso dell'altra stanza.
—Eleonora!… Eleonora!—e rimase colla fronte appoggiata ai vetri spiando ansioso, esasperato, tremante, l'ombra della moglie che scorgeva muoversi attorno al letto.
—Eleonora!… Eleonora!—esclamava colla voce bassa, ma vibrata.—Perchè così?… Perchè hai fatto così?… Sei troppo cattiva!… Non ti credevo così!… Apri!… Apri!… Non facciamo scandali! Non facciamo scene!—E s'infuriava perchè non otteneva alcuna risposta, e scrollava forte le portine per riuscire ad aprirle.—Te lo comando! Apri! Sono tuo marito! Rispondi almeno!
Lo stesso silenzio: Nora si moveva sempre vicino al letto.
—Rispondi, Eleonora!
Sentì soltanto il rumore così noto: il piccolo "crac" del busto che Nora slacciava d'un sol colpo. Sentì il lento scivolare della veste da camera sul tappeto, e il lungo fruscio delle batiste….
Allora tornò a balbettare, a gemere, a supplicare, a domandar perdono, sempre colla fronte appoggiata ai vetri, guardando, guardando….
Intravvide Nora che alzava le braccia…. che scioglieva, stendeva la lunga massa dei capelli e li avvolgeva nervosamente sul capo.
—Perdonami! Eleonora!… Perdonami! Andrò io solo a Milano….
Domani…. Tu resterai qui…. Andrai a San Moritz! Farai tutto ciò che
vorrai! Aprimi! Stella! Stella! Non venderò il palazzo! Te lo giuro!
Non venderò Casalbara! Perdonami! Perdonami! Gioia! Stella! Amore!
Perdonami! Apri! Ho freddo qui! Non posso restar qui!… Sto male!…
Mi ammalerò! Apri! Eleonora!
Sentì lo scricchiolìo del letto…. sentì il fruscio di Nora che si stendeva, si rivoltava fra le coltri.
—Almeno una parola!… Una parola! Non ti domando più che una parola…. sola….
Di colpo si spense il lume: il Casalbara non vide, non udì più nulla.
Allora, sempre colla fronte appoggiata ai vetri si mise a piangere, silenziosamente. A poco a poco il freddo gli penetrò nelle ossa…. e col freddo il timore di risvegliare Eleonora co' suoi singhiozzi. Allora il povero vecchio, trattenendo le lacrime, camminando in punta di piedi, a tentoni, andò a buttarsi e a piangere nella poltrona più lontana.
Il Casalbara, appena arrivato a Milano, dovette mettersi a letto. La scena colla moglie e il ritorno da Nizza fatto a precipizio, con un tempaccio del diavolo, lo avevano ridotto in uno stato compassionevole. Era orrendamente infreddato, alla testa, ai bronchi; aveva paura di morire, aveva paura di sua moglie e aveva paura di perderla: soffriva, soffriva e non capiva più niente.
Nora, durante tutto il lunghissimo viaggio, non gli aveva mai rivolto la parola. Era rimasta sempre ferma al suo posto dall'altra parte del cupé, impenetrabile e muta, colla piccola riga bianca in mezzo alla fronte torva, aggrottata.
Il povero vecchio, tremante di febbre, osava appena guardarla, furtivamente, cogli occhi rossi, gonfi, lacrimosi, e cercava di impietosirla, mormorando:
—È finita!… È finita per me!
L'altra rimaneva immobile, fissa e rigida al suo posto. Soltanto dopo Novara, mentre infuriava il temporale e la pioggia fitta sbatteva contro i vetri, essa gli aveva detto brevemente e seccamente:
—Domani parlerò io col Vigliani.
—Sì…. cara…. tutto…. tutto ciò che vuoi!—si era affrettato a rispondere il povero marito scosso e consolato dal suono di quella voce, sebbene aspra e imperiosa.
Ma poi, vedendo che nemmeno la sommissione così pronta, così umile riusciva a placare Eleonora, tornò a gemere, a tossire, a sospirare, a mormorare tutto tremante e intirizzito:
—È finita!… È finita per me!
La duchessa, subito la mattina dopo, per far più presto, invece di mandare a chiamare il ragionier Vigliani, si recò lei stessa, direttamente al suo studio.
Non erano ancora le dieci e nondimeno il piccolo stanzino angusto e polveroso che serviva di anticamera, era già pieno di gente che aspettava: un monsignore, due avvocati che discutevano fra di loro, e una grassa matrona, vestita di tutti i colori, coi baffetti neri e i riccioloni a rubacuori incollati sulle tempie.
Nessuno si scosse all'entrare di Nora; erano abituati a ogni sorta di clienti.
—Prego, faccia avvertire il ragionier Vigliani che c'è la duchessa di Casalbara,—disse Nora, a mezza voce, in fretta, allo scrivano, che faceva anche da portiere.
Questi, un bel giovanotto ben pettinato e colla camicia scollata, non lasciò la signora duchessa ad aspettare in anticamera, ma la fece passare, andandole innanzi, e spalancando gli usci, nel salotto privato del ragioniere.
—Il signor Vigliani ha gente, ma verrà subito,—e dopo di aver pregato la signora duchessa di avere la bontà di accomodarsi, se ne andò, camminando in punta di piedi.
Nora, entrando nel salotto basso, tetro colle tappezzerie giallognole, trasudanti l'umidore, aveva sentito venirsi in faccia una zaffata di rinchiuso e di cavoli riscaldati: si guardò attorno: appeso in alto, alla parete di mezzo, il ragionier Vigliani collo spillone di brillanti, sorrideva dal suo grande ritratto ad olio, fra le oleografie di due sultane.
Nora si seccava ad aspettare: ma non aspettò che pochi minuti.
Il Vigliani entrò quasi subito, come una bomba, strisciando e ruzzolando, profondendosi in inchini, in complimenti, in esclamazioni superlative.
Appena ripreso fiato, appena ebbe fatto sedere la signora duchessa, le domandò del signor duca, tenendosi ritto dinanzi a lei colle mani congiunte.
—È rimasto a letto. Si è un po' infreddato nel viaggio.
—Voglio sperare che sarà un'indisposizione leggerissima, affatto passeggera….—E il ragioniere sgranava gli occhi in segno del più vivo interessamento. Ma Nora tagliò corto colle chiacchiere.
—Capirà benissimo perchè sono corsa da lei in questo modo. Non potevo aspettare, sono troppo inquieta, troppo spaventata. Voglio sapere subito come stanno le cose, voglio sapere tutta la verità. Mio marito mi ha fatto leggere la lettera del Kloss e la sua. E sono qui anche per incarico di mio marito, che non può muoversi.
Il ragionier Vigliani, inquieto, cominciò a sospirare, alzando gli occhi al cielo, stringendosi nelle spalle, allungando le braccia.
—Voglio saper tutto,—ripetè la duchessa.
L'altro, ancora un po' sossopra, balbettò:
—Allora mi farò coraggio… per ubbidirla,—e cogli occhi cercò il posto dove sedersi.
Ma appena il Vigliani cominciò a parlare d'affari, diventò un altr'uomo; mutò voce, espressione; non era più confuso, non si sentiva più impacciato. Fece passare la duchessa sul canapè perchè stesse più comoda, e sedette a sua volta, si sdraiò sulla poltrona accanto, accavalciando le gambe l'una sull'altra. Parlò chiaro, esplicito, quasi duramente.
—Bisogna vendere il palazzo di Milano, bisogna vendere la villa e i fondi di Casalbara. Bisogna ridursi a vivere a Bergamo…. con una quindicina di mille lire all'anno. E questo bisogna farlo subito.
—Subito?
—Tirando in lungo, perdendo una buona occasione non si salva più nulla!
—Subito?… Subito?…—ripetè Nora, quasi con un gemito nella voce tremante.
L'altro parlava sempre in fretta, guardando spesso l'orologio della caminiera, dimenando la gamba che aveva a cavallo sull'altra, e mostrando la calza bianca, grossa, sotto la scarpaccia inzaccherata.
—Lei, povera signora duchessa, lei sconta adesso quella… quella diremo… ostinazione del signor duca di non avermi mai ascoltato, quando raccomandavo col dovuto rispetto, di limitare le spese secondo le rendite: Mah! siamo sempre andati avanti, in tutti questi anni, non per colpa mia, ci tengo a dichiararlo, come ai beati tempi dei Casalbara, signori e padroni di terra e castella, col diritto delle decime e di batter moneta!
Nora, sempre dandogli ragione perchè non le conveniva di colpo disgustarlo, cominciò a fare qualche domanda circa le rendite, gli aggravi, il patrimonio.
Il Vigliani l'interruppe, alzandosi d'un tratto.
—Un momentino, scusi… permetta,—e uscì sempre strisciando, e ruzzolando, per ricomparire quasi subito con un fascio di carte, che spiegò dinanzi a Nora, dopo essersi inforcati gli occhiali sul naso.
—Ecco qui, signora duchessa. Veda lei stessa il riassunto dei bilanci degli ultimi anni, che ho fatto estrarre appunto in questi giorni.
Nora, seguiva il dito grosso, villoso, dalle unghie sudice e rosicchiate del ragioniere, che segnava le cifre; ma non riusciva ad afferrare, a sapere tutto ciò che avrebbe voluto.
Il Vigliani, quando ebbe finito di mostrarle tutte quelle annotazioni e di farle osservare tutte le passività che gravavano sul patrimonio, concluse, mettendo le carte sul tavolo e posandovi sopra gli occhiali:
—Come ho scritto al signor duca, e come ho già detto alla signora duchessa, non c'è altro da fare: vendere il palazzo di Milano e vendere la villa di Casalbara, per la quale, anzi, proprio in questi giorni, mi sarebbe capitata una buonissima occasione.
Nora, pallidissima, si sentiva oppressa dal tono perentorio del ragioniere.
—Non si potrebbe aspettare… almeno… almeno qualche mese?—balbettò colla voce soave, insinuante, piena di lacrime.—Se il Vigliani avesse voluto, avrebbe potuto salvarla,—pensava. E avvicinandosi vivamente al ragioniere, lo fissò coi bellissimi occhi, imploranti.
—Impossibile, signora duchessa. Abbiamo le cambiali del Kloss. La prima, non ricordo bene la data, ma deve certo scadere fra pochissimi giorni. Per tale scadenza occorre la somma; questa al momento non si può trovare; ci penserò io…. come per le altre. Ma deve camminare di pari passo l'alienazione degli stabili.
"Se il Vigliani avesse voluto, avrebbe potuto salvarla"—pensava Nora, e continuava a guardarlo, a fissarlo, a supplicarlo cogli occhi, senza parlare.
—Le domanderei soltanto di aspettare qualche mese…—balbettò infine.—Lei così buono, che ha sempre avuto tanta affezione…. per noi…. Pensi al mio amor proprio: Ho tanti nemici! Riderebbero di me!… Invece, lasciando passare qualche mese, preparando la notizia a poco a poco, farebbe minor impressione. Lei è tanto buono; ha sempre avuto tanta affezione per mio marito; ne abbia un po' anche…. per me!
E la duchessa gli si avvicinò ancora di più, col bel viso acceso, molle di lacrime.
Quel vecchio ragioniere dai baffi e dalle fedine tinte, quel vecchio grasso, volgare e sudicio, gocciolante; un sudore untuoso, non le destava nè ribrezzo, nè repulsione. Era l'uomo che poteva conservarle, almeno per qualche tempo, il palazzo di Milano, la villa di Casalbara, la sua grandezza, il suo sfarzo!…
Ma non aveva fortuna! Il Vigliani rimaneva affatto insensibile: meglio ancora, non vedeva niente, non capiva niente. Il Vigliani era un uomo d'affari, non aveva in mente altro che i debiti, le cambiali… e il poco tempo che aveva da perdere.
Quando sospirò e guardò la duchessa con un certo intenerimento, fu soltanto per dirle:
—Un buon cerusico dev'essere senza pietà. Se non ha mai voluto ascoltarmi suo marito, mi ascolti lei, che ha tanta intelligenza. Parlo per il bene di entrambi. Oggi, infine, non c'è da disperarsi. Se non il lusso, le rimane ancora una certa agiatezza, che moltissimi le invidierebbero. Domani, sarebbe certo una rovina estrema, irreparabile.
Ma la signora duchessa continuava a tacere, a gemere, a guardarlo, a fissarlo… e non si moveva: allora egli lanciò un'ultima occhiata all'orologio e si fece coraggio, alzandosi di colpo.
—Devo correre al tribunale, per un consiglio di famiglia…. Sono già in ritardo.—E facendole mille scuse, domandandole mille perdoni, accompagnando la signora duchessa fin sulla scala, tornò a profondersi in inchini, in proteste, in complimenti.
Nora, quando uscì dalla casa del ragioniere, era furente.
—Vuol costringerci a vendere, perchè avrà il suo interesse: È per il suo interesse che non vuol perdere le buone occasioni!
E Nora, lì per lì, pensò di consigliare e di imporre a suo marito di affidarsi ad un altro amministratore.
Quando rientrò nel suo palazzo, il maestoso portiere dalla lunga barba bianca, si era messo in gran livrea.
Nora sospirò. Anche quel magnifico portiere avrebbe perduto! Eppure era stata una delle tante attrattive del duca di Casalbara, una delle attrattive che l'avevano indotta a sposarlo!
Non era con quel palazzo dal grande giardino ch'essa aveva cominciato a fare all'amore? Col palazzo dall'antico cancello di ferro, dallo stemma dorato e la corona ducale e il magnifico portiere che pareva il re della contrada?
Quante volte era passata di là!… Quante occhiate furtive dentro a quel portone, sotto l'atrio a colonne o nel cortile immenso! E quanti sorrisi di compiacenza, di orgoglio pensando: Sarò io la duchessa! Sarò io la padrona!
Invece doveva venderlo! Non poteva goderlo, in pace, nemmeno per un giorno! E perchè? Perchè suo marito si era rovinato col giuoco, colle donne, col Kloss.
Che trionfo per il Laner… e per quel mostro di Evelina!…
Si fermò, ancora sospirando, sul ripiano del grande scalone di marmo, dal morbido tappeto, colle pareti a specchi, a stucchi dorati, coi fiori olezzanti nei vasi enormi!…
Tutto le pareva ancor più bello, più ricco, più grande! Che dolore! Che dolore! E che desiderio, che brama di tutto conservare! Avrebbe dato una parte del suo sangue, della sua vita! Come si vendicava quel Kloss, per non aver essa mai voluto saperne delle sue licenze, delle sue confidenze, de' suoi abbracci!… E dire che essa lo aveva sempre creduto uno straccione in confronto del duca di Casalbara!…
Invece…. tutto il contrario….
Nora non sospirava più. Pensava, rifletteva, attraversando adagio adagio tutte le sale del vasto appartamento.
Invece…. tutto il contrario….
Se il Kloss non fosse stato in collera, avrebbe continuato a rinnovar le cambiali, non li avrebbe spinti a quel precipizio….
Si avvicinò a una finestra: guardò il giardino, il cortile, il magnifico portiere che passeggiava sotto l'atrio, e tornò a sospirare.
D'un tratto corrugò la fronte, un rossor vivo, un fuoco le salì alla faccia.
—Si…! Si!—bisbigliò,—tutto per tutto. Bisogna tentare col Kloss!
E corse subito nel suo gabinetto di toelette, passando dinanzi alla camera del duca, ma senza nemmeno fermarsi per salutarlo.
Scrisse al Kloss, in fretta, su due piedi, col lapis, e appena gli ebbe mandato la lettera alla banca, si sentì più tranquilla, più sicura.
Certo il Kloss, sarebbe corso da lei, subito!
Infatti il bigliettino era pressante:
"Ho gran bisogno di parlarle. Mio marito è a letto ammalato. Temo ne avrà per molti giorni. E proprio in questo momento in cui sono oppressa da mille imbrogli di affari e d'interessi, che non arrivo nemmeno a capire!
"Del nostro ragioniere non ho certo a lodarmi…. e mi persuade fino a un certo punto! Sono sola, non so che cosa fare, nè a chi rivolgermi. Procuri di venir subito: sentirà, vedrà, mi potrà dare qualche consiglio. Sto in casa apposta ad aspettarla."
Nora calcolò il tempo che poteva impiegare il servitore ad andare…. e il Kloss a venire…. e intanto si cambiò di vestito perchè colla corsa della mattina e col caldo si era tutta sciupata. Pensò, guardò, scelse e indossò una sua veste da camera leggerissima, morbida, tutta di crespo rosa e di merletti, e per aver più fresco, per riposarsi, allentò un poco i capelli, tanto che scrollando il capo con forza si sarebbero sciolti sulle spalle come un'onda d'oro.
Francesco Kloss era alla banca: vista appena la lettera, a buon conto, fece dire al servitore che era fuori:—poi la lesse, la rilesse, accendendosi in volto, cogli occhietti torvi, da satiro, che luccicavano…. Intravvide il pericolo e fissò immediatamente il suo piano, facendo un saltetto e una sghignazzata, per scuotersi, per stordirsi.
—Mi andassi supito a Carlsbad tomani mattina: ma per cuella matama mi partissi stasera!
Pure bisognava rispondere. "Cuella matama" al presente, era la duchessa di Casalbara, era la moglie di un suo amico, gli aveva scritto, stava a casa apposta ad aspettarlo e bisognava rispondere.
Rilesse la lettera….—sentirà, vedrà, mi potrà dare qualche consiglio….—Penissimo!—In questo posso servirla!
E fece chiamare il signor Galli.
Il Kloss non aveva mai detto niente al suo procuratore delle cambiali del Casalbara. Erano piccoli affaretti del portafoglio particolare. E come al suo procuratore non ne aveva parlato prima, tanto meno ne parlò adesso!…
Il Kloss pregò soltanto il Galli di volersi recare il giorno dopo, in vece sua, dalla duchessa di Casalbara: gli disse che la duchessa voleva essere consigliata, aiutata nella sua amministrazione, perchè aveva il marito ammalato ed era malcontenta del suo ragioniere, e concluse galantemente:
—Tranne tanee, tutt coss a sua tisposizion!
Rimasto solo, tornò a fregarsi le mani.
—Matama ha bisogno di un racioniere? Penissimo! Le mandassi il mio!—E scrisse subito alla signora duchessa—per non farla restare in casa inutilmente—una lettera molto gentile.
"Essendo quel giorno occupatissimo per un'importante seduta alla banca e dovendo partire alle 5.50 per Carlsbad era spiacentissimo di non poterla vedere. Ma la mattina dopo sarebbe venuto da lei il suo procuratore generale, il signor Ambrogio Galli, coll'ordine espresso di mettersi in tutto e per tutto a sua disposizione. Il signor Galli era una persona molto seria, e di molto valore. La signora duchessa poteva fidarsene interamente. Avrebbe avuto tutti gli schiarimenti e tutti i consigli, e tutto l'aiuto che sarebbe stato del caso." Il Kloss la pregava di salutare, a suo nome, il caro amico Giovanni, che sperava di trovare al suo ritorno pienamente ristabilito, le riconfermava i sensi della sua profonda stima e devota amicizia, dichiarandosi sempre pronto "all'onore di servirla in tutto ciò che la signora duchessa potesse desiderare" e finiva col baciarle ossequiosamente la mano.
Nora, leggendo quella lettera, impallidì, con un'espressione sinistra, iraconda.
—Villano!…
Ma poi si calmò.
Le mandava il suo procuratore generale?… Con quali istruzioni?…
Certo coll'ordine, almeno, di rinnovare le cambiali.
"Avrebbe avuto tutti gli schiarimenti, tutti i consigli; tutti gli aiuti che sarebbero stati del caso…." Almeno le cambiali sarebbero state rinnovate!
E Nora si sentì consolata, scacciò tutte le ansie con una alzata di spalle e per quel giorno non volle pensarci più.
Ma bisognava avvertire anche Giovanni, di quella visita del signor Galli, procuratore del Kloss. Si recò direttamente nella camera del marito, senza nemmeno pensare al modo di spiegare e di fargli accettare quel fatto: era troppo sicura di sè!
Il duca spasimava: in seguito alla reumatica e alla infreddatura intensa, contratta durante il viaggio, gli si era manifestata un'acuta nevralgia: il chiodo solare, come gli aveva detto la cameriera.
La stanza era completamente buia. Nora, appena entrata, schiuse una delle imposte.
Il Casalbara, sepolto sotto le coperte, volse il capo vivamente, con un gemito.
—E così?—gli domandò Nora, restando sempre presso la finestra.—Vuoi che faccia chiamare il medico?
—No…. no… grazie….—rispose l'altro colla voce fioca.
Nora gli si avvicinò.
Il Casalbara, steso sul letto, sotto le coperte pesanti, aveva la testa affondata nei cuscini e ravvolta in un foulard. Non lo si vedeva nemmeno.
—Cara….—bisbigliò quando Nora si fermò in piedi accanto al letto; e i suoi poveri occhi gonfi, lacrimanti, pure nell'ombra, sotto le coperte, sotto il foulard ebbero un raggio di tenerezza…. un'espressione viva e dolente che domandava amore e pietà.
—Vuoi mangiare qualche cosa?—gli domandò Nora, mettendogli la mano sulla fronte per sentire se scottasse.
—No…. no…. grazie,—risposo prostrato con un senso di commozione.
—Vuoi una tazza di tè?…
—Grazie, cara…. adesso soffro troppo…. Grazie…. più tardi.
Nora notò che al malato dava fastidio anche quella luce è andò a chiudere di nuovo la finestra; la camera rimase ancora tutta buia.
—Sono stata dal ragioniere Vigliani,—disse poi colla voce sicura.—E mi sono convinta che ha il suo tornaconto nell'obbligarci a vendere.
Dal letto rispose appena un gemito fievole.
Vi fu qualche minuto di silenzio; poi Nora ripigliò sempre impassibile:
—Più tardi, quando appunto ritornavo dal Vigliani, ho incontrato il
Kloss, sul Corso, e mi ha detto di salutarti.
Il letto scricchiolò. Il Casalbara, di colpo, si era alzato diritto a sedere.
Nora, pur nel buio, ne vide l'immagine bianca.
—Parte stasera per Carlsbad,—continuò.
Il letto scricchiolò ancora; il Casalbara si era lasciato ricadere disteso.
Nora gli andò vicino, gli tirò le coperte fin quasi sugli occhi, gli accomodò il foulard, poi ripigliò:
—Gli ho detto che non mi fidavo molto del nostro ragioniere, che tu eri malato, che avrei avuto bisogno di qualcuno per aiutarmi, per vedere un po' come davvero stanno le cose. Il Kloss mi manderà domani mattina il suo procuratore, un bravissimo uomo, il signor Galli.
Nora non poteva vedere le lacrime che cadevano silenziose dagli occhi del duca.
Nella camera si soffocava: dopo un momento essa domandò:
—Vuoi che socchiuda l'uscio per lasciar passare un po' d'aria?
—No.
—Vuoi del ghiaccio?
—No.
—Ti alzerai più tardi?
—No.
—Per l'ora del pranzo?
Questa volta il malato non rispose nemmeno.
—Allora, buona notte!—esclamò Nora, dopo un momento. E se ne andò.
In fondo all'appartamento, dopo il suo spogliatoio, v'era un'altra piccola stanza da letto: Nora la fece preparare per sè.
E intanto che ordinava, che faceva preparar la camera, Nora si godeva a visitare il lungo guardaroba dagli armadi solidi, pesanti, colmi delle telerie, delle fiandre antiche e preziosissime di casa Casalbara; si godeva a visitare i forzieri dell'argenteria, le grandi scansie a vetri delle porcellane e delle maioliche.
—Certo…. le cambiali sarebbero state rinnovate!…
Si godette a desinare sola soletta nel bel stanzone da pranzo, dalle finestre che davano nel giardino, tutte verdi per lo sfondo degli abeti.
Dio! Era il primo giorno che non aveva l'oppressione di quell'uomo, delle solite moine, dei soliti discorsi!…
Dopo pranzo andò a fare una buona scarrozzata.
—In ogni modo, quando fosse stato il momento, si si sarebbe potuto vendere soltanto Casalbara!
I bastioni erano deserti: tra le fila cupe degli ippocastani, le nottole e i grossi farfalloni danzavano attorno ai globi della luce elettrica.
Ritornando, scendendo da Via Manin, Nora rivide la piccola stradetta dietro il Museo dove aveva avuto la gran scena col Laner.
—Povero Pietro!…—e sospirò; sospirò con un'espressione di malinconia inconsapevole, ma tenera, soave….
—Povero Laner!
—Ah!… che piacere quell'aria fresca, frizzante! Era la prima volta che girava sola in carrozza, senza "quel peso!" Che piacere!
D'un tratto, in via Santa Margherita, mentre Nora pensava ancora alla stradetta dietro il Museo, e alle furie dell'innamorato, ecco… ecco appunto Pietro Laner! Pietro Laner e l'Evelina!
Evelina andava innanzi urtata dalla folla, più gobba, più goffa che mai! Pietro Laner le teneva dietro, a testa bassa….
Quando Nora passò loro accanto colla carrozza, finse di non vederli; ma le attraversò il cuore un impeto di collera, un impeto strano di gelosia e di rimpianto!
Adesso Nora lo sentiva, lo capiva: aveva avuto altre simpatie, oltre il tenente Calafà, ma il suo primo amore, il suo vero amore, era stato il Laner.
E se il Vigliani la spuntava e le faceva vender tutto? Se il Kloss non avesse voluto rinnovare le cambiali?
—A casa!—ordinò al cocchiere.
Era stanca; aveva bisogno di riposare il corpo e la mente.
Appena arrivata fece le scale di corsa, slacciandosi i nastri del cappellino per fare più presto a svestirsi: non vedeva l'ora di buttarsi in letto, di dormire.
—Ah!… finalmente!
Sull'uscio dello spogliatoio si fermò perplessa, inquieta. Non doveva passare da Giovanni? Era già arrabbiato…. Non lo avrebbe fatto arrabbiare un po' troppo, piantandolo solo a quel modo, senza neppure la buona notte? Ma cacciò via le inquietudini con un'alzata di spalle.
—Potrò sempre calmarlo domani!—e chiuse l'uscio a chiave.
—Ah! Un po' di riposo!… Un po' di libertà!
E continuava a ridere, svestendosi in fretta, buttando di qua, di là, allegramente, i vestiti, le scarpette, le calze…. e ridendo saltò nel letto e continuò a ridere, con fremiti di piacere, allungandosi, rivoltandosi sotto le lenzuola leggere, freschissime.
—Ah! Che gioia! Che gioia!… Che felicità!… Dopo tanto tempo era sola, era sola…. sola finalmente!
Il giorno dopo, alle undici precise, il signor Ambrogio Galli si faceva annunziare alla duchessa di Casalbara. Il procuratore della banca Kloss aveva indossato il vestito nero e messo il cilindro nuovo, che portava soltanto la domenica, quando accompagnava la moglie a messa, a San Carlo, e a colazione al Trenk. Le mani gli penzolavano lungo i fianchi, strette, legate nei guanti color sangue.
Molto volontieri avrebbe fatto a meno di quella visita! Per le sue idee di rivendicazione e di giustizia sociale, non voleva confessare di patire ancora certe debolezze, certe timidezze affatto borghesi. Si sentiva intimidito…. molto impacciato, propriamente e solamente perchè doveva presentarsi a una "duchessa".
Lei, come lei, la signora duchessa, glielo avevano detto, era la figlia, la nipote, una parente qualunque di Matteo Cantasirena. Ma era diventata duchessa di Casalbara…. E il signor Galli ripeteva quel nome, come per abituarsi, allungando lo dita nei guanti color sangue:
—Duchessa di Casalbara!… Mah! Gli uomini,—pensava,—restano sempre quello che sono; le donne, invece sono…. quello che diventano!
Aveva anche sentito che la signora duchessa era bellissima….
—Le avranno detto almeno che sono sordo? Saprà di parlar forte?—borbottava fra sè, con una certa stizza.
Il signor Ambrogio era stato altre volte, per affari, in case aristocratiche, ma era entrato soltanto nello studio dell'amministrazione, aveva parlato soltanto con uomini.
—Auff! Che seccatura!—E attraversando l'anticamera dietro il servitore che lo precedeva per annunziarlo, mandava a quel paese il signor Kloss e si pentiva di non essersi almeno informato di certe regole più elementari dell'etichetta.
Aveva lasciato il cappello in anticamera. Aveva fatto male? Doveva tenersi i guanti? Come doveva chiamarla?… Signora duchessa?… Altezza?… Che altezza! Non ce n'erano più di altezze! Tutti eguali, tutti fratelli!… Ma tratteneva il respiro, attraversando quelle sale grandi, silenziose, cupe…. Era intimidito dal rumore delle sue scarpe grosse sui parquets.
Quando si trovò dinanzi alla duchessa, s'inchinò profondamente, senza parlare, e quando essa gli offrì la mano, il signor Ambrogio, con un tremito stese la sua diritta, come se sfiorasse la piletta dell'acqua santa.
Nora lo guardò e gli parlò sorridendo, con grande affabilità, come se lo conoscesse da un pezzo.
—Il signor Kloss è stato molto buono con me, procurandomi il piacere di questa sua visita. Ma non vorrei avesse abusato della sua gentilezza.
L'altro continuava a inchinarsi senza dire di no: cercando la parola e non trovandola.
—In tal caso, le domando perdono per me e per il signor Kloss.
La voce di Nora era alta e chiara; ma il Galli non intese queste ultime parole: non tanto perchè fosse sordo, quanto perchè era troppo confuso.
S'inchinò un'altra volta, poi balbettò:
—Sono a' suoi ordini, signora….—e non ebbe il fiato, il coraggio di aggiungere: duchessa.
Nora sedette nella sua poltroncina presso la scrivania, in un angolo del salottino, sotto la finestra, e fece sedere il signor Ambrogio in un'altra poltrona dinanzi a lei.
—Mio marito le fa tante scuse. Non può alzarsi. È stato ripreso da un accesso nevralgico: soffre assai e non può sopportare la luce.
Il signor Galli, seduto, fece un altro inchino, sporgendo il capo. Questa volta Nora aveva parlato nervosamente, in fretta; egli non aveva proprio capito nulla.
Nora aveva avuto quelle notizie dalla cameriera. Era stata fin sull'uscio della camera del duca, ma non era entrata: erano bastate quelle poche ore: sentiva per suo marito un senso quasi invincibile di repulsione.
Intanto, essa aveva presa una sigaretta per sè e ne aveva offerta una al signor Galli, che, ringraziando, disse una delle poche bugie della sua vita:
—Grazie, non fumo.
In quel momento sarebbe stato troppo imbrogliato coi guanti, la sigaretta, il cerino.
Nora, sempre sorridente e cacciando il fumo dalla bocca, movendo le labbra come se volesse dar dei baci, continuava a parlare, ma l'altro continuava a non capir bene.
Allora si sentì ridicolo, ritrovò la propria fierezza, e, per mettersi al suo posto, per fissare nettamente che non era lì nè per fumar sigarette nè per far complimenti alle duchesse, ma soltanto quale un vecchio uomo d'affari, esclamò colla voce forte:
—Non so se il signor Kloss ha avvertito la signora duchessa che io sono un po' sordo.
Nora lo guardò co' suoi grand'occhi dolcissimi, dai quali spirava la più viva simpatia, mista alla maraviglia.
—No…. davvero! E non ce n'era di bisogno dal momento…. dal momento che non me ne sono accorta!—E sorrise ancora: sorrise schiettamente, con una grazia, un incanto quasi infantile.
Il signor Ambrogio era un uomo serio, semplice, buono; ma ci pativa d'essere sordo, e non potè a meno di sentirsi lusingato da quelle parole.
—È proprio una vera signora!—pensò tra sè.
Nora aveva tenuto fin allora sulle sue ginocchia un grosso fascio di carte: l'estratto, il riassunto dei bilanci fatti dal Vigliani: diventando seria, malinconica, sospirando, li porse al signor Galli.
—Veda lei, mi dica lei cosa si deve fare: il signor Vigliani mi ha tanto spaventata,—e stendendogli con abbandono e con fiducia la manina rosea, trasparente, mormorò:—Mio marito è ammalato…. io non capisco niente….
Il signor Galli prese le carte, cominciò a sfogliarle, a esaminarle; ma da quelle carte non poteva capirne un gran che e lo disse subito alla signora duchessa.
Desiderava vedere tutti i bilanci per esteso; desiderava un abboccamento col ragionier Vigliani. Lo conosceva, era un galantuomo. Pregava soltanto la signora duchessa di avvertirlo con un biglietto, che la mattina dopo si sarebbe trovato al suo studio. Così, su due piedi, non poteva certo formarsi un giudizio, un criterio dello stato reale del patrimonio. Occorreva un po' di tempo, un po' di quiete. Bisognava esaminare le cause del dissesto…. e studiare i provvedimenti da consigliarsi..
—Ecco, precisamente!—esclamò Nora trionfante.—È quello che dicevo anch'io al Vigliani, e che il Vigliani non vuol capire.—E Nora marcò molto le ultime parole.
—Il ragionier Vigliani si sarà già formata la sua idea e potrà dare il suo parere in proposito,—rispose calmo il Galli, continuando a sfogliare le carte.
Nora, lo fissava attentamente. Il procuratore non le aveva nemmeno portato i saluti del Kloss, non aveva fatto nessunissimo accenno che potesse riferirsi alle istruzioni ricevute…. Cominciava ad essere inquieta. Il Galli badava soltanto alle sue carte…. e troppo poco a lei. Non faceva nessun accenno, nessuna promessa….
—Che cosa lo aveva mandato a fare il Kloss?
La duchessa ebbe un lampo di collera, gittò la sigaretta, ma poi tornò a calmarsi, a sorridere, e allungando le braccia, congiungendo le mani sulle ginocchia, si chinò, si allungò, si avvicinò verso il signor Ambrogio.
Questi sentì quella vampa calda, quel "suo" odor di bionda e di lilas de Perse, e abbassando gli occhi, le vide attorno al collo, fra i merletti della veste da camera che nel chinarsi le si apriva sul petto, una piccola catenella d'oro che si moveva, si alzava, scendeva, si sprofondava ad ogni respiro, ad ogni movimento.
Nora gli si appressò ancora, per parlargli proprio vicino all'orecchio.
Il signor Galli, che alla vista della catenella d'oro era fuggito via cogli occhi e aveva arrossito, parendogli quasi di aver commesso una colpa, accennò lentamente di no col grosso testone e la guardò, la fissò in volto attentamente, per capir meglio.
—Il signor Kloss,—soggiunse Nora esitando…. arrossendo a sua volta….—il signor Kloss…. non le ha parlato…. particolarmente di mio marito?
L'altro continuò a scrollare il capo, e la guardò più attentamente.
—Sa, nevvero, di certi impegni urgenti…. per provvedere ai quali siamo tornati apposta da Nizza?
—No…. niente, signora duchessa,—-rispose il Galli, maravigliato.
Nora si alzò in piedi, scattando, e il Galli lentamente, sempre guardandola maravigliato, si alzò in piedi egli pure.
—Le cambiali?—gli disse Nora chiaramente, ma all'orecchio, per paura che di là la cameriera, il domestico potessero sentire.
—No…. No…. Quali cambiali? Cambiali di chi?—balbettò il Galli stupito da quella domanda, da quella rivelazione, turbato dalla vicinanza di Nora, e dalla piccola catenella d'oro che gli era tornata sotto gli occhi.
—Proprio niente…. non mi ha detto niente.
Nora, colpita, atterrita, nell'ansia del momento e non volendo, non potendo gridare, gli mise la bocca quasi sull'orecchio.
—Le cambiali? Le cambiali rilasciate da mio marito al signor Kloss?
Quasi cento mila lire?…
—Non so niente; non mi ha detto niente.
—Niente?… Ma allora…. anche il signor Kloss mi ha ingannata! È per queste cambiali che il signor Vigliani mi costringe a vendere tutto…. persino la casa…. persino la nostra casa!
Il Galli abbassò il capo; gli passò nell'occhio mite e grave un'ombra di tristezza e sospirò.
Il signor Kloss doveva averne fatta una delle sue!
—Dio! Dio!—mormorò Nora, e si lasciò cadere piangendo sulla poltrona, nascondendo il viso, soffocando i singhiozzi.
Il signor Ambrogio si avvicinò di un passo, poi si fermò esitante. Subito, vedendo piangere una donna, si sentì gli occhi riempiti di lacrime: ma rimase muto. Cosa poteva dire? Certo il signor Kloss ne aveva fatta una delle sue.
—Si vendica! Si vendica!—balbettò Nora.
Il Galli le si avvicinò di un altro passo. Il suo respiro si era fatto più affannoso e dinanzi a quel dolore, a quelle lacrime, restava a testa bassa, avvilito, quasi vergognoso. Era la vergogna del signor Kloss che sentiva pesare sopra di sè!
Oh, lo conosceva bene il "principale" conosceva i suoi modi di comportarsi negli affari…. e conosceva le sue arti quando voleva liberarsi da qualche seccatura, o non correre il rischio di dover dire di sì!
Nora si alzò per parlargli ancora, per parlargli più da vicino, per farsi udire. Ma prima gli prese la mano, gliela strinse lentamente, la tenne fra le sue.
Il signor Galli aveva ancora i guanti, ma sentì il bruciore di quella bella e pallida mano, e un fremito intenso gli corse per tutto il corpo.
Nora lo guardava…. lo guardava…. e la domanda errava ne' suoi grand'occhi mesti, ansiosi. Si alzò sulla punta dei piedi. Egli teneva sempre la testa bassa, ma un po' voltata, per non vederla, per non vedere la piccola catenella d'oro. Sentì chiara la voce:
—Lei…. come procuratore, non può intanto aspettare per la prima cambiale, e per le altre scrivere al signor Kloss?
Il Galli rispose di no; non poteva farlo.
—Scrivere è affatto inutile,—continuò colla sua voce grave, lenta.—Io lo conosco. Se non mi ha dato nessun avviso in proposito, vuol dire che non c'è niente da sperare.
Aveva detto…. sperare? Sì "sperare" ma senza accorgersene. E Nora invece se ne accorse e notò che il procuratore era commosso ed era sdegnato contro il signor Kloss.
Allora non pianse più. Lo guardò fisso, ripetendogli con un accento che gli penetrava nel cuore e gli accendeva il sangue:
—Si vendica!… Si vendica!…
Il signor Galli, strappandosi i guanti convulsamente, invece di calmare la signora, si sentì spinto a scusare sè stesso, la sua condizione di procuratore del Kloss.
"…. Era impiegato in quella banca…. perchè non era solo, perchè aveva una famiglia da mantenere. Non si può sempre scegliere il proprio pane. Egli era povero, doveva servire…. e ubbidire!…"
—Si vendica…!—esclamò Nora un'ultima volta, fissandolo.
Al Galli montò il sangue alla testa. Quella poveretta non aveva nessuno che la consigliasse, che la difendesse dal Kloss: doveva difenderla lui. Commetteva forse un'indelicatezza, ma salvava una donna!
Parlò:
—Lei non deve scrivere al signor Kloss…. e nemmeno io. Ma forse potrebbe ottenere quanto desidera, facendo scrivere al signor Kloss, a Carlsbad, da suo padre, dal commendator Cantasirena.
—Dallo zio Matteo?—esclamò Nora, chiamandolo così, nello stordimento dell'angoscia, come non lo aveva più chiamato dacchè era duchessa.
—Sì, appunto.
—Il signor commendatore, suo zio, ha una grande influenza,… può molto sul signor Kloss. Anche ultimamente lo ha costretto, quasi di sorpresa, ad entrare nel Comitato della Cisalpina. Il signor commendatore, suo zio, può esserle molto utile!
—Rivolgermi a quella gente?… Implorare l'aiuto di quella gente per farmi rinnovare le cambiali?—esclamò Nora sdegnata, irritata anche contro il signor Ambrogio.—Ah, no!… questo non lo farò mai!—E gli occhi della giovane donna non erano più supplichevoli, il viso non era più mesto, angosciato, la voce non era più tenera, tremante. Ma nel Galli, era troppa la commozione, la confusione…. Anche quelle parole del gergo commerciale "farmi rinnovare le cambiali" che rivelavano la figliuola dello zio Matteo, avvezza ai Tirolesi, e che avrebbero dovuto togliere gran parte dell'incanto e della poesia alle lacrime della giovane signora, non fecero nessuna impressione, non furono notate dal signor Ambrogio.
Egli capiva solo che il suo consiglio era spiaciuto, e se ne scusava:
—Nel proporle di rivolgersi al signor commendatore…. non credevo di farle dispiacere. Certe volte bisogna saper vincere, dominare il risentimento…. anche un giusto amor proprio, quando…. la necessità è grave e non c'è altro scampo.
—Capirà, per far fronte alla prima scadenza non avrei che da vendere qualche mio bijou!
Il tono, questa volta, era stato troppo iracondo: anche il signor Galli si sentì ferito.
—Tutti così! Tutti eguali!—pensò.—Sempre superbi! Sono rovinati, e ti buttano in faccia le loro ricchezze, il loro fasto!
E, improvvisamente, per la prima volta dacchè era entrato in quel palazzo, per la prima volta dacchè si trovava dinanzi a Nora, si ricordò della moglie, e gli apparve quel suo visino pallido, di malatina delicata.
Poveretta! Come era gracile, esile…. com'era goffina e misera! Come rimaneva offuscata, oscurata anche nel suo vestito della domenica, da quella bellezza sfolgorante e orgogliosa persino nel dolore!
Il signor Ambrogio sentì come una stretta al cuore, un senso vivo, prorompente di pietà; era sua moglie, la sola donna ch'egli aveva il dovere di difendere, che doveva pensare a difendere!—E il signor Galli ridiventò il procuratore serio, grave, austero della banca Kloss. Le due donne, l'umile e la superba, gli stavano dinanzi; volle umiliare la superba.
—Si regoli, signora duchessa: i gioielli, quando bisogna venderli scemano assai di valore.
La duchessa, come non aveva voluto disgustare il Vigliani, non volle guastarsi nemmeno con quest'altro; chinò il capo abbattuta, sospirò, tornò a piangere.
Il Galli, a quell'atto, si calmò subito: sentì, capì di essersi lasciato trasportare da un risentimento intimo, inesplicabile, ingiusto, e di nuovo cercò di calmare la signora, di consolarla:
"Sarebbe andato quel giorno stesso dal Vigliani. Per parte sua non avrebbe risparmiato tempo, cure, indagini, per esserle utile. Quanto poteva fare, lo avrebbe fatto, con tutto il cuore!…"
E il pover'uomo, nell'uscire dal palazzo, sospirò come Nora aveva sospirato il giorno innanzi, vedendo il magnifico portiere… La livrea gallonata non gli destò nessun impeto di rivolta: pensò invece a quella povera signora, abituata come una regina…., e adesso tanto disgraziata….
E sospirò ancora, anche più tardi ripensando a lei, mentre lavorava solo, alla banca.
Nora, appena uscito il procuratore del Kloss, era corsa nel gabinetto di toelette, al forzierino in cui teneva i suoi gioielli.
—Sì! Sì! Avrebbe venduto qualche bijou! Come mai non ci aveva pensato prima?—E rianimata, contenta della sua nuova idea, prese tutti gli astucci dei gioielli, e li distese aperti, sopra un piccolo tavolinetto. Ma quando li ebbe dinanzi, tornò seria, addolorata. Non le erano mai parsi tanto belli.
Dio! Dio! Che dolore!… Anche i suoi gioielli le erano cari, cari, cari… come la sua casa, come tutto!
Che strazio doversene dividere!
Dio! Dio! Com'era infelice!
Che cosa doveva fare? Che cosa poteva fare?—E pensando, pensando e sospirando alzò il capo, e si vide riflessa nel grande specchio che le stava dinanzi e che teneva tutta una parete, fino a terra.
…. Tanti uomini che commettevano pazzie, che si rovinavano per donnacce…. per femmine fruste da caffè chantant, per certi fondi di quinta!…
Dov'erano questi uomini?
E tornando a fissare i gioielli scintillanti, si sentiva presa da una rabbia cieca, da un gran dolore, da una gran voglia di piangere… e pianse.
Era sfortunata… troppo sfortunata!
Per essa non era diventato matto altro che suo marito, e quando già era rovinato!
Per gli altri era una donna…. indifferente.
Anche Pietro Laner non aveva finito consolandosi… e sposando Evelina?
—E il Kloss?… Non scappava a Carlsbad?!
Era sfortunata!… Era troppo sfortunata! Troppo! Troppo! Proprio troppo!
In quel punto sentì la cameriera che veniva a cercarla. Chiuse gli astucci e li cacciò nel forzierino.
—Riceve, signora duchessa?—le domandò la cameriera.
—Chi c'è?
—Il commendator Cantasirena.
—Lo zio Matteo!
Nora, in quel minuto, dimenticò l'astio, il rancore, la gelosia, dimenticò Evelina, il Laner, non pensò più che alle sue perle, a' suoi brillanti e corse di slancio incontro allo zio Matteo, come alla sua unica speranza, alla sua unica salvezza!
Vi fu un abbraccio, una scena commovente: lo zio Matteo, lui, nel rivederla soltanto, aveva dimenticato tutti i torti, tutta l'ingratitudine della sua figliuola, della sua prediletta figliuola.
E glielo disse appena potè parlare.
—Bisogna perdonarti tutto per la tua bellezza!… Ti sei fatta ancora più bella! Quel nostro Giovanni può vantarsi di essere il più fortunato dei mortali.
Nora sospirò.
—È geloso forse?—domandò Matteo Cantasirena aggrottando le ciglia.
L'altra alzò le spalle.
—E allora, cosa c'è?—Ho saputo soltanto un momento fa, da quella peste di Evelina, che eri tornata; iersera ti ha veduta in carrozza. Ho lasciato che si sfogasse contro di te, e sono corso qui per abbracciarti. Se il nostro Giovanni si comporta male, se sei infelice, se hai bisogno di me, ricordati che il cuore di tuo zio è sempre quello…. di tuo padre! Ma sai che è splendido questo tuo appartamento?—E si guardava attorno ammirando le sale e i mobili.—Splendido! regale!… Se hai dei dispiaceri parla con me.
Nora vergognandosi di dover confessare i dissesti e i debiti, cominciò ad accusare il ragionier Vigliani di aver abusato della fiducia e della spensieratezza di suo marito.
Matteo Cantasirena sentenziò gravemente:
—Tutti così i ragionieri, gli amministratori! L'aritmetica è la scienza degli imbroglioni.—E andò alla finestra ad ammirare anche il giardino:
—Stupendo!
Ma ad un tratto, si oscurò, e mormorò con gran dolore:
—Ah, povero Numa!
Nel giardino aveva visto passare un gatto.
—Il povero Numa, il mio fido e più sincero amico, è morto! Fu trovato morto, misteriosamente, nel sottoscala. Io credo lo abbia avvelenato Evelina coll'arsenico, per far dispetto alla Gioconda. Sai?… Non si parlano più: siamo giunti a questo estremo!
Ma quando Nora gli disse che il ragionier Vigliani voleva quasi imporre di vendere il palazzo di Milano e la villa di Casalbara, Matteo Cantasirena dimenticò il povero Numa e montò su tutte le furie: si era già abituato a quel bel palazzo, a tutto quel lusso della sua figliuola, come se fosse roba sua.
—Niente! Niente! Non venderemo niente!… Il tuo palazzo di Milano?… dove il duca Eriprando cospirava nel 53 con Piolti De Bianchi? cogli Alamanni? La villa dei Casalbara?… Ma sono monumenti…. monumenti nazionali!…
Poi, rivoltosi a Nora le domandò:
—Dov'è questo Giovanni?
—È a letto…. indisposto.
—Indisposto?…—Lo zio Matteo guardò la nipote fissamente.
—S'è infreddato nel viaggio.
—Palpitazioni di cuore?
—Non credo.
—Allora, meno male. Abbiamo bisogno che il nostro Giovanni stia bene. Mettiamo pure che vi restino sole quindicimila lire di rendita, secondo dice quel Vigliani!… Ebbene, Giovanni potrà percepirne altre venticinquemila…. annue…. e in tutto faranno quaranta: indennizzi e rappresentanza per il Presidente del Consiglio d'amministrazione della Cisalpina, e poi in seguito…. il mio è tuo—tutto tuo.—Colla signora Laner, ho fatto punto, e basta! Abborro gli ingrati…. e amo la bella gente!—Matteo Cantasirena sorrise e non accarezzò più il mento alla "superba Eleonora" ma le baciò la mano colla galanteria del gran secolo.
—Sarà una debolezza, ma sono artista anche nel cuore. Dammi un bacio, bella duchessa cara, e se puoi ottenere dal nostro Giovanni che accetti le mie proposte, siamo a cavallo. La Cisalpina avrà il suo degno e legittimo rappresentante.
Nora lo guardava coi grandi occhi azzurri, fissi, indagatori.
Non era un'altra delle grandi idee e delle solite delusioni dello zio
Cantasirena?… Pure, anche il signor Galli aveva parlato della
Cisalpina… dell'influenza, del potere dello zio Matteo anche sul
Kloss.
L'altro lesse negli occhi e nella mente di Nora tutte le esitanze, i dubbi, i timori.
—Eleonora mia: fra noi due, d'accordo, teniamo il mondo nel nostro pugno. Tu imponi a tuo marito di accettare la presidenza della Cisalpina. Alla vicepresidenza avremo l'attuale presidente provvisorio, il marchese Tolomei, o il conte Bobboli…. La compagnia è ottima. Abbiamo con noi il fior fiore di tutte le aristocrazie, del nome, del censo, dell'ingegno…. anche dell'arte. Lo scultore Gesualdo Arcangeli, un talento di prim'ordine. Vedrai il bronzo che mi ha regalato. Il povero Numa! si muove…. miagola!… È un capolavoro! E con noi, nel Consiglio di amministrazione, abbiamo un altro amico di tuo marito: Francesco Kloss.
Nora trasalì: era proprio vero! Allora si confidò collo zio e gli parlò delle cambiali.
Matteo Cantasirena diventò serio, poi sorrise, la consolò. Per la prima scadenza delle quindicimila lire, momentaneamente, avrebbe provveduto lui: per le altre scadenze c'era tempo. Avrebbe pensato col Fontanella a qualche giro, a qualche operazione di mutuo.
—Ma…. oggi stesso…. vorrei portare in Consiglio l'adesione di tuo marito. Sai che finora egli è sempre stato contrario.
—Non importa, adesso accetterà,—rispose Nora risolutamente.
—Sei sicura? Puoi garantire?
—Sì.—L'occhio di Nora si fece torvo: la piccola ruga della fronte era più profonda.
—Sì.
…. Poco dopo, seguita dallo zio Matteo, essa entrava adagio nella camera del Casalbara: la camera era ancora tutta buia, come il giorno innanzi.
Nora si avvicinò, sola, al letto del malato: Matteo Cantasirena si fermò, non visto, vicino all'uscio.
Il Casalbara, lungo disteso nel letto, soffriva assai: aveva sulla fronte una pezzuola diaccia.
Nora si chinò per guardarlo; colla testa bionda sfiorava quasi la faccia del marito.
—Come stai, Nannucci?
L'altro rispose con un tremito, quasi con un sibilo impercettibile: quelle parole buone, affettuose, gli empirono la gola, gli occhi, il cuore di lacrime:
—Bene…. adesso,—bisbigliò.
Dio! Dio!… Erano due giorni che soffriva, solo, abbandonato, in quella camera buia!… Come aveva sentito prepotente, ardente, il bisogno di sua moglie, di sua moglie buona, dolce, amorosa! Il bisogno di vederla, di udire la sua voce, il bisogno di vederla a muoversi, a scherzare, il bisogno di sentirla ridere, parlare. E dopo tanti sgarbi, tanti rimproveri, tanti insulti, come aveva bisogno di una sua parola buona!….
Oh, era disposto ad ogni sommissione, purchè gli perdonasse! Avrebbe accettato qualunque sacrificio!…. Vederla soltanto! Soltanto vederla!
…. Avrebbe sopportato tutto ormai, avrebbe commesso qualunque viltà, purchè non lo lasciasse più solo!
—Ti senti un pochino meglio?
—Meglio…. adesso.—E sporse le labbra implorando: Essa gli sorrise e lo baciò.
—Grazie…. grazie…. sono guarito adesso.
—Resta quieto, tranquillo,—gli disse Nora sempre pianino; poi gli accomodò le coltri attorno al collo, la pezzuola diaccia in mezzo alla fronte.
—Hai bisogno di star quieto, di riposare, di guarire.
—Perdonato? Perdonato?
—Sì: se sarai buono.
—Sono ancora Nannucci?
—Sì: se mi darai retta, sì. C'è stato il signor Galli.
—Fa ciò che vuoi, tutto ciò che vuoi! Ti lascio padrona di tutto. E poi sono malato, soffro….—E si lasciò ricadere nel letto, affranto.
—Il signor Galli mi pare un brav'uomo. Si è messo interamente a nostra disposizione. Oggi anderà dal ragionier Vigliani. Se non ci fossero…. quelle cambiali, tutto si potrebbe accomodare.
—Le cambiali!…—ripetè il malato con un lungo gemito.
In quel punto, il Casalbara vide un'ombra muoversi presso l'uscio, avvicinarsi.
—Chi è?—gridò scattando, spaventato.
—È lo zio. Ha saputo che siamo tornati, e che tu stai poco bene: desiderava salutarti. Vuoi?—E Nora voltandosi, chiamò vicino Matteo colla mano.
Il vecchio si tirò su a sedere sul letto e guardò con diffidenza Cantasirena che si avvicinava in punta di piedi, facendo scricchiolar l'impiantito.
—Grazie!—gli disse appena il Casalbara colla voce secca, stizzosa: e chiuse gli occhi mostrando di soffrire: così l'altro avrebbe capito e se ne sarebbe andato.
—Stai sotto….—e la moglie l'obbligò a riadagiarsi disteso, rimettendogli sulla fronte, dopo di averla immersa di nuovo nell'acqua diacciata, la pezzuola che gli era caduta nell'alzarsi.
—Lo zio è buono, ci vuol bene: farà molto per noi.
Il malato rispose un altro grazie, ma questa volta con un tono umile, di remissione.
—Datevi la mano,—impose la duchessa sorridendo.—Fate la pace.
Il Casalbara tirò fuori faticosamente, di sotto alle coltri, la mano stecchita…
Lo zio Matteo gliela strinse con trasporto; e tornò a commuoversi anche per quest'altra riconciliazione. Poi bisbigliò:
—Il nostro Giovanni pensi soltanto a guarire. Sono disturbi più seccanti che gravi. Vi manderò il mio dottore. È giovane, ma è un valore, universalmente riconosciuto. Il dottor Foresti. Il fratello di sua madre, era segretario di Daniele Manin. Tu non pensare altro che a guarire. Per tutto il resto—aggiunse parlandogli all'orecchio—per gli affari e anche per le cambiali, io, e quest'angelo che ti adora—e indicò la nipote—provvederemo: entreremo in porto vittoriosamente.
—Anche per le cambiali?—balbettò il vecchio, girando l'occhio inquieto, incerto, ora su Nora, ora sul Cantasirena: e il respiro gli diventava più affannoso e le palpitazioni del cuore più frequenti.
Matteo rimase in piedi da una parte del letto: Nora dall'altra, quasi inginocchiata, tutta appoggiata, buttata sulla sponda, e gli bisbigliò, coll'alito caldo:
—Anche tu dovrai essere ragionevole…. buono….
Il Casalbara ebbe un brivido, un fremito in tutto il corpo.
Nell'oscurità si disegnava quasi fantasticamente la figura alta di Matteo Cantasirena; la testa calva e la lunga barba…. lo sparato bianco sotto il soprabito nero: e dall'altro lato la massa bionda odorosa dei cappelli di Nora, si confondeva dove l'ombra era più profonda, si moveva appena, lievemente.
Matteo Cantasirena cominciò a parlare: anche parlando sommessamente, la voce era morbida, insinuante, penetrante.
—Sua Eccellenza il ministro dei Lavori pubblici, ha promesso di fare in settembre una Visita a Primarole. Io spero che la mia Eleonora e il mio caro Giovanni saranno in quell'epoca a Casalbara per riceverlo.
—No…. no…. lasciatemi in pace,—bisbigliò il malato; ma voltandosi col capo per fuggire da Cantasirena, incontrò lo sguardo tenero, affascinante, il sorriso di Nora, e rimase beato, incantato a guardarla.
L'altro lo confortò: i suoi imbarazzi momentanei erano comuni pur troppo a tutte le più grandi, le più illustri famiglie italiane che non avevano capito e non si erano uniformate allo spirito dei tempi, all'evoluzione moderna. I feudi, le decime, i fidecomissi, tutta roba portata via, scamottata con un pretesto o con un altro. Oramai i grandi nomi dovevano imporsi ai grandi affari. Fatta l'Italia bisognava renderla ricca, potente: dopo le sante battaglie della redenzione, della libertà, le lotte, le battaglie non meno gloriose per la prosperità, per la grandezza, per l'indipendenza economica della patria….
Il povero duca scrollava il capo; diceva di no sempre, ostinatamente… ma a mano a mano più debolmente.
—No…. No…. No…. voglio vivere in pace…. voglio vivere in pace…. no…. no….—Poi la sua voce si spense…. non disse più nulla: lasciò che Matteo Cantasirena parlasse, continuasse a parlare…. non lo vedeva…. non lo sentiva….
Vedeva soltanto Nora così giovane, così bionda che gli sorrideva, vicino vicino, colla bocca umida e rossa, cogli occhi maliziosetti e tentatori…. Sentiva soltanto la mano di Nora, quella mano piccola e calda, penetrata furtivamente sotto le coltri…. la sentiva avvicinarsi, cercare la sua.
Le Risorse Italiche annunciando la visita di S. E. il Ministro dei Lavori Pubblici a Primarole e a Castellanzo avevano proclamato ai quattro venti che sarebbe stata la "festa del lavoro e della concordia".
Invece pochissima concordia e molto malumore.
Erano arrivati a Primarole collo stesso treno di S. E. anche i due deputati del luogo, l'onorevole Bonforti e l'onorevole Ghirlanda, e ciò aveva suscitato le ire dei moderati e dei clericali della Cisalpina: non tanto per il fatto in sè stesso, quanto per il contegno "servile" tenuto verso i due "onorevoli del radicalume", dai maggiorenti del Consiglio e dallo stesso ministro!
Il Tolomei soltanto gongolava e si capisce. Il fatto, in certo qual modo, confondeva le tinte politiche della Cisalpina, veniva quasi a confermare che egli non aveva commessa una diserzione, un affare, e lo riabilitava agli occhi loschi della democrazia!… Ma quella banderuola del Fontanella?… Quel portentoso Dulcamara del Cantasirena? Quel Prefetto, e quell'Eccellenza "alla carlona" sempre a braccetto all'uno o all'altro dei due onorevoli della Montagna, sempre con loro al ricevimento alla stazione, al "vermut d'onore" offerto dal sindaco, all'inaugurazione del "Falanstero Eleonora?"
E quel beì del conte Bobboli che per non farsi vedere, per non mettersi in mostra neppure questa volta, era scappato a Parigi…. a farsi rifare il parrucchino?…
E Taddeo?… Borbottavano persino contro il povero Taddeo nominato a Primarole "sorvegliante generale", perchè durante la visita ai lavori della "diga massima" aveva sempre seguito il Bonforti e il Ghirlanda portando loro il soprabito, saltellando sul suo troncone, come una gazzera!
Ma il povero Taddeo non aveva l'animo servile; aveva l'animo modesto.
Egli aveva ottenuto quel posto fisso e sicuro di due lire al giorno col lume e l'alloggio, aveva raggiunto il suo sogno di vivere in campagna, in mezzo alla brava gente, alla buona gente, e credeva di dovere quella sua fortuna insperata e immeritata a tutti quanti, perchè tutti quanti gli volevano bene, e a tutti quanti egli voleva dimostrare a furia di attenzioni e di premure, la propria contentezza e la propria gratitudine.
Pio Calca, sempre rosso scarlatto, era più stizzoso di tutti, anche per le ansie della futura elezione. Diventò poi furibondo quando udì il Ministro, dall'alto del primo "ponte di raccordo" encomiare il Ghirlanda e il Bonforti e additarli agli operai, ai braccianti, come "i loro strenui difensori, i loro veri e legittimi rappresentanti!"
—Quel "geometra" diventa matto!
E durante tutta la visita, su e giù lungo i canali, continuava a sfogarsi coi giovani collaboratori delle Risorse Italiche, vestiti di tutto punto coll'eleganza e l'etichetta prescritta da quella giornata di sport politico e industriale; e quando il gruppo dei cappelli a cilindro, il Ministro, il Prefetto, il Sindaco, il Fontanella, Matteo Cantasirena, il Brunetti, si soffermò dinanzi al Municipio, anche Pio Calca fece un alt col suo drappello, sempre però tenendosi in disparte, a dignitosa e significativa distanza. Passava dall'ira al disprezzo e con quel suo riso stridulo e stonato che pareva un singulto, faceva dello spirito alle spalle di "Sua Eccellenza il geometra" anche col marchese Duranti che lo ascoltava muto, ripulendosi la lente col fazzoletto candido di batista, dimenando la testa grave, pensierosa, dal gran ciuffo grigio, con un lieve e continuo dondolìo nel quale era congiunto al profondo disgusto per i tempi nuovi, un tic nervoso, sintomo foriero della paralisi.
Ma la vittima prediletta del giovane aspirante alla deputazione, quello con cui egli si sfogava di più e più a lungo e più forte, era monsignor Meneguzzi, il "reverendo delle contesse".
Monsignor Meneguzzi era un bel prete, pulito e roseo come una sposa, elegante, vestito mezzo di seta, col grosso cordone d'oro da cappellano della Croce Rossa, attorno al nicchio rotondo. Il Monsignore prendeva sul serio le minacce di Pio Calca, ne rimaneva impressionato, spaventato, e l'altro, contento dell'effetto, sgranava il bianco delle pupille, diventava un ossesso.
—Questo è il gran giorno!… Duo schiaffi e li metto a posto!… Due schiaffi e li metto a posto! Mi lasci andare!…—e pestava i piedi.
Il prete per frenarlo gli tirava il vestito:
—Bravo! Bravo! Da bravo!… E la mamma? E la mamma, poveretta?…
Giudizio per la mamma!…
—Quattro schiaffi e li metto a posto!… Prima di sera!
—Da bravo! Da bravo! Giudizio per la mamma! Farai a tempo debito le tue giuste rimostranze. Ne parleremo al Casalbara, alla signora duchessa, sempre così piena di buon senso e di criterio.
Al nome della duchessa, Pio Calca si placava, e prendendo Monsignore a braccetto gli faceva le sue confidenze.
—Ecco…. trattandosi della duchessa Eleonora—e lo cantava anche lui il bel nome, in voce di falsetto—rinuncerei volentieri…. anche alla Camera.
Allora il Monsignore si spaventava per un altro verso:
—Vergogna! Vergogna!… La moglie altrui!… Se lo sapesse la mamma!… E se lo sapesse il duca!…—e si affrettava a cambiar discorso.—Le tue giuste rimostranze…. le faremo al duca Giovanni! È il Presidente!… Ha una grande autorità nel Consiglio! È un grand'uomo!
Certo se ci fosse stato il Casalbara, avrebbe saputo evitare, col suo tatto da gran signore, molte cagioni di malcontento. Ma il duca, per riguardo alla sua salute—deperiva di giorno in giorno—invece di affaticarsi troppo, recandosi a Primarole, aspettava il Ministro a Casalbara, dove vi sarebbe stato il grande banchetto in onore di Sua Eccellenza e della Cisalpina.
Il duca aveva preso sul serio il suo posto di rappresentanza, di comparsa. Poco interessandosi, pochissimo comprendendo degli affari complicati e imbrogliati della Cisalpina, non mancava mai a una seduta, sonnecchiando intorpidito, mentre gli altri discutevano o gridavano; non mancava mai ad una visita ufficiale, ad un ricevimento, ad una inaugurazione.—Era stato costretto ad accettarne la presidenza; l'aveva accettata. Ad essa era unito un forte onorario: e un sentimento di onestà, di dovere, di fierezza gli imponeva di "guadagnarsi il suo pane".
…. Di guadagnarsi il suo pane—facendo da richiamo, da zimbello per acchiappare i merli!… Facendo scrivere quel suo nome illustre, glorioso, intemerato, quale "etichetta" sulle azioni della Cisalpina!… Facendo il pagliaccio!… Facendo il buffone!
Il cuore del povero vecchio era gonfio di amarezza: i suoi stessi pregiudizi di casta, di sangue, di orgoglio, rendevano più viva, più acuta la ferita.
Che tramonto, che rovina per la sua casa, per il suo nome! Che offesa alla memoria pura e sacra del fratello! Eppure…. eppure anche il martirio, la lunga prigionia del fratello Eriprando lo aiutavano…. a guadagnarsi il suo pane!
Ed era stata sua moglie a costringerlo…. ed era stato per Eleonora che aveva accettato!
Sua moglie!… lo sentiva, finiva per ucciderlo a poco a poco, rendendolo prima imbecille. Sua moglie!… Così giovane, così fiorente, così forte!… Gli dava brividi di terrore.—Sprofondato nella sua poltrona, certe volte, la fissava torvo, la guatava cogli occhi pieni di rancori e di astio, eppure…. eppure non poteva vivere senza di lei, e dopo i dispetti, le collere, le rivolte, aveva sommissioni vergognose, e supplicava, implorava la sua "stella" piangendo come un fanciullo!…
Era la duchessa, ormai, la padrona: essa sola si occupava degli affari, si occupava della casa, e indirettamente, secondo le istruzioni dello zio Matteo, si occupava anche della Cisalpina.
La prodiga spensieratezza, l'indolenza, la sua stessa debolezza, inspiravano al Casalbara un sentimento di dignità e di nobiltà malintesa, gli facevano commettere quest'ultima follia.
Sdegnoso, puntiglioso, ostinato nel "guadagnare il suo pane" lo era altrettanto nel non voler toccare, nè vedere i denari "dello stipendio". Li doveva riscuotere sua moglie…. come sua moglie soltanto doveva ricevere il ragionier Vigliani e il signor Galli. E sdegnoso, puntiglioso, ostinato, così facendo credeva anche di vendicarsi!
La sua villa, la villa dei Casalbara, era simile alla maggior parte delle antiche ville un po' monotone di Lombardia. Sul dinanzi il terrazzo al quale si accedeva da un'ampia gradinata; tutto intorno un giardino dalle piccole aiuole fiorite, a disegni rari e simmetrici; poi un lungo viale di ippocastani, e, infine, attorno al torso mutilato di un Ercole gigantesco; una selvetta umida, cupa, triste, di mortella e di piante parassite.
Il duca aspettava sul terrazzo l'arrivo di Sua Eccellenza.
Era una giornata calda di settembre, e il sole dardeggiava; pure il duca tremava, curvo sotto l'ombrellino. Indossava un largo paltò chiaro, pesante, e aveva un grosso garofano all'occhiello.
Nora gli era dinanzi sulla gradinata, per scorgere di lontano l'arrivo delle carrozze: sul terrazzo, più indietro del duca, più indietro dei domestici che avevano portato un gran vassoio di granite e di acque in ghiaccio, accanto alla porta, c'erano Evelina e Pietro Laner: Evelina infagottata in un magnifico abito della duchessa; Pietro Laner sempre più magro, a testa bassa, intimidito anche delle livree dei servitori.
—Son qui! Arrivano adesso!—gridò Nora giuliva, scorgendo fra il polverio della strada tre landò scoperti, che si avvicinavano al trotto. Essa godeva febbrilmente di quelle feste che finivano sempre in un suo nuovo trionfo.
Il duca scese, e quando le passò dinanzi, rabbioso e astioso vedendola così allegra e così bella, bisbigliò il solito ritornello:
—Andiamo a guadagnare il nostro pane con Sua Eccellenza!
Nora diventò rossa. I servitori potevano aver inteso, ed anche Evelina e quel prete antipatico di Pietro Laner! Rimase un po' sconcertata, confusa, ma poi il suo ardire, il buon umore di quel giorno, ebbero il sopravvento, e volle prendersi a sua volta la rivincita: sapeva quanto suo marito tenesse alle forme, all'etichetta, ai ricevimenti ufficiali, e lei di colpo, appena cominciate le presentazioni, corse giù dalla gradinata, corse incontro al Ministro, che aveva già conosciuto a Milano, e ridendo se lo portò via, dicendogli che doveva essere stanco di ricevimenti, di discorsi, di presentazioni…. Se lo portò via, sotto braccio, avvolgendolo col suo profumo, abbagliandolo co' suoi capelli biondi, incantandolo col suo sorriso.
—Brava! Bravissima!…—le diceva il ministro.
Ma Nora non dimenticò, non volle dimenticare di essere la presidentessa:
—Dunque…. Eccellenza?… Il Bonforti e il Ghirlanda sono presi finalmente…. nell'orbita ministeriale?…
—Cioè, seguono la corrente…. delle acque della Cisalpina.
Intervenne gonfio Cantasirena, socchiudendo gli occhi:
—Alla Camera il Bonforti e il Ghirlanda sono ormai fra gli inamovibili: combatterli è inutile; ciò che è inutile è pericoloso. Conquistarli—e soffiò—that is the question!
Nora, facendosi seguire dal Ministro, piantò lo zio Matteo e continuò a passeggiare nel giardino.
Cantasirena raggiunse lentamente il suo caro Giovanni, che stava complimentando il Prefetto, il Sindaco di Primarole, i due segretari particolari di Sua Eccellenza, e monsignor Meneguzzi e Pio Calca e il marchese Duranti e il Fontanella.
Gli altri invitati dovevano arrivare più tardi col tram.
Matteo Cantasirena, a studiarlo bene, non pareva troppo soddisfatto e sicuro di sè. Le sue dita avevano un tremito nervoso mentre si lisciava la barba, mentre ne arricciolava la punta.
Tirato a parte il duca gli domandò piano:
—Il Kloss non è venuto?
—Pare di no.
—Non ha mandato il Galli? Non ha incaricato nessuno di rappresentarlo al banchetto?
—Bisogna domandarlo a mia moglie—rispose acre il Casalbara, e gli voltò le spalle, mettendosi a discorrere col marchese Duranti.
Matteo, istintivamente, guardò subito verso la sua cara figliuola: in mezzo al giardino, sotto il sole, la figura bianca, bionda, elegantissima, vaporosa, spiccava sfolgorando al fianco della piccola Eccellenza, tozza e volgare nell'abito nero.
…. Non era il momento di domandarle del Kloss!…
—Maledetto boemo!—borbottò fra sè il direttore. Poi, vedendosi vicino monsignor Meneguzzi e Pio Calca, si ricordò che bisognava placare il loro risentimento, e i loro timori; se li prese tutti e due sotto il braccio e cominciò a ridere per l'arrivo del Bonforti e del Ghirlanda a Primarole.
Intanto la duchessa aveva colto due magnifiche viole del pensiero e le infilava colla prestezza graziosa delle manine pallide e ingemmate, all'occhiello di Sua Eccellenza.
—Oh, signora duchessa! Amabilissima!…
Il ministro, dopo tanti discorsi, tanta politica, tanto parlare e tanto caldo, respirava a larghi polmoni quell'aria libera…. e la bellezza, la fragrante giovinezza di Nora.
Sorridendo essa infilò di nuovo la manina sotto il braccio del Ministro, per riaccompagnarlo verso la sua piccola corte: tutti, vedendo avvicinarsi Sua Eccellenza e la duchessa Eleonora, si disposero in fila per riceverli.
—Oh! che peccato!—sospirò il ministro.
Nora sorrise, fissandolo cogli occhi rilucenti:
—Torni presto a Casalbara,… ma non il ministro…. lei.
La povera Eccellenza, che in vita sua aveva molto lavorato e pochissimo avvicinato le belle signore, capì…. non capì.—Che cosa doveva capire?—Era appena un complimento? Era più di un complimento?… Il forte parlamentare perdette la prontezza della parola.
—Amabilissima e…. Amabilissima!… Ma intanto…. perchè non vien lei…. a Roma?…
Raggiunto il duca di Casalbara, il ministro, sempre dando il braccio alla duchessa Eleonora, e colla sua piccola corte raggruppata intorno, cominciò a lodare la prospettiva, il giardino, la bella vista, la splendida giornata.
Poi, sempre colla duchessa, sempre parlando, ridendo piano colla duchessa, mentre il seguito gli faceva coda, ammirando il barocco della facciata, salì lentamente per visitare la villa. Sul terrazzo si fermò, prese una granita, e intanto la duchessa gli presentò Evelina. Non disse "la signora Laner"; disse soltanto coll'effusione un po' teatrale dello zio Matteo "la mia buona, la mia cara Evelina!"
Pietro non lo presentò; anzi, quando tutti insieme se ne andarono dal terrazzo, Nora gli passò dinanzi senza nemmeno guardarlo, più alta, più diritta, più superba.
Essa guidò gli ospiti, obbedendo a un cenno fattole dallo zio Matteo, in una sala terrena, dove c'era un magnifico ritratto di Eriprando di Casalbara, grande al naturale.
Tutta la comitiva, ristorata dai rinfreschi, parlava, rideva, discorreva animatamente, ma quando si fermò, facendo circolo dinanzi al ritratto, il silenzio divenne generale, profondo, il raccoglimento religioso.
—È un dono del Gran re!—tuonò la voce di Matteo Cantasirena, e ricordò, commosso, alcuni episodi del martire illustre…. "magnanimo".
Evelina era rimasta fuori, sul terrazzo, vicino ai dolci e alle granite.
Il Dizionario dei patriotti viventi aveva sospeso le pubblicazioni: il conte Bobboli beì—patriotta dell'espansione coloniale—era stato l'ultimo dell'ultima puntata dell'ultima appendice. Dopo quel gran da fare, quel gran lavorare affrettato, angosciato nelle strette durissime del bisogno, Evelina riposava, si godeva la campagna, si godeva lo belle giornate, si godeva il far niente; sopratutto il far niente.
Passava i giorni coi giorni, sdraiata sul terrazzo, sonnecchiando in mezzo alla quiete del gran sole. Dopo il frastuono assordante di Milano, dopo il via vai, il vociar confuso della folla, essa gustava l'armonia vaga, recondita di quella pace, di quella solitudine, di quel silenzio. Sorrideva al saltellar dei passeri sulla ghiaia del giardino…. fissava intenta il volo di due farfallette bianche, perdentesi nell'aria nitida, contro il cielo azzurro.
La signora Laner pareva quasi una vecchia, nel magnifico abito regalatole da Nora, e che essa si era aggiustato e adattato da sè.
Il suo viso era più giallognolo, più patito, quantunque non fosse mai stata ammalata. Anche la gravidanza che avea deciso il Laner e affrettate le nozze, era stata…. un falso allarme. Dopo successo il matrimonio, i sintomi non si erano più ripetuti. Evelina stessa dovette confessare al dottor Foresti che si era "forse" sbagliata. Sembrava più brutta e più gobba, perchè adesso non voleva più darsi la pena, l'incomodo, di tenersi su, di comparire; ormai era maritata, era "a posto".—A che scopo buttar via denari e seccarsi e stancarsi?
Era così piacevole e dolce il non far niente, più niente!… Alzarsi tardi, passare le lunghe ore del giorno, le ore calde, sognando, dormicchiando…. e sorbire granite e rosicchiare confetti.
Ne prese un altro, un fondant, e lo succiò lentamente, poi si tirò vicino il piccolo vassoio di cristallo e scelse le pasticche di menta peperita, i cioccolatini alla vaniglia, e se li chiuse nella borsetta che portava sempre appesa al braccio.
Quella borsetta era un po' sdruscita…. e la signora Laner, guardandola, sospirava e pensava a quella di Nora, colla cerniera e la catenella d'oro.
Sul terrazzo venne a sedersi anche Pietro Laner: era stralunato.
Evelina lo guardò, continuando a scegliere i gianduiotti nella carta d'argento, le grosse mandorle colorate e gli domandò:
—Dove sono gli altri?
—Nella sala del biliardo. Lei….—Pietro Laner sdegnava di dare a
Nora il titolo di duchessa e arrossiva di chiamarla come una
volta—lei gioca al biliardo con Sua Eccellenza e con monsignor
Meneguzzi.
Il Laner soffriva: Evelina se ne accorse, ma non se ne accorò. Si sdraiò più comoda e facendo l'altalena colla poltrona a dondolo, socchiuse le palpebre, fissando una striscia di sole, animata, avvivata da una miriade di moscerini.
—Non prendi una granita?… Sono di fragola, eccellenti.
—No.
Evelina tornò a guardare il marito.
—Quell'altra, te ne ha fatto delle sue?
Pietro non rispose, ma si fece più cupo.
—Sai che non ti può vedere!… Perchè le vai sempre fra i piedi?
—Domani torno a Milano—borbottò il Laner.—Son venuto soltanto per la visita del Ministro, non per…. gli altri. Domani ritorno a Milano.
—Non c'è bisogno di scappare e non c'è bisogno di correrle dietro.
Evelina disse tutto ciò pacatamente, continuando a dondolare, spingendosi piano colla punta dei piedi; disse tutto ciò pacatamente, senz'ira, senza dolore.
La signora Laner non era gelosa. Essa non aveva mai avuto troppe pretensioni: non aveva aspirato ai grandi diritti dell'amore. Adesso non pensava più che a viver tranquilla, a viver bene, e a premunirsi per l'avvenire.
Non c'erano che le ventimila lire…. e le zie di Crodarossa.
Sopra lo zio Matteo svanivano le speranze. Prodigo con tutti gli altri, era taccagno con Evelina, perchè istigato contro di lei dalla Gioconda: era taccagno col Laner, perchè quel trentino gli era antipatico, perchè aveva ancora il rodimento delle famose ventimila lire, le sue ventimila lire…. cioè quelle del Casalbara.
Evelina, fatti i suoi calcoli, e non volendo intaccare il capitaletto, aveva risolto, fra sè e sè, di ritirarsi a Crodarossa, e intanto, per rendere la cosa più facile aveva già scritto alle zie, senza dir nulla nemmeno a Pietro, domandando…. "se li volevano a Crodarossa per un mesetto."
"Pietro sta poco bene: ha bisogno di respirare un po' d'aria buona, un po' d'aria nativa. Lo ha consigliato il nostro dottore, il dottor Foresti. Anch'io mi sento debolina e un po' malandata…. Oh, ma per me…. non avrei mai, mai, avuto l'animo bastante d'incomodare le mie zie, di essere di peso alle mie care zie!"
Figurarsi le due vecchierelle!… Che "rebalton" e che "rivoluzion!" E figurarsi il "muso tremendo" di don Giuseppe!…
Ma questa volta la zia Angelica e la zia Rosina non si lasciarono imporre.
La sposa di Pierino, la "nuova padrona" che già era stata la loro angoscia, il loro tormento, quando era appena un'apprensione pel tempo avvenire, quando non era altro che un fantasma lontano, adesso, viva e non più sogno, ma realtà, adesso era un angelo, una "vera perfezion" era amata anch'essa come Pierino, cara come Pierino.
Le due vecchiette vivevano, palpitavano soltanto per l'arrivo degli sposi!… Non pensavano più che agli sposi, non pensavano più nemmeno all'economia!… Minacciavano una carneficina nel pollaio, una "strage" di mele cotogne e in quanto a don Giuseppe…. Don Giuseppe, in questa circostanza si era messo dalla parte del torto proprio da bon.
—Se trata del nostro sangue….
—Se trata delle nostre viscere….
E la signora Angelica e la signora Rosa finivano in coro, alzando le braccia al cielo:—Jesus Maria!
Piantarono don Giuseppe, piantarono la Canonica, solo affaccendate, infervorate nel preparare l'alloggio.
—Dove li metteremo?
—In camera nostra, certo….
—Certissimo!
—La xè la più bela….
—La xè la più grande….
E contente, beate, senza un sospiro, avrebbero abbandonato anche quella cameretta: la cameretta fida e cara, il nido…. proprio il loro nido, colle finestre sull'orto e colla vista del "Gigantesso".
Tutto, tutto doveva essere di Pierino, era di Pierino, era della sposa di Pierino, in quell'improvviso tumulto, in quella festa inaspettata e grande del loro cuore!
Invece Evelina, poco prima dell'epoca fissata, cambiò di parere e scrisse un'altra lettera a Crodarossa.
"Per il molto lavoro sopraggiunto al mio Pietro, il quale del resto trova un gran giovamento dalla sua cura idropatica, dovremo rimandare ad altra epoca il sogno…. il bel sogno di Crodarossa."
"È un destino così!… Non posso esser felice, pienamente felice, mai, mai!"
Evelina aveva il suo tornaconto per restare a Milano.
Nora, dopo fatta la pace collo zio Matteo, aveva voluto rivederla, aveva voluto far la pace anche con Evelina, ed Evelina era corsa subito "dalla duchessa"…. e subito si era fermata "dalla duchessa" anche a pranzo.
E da quel primo giorno in poi, Nora si era presa di un grande attaccamento per la signora Laner: dalla mattina, quando Nora era ancora a letto, poi quando si vestiva, poi a colazione, a pranzo, fino alla sera in teatro, la voleva sempre con sè.
Evelina sottomessa, remissiva, zelante, sempre ai piedi "della duchessa", sempre in ammirazione "della duchessa." Nora, invece, secondo l'umore: o erano carezze o erano strapazzate, ma colle carezze e colle strapazzate, fioccavano regali, sempre regali.
E la signora Laner, giudiziosamente, pure vagheggiando per l'avvenire la sua prima idea di andare a stabilirsi a Crodarossa, intanto, per il momento, si riempiva gli armadi, i cassettoni di roba…. e aveva licenziata la serva e chiusa la cucina.
Sempre fuori, sempre colla duchessa, che cosa doveva farne?…
Pietro, mangiava un boccone al giornale o in una qualche bettolaccia scovata da Mariano Perego. Sua moglie lo vedeva raramente anche prima di legarsi con Nora: adesso quasi mai.
Nora…. non lo poteva soffrire.
—È arrivato il tram?—domandò Evelina, continuando a far l'altalena colla poltrona a dondolo.
—Già; dev'essere arrivato…. coi suonatori!—rispose ironicamente
Pietro Laner.
Entrava in quel punto, dal grande cancello della villa, una frotta di persone, tutte in abito nero, guidate da Gesualdo Arcangeli, con un cappellone bigio, a cilindro, straordinario, una cravatta bianca svolazzante e un nodoso bastone, che roteava, come il bastone di un capo tamburo.
Erano gli altri convitati, quelli appunto che si aspettavano col tram.
C'era pure il dottor Foresti; veniva solo, l'ultimo. Il dottor Foresti ormai era di casa: andava innanzi e indietro da Milano, per il duca, due o tre volte alla settimana.
Evelina, appena lo vide, si alzò, gli andò incontro:
Si era ricordato di prenderle il bicarbonato e l'elisir di china?
Essa dava sempre al dottor Foresti qualche commissioncella per la farmacia Zambelletti. Era così gentile e buono il dottor Foresti!
Evelina sospirava teneramente nel ringraziarlo…. e non lo rimborsava delle spese.
Il Laner, che voleva scansare i nuovi arrivati, che voleva restar solo, se ne andò dal terrazzo; ma capitò peggio.
Lungo il corridoio incontrò la signora duchessa che ritornava in giardino, ridendo e scherzando con monsignor Meneguzzi e con Pio Calca.
Nora gli passò vicino. Il Laner, arrossendo, si fermò, s'inchinò.
La duchessa, a testa alta, gli lanciò un'occhiata ironica, sprezzante e rispose a monsignor Meneguzzi che gli aveva domandato piano all'orecchio chi fosse il Laner:
—È uno dei tanti mangiapani della Cisalpina!
Pietro udì quelle parole: geloso di quei due, offeso da Nora, ebbe un impeto di collera.
—Signora, scusi!… Signora!—e la raggiunse per dirle…. per dirle che?
Niente. Non seppe dir più una parola e rimase confuso, intimidito quando si trovò dinanzi alla duchessa fiera, sdegnosa che lo fissava cogli occhi scintillanti, provocanti, sotto l'ombra cupa del largo cappello di paglia nera.
—Che vuole, signor Laner?
—Scusi…. duchessa,—balbettò—Volevo domandarle…. Parto domattina.
Ha qualche ordine per Milano?
—No! Nessun ordine!—E la Casalbara tirò diritto sotto braccio a Pio Calca. Il Laner sentì, quand'essa fu lontana, uno scoppio di risa, trillante, squillante:
—Ride di me!… Ride di me!—mormorò il povero diavolo, e rimase avvilito, mortificato, irritato, ma contro la propria debolezza.
—Domani…. Domani…. ritorno a Milano!
Anche al banchetto, Pietro Laner ebbe uno degli ultimi posti: fra il maestro comunale di Casalbara e un assessore di Primarole. Eppure…. eppure finì per essere contento di trovarsi così lontano, così in disparte, quasi inosservato: poteva guardar Nora, continuare a guardarla.
L'ira, la collera erano svanite; non gli restava più che il suo amore pazzo, la sua gelosia furiosa.
Nora! Nora! Com'era bella! Era diventata ancor più bella: tutto e tutti rimanevano offuscati, oscurati, rimpiccioliti dalla sua bellezza! Lo stesso ministro non era più niente: Sua Eccellenza lo capiva, lo sentiva, e appariva umile dinanzi alla Casalbara, e le sue parole, il suo gesto, il chinar del capo, esprimevano l'ammirazione e la spontanea sudditanza.
Nora!… Oh, Nora, com'era bella, così animata, irrequieta, ridente! Pareva ancora più giovane e fresca, vicino a quel povero Ministro dal viso stanco, itterico, estenuato! Pareva ancora più bionda in mezzo alla luce allegra delle grandi lucerne, dei grandi lampadari, scintillante, riverberantesi a sprazzi, a guizzi, a raggi irridescenti sulle cristallerie, le argenterie della tavola…. E pareva ancora più bianca, più abbagliante fra tutte quelle barbe e quelle facce, fra tutti quegli abiti neri che la circondavano.
Nora era scollata, ampiamente scollata: il seno, le spalle ignude, uscivano quasi roride, stillanti di gemme dalla spuma candida dei merletti vaporosi.—Era pur bella, così bionda, così bianca; era abbagliante…. e così audacemente scollata non appariva invereconda: le perle, i brillanti, le vecchie gemme dei Casalbara, l'avvolgevano come di un'aureola, di un ammanto che imponevano l'ammirazione e il rispetto.
Pietro la guardava, continuava a guardarla….
Lei sola parlava, lei sola rideva; la sua voce chiara, armoniosa, il suo riso leggero e garbato parevano avvivare e dirigere la compostezza e il romorìo quieto che dominano al cominciare di un pranzo.
Pietro la guardava, continuava a guardarla….
A un tratto l'occhio di Nora, quantunque essa parlasse pianino con Sua Eccellenza, girò più lontano attorno alla tavola e a un certo punto si fermò con un sorriso, un saluto impercettibile, carezzevole.
Pietro, di volo, colse, seguì quell'occhiata e incontrò il bel viso da sposa di monsignor Meneguzzi che faceva a sua volta l'occhiolino alla duchessa, ma divotamente, compuntamente.
—Anche col prete!…—borbottò il Laner, e geloso, sospettoso, girò coll'occhio attorno alla tavola….
Tutti la guardavano, la fissavano, tutti! E Nora, sempre intenta, affabile, graziosa con Sua Eccellenza, aveva pure uno sguardo, un sorriso, una parolina, anche per tutti gli altri.
—Come sa fingere!… Come è civetta! Civetta!—sospirava Pietro.—Ma com'era bianca, bionda, bella e come tutti la ammiravano, la divoravano!
Pio Calca, fissandola, trasudava, gocciolava; il Fontanella restava a bocca aperta; il Brunetti strabiliato, stimava col Palazzoli il valor delle perle e dei brillanti; Gesualdo Arcangeli trinciava l'aria col pollice, come per segnare la perfezione delle linee, la magnificenza del busto;… il marchese Duranti, colla lente ficcata nell'occhio, la mirava cupido, rabbioso, e il dondolìo della testa si faceva più forte….
Soltanto Evelina e il dottor Foresti non si occupavano punto di Nora; parlavano fra di loro; fra di loro si capivano. Forse avevano sbagliato a non unirsi; entrambi avrebbero fatto maggior fortuna…. Ma erano ancora in tempo per stringersi in lega, nell'interesse comune….
Evelina intanto, scroccava al medico un piccolo consulto. Dopo pranzo si sentiva un po' gonfia, un po' oppressa. Una volta il bicarbonato le faceva tanto bene, adesso…. più niente! E fissando il dottore, con una grande e misteriosa tenerezza negli occhi, bisbigliava:
—Di me…. non vogliono saperne…. nemmeno i rimedi!
—Proveremo con una presina di magnesia e di bismuto—le suggeriva il dottore, con un'inflessione di voce insinuante.
Pietro Laner guardava Nora, continuava a guardarla….
E dire che era lui, lui che avrebbe dovuto sposarla! Era stato amato da quella donna! Cento volte essa gli aveva ripetuto: Ti amo, ti amo, ti amo!… E l'aveva baciata mille volte su quei capelli biondi, su quegli occhi perfidi, infami!… L'aveva divorata, divorata di baci, quella bocca ironica, sprezzante!
Ma era vero? Era possibile?… Non era un sogno?… La signora Casalbara, la duchessa, era Nora?…—Era stata Nora!—Adesso no, no, non lo era più, ma era stata Nora, la sua Nora, Nori!
Dio! Dio! Come si era trasformata, come aveva saputo trasformarsi, come era diventata "duchessa!" Era nata, per essere così…. per diventare così!
E il povero diavolo, il povero montanaro, il povero poeta di Crodarossa, capiva che era stato matto nelle sue speranze, ridicolo nelle sue pretese, ingiusto nelle sue collere!… La guardava, la guardava sempre, ma l'occhio suo diventava più mite, più tenero; svampava, svaniva la sua collera e sentiva come un sollievo, una contentezza nel poterla difendere, nel poterla giustificare dal profondo dell'animo, dal profondo del cuore, e concedere così al suo orgoglio, alla sua dignità, di amarla ancora, di amarla sempre.
—Mia moglie?…
Era un sogno, una pazzia; e il pazzo, il povero pazzo era lui, lui solo!
La guardava, la guardava, la guardava…. continuava a guardarla!…
Nora ammirava, con Sua Eccellenza, il trionfo di rose e d'orchidee nel mezzo della tavola. Poi, sorridendo, rimproverò il ministro di non aver più i suoi fiori all'occhiello…. i fiori ch'essa aveva colti per lui, con lui, nel giardino.
Sua Eccellenza, che ormai aveva cominciato a prender fuoco, si schermiva, si difendeva brillantemente…. La duchessa prese due rose dal trionfo…. una l'offri al ministro, l'altra la tenne per sè, la ripose in seno, chinandosi, guardandosi mentre l'occultava sotto ai merletti, coll'agile sfiorar delle dita.
Guardava anche Sua Eccellenza, lì, dov'era nascosta la rosa e disse piano alla duchessa qualche parola che la fece arrossire nel sorridere.
Pietro Laner, sussultando, lasciò cader la forchetta, voltò la testa, ma s'incontrò negli occhi del Casalbara. Il duca lo guardava serio, attento…. eppure da quegli occhi stanchi, gravi, spirava come un senso di mestizia, di pietà.
In quel punto si udì un gran vociare, un tramestìo di sedie, poi il formidabile: Sst!—Silenzio!—di Gesualdo Arcangeli.
Cominciavano i brindisi; si alzava Matteo Cantasirena.
—Vecchio rivoluzionario impenitente….—e il Cantasirena si rivolse sorridendo verso Sua Eccellenza—metterò un po' di rivoluzione anche nella…. prammatica e il primo brindisi anzichè all'ospite illustre che ci ha onorati di una sua visita…. lo rivolgerò all'ospite—parimenti illustre—che ci ha accolti con tanta spontanea cortesia.
Il duca ebbe un brivido.—Oh, com'era amaro il pane che doveva guadagnarsi a quel modo!
—E non a te solo Giovanni mio,—tonò con nuovo impeto la voce di Matteo.—A te e ad Eriprando di Casalbara è rivolto il caldo saluto del mio cuore. La patria memore, riconoscente, scriverà sulla stessa pagina, nel libro d'oro della sua gloria e dei grandi sacrifici, il nome dell'eroe prigioniero di Josephstadt, e il nome dell'audace, del coraggioso presidente della Navigazione Cisalpina!
Tutti sorsero in piedi, fra lo sbatacchiare delle sedie, applaudendo, gridando evviva.
Il duca Giovanni, alzò il bicchiere colla mano tremante…. ringraziò con un sorriso che gli errava amaro, straziato fra i baffi irti, ringraziò inchinandosi col capo Sua Eccellenza, ringraziò a destra a sinistra della tavola, poi si lasciò ricadere, come accasciato sulla sedia.
—Fa troppo caldo qui…. si soffoca….—mormorò al suo vicino, per scusare quell'abbattimento.
Il Casalbara lanciò un'occhiata torva alla moglie e un'altra occhiata torva, con un lampo di ira e d'odio a Cantasirena….
—Sempre…. sempre mio fratello!… Buffoni!… Canaglie!… Lasciassero in pace…. rispettassero almeno la memoria di mio fratello!…
In quel calore, in quel frastuono, in quel vociare allegro, cordiale, espansivo dell'ora dei brindisi, in quello splendor della mensa, aveva fissa dinanzi agli occhi, come una apparizione, come una ammonizione biblica, la figura austera, ascetica del martire, rinchiuso nella segreta fredda e buia.
Il vicino lo toccò nel gomito: Sua Eccellenza si alzava in piedi, rivolgendosi al duca, col bicchiere in mano.
Il Casalbara si scosse, si rizzò sulla sedia, rigido, attento.
Sua Eccellenza si raccolse un istante, poi cominciò:
—Oggi, a Primarole, l'animo nostro si è dischiuso alle più forti, alle più audaci, alle più ineffabili gioie del lavoro: stasera un graditissimo, eletto invito, ne raccoglie qui dove la mente di Eriprando di Casalbara….—Il duca trasalì. Anche lui! Ancora quel nome! Sempre suo fratello!—ma rispose con un saluto, al saluto del ministro, che continuò—qui ne raccoglie dove la mente di Eriprando di Casalbara intuì la redenzione d'Italia, e il suo cuore palpitò di speranza e tutto l'essere suo nobilissimo, ritemprandosi, idealizzandosi nell'austera poesia del sacrificio, parve prepararsi al supremo olocausto della vita. Degno custode della grandezza antica, degno custode e continuatore della gloria fraterna, Giovanni di Casalbara onora il tempio delle memorie coi suffragi dell'intelligenza, del sapere, dell'operosità…. e qui, degna ricompensa, lo allieta la grazia, la bellezza della sua fida ed eletta compagna! A lei, alla donna, ispiratrice eterna del genio e dell'amore, ispiratrice eterna del sacrificio e delle energie, a lei, al fiore più smagliante, al più fulgido astro dell'itala cortesia, permettetemi che io levi, salutando, augurando, il mio limpido e colmo bicchiere: limpido come l'amor di patria, colmo come il nostro cuore è colmo di gratitudine, è traboccante…. spumeggiante di ammirazione!
—Viva! Viva! Alla duchessa!
—Alla salute della duchessa!—gridarono entusiasticamente tutti i convitati, soffocando persino la voce di Gesualdo Arcangeli che urlava come un indemoniato:
—Alla bionda regina di tutte le bellezze—per Dio!
E nella foga, nell'impeto, toccando il bicchiere con quello di Pio
Calca, gli rovesciò addosso tutto lo sciampagna.
Il Casalbara guardava qua e là smarrito, come trasognato: era stanco, affranto dalla fatica, oppresso da quel calore, stordito da quel frastuono. Il poco vino bevuto gli aveva fatto male: era un'impressione cupa, profonda di abbattimento, di scoramento…. era un'ossessione terribile.
Suo fratello!… Sempre suo fratello!… Suo fratello che usciva dalla segreta cupa e buia, suo fratello che si precipitava in mezzo a quel baccanale, in mezzo a quei trafficanti del suo nome, del suo martirio, della sua patria!… Suo fratello che cercava lui solo, che vedeva lui solo, che gli si fermava dinanzi, che lo schiaffeggiava!
…. Silenzio! Silenzio!… Sst!
E il silenzio si fece profondo: toccava a lui a parlare, toccava a lui a rispondere.
Il duca girò attorno l'occhio smarrito. Tutte quelle facce rosse, accese, lo fissavano mute, ansiose, aspettando: toccava a lui a parlare, toccava a lui a rispondere.
Si rivolse al ministro….—Cosa doveva dire?… cosa doveva dire?…
Le parole gli sfuggivano, gli sfuggivan tutte, tutte, tutte!—Dio! Dio!
Dio!… E bisognava rispondere, bisognava parlare!
—Eccellenza…. Amici….—borbottò.
Dio, Dio, che vuoto nella sua testa e che silenzio in quella sala!… Cercò la parola, la parola che gli mancava, che gli sfuggiva sempre…. la cercò in quei visi…. Sua moglie lo incitò a parlare con un moto impercettibile di dispetto e di collera…. Cantasirena con un atto di maraviglia,—glielo aveva detto, bastava ringraziare,—e suo fratello là, in fondo, che gli gridava:—Parla, parla, parla, fantoccio, buffone, guadagna il tuo pane!
—Eccellenza…. Amici…. Io vi ringrazio…. confuso da tanta bontà…. Io vi ringrazio commosso…. da…. da….—sentì un ronzìo nelle orecchie, tutte quelle facce gli giravano davanti…. gli si annebbiò la vista….—Da tanta bontà….—balbettò ancora, poi si lasciò cadere sulla seggiola e scoppiò in lacrime.
Rispose uno scroscio lungo di applausi, un'acclamazione prorompente, interminabile.
Tutti erano commossi, entusiasmati, esaltati. Matteo Cantasirena, soffiando, col pancione pieno, mugolando, versava lacrime e sciampagna:
—È il battesimo!… La purificazione!… Le tue lacrime, Giovanni mio, sono la purificazione della patria!—e brandendo il bicchiere come fosse una spada, una bandiera, alzandosi maestoso, solenne, imponente, "Viva l'Italia!" tuonò.
Ci fu un secondo scrosciar d'applausi, e tutte le voci, tutte le grida si confusero in un solo clamore tumultuoso, rimbombante, echeggiante fuor della sala, nel silenzio della notte, nei viali deserti:—Viva l'Italia!
Taddeo, che prendeva il fresco in giardino, si avvicinò alla finestra, guardò nella sala e gridò lui pure commosso:—Viva l'Italia!—ma nessuno l'udi.
Lo strepito, il baccano, durarono un bel pezzo. Quando il duca, per consiglio del dottor Foresti, fu accompagnato nelle sue stanze, quando Sua Eccellenza dovette andarsene in fretta e in furia col Prefetto, con Matteo Cantasirena, coi due segretari, perchè il treno partiva, gli altri commensali passarono dall'entusiasmo per Sua Eccellenza e per l'Italia, a quello più allegro, per l'amabile, per la splendida, per la divina padrona di casa!
Pietro Laner era il solo che mancava.—Dov'era andato?…
Tutti vollero toccare il bicchiere colla duchessa Eleonora, ed essa aveva per tutti una grazia che pareva un invito, un sorriso che pareva una promessa.
—Verrò un giorno a visitare il vostro studio io sola…. coll'Evelina!—diceva piano all'Arcangeli; e a Pio Calca domandava il ritratto, stringendogli la mano furtivamente.
Con monsignor Meneguzzi faceva un po' la gelosa: era gelosa delle altre signore che lo volevano tutto—tutto per loro!—E gli aveva preso l'anello da Monsignore, colla grossa amatista, lo ammirava, se l'era messo in dito, fingeva d'esserselo dimenticato e continuava a tenerselo.
Ma Pietro Laner?… Dov'era andato?
Nora soffocava; e venivano ancora a versarle dello sciampagna; tutti volevano toccare il suo bicchiere. Si sentiva in fiamme, irrequieta, palpitante, vibrante….
Ma Pietro Laner, dov'era andato?… Era partito forse?… No, no!…
—Salgo un momento!…—disse a un tratto Eleonora rivolta a Pio Calca, a monsignor Meneguzzi, a Gesualdo Arcangeli, al Fontanella, al Palazzoli, a tutta quella folla d'uomini che le si stringeva d'attorno, avida, bramosa, riscaldata dalle sue spalle nude, dalla sua bocca ridente, dalle sue trecce bionde, quasi disfatte pel loro peso e che le ricadevano sulle spalle con una mollezza tentatrice.—Salgo un momento!… Vado a vedere mio marito!… Poi torno!… torno presto!…—e sparì.
Vuotarono dell'altro sciampagna aspettandola…. ma la duchessa tardava, tardava a comparire, a ritornare….
Cos'era successo?
Giravano qua e là, dentro e fuori, aspettandola ansiosi…. e giravano soli, sperando d'incontrarla sola.
Gesualdo Arcangeli stringeva i pugni; voleva spiegarsi, voleva sfogarsi.
—Vi amo, duchessa e…. vi amo!—per Dio!
Monsignor Meneguzzi, diventato serio, sgridava e s'imponeva a Pio Calca per farlo tacere e per mandarlo a letto.
Pio Calca, brillo davvero, tutto rosso, tutto lustro, tutto molle, voleva la duchessa, chiamava la duchessa, colla voce stridula, rotta, straziata dalle risa convulse che finivano in pianto.
—Che ambizione!… Che deputazione!… Che doveri del partito!…
Lei!… Lei!… Ma dov'è andata quella… quella donna!…
—Vergogna! Vergogna!—bisbigliava il monsignore con forza, sul viso di Pio Calca, per farlo tacere.—Vergogna!—La moglie altrui!… Dirò tutto alla mamma!
—E anch'io dirò—a mia mader—dov'è l'anello…. il sacro anello…. del prelato!…—e cogli occhi inumiditi e lustri, coll'aria svenevole, e ingarbugliando, strascicando le parole, continuava a ripetere, serio, ostinato:
—E sia pure la moglie altrui!… Io voglio…. la moglie altrui!
Ma nel mentre tutti gli altri aspettavano la duchessa e la cercavano nelle sale, o sul terrazzo, o in giardino, Evelina si era spinta più lontano, non per cercarla, ma per accertarsi che c'era. E senza farsi scorgere s'innoltrò lungo il viale cupo, finchè intravide di lontano nel piccolo boschetto, l'abito bianco di Nora…. E anche Pietro era là….
Allora, chetamente, essa ritornò in giardino, salì sul terrazzo e a quanti le domandavano della duchessa Eleonora rispondeva d'averla lasciata di sopra col dottor Foresti, presso il duca un po' indisposto.
E girando le sale, fece intanto le sue piccole provviste di sigarette per sè, e anche di sigari per suo marito. Si riempì la borsetta di dolci…. Poi vedendo sulla scrivania di Nora una boccettina di Lavender salts col turacciolo d'argento, la prese per sè: soffriva tanto l'emicrania!…
Portò tutta quella roba in camera sua, poi ridiscese a insaccarne dell'altra.
A Nora, il caldo, le grida, lo sciampagna avevano dato alla testa: le era balenata l'idea, come un lampo, che Pietro doveva essere in giardino ad aspettarla, e uscì di colpo.
Lo cercò…. lo vide infatti, lo raggiunse di corsa, e infilò il braccio sotto il suo, tirandoselo dietro.
—Vieni! Vieni! Vieni!
L'altro non capiva niente; la seguiva, si lasciava condurre, attonito, sbalordito.
—Vieni! Vieni! Vieni con me! Vieni con me!
E quando furono innanzi un buon tratto, nascosti, celati nel bosco, essa si fermò, lo guardò…. lo guardò…. Improvvisamente si tolse la rosa appassita nel calore, nell'odore del suo seno palpitante…. gliela schiacciò sulla bocca…. poi gli buttò le braccia al collo stringendolo, baciandolo, nervosamente, furiosamente.
—I tuoi baci!… Ancora i tuoi baci!… Tutti i tuoi baci!… Fammi rivivere! Rivivere!… Rivivere!
Pietro Laner era rimasto spaventato. Invece di rispondere a quei baci cercava di calmarla, di quietarla.
—Signora duchessa!—Ma…. non si faccia sentire!… Non parli così forte, per amor del cielo!
Essa si scostò di colpo, lo guardò seria, accigliata:
—Giurami che non partirai!
—Ma….
—Giurami che non partirai!… Devi restar qui: devi restar con me, sempre con me!
—Ma….
—Giurami che non partirai: lo voglio!—E fu lei a scuotere il Laner per le braccia. Le sue unghie gli penetravano nelle carni.—Hai capito che lo voglio?—Giura.
—No…. Non partirò….—balbettò l'altro che pareva tramortito.
—Come sei buono! Oh, sei sempre stato buono! Sei buono sempre, sempre…. tu sei buono sempre,—e Nora presa da un nuovo impeto di tenerezza tornò ad abbracciarlo, a baciarlo, a farsi baciare.—Anche i tuoi baci sono buoni,—i tuoi baci sì, sono buoni! Ho la smania, la febbre dei tuoi baci! Dammene tanti, tanti, tanti…. tutti…. Sono golosa de' tuoi baci….
Ma Pietro, sempre più inquieto, la baciava soltanto per calmarla, spingendo gli sguardi attraverso gli alberi, nel buio profondo di quella notte dal cielo nero senza stelle.
—La bocca tua…. ancora la tua bocca….
Pietro sentiva che Nora perdeva le forze….—Era esaltata? Impazziva?—Temeva che da un momento all'altro si buttasse per terra…. gridasse…. Tremante, spaventato, continuava a cercare, a tentare di quietarla, di calmarla….
—Ma duchessa?… Ma signora duchessa!…
—Nora! Nora! Hai capito?…—gli gridò Nora più forte, sulla faccia.
—Parli piano! Più sotto voce, per amor del cielo!
—Nora! Nora! Chiamami Nora, perchè…. perchè…. non voglio essere che Nora, voglio tornare la…. la Nora…. la Nori!… Sì! Sì!—e accesa in viso, cogli occhi stralunati, ridendo con un riso strano, convulso, e puntandosi l'indice alla fronte, ripeteva colla voce rauca:—Perchè io…. perchè io sono Nora! La tua Nori…. la Nori dei tuoi baci, dei nostri baci…. Dammene ancora…. ancora…. ancora….—Poi scoppiò in un'altra risata strana, squillante.
—Per Dio!—esclamò il Laner, scotendola forte, battendo i piedi per imporsi, per richiamarla in sè.—Cosa fai! Pensa a ciò che fai!… È pieno di gente….
—Ti amo, Pietro!… Ti amo, Pietro!
—Dio! Dio!—gemeva il Laner fuori di sè, e per farla tacere le chiudeva la bocca colla mano, ma Nora gliela baciava con tanti piccoli baci furiosi, bramosi, rapidamente, continuamente.
D'un tratto, si fermò, si curvò, tese l'orecchio….
—Senti,—mormorò sotto voce.—Senti, senti, senti….—e tenendosi con un braccio al collo del Laner, coll'altro proteso, indicò la villa.
—Qualcuno?!—domandò Pietro dando un balzo.
—Senti…. Senti….
Era il pianoforte, era Pio Calca, sorvegliato da monsignor Meneguzzi il quale, a sua volta, teneva sempre nascosta la mano senza l'anello, era Pio Calca che suonava il duetto del Faust:
"…. Dammi ancor… dammi ancor… contemplar il tuo viso…"
Nora si abbandonò, si lasciò cadere sopra un tronco di colonna rovesciata, presso l'Ercole immenso, biancheggiante nel buio come un fantasma, e scoppiò in lacrime e continuò a piangere, a piangere…. commovendosi a quella musica lontana, triste e così soave, così piena di mistero, di amore, di dolore.
—Siediti qui…. siediti vicino a me….
L'altro le sedette accanto. La vedeva più tranquilla, cominciava ad essere più sicuro, senza paura.
—Perdonami, Pietro,—gli bisbigliò continuando ad accarezzarlo, a coprirlo di baci e di lacrime, più calma, ma ancor più appassionata.—Perdonami, Pietro, io sono stata cattiva con te. Ma ero cattiva perchè ero gelosa. Ti odiavo…. perchè ti amavo. Non sono felice, sai. No, l'ho in me la mia infelicità…. è un ardore…. un ribrezzo…. una noia…. una collera…. una febbre!… Sono malata! Mi sento malata!… tanto malata!… Amami molto, Pietro!… Molto, molto, molto!—Fammi guarire…. guarire!—E ritornava ad esaltarsi, ritornava a fremere, a perdere le forze, a balbettare, battendo, ribattendo voluttuosamente, convulsamente la erre—guarrire…. guarrire…. guarrire….—Dammi i tuoi baci, ancora i tuoi baci, i nostri baci, tutti, tutti, tutti….
E Pietro che aveva trovato la sua Nora, Pietro che finalmente aveva la sua Nora, la baciava sulla bocca, sui capelli, sugli occhi, sulle spalle, come un pazzo. Anche Pietro, adesso, pregava, supplicava, implorava, delirava, anche Pietro adesso voleva tutti i suoi baci, tutti i baci, voleva vivere, rivivere, morire con lei!
E quei due, nella notte cupa, profonda, ai piedi dell'Ercole biancheggiante come un fantasma,—non sapevano più altro, non sentivano più altro che i baci, i loro baci e il loro amore.
Non sentivano nemmeno la banda di Primarole che dopo aver accompagnato Sua Eccellenza alla stazione, era ritornata alla villa, per fare una serenata al duca di Casalbara e intonava maestosamente sotto le suo finestre:
Fratelli d'Italia
L'Italia s'è desta….
La mattina dopo, Pietro Laner, cercando di rimanere nascosto il più possibile perchè nessuno della villa lo potesse scorgere, passeggiava lungo il viale degli ippocastani.
Nora gli aveva detto:
—Aspettami in fondo al giardino, vicino al piccolo cancello, verso le dieci: usciremo insieme. Faremo una delle nostre passeggiate.—Ti ricordi?
Pietro aspettava Nora, ma era inquieto. Le dieci erano suonate da un pezzo e Nora non compariva.
Quanto era accaduto la sera innanzi, adesso lo turbava, lo angustiava.
—Il ritorno all'amore, l'abbandono di Nora,—pensava in cuor suo,—non è stato naturale. Certo era in preda ad uno stordimento, ad una esaltazione strana….
Poi, crescendo la sua inquietudine, il suo orgasmo, perchè il tempo passava, passava, e l'altra non compariva, ebbe un impeto di collera, di sdegno, contro sè stesso; non voleva più fingere, cercare le parole per nascondere, per attenuare ipocritamente la verità.
—Nora era ubriaca, ubriaca di grida, di chiasso, di caldo…. e di sciampagna!—Ubriaca! Volle dirla tutta, volle ripeterla, chiara, la brutta parola: era ubriaca!
Ma ciò non acquietava i suoi timori, non scemava i suoi rimorsi.
Travolta nel baccano, stordita da tanta gente, costretta a parlare con tutti, a ricambiare tutti i saluti, gli evviva, i brindisi, d'un tratto le era pigliato il capogiro, ed egli aveva approfittato, abusato, di quel momento, dell'abbandono di Nora, della sua confessione!
Le dieci erano suonate da un pezzo e Nora non compariva….
—Era malata?
E se Nora, risvegliandosi…. ricordandosi…. scomparsa l'esaltazione, la demenza, provasse orrore di ciò ch'era successo?
E non veniva!… Perchè non correva a rassicurarlo, a consolarlo?
Se fosse ammalata? Se fosse sdegnata? Se avesse vergogna di sè stessa, se lo odiasse?
E Pietro non vedeva più il bel viso irradiato dall'amore, ma contraffatto dall'ira. Non più la Nori, ma la Casalbara, la duchessa, così in alto, in tutta la pompa, il fulgore di una bellezza maestosa, regale…, tutta cosparsa, circonfusa di gemme…. Ed egli se ne era impossessato, aveva abusato di lei come un miserabile, come un ladro….
—Sì! era stato lui il demente!… Era stato lui l'ubriaco!
E Nora non veniva! Non si vedeva ancora! Oh, se lo avesse amato davvero, se lo amasse, sarebbe corsa! Sarebbe lì!…
In quel punto, voltandosi quasi furtivamente, spaurito, verso la villa, vide la bella figura bianca, sotto un ombrellino rosso che scendeva lentamente dal terrazzo: Era lei!…
E appena Pietro la vide, ancora da lontano, svanirono, come per incanto, tutte le inquietudini, tutti i timori, i dubbi pazzi, fantastici! Vedendola appena, ancora da lontano, vedendola avvicinarsi diritta, tutta bianca sotto l'ombrellino rosso, col passo ritmico e sicuro, mollemente, elegantemente ondulando, svanivano le cupe immagini e lo invadeva tutto, e gli saliva dal cuore al cervello, gli saliva giubilante, festante, l'amore!
Lentamente, cercando sempre di nascondersi perchè nessuno della villa lo potesse scorgere, le andò incontro.
Essa gli accennò graziosamente del capo, e gli sorrise: quando gli fu dinanzi, ferma, sempre diritta, gli sorrise nello stendergli la piccola mano, senza guanto, profumata e fresca come un fiore, come molti fiori: e la manina non tremava, stringeva forte…. Nora non arrossiva: continuava a sorridere fissandolo, fissandolo bene negli occhi, arditamente.
Fu Pietro Laner, invece, che arrossì, sotto quello sguardo lucente, fisso, evocatore…. e abbassò il capo.
Quando tornò a guardarla, essa lo fissava ancora: non gli disse niente: gli mandò un bacio, stringendo e allungando le labbra.
Pietro lo sentì, con un brivido di piacere.
—Oh, Nori….—e disse tutto non dicendo altro che questo:—Oh, Nori.
—Ti ho fatto aspettare, non è vero?—gli domandò la duchessa colla bella voce limpida e scolpita.—Ti ho fatto aspettare! Ma se tu sapessi quell'uomo! Dio, com'è noioso! noioso! noioso! Sono passata un momento, a vedere come stava. Sai che ieri sera si è sentito malissimo? Tutta notte le palpitazioni di cuore! Quando poi è ammalato e ha paura, diventa ancora più noioso…. e più insistente. Voleva alzarsi per scendere con me in giardino! Figurati! Ho fatto due occhi al dottor Foresti! Lo terrà in letto fino all'ora di pranzo!—Stamattina! Pensa!… Aveva scelto bene la mattina per seccarmi!
E Nora sorrise ancora, ma adesso cogli occhi sfavillanti, colle nari dilatate, colla bocca rossa e umida, sulla quale pareva fremere il desiderio, dalla quale pareva prorompere la gioventù, la salute, l'amore.
—Appena ho potuto—esclamò con un'alzata di spalle—ho piantato quel noioso col dottor Foresti e con Evelina!
Pietro, a quel nome "Evelina" buttato lì così, distrattamente, si turbò: quel ridere di Nora gli sembrò sguaiato.
Intanto erano giunti presso il cancello: ma lo trovarono chiuso.
Nora, subito, si arrabbiò e pestò i piedini con furia:
—È un gran stupido quel giardiniere! Stupido! Stupido!
Passò dal viale in mezzo al giardino, guardò verso la villa, se c'era qualcuno—Nessuno!—Allora, circondando la bocca colle piccole mani cave, trasparenti al sole e scintillanti di gemme, cominciò a gridare forte:
—Oouh! Oouh!….
Il giardiniere sbucò da una siepe: vide la duchessa: capì, si battè col pugno sul capo e cominciò a correre verso il cancello, cercandosi la chiave nelle saccocce.
Nora tornò nel viale, e passando dinanzi alla selvetta e intravedendo l'Ercole tra il folto dei rami, lo indicò a Pietro, stringendogli, pungendogli il braccio con un pizzico acuto delle unghie:
—Di'?… Quel signore?… Parlerà?…
Ma subito corrugò le ciglia, diventò rossa di collera, cambiò faccia, voltandosi a strapazzare il giardiniere che sopraggiungeva in quel punto ansante, trafelato e apriva il cancello.
—Ve l'ho detto cento volte! Voglio sempre trovar aperto la mattina!
Pare impossibile! Tutti poltroni!
Il Laner supplicava Nora cogli occhi perchè si frenasse, perchè smettesse di gridare: ma Nora non gli badava.
—Bere! Mangiare! E basta!—Non si pensa ad altro.
Pietro, uscito dal cancello, andò innanzi, solo, di qualche passo.
—Anche quell'uomo lì—disse Nora raggiuntolo—è un protetto del signor
Matteo!
Nora gli passò dinanzi e Pietro le tenne dietro: attraversarono i campi, per raggiungere un'altra stradetta solitaria, ombrosa, chiusa fra due rive strette di ontani.
Le erbe alte, la fioritura gialla, aurata, le macchie cupe, nereggianti dei gelsi, l'azzurro carico del cielo, l'orizzonte vasto, piano, uguale, infinito, e l'accension della luce in quella giornata limpida, sotto il sole scottante, davano alla pianura lombarda, così monotona e triste, i colori intensi, le tinte fantastiche, strane, evanescenti dei paesaggi orientali.
Nora, invece di parlar d'amore, cominciò a parlare d'affari; ma quietamente, senza più arrabbiarsi.
—Sai?… Io posso dire che non mi appartengo più: sono agli ordini del signor Matteo e della Cisalpina.—E per il signor Matteo sono stata costretta fino ad oggi a godermi quell'uomo, quel vecchio uggioso, odioso, pesante… a fingere ancora….—Ma adesso non ne posso più e basta! L'ho dichiarato anche al dottor Foresti.—Ci pensi anche lui: basta!
Tacquero; Pietro, riconoscente, si voltò a guardarla. Ma Nora non gli badava: non pensava a Pietro: era tutta intenta, assorta nel pensiero dello zio Matteo, degli affari.
—Il signor Cantasirena ci ha trovato, ci ha anticipato dei danari: e per questo si è imposto.—Sai che il Kloss, almeno pare, torna da capo a far la guerra alla Cisalpina?
—No—non so niente.
Pietro Laner, non faceva mai altro nel "Consiglio" che votare come voleva il direttore: il suo posto di "segretario particolare" si riduceva a copiare delle lettere e a far il correttore di bozze alle Risorse Italiche…. l'unico posto, oltre a quello di Mariano Perego, che avrebbe dovuto essere retribuito.
—Sai,—continuava Nora con certe risatine caustiche e ciniche, in cui si rivelava ancora la figliuola dello zio Matteo in guerra coi Tirolesi e la maestra di canto e di pianoforte, la maestra della Schönfeld alla caccia di lezioni…. e di mariti…..—Sai, gli affari della Cisalpina, adesso che hanno fatto venire un'Eccellenza, andranno a rotta di collo!—Non si dice che i ministri del regno d'Italia sieno tutti iettatori?… È vero?—Tu che ci credi in queste cose, devi saperlo!—Ma ci vuol altro che un'Eccellenza "per sbaragliare il boemo!"
Pietro seguiva Nora ascoltandola silenzioso, tagliando coi colpi del suo bastoncino le erbe più alte, facendo scoccare dal gambo le margherite e i garofani selvatici.
Oh, anche adesso aveva ritrovata, sentiva, la Nora d'un tempo…. ma non la sua Nori buona…. la Nora scettica, aspra, cattiva!
Essa si animava soltanto quando parlava del Kloss! La sua voce allora diventava più calda; essa mostrava quasi del timore e insieme dell'ammirazione per il Kloss.
—Quello sì, è scaltro, furbo, abile! Sa frenarsi, fingere, piegarsi a tempo quando potrebbe essere battuto…. e intanto premunirsi per parare i colpi avvenire…. e prepararsi alla revanche!—Il Kloss!… Il Kloss è un uomo di talento!… Un uomo forte!… È un vero milionario!—Quello sì!—e Nora sospirò.
Che voleva dire quel sospiro, quel rimpianto?
Pietro si sentiva stringere il cuore, sentiva svanire la sua gioia. Seguiva Nora, sempre silenzioso, a testa bassa, tagliando, spezzando d'un colpo, col bastoncino, le erbe, i fiori e i ramoscelli più alti.
Quando ebbero raggiunto la piccola stradetta fra le due rive spesse di ontani, Nora si fermò un momento per respirare, all'ombra: poi ripresero il cammino…. l'uno a fianco dell'altro.
Anche Nora, adesso, taceva; era diventata pensierosa. Riandava il suo passato! Come era stata ingannata! Come si era ingannata!… E come aveva agito male con Pietro, col povero Pietro, in quel suo orgasmo, in quel suo impeto, in quella sua smania di ricchezza, di grandezza, di fasto!… Povero Pietro!—E Nora pensava a quell'altra passeggiata…. all'ultima passeggiata che avevano fatto insieme a Milano…. ai giardini…. dietro il Museo…. e rivedeva il viso pallido, straziato dall'angoscia…. sentiva quella voce rotta dall'amore, dal dolore e dalle lacrime.
—Povero Pietro!
Si voltò, guardò in fondo alla piccola stradetta, guardò innanzi…. non c'era nessuno.
—Povero Pietro!—gli si appoggiò al braccio amorosamente, si alzò in punta di piedi e lo baciò.
Pietro, sussultando, strinse Nora, tutta Nora, fra le braccia con un impeto di passione.
Essa, spaurita, si staccò da lui, divincolandosi.
Si voltò ancora a guardare in fondo della stradetta.—Non c'era nessuno! Allora tornò ad infilare la manina piccola, dalle unghiette che punzecchiavano sempre, sotto il braccio di Pietro, e di nuovo si appoggiò a lui con tutto l'abbandono.
—Hai scritto a Milano che resti qui?
—Non è possibile, cara: mi aspettano al giornale.
—Al giornale ne prenderanno un altro: fa un po' il piacere!—e fermandosi, fissando il Laner duramente gli disse:
—Voglio così! Ricordati!
Poi si placò, tornò a camminare:
—Fa un po' il piacere! Ti ha sfruttato abbastanza quel signor Cantasirena. Finisce col farti fare il correttore del suo giornale dopo aver cominciato col rubarti….—sì, sì, è tempo di dir le cose come sono….—col rubarti ventimila lire!
—No. Me le ha restituite.
—Lui?… Io!…—Nora si fermò, non aggiunse altro.
Ma Pietro capì, in quell'attimo, che le sue ventimila lire erano state pagate dal Casalbara…. dal duca…. dal marito!
Nora, vedendo Pietro così accigliato, torvo, credeva non sapesse come cavarsela, come scrivere al direttore che non tornava a Milano.
—Non far tanti complimenti, che non li merita. Telegrafa al giornale che resti a Casalbara perchè ci resta tua moglie.
—Appunto,—rispose Pietro, sempre a testa bassa:—anche per….—e fece uno sforzo per poter dire "mia moglie"… anche per mia moglie…. devo partire.
—Questo poi no!—E subito apparì e disparve, fu un attimo, la piccola ruga in mezzo alla fronte. Ma Nora tornò subito a placarsi ed esclamò con un'alzata di spalle:
—Tutte ragioni e parole inutili! Io non ti lascio partire; non voglio! Al resto pensaci tu!—E cambiò discorso ridendo, cantando, deliziandosi in quella dolce frescura, sotto l'ombra quieta e solitaria, fermandosi qua e là per raccogliere i piccoli fiorellini fra l'erba umida, rigogliosa della riva, inginocchiandosi sulla sponda, sorretta, tenuta da Pietro, per bere nel cavo della mano, come da una conchiglia rosea, l'acqua chiara, limpida, gorgogliante del rigagnolo. Poi, ad un tratto, esclamò con un piccolo grido di gioia:
—Eccola! Eccola!—La madonnina!… Sapevo che c'era!
E corse via dal Laner: corse a sedersi sotto una piccola cappelletta, diroccata, che al di là della riva, un po' innanzi nel prato, rimaneva nascosta dalla siepe alta. Quella cappelletta era chiamata dai contadini la Madonna del Sole.
—Non la vedevo più!… Credevo di essermi sbagliata!—e si chiamò il Laner vicino, mentre gli faceva posto, restringendosi, allungandosi nelle sottane rumorose e fragranti di mussolina bianca e di seta.
—Vieni qui!
Nora si era seduta sul piccolo inginocchiatoio di pietra voltando le spalle all'altare.
—Vieni qui!—E stese le mani, prendendo le mani di Pietro, intrecciando le dita, facendo forza per attirarlo a sè, dimenandosi mollemente:
—Vieni qui!
Pietro, fissando l'immagine stinta, scrostata dell'altare, esitava….
Era rispetto?… Era timore?
—Vieni qui!… uomo superstizioso!…—E Nora sorrise, poi diventò più tenera e i suoi occhi si fecero di una vivezza languida, esclamando:—Uomo mio…. mio…. mio! Vieni qui! Essa lo attirò con più forza: Pietro le cadde dinanzi in ginocchio.
"Ti amo…" balbettò, guardandola, ammirandola, adorandola.
—Mio! Mio! Mio!—e Nora lo baciò nei capelli. Poi gli alzò il capo: voleva vederlo; gli parlò sulla bocca, sugli occhi, stringendolo, accarezzandolo sempre.
—Sai, quando ho cominciato a volerti bene? L'ultimo giorno, quando siamo andati in collera, dopo che mi hai fatto quella scena tremenda ai Giardini. Dio! quante me n'hai dette! Come ho sentito che mi avresti ammazzata!… E come ho sentito tutto il tuo amore! Non ti avevo mai veduto piangere; tutta notte non ho veduto che le tue lacrime, la tua faccia pallida, addolorata, furibonda! Tutta notte non ho veduto che te, non ho pensato che a te!… E ti ho desiderato…. lì…. con me. Era la prima volta; ho cominciato allora. Tu mi vuoi bene, oggi, come quel giorno?… Io di più, molto di più, di più, di più, di più!… Ma ho cominciato allora! Ed oggi sono tua, pensa, tutta tua,—tutto ciò che vuoi!—E soltanto tua!…—Capisci cosa voglio dire?—Ho cominciato quel giorno, quella notte, e poi sempre, sempre…. e durante tutto il tempo, prima di maritarmi, che noia certe volte, e che dispetto! Che rabbia! E quando ti sei ammalato?… Dio, come ti volevo bene! E dopo, quando sei guarito ed hai sposato Evelina, come ti ho odiato! Ma lei, sempre più di te! È stato allora, per avere la mia rivincita, per vendicarmi, che ho finto, persino con me stessa, d'innamorarmi di mio marito. Pensa!… Ero matta! Era un farmi venir voglia di te…. ancora di più! Poi quando ti ho rivisto la prima sera, appena ritornata a Milano, in via Santa Margherita, ho subito capito che non eri felice…. e ne fui tanto, tanto contenta! Poi ho voluto avere Evelina…. per tenerla lontana da te…. e per esser io vicina a te…. ma tutto ciò senza pensarci, senza un calcolo prestabilito…. per forza!… come sapevo che per forza doveva finir così…. E mentre ti facevo tutti quegli sgarbi, ero sincera…. Era vero che ti odiavo! Ti odiavo, ti odiavo, perchè capivo che…. per forza…. sarebbe finita così…. così. Dammi un bacio!
Quando ritornarono alla villa, fecero tutta la strada assai lentamente:
Nora sempre al braccio di Pietro, gaia, giuliva, saltellante….
Pietro, invece, agitato, inquieto.
E quando di nuovo, furono dinanzi al piccolo cancello, Nora, staccandosi da Pietro per entrare, stringendo, allungando le labbra, gli mandò ancora un ultimo bacio.
—Mio, ricordati!—mormorò. E passò innanzi.
—Entrerò dall'altra parte, perchè non ci vedano insieme,—le disse il
Laner.
—Che importa?… Devono abituarsi!—esclamò Nora, e appena dentro, si appoggiò di nuovo al braccio del Laner, avanzandosi diritta, sicura, mollemente ondulando in quell'ombra calda, odorosa del viale.
Pietro era inquietissimo.
—È un capriccio!—bisbigliava.
—Che importa?… Devono abituarsi!
—Lei! Evelina!…—esclamò Pietro ad un tratto, vedendo sua moglie sbucare nel viale e correre in fretta verso di loro.—Evelina!—E di colpo, si allontanò da Nora.
La duchessa continuò a camminare tranquillamente, sempre ondulando, e facendo roteare l'ombrellino rosso, che teneva aperto, appoggiato sulla spalla.
Evelina non badò punto a suo marito: si fermò, parlò in fretta con
Nora:
—È arrivato un dispaccio per te, d'urgenza. Tu non c'eri, e lo portavano al duca: ma io non ho voluto. Ti ho aspettato apposta per consegnartelo subito.
—Hai fatto benissimo.
E Nora, lentamente aprì il dispaccio, e lesse a mezza voce:
"Attenzione posta: impedire Giovanni lettura giornale Italia, assolutamente!—Matteo."
Nora, non capiva: fissò Pietro Laner, interrogandolo cogli occhi stupiti.
Ma Pietro ne capiva ancor meno; non era stato attento alla lettura del dispaccio: aveva un solo pensiero, un solo spavento:
—Se mia moglie mi guarda in faccia, tutto è perduto!
Ma Evelina non gli badava.
—È chiarissimo!—esclamò.—Nell'Italia ci sarà qualche articolo contro la Cisalpina che il duca non deve vedere.
—Certo!…—esclamò Nora a sua volta.—È così.
Allora la signora Laner si rivolse a suo marito:
—La posta arriva a momenti: corri a ritirare tutti i giornali: fa presto.
Pietro Laner sparì come un lampo.
—Dio, vi ringrazio! Dio, vi ringrazio!—balbettava correndo.
Era affannato da una paura strana, sciocca, irragionevole, quasi fantastica. Aveva paura delle imprudenze di Nora, di tutto ciò che Evelina avrebbe fatto per vendicarsi, della collera terribile del duca. Ma quando, coll'immaginazione, si trovò faccia a faccia dinanzi al duca, allora si fermò, si calmò, scemarono le ansie e i rimorsi.
—Oh, infine!… Dente per dente, signor duca! Nora era la mia fidanzata! Era la mia sposa! È stato lei a volermela portar via!… A noi due se vuole: e quando vuole!
Pietro sorrise fieramente: con un colpo della mano si aggiustò il cappello a cencio, poi non pensò più altro che a Nora e alla gioia d'averla, ed entrò nell'ufficio della posta, zufolando.
Nell'Italia, come la signora Laner aveva preveduto, c'era appunto un fierissimo articolo contro tutta la Cisalpina, i suoi amministratori, i suoi fautori: contro il Ministro dei Lavori pubblici "che si era recato a Primarole come Arrigo IV a Canossa, umile e colla testa nel sacco, a placare, a propiziarsi i pontefici massimi dell'estrema sinistra: contro gli onorevoli Bonforti e Ghirlanda, che messi puerilmente in apprensione da certe inabili manovre elettorali, venivano a patti e firmavano compromessi PERSINO con un signor Matteo Cantasirena!" Ma l'attacco più fiero, più sanguinoso era diretto, quantunque l'Italia non lo nominasse, contro il duca di Casalbara:
"Una vecchia insegna ritinta: una delle più goffe cariatidi del patriottismo d'occasione, di parata, di mestiere! Un martire sfruttatore del martirio altrui! Un eroe da restaurant, da camere ammobiliate, che a furia di alterigia e di prosopopea era riuscito a conservare durante una lunga vita, tutta spesa fra i bagordi e le ba….gorde, una popolarità presa a nolo durante le baldorie del cinquantanove e del sessanta, e che adesso ancora gli riusciva di sfruttare, al tanto per cento, nelle carnevalate della Cisalpina."
—È il Kloss!—mormorò Evelina, appena ebbe finito di leggere l'articolo.
—È il Kloss! È il Kloss!—rispose Nora furente, rossa di collera.
Tutt'e due avevano scoperto il boemo nell'ispiratore dell'articolo, dalla violenza brutale dell'attacco e più ancora da quella parola carnevalata.
Ma l'Italia non fu altro che un preludio, una prima squilla: ogni giorno capitava un dispaccio: sopprimete il Mattino: sopprimete il Radicale: sopprimete la Gazzetta Lombarda: sopprimete il Moderatore: sopprimete la Durlindana.
Matteo Cantasirena aveva paura che il Casalbara, leggendo qualcuno di quegli articoli, infuriandosi, perdesse la testa…. e mandasse le sue dimissioni da presidente della Cisalpina, e perciò telegrafava, continuava a telegrafare: gli avrebbe soppressa anche l'aria.
E tutto questo da fare, tutta questa nuova e penosa sorveglianza, era affidata alla signora Laner.
Nora non voleva saperne: prima si era sdegnata contro quegli articoli, poi aveva detestato ancor di più suo marito che andava perdendo persino il prestigio, l'aureola del grand'uomo, che l'aveva ingannata anche in questo, e se ne vendicava col Laner.
Oh, Pietro! Pietro! Com'era stata ingiusta, pazza, quando lo aveva abbandonato!
Era sempre con Pietro, tutto il giorno: o fuori con lui a passeggiare…. fino alla Madonna del Sole…. o anche più in là.
Evelina, perciò, doveva pensar lei, a sopprimere i giornali, a rispondere alle lettere, ai telegrammi. Doveva pensar lei alla casa e al duca; Nora le aveva affidate tutte le chiavi, e perchè le avesse sempre pronte con sè, le aveva regalato anche la sua magnifica borsetta, quella colla cerniera e la catenella d'oro…. e le aveva regalato anche la cintura d'argento russo da tenerla appesa…. e anche della tela, molta tela in pezza, la magnifica tela di casa Casalbara, che Evelina aveva già fatto portare a Milano dal cavallante.
Ma anche Evelina non sapeva più come fare, cosa fare: il duca, per quanto malandato di salute e di spirito, cominciava ad arrabbiarsi per le continue assenze di Nora, a meravigliarsi di non ricevere più i suoi giornali, e diventava sempre più diffidente, più sospettoso, più inquieto.
Giunse finalmente in aiuto il dottore Foresti: era stato a Milano, avea avuto un lungo colloquio con Matteo Cantasirena, e siccome si trattava adesso di dover sopprimere al duca anche le visite, non lasciandogli veder nessuno, non lasciandolo parlar con nessuno per un paio di settimane, il dottore aveva pensato di approfittarne per intraprendere una cura seria, un regime severo, di assoluta quiete, di assoluto riposo che riteneva necessario perchè il signor duca potesse rimettersi benino.
E non c'era tempo da perdere!
Subito, appena arrivato, il dottore Foresti, scambiate quattro parole colla signora Laner, entrò con lei dal malato.
Invece di trovarlo in letto, lo trovarono in piedi.
—Oggi mi sento benino, caro dottore!…—e gli stese la mano sorridendo.
Ma il dottore lo guardò in un modo così serio che gli troncò a mezzo quel sorriso.
—Glielo dirò io…. come sta!—esclamò gravemente. Lo fece sedere, distendere sulla poltrona, gli sbottonò la giacchetta da camera; gli ascoltò il cuore a lungo, mentre lo faceva respirare; gli picchiò colle nocche di qui…. di lì…. tornò ad ascoltarlo, a fargli emettere un sospiro lungo…. lungo…. più lungo.
L'occhio del duca, in tutte quelle operazioni, era fisso sulla faccia impassibile del dottore: e gli domandava ansioso, colla voce debole:
—E così, dottore?… Dunque?… Dunque?…
Il dottore continuava a non rispondere, ad ascoltare, a picchiare.
Evelina chiudeva le gelosie, abbassava i trasparenti della finestra.
—Dunque, dottore?… Sto peggio?
Finita quella visita, il duca si sentiva peggio realmente…. peggio degli altri giorni; si sentiva freddo.
—Ho un po' di febbre, dottore?
Il dottore gli abbottonò la sottoveste: gli annodò la cravatta; Evelina portò un cuscino morbido di piuma che gli accomodò dietro le spalle, e una coperta nella quale gli avvolse le gambe.
—Dunque sto male?—balbettò il Casalbara atterrito, senza fiato.—Risponda…. mi dica la verità.
—Come gli altri giorni. Ma bisogna star meglio, bisogna star bene, completamente.
L'occhiata che il duca rivolse al dottore fu lunga, ansiosa, angosciosa.
—Come sto?
Il dottore si sedette vicino al duca, mentre Evelina gli aggiustava un altro guancialino sotto il capo, e gli metteva le mani, diventate fredde, sotto la coperta.
—Caro signor duca, bisogna pensare seriamente alla sua salute. No, no!—e gli sorrise affabilmente.—Non c'è da spaventarsi. Non c'è niente di assolutamente grave: ma il male non bisogna lasciarlo invecchiare: tanto più avuto riguardo allo stato cardiaco, alle palpitazioni intermittenti. Tutto l'organismo è scosso, infiacchito. La perturbazione è generale. Oggi, ripeto, siamo ben lontani da qualunque pericolo, ma è tempo di cominciare seriamente a curarsi…. per guarire davvero, e star bene davvero. Il più leggero strapazzo, un po' di freddo, un colpo d'aria, un colpo di sole, qualunque fatica, qualunque occupazione, scrivere, leggere, parlare, determinano subito l'accesso nevralgico, i disordini gastrici, le palpitazioni. Anche il senso acutissimo di fotofobia, del quale ella si è lagnato con me, parecchie volte, è determinato da una leggera alterazione del globo oculare…. che non dev'essere trascurata.
E il dottor Foresti continuò ancora per un pezzo, poi si avvicinò sorridendo al duca, gli prese la mano, e tenendola stretta fra le sue, gli disse, incoraggiandolo con molta effusione, quasi con tenerezza:
—Da bravo: per un paio di settimane lei farà a mio modo: resterà tranquillo in camera sua, alzandosi tardi, andando a dormir presto. Le proibisco di occuparsi di affari, di ricevere visite inutili, di stancarsi in nessun modo, e per il momento,—il dottor Foresti sorrise con malizia,—per il momento ritorneremo scapoli…. schivando le occasioni…. anzi diremo meglio le tentazioni!
Il dottore tornò a sorridere: sorrise anche Evelina: ma il duca bisbigliò con tristezza:
—Sono sempre solo…. Non vede?… Ormai…. sono sempre solo!—E sospirò.
Il dottor Foresti gli scrisse un paio di ricette, e gli proibì assolutamente, severamente, di leggere e di scrivere.
—Ripiglieremo il chinino e il salicilato jodico…. e ogni ventiquattro ore, finchè il senso di fotofobia non sia totalmente scomparso, faremo qualche istillazione di un collirio di atropina. E se assolutamente le occorresse di scrivere, potrà dettare alla signora duchessa…. o alla nostra buona signora Laner.—Evelina chinava il capo arrossendo soavemente a quelle parole "la nostra buona signora e cara signora Laner"—che le potrà anche leggere qualche libro…. qualche giornale…. ma non molto, perchè la mente, lo spirito, come il corpo, non devono essere turbati, affaticati.—E il dottor Foresti concluse:—Per un paio di settimane faccia così, a mio modo: si metta nelle mani mie e della signora Evelina, e per l'inverno, al quale andiamo incontro, io le assicuro, senz'essere Mefistofele, ch'ella sarà ritornato sano, robusto e….. giovane, come Faust!
Il Casalbara, inquieto, intimorito, si abbandonò come un fanciullo che non sa vivere e come un vecchio che non sa morire, si abbandonò interamente nelle mani del dottor Foresti, che adesso veniva a Casalbara quasi ogni giorno, e della signora Laner che riceveva tutte le lettere, tutti i giornali, che vedeva tutto, che sapeva tutto, che si rendeva necessaria al duca Giovanni, com'era diventata necessaria a Nora…. e che continuava a metter via e a mandar roba a Milano.
—Almeno lei,—diceva il Casalbara alla signora Laner,—almeno lei non mi abbandoni!… Lei è buona!… A lei non fanno ribrezzo i poveri vecchi…. i poveri ammalati!…
Ed Evelina come sapeva consolarlo, colla sua voce velata, lenta, dolcissima!
—Tutti, sa, le vogliono bene!… Tutti! E la duchessa Eleonora ha un vero culto per lei, un culto di gratitudine, di devozione, di ammirazione…. di amore. Ma in questi giorni, poveretta, deve occuparsi di tutto…. e poi….—sorrideva anch'essa, ma con malizia più graziosa ed affettuosa,—anche il dottor Foresti ha un po' di colpa in questo abbandono….
Il duca scrollava il capo: sua moglie non veniva più nemmeno a vederlo…. Più, nemmeno il bacio del buon giorno, della buona notte….
La quiete, il riposo assoluto, la cura del dottor Foresti gli fecero bene davvero, e se gli occhi gli bruciavano ancora, e non poteva soffrire la luce, specialmente dopo le istillazioni del collirio di atropina, la sua mente diventava più lucida…. e non vedendo quasi più la moglie, tornava a sentire la nostalgia della sua bellezza, della sua giovinezza, della sua voce, del suo profumo!…
—Vederla!… Almeno vederla!… Almeno fosse rimasta lì con lui, qualche mezz'ora, per lasciarsi vedere…. soltanto vedere.
Ma Nora lo sfuggiva ogni giorno più: gli era diventato insopportabile, odioso; persino odioso. Le ingiurie dell'Italia, essa le aveva impresse nella mente, le bisbigliava fra sè, contro di lui.
—Era tutta una falsità quell'uomo: il suo eroismo, come la sua ricchezza: era un vecchio spiantato e un vecchio ridicolo! Come l'aveva ingannata!…
Pietro! Oh, Pietro! Pietro! Dio come lo amava!…
Perdevano la testa tutti e due: Nora non aveva più alcun ritegno.
—Suo marito? Che le importava di suo marito? Sapesse tutto: scoprisse tutto, peggio per lui! Non l'aveva ingannata, tradita, rovinata? Suo marito adesso era il solo colpevole anche in faccia ai diritti del suo cuore. Non era stata lei ad abbandonare il Laner; era stato il "vecchio" che l'aveva sedotta, che l'aveva portata via al suo Pietro!
La brava gente, i contadini, cominciavano a mormorare…. e a ridere. La selvetta dell'Ercole, la Madonna del Sole, l'albergo della Corona bianca, a Castellanzo, dove la duchessa e il Laner si recavano spesso a colazione, eccitavano la fantasia di tutti i novellieri rustici e sboccati del paese.
E Pietro?… Pietro amava.
Era imprudente, pazzo, colpevole: amava.
Il passato, come l'avvenire non esistevano per lui: viveva soltanto per il presente. Nora, i suoi baci, il suo amore, la sua bellezza….
E dopo? Al dopo non pensava: amava troppo per poterci pensare!
E in quella sua felicità immensa e orgogliosa dell'amore e del possesso, si sentiva buono, si sentiva forte, si sentiva generoso: era lui che doveva perdonare a tutta quella gente…. e perdonava.
Ma sfuggiva Evelina. Perchè? Non per il rimorso,—anche lei aveva troppo a farsi perdonare—ma perchè essa lo turbava, non si lasciava capire.
Era buona, sincera, o falsa?
Perchè taceva? Perchè tollerava? Perchè non era più gelosa, invidiosa?
Perchè aveva tante premure per il duca? Perchè era tanto servile con
Nora? Perchè restava lì, perchè sopportava tutto, perchè si faceva
mantenere?…
Pietro, lui, alcune volte, aveva pure il coraggio di cercare, di fissare l'occhio di sua moglie, ma quell'occhio gli sfuggiva! Perchè?… Perchè sua moglie restava lì…. a farsi mantenere da Eleonora?… E lui pure, perchè restava lì, a farsi mantenere dal duca?…
Pietro aveva paura di Nora quando il suo viso si alterava e appariva contraffatto…. aveva paura di quella piccola ruga fonda e cattiva. Ecco il perchè.
Matteo Cantasirena continuava intanto a tempestare Evelina e il dottor Foresti di lettere e di telegrammi; la preoccupazione più grave, più angosciosa del Segretario Generale era sempre la stessa: era che il Presidente scoprisse la "gazzarra indecente" che dilagava contro di lui, contro la Cisalpina. Ove appena il duca, il senatore Giovanni di Casalbara, avesse letto uno di quegli articoli, avesse intravisto in qual "baratro di imbrogli e di immondezze" veniva trascinato il suo nome, avrebbe certo trovato la forza di sconfessarli tutti, di rinnegarli tutti, di dimettersi senz'altro e la ribellione del duca avrebbe segnato il principio della fine.
Un giorno, finalmente, Matteo capitò egli stesso a Casalbara, accigliato, imbronciato, ma parlò soltanto con Nora, chiuso in camera con lei, in gran segreto.
—È venuto il giorno che non doveva venir mai se il mondo non fosse tutto una genìa volgare…. plebea d'ingrati, di traditori! Quel melenso del Vergani! Quell'asino del Bizzarelli!… Persino quell'eterno spiantato rompiscatole del Brunetti!… Tutta gente creata da me! messa al mondo da me! sfamata da me! Tutta gente che io stesso ho voluto nel Comitato! E adesso mi si rivoltan contro! Egoisti!… Pezzenti!… Traditori!
Nora fissava lo zio Matteo, attonita.
—Ma io?… Cosa c'entro io?…
—Quando scadevano le cambiali del Kloss, come le hai pagate?… Coi denari miei, procurati da me. Io, io ti ho dato in varie riprese centosettantamila lire! Venticinquemila stipendio di tuo marito: siamo in regola—quarantamila seconda ipoteca sul palazzo di Milano e sui fondi di Casalbara—siamo in regola. Il rimanente, centocinque mila lire, bisogna che tu me le procuri fra una settimana, più presto che puoi: per l'assemblea degli azionisti. È imminente!
—Io?… Come?—esclamò Nora colpita.
—Colla guerra che ci fa il Kloss, quel boemo nefando, non è più possibile far ballar delle cifre dinanzi agli azionisti. Urge provvedere, riparare, rifondere Bisogna tener in piedi la baracca oppure è un precipizio generale.
—E io devo trovare centocinquemila lire? Ma dove? Ma come? Devo trovarle in una settimana?
—Più presto, più presto che puoi!—replicò aspro Matteo.
Ma come fo? Come fo?… Come posso fare?—balbettava Nora tremante, convulsa.—Come posso fare?…
Matteo Cantasirena si strinse nello spalle, soffiò: poi di colpo pestò un piede per terra furiosamente.
—Per Dio!… Pensaci! Io ci ho pensato per la mia parte! Il Fontanella ha pensato per la sua. E anche tu devi pagare i tuoi debiti! E presto! Io devo ritornare sul momento a Primarole, smascherare, oppormi, sbaragliare quegli ingrati, quelle canaglie, quei sicari della Cisalpina, sicari prezzolati, raggirati, ipnotizzati dal Kloss, da quel boemo…. purulento! Tu cerca, vendi, trova: è l'ora di metter giudizio, di finirla colle…. menestrellate, e di pagare i debiti!
Nora afferrò lo zio Matteo per un braccio, fissandolo.
L'altro rispose un po' scosso da quello sguardo:
—Lo sapevi…. ti avevo detto che era stato il giro di uno dei capitali fluttuanti…. della Cisalpina.
Nora continuò a stringergli il braccio e a fissarlo; poi gli bisbigliò sul viso, sordamente, cogli occhi torti, la bocca torta, le ciglia aggrottate:
—Per farmi fare a tuo modo mi hai assicurato che bastava pagare gli interessi….
—Lo credevo…. lo speravo!
—Per indurmi a fare a tuo modo,—continuava l'altra diventando livida, ancor più contraffatta, più minacciosa,—per trascinarmi nelle tue mene, per poter sfruttare mio marito, il suo nome, il suo titolo, il suo onore, perchè io ti servissi ciecamente, stupidamente, anima e corpo, mi hai sempre ingannata! Hai mentito con me. Sei stato falso, ipocrita, bugiardo, e credi ora di venir qui ad importi, a spaventarmi, quasi ad aggredirmi in casa mia? Ti ho mai cercato io?… Sei stato tu a venirmi fra i piedi, a offrirmi i tuoi servizi, i tuoi denari, le tue fanfaronate!… Ad avvilirmi, a violentarmi nella mia anima, nel mio cuore, nelle mie rivolte!—E Nora, spinto lontano lo zio Matteo, camminò su e giù per la stanza furibonda, fremente di collera, poi a un tratto sembrò calmarsi:—Ti devo centocinquemila lire? Sta bene: quando le avrò, te le darò; cosa c'entro io colla Cisalpina?
Matteo levò le braccia al cielo…. barcollò…. poi si buttò sopra un canapè dimenandosi, torcendosi, gemendo:
—La mia figliuola!… Anche la mia figliuola!… Il mio unico affetto…. superstite!… La rovina è completa…; povero il mio Fara-Bon…. hai fatto bene a morire…. Crolla la Cisalpina! Crolla la famiglia! Crolla la patria! Anche il fallimento…. l'ultimo fallimento!… Il fallimento del cuore!…—E scoppiò in lacrime continuando a dimenarsi, a rivoltarsi, mugolando sopra i cuscini del canapè.
Nora non lo guardò nemmeno; gli rispose brutalmente:
—Se non potevi…. non dovevi darmelo quel denaro.
—Ma, spensierata figliuola, tu ti sei pure compromessa in questa…. operazione! E come mi sono compromesso io e quel buon Fontanella!… Tu pure…. hai firmato…. ha firmato tuo marito….
Nora impallidì nuovamente, nuovamente aggrottò le ciglia e si avvicinò allo zio Matteo, domandandogli con un fremito crescente nella voce:
—Che cosa mi hai fatto firmare? Che cosa mi hai fatto fare?… Che cosa hai pensato, inventato…. per rovinarmi?
Cantasirena rimaneva accasciato, affranto:
—Non avvilirmi tu pure!… Non imperversare contro di me! Pensa al mio passato, splendido, glorioso, alla mia vita di sacrifici, di lavoro…. a quello che ho fatto per tutti, anche per te, e risparmiami l'ultimo colpo…. non abbeverare di fiele l'agonia delle mie più belle speranze! Se ho errato…. eccolo il solo, il grande, l'eterno colpevole!…—e si picchiò sul cuore. Poi soggiunse sommessamente, quasi umilmente, continuando a modulare la voce fra i sospiri e i gemiti:—Non ti ricordi, figliuola mia, quella nostra…. combinazione…. di Camposelice?
Nora si ricordava quel nome, si ricordava che lo zio Matteo aveva fatto firmare delle carte a lei e a suo marito, ma non si ricordava altro.
—Che cosa mi hai fatto firmare?… Che cosa?
Cantasirena cercò di calmarla,
—Forse…. basterebbe poter avere le centocinquemila lire…. solo per pochi giorni. Se la Cisalpina riesce a vincere il panico, un panico artificiale, se riesce a superare la crisi, allora, non dubitare, Eleonora mia, con un nuovo spostamento di capitali, si potrà riattivarne la…. circolazione! Ma in questi giorni terribili con quel branco famelico di cani, aizzati dal Kloss, col Vergani, col Bizzarelli, con quell'ingrato del Brunetti…. morto di fame in sempiterno, siamo giunti…. al redde rationem….—E Matteo sospirò, tornò a singhiozzare:—Siamo sotto la minaccia del fallimento, della bancarotta, dei processi! Dei processi…. con tutte le loro odiose conseguenze!
—Che cosa mi hai fatto fare? Che cos'è l'imbroglio di Camposelice?
Era questo che premeva a Nora di sapere, questo soltanto.
Matteo Cantasirena allora le spiegò diffusamente, con ogni particolare quella semplice e transitoria operazione di spostamento.
Per l'urgente necessità di avere il Casalbara alla presidenza, per rimediare ad altri pasticci sociali…. e personali, Matteo Cantasirena, che credeva davvero la Cisalpina una maravigliosa fabbrica di milioni e immaginava quasi in buona fede di esserne il proprietario, aveva indotto il Fontanella ad intestare "per il momento" alla duchessa di Casalbara i vastissimi latifondi di Camposelice nel Cremonese, e appena le terre figurarono quale proprietà dei Casalbara, Cantasirena si procurò, su quei beni, a nome della duchessa, un prestito d'oltre trecentomila lire e divise la somma con Nora e col Fontanella, attendendo il momento di rimettere a suo posto il capitale…. fluttuante coi primi lucri della Cisalpina. Ma adesso la minacciata sospensione dei lavori, la probabile liquidazione della Società, la presentazione dei bilanci indetta per l'assemblea, erano la rivelazione di ogni cosa, la rovina, il disonore, lo scandalo…. il processo.
—Sicuro, un processo,—concluse Matteo mestamente,—un processo con tutta la sua volgare teatralità! Al giorno d'oggi, figliuola mia, in che mai si può sperare? Smarrito ogni grande, ogni alto ideale, non c'è più rispetto, non c'è più gratitudine per nessuno!
A questo punto ebbe un nuovo impeto di sdegno e balzando in piedi, pestando i piedi esclamò:—No per Dio! Non valeva la pena di far l'Italia, quando chi l'ha fatta deve fallire!
Nora non gli badava più: aveva capito questo: che si era compromessa, che le centocinquemila lire occorrevano assolutamente, subito, o anch'essa sarebbe stata travolta negli scandali, nei disastri della Cisalpina, e questa volta rovinata interamente, irreparabilmente, rumorosamente.
Bisognava trovare le centocinquemila lire: a questo pensava Nora, a nient'altro.
—Come trovarle?… Dove trovarle?… E subito!… E subito!
Era presso alla finestra: Pietro nel giardino, si aggirava inquieto: aveva visto il direttore imbronciato e temeva che avesse tutto scoperto, temeva che il loro amore e le loro imprudenze fossero la causa di quella collera, l'argomento di quel colloquio che non finiva mai.
—Come trovarle?… Dove trovarle?
E la vista del Laner accresceva l'orgasmo, la smania di Nora, la sua smania di correre subito a Milano, di trovarle subito, e tornare a Casalbara ancora con Pietro…. più felice dopo quei due o tre giorni di ansietà, di angosce, nei quali non lo voleva vicino, perchè le sarebbe stato d'impaccio…. Oppure, appena trovate le centocinquemila lire, telegrafare a Pietro, farlo venire a Milano, rimanere con lui, loro due soli, tutta una settimana, giorno e notte!—Ma adesso, no, non bisognava dirgli nulla!—E per non vederlo, per dimenticarlo, si allontanò dalla finestra.—Dopo, dopo, di nuovo, tutta per lui: ma adesso non bisognava pensarci: adesso bisognava trovare i danari.
—Come?… Come trovarli? Come farò?
E rimase a lungo immobile, diritta, sola in mezzo alla stanza.
Lo zio Matteo se n'era andato chetamente.
Rimase assorta, intenta, a pensare, a pensare…. colle ciglia aggrottate, colla riga bianca in mezzo alla fronte, sempre più profonda, sinistra.
—Come trovarli? Come farò?
A un tratto ebbe un lampo di gioia negli occhi, nel viso: era la decisione.
—Sì! Il signor Galli!—-mormorò.
E lei stessa corse a telegrafargli alla stazione:
"Arrivo stasera Milano. Venga subito.
Il signor Ambrogio Galli, appena ricevuto il dispaccio della duchessa, consultò in fretta l'orario.
Sarebbe arrivata alle dieci e mezzo!
E un quarto d'ora prima egli era già alla stazione ad aspettarla, messo in tutto punto, col cappello a cilindro, l'abito nero, i guanti color sangue.
—Povera signora! Così dolce, così affabile… e tanto disgraziata!…
Nora, nei varî colloqui che in quel frattempo aveva avuto per affari col signor Galli, era riuscita ad inspirargli un senso vivo di simpatia e di pietà. E però, il grave procuratore si mostrava sempre per lei premurosissimo, pieno di rispetto, di riverenza, di devozione.
—Povera signora!… ancora così giovane… così dolce, affabile e tanto disgraziata!—E il buon signor Ambrogio sospirava anche alla stazione, mentre aspettava la signora duchessa; e pensava, con un certo orgasmo, che se le avesse telegrafato soltanto il giorno dopo, egli sarebbe stato a Torino per la Banca, non avrebbe avuto il dispaccio, e la signora duchessa arrivando e non vedendolo e non ricevendo nessun avviso…. chissà che cosa avrebbe pensato!
Il signor Galli, l'avventore domenicale del Trenk, il grave procuratore della banca Kloss, subiva fortemente il fascino della "gran signora" il fascino di quel lusso elegante, squisito, il fascino di quella bellezza, che per un senso intimo, arcano di pudore, egli non aveva mai osato di constatare seco stesso, limitandosi a dire:—Dolce, affabile, buona…, ma non mai bella: dicendolo avrebbe arrossito.
Il fascino, l'incanto di Nora per il signor Galli, per il socialista umanitario, non poteva essere, non era altro che pietà. Egli lo pensava in buona fede e ne era in buona fede convinto. La signora duchessa non era stranamente bella e stranamente bionda.—No!—Per lui, non era altro che una vittima!
—Così buona… e tanto disgraziata!—
Era una vittima! Una povera vittima. Anche nel dissesto del duca di Casalbara, la vittima, la sola vittima era la povera signora duchessa… così dolce, così affabile… e tanto disgraziata! La povera signora duchessa avrebbe dovuto imporsi privazioni, sacrifici, per i vizi—il giuoco, le donne—per la spensierata e pazza prodigalità di quel vecchio balordo, che l'aveva sedotta, ingannata.
—Io non sapevo niente… niente… niente…—aveva detto Nora, vivamente arrossendo, al signor Ambrogio, il quale le aveva creduto, arrossendo a sua volta, e compassionandola, col respiro oppresso, affannoso.
E come essa era la vittima di suo marito, lo era pure di tutti gli altri. Il signor Galli aveva dimenticato affatto "la figliuola dello zio Matteo", la signorina Cantasirena. Per lui non c'era più che la signora duchessa, la buona signora duchessa, raggirata da quel vecchio imbroglione! E, Dio, Dio, che pietà, che orrore!… Era pure la vittima…. la vittima designata, predestinata, del signor Kloss!
Questo, il Galli, lo pensava con un brivido: un brivido che gli correva per tutto il corpo, che gli saliva, con un'onda di sangue, dal gran cuore al grosso testone.
Il signor Kloss non voleva soltanto vendicarsi della signora duchessa: il vecchio satiro le aveva ficcato gli occhi addosso: voleva rovinarla…. per poi raggiungere il suo fine!
Quando il Kloss era ritornato da Carlsbad, aveva fatto varie domande al signor Galli, relativamente agli affari del suo amico Casalbara; e sdraiato sul sofà—dimenando le gambette arcuate, sghignazzando, rosso in viso, con gli occhietti lustri—veniva allora dall'aver fatto colazione,—parlò, lanciò qualche frizzo anche a proposito di cuella matama…. di quella pionta marafigliosa ma pericolosa. Poi rivoltandosi sul sofà, arricciolandosi i baffetti duri colle dita pelose, fece certe domande strane intorno alla signora duchessa che al grave e serio procuratore parvero irriverenti, sfrontate…. oscene.
—È vero che si è ingrassata?… È una donna che può ingrassare senza danno!—Pussée ghe n'è, mei anca mò!… Che spall! E che fitin!—E il signor Kloss si stringeva colle due mani la vita.—E che gamb!…—Poi, balzando dal canapè e saltellando e fregandosi le mani come per scuotersi di dosso la lussuria, aveva esclamato sogghignando:—È una pellissima catta, ma prima de aferla in te le man, mi voléssi per prutenza tajagh i ong!
E l'onesto, il buono e semplice signor Ambrogio, era rimasto stranamente impressionato da quei discorsi.
Correvano, fra gli impiegati della banca Kloss, aneddoti, racconti misteriosi, inverosimili, perfino leggende fantastiche e terribili, sulle arti, le manovre, il potere irresistibile, diabolico, del banchiere milionario quando si trattava di raggiungere il suo fine, di arrivare ad "afere in te le man" le pussee pelle racazze, i pussee pei tonnell de Milan!
E i più pettegoli e chiacchieroni di quegli impiegati esageravano sul conto del principale: quando il signor Kloss voleva una donna, qualunque fosse, ci riusciva, a costo di commettere un delitto, o di spendere un milione.
E il signor Galli aveva pur sentito a raccontare, sebbene alterata nella sua tragica fine, la storia di quella povera ragazza che subito dopo, pazza d'orrore, si era buttata dalla finestra.
Sano, forte, operoso, il signor Galli era sempre stato casto, com'era sempre stato onesto. I vizi del signor Kloss e della gente come il signor Kloss, erano per lui un mistero…. un mistero attorno al quale indagava adesso per la prima volta, inorridendo, rabbrividendo.
—Che cosa aveva fatto a quella povera ragazza perchè, subito dopo, pazza d'orrore si buttasse dalla finestra?…—E inorridendo, rabbrividendo, correva col pensiero alla signora duchessa, la nuova vittima designata, e questo pensiero era per lui un'oppressione, un orgasmo, un'ossessione…. Vedeva gli occhi languidi e dolci della giovane signora, atterriti e pieni di lacrime… udiva quella sua voce così armoniosa e tenera nella preghiera e soave nel lamento…. la udiva rotta, soffocata dalla sghignazzata triviale, dalla parola turpe, oscena, prepotente del Kloss.
Il treno preso da Nora era un diretto e arrivava allora, in orario.
Il signor Galli, dietro il cancello, si alzò sulla punta dei piedi, per scoprire la signora duchessa tra la folla dei viaggiatori. La folla ingrossò in un attimo…. poi in un attimo diradò: il signor Ambrogio tornò ad alzarsi sulla punta dei piedi, ad allungare il collo.
—Non c'è?… Non è arrivata?
Ad un tratto chinò gli occhi.
Non l'aveva altro che intravista: non aveva veduto che i capelli biondi sotto un gran velo grigio, e il luccichio dei grossi brillanti alle orecchie: nient'altro.
—Eccola!—aveva detto tra sè.
Nora si avanzò lentamente, diritta, sicura: appena vide il signor
Ambrogio gli sorrise, ma poi diventò triste.
Il signor Galli corse a toglierle di mano la piccola borsa.
—Sola? signora duchessa?
—Ho telegrafato a Teodoro,—era il portiere.—-Sua moglie, la Vittorina, mi farà da cameriera. E poi bisognerà bene che mi abitui anche a farne senza.
Il signor Ambrogio aveva indovinato quello che Nora aveva detto, senza aver inteso bene.
—Cos'era accaduto di nuovo?… Ah, povera signora! Nora entrò in un brum, con un piccolo salto leggero, grazioso, mentre il fruscìo delle vesti, delle sottane di seta, pareva uno stormir di fronde e un batter d'ali: in fretta si restrinse nel posto, guardando il signor Galli, aspettando che salisse. Ma il signor Galli, non pareva risolversi.
—Venga dunque…. faccia presto!
—Io potrei… andare a piedi.
—Ma che! Faccia presto.
Il signor Ambrogio salì battendo col cilindro nella carrozza, poi si curvò, si abbassò, entrò, respirando con fatica, colle mani che gli tremavano leggermente.
Il brum era già tutto pieno del profumo di Nora, del suo odore di bionda e di lilas de Perse.
Il signor Ambrogio non le era mai stato tanto vicino… Si ritirava, si restringeva intimidito, non gli riusciva di parlare.
Subito, appena passata la barriera, essa cominciò a raccontargli, rapidamente, concitatamente, a voce alta per essere intesa dal signor Galli che era sordo, in mezzo al frastuono della vettura, ciò che le succedeva.
Matteo Cantasirena l'aveva ingannata, le aveva fatto firmare delle carte ch'essa non sapeva nemmeno cosa volessero dire, e adesso doveva pagare subito, sul momento, centocinquemila lire o era rovinata, disonorata.
Suo marito non sapeva niente, e poi non poteva far niente e poi era ammalato.—La rovina!… Ma pazienza ancora la rovina!… Era lo scandalo!… Il disonore!…
—Quanto?—gli domandò il signor Galli che non aveva inteso bene la cifra.
—Centocinquemila lire!—gli ripetè Nora, avvicinandosi, sfiorandogli l'orecchio, nel trabalzo del brum, colle sue labbra, col soffio dell'alito caldo.
—Centocinque…. mila!…—balbettò l'altro, colla voce grossa, soffocata.
—La Cisalpina è sul punto di fallire; non so in che modo, non ho capito nemmeno come tutto ciò sia avvenuto, ma certo per la guerra atroce che le ha fatto il Kloss!… E se non mi riesce di pagare subito, se non trovo la somma occorrente, sarò travolta anch'io in quel disastro, in quegli scandali!…—E avvicinandosi ancora, voltandosi, per fissare proprio negli occhi del signor Galli que' suoi grandi occhi atterriti e imploranti pietà, che luccicavano nel buio della carrozza più dei suoi grossi brillanti, mormorò:
—È il Kloss! Ancora lui!… Si vendica! Si vendica!…—e scoppiò in lacrime.
—Coraggio, signora….—balbettò il signor Galli, il cui respiro si fece più affannoso, e il tremito delle mani più forte.—Si calmi, buona signora….
Quando il brum si fermò dinanzi al gran portone del palazzo, il signor Ambrogio, impacciato, non riusciva ad aprire lo sportello; corse il portiere, e Nora si slanciò per la prima; l'altro le tenne dietro a capo basso.
Nora si fermò nel piccolo salotto vicino allo spogliatoio: mandò via subito la Vittorina, poi prese la mano del Galli, gliela strinse con un atto di supplicazione intensa. Il Galli ebbe un brivido.
—No…. signora…—temette che in quell'ansia, volesse appressare la sua mano alle labbra.
—Signor Galli! Signor Galli!… Non ho più che lei…. Non ho più che lei!… La mia speranza!… Il mio conforto! Il mio amico! Tutto…. Tutto!—E tornò a piangere.
—Signora…. signora duchessa….—pregava a sua volta il poveruomo, ansante, palpitante… e a lui pure, fra le gocce di sudore scorrevano alcune lacrime sul grosso faccione smorto, sbigottito.
—Coraggio…. coraggio….—ma non sapeva dir altro, oppresso dal dolore di Nora, istupidito da quella cifra enorme.
—Centocinquemila lire!… Centocinquemila lire!
L'altra ripeteva:
—La mia speranza…. la mia sola speranza…. tutto tutto….
—Domani,—balbettò il procuratore,—domani mattina dovrei andare a
Torino….
—No! No!—e Nora ebbe un grido, un impeto di terrore, afferrandogli ancora le mani, appressandosi a lui vivamente, guardandolo, fissandolo supplichevole, disperata.—No! No! No!
—Partirò domani sera!… Partirò domani sera!—si affrettò a soggiungere il signor Galli….—Ma intanto, quali sarebbero le sue idee?… Quali pratiche sarebbero da… da tentare?… Centocinquemila lire!… Che cosa pensa di fare?
—Dica lei: tutto! tutto!
—Vorrei…. le darei…. l'anima!… Glielo giuro!… Ma io sono…. un pover'uomo! Un povero impiegato.
—Dica lei: tutto! tutto!—ripeteva Nora col più tenero abbandono, col calore di una fede illimitata, assoluta nella voce soave, nell'espressione infantile, nel bel viso addolorato e molle di pianto.
—Vuole…. che domattina presto faccia una corsa a Primarole?
—A far che?
—Per vedere il signor Cantasirena!… Sentire, parlare un po' con lui!
Nora si strinse nelle spalle, sospirò: e persuase il signor Galli che sarebbe stato tempo perso. Al Cantasirena occorreva la somma subito, sul momento. Che lei avesse ragione o torto, che lei fosse stata ingannata, raggirata non voleva dir nulla: aveva firmato, ed ora era compromessa: se voleva salvarsi, doveva pagare.
—Vendere…. non si potrà far altro.
—Sì! sì! Vendere!… Ma subito! Si troverà subito?
Nora, così dicendo, stava levandosi il cappellino: alcune ciocche sottili, dei fili d'oro rimanevano attaccati: alzò le braccia, sbrogliandoli…. mosse, snodò, rialzò la gran massa bionda scomposta, arruffata nel viaggio.
Il signor Galli abbassò il capo vivamente. Nella penombra del salotto—c'era una sola lucerna sotto una gran ventola rossa e nera—era stato colpito da tutto quel color biondo e da un'ondata calda, odorosa.
Nora, lentamente, cominciò a sbottonarsi l'ulster, poi si tolse dal collo il fazzoletto bianco di foulard.—Il signor Galli non la guardava…. ma si sentiva agitato, inquieto.
Essa gli tornò vicino: lo fissò, si alzò in punta di piedi per parlargli all'orecchio:
—Come ci riesce quell'uomo!…
—Chi?
—Il Kloss!…
—Riesce…. a cosa?—-balbettò il Galli colla voce alterata.
—Che cosa importa al Kloss della Cisalpina, del signor Cantasirena, di mio marito!… È per me.
Al signor Galli uscì dalla gola un suono inarticolato: una parola strozzata che parve un singulto. Lo aveva già pensato, lo pensava anch'egli con una certezza tormentosa. Era per lei! Era per lei! Era lei che egli voleva!
—Signora duchessa…. signora duchessa…. si guardi da quell'uomo,—e soggiunse, giungendo le mani,—se ne guardi per carità! Per carità! Per amor di Dio!
Nora indovinò; indovinò, lesse nell'occhio cerulo e buono l'ingenuo terrore, l'orrore, le ansie più profonde, più nascoste, tutto il turbamento di quell'anima, di quell'uomo.
—Sì! Sì!—bisbigliò torcendosi le mani nervosamente, con un atto che esprimeva lo spasimo, lo strazio più atroce, il ribrezzo, e insieme una desolata attitudine di vinta:—Sì! Sì! Il Kloss! Non lo fa soltanto per vendicarsi degli altri!… Non lo fa contro gli altri! È per me! È per me!
Il signor Galli trasalì: alzò i pugni chiusi con un atto terribile di minaccia.
Nora ebbe un nuovo scoppio di lacrime: ma questa volta non erano più le lacrime, non era il dolore della bambina. Era la disperazione della donna.
—Oh, lei! lei!—esclamò, nascondendosi gli occhi, il viso colle mani, con un senso di orrore.—Lei! lei! Lo avrà aiutato anche lei, quell'uomo!…
—Io?!—urlò il signor Ambrogio, ansante, con uno schianto, e ancora coi pugni chiusi, formidabili, e si rizzò più alto, più pallido, più terribile.—Io?!…
Nora, spaventata, chinò il capo, si scostò istintivamente.
—Senza nessuna sua colpa! Senza saperlo!… Lo ha aiutato quell'uomo quando mi ha dato il consiglio…. mi ha spinta…. a rivolgermi…. a ricorrere a…. al Cantasirena. Perchè non mi ha consigliato ciò che veramente avrei dovuto fare? Che mi avrebbe salvata? Salvata! Perchè non mi ha consigliata, non mi ha costretta ad accettare le proposte del signor Vigliani, i consigli del Vigliani? Se me lo avesse detto lei, oh, da lei avrei tutto accettato! Tutto, tutto!—E sarei salva!
—Ha ragione! Ha ragione!… La signora duchessa ha ragione!… Sono stato io…. io…. io! Ha ragione, ha ragione!…—e il pover'uomo, tremante, sconvolto, si umiliava dinanzi a Nora, implorava il suo perdono.—È vero! È vero!… È mia la colpa! Tutta mia!
Nora lo tranquillò. Lo consolò. Fu lei che gli domandò scusa, cercandogli, stringendogli, accarezzandogli le mani.
Era una parola sfuggita in un momento di pazzia; il signor Galli aveva fatto tutto a fin di bene.
—Basta che mi perdoni, e non mi lasci sola…. non mi abbandoni!… Sola, che cosa potrei fare? Allora sì, dovrebbe avere un rimorso, un gran rimorso…. se mi lasciasse sola!
—No!… No!… Mai!
Il signor Galli accasciato, affranto, si era seduto. Nora si era appoggiata alla sua poltrona: essa aspettava, aspettava che parlasse, che le rispondesse, che le dicesse che cosa doveva fare;…. aspettava.
Il signor Galli si asciugò gli occhi col palmo della mano, si raccolse, si sforzò, finchè l'uomo serio, grave, riprese il sopravvento.
—Dall'oggi al domani, pensare a poter vendere il palazzo, la villa, è impossibile. Bisogna cercare di ripigliare le pratiche già iniziate dal signor Vigliani…. oppure intavolarne di nuove, ma ci vuol tempo.
La guardò, la fissò gravemente…. poi, con tristezza, fissò le buccole.
—I miei brillanti!—esclamò Nora, alzando vivamente le due mani alle orecchie come per difendere quelle gemme. Ma poi, subito, gli rispose docile, rassegnata:—Tutto, tutto ciò che vuole!—E gli disse che aveva portato apposta con sè da Casalbara tutti i suoi gioielli e che c'era anche l'argenteria.
—Pur troppo, come le ho detto altre volte, il vendere gli oggetti preziosi, è sempre un cattivo affare; ma, ora, in questo momento, non abbiamo da scegliere: se il ricavo non sarà sufficiente, per quindici, per ventimila lire potrà bastare forse anche la mia garanzia….
E il signor Ambrogio non parlò più che di affari. La mattina dopo sarebbe andato da un suo amico, un orefice, il Gatti, un galantuomo, un uomo segreto; si sarebbe consigliato con lui: intanto la signora duchessa doveva farsi coraggio, tranquillarsi…. procurar di dormire.
—Verrà presto domattina?
—Subito, appena avrò parlato coll'orefice.
Nora lo accompagnò lei stessa fino all'anticamera, rischiarata soltanto da una lucerna fioca, bassa.
Anche lì, diritta, in piedi, appoggiata all'uscio, prima di lasciarlo aprire dal Galli, gli prese la mano, gliela strinse dolcemente, dolcemente premendola sul suo petto tepido, sotto la camicetta di battista. Ne' suoi occhi, fissando tacita il signor Galli, passò ancora un lampo: era il pensiero, lo sgomento del Kloss: ma poi tornò a sorridere con tutto l'abbandono, con tutta la fede, con tutta la sicurezza.
—Ha una figliuola da salvare….
L'altro la fissò immalinconito, scrollando il capo…. Non aveva inteso.
Nora girò attorno gli occhi inquieta, sospettosa: lì, nell'anticamera, non poteva parlare tanto forte come nel salotto. Il signor Ambrogio abbassò il capo, essa si alzò ancora in punta di piedi, e gli ripetè nell'orecchio, proprio nell'orecchio, colle parole lunghe, chiare, avvolte nel caldo profumo del suo alito:
—Ha una figliuola sua, da salvare…. Mi salverà?… Mi salverà?
Il Galli si scostò rabbrividendo; egli pure in quell'attimo aveva intravveduto il Kloss, gli occhi del Kloss, il ghigno del Kloss.
E siccome Nora lo interrogava colle pupille ansiose, egli balbettò:
—A servir le canaglie…. le canaglie…. si può prestar la mano alle più turpi canagliate…. alle più turpi canagliate…. Signora!… Signora!… quanto mi sento colpevole verso di lei! Colpevole!…
Se ne andò. Fece la strada più solitaria e più lunga per tornar a casa. La notte era nuvolosa, soffiava un ventaccio umido, freddo; ma il signor Galli camminava a testa scoperta…. sempre col cappello in mano.
—Che hai? Ti senti male?—gli domandò sua moglie quando lo vide comparire pallido, stravolto.
Essa lo aspettava sempre alzata, nella prima cameretta, dopo la piccola cucina; aspettava il marito lì, tutte le sere, lavorando vicino al letto dove dormiva lei sola, col suo bambino.
—Ti senti male?—gli domandò ancora, a voce più alta, perchè l'altro l'aveva guardata e aveva aperta la bocca senza rispondere: non aveva capito.
E rimase muto, immobile, ritto in piedi, finchè la moglie adagio gli ebbe accesa la candela.
Prese il lume, lo guardò aspettando che fosse bene acceso, poi bisbigliò:
—A servir le canaglie si può prestar la mano alle più turpi canagliate….—E rimase lì, ancora immobile, a guardare la fiamma della candela che diventava più chiara, più viva.
La signora Galli amava suo marito di un affetto che era adorazione, devozione; il suo rispetto era profondo, com'era profonda e nobile la sua riconoscenza: quell'uomo che l'aveva sposata colpevole, che aveva dato un nome al suo bambino, quell'uomo giusto, onesto, grande, generoso, era per lei come un Dio impeccabile. E per questo senso di rispetto, la signora Galli era timida con suo marito. Quella sera non era punto tranquilla dopo la risposta avuta, ma non osò ripetere la domanda. Soltanto, quando vide che egli stava per allontanarsi, gli porse la fronte, per ricevere il solito bacio che le dava tutte le sere colla buona notte.
Il signor Galli non avvertì quell'atto, non udì la voce affettuosa, il saluto della moglie…. si avviò nella sua stanza, sempre assorto, fissando la fiamma del lume.
Quando passò dinanzi al letto, il bimbo addormentato si agitò, si voltò, stese le piccole braccia; anche nel sonno il bambino era abituato a ricevere quel grosso bacio paterno pieno d'amore, ch'era una protezione e una benedizione.
Il signor Galli entrò in camera sua…. ma non si ricordò del bambino.
Corse in fretta la mamma a baciarlo e ricoprirlo, poi ansiosa rimase in ascolto vicino all'uscio: suo marito non si moveva, non si svestiva ancora: essa non udì che un sospiro lungo, profondo.
Il signor Galli…. pensava alla duchessa. Pensava quanto era stato imprudente, colpevole verso di lei…. pensava rabbrividendo che forse era stato lui a darla nelle mani del Kloss!…
—Questo mai! Questo mai!… Non sarà mai!
Tutta notte fu un orgasmo, un'oppressione.
Non gli era più possibile immaginare la duchessa sola. E la vedeva viva, scolpita…. come gli era apparsa alla stazione…. poi quando si era levato il cappellino…. poi il foulard…. e poi diritta, appoggiata all'uscio, disfatta dal dolore, dalle lacrime, dalla stanchezza…. E vedeva il Kloss, nel suo studio, buttato sul suo sofà che ghignava.
La mattina si alzò prestissimo; attraversò l'altra camera in punta di piedi…. si fermò un istante, ascoltò il respiro di sua moglie, e quello del bambino. Uscì senza svegliarli, e andò difilato al caffè Carini, dove il signor Gatti si recava sempre la mattina presto, prima di aprir bottega, a bere il caffè.
Era troppo presto; dovette aspettare più di un'ora: ma poi l'orefice venne. Il Galli gli lasciò prendere il suo caffè, poi gli raccomandò il segreto e gli disse di che cosa si trattava.
Conclusero che l'orefice sarebbe andato dalla duchessa di Casalbara quella mattina stessa, prima di mezzogiorno.
Il signor Galli gli fece un biglietto di presentazione, tirò in lungo un'oretta, poi si recò ad avvertire la duchessa. Era presto, forse; se dormiva ancora sarebbe ritornato.
La Vittorina gli disse che la signora duchessa era ancora a letto, ma che aveva dato ordine di farlo passare.
Il signor Ambrogio si sentì serrar la gola: seguì la Vittorina inciampando nei tappeti. Quando fu nello spogliatoio e vide ancora buttati sulle seggiole i vestiti, la camicetta che Nora indossava la sera innanzi, si fermò risoluto.
—Tornerò,—disse alla Vittorina.
—Venga, venga, signor Galli!
Era la duchessa che lo chiamava.
Ma il signor Galli non si mosse.
La Vittorina teneva aperto l'uscio e sorrideva….
—Venga! Venga, signor Galli!
Egli entrò, ma rimase immobile, vicino all'uscio che la Vittorina andandosene aveva richiuso. Non poteva fare un passo: quella cameretta piccola, elegante, calda come una serra, era troppo piena di lei, del suo tepore odorante, della sua bellezza, della sua giovinezza, dei suoi capelli biondi. Egli non poteva muoversi; osava appena respirare…. l'aria stessa era così piena di lei…. era lei…. respirava lei in quella camera…. Lei che egli sentiva, ma non vedeva…. Vedeva, invece, le piccole babbucce vicino al letto, basso come un divano;… sulla poltroncina accanto una camicia bianca, ancora ripiegata, lieve come un soffio di trine, con un nastro rosa nel mezzo. E trasalì: la faccia odiosa del Kloss, il ghigno del Kloss, il Kloss sudicio, sfacciato, prepotente, gli apparve, saltellante, sghignazzante, come un padrone, in quella cameretta tepida, odorosa.
—Venga!… Venga!…
Nora ritta, seduta sul letto, gli stendeva la mano.
Il signor Ambrogio non vide che una massa di capelli biondi, il casacchino rosa…. e chinò gli occhi…. Vide la piccola mano tesa verso di lui…. la toccò…. e subito si ritrasse.
—È forse un po' indisposta la signora…. duchessa?
—No…. ma sono stanca…. stanca…. tanto stanca….—
Si allungò, si distese nel letto con un sospiro, un fremito di delizia. Poi di nuovo, d'un tratto si rizzò a sedere, mentre l'onda dei capelli che le cadevano sulla fronte, sulle spalle, andava, veniva, si agitava fantasticamente sull'origliere, sul guanciale bianco, sul casacchino rosa….
A capo chino, cogli occhi bassi, fuggenti, il signor Ambrogio vedeva sempre tutto quel biondo, come vedeva sempre il Kloss.
—E il suo amico?…
Il signor Galli scosse il testone intronato per indicare che non aveva capito.
—Venga più vicino!—e lo chiamò anche colla mano, mentre con quell'atto rapido, il braccio nudo appari nelle maniche ampie, trasparenti.
Il signor Galli fece un altro passo.
—Venga più vicino,—gli ripetè Nora colla bella voce chiara, alta. Poi, quando l'altro le fu accanto, essa, appoggiandosi colle due mani sul letto, si rizzò sorridendo, e colla testa facendogli segno di abbassarsi, gli disse all'orecchio:
—Di là, c'è la Vittorina: non posso gridare tanto forte: non voglio farmi sentire!
Il signor Galli rispose che aveva capito; che aveva ragione.
—Ha parlato col suo amico? l'orefice?
—Sì, signora…. duchessa. Sarà qui prima del mezzogiorno.
—Va bene: allora per il mezzogiorno sarò alzata.
Il signor Galli sorrise: era contento che si alzasse…. mille inquietudini strane, intime, mille agitazioni dei nervi, del sangue, si acquetavano a quell'idea: erano svanite: essa si alzava!… Nessun altro l'avrebbe veduta lì…. così bionda nella casacca rosa, lì nel suo letto! Si alzava!… E la sua contentezza si faceva più viva e rideva.
Allora le raccontò minutamente dove era andato a cercare l'orefice, tutti i discorsi che avevano fatto, e la promessa avuta, del massimo segreto.
—Non dubiti, signora duchessa. Ha da fare con un galantuomo…. come me.
—Oh lei!… lei!…—gli disse Nora tornando a rizzarsi sulle due mani….—Lei è più di un galantuomo,—e gli fece cenno di abbassarsi.—Lei è il babbo!
Il signor Galli sentì le labbra che si chiudevano e si schiudevano così dolcemente nel dire "babbo." ….—È il babbo buono che mi salva!
Poi, a un tratto, si voltò: prese dal piccolo panchettino, accanto al letto, vari astucci e li distese sulla coperta ricamata: in quell'atto le spalle scomparvero sotto la massa bionda.
—Guardi un po': basteranno?
Glieli mostrò tutti, sospirando: si provò un'ultima volta le sue perle, scotendo fortemente il capo nell'annodarle, per allontanare i capelli.
—Basteranno?
In quel punto entrò la Vittorina con un dispaccio.
—Dio!… Dio! Dio!… Cosa sarà?
Nora, si allontanò i capelli dalla fronte per poter leggere: la
Vittorina, prima di uscire, schiuse un po' la finestra.
—Dio, Dio, cosa sarà?
Era un dispaccio di Matteo Cantasirena da Primarole. "Disordini gravissimi. Urge assolutamente. Regolati."
—Dio! Dio! Basteranno?…—domandò Nora agitatissima, angosciata…. e sempre ritta coi pugni affondati nelle coltri, fissò sul signor Galli que' suoi occhi interrogatori e supplichevoli, nei quali luccicavano le lacrime.
Il signor Galli tremò: ebbe paura di quelle lacrime in quel momento: paura di sè stesso se l'avesse vista piangere in quel momento.
—Non pianga!—le disse con un tono di comando, risoluto, aspro.—Se non basteranno…. provvederemo…. procurerò io…. come le ho detto ieri sera…. purchè,—anch'io è un debito che dovrò fare—purchè ella mi autorizzi a vendere, e a tutti quei provvedimenti che crederò necessari.
—Tutto, tutto! Non sono la sua figliuola?… la figliuola sua?…
—Allora…. tornerò dopo che sarà venuto il Gatti: adesso vado, devo andare. Mi lasci andare!
—Non va a Torino, nevvero?—E Nora, con un piccolo grido, si rizzò di più sul letto, spaventata. Il Signor Galli rivide ancora gli occhi supplichevoli, atterriti, luccicanti di lacrime, che non voleva più vedere…. che non doveva più vedere.
—No…. non andrò a Torino altro che stasera…. dopo…. quando avremo accomodato tutto, e lei sarà più tranquilla.
—Dove va? Dove va? Dove deve andare? Queste parole eran dette in un tono così sommesso che il signor Galli non le poteva capire, ma le indovinava dal moto delle labbra.
—Devo andare… alla banca.
Nora ebbe un lampo: tremò. Se il Galli parlava col Kloss, tutto era perduto!… Ma non avrebbe parlato!…
—Alla banca!—esclamò, con un fremito, con un brivido di orrore, e ancora chiamò il signor Galli vicino, più vicino….
Egli si chinò, diventando pallido.
Mentre Nora gli parlava all'orecchio, e gli parlava del Kloss "di quell'uomo" e lo supplicava di non dir niente "a quell'uomo" per carità! per carità! di non dirgli ch'essa era tornata da Casalbara, che era a Milano, sola, le si era aperto il casacchino rosa, le si era aperta la camicia bianca di battista, ed era riapparsa a un tratto la piccola catenella d'oro che si moveva, si abbassava, si rialzava….
—Il Kloss certo, vorrebbe venire da me! Vorrebbe parlarmi!
—No!…—Il Galli trasalì. Quel—no—era stato un grido rauco, un urlo represso, soffocato, di orrore, di terrore.
—Vorrebbe vedermi, ad ogni costo.
—No: non lo riceva! Mai! Mai!
Nora guardò il signor Galli…. Sorrise—aveva capito.
—Non devo riceverlo il Kloss?…—Era la bimba ingenua che scherzava…. ma Dio! Dio! perchè scherzava con quel nome?
—No… non si fidi!
Essa si riadagiò, si distese nel letto, mollemente.
—Nè il Kloss, nè nessuno?
—Nessuno! Nessuno!
—Soltanto l'orefice?
—Sì, soltanto il Gatti. Non si dimentichi il nome! Gatti…. Giuseppe
Gatti. E poi deve presentarsi con un mio biglietto.
Nora sorrise ancora, e, come per tranquillarlo, per accontentarlo, per consolarlo, gli disse forte, stringendogli la mano… scherzando nel tenergli stretta la mano, dimenandogli il braccio:
—Ebbene… lo dica lei stesso alla Vittorina e a Teodoro di non lasciar passare nessuno… soltanto il signor Gatti… un signore che verrà con un suo biglietto.
—Sì!… Sì!…
—Glielo spieghi bene…. Soltanto un signore che verrà con un suo biglietto, verso il mezzogiorno.
—Sì… Sì….
—E lei?… Quando?…
—Verso le due….
—Non può prima?… No?… No?
Il signor Galli entrò alla banca pallido, sconvolto.
—Come? Niente partisse per Turin, stamattina?
—Parto alle quattro,—gli rispose il procuratore, sgarbatamente, voltandogli le spalle.
—E la liquitazion cont l'Insubria?
—Vado adesso.—E presa la busta grossa di pelle, vi mise dentro molte carte e il libro dei chéques.
—Cuanti tisortini a Primarol! Carnefalata finisce a legnat!
—Come lo sa, lei?—gli domandò il signor Galli, voltandosi di colpo, fissandolo.
—Un dispaccio dell'Italia. Chiamato rinforzo truppa—disordini gravi, feriti.
Il signor Galli cercò subito il giornale, lesse il dispaccio ansiosamente, febbrilmente.—Bisognava provvedere subito! subito! subito!
Il Kloss, si fregò le mani, con un saltetto.
—Grande carnefalata stà per finir….—Poi si avvicinò al signor Ambrogio e tirandogli un bottone dell'abito gli disse con una cert'aria di mistero:
—G'hoo i mè itei, i mè progett, i mè reson. Quand mi volessi una cosa, mi arrivassi sempre al mio scopo. Occi o toman verrà certo a Milano, cuella matama in cerca te tanée. Se la scrive a lei de folerti parlar, lei, signor Galli, lavarsene i man: risponder niente—non farsi fetere. Ma supito afertime mì…. e cito con tutti! G'hoo i mè itei, i me progett, i mè reson.—E sghignazzando e scherzando, concluse che alla pellissima catta, appunto in quei giorni, aveva finito di tagliar le unghie.
Il signor Galli lo guardò stranamente e se ne andò senza salutarlo.
—E il danaro?—pensava, continuava a pensare lungo la strada, poi alla banca, facendo delle somme che non gli riuscivano mai,—e il denaro dev'essere soltanto di pochi, deve essere di costoro! E deve servire a simili canagliate! Che canaglia!… Che sfacciato!… Che canaglia!… Ma che cosa pensa di me?… Che cosa crede di me? Crede di avermi comperato? Crede che io sia il suo mezzano?… Buffone! Io sono un galantuomo e un uomo libero…. padrone di me, del fatto mio, della mia volontà…. della mia firma! Appena torno da Torino, le mie dimissioni! Un tozzo di pane, per me, lo troverò dapertutto.—E in quel momento, non si ricordò della moglie nè del bambino. Pensava invece al signor Gatti.
—È un galantuomo; ma si sa…. i gioielli, a venderli, perdono assai del loro valore…. povera signora!—E sospirò profondamente.
Il signor Galli, che conosceva tante miserie umane, il cui animo generoso, onesto, nobile, era rimasto contristato e atterrito da tante miserie umane, sospirava allora per quella povera signora, così buona, così affabile e tanto disgraziata, la quale doveva rinunciare ai suoi brillanti, alle sue perle, alle perle che essa si annodava con tanto amore e con tanta grazia, scotendo la testa, per allontanare i capelli biondi….
E il Kloss la voleva! Il Kloss! Il Kloss! Il Kloss!
Che ingiustizia, che iniquità!—Il denaro in mano a pochi, in mano alle canaglie!
Non sapeva più quello che si facesse. Era un'aberrazione che diventava una demenza; un'aberrazione del sangue che gli accendeva la fantasia. Doveva salvarla! Doveva salvare quella donna che lui stesso aveva consigliata male, che lui stesso aveva messo nelle mani di quel satiro!… Di quel satiro che rubava i danari per rubare le donne! Come le leggi erano assurde, inique! Come la giustizia era falsa, come era tempo di rifarlo il mondo, tutto il mondo!
Era contento il signor Kloss! Ghignava! Credeva già di essere riuscito!
Che infame!… Che ingiustizia! Tutto per il danaro! La gioventù di quella donna, il suo cuore, il suo ribrezzo…. tutto per il danaro, per un pugno di danaro….
Che ingiustizia! Che grande ingiustizia!
Crede di aver vinto! Di averla nelle mani!… Come l'altra! la poveretta, che dopo, per la vergogna, per il ribrezzo, per l'orrore, per lo schifo…. si è buttata dalla finestra!
E rivedeva Nora…. i capelli biondi…. la casacca rosa…. la piccola catenella d'oro nascosta sotto la battista…. Sentiva quel profumo…. rivedeva quelle vesti sparse sulle sedie dello spogliatoio.
E l'avrebbe lasciata a quell'uomo, abbandonata a quell'uomo…. come l'altra…. che si era buttata dalla finestra?
Ma che cosa aveva fatto…. che cosa aveva fatto quell'uomo, quel mostro a quella povera ragazza per spingerla così alla disperazione…. a voler morire subito dopo?… A buttarsi dalla finestra?
Nora lo aspettava nel salottino della sera innanzi; appena lo vide entrare gli corse incontro disperata.
—L'orefice, per un affare così, sul momento, non può dare più di venticinque o trentamila lire!… E da Primarole m'hanno telegrafato ancora; vogliono tutto per domani!
Il signor Galli barcollò, non disse una parola.
Nora si nascose il viso fra le palme con un atto di orrore, poi gli domandò, pallida, risoluta:
—Il Kloss…. è qui?
—Sì.
—Gli dica di venir subito. Bisogna che gli parli. È l'amico di mio marito, mi salverà.
—No, no! Lei non vedrà quell'uomo!…
—Vuole che io sia trascinata in mezzo agli scandali? In un processo?
—No…. Lei non lo vedrà, non gli parlerà.
—Devo farlo!… Devo farlo!… Non è più possibile lottare…. Non è più possibile.
Il signor Galli la fissò, le labbra mute, contratte, il volto livido, di un pallor tragico.
—Le ho detto…. signora…. Io posso….
Non parlò, non potè più parlare;… prese il libro dei chéques dalla busta e ne firmò due in fretta, poi li consegnò alla duchessa.
—Sono all'ordine del signor Cantasirena. Domani, quando vuole, può mandare alla Banca Insubria a riscuotere la somma.
Nora prese i due chéques con un tremito e li guardò cogli occhi maravigliati, nei quali brillava un lampo di avidità.
—Come?…—domandò con voce secca, disarmonica…. non più con la voce di prima, dalle calde modulazioni.—È certo?… Non mi faran poi…. nessuna difficoltà? Ha detto…. alla Banca Insubria, non è vero?
Il signor Galli ripeteva di sì, col capo. Ma l'agitazione, l'orgasmo, la demenza del pover uomo si erano dissipate a un tratto, scorgendo il lampo di quegli occhi astuti, notando il fremito ansioso di quella voce fredda, roca, quasi aspra.
—L'ho consigliata male,—balbettò nel bisogno immediato, supremo di trovare a sè stesso una scusa per ciò che aveva fatto.—Ero in dovere di rimediare….
E quando Nora, comprendendo, volle essere di nuovo dolce, tenera, allettatrice, non parve a lui che una commediante, falsa, tutta falsa!…—Una commediante!
Il signor Galli se ne andò in fretta. Voleva esser solo, solo, solo!
E quando fu solo, a poco a poco la verità penetrò nella sua mente, nel suo sangue, nella sua coscienza.
—Che cosa aveva fatto?…
Non pensò più che doveva recarsi a Torino, che doveva partire….—Continuò a camminare, a camminare….
La sera di ottobre calava fredda…. livida, tetra…. Il signor Galli continuava a camminare, a camminare nello squallore delle vie deserte, lungo il Naviglio…. Il Naviglio nero, sotto la luce smorta, dei primi lampioni…; a poco a poco egli era ritornato in sè…. La verità incalzante era con lui, correva con lui, fuggiva con lui…. la verità tremenda, eterna, che ingrandiva ad ogni passo, che non lo avrebbe lasciato mai più:
—Ladro!… Ladro!… Sono un ladro!
Francesco Kloss aveva prese le sue misure di precauzione, si era armato fino ai denti e ormai non aveva più paura di Matteo Cantasirena. Se questi avesse ricominciato a rompergli le scatole colle Risorse Italiche egli lo avrebbe fatto subito tacere, minacciando di rivelare le latrerie, le pirpanterie del Segretario generale della Cisalpina.
—Alla larca…. e cito!
Del resto, il Kloss non era uomo da perder tempo nè spender quattrini per vendicarsi; tirato in ballo nella conferenza, aveva fatto il morto; costretto a entrare nella Cisalpina ne aveva approfittato per fare il suo interesse. Corrompendo il Vergani, il Bizzarelli, il Brunetti, stanchi di farsi trappolare e rovinare da Matteo Cantasirena, era riuscito ad aver tanto in mano contro di lui da intimidirlo, ed occorrendo da poterglisi imporre. Ormai il suo piano era stabilito: costringere la Cisalpina a liquidare, e raccogliere quanto in essa, nel concetto fondamentale, svisato, alterato e reso fanfaronescamente ridicolo, poteva esserci ancora di serio e di utile.
Ecco quali erano le idee, i progetti, le ragioni di Francesco Kloss, per mandare all'aria la carnefalata.
—I mee itei, i mee procett, i mee rason…. erano di ammazzare la Cisalpina e sfruttarne il cadavere.
Il Kloss stava appunto organizzando un formidabile consorzio fra alcuni banchieri della Svizzera tedesca, già in stretti rapporti con lui; allo scopo di iniziare, valendosi in parte degli studi e delle idee della Navigazione Cisalpina, un nuovo sistema di trasporti nell'Alta Italia, meno caro delle strade ferrate e in concorrenza coi tram a vapore. Si trattava, cioè, di una fitta rete di piccole tramvie elettriche lungo gli stradali provinciali e comunali, ed il progetto si andava delineando, senza le ciarlatanerie del crante parpone crante pirpone, ma chiaro, sicuro, un vero affare maneggiato, manipolato dal Kloss e da gente del suo valore.
Provocare una diserzione, una defezione quasi generale nel campo della Cisalpina era stata cosa semplicissima. Il Vergani era stato adescato coll'offerta del completo addobbo delle carrozze elettriche, il Bizzarelli e il Brunetti conquisi dall'appalto degli stampati e dall'affidamento della pubblicità su tutta la linea: il Tolomei, che vedeva sfumare l'ultima rata di pagamento pel suo palazzo, non aveva esitato di cedere al Kloss il credito e le armi, tanto più che il Bonforti e il Ghirlanda, colpiti atrocemente dall'Italia, tartassati spietatamente dalla Durlindana, avevano smentita ogni politica alleanza con Cantasirena, ogni ingerenza nella Cisalpina…. e ciò quasi nello stesso tempo in cui Pio Calca ritirava la sua candidatura a Castellanzo. La rinunzia gli era stata imposta da soa mader, senza nemmeno volergliene dir le ragioni. Le ragioni essa le aveva confidate a monsignor Meneguzzi, monsignor Meneguzzi aveva approvato…. e basta.
E il Kloss, colle sue manovre, approfittava di tutto ciò per cospirare e intrigare ai danni della Cisalpina, finchè, con un tiro abilissimo, di rimbalzo, riuscì a colpirla nel cuore.
Moltissimi fra i poveri illusi che avevano impegnati, ipotecati i loro poderi, la loro terra, per diventare azionisti della Cisalpina, tentavano ad ogni costo di vendere quei titoli, quella carta, che li aveva rovinati; e allora fu il Kloss che fece l'incetta delle azioni, fu il Kloss che comperò quelle piccole proprietà—di sottomano s'intende—e furono i suoi agenti segreti che da quel giorno negarono recisamente alla Cisalpina di scavare un braccio di terra, di atterrare un pezzo di muro, di smuovere un mattone, neppure per tutto l'oro del mondo.
Facoltà di espropriazione forzata per la Cisalpina ancora non c'era: tutto il famoso progetto tecnico del Fontanella era incagliato, rovinava: e la maggioranza dei consiglieri, anche di quei consiglieri che non erano guidati dal Kloss nè da altri interessi, nè da mire particolari, stanchi, irritati, intimoriti, chiedevano, volevano, imponevano la fine dei lavori, una liquidazione immediata e possibilmente onorevole.
Matteo Cantasirena e il Fontanella, col solo rinforzo di Gesualdo Arcangeli—che mentre aspettava e sperava ancora di poter fare il monumento a Fara-Bon, faceva intanto (un soggetto meraviglioso per Dio!) il busto alla duchessa,—resistevano, tentavano di opporsi disperatamente, volevano che si continuasse ad ogni costo, perchè la "crisi" era artificiosa, perchè era una viltà il cedere di fronte a quei nemici, perchè v'era tutto l'interesse materiale a continuare, perchè la vittoria sarebbe stata certa, il risultato splendido, perchè il resistere era un dovere imposto dalla carità di patria, dal sentimento dell'umanità.
Liquidazione o fallimento, per Matteo Cantasirena e per il Fontanella erano tutt'uno: erano la rivelazione delle magagne e degli errori commessi in comune e da soli, erano la rivelazione di tutti i brogli e di tutti gli imbrogli da soli e in comune perpetrati, erano lo scandalo, erano la condanna. E Matteo Cantasirena aveva talvolta la visione netta e spaventosa della catastrofe incombente, ma a chi mai far capo per scongiurarla?…
Mariano Perego, da sei o sette giorni a Primarole, "respirava odore di polvere" e se non fosse stato l'irresistibile simpatia per quell'"inconscio vendicatore della perfidia ipocrita e assassina e della gretteria sociale" sarebbe rimasto a godersi, con una fregataccia di mani, quel nuovo capitombolo di tanti "bei galantuomini, pieni di onore!"
Il Perego colla faccia ancor più trista e sparuta per la barba da fare, ancor più sudicio e straccione per quei sei o sette giorni di campagna, scrollava il capo e mormorava tra sè:—La catastrofe, lo sfacelo è imminente, inevitabile!—E si portava il cordoncino del pince-nez dietro l'orecchio con un moto più nervoso del solito.
La defezione del Bizzarelli, del Brunetti, del Vergani, che costituivano un tempo la vecchia guardia del direttore, era stata impudente, sfacciata: prova certa che per lui, non c'erano più speranze.
Il conte Bobboli beì, da Parigi, dove stava per sposare una ballerina di quarant'anni, aveva mandate le proprie dimissioni, esplicite, da vice presidente della Cisalpina e da candidato al collegio di Primarole: prova certa che Matteo Cantasirena non incuteva più nessun timore….
Che cosa poteva fare Mariano Perego?… Nulla! Egli stesso lo capiva, ne conveniva, con un'alzata di spalle. L'incarico che gli era stato affidato dal direttore e dal Fontanella era troppo difficile e pericoloso, superiore anche alla leggendaria abilità d'intrigo del giornalista tollerato.
La Cisalpina andava sfasciandosi, e il colpo di grazia, dopo i colpi mortali del Kloss, le veniva dato da quella gente appunto, cui i sommi reggitori, ingolfati nei loro propri interessi, nei loro pasticci, non avevano mai pensato, o avevano pensato troppo poco e male.
Era la massa, cioè, degli operai, raccolti, arruolati, nei ceti più turbolenti ed infidi d'ogni paese, veri soldati di ventura e di sventura, rotti ai lavori più duri e più pericolosi, irritati dalle lunghe attese della paga, dai ripetuti inganni, dalle eterne cabale, dalla minacciata sospensione dei lavori; furibondi specialmente contro Matteo Cantasirena che li aveva per tanto tempo ubriacati di promesse e di declamazioni, contro il Fontanella, che mancava loro di parola, contro tutto il Consiglio d'amministrazione, che li lasciava senza lavoro…. Furibondi persino contro quel mite e buon Taddeo, che per ironia, per ischerno, chiamavano:—il gamba di legno—il Garibaldi—perchè nelle sue nuove funzioni di sorvegliante, portava lo zelo, l'instancabile attività del galantuomo, colla rigida inflessibilità del soldato, e perchè, "mangiando di quel pane", non voleva unirsi a dir male nè del colonnello, nè del Fontanella, nè di alcuno della Cisalpina.
Quando Matteo Cantasirena arrivò col primo treno, c'era ad aspettarlo soltanto il Perego. Questi non lo salutò nemmeno, non gli disse una parola e, cattivo segno, continuò a succiare il cordoncino unto degli occhiali.
—Cosa c'è di nuovo?—domandò Cantasirena, colpito. Il non vedersi accolto coll'espansione così necessaria alla sua indole, lo sconcertava.—Cosa c'è?
Mariano Perego tirò diritto senza rispondergli, continuando a succiare il cordoncino.
Matteo Cantasirena ansava.
—In questo momento in cui ho bisogno di tutto il mio coraggio, del coraggio di tutti i miei amici, non bisogna avvilirmi. Bisogna darmi la fede, la serenità.
—Altro che serenità!—rispose il Perego.—Son fulmini e saette!
Infilarono una stradicciuola umida e deserta, fra alte muraglie di orti e di giardini: volevano recarsi al "Palazzo dei Lavori" senza attraversare il paese.
—Altro che montare la dimostrazione perchè la Cisalpina continui i lavori! Sarà grazia di Dio se riusciremo a sventare la ribellione, la rivoluzione…. e a salvar la pelle! Sì, la pelle!—E lo dico io, che me ne intendo.—Il "quarto d'ora" è lo spirito del tempo: lei ha abusato del "quarto d'ora".
Mariano Perego, impettito, trovata la definizione, trovò anche il cordoncino da ricacciare dietro l'orecchio.
—Avremo la rivoluzione, una vera rivoluzione, una rivoluzione contro di lei, contro il Fontanella…. e magari anche contro il Kloss…. la rivoluzione di chi non ne ha, contro chi non gliene vuol dare, la rivoluzione dell'appetito. E se gli operai non riusciranno a mangiare, se non riusciranno ad avere il loro danaro, riusciranno a rompere la testa a qualcuno…. e lei guardi, per suo conto, di non esporre la sua.
—Siete sempre eccessivo!—borbottò il direttore che voleva riacquistare la propria autorità.
—Eccessivo?… No. L'avverto di stare in guardia. Rompere "qualche testa grossa", fare a pezzi gli sciacalli della Cisalpina, gli sfruttatori, i camorristi, i ladri della Cisalpina, ecco le loro espressioni!… Non invento: riferisco. Basta mettere i piedi in un'osteria…. e non si sente altro. Anche il Fontanella si comporta male: è un ingegnere, ma, non ha che chiacchiere: avrebbe dovuto fare l'avvocato. Non si va a far l'elegante, col sigaro d'avana in bocca, fra la gente che non sa come dar pane ai figliuoli, da tre settimane! È corsa voce della riunione di stamattina alla sede e forse….
Il Perego si fermò.
—Forse…. che cosa?…—domandò Cantasirena, prendendolo sotto braccio.
—Forse è per oggi….
—Per oggi?—e lo fissò interrogandolo coll'occhio inquieto.
—Fermatevi! fermatevi a Primarole tutta la giornata e me ne saprete dire la fine!
Erano giunti dinanzi al "Palazzo dei Lavori" e da una rapida occhiata, Matteo Cantasirena capì che le apprensioni dell'"egregio Perego" non erano nè infondate, nè esagerate.
Nella via, sulla porta, sotto l'atrio, crocchi di operai, colla pipa in bocca, l'aria ironica di sfida, le facce nere arse dal sole, burbanzose e minacciose: gruppi di braccianti più laceri, più estenuati; qua e là qualche donna, qualche ragazza, dall'occhio sfrontato.
In disparte, un gruppo di operai, più seri, più alti, più nerboruti, colle facce tonde, coi capelli e colle barbe biondastre: i tedeschi e gli svizzeri, che confabulavano fra di loro, sommessamente, in un gergo incomprensibile.
Cantasirena volle fare i soliti saluti colla mano, da buon camerata, ma non gli rispose che qualche ghigno. Allora riprese la sua maestosa imponenza: si fermò apposta sul portone a discorrere col Perego, che pareva impicciolirsi, e si ficcava il cordoncino dietro l'orecchio nervosamente, poi entrò nel palazzo.
Si sentivano grida di minaccia, di beffa, gli improperi più strani, nei diversi dialetti:
—Bagolon del luster!
—Vajana!
—Camorrista!
—Andâe là, pendin da forca!
A un tratto un sibilo acuto lacerò l'aria, echeggiò sotto l'atrio, e subito, irrompente, tutta una salva di sibili, di fischi.
—Il Fontanella!…—mormorava Matteo Cantasirena, salendo pallido su per la scala.—Avete ragione, amico mio,—il Fontanella, li ha disgustati, irritati, esasperati!
Sopra la cassapanca, unico mobile della vecchia anticamera aperta ai quattro venti, senza vetri alle finestre, vide dei soprabiti, dei cappelli. Erano le otto, e già nella sala della direzione v'era gente.
—Son venuti presto…. per congiurare, contro di me, prima della seduta!—bisbigliò Cantasirena, e invece di entrar subito in sala, andò in cerca di Taddeo, per informarsi degli intervenuti. Taddeum non c'era. Non c'era mai! Era proprio venuto a Primarole per godersi le vacanze, la campagna, gli ozî beati! E Matteo non ritrovò più nemmeno Mariano Perego: questi, invece di aspettarlo, era ridisceso, era sguisciato fuori, aveva attraversato i crocchi senza farsi notare, era scomparso. Gli pareva giunto il momento di valersi di una vecchia amicizia di polizia, rinnovata in quei giorni a Primarole…. per caso.
Cantasirena rimase un momento sull'uscio prima di entrare: avvicinò l'orecchio alla fessura, ma non si capiva niente di quello che dicevano. Si rizzò, si abbottonò il soprabito, si lisciò il barbone, ed entrò. Vide subito, seduti in crocchio che discorrevano fra di loro, il Vergani, il Bizzarelli, il Brunetti.
I tre lo salutarono, ma egli li guardò e non rispose; vide il marchese Tolomei, chino sopra un monte di registri, che andava sfogliando febbrilmente, e Cantasirena questa volta fu il primo a salutare colla mano, con ostentazione.
Poi andò diritto dal Fontanella; lo trasse in disparte, presso la finestra, e gli parlò sottovoce.
—Andiamo male. Dei consiglieri, i nemici, i rompiscatole sono qui tutti.
—È certo che verrà deliberata la sospensione dei lavori e la convocazione dell'assemblea nei dieci giorni. Avete provvisto per le centocinquemila lire?
—Ci sono…. Ma vorrei fare un dispaccio….—rispose Matteo.
E fu allora che scrisse il dispaccio per la duchessa, colla notizia dei disordini a Primarole, e di nuovo chiese di Taddeo per mandarlo al telegrafo.
—Taddeo è fuori; verrà a momenti; passa le notti al deposito degli esplosivi: c'è tutto da temere, e occorre gente fidata, di coraggio.
—E l'Arcangeli?…—domandò Cantasirena al Fontanella.
—Non mancherà di certo. Il Laner piuttosto?…
—Doveva esser qui. Non è qui?
—No. Ma voi, di dove venite?
—Sono stato a tentare l'ultimo colpo col Bonforti e col Ghirlanda.
—E così?
—Pilato…. e Longino! L'uno se n'è lavato le mani; l'altro mi ha abbeverato di fiele!—Sospirò, poi s'irritò, pestò i piedi, e si rivolse arrogantemente al Tolomei:
—Siamo in numero!—Avanti chi tocca e incominciamo!
—La convocazione è per le nove,—rispose secco il Tolomei, e continuò a scartabellare i registri e a prendere appunti.
Un gruppo di consiglieri della Cisalpina comparve poco dopo, fermandosi sull'uscio, discutendo animatamente. Ma il gruppo, d'un tratto, fu sbaragliato, attraversato da Gesualdo Arcangeli; lo scultore entrò nella sala, col cappello in testa, la cravatta rossa, burbanzoso, minaccioso come se volesse fare a' pugni con tutto il mondo. Si avviò difilato verso il Cantasirena e il Fontanella, gridando con enfasi, stringendo loro le mani con gran forza:
—Pronti!… Pronto al comando!… E sempre amici!—in vita e in morte—per Dio!
Peccato!… Gridava per quattro, ma non poteva votare che per uno!
—E il Laner?—domandò l'Arcangeli, guardandosi attorno, arricciandosi i baffi, dimenandosi sui fianchi,—il nostro Pietro, Pietro il Grande, non c'è?
—Se non è venuto a quest'ora…. avrà avuto paura!…-bisbigliò il
Fontanella.—Un altro voto di meno!
Matteo Cantasirena, sempre più agitato, nervoso, alzò la voce:
—Dirò, col mio compianto amico…. il Belisario di Sebenico: "Agli alti monti la neve, alle anime generose la gelida sconoscenza!"—Fece alcuni passi infuriato, poi tornò vicino al Fontanella e all'Arcangeli, borbottando:—Anche quel falso trentino che mi diventa un…. tirolese! Quel giullare!—E ritornò ad alzare la voce, lanciando occhiatacce furibonde al gruppo del Vergani, del Bizzarelli, del Brunetti.—Tutti così! Tutti ingrati, gli ex morti di fame!… Un branco d'ingrati, tutta la gente messa al mondo da me!… Creata da me!…
Il Brunetti si alzò di colpo, rivoltandosi:
—Oh, è ora di finirla!… La finisca di fare…. il Domeneddio! Sissignore! Morti di fame, perchè la nostra parte…. l'ha mangiata lei!
Il Bizzarelli, il Vergani, gli altri, lo tiravano per la giacchetta: volevano farlo sedere, volevano farlo star zitto, ma non c'era verso.
—Lasciatemi parlare!—gridava il Brunetti più forte, più rosso, più in furia.—Lasciatemi parlare! Sono mesi e mesi che ingoio, che soffoco, che mi strozzo!—Sissignore!—Morti di fame, perchè abbiamo sempre avuto la debolezza di credere alle sue chiacchiere, a' suoi giuramenti, alle sue preghiere, alle sue lacrime! Morti di fame!—Sissignore!—Perchè non le abbiamo mai fatto scontare tutte le sue…. porcherie!
Matteo Cantasirena, che a questa sfuriata era rimasto turbato, interdetto, appena riprese fiato si rivolse al marchese Tolomei, ch'era salito al banco della presidenza e scampanellava per imporre il silenzio.
—Con questo tono…. con questa forma…. con questo linguaggio…. ogni discussione è impossibile: io rinuncio alla parola!
—Porcherie! Porcherie!—strillava il Brunetti,—e la colpa è sua se non posso usare un termine più pulito!
—Finiamola!—esclamò Matteo Cantasirena, pallido, smorto. Ma poi, subito, riprese il sopravvento, rivolgendosi ancora al Tolomei:—In questo luogo è soltanto all'autorità del nostro egregio Presidente che io posso…. che io devo rivolgermi…. per farmi rispettare!—e sedette maestoso, sdegnoso, voltando le spalle "a quel malcreato".
—La prego, signor Brunetti,—gridò a sua volta il Tolomei,—faccia silenzio!… Le sue ragioni….. i suoi risentimenti….—ma non gli venne la frase e finì, pestando un piede sotto il tavolo, e scampanellando furiosamente.—Avrà tempo di sfogarsi fuori di qui!
—Ssst! Silenzio!—sibilò, urlò l'Arcangeli.—Silenzio! Per Iddio!
Il Brunetti circondato, tirato giù dai suoi amici, fu costretto a sedere e a tacere.
Il presidente, dopo un'ultima suonata di campanello, dichiarò aperta la seduta. L'ordine del giorno recava per primo:
"Discussione del bilancio consuntivo da presentarsi all'Assemblea dei soci azionisti."
—Domando la parola per una semplice dichiarazione,—esclamò Matteo Cantasirena, alzandosi in piedi ancora pallidissimo e colla voce alterata.
Egli non poteva restare sotto il peso di quella sfuriata del Brunetti, nè voleva lasciare i suoi colleghi del consiglio; sotto un'impressione per lui tanto sfavorevole. Bisognava distrarla, commuoverla, tutta quella gente!…
—Prima d'incominciare una discussione che sarà eccezionalmente appassionata e accalorata, trovandosi in giuoco non solo gli interessi più vitali di una grande impresa, ma la vitalità stessa di una grande idea, consentitemi, signori, colleghi…. amici…. consentite al grande colpevole…. ed al grande espiatore, una breve dichiarazione. Non voglio difendermi: voglio accusarmi. Vi dichiaro di accettare preventivamente la piena responsabilità di tutti gli errori….—e soggiunse sorridendo,—e degli errori di tutti!
Sorrise a questo punto anche il Fontanella, sorrise qualche altro; l'Arcangeli applaudì: Matteo Cantasirena era a posto.
—Sì: devono ricadere sul mio capo tutti gli errori della Cisalpina! Sì: ho grandemente errato e non aggiungo, perchè non voglio giustificarmi, ho grandemente amato!—Signori, colleghi: la discussione odierna dev'essere accanita, spietata come una requisitoria: dev'essere esauriente come un giudizio…. inappellabile. Non vi domando nessuna indulgenza, nessun riguardo, nessun rispetto per me, per i miei precedenti, per il mio passato, per i sacrifici compiuti: il noli me tangere è indegno di un vecchio soldato.—Chi sta dinanzi a voi è un colpevole? Condannatelo!—Soltanto ricordo questo: di tutto il programma della Cisalpina, uscito più dal cuore entusiasta che dalla ragione moderatrice, ricordo questo:—una promessa:—lavoro e pane per i nostri operai. E se il vostro cuore è chiuso ad ogni mia preghiera, dirò alla vostra ragione: Signori; è la prudenza che v'impone di non dimenticare la sacra promessa: lavoro e pane. Non vi domando altro, non vi domando niente, non voglio pietà per me: nè pietà, nè indulgenza…. nè giustizia! Imponetemi qualunque sacrificio; imponetemi di dimettermi, io vi risponderò con una parola che risuonò generosa…. magnanima per tutto il mondo, nel giorno, non lontano, di un'altra sconfitta—una sconfitta—ricordatelo—che fu più feconda e più gloriosa di una vittoria: Obbedisco!
E Matteo Cantasirena si lasciò cadere sopra la sedia, colla voce rotta da un singhiozzo.
Giù, nel piazzale, lungo le vie, cresceva intanto la folla e cresceva il fermento.
Era corsa una parola d'ordine la sera innanzi, fra gli operai, per raccogliersi tutti lì sotto le finestre della Direzione? Per suonar la monfrina, finchè i Consiglieri—i margniffoni, le vajane,—come li chiamavano, tenevan seduta?… Nessuno, nemmeno Mariano Perego avrebbe potuto assicurarlo.
Dalla folla si levava di tanto in tanto, qua e là, un fischio, un'urlata, una bestemmia diretta al finestrone della gran sala delle sedute. Quando la parolaccia risuonava più esotica, più strana, più lurida, in quella confusione di dialetti, scoppiavano applausi frenetici. Poi c'era chi imponeva silenzio: volevano sentire che cosa dicevano di sopra le canaje, i lustrissimi, ma non potevano sentir niente; soltanto udirono la voce stentorea di Matteo, quando gridava: Pane e lavoro!
—Coppett!—rispose uno della folla.
Poi un altro:
—Va in malora!
Un consigliere in ritardo, attraversò la piazza per recarsi alla seduta: i sibili isolati diventarono una salva scrosciante di fischi…. e con quella musica fu accompagnato e scappò dentro nel gran portone del palazzo.
Ma a poco a poco cessarono le sghignazzate, i motteggi, le beffe; la chiassata diventava una sollevazione.
Tutta quella gente, misera e lacera a un modo, e che serbava nondimeno le caratteristiche delle varie regioni, nell'aspetto e nel linguaggio, univa la voce in un sol rombo cupo, di livori e di ire.
Le donne e i ragazzi dei braccianti, dalle facce grinzose e sfinite, su cui la fatica lasciava un'impronta di patimenti, quasi di sevizie, stavan seduti per terra, lungo le muraglie, accosciati al sole, incitavano e aizzavano gli altri colle celie pungenti, colle risate amare.
Qua e là, qualche vecchio operaio, colla bluse stracciata, dalla quale appariva il petto villoso, squamoso, ischeletrito, qualche vecchio operaio, dal viso estenuato, solcato di rughe nere, profonde, cogli occhi riarsi, collo sguardo truce, sinistro, girava muto, tra la folla, come l'incarnazione, il simbolo di quell'odio represso, compresso, accumulato, che stava per prorompere.
D'un tratto, in mezzo al piazzale, fu un sospingersi, un urtarsi.
—Che c'è?… Chi è?…
—Ah, finalmente! Uno che parla! C'è uno che prende la direzione! È il
Carotti! Bravo! È il torinese!
Un giovane operaio, colla giacca e il viso puliti, i baffetti neri arricciolati, e l'occhio mobile, chiaro, fu portato quasi di peso, sopra una panca d'osteria.
—Evviva Carotti!
"Operai," cominciò l'oratore, "compagni! Siete voi organizzati, coscienti, avete un programma d'azione, come l'esercito dei proletari del Belgio, della Germania?"
—Va lavora!
Non era giornata buona per i rétori, nemmeno per i rétori in bluse.
—Fuori la paga! Vogliamo i nostri danari, il nostro sangue, o fuoco alla trappola!—gridò una voce.
—O la paga, o sulla forca le vajane!
—Sulla forca!—risposero cento voci.
—Sulla forca!—rispose tutta la folla.
Gli operai tedeschi, erano rimasti sempre in disparte, sempre in gruppo fra di loro, in un canto della piazza, sotto il portico della casa comunale.
All'improvviso, di colpo, uno di quei tedeschi, un gigante biondo e roseo, colla faccia tonda, ancora infantile, si staccò dai compagni, attraversò la piazza, spingendosi, facendosi largo tra la folla, colle gomitate, afferrò l'oratore per il petto, lo tirò giù dalla panca e scuotendolo forte, spingendolo, gli gridò sul viso, in cattivo italiano:
—Su, con noi, su da quei signori…. In commissione…. Su…. a finir l'affare!
—Bene! Bravo! Su! Su! Da quei ladri! Da quei sgonfioni!
Ma nel mentre i più rumorosi, i più sfegatati, fanno ressa attorno al Carotti e all'operaio tedesco, e discutono gesticolando per formare la commissione, dall'estremità del piazzale si odono urli, grida, strilli di donne spaventate: è un tafferuglio di chi viene a contesa, è un fuggi fuggi, un rimescolamento, un sommovimento di tutta quella massa eccitata, vogliosa, smaniosa, impaziente di menar le mani.
A un tratto, in mezzo alla folla spiccano i pennacchi rossi dei carabinieri: sono otto: otto bei giovanotti, cortesi, ma risoluti. Un signore col soprabito impolverato e gli occhiali azzurri, si è fatto avanti e parla forte, reciso: ordina ai carabinieri che sgombrino la piazza: dietro a lui, due o tre figure tarchiate, dalla faccia assonnacchiata, dall'aria intorpidita che si svegliano d'improvviso, si fanno violenti, si cacciano nel più fitto della calca, respingono ciecamente, confusamente, uomini, donne, quanti si paran loro dinanzi, senza parlare, senza guardare in faccia a nessuno.
—I carabinieri! Le guardie!
—Quello è il delegato!
—È venuto da Castellanzo!
—C'è stata la spia!
—Sulla forca la spia!
—A noi! A noi!
E dalla folla che si agita, che ribolle, che rumoreggia, ma che rimane compatta, che non indietreggia d'un passo, scoppia un'urlata, un'urlata sola, lunga, echeggiante, rimbombante, tremenda:
—Morte ai ladri! Viva la rivoluzione sociale!
Il delegato è diventato un po' pallido; stringe le labbra, si fa largo vivamente, fa un cenno quasi impercettibile e scopre la sciarpa. Uno dei questurini in borghese, trae di tasca la tromba ravvolta in un fazzoletto di colore, la svolge, l'appressa alle labbra…. echeggia uno squillo, ma in quell'attimo un pugno formidabile,—chi è stato?—non si sa! non s'è visto!—lo coglie sul capo, gli sforma il pioppino, glielo caccia giù fin sugli occhi…. La tromba gli cade di mano, egli cerca di difendersi. Allora è una pioggia improvvisa di pugni, una rissa accanita, furiosa, rabbiosa in mezzo alla calca: luccicano, sinistre, le canne brevi delle rivoltelle, si ode uno sparo: i più lontani, in fondo al piazzale, scappano, fuggono urlando, imprecando: invece lì nel mezzo si combatte corpo a corpo: è una lotta selvaggia! Tutt'intorno le grida si levano assordanti:—Morte alla spia! Chi ha chiamato la forza? Chi ha avvertito il delegato? Morte alla spia!—Canaja! Farfo! Giuda! sulla forca!…. sulla forca!…—E nel mezzo la lotta continua disperata, corpo a corpo, come un vortice, un gorgo rammulinante. Non si vogliono cedere gli arrestati. Si vuol impedire alle guardie, ai carabinieri di ammanettarli, di trascinarli in prigione. Si vuol strapparli, liberarli a viva forza.
—Fratelli! Vendichiamoci! Morte alla spia!—grida il Carotti preso, agguantato in mezzo ai carabinieri.
Un altro sparo, e un operaio getta un urlo, si preme la mano sulla fronte…. ne gocciola il sangue…. annaspa colle mani gemendo, ridendo con un ghigno sinistro.
—Il Francia! Il Francia! Hanno ammazzato il Francia!—Un altro urlo, un urlo di terrore, d'imprecazione, di morte, erompe dalla folla che si precipita contro il "Palazzo dei lavori". I carabinieri, le guardie, il delegato, hanno appena il tempo di occupare il portone, per resistere alla furia del popolo. Un carabiniere è colpito nel capo da una sassata…. impallidisce, barcolla…. ma si rimette in fila, fermo al suo posto, colla faccia insanguinata, colla rivoltella in pugno, puntata contro la folla. Il delegato si è fatto livido, ha perduto gli occhiali. Agguanta un ragazzotto pel petto, lo squassa furioso, lo scaglia addosso agli altri e grida con voce rauca:
—Indietro, o si fa fuoco!
I più vicini, i più esposti indietreggiano atterriti.
In quell'attimo ad uno degli sbocchi del piazzale ecco Taddeo: Taddeo, ritto in piedi sopra un'alta carrettella, immobile, attonito, dinanzi a quel tumulto. Aveva passata la notte di guardia alle polveri…. Vede i carabinieri, le rivoltelle puntate:
—Siete tutti ubriachi!—grida.—Siete tutti pazzi!… Volete farvi ammazzare!
—Il Garibaldi! Il gamba di legno!—gridano gli operai, indicandosi l'un l'altro il sorvegliante.
—Viene da Castellanzo!
—È stato il Garibaldi, il gamba di legno a chiamare il delegato, la forza!
Una parola sola, una parola sinistra serpeggia, corre, divampa fra quella moltitudine assetata di sangue, esaltata, esasperata contro i padroni, contro i ladri.
—La spia! La spia! La spia! Vendichiamo il Francia!
È un istante, la furia di un istante: la folla si precipita, Taddeo è afferrato da cento mani, rovesciato, atterrato: la gamba di legno rimane ritta, alta fra il turbinio, il rimescolamento, precipitoso delle teste, delle braccia, dei corpi…. poi scompare.
—Che succede laggiù?—domanda una delle guardie.
—Si picchiano tra di loro.
—Si ammazzassero tutti!—esclama il delegato.
Su nella gran sala del Consiglio, Matteo Cantasirena trionfava. Egli solo non aveva paura, perchè si sentiva innocente: erano il Tolomei; il Duranti, erano il Bizzarelli, il Brunetti, il Vergani, erano coloro che volevano imporre la ingiusta, la iniqua, la sciagurata sospensione dei lavori, i soli, i veri responsabili di quegli eccessi, di quei disordini.
Erano essi, gli affamatori, i mancatori di parola, i traditori del popolo!
—Sopra di voi, soltanto sopra di voi ricada la responsabilità di questa triste giornata!
Nessuno gli rispondeva: tutti uniti in fondo della sala, tremavano di veder la folla da un momento all'altro invader le scale, sfondare le porte, precipitare su di loro.
—Bisogna cedere,—bisbigliò il Fontanella pallido, livido, più degli altri.
—Cedere, per Dio!—ripetè Gesualdo Arcangeli, cogli occhi spiritati, ma senza voce.
Matteo Cantasirena trionfava, si eccitava nel suo stesso trionfo. Oh, lui non aveva paura del popolo, era sempre stato col popolo, aveva sempre combattuto per i diritti del popolo!
Salì al banco della presidenza, maestoso, solenne.
—Signori! Io non mi nascondo, io non diserto nel momento del pericolo. Dimentico le offese, le ingratitudini: vecchio soldato, rimango al mio posto!
Giù nella piazza, si udì un nuovo colpo di rivoltella, nuove grida di spavento, di minaccia, di morte.
—Cosa volete fare? Cosa si dove fare?—domandò a Cantasirena il
Tolomei stravolto.
—Parli, parli lei a quella marmaglia, presto!… Cerchi di calmarla!—si raccomandò il Brunetti.
—Avete decretato la sospensione dei lavori: bisogna ritornare sulla vostra deliberazione.
E Cantasirena corse al grande finestrone di mezzo, lo spalancò e gridò alla folla colla sua voce tonante:
—Pane e lavoro, domandate? Lo avrete. Proseguiranno i lavori: domattina avrete il saldo delle paghe! Io stesso, Matteo Cantasirena, ve ne sto garante. A domani! Viva l'Italia!
—La fame! La fame! Viva la fame!—rispose la moltitudine indignata.
—Ascoltatemi! Bravi operai! Ascoltate la parola di un amico…. di un fratello! Domani riceverete il saldo della paga! Anch'io sono un lavoratore come voi! La parola di un lavoratore è…. intemerata! Date la vostra fede a chi vi ha dato il cuore, la vita!… Rientrate nella calma!… Rientrate nella pace delle vostre case! Domani riceverete il saldo, e un'anticipazione sui lavori futuri. Chi ha combattuto, soldato del popolo, chi ha dato il sangue per la libertà, non è bugiardo col popolo!—Viva l'Italia!
—Viva la fame!…—ripetè l'urlo selvaggio, sarcastico, furibondo della folla. Fu una grandinata di sassi. I vetri caddero infranti, e un troncone, un mozziccone di legno piombò nella sala.
Cantasirena chiuse in fretta le griglie.
—Sono imbestialiti,—borbottò. Ma subito il suo occhio si fermò su quel pezzo di bastone lanciato su dalla piazza…. Dal grosso manico rotondo pendevano brandelli di panno…. pezzi di cinghia…. Lo raccolse…. si sentì la mano bagnata…. guardò…. era intrisa di sangue…. Trasalì, ebbe un tremito, gittò lontano il troncone, poi rimase immobile, sbigottito…. inorridito…. Era il mozziccone…. era la gamba di legno di Taddeo!
—A Casalbara! A Casalbara! Domani tutti a Casalbara!
Questa era stata la parola d'ordine dei dimostranti di Primarole. E l'indomani mattina albeggiava appena e già i carabinieri e le guardie in borghese comparivano qua e là nel piazzale, dinanzi alla villa del duca.
Piovigginava; tutta la borgata, dai tetti neri, uniformi, pareva più bassa, in quello squallore dilagante dell'ottobre bigio, nebbioso.
La villa sola, con tutte le finestre chiuse, s'innalzava più tetra, fra le macchie cupe degli abeti e le macchie giallognole degli ippocastani: l'acqua cadeva dalle gronde, crepitava sul selciato con un mormorio monotono, lugubre.
Qualche notizia dei fatti di Primarole era arrivata confusamente anche alla villa. Pietro Laner ne era rimasto colpito, ne era agitatissimo. Non aveva potuto dormire e si alzava allora col rimorso, il dolore di non essere stato il giorno innanzi a Primarole, alla seduta del Consiglio…. Ma non aveva potuto muoversi da Casalbara, tenuto lì, sorvegliato da Evelina, la quale aveva ripreso, a un tratto, tutti i suoi diritti.
Pietro Laner, inebriato, esaltato dall'amore di Nora, era ritornato poeta; quando Matteo Cantasirena gli ebbe accennato ai pericoli della Cisalpina, per le mene dei soliti nemici, e gli ebbe confidato che Eleonora non era corsa a Milano per la prova di certe toilettes, come gli aveva dato ad intendere, ma bensì a raccogliere armi e vettovaglie per la grande battaglia, Pietro Laner, il poeta dell'Invito, dell'Incanto, dell'Inganno, aveva avuto un impeto di entusiasmo e di gioia. Egli si sarebbe redento salvando quel nome e quella casa! Sarebbe corso a Primarole, avrebbe parlato e votato in favore della Cisalpina: avrebbe dato tutto sè stesso, la vita, e tutto quanto possedeva. Sì! anche il suo capitaletto, ancora le ventimila lire che gli bruciavano come un'onta!
Ruy Blas avrebbe salvato la regina…. ed il re!
Ma quest'impeto di poesia, d'amore e di sacrificio, non era punto condiviso dalla signora Laner. Evelina, anzi, stimava giunto il momento di aprir gli occhi, d'imporsi al marito, di ritornarsene a Crodarossa. Avrebbe scritto alle zie che la visita rimandata nell'estate, essi la facevano adesso, nell'autunno. Ci sarebbe stato un po' di fresco lassù…, ma poco male.
—Va tutto in rovina!… Bisogna scappare, salvarsi, e salvar la mia roba!…—mormorava la signora Laner fra sè.
Pietro, a Casalbara, aveva una camera accanto a quella di sua moglie. Anche il giorno innanzi si era alzato prestissimo, per recarsi a Primarole e concertarsi col Fontanella e coll'Arcangeli, prima della seduta del Consiglio. Anche il giorno innanzi si era vestito piano, ancora col lume…. e già stava per andarsene, quando l'uscio si aprì lentamente e Pietro Laner si trovò dinanzi Evelina, in camicia, con un sottanino legato ai fianchi; Evelina, col viso torvo, sudicio, lustro di sudore e i pochi capelli irti, arruffati:
—Dove vai?—essa gli domandò.
—A Primarole…. Per la seduta del Consiglio….
—A Primarole non si va!…—esclamò la signora Laner avvicinandosi, fissando Pietro cogli occhi biechi, guerci, che nella penombra apparivano più incavati. A Primarole oggi non si va!
—Perchè?—ripetè Pietro, rimettendosi dallo sbigottimento che lo aveva colto al primo istante.—Non hai sentito le raccomandazioni che mi ha fatto tuo zio?
—Resterai qui!—esclamò più forte Evelina, imponendosi.
—Perchè?… Ma perchè?—replicò Pietro a sua volta ribellandosi.
—Perchè io non ti permetterò di rovinare tua moglie per la tua amante!
—Evelina!—gridò il Laner, alzando la voce e nell'impeto, furibondo, alzando anche il pugno chiuso.
—Sì, la tua amante!—replicò Evelina, rimanendo ferma, imperterrita, sotto quel pugno minaccioso.—Ah! Perchè tu eri accecato, come un matto, e non avevi nessun riguardo, nessun rispetto, nessun freno, credevi che io non avessi occhi per vedere? Ho sempre visto tutto, fin dal primo giorno, fin dalla prima sera, dopo il pranzo del ministro, quando "quell'altra" era ubriaca!…—ed Evelina ebbe un sogghigno di sprezzo, di sfida,—Ho sempre visto tutto!
Pietro Laner aggrottò le ciglia.
—E allora perchè hai aspettato tanto?… Perchè aspetti adesso a parlare?
—Perchè…. se ho sopportato tutto…. tutto il resto…. non voglio che oggi tu rovini tua moglie per la tua amante. Questo no, questo non lo voglio!
Pietro ebbe un impeto di collera, si ribellò. Quella donna, mezzo in camicia, che gli appariva come un fantasma fra le ombre della camera e la scarsa luce rosseggiante della candela, era una ladra. Sì! Essa gli aveva rubato il cuore, la felicità, la libertà! E sempre, sempre così! Sempre fra le ombre e la penombra, misteriosamente, perfidamente, sempre così, come un fantasma!… E adesso voleva rubarle anche il suo amore! Ah no! Era finita! Adesso si sentiva forte, perchè si sentiva amato!…
Afferrandola per un braccio, le disse sotto voce, con ira:
—Spieghiamoci! È l'ora di spiegarsi!… Ma senza gridare, parlando piano fra di noi! Nessuno deve sentirci: perchè nessuno deve sapere chi sei!… E anche tu cerca d'indovinare…. tutto ciò che io non voglio dire: che non voglio dire per vergogna di te e di me! Ti basti sapere che io, adesso, ti conosco, che adesso leggo in fondo all'anima tua, in fondo alla tua cattiveria, alla tua ipocrisia, alla tua avarizia, alla tua avidità! Ti basti sapere che oggi io so valutare ogni atto della tua vita, ogni tua parola, ogni tua perfidia. Ho capito, so, perchè hai voluto sposarmi, come sei riuscita a sposarmi. Ho scoperto finalmente la cagione vera, unica, sola, per la quale tu hai chiuso gli occhi, fino ad oggi. Ho capito tutto! So tutto! Ed oggi sono io, io solo, che ha il diritto di imporsi e di alzare la voce, e tu, questo lo sai! Sono io, io solo, che avrebbe il diritto di vendicarsi, e anche questo tu lo sai. Ma io non voglio scene, non voglio scandali. Vado a Primarole, subito, perchè sono consigliere d'amministrazione, perchè devo andare, perchè mi accomoda di andare. E tu ritorna nella tua camera! Ci siamo spiegati per la prima volta: prega il tuo Dio che sia l'ultima. Va via!
La signora Laner non si mosse, rimase impassibile: continuò a sogghignare colle labbra stirate, pallide, sottili, mostrando i denti guasti: un sogghigno, un morso di vipera.
—Sono prudente anch'io,—bisbigliò,—e anch'io parlerò sottovoce. Da quindici giorni, tutte le lettere che pervengono al duca passano per le mie mani; ve ne sono parecchie di anonime: parlano delle vostre passeggiate alla Madonna del Sole, delle vostre…. conversazioni nella selvetta dell'Ercole…. delle vostre colazioni alla Corona Bianca! Le ho tutte, dalla prima all'ultima: tu vai a Primarole, butta all'inferno anche quel poco nostro danaro per la tua amante, colla scusa della Cisalpina, va, rovina tua moglie e io consegno quelle lettere al duca. E bada, il duca non è tale da scherzare, trattandosi del suo onore.
Così la signora Laner si era imposta a suo marito: e tanto più era riuscita, in quanto il Casalbara cominciava a sospettare la verità.
Il duca sospettava del signor Laner, del dottor Foresti, di Nora: sopratutto di Nora. Quella gente lo ingannava; lo tradiva, perchè?…
Qual era il loro scopo? Il loro interesse? Perchè si erano messi in lega, tutti in lega, contro di lui?…
La quiete, il lungo riposo, il vivere separato dalla moglie, gli avevano giovato, anche alla sua intelligenza. L'assopimento non era più continuo: la sua mente si risvegliava tratto tratto colla visione lucida della realtà, e allora, vigilante, sospettoso, osservava tutto, spiava tutti, attentamente, acutamente, finchè l'inquietudine stessa, l'angoscia di quei dubbî, di quei sospetti, l'ansia dolorosa dello spirito affaticato nella continua tensione, lo prostravano, lo accasciavano…. e allora, come prima, le idee, i pensieri, i desideri, la mente tornavano a confondersi, ad annebbiarsi…. a svanire….
—Perchè si erano messi in lega, tutti in lega, contro di lui?…
Nè il dottor Foresti, nè la signora Laner non si erano accorti subito che il duca cominciava a capire, cominciava a sospettare. Quel vecchio bamboccio mezzo addormentato, istupidito e inebetito dalla moglie giovane, non incuteva loro nè rispetto, nè compassione: fra loro due, quando rimanevano soli col duca, ne ridevano sommessamente: erano appena mezze parolette, mezze frasi buttate alla sfuggita…. ma che non sfuggivano al duca, attentissimo, inquietissimo.
—Perchè si erano messi in lega, tutti in lega, contro di lui?…
Il Casalbara, ormai, aveva chiaro anche il sospetto: il collirio di atropina che gli faceva bruciar gli occhi per un paio d'ore, il regime rigoroso di vita che gli era imposto dal dottor Foresti, la continua sorveglianza e la segregazione assoluta, celavano ben altro scopo, ben altro fine!… No!… non era la sua salute che premeva a quella gente…. a quella signora Laner così assidua, premurosa, così melliflua…. e così beffarda…. a quel dottor Foresti, così ossequioso, umile, servile…. e così falso…. No! Non era la sua salute, no, no, no!
E non volle più saperne delle istillazioni, non volle più prendere medicine.
Il dottor Foresti era inquieto. Non aveva ecceduto nell'ubbidire agli ordini di Matteo Cantasirena?…. Nel prevenire i desideri della duchessa?
—Attenti, signora Laner,—aveva detto il Foresti.—Il duca sospetta qualche cosa.
Gli occhi di Evelina guizzarono dietro il barbaglio delle lenti grosse, traballanti. Si avvicinava il giorno di scappare a Crodarossa!
Il Casalbara era già stato sul punto di smascherare il dottore, di smascherare la signora Laner, di costringere sua moglie a confessare;… ma la fatica stessa di dover fare e sostenere una scena così dolorosa, il timore delle conseguenze di uno scandalo, e lo sgomento di restare ancora più solo, ancora più abbandonato, di essere ancora più odiato, lo avevano reso esitante, lo avevano trattenuto…. lo avevano indotto a calmarsi, a sperare.
E poi, se si ingannava?
No…. No…. Non si ingannava. Si erano messi in lega, tutti in lega, contro di lui!
—Bisognava smascherarli tutti, smascherare sua moglie!…
Quell'infame!…
Ma la verità voleva scoprirla lui solo, da solo!
L'onore della casa, il nome sacro dei Casalbara, il nome di suo fratello, dovevano rimanere puri, intemerati!
Sua moglie aveva un amante?…
No. Non era possibile. Era troppo fredda, non aveva cuore.
E poi era sempre lì…. a Casalbara…. e lì a Casalbara non c'era nessuno.—Quel Laner?… Il primo amore…. forse la compassione…. la pietà?…
No: questo dubbio era assurdo: era una pazzia. La moglie stessa del
Laner non era della lega, non era in lega contro di lui?
Perchè dunque lo tradivano?
Forse un raggiro della vecchia canaglia?… Di Matteo Cantasirena?
Quel dottor Foresti, quella signora Laner erano sue creature….—E anche sua moglie, era una creatura del Cantasirena…. Ma adesso che aveva tutto ottenuto…. tutto quello che voleva…. Eleonora, la regina, la sua stella non si faceva più vedere…. nemmeno vedere!… Eleonora così buona…. quando voleva esser buona…. Eleonora tanto bella…. tanto bella!
…. E non pensava più che alla moglie, si addormentava nel pensiero della moglie, dimenticava Matteo Cantasirena e la Cisalpina, svanivano i timori, svanivano i sospetti…. e tornava a credere nel dottor Foresti, e tornava a pregare, a supplicare, a scongiurare la signora Laner di non abbandonarlo:
—Oh, lei…. lei è buona!… A lei non fanno ribrezzo i poveri vecchi, i poveri ammalati!
…. Nora rimase tre giorni senza mostrarsi: il Casalbara ebbe un impeto di collera, di sdegno: essa avrebbe dovuto avere qualche riguardo, almeno per la gente. Mandò a farla chiamare: ma era appunto il giorno in cui la duchessa si trovava a Milano, occupata col Galli per le centocinquemila lire.
—A Milano?… Senza nemmeno avvisarmi?
—È andata a Milano per parlare col ragioniere Vigliani, e per provarsi dei vestiti—si era affrettata a rispondere Evelina.—Ha detto che tornava stasera, e se i vestiti non erano pronti, domattina. Voleva salutarla, ma il signor duca dormiva….
—Non dormo sempre…. dormo meno di quanto si crede….—borbottò il
Casalbara.
Tuttavia il duca finse di non arrabbiarsi per quella partenza improvvisa. Gli era balenata un'idea per scoprire la verità. La lontananza di Eleonora lo rendeva più forte, più sicuro di sè. Anche il dottor Foresti era a Milano: meglio: minor sorveglianza, nessun pericolo di destare sospetti.
La sua grande idea per scoprire la verità era ingenuamente semplice. Di notte, quando tutti sarebbero stati addormentati, egli, chiuso nella camera di sua moglie, avrebbe cercato, rovistato, frugato in tutti i suoi cassetti. Se aveva un amante, se lo tradiva, egli avrebbe trovato una lettera, un indizio, e allora…. allora sarebbe partito anche lui per Milano!
Nel cuore della notte, quando tutti dormivano, il Casalbara entrò infatti adagio, in punta di piedi, furtivamente, nella camera della moglie.
Aveva pensato, rimuginato a lungo quel suo piano, colla meticolosità dei vecchi e dei malati: aveva portato con sè tutte le sue chiavi e il suo grosso coltello di carrozza. Fece scattare subito tutte quelle deboli e piccole serrature…. frugò, cercò, ma non trovò niente…. niente…. altro che la grazia, la bellezza, il profumo di sua moglie, dovunque, in tutti quegli oggetti…. Niente, niente, niente!… Povera Eleonora!… L'aveva calunniata…. Se avesse avuto un amante, egli avrebbe trovato certo una lettera, un fiore, un ricordo, un indizio! Invece, nulla!… E cacciava la faccia in quei cassetti aperti, respirando quel profumo, deliziandosi….
—Eleonora! Eleonora!… Dio!… Dio!… Purchè ritornasse buona, come le avrebbe data tutta la vita…. Tutta la vita…. per una notte soltanto…. una notte di Nizza!…
Vedeva la moglie in quella stanza…. la sentiva. Respirava dappertutto il suo odore di bionda e di lilas de Perse….
Si avvicinò al letto; al letto apparecchiato per la notte. Guardò, baciò, respirò quelle trine, quei veli di batista e di surah…. baciò i guanciali…. baciò tutto il letto…. e lì sul letto di sua moglie, cercando, aspirando il profumo di sua moglie, si assopì…. finì per addormentarsi….
Dormì così fino alla mattina, e fu destato di soprassalto da un clamore assordante di voci, di grida, di urli, di fischi. Spaventato, scese dal letto.
Dalle gelosie chiuse entrava un filo di luce….
Non era nella sua camera…. Dov'era?…
Allora si ricordò. Era nella camera di sua moglie. La camera di sua moglie era in faccia al piazzale.
Ma perchè quegli urli, quei fischi, tutto quello schiamazzo?… A tentoni si avvicinò alla finestra, l'aprì…. Tutta la piazza era piena di gente tumultuante…. era piena di ombrelli…. pioveva a dirotto…. c'erano guardie e carabinieri!…
A un tratto udì una voce forte, stentorea:
—"Morte al Casalbara! Morte ai ladri della Cisalpina!"
Tutto il sangue gli salì alla testa con un sussulto Spaventoso.
—Mentitore!—gridò. Ma il grido debole, rimase soffocato nella strozza: nessuno aveva visto il duca alla finestra; nessuno aveva udito il suo grido.
In quel punto, due, tre, dieci, venti contadini, una frotta di contadini, scavalcato il muro di cinta, attraversarono di corsa il giardino, sotto la pioggia fitta, diguazzando nell'acqua, precipitandosi verso la casa.
Un carabiniere, alcuni questurini in borghese si staccarono dagli altri che eran di guardia al cancello, e si avventarono loro incontro per arrestarli.
—Dove andate?… In dietro! In dietro! In dietro!
—Dal duca! Dal duca! Vogliamo intenderci col duca! Vogliamo i nostri denari!
I carabinieri, le guardie si oppongono; la colluttazione, corpo a corpo, sotto il diluvio, si fa violenta, accanita. In quel punto, dalla gradinata si precipita Pietro Laner, in aiuto dei carabinieri, delle guardie, scongiurando quella gente a calmarsi, a scegliere una commissione di due, di tre per parlare al signor duca…. Lui stesso li avrebbe introdotti.
—Non abbiamo bisogno di voi!
—Non vogliamo saperne di voi!
—Va dalla duchessa!
—Chi siete voi? Ah! l'amante della duchessa!
—Va alla Madonna del Sole! Alla selva dell'Ercole! Arrivederci alla Corona Bianca!
—Va via! Va via! Mantenuto! Lascia fare!
—Noi, si lavora, noi! Mantenuto!
Pietro Laner indietreggia: una parola ancora più turpe, oscena, solleva i fischi, gli urli di tutta quella gentaglia furibonda.
—Vada via lei!… Vada via!—gli bisbigliano le guardie, i carabinieri,—o noi non si risponde più di niente.
Pietro Laner indietreggia ancora livido, allibito, fradicio…. sale la gradinata…. nuovi improperi, urli, fischi, sassate…. Non ode più nulla, gli si annebbiano gli occhi…. barcollando entra in casa, si trova dinanzi allo spettro del duca e fugge…. fugge ancor più spaventato, come impazzito.
Il duca di Casalbara solo, senza cappello in testa, si affaccia sull'alto del terrazzo.
—Il duca! Il duca!—grida la folla e tutti lo circondano tumultuosamente.
—Vogliamo i nostri denari!
—I ladri della Cisalpina ci hanno rubato le nostre paghe!
—Il nostro sangue!
—Vogliamo giustizia!
—Sì!… Sì!… Sì!…—risponde il duca balbettando; cogli occhi sbarrati, fissi nel vuoto.—Sì!… Sì!… Sì!… Giustizia fino all'ultimo!… Giustizia per tutti!… Giustizia fino all'ultimo…. Lei!… Lei!…
L'occhio è sempre fisso nel vuoto, le labbra tremanti, livide, gonfie, le vene delle tempie turgide, pulsanti.
—Giustizia!… Giustizia fino all'ultimo…. Lei!… Lei!… A Milano!
Il pretore, corso lì colle guardie, e il delegato colgono a volo quella parola: Milano.
Pensano di allontanarlo, di allontanare il pericolo e così ottenere la calma.
—Il signor duca parte subito per Milano! Per parlare col prefetto! Per far arrestare i ladri…. Per rendervi giustizia!
—Sì!… Sì!… Giustizia!… Giustizia fino all'ultimo!
—Adesso! Subito!…
—C'è la corsa!
—Bisogna aspettar la corsa!…
—Giustizia!… Giustizia!… Giustizia per tutti!… Giustizia fino all'ultimo!—e il duca borbotta ancora fra sè:—Ammazzarla…. Ammazzarla…. Lei!
La gente, sotto gli ombrelli, non si muove dal piazzale, ma non è più minacciosa.
—Povero vecchio! Non sapeva niente! Era ingannato! Era tradito come noi!… Il Casalbara! Il duca!… È sempre stato buono! I Casalbara sono sempre stati la provvidenza del paese!
E quando il duca attraversò la folla per recarsi alla stazione, scoppiò un urrà d'applausi:
—Viva il Casalbara!
—Viva il Presidente della Cisalpina!
E gridando: Viva il Presidente! Viva il Casalbara! e agitando, squassando gli ombrelli lo accompagnano alla stazione.
Il duca, di tutta la scena, non ha impresso che quella parola: "ladro" confusa col nome dei Casalbara, e la rivelazione dell'infamia di sua moglie nelle urlate della folla, contro il Laner, contro "l'amante della duchessa!"
Coloro che lo hanno accompagnato in vagone, un suo fattore ed un suo vecchio fittabile, lo spingono al finestrino per ringraziare la folla, che continua ad applaudire, a gridare evviva, ad agitare i fazzoletti e gli ombrelli.
—Giustizia!… Giustizia fino all'ultimo! Giustizia per tutti!—risponde il Casalbara e torna a sedere, a balbettare col tremito delle labbra violacee: Giustizia…. Giustizia…. Milano…. Giustizia….—e poi più rauco, più sottovoce, sussultando:—Lei…. Ammazzarla…. Lei!
Giunto a Milano, alla stazione, si sente quasi mancare: beve, ingoia un bicchierino o due di cognac… Non vuol essere più accompagnato da nessuno, assolutamente.
—Sto bene!…. Mi sento bene!…
Gli altri lo lasciano andare in brum, ma poi gli tengono dietro, pure in carrozza.
Quando il brum si ferma dinanzi al palazzo, il portiere accorre…. lo aiuta a scendere.
—Lei?… Lei?…—borbottò il Casalbara.
—La signora duchessa?… È in casa, Eccellenza; è in casa.
—È col signor Cantasirena,—gli dice la Vittorina sopraggiungendo. E lo aiuta a salir le scale.
Il duca, arrivato nell'anticamera, impone alla Vittorina di fermarsi. Si avanza solo, barcollando. A brevi passi precipitosi, appoggiandosi ai mobili, arriva al salottino di sua moglie.
Nora, vedendolo, getta un grido. Il duca si appoggia allo stipite dell'uscio, la fissa…. la fissa in un modo terribile…. vuol parlare…. imprecare…. alza la mano come per maledirla, per colpirla, ma la parola gli resta soffocata, strozzata…. non gli esce dalla bocca che un rantolo…. Si piega su sè stesso, fa per abbrancarsi alla tenda della portiera e stramazza, rotolando sul tappeto, ai piedi di Nora.
—Dio! Dio! Dio!…
—Giovanni!… Giovanni mio!…—balbetta pallido, allibito Matteo Cantasirena. E lo solleva a stento, lo porta, trascinandolo, sul canapè.
Nora, rimane immobile, muta.
Il Casalbara aveva gli occhi sempre aperti, fissi, sbarrati: dal naso, dalla fronte gli gocciolava il sangue: il respiro rantoloso gli portava un gorgoglio di schiuma bianca, sulla bocca storta, contratta.
I disordini di Primarole e di Casalbara! Anche a Milano non si parlava d'altro.
Due morti! Parecchi feriti!… Il duca Giovanni, il presidente della Cisalpina, il solo gentiluomo fra tanti imbroglioni, preso a sassate, scampato a stento dalla marmaglia furibonda!
—Ecco le colpevoli catastrofi che preparano, che affrettano la rivoluzione sociale!…
—E chi meno ne ha colpa, paga per tutti!
—Quel povero Tolomei? La Cisalpina gli ha dato il tracollo! Il Bizzarelli, il Vergani, il Palazzoli, il Brunetti?… Tutti galantuomini, gente di lavoro, padri di famiglia, buttati sul lastrico!… Anche il conte Bobboli, tirato dentro pei capelli, intimidito, ricattato, come forse il Duranti! Anche il Beretta, persino donna Alessandrina, la madre di Pio Calca!… Tutti senza un soldo!
—È un crac terribile, che rovina mezza Milano.
Ma poi la gente seria cominciava a infastidirsi:—Peggio per loro! Per l'ingordigia di far milioni in un anno, per l'ambizione, per la smania del ciondolo di deputato, non dovevano fidarsi di una canaglia come il Cantasirena, di un ambizioso imbroglione come il Fontanella!
E i giudizi a mano a mano mutavano, e cominciavano le insinuazioni e le accuse.
—Quanto al Tolomei,—sussurravano i meglio informati,—è sempre stato uno spiantato. Vive di questo: si guadagna la vita a furia di andare in malora!
—Tutti gli altri? Il Bizzarelli, il Brunetti, il Vergani? Creature del Cantasirena e del Fontanella! Fantocci, teste di legno; tutta gente che casca in piedi!
—Quel beì del conte Bobboli? Ne ha sempre fatte di tutti i colori…. dal bianco d'avorio al nero d'ebano!
—Chi però ci lascia la pelle sono i pesciolini minuti; quei poveracci di campagna, adescati, ingannati, sfruttati colle azioni e cogli appalti! Questi sono da compiangere! Questi gridano vendetta!
—Ci vuole un esempio! Un esempio di "alta moralità".
—Ma il Fontanella, il Cantasirena, si cacciano in prigione sì o no?
—Bisogna purificare l'ambiente!
—E riguardi per nessuno!… Tutto il Consiglio d'amministrazione sotto processo!… E anche il presidente! Anche il Casalbara!… Peggio per lui se è un imbecille; non doveva ficcarsi negli affari!
—E poi, anche il Casalbara, non si pappava venticinquemila lire di stipendio?
—Dicono cinquantamila, senza le rappresentanze e il resto!
—Sotto processo anche il Casalbara!
—È ora di finirla coi riguardi, coi privilegi! Ci vuole un esempio!
—Bisogna purificare l'ambiente!
—Ma il governo che fa?
—Il Governo manda i suoi ministri a Primarole!
—La colpa è del prefetto!… Un camaleonte!… Un pusillanime!… E anche il Bonforti e il Ghirlanda, i radicaloni, i socialisti che sostengono la Cisalpina per paura di perdere il collegio!… È una vergogna, uno scandalo!
Intanto un'altra voce cominciava a diffondersi, una voce che si voleva soffocare, ma che a mano a mano correva più insistente, più impressionante.
Il signor Galli, il procuratore della banca Kloss era scappato in America! No, era scappato in Grecia! Era scappato con duecentomila lire!
Il Kloss protestava che non era vero niente, il suo procuratore era a Turin.
—In tucc ciaccer!
Ma non credevano più nemmeno al Kloss.—Il Galli era proprio scappato: l'ammanco era di mezzo milione!—Aveva messo in pratica il socialismo per proprio conto, quello lì!
—Ma se pareva un galantuomo? Aveva giuocato in Borsa?… No! Cherchez la femme! Una donna? Il Galli? Un uomo tutta famiglia! Un uomo serio, posato?
—Invece aveva una relazione segreta, con una delle signore più eleganti dell'alta società alla quale pagava conti per molte migliaia di lire!…—Ma no, non era una signora!… Era una ballerina! Erano scappati insieme!…
—In tucc ciaccer!—continuava a ripetere il Kloss. Ma un giorno, in un braccio morto della Vettabia, nelle acque limacciose, sporche, nere, inquinate dalle vicine tintorie, fu pescato un cadavere gonfio, sfigurato. Era il procuratore della Banca Kloss; era il signor Galli.
—Altro che scappare con una ballerina! Si è buttato nel Naviglio, si è annegato!
—Ma la ragione del suicidio?
—La Cisalpina!
—Era stato tirato dentro nella Cisalpina! Aveva conosciuto Matteo
Cantasirena dal duca di Casalbara! Si era lasciato suggestionare!
E quel suicidio del Galli, riverberava una luce ancor più sinistra sulla Cisalpina, sui misteri della Cisalpina, sulle influenze losche, tenebrose di quella vasta associazione di malfattori che si chiamava la Cisalpina, e tutti protestavano che volevano la luce, la luce, che bisognava rischiarare, purificare l'ambiente!
Anche i giornali gridavano alto, su tutti i toni:
—Si determinassero nettamente le responsabilità!
—Si facesse un'inchiesta severa, esauriente!
Ognuno però voleva che si cominciasse in casa del vicino….
Matteo Cantasirena, il Fontanella, tutto il Consiglio d'amministrazione, non dovevano essere i capri espiatori di nessun interesse privato, di nessuna camorra.
—Il pubblico ha diritto di sapere di che genere furono le compromissioni del Bonforti e del Ghirlanda!—gridavano gli uni.—L'inchiesta non deve arrestarsi alla soglia dei palazzi prefettizi!—gridavano altri.
E altri ancora:
—E neppure deve arrestarsi dinanzi alla sagrestia e alla Curia! Fuori tutti i pasticci della fabbricceria di Castellanzo col Fontanella! Alla gogna anche i preti e i monsignori della Cisalpina!
Il fermento era straordinario: la moralità politica, la moralità sociale volevano un esempio, imponevano la luce: la luce piena, intera, senza privilegi, senza immunità, la luce su tutto, la luce su tutti!
E un raggio appunto di questa luce tanto desiderata, di questa luce tanto invocata avrebbe potuto diffondersi…. per mezzo del Kloss, del commendator Francesco Kloss, il quale, rovistando nella scrivania del suo procuratore, aveva trovato il famoso dispaccio spedito al Galli dalla duchessa:
"Arrivo stasera Milano. Venga subito.
E mentre faceva questa scoperta, il Kloss veniva pure informato dalla
Banca Insubria dei due chéques per centocinquemila lire, intestati a
Matteo Cantasirena, e firmati dal Galli.
—La pionta pericolosa!… Il trabocchetto!—esclamò il Kloss.
Infatti fra la data degli chéques, e la data del dispaccio, la distanza era appena di ventiquattr'ore…. Ed erano quei giorni appunto in cui il signor Galli doveva recarsi a Torino, i giorni della sua scomparsa, del suicidio!
—La pionta!… Il trabocchetto!
Il Kloss abile e scaltro, che conosceva la abilità e la scaltrezza della duchessa, aveva intuito facilmente il dramma accaduto fra lei e il suo procuratore: lacrime, setuzion…. e poi, passata la cotta, il rimorso, il suicidio!… Robb de Statera!… ma anche de procurator del re!
E, facendo subito la sua brava denuncia, forse sarebbe riuscito a salvare ancora, tutte o in parte, le sue centocinquemila lire.
—Adacio!… Adacio!
Il Kloss voleva pensarci e riflettere seriamente prima di muovere un passo.
—Un process?… Un processo di quel genere, a Matteo Cantasirena, alla duchessa di Casalbara?… Al Casalbara?… Un processo da mettere sossopra tutto il mondo? E poi, come sarebbe andato a finire? Se venivano in ballo…. i suoi primi affari…. a Praga?…
Un process, è sempre una disgrazia anche per chi lo fa.
—Mi avessi per massima ceneral—diceva il Kloss—in casa, pussée mei i later, della ciustizia!
Ma anche il perderci centocinquemila lire non era nelle sue massime, nelle sue idee, nemmeno nelle sue forze! Bisognava trovare il modo di impattarsi…. ma cito cito, queto queto, senza far bortel!
Intimare a Matteo Cantasirena di restituire la somma?… Era un pretendere l'inverosimile. Imporne la restituzione alla duchessa?… Al vecc? Erano tutti spiantati.
Invece, questo era da fare: La Cisalpina dichiarata in liquidazione…. ed essere nominato lui, il liquidatore con pieni poteri. C'era da riguadagnarle più volte le centocinquemila lire: prima nella liquidazione stessa: poi nell'impresa dei tram elettrici…. Aver nelle mani il segretario generale, voleva dire aver nelle mani anche il Fontanella e gli altri….
—Ecco l'affare!… ed ecco l'ultimatum! Liquitazione della Cisalpina: liquitatore mi, coi pieni poter!
E per mia parte, cito, silenzio! E non si parla più de process!
I processi fanno paura a tutti e ai galantom—concludeva il Kloss alludendo a sè stesso—pussée anca mò!
E per intendersi?
Doveva scrivere a Cantasirena di venire nel suo studio?… Mandare a chiamare quel Mariano Perego?… Fissare un appuntamento?…
Tutto ciò gli seccava…. In quei giorni avrebbe dato nell'occhio; e poi…. tirarsi fra i piedi i giornalista…. Niente!
Gli balenò un'idea: un fiotto di sangue gli montò alla testa, gli fece luccicare gli occhietti e arrossir la pelle sotto i baffi tinti e duri. Saltò di colpo dal canapè sul quale si era buttato.
—Cuella matama! La matama! Lei stessa!
Adesso non era più il caso di scappare, di fare il casto Ciuseppe: adesso la catta l'aveva in te le man, colle unghie ben tagliate! Più nessun pericolo per i tanee!
—Con quel famoso dispaccio, semm nun che comanta!
Andò dalla duchessa subito, sul momento.
—La c'è?—domandò al portiere senza tante cerimonie.
Il portiere gli rispose di sì, che la signora duchessa era in casa, ma che, stante la malattia del signor duca, assolutamente non riceveva nessuno.
—Va supito ad afertirla che sont chi mi!
Il portiere chiamò la Vittorina per far annunziare alla signora duchessa, che c'era il commendator Kloss, il quale aveva premura di parlarle.
Nora era in camera di suo marito. Essa non lo abbandonava più, non lo lasciava mai, nè giorno, nè notte: nessuno doveva entrare in quella camera, tranne il dottor Foresti.
Il Casalbara aveva riacquistata l'intelligenza, ma non la parola, non la forza; però il dottor Foresti aveva detto alla duchessa che avrebbe potuto riaversi da un momento all'altro…. Ed era quindi Nora stessa, lei sola, che gli voleva fare da infermiera, adattando le sue manine pallide, profumate ai servizi più umili, sempre attenta, premurosa, affettuosa, sempre carezzevole, colla sua voce limpida e fresca.
Ma il Casalbara, nel letto, seduto, curvo, appoggiato a un monte di cuscini, non pareva commuoversi a tanta devozione, a tante amorevolezze. Egli fissava sulla moglie i grandi occhi sbarrati, iniettati di sangue, con una espressione strana, intensa di collera, di odio. Le vene turgide, pulsanti delle tempie, il viso rosso, gonfio, le labbra violacee, tremanti, il respiro affannoso, corto, esprimevano lo sforzo di una parola che egli voleva dire, ma che non gli riusciva dire, che rimaneva soffocata, strozzata in un rantolo….
Quando la Vittorina, alla quale era stato proibito come agli altri, di entrare nella camera del signor duca, chiamò fuori la duchessa per dirle della visita del commendator Kloss, Nora trasalì vivamente.
Il Kloss veniva a parlarle del signor Galli!… Era quello che essa presagiva, che paventava fin dal primo giorno del suicidio. Pure riuscì a vincersi. Ordinò alla Vittorina di far entrare il commendator Kloss nel salotto. Poi si avvicinò, si curvò per dire al marito:
—Vengo subito….—e uscì chiudendo bene l'uscio della camera, chiudendo bene anche gli usci delle altre stanze che mettevano nel salotto.
L'occhio del Casalbara seguì la moglie fisso, sbarrato…. le vene delle tempie gli pulsavano più turgide, violette, e la parola inarticolata, strozzata, il rantolo era più affannoso, più forte.
Nora si presentò al Kloss diritta, sicura, ringraziandolo con un mesto sorriso, mentre si asciugava gli occhi, mentre si accomodava la massa dei capelli che le cadevano da tutte le parti.
Finse di credere che il Kloss fosse lì per informarsi di suo marito e gli stese la mano, con un'aria intima, in cui la cordialità, l'effusione e il dolore, conservavano tutta l'alterezza, tutta la dignità signorile.
—Grazie, di essere venuto. Giovanni la vedrà certo volentieri. Vuol passare?—E accennò verso la camera del marito.
—Niente! Niente!—rispose il Kloss colla voce sgangherata e facendo un saltetto nell'inchinarsi.—Mi venissi forse importuno dalla signora duchessa, per un semplice schiarimento.
Vedendola, dopo tanto tempo, vedendola ancora più bella, più fresca, più rosea e così bionda nel disordine della toelette, nel morbido languore delle lacrime, gli occhietti del Kloss scintillarono umidi, torvi. Ma si scosse con un altro inchino, un altro saltetto, e si sforzò per contenersi…. e per parlare bene l'italiano, volendo dare maggiore gravità, maggior imponenza al discorso.
—Lei sa, vera, del Galli?… Del suicidio?
Nora si era preparata a quella parola, pure non potè vincere un tremito, e fece un atto colla faccia impallidita per dir di no: ma le mancò il fiato, non potè parlare.
—Sicuro: cherchez la femme!… diseven intorno.—E il Kloss fissò Nora, torcendosi, mordendosi i baffi duri finchè la costrinse a impallidire nuovamente, a chinare il capo, a tremare.
—Diseven, che aveva preso il volo con una ballerina. Invece niente del tutto: si tratta d'un suicidio avvenuto…. per compinazion il giorno dopo il suo arrivo a Milano. Le fa impressione, vera?
—Infatti….—bisbigliò Nora, la quale perdeva la forza, il coraggio, e vacillando si lasciava cadere sul canapè.
—Anche a mi! Restassi di colpo…. spalortito!—e il Kloss, senza far complimenti, sedette pure sul canapè, vicino a Nora, sdraiandosi, dimenando le gambette arcuate; poi tornò più grave, per dar più forza, più importanza al discorso, per spaventar la duchessa ancora di più.—Io avessi supito pensato a lei!
—A me?…. A me?… Perchè a me?…—balbettò Nora, sforzandosi, ma diventando sempre più pallida, più tremante.
—Per poter afere…. qualche dilucitazion. Lei savarà che io…. cercando fra i cart, fra le carte del Galli, ho trovato questo dispaccio…. soo de lee…., della signora duchessa.
E il Kloss, che non portava guanti, ficcò le dita pelose nel taschino del panciotto e ne tirò fuori il dispaccio di Nora, che spiegò e lesse lentamente:
"Arrivo stasera Milano. Venga subito.
Il Kloss la guardò, la fissò, poi d'un tratto diventò risoluto, violento, villano:
—Lei sa tutto del suicidi!
—Ma io non so niente! Non so niente! Le giuro che non so niente!… Io gli ho telegrafato perchè gli volevo parlare dei miei soliti affari….
—Nossignora—e il Kloss alzò la voce—lei voleva dei tanee!
—Ma io non so niente!… Io non capisco niente!… Io volevo parlare al signor Galli, è vero…. gli ho parlato…. degli affari di…. di Giovanni.—E smarrita, tramortita, colla voce rotta, congiunse le mani supplichevole; pareva volesse inginocchiarsi dinanzi al Kloss.
—No, signora!… Lei foleva centocinquemila lir!
L'ardire, l'audacia, la sfrontatezza solite in Nora, questa volta, a questo colpo, le mancarono d'un tratto: si sentì serrare il cuore, la gola, si sentì agghiacciata dallo spavento, sussultò con un singhiozzo, uno schianto convulso…. e abbassò il capo. I capelli le si snodarono; una treccia grossa le scese sulle spalle.
Il Kloss ebbe un lampo negli occhi, un impeto, ma si contenne.
Gli affari innanzi tutto.
—Io desiderassi…. io volessi assolutamente che lei facesse uno sforzo per ricortarsi bene de tut coss…. di tutto quanto…. Il suo dispaccio coincide con un'altra circostanza…. molto aggravante…. con due chéques del complessivo importo, appunto, di centocinquemila lire, firmati dal Galli, come mio procuratore, a favore del signor Matteo Cantasirena. E io, mi quartassi pen, non devo nientissimo a quel scior!… Come spiega lei la coincidenza del suo dispaccio coi due chéques? E suo patre, suo zio, quel scior, o chi per esso, all'Insubria hanno riscosse le mie centocinquemila lire….
Il Kloss balzò in piedi di colpo.
—Basta colle lacrime! Basta tremar—esclamò afferrandole un braccio, scotendola.—Se rispond! Si risponde!
—No! No! No!—esclamò Nora spaventata, arretrandosi, protendendo le braccia.—No! No! No!
Si vedeva arrestata; trascinata dinanzi al cadavere del signor
Galli…. vedeva la grossa testa gonfia, livida….
—Perdono! Pietà! Compassione!…—E singhiozzando, tremando, non ebbe più coraggio di mentire, non ebbe più coraggio di negare; continuava a implorare pietà, a implorare perdono.
Il Kloss, la guardava sempre con un barbaglio umido negli occhi torvi; poi, incollerito, battè un piede per terra perchè l'altra smettesse di piangere, lo ascoltasse; e da padrone, duramente, aspramente, impose le sue condizioni, che furono ascoltate con terrore, con spavento…. che furono tutte accettate, sommessamente, umilmente, con dei "sì" appena intelligibili, bisbigliati con voce fievole, tra i brividi, i tremiti, i singhiozzi soffocati.
Gli affari, innanzi tutto: La liquitazion immediata della Cisalpina: lui, Francesco Kloss, nominato liquitator, con pieni poteri. Nora stessa doveva parlarne con suo patre, con suo zio, con quel scior—avvertirlo di tutto, perchè il Kloss voleva averlo il meno possibile tra i piedi.
E brevemente, sopra un foglietto di carta, scrisse ciò che lei stessa doveva far sapere immediatamente a Cantasirena. Sarebbe tornato la sera per la risposta.
—Ecco: patta pacatt, pari e patta, e cito. Mi perdessi, io ci perdo centocinquemila lire, ma cuel scior Cantasirena—concluse il Kloss, diventando galante—se non va in calera, deve rincraziarla lei!
E con un saltetto, si buttò sul canapè, tirandosi vicino a Nora, sdraiandosi.
Nora si ritrasse ancora spaventata…. Ma poi, subito, fu lei che si avvicinò, lo guardò come ringraziandolo…. lo guardò con un sorriso che appariva ancora timido, spaurito fra le lacrime…. Tornò a guardarlo tremando, chinando gli occhi, chinando il capo…. arrossendo.
Il Kloss dimenando le gambette, si sdraiò di più, più vicino. Poi, con una sghignazzata, e per farle capir subito che con lui bisognava metter da parte le arie di duchessa e le smorfie ingenue, le domandò:
—E cussì?… Abbiamo notizie della Schönfeld?… Del noster bel contessone?
….Il Casalbara, seduto sul letto, curvo, appoggiato a un monte di cuscini, teneva gli occhi sempre fissi, sbarrati sull'uscio dal quale era uscita sua moglie…. gli occhi iniettati di sangue, pieni di odio.
Quando Francesco Kloss, entrò alla sua Banca, tornò a rifare tutti i calcoli attentamente, diligentemente. Centocinquemila lire erano bene spese, al patto di afere in te le man la liquitazione della Cisalpina.
Un affar d'oro!
Tuttavia, gli affari davano al Kloss le ansie, le inquietudini dell'artista che cerca la perfezione nell'opera propria.
Centocinquemila lire erano bene spese!… Ma poterle risparmiare sarebbe stato mei anca mò!
E pensava…. pensava…. arricciandosi i baffi, sogghignando.
Obbligare Matteo Cantasirena a riconoscere questo suo debito…. per tutti i casi?… Obbligarlo ad una restituzione, anche rateale, in un tempo indeterminato?
Chissà!… Ma poi gli balenò un'altra buona idea, un'idea migliore.
—Sicuro: questo…. è più che giusto.
E scrisse egli stesso alla vedova del signor Galli, perchè venisse subito alla Banca.
Fece dei conti rapidamente, sopra un fogliettino di carta volante: fra stipendio e partecipazione agli utili, il signor Galli avrebbe avuto un credito di cinque o seimila lire. Più, alla Banca era depositata una polizza di assicurazione fatta dal Galli, intestata alla moglie per ventimila lire. Venticinquemila lire dunque il Kloss le poteva risparmiare.
Quando entrò la signora Galli, egli non si alzò, non la salutò, non la guardò nemmeno. In poche parole le disse di che si trattava. Suo marito si era suicidato dopo aver truffata la banca di centocinquemila lire. Per salvare il buon nome del signor Galli egli era disposto a dichiarare che aveva trovato tutto in perfetta regola, e anche a spiegare e a giustificare il suicidio nel modo il più attendibile: ma ben inteso, la signora Galli doveva concorrere…. a riparare al danno…. rinunciando a qualunque credito del marito "per stipendi, eccettera" e anche all'assicurazione.
La povera donna era entrata nel gabinetto del Kloss senza poter parlare, colle lacrime che le gocciolavano dagli occhi; accennò di sì, lentamente, e se ne andò, sempre piangendo, sempre senza poter proferire una parola.
Il Kloss, mentre essa usciva, alzò il capo e le tenne dietro collo sguardo.
—Quel vecc era molto tenero coi pei tonnett! Anche cuella lì, era riuscita a farsi sposar cont un fioeu d'un alter!…
Dopo pranzo, subito, Francesco Kloss tornò dalla duchessa, per avere la risposta, e ritirare l'obbligazione in piena regola di Matteo Cantasirena.
Fece molto tardi dalla duchessa, e giunse tardissimo al Cova, a prendere il caffè e latte, nel solito crocchio d'amici: tutta gente dell'alta finanza, ricchi industriali, deputati. E portò in quel crocchio due notizie: la notizia della liquidazione della Cisalpina, e quella del povero Casalbara sempre più aggravato.
I tispiasè della Cisalpina, le esagerazioni, le calunnie avevano peggiorato precipitosamente il suo mal di cuore. E parlò della duchessa, della assistenza che prestava al marito, dello sue cure, con un entusiasmo, un calore affatto insolito.
—È una tonna marafigliosa!… marafigliosa de coragg!
Poi annunciò che il giorno dopo avrebbe pubblicata una dichiarazione nell'Italia, una dichiarazione esplicita, che avrebbe tagliate le gambe ad una infinità di dicerie.
—Anche i tisortini di Primarol? Tutte mene dei socialista! È ormai tempo di finirla coi ciacer!
Gli altri del crocchio, gli amici, lo guardavano stupiti.
—Come?… se aveva sempre gridato contro quella carnovalata?
Il Kloss cominciava a contradirsi.
—L'attuazion era sbagliata; ma l'idea fondamentale del Fara-pon era eccellente. Perchè tante spese, perchè ricorrere alla navigazion… quando si può servirsi benissimo dell'elettricità?… La Cisalpina aveva fatto i robb tropp all'incrande: i suoi amministratori mi li contannassi per spensieratezza, per inesperienza, ma per latreria questo poi no! Erano tutte esagerazioni, calunnie, le quali non facevano altro che scuotere la fiducia nei nostri affari…. nel nostro credito. Quel Matteo Cantasirena è un mecalomane, questo si può dirlo impunemente. L'è el padre eterno di badalucch! Cuel Fontanella, l'è un progressista poeta…. che fa ai pugn cont l'aritmetica: ma gli architetti, i ingegnee sono tutti eguali! Una disgrazia…. a chi la capita! Un Cuarantott! Ma nel comitato c'era di fior de personn. Cuel Brunetti, il Vergani, il Bizzarelli?… Cuel tetescon del Duranti?… E del presidente, del Casalbara?… Parlemen no!… Il povero vecchio ci lascia la pelle!… Un uomo straortinari!… Un patriotta dei più penemeriti!
Gli altri s'interessavano: il Casalbara era sempre stato un gentiluomo perfetto, una bravissima persona: certo anche in quella guerra contro la Cisalpina c'erano state grandi esagerazioni.
—Rivalità d'interessi! Però un uomo che può vantare il passato del duca di Casalbara, deve imporre un certo rispetto, una certa discrezione nei giudizi.
Il giorno dopo comparve nell'Italia la lettera del Kloss, colla quale "per debito di coscienza e di lealtà" egli dichiarava esplicitamente e formalmente che tutte le dicerie messe in giro circa il suicidio del suo egregio e compianto procuratore signor Ambrogio Galli erano affatto destituite di qualsiasi fondamento. La probità dell'estinto era superiore ad ogni sospetto. Il suicidio si doveva attribuire ad una malattia di fegato che già affliggeva il signor Galli da molti anni, con forti assalti di nevrosi ipocondriaca, malattia che il signor Galli, pur troppo, aveva saputo essere ormai incurabile".
E in un'altra parte del giornale, v'era poi la notizia dello stato gravissimo del duca Giovanni di Casalbara, senatore del regno, col seguente commento: "I gravi fatti di Primarole e di Castellanzo hanno certo influito sulla salute, già da tempo assai cagionevole, dell'illustre patriotta. Rimane però la speranza, che l'assistenza esemplare, le cure affettuose, assidue della duchessa di Casalbara, ammirabile di coraggio, di devozione, di abnegazione, abbiano a conservare un'esistenza tanto cara e preziosa alla patria."
La sera stessa, le Risorse Italiche riportarono la dichiarazione del
Kloss.
E in prima pagina avevano due colonne coi particolari della malattia del senatore Giovanni di Casalbara, "unito al nostro direttore da affetti e da legami più che filiali". E già si ricordava la sua vita, cominciando dall'arresto del fratello Eriprando, poi le sofferenze, il martirio, l'esilio, i grandi sacrifici, poi l'operosità pel bene del paese, poi come egli pure fosse stato con altri attratto dalla sublime utopia del Fara-Bon, e come la sconfitta e gli attacchi avessero colpito il suo cuore generoso, magnanimo. "Angelo caro e salutare del conforto, veglia al letto dell'illustre infermo la giovane sposa, fra le gentildonne italiane, esempio purissimo di amore, di virtù, di sacrificio."
Tutti gli altri giornali, i giornali amici del Bonforti, i giornali amici del Ghirlanda, i giornali ispirati dal Governo e i giornali ispirati da Pio Calca e da monsignor Meneguzzi, tutti quanti, si affrettarono a pubblicare la dichiarazione dell'onorevole commendator Francesco Kloss, relativa all'avvenuto suicidio del suo procuratore, l'integerrimo signor Galli, affetto da incurabile malattia di fegato, e tutti pubblicarono pure, ogni giorno, il bollettino firmato dal dottor Foresti, sulla malattia dell'illustre patriotta, Giovanni di Casalbara, senatore del regno.
Le notizie del duca si facevano a mano a mano più gravi, e a mano mano veniva maggiormente ammirata la nobilissima signora duchessa, instancabile nelle cure, nell'affetto, nella devozione.
—L'è una tonna motèl!—esclamava il Kloss ogni giorno più incantato ed entusiasmato.
Sebbene i brogli e i pasticci della Cisalpina fossero imputabili soltanto a Matteo Cantasirena e al Fontanella e questi due soltanto ne avrebbero dovuto rispondere, non erano però essi soli i più atterriti dall'idea di uno scandalo, di un processo. Dal più al meno lo temevano tutti, anche le vittime; i danneggiati, gli sfruttati, come gli sfruttatori.
Aveva ragione Francesco Kloss:
—Era ormai tempo di finirla colle chiacchiere, colle esagerazioni!
I due deputati di estrema sinistra che avevano fornicato col segretario generale della Cisalpina per assicurarsi il collegio, la triade del Bizzarelli, del Vergani, del Brunetti sbrogliatasi di sotterfugio per passare agli ordini e alle imprese del Kloss, quel conte Bobboli-beì sempre in ansie per le sue campagne africane, il Tolomei che in molte distrette di denaro aveva scritto e invocato egli pure, e il Duranti sempre pauroso di veder rievocare insidiosamente la devozione di suo padre, i servigi di suo padre a casa d'Austria…. chi mai avrebbe desiderato che si rimestasse nelle acque limacciose della Navigazione? Nessuno dei consiglieri e nessuno forse degli azionisti, di quelli almeno che avrebbero potuto farsi valere, esigere davvero la luce.
Monsignor Meneguzzi, per esempio, avrebbe dovuto, anche a nome della moralità, a nome del partito cattolico, spiegare la sua energia, la sua influenza. Ma ahimè! Anche il Monsignore delle contesse, aveva avuto il torto di scrivere troppi bigliettini…. alla duchessa della Navigazione! Attaccati, quei radicali sarebbero stati capaci di tutto. Che cosa avrebbe detto l'Arcivescovo se fosse venuta alla luce quella letterina…. in cui il prelato inviava alla bella signora una preziosissima reliquia di santa Isabella, sorella del re di Francia—anche i santi di Monsignor Meneguzzi erano tutti aristocratici—pregandola di accettarla come sua memoria in cambio di quell'anello, che per lui sarebbe stato un gaudio dello spirito il poterle offrire, il poterle lasciare…. infilato nella manina candida e pura come un pensiero di San Luigi, ma che era costretto a domandarle di ritorno per i commenti di Pio Calca, un ragazzaccio pettegolo e sciocco? Che cosa avrebbe detto l'Arcivescovo?
Era meglio invece adoperare anche l'influenza dell'Arcivescovo, perchè quelle chiacchiere, quei pasticci, quegli scandali fossero messi in tacere.
Era ormai tempo di finirla con tante esagerazioni, con tante calunnie!… Ne andava di mezzo il credito del paese, la sincerità, la moralità degli affari. Negli affari non si vive di brutture, di denunce, di diffamazioni! Bisogna lavorare, e, quando si è sbagliato, riparare. Quelli che si accanivano a sparlare della Cisalpina, erano i soliti impotenti, astiosi, che volevano pescare nel torbido. Anche i disordini di Primarole e di Castellanzo erano stati istigati, fomentati…. dai socialisti tedeschi!
E le vittime? Le solite glorificazioni postume dei facinorosi, che suscitano torbidi e rivoluzioni. Quel Francia intanto,—si era saputo poi,—era un anarchico in relazione cogli autori degli ultimi attentati! E quel sorvegliante?… Quello che chiamavano il Teddeum? Una specie di aguzzino, che violentava le donne e bastonava i ragazzi, un lupo…. che le pecore avevano fatto benissimo a sbranare!
La vittima vera, la sola vittima, la vittima grande era il povero duca di Casalbara! E crebbe a dismisura l'interessamento per lui, e attorno all'illustre infermo fu uno scoppio, un clamore, un'esplosione di patriottismo! E come il vero martire, il duca Eriprando era stato dimenticato quando il duca Giovanni cominciava a vivere, così il martire generoso e intemerato veniva dimenticato allora, confuso allora col duca Giovanni, col senatore Giovanni di Casalbara che moriva: la gente non ricordava più bene quale dei due fratelli fosse stato prigione a Josephstadt: ma certo, se c'era stato il duca Eriprando, c'era stato anche il duca Giovanni.
Matteo Cantasirena era un solo gemito: tutto un mugolio di gemiti. Il dolore gli sprofondava gli occhi nel faccione abbattuto: sudava, ansava. Ma poi:—Sursum corda!—esclamava.—In alto il core! E coll'orgoglio di essere uscito incolume (senza un soldo!) dagli affari come dalla politica!—In alto il core!—Il mio concorso al mausoleo di Giovanni di Casalbara, sarà tributo di operosità, di lavoro! Percosso, ma non sfiduciato…. Ricominciamo! Nel lavoro il conforto per la perdita del congiunto, del fratello, del figlio, del compagno di congiura, di carcere, di lotta! Nel lavoro l'oblio delle molteplici ingratitudini!… E poichè Evelina, quella tirolese, è scomparsa nell'ora dei sacrifici, sarà in un cuore…. superstite, che io cercherò la mia ora quotidiana di sosta, di tregua. Buona, squisita Gioconda! Un essere inferiore…. per i pregiudizi sociali; non per me!… E di nuovo, subito, al Dizionario dei patriotti viventi! Una nuova serie…. magnanima…. I patriotti dell'impopolarità…. E di nuovo alla mia grande idea…. una rivoluzione nel giornalismo…. un giornale…. colossale…. Il Giornale club…. ogni abbonato…. azionista, comproprietario…. Grandi sale di ricevimento, di lettura, di giuoco…. di scherma…. prestiti ai soci…. banca di sconto….
Il dottor Foresti, le ciglia aggrottate, la faccia marmorea, immobile, scrollava il capo e sospirava, quando gli domandavano del suo illustre ammalato: ormai non c'era più speranza; l'occhio del duca non era più fisso, sbarrato sulla moglie;… il rantolo solo era più grave, più affannoso. La duchessa Eleonora non lo abbandonava un momento: quando usciva da quella camera buia e afosa, rimaneva lì nella prima stanza o nel salotto vicino.
Era gelosa di tutti gli altri: la giovane sposa innamorata, di Nizza, non si smentiva in quel momento: era attaccata a quelle ultime ore della cara esistenza, con ansia cupida, golosa.
E nella poesia della giovane donna, così innamorata, sempre innamorata del vecchio e grande patriotta, al punto di voler essere la sua sola infermiera, al punto di voler raccogliere lei sola, tutti lei, gli ultimi palpiti di quel gran cuore; veniva affatto dimenticata la signorina Cantasirena, la maestrina di canto e di pianoforte, l'amica della Schönfeld…. venivano dimenticate le avventure campestri di Casalbara.
E anche lei forse, Eleonora, aveva tutto dimenticato: adesso godeva, viveva solo di quel compianto, di quelle lodi, di quell'ammirazione.
Lord e lady Paget erano appunto venuti da Nizza per vederla: da Roma, dal Senato, dalla Camera, dal Quirinale eran giunti telegrammi chiedendo notizie del marito, con auguri e voti e conforti….
Monsignor Meneguzzi aveva indotto donna Alessandrina, l'austera madre di Pio Calca, a farle visita, e dietro a lei tutto lo stuolo delle sue contesse.
Donna Alessandrina, aveva trovato la duchessa Eleonora veramente sublime di virtù e di coraggio, e l'additava come esempio alle gentildonne cristiane: e la duchessa di Casalbara diventava sempre più di moda a Milano per il suo dolore di moglie, come era stata di moda a Nizza per il suo amore di sposa.
Della Cisalpina, nessuno più parlava: non era di "buon gusto", non era patriottico il parlarne.
Francesco Kloss si recava sempre più tardi al Cova, la sera, a bere il suo caffè e latte.—Anche il Kloss faceva un po' di assistenza al Casalbara e un po' di compagnia alla duchessa.
—La fera tonna motèl…. con tutt i perfezion!…
E quando i suoi amici, gente d'affari, gli domandavano conto della liquidazione della Cisalpina, dichiarava che procedeva penissimo.
C'erano delle irregolarità: ma come aveva sempre detto, erano più da attribuirsi a balortaccine che a mala fed. E soggiungeva che se qualche pasticcio c'era, si doveva attribuirlo al segretario particolare del Cantasirena:
—Un tristo soccett…. un certo Laner del Tirol, ma lui come i feri pirpanti, prima ancora del temporal, aveva preso il volo…. con fentimila lir!
E mentre parlava del Laner, la rabbia, il veleno, la bile gli schizzavano dagli occhi astiosi, gelosi.
La signora Angelica e la signora Rosa non erano più sole a Crodarossa. Quando attraversavano la piazza, e in chiesa, all'ora della messa, e quando scendevano dopo la solita passeggiata dall'alto della viottola del Santuario, c'era sempre con loro un'altra donnetta, pure piccolina, secca secca e nera, e inoltre un po' curva, un po' gobba. Era la terza signora Laner, era la signora Evelina.
Ed Evelina, come la sola maritata, in segno di considerazione e di rispetto era sempre tenuta in mezzo dalle altre due.
Il sogno di Evelina era raggiunto!
Essa aveva ormai la sua casetta tranquilla, ordinata, il pranzo e la colazione sempre sicuri e sempre a quell'ora, senza le ansie del lavoro, senza il tormento dei debiti.
Evelina era capitata improvvisamente a Crodarossa; non aveva avuto il tempo di avvertire le zie. Era scappata da Casalbara in una carrettella, col Laner che le teneva dietro, docile, muto, istupidito.
Erano arrivati di mattina, verso le undici, un'ora prima del desinare, ma Evelina aveva frenata la commozione, la maraviglia, lo sconvolgimento delle sue care zie, per non recare alcun trambusto.
—Ci fermeremo un po' di giorni, e vi conterò tutto più tardi!—E subito le aiutò e aiutò la Nunziatina a preparare il pranzo.
Don Giuseppe, di ritorno dalla chiesa col suo solito appetito, non ebbe tempo di turbarsi, vedendosi dinnanzi inaspettatamente "i milanesi" perchè la minestra era in tavola.
—Ha preparato tutto, ha fatto tutto la nostra Evelina!
—Tutto quanto! Tutto quanto!—esclamavano la signora Angelica e la signora Rosa, un po' inquiete, un po' intimorite, indicando a Don Giuseppe, per far entrare subito Evelina nelle sue buone grazie, la zuppiera odorosa, fumante.
Il prete, che da lontano avrebbe fatto tutto il possibile per impedire e scongiurare quello scombussolamento, preso di colpo, e alla vista improvvisa di quel suo ragazzo diventato un uomo, ebbe uno slancio del cuore e lo abbracciò strettamente, con trasporto, con commozione.
La signora Angelica e la signora Rosa si guardarono mute, mentre scioglievano il tovagliolo, e gli occhi delle due vecchiette si gonfiarono di lacrime, certo le lacrime più dolci della loro vita.
Evelina baciò la mano a Don Giuseppe, devotamente, poi sedettero a tavola, e si fecero il segno della croce. Evelina, che stava attenta a tutto, si segnò subito, insieme agli altri.
—Faremo il possibile per non dar disturbo in questi pochi giorni,—disse poi, dopo che ebbero mangiato in silenzio la minestra.
—Sicuro….—esclamò Don Giuseppe, il quale, calmata l'emozione del primo momento, si sentiva impacciato da quella tavola più grande, da quel numero maggiore di persone, dalla necessità di dover parlare con Evelina che non aveva mai visto.—Sicuro, diremo…. diremo che la stagione è poco propizia e quando comincerà la neve…. a Crodarossa non vedremo più che gli orsi.
—Oh, allora saremo a Milano!—esclamò Evelina, guardando le zie con un'occhiata affettuosa, carezzevole, guardando Don Giuseppe con una timidezza quasi soave.—Soltanto, per adesso, Pietro è un po' stanco, dopo tanto lavoro, dopo tante scosse.
Pietro, sempre a capo basso, pallido, ebbe un tremito.
Anche alle zie e a Don Giuseppe era trapelato qualche cosa delle vicende della Cisalpina, ma nessuno fiatò per un riguardo alla nipote del signor commendatore direttor "che doveva aver fatto una quantità di spropositi, poveretto!"
Don Giuseppe sospirò gravemente. Poi guardò Pierino.
—In fatti…. la cera…. per dir la verità, non è troppo bella!
—Ha bisogno soltanto di rimettersi con un po' di giorni di riposo. Del resto, fortunatamente, la condizione affatto subalterna di mio marito, lo salva da qualunque responsabilità morale e materiale.
—E allora ringraziamo di cuore Quel di lassù perchè…. diremo…. in questo caso…. si tratta di una vera provvidenza!—E Don Giuseppe alzò le mani e tirò il fiato.
La signora Angelica e la signora Rosina tornarono a guardarsi mute, a tranquillarsi vicendevolmente e a comunicarsi la loro contentezza anche sotto questo rapporto.
Don Giuseppe, quel giorno, aveva molto da fare per le istruzioni religiose; ma quando arrivò la sera, la cena era pronta e Don Giuseppe ebbe una sorpresa: un piatto di patate alla béchamelle.
—Eccellenti! squisitissime!—E guardò Evelina perchè la bella improvvisata doveva venire da quella parte.
Infatti Evelina sorrideva, arrossiva, chinava il capo, e la signora Angelica e la signora Rosa si scambiavano una rapida occhiata, trionfando.
—Diremo: è una vera perfezione!—Don Giuseppe ne prese una seconda volta.—Io ho mangiato le patate in cento mila modi, ma così buone, mai!—E domandò se quella salsa, quel condimento, aveva un nome speciale.
—Si chiamano patate alla béchamelle.
Don Giuseppe si fece ripetere il nome per impararlo bene, poi stimolato dagli sguardi giubilanti della signora Angelica e della signora Rosina che gli spingevano il piatto dinanzi, ne prese una terza porzione esclamando:
—E allora ringraziamo Quel di lassù che ci ha dato anche diremo…. la béchamelle!
Evelina spiegò com'era fatto quel condimento: un po' di farina bianca, un po' di burro, un po' di latte, un po' di formaggio, un torlo d'ovo, e il tutto ben sbattuto e fatto cuocere lentamente.—Io ho sempre avuto una gran passione per far da cucina. Il pranzo a Pietro lo facevo sempre io: intanto si è sicuri di due cose: di ciò che si mangia e della pulizia.
—Benissimo,—approvò Don Giuseppe.
Allora Evelina, modesta, senza darsi alcuna importanza, e mentre Pietro si era ritirato nell'angolo più buio della camera a fumare la pipa, raccontò gli altri piatti che sapeva fare, e come si poteva risparmiare su questo e risparmiare su quello e risparmiare su tutto.
—Benissimo!—esclamò Don Giuseppe approvando pienamente. Poi si voltò verso la signora Angelica e la signora Rosa.
—E così, i nostri sposi, abbiamo pensato ad alloggiarli bene?
—Nella nostra camera: è la più grande. Ed è già tutto a posto.
—Tutto quanto!
—Come?… Così presto?…—esclamò Don Giuseppe, fingendosi maravigliato per compiacere e fare un po' di complimenti anche alle signore Laner.
—La nostra sposa è tanto svelta!
—Abbiamo lavorato tutti di lena! E anche la Nunziatina, che brava, che buona ragazza!
—Buonissima!—soggiunsero le signore Laner, ed Evelina concluse che voleva già bene alla Nunziatina e che le sembrava di essere sempre stata a Crodarossa.
—E allora,—esclamò Don Giuseppe,—niente di meglio! Dove si sta bene, si rimane!
Ormai Don Giuseppe si era abituato a quella stanza più viva, più animata per il numero maggiore di persone. Ormai tutto era a posto: ormai lo scombussolamento sarebbe avvenuto quando "i milanesi" fossero tornati via!
E velina accennò brevemente, parlando a voce più bassa, per non essere udita da Pietro, ai fatti di Primarole e di Casalbara, giustificando lo zio Matteo, giustificando il signor duca Giovanni, sempre ammalato e tanto vecchio, poveretto, e attribuendo il male di tutto quanto, alla mancanza di fede, di religione, di moralità nei costumi, nelle famiglie, all'abuso di libertà, alla gente cattiva, alle sette degli eretici. In quanto a lei non faceva altro che pregare il Signore e la beata Vergine perchè tutto andasse a finir bene, e lo sperava. In ogni modo, anche per certe sue viste di prudenza, aveva fatto la risoluzione di ritirarsi, per un po' di giorni, a Crodarossa:—Perchè Pietro,—e abbassava di più la voce, e indicava nel cantuccio buio, dove non si vedeva altro che il luccicore, la bragia rossa della pipa,—perchè Pietro, così di buon cuore, trovandosi in mezzo alla burrasca, avrebbe finito, magari, a correre anche lui qualche pericolo…. per voler salvare gli altri!…
—Bravo! Lei ha fatto benissimo!—esclamò Don Giuseppe approvando anche col capo, mentre la signora Angelica e la signora Rosa guardavano Evelina cogli occhi colmi di ammirazione e di gratitudine.
—Che angelo!
—Un vero angelo!
Il giorno dopo, finita la messa, vedendo la moglie del sagrestano colla faccia bendata, perchè spasimava del mal di denti, Evelina la fece venir a casa e la guarì con una goccia di laudano. Tutti in paese, quando passava la sposa dei Laner, si fermavano per conoscerla, per salutarla…. ed Evelina, subito, seppe farsi amare da tutti. Insegnò a fare le patate alla béchamelle alla moglie del giudice di pace, alla moglie dell'ufficiale di posta e alla sorella del dottore: in pochi giorni la signora Angelica e la signora Rosina furono completamente oscurate dalla autorità della signora Laner. Non c'era più che la signora Laner per tutta Crodarossa, non c'era più che la signora Laner per la Nunziatina, per la lavandaia, per l'ortolano, per Don Giuseppe.
Ma le zie non ne erano gelose; anzi, si sottomettevano anch'esse alla superiorità di Evelina, senza più far niente, senza più toccar niente, se prima non avevano sentita Evelina: Evelina così brava, Evelina così svelta, Evelina così economa!… Un gran portento di economia!
La seguivano ad ogni passo, trotterellando, facevano tutto sotto la sua direzione e i suoi ordini, in casa, nella canonica, in cucina, nell'orto. Evelina era piena di garbo, Evelina era piena di testa, Evelina era piena de cuor!
Tutto questo, le due vecchiette lo pensavano, lo esprimevano col viso, cogli occhi, coi gesti…. non colle parole perchè non parlavano più.
Non avendo più da dare i loro ordini, le loro disposizioni alla
Nunziatina, alla lavandaia, all'ortolano, non parlavano più.
Dicevano soltanto: Jesus Maria! Jesus Maria Joseph! quando si trattava di ammirare qualche nuovo portento di Evelina. E soltanto la sera, mentre si spogliavano, nella loro nuova cameretta, un buco, una topaia, sopra lo stanzone delle frutta, tutto pieno dell'odore delle mele cotogne e delle cipolle e che aveva luce da un abbaino sul tetto, si scambiavano le loro apprensioni, riguardo alla salute di Pierino.
—Povero Pierin! Invece di rimettersi diventa pallido, diventa magro, scarmo tutti i giorni di più!
—Non mangia, non dorme, povero Pierin!
Ma poi si consolarono perchè Evelina continuava a ripetere che la causa dell'abbattimento, del malessere di Pietro, era soltanto la stanchezza per il troppo lavoro; un po' di anemia, di esaurimento nervoso, dopo tante inquietudini, tante agitazioni….
Soltanto a Don Giuseppe, Evelina aveva detta tutta la verità, aveva confidato tutto, aveva raccontato di quella cattiva donna che lo aveva sedotto, ammaliato, colle arti del demonio, e come Pietro fosse ridotto in uno stato così misero, appunto perchè era sempre sotto l'influenza di quella passione funesta. E Don Giuseppe, degno in tutto della sua santa missione di protettore, di salvatore, di consolatore delle anime, Don Giuseppe doveva toccare il cuore di Pietro, ottenere il suo pentimento, il suo ravvedimento.
—Certo, sicuramente, per quanto servo indegnissimo di nostro Signore,—e il prete si levava la berretta,-è il mio dovere. Procurerò, per quanto sarà nelle mie forze, e per quanto la testa di Pierino sia sempre stata una testa sbagliata, esaltata, ribelle a qualunque savio suggerimento, procurerò insomma, di fargli aprir gli occhi…. dinanzi al precipizio!
Don Giuseppe sospirava; era un compito difficile!… Vi erano impegnate la sua coscienza e la sua sacra missione, ma…. era un compito scabrosissimo!… E intanto che domandava e aspettava l'ispirazione di Quel di lassù "che tutto vede e provvede" lasciava passare il tempo senza aver mai il coraggio e la lena di prender Pietro da parte e di affrontare l'argomento così delicato.
Ma un giorno, dopo pranzo, mentre recitava il breviario, Pietro, come un pazzo, si precipitò di colpo in camera sua, si precipitò a' suoi piedi.
Pietro Laner anche così solo, così lontano, chiuso fra le sue montagne, aveva sempre nelle orecchie gli urli della folla di Casalbara, aveva sempre dinanzi agli occhi la faccia livida, contraffatta del duca, le pupille fisse, terribili, le labbra gonfie, livide, tremanti di quel vecchio che lo aveva maledetto ingiuriandolo:
—Vigliacco!
E Pietro Laner sentiva vivo, atroce, quel vigliacco, lo sentiva nel sangue, nel cuore, nella sua coscienza, in ogni ricordo di Nora, in ogni ricordo della sua vita, e lo sentiva sempre più atroce, più rovente.
Era vero: era stato un vigliacco! Era un vigliacco!
Perchè non aveva avuto il coraggio di lanciarsi contro quella folla, di farsi uccidere?
Vigliacco!… Vigliacco!…
Perchè era fuggito dinanzi a quel vecchio?… Perchè non aveva avuto cuore di fissarlo in volto, e di sbattergli in faccia la verità?…
Perchè non gli aveva detto: Sei stato tu a sedurre la mia amante, la mia sposa, a spezzare il mio cuore, a spezzare la mia vita?… Sei stato tu il traditore, il seduttore…. il vigliacco!
Ma allora perchè era lì in casa sua, era lì con Evelina, con sua moglie, a dormire, a mangiare? Era vero dunque! L'urlo della folla era il grido segreto, invano soffocato, l'urlo della folla era il grido della sua coscienza! Egli era dunque un mantenuto?… Un mantenuto!… Perciò era fuggito dinanzi a quel vecchio!
Non c'era più redenzione, non c'era più riabilitazione, non c'era più salute per lui.
Ma Dio, Dio, il Dio vero, il Dio giusto, il Dio onnipotente, perdonava! Ma la Vergine mistica della sua fede, la madre dei peccatori e degli afflitti, perdonava. E lì, a Crodarossa, c'era la sua, proprio la sua Madonna, la sua Madonnina buona, benedetta, santa, quella che aveva ascoltata la sua prima preghiera…. quella che aveva ascoltato il suo primo pentimento!… Ma per ottenere quel perdono, per ottenere quella pace, egli doveva avere orrore delle sue colpe…. Nora non doveva più esistere per lui…. Era la dannazione, l'inferno, era il peccato!… E come poteva invocare, e ottenere il perdono e riacquistare la pace quando sulle sue labbra che bisbigliavano le parole del pentimento, fremeva ancora il desiderio dei baci, quando aveva Nora nel cuore, la sentiva nel sangue, quando la chiamava, quando l'invocava, quando la voleva sempre?
…. Poi, aveva saputo che il duca stava male, che il duca era agonizzante, morente….
—Dio! Dio! Il duca moriva, moriva!—E un nuovo senso di terrore gli faceva dimenticare tutto il resto, gli faceva dimenticare anche Nora!
Era lui che aveva spezzato il cuore al Casalbara, era lui che lo uccideva. E nella superstizione paurosa, pensava che la sua pace in terra e il perdono di Dio, non dipendevano più che dalla vita del Casalbara. Quel vecchio era diventato il suo rimorso, la sua coscienza, la sua salute, la sua speranza….
Guai! guai quando il Casalbara fosse morto! aveva paura del Casalbara morto, aveva paura di quell'uomo diventato spirito, diventato spettro!
E siccome ogni giorno, ogni giorno, quel vecchio si avvicinava alla morte, così ogni giorno cresceva il suo terrore, la sua disperazione, la sua pazzia. Perchè Pietro era diventato pazzo, era pazzo: vedeva lo spirito di quel vecchio lottare, dibattersi, per isciogliersi da ogni legame…. vedeva quell'uomo diventato spirito, diventato spettro, inseguirlo cogli occhi sbarrati, fissi, terribili….
…. La notizia della morte del Casalbara era giunta quel giorno da Milano, con tutta la roba di Evelina, e Pietro Laner era corso a buttarsi ai piedi di Don Giuseppe.
Il buon prete lo abbracciò, lo baciò. Lo fece sedere vicino a sè, prendendogli le mani, stringendogliele, accarezzandole, cercando di calmarlo, di consolarlo; poi quando vide diminuito il tremito, lo sgomento del poveretto, cominciò ad ammonirlo, ma sempre dolcemente, affettuosamente.
—In primis venerare Deum. Questo è il fondamento di tutto quanto: e venerandolo, naturalmente, dobbiamo sempre ricordare, a sua gloria e a nostro conforto, che la sua misericordia è infinita. Basta che la promessa di emendarsi e l'orrore pei nostri falli siano sinceri.—E ricordati che dobbiamo essere di parola, dobbiamo essere di parola anche col nostro Signore, l'Altissimo!—e il prete si levò la berretta—anzi, diremo con Lui, tanto più!
Don Giuseppe tornò a baciare Pietro sui capelli, e a sorridere accarezzandolo.
—Ti dico questo, perchè molti i quali si guarderebbero bene dal mancar di parola in un affare qualunque, con quel di lassù non hanno tanti scrupoli e vengono meno allegramente e quasi, direi, quotidianamente, al proprio impegno!
Oh, le umili, le semplici parole! Pietro le aveva sentite ripetere tante volte! Erano le stesse: erano i primi ammonimenti, i primi ammaestramenti: Pietro ascoltandole, ritornava Pierino. Quelle semplici e umili parole sentite nella sua fanciullezza, gli ridavano la pace, erano per lui come un'aura fresca, balsamica, purificatrice. Spariva il poeta dell'Invito, dell'Incanto, dell'Inganno , il direttore dell'Emporio Letterario, il collaboratore della Gazzetta Lombarda e delle Risorse Italiche, il fidanzato di Nora e l'amante della duchessa di Casalbara…. Ritornava Pierino, Pierino credente, Pierino innocente, "il Pierino" dei mortaretti, e dei mattutini, il Pierino del mese di Maria al Santuario di Crodarossa!…
—È vero dunque?…—balbettò.—La misericordia di Dio è infinita?… Anche per me…. per essere perdonato da Dio…. da tutti, basta un vero…. un sincero…. un profondo pentimento?
—Il pentimento congiunto alle buone opere e all'adempimento scrupoloso di tutti quanti i nostri doveri: doveri verso il nostro Signore l'Altissimo, doveri verso il prossimo, doveri sacrosanti verso la nostra famiglia. In famiglia, per esempio, e questo è il caso tuo, dobbiamo comportarci in modo di non arrecare tribolazioni, ma di riuscire invece di aiuto, di conforto. Per questo appunto, diremo, anche nell'esame delle nostre colpe, e in tutti gli atti del nostro pentimento, bisogna procurare di non far scontare agli altri della famiglia i nostri trascorsi, i nostri traviamenti, insomma, i nostri peccati. E questo, ripeto, sarebbe precisissimamente anche il tuo caso. Le zie, due vere mamme per te, sono vecchie, ormai, poverette; sono, diremo…. più di là che di qua! E tu hai l'obbligo di essere loro di allegrezza in questi ultimi anni e non di afflizione. Tua moglie….
Pierino ebbe un tremito, ma Don Giuseppe non se ne avvide e continuò:
—Tua moglie verso la quale hai commesso…. diremo…. come si dice…. insomma i peccati più grossi, bisogna compensarla, coll'affetto, coi bei modi…. e anche con un po' di buon umore! I musi, le stranezze, le sgarberie, le lune non hanno niente a che fare col pentimento e col proposito di ravvedersi. Quasi, diremo, lascierebbero il sospetto, che invece del rimorso delle nostre colpe, sia quasi, viceversa, rimasto dentro di noi…. come un rimasuglio…. di quelle bruttezze!
E Don Giuseppe corrugò la fronte, arrossì di collera, di sdegno:
—Tutta roba del diavolo! Ricordati bene! che conduce alla perdizione della salute dell'anima e della salute del corpo. Tutta roba del diavolo, che conduce direttamente all'inferno nell'altra vita e poi anche in questa medesimamente. Cos'ha lasciato scritto Sant'Agostino? Felicitas perfecta est usus virtutis!
—Sì! sì! sì!—balbettò Pietro,—come rifugiandosi in quelle parole, in quei conforti, in quelle esortazioni "di una volta" per il bisogno di ritornare "come una volta" innocente e felice.—Sì! sì! sì!—E si lasciò cadere in ginocchio ai piedi del prete.
Voleva confessarsi, come allora, quand'era fanciullo. Dopo la confessione egli si sentiva allegro, contento, col cuore in pace, col cuore in festa: scappava dal confessionale e correva a far le capriole nel prato verde: correva ad arrampicarsi nel bosco, sugli abeti, come uno scoiattolo.
Don Giuseppe lo sollevò, lo fece sedere.
—Questo è un buon impeto del cuore! Una santa ispirazione! Bravo!
Pietro rimaneva a testa bassa, curvo, rimpicciolito, umiliato nel suo pentimento, dinanzi a quell'uomo che gli rappresentava il perdono.
—Bravo: ma per degnamente ricevere il sacramento della penitenza, bisogna impetrare i lumi onde conoscere, la contrizione onde detestare, l'umiltà onde confessare sinceramente i propri peccati, ed una volontà risoluta di farne la debita penitenza. Devi raccoglierti, meditare, fare l'esame della tua coscienza.
Il prete guardò Pierino con dolcezza, sorridendo:
—Ti aiuterò, se vuoi, a fare questo esame: e ti dirò io quale è stato il tuo peccato, diremo, fondamentale; la vera origine di tutto quanto: è stato la mancanza di sincerità. Perchè non basta il non dir bugie, dobbiamo essere sinceri anche con noi stessi. Tu, vedi,—continuò Don Giuseppe a mano a mano infervorandosi,—hai commesso il peccato grandissimo di mancare di sincerità verso gli altri e verso te stesso, quando sei scappato in quel modo da Crodarossa per andare a Milano…. diremo…. a divertirti! Tu non potevi confessare alla tua famiglia, non potevi confessare a te stesso, che volevi andare a godere il mondo, e farne di tutti i colori, perchè ti sentivi attratto dalle seduzioni del peccato, dal vizio, da tutte, diremo, le attrattive e da tutti gli ammenicoli della carne e del demonio! Niente affatto! E allora hai mentito cogli altri, hai mentito con te stesso…. e sei andato a inventare, che cosa?… a inventar la patria!
Il prete sospirò, poi sorrise con una certa ironia bonaria, ripetendo quella parola:—la patria!—Si grattò in testa, con un dito, e gli rimase la berretta un po' di traverso.
—La patria!… Per me, povero prete, la patria è lassù: e tutto questo mondo non è, diremo…. che la strada per poter arrivare lassù. Ma la patria, anche per voi altri, non dovrebbe essere un paese dove tutti vanno d'accordo, dove tutti si vogliono bene…. e specialmente, dove nessuno muore di fame?… La patria, insomma, di Gesù Cristo, nostro Signore, il quale precisamente essendo come Figliuolo di Dio la vera luce di tutto quanto, ha scoperto anche la patria universale, l'eguaglianza, il socialismo…. e ne ha parlato nel suo Vangelo, duemila anni prima, giusto in punto, che ne facessero la scoperta…. i moderni talentoni!… Quel santo uomo del tuo buon zio Don Giacomo, che ha amato la patria veramente da buon cristiano, l'ha servita, per esempio tutta la vita, Le ha dato tutto il suo…. ed è anche morto, diremo, per la patria. E tu invece?… Tu per la patria sei scappato a Milano a fare un mucchio di spropositi e di peccati! È vero o non è vero?
Pietro Laner abbassò la testa e sospirò.
Vi fu un lungo silenzio, poi Don Giuseppe gli domandò sottovoce, dolcemente:
—Dobbiamo cominciare?…
Pietro si appressò di più sulla seggiola, tanto quasi da posar la testa sul petto del prete: Don Giuseppe lo benedì: si levò la berretta che tenne fra le due mani congiunte sulle ginocchia, socchiuse gli occhi e ascoltò.
Quella confessione fu generale, piena, intera. Pietro aveva la febbre, le smania di accusarsi; sperava accusandosi, di riaffermarsi nella sua fede, di ottenere il perdono, l'oblìo, la pace, la serenità….
…. Invece quando uscì dalla canonica, sebbene Don Giuseppe lo avesse assolto e baciato in fronte, con un atto mistico di redenzione, il suo spirito non era libero, non era tranquillo…. il suo cuore non era contento….
Era rimasto come prima, infelice…. grandemente infelice!
Andò nella sua camera, vi si rinchiuse, solo. Era la cameretta delle zie, e anche Pietro sedette alla finestra come le due vecchierelle, guardando nell'orto, guardando il "Gigantesso"….
—Dio…. Dio…. come era infelice! Quanto si sentiva infelice!… Ma sarebbe stato sempre, sempre infelice così?
A Crodarossa cominciava l'inverno…. era il primo giorno d'inverno, l'inverno lungo e bigio della montagna.
Pietro Laner sentiva la neve nelle ossa…. nel cervello….
—Dio! Dio! Com'era infelice!… Com'era profondamente infelice!… Ma sarebbe stato sempre, sempre infelice così?
Le prime falde di neve calavano, volavano qua e là, portate dal vento come piume di cigno…. Poi si fecero più minute…. più spesse….
—Dio! Dio!… Ma sarebbe stato sempre, sempre infelice?…
A mano a mano era tutto un turbinìo confuso, violento, di falde di neve sotto il cielo bigio…. A mano a mano sparivano l'orto, il "Gigantesso" le montagne sotto quella neve, dietro tutta quella neve, quella bufera di neve. Una fila di corvi attraversò pesantemente la caligine bianca, incalzante, rammulinante, muta…. fu l'ultimo segno di vita. Poi tutta neve…. tutta neve…. Era sparito il cielo…. era sparita la terra. Anche il cupo rintocco di una campana era rimasto soffocato, sepolto sotto la neve.
Pietro intirizzito, attonito, guardava, guardava…. cercava…. Non vide più niente, non udì più niente! Soltanto la neve…. quel turbinìo di neve, la neve melanconica, triste, silenziosa…. la neve squallida, la neve penetrante col freddo della morte!…
Trasalì, con un brivido.
Non c'era più niente, più niente!
Non c'era più mondo, non c'era più Dio…. Non c'era più Nora!… Oh,
Nora! Nora! Nora!… Non c'era più!…