Title: La testa della vipera
Author: Vittorio Bersezio
Release date: August 28, 2008 [eBook #26452]
Most recently updated: January 4, 2021
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)
Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the
Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)
IL ROMANZO TASCABILE
Centesimi 50 ogni volume
MILANO
SOCIETÀ EDITRICE SONZOGNO
Via Pasquirolo N. 14.
MILANO
SOCIETÀ EDITRICE SONZOGNO
14—Via Pasquirolo—14
1896.
Proprietà letteraria
Tip. dello Stab. della Società Editrice Sonzogno.
Erano già le tre del mattino, e i giuocatori, sempre più accaniti intorno al tappeto verde, chiedevano nuovi mazzi di carte ai servitori sonnacchiosi del club.
Uno di questi aprì l'uscio di quel salotto dall'afa soffocante, s'inoltrò fino al tavolo dei giuocatori, e toccò discretamente sopra la spalla un uomo di circa quarant'anni, che, anche da seduto, appariva alto di statura, con un testone tanto fatto, irto di capelli rossigni tagliati corti che parevano punte di lesina, con ispalle grosse, rotonde, quasi gibbose.
Quest'uomo si voltò bruscamente e saettò chi l'aveva tocco di uno sguardo irritato cogli occhî grigi, che, in mezzo a quel faccione, apparivano piccolissimi, ma luccicavano d'un fuoco maligno.
—Che cosa c'è? domandò egli ruvidamente.
—Son venuti a cercare di lei da casa sua.
Quell'altro corrugò le grosse, fulve sopracciglia.
E senz'altro si voltò di nuovo al tappeto verde.
—Scusi, insistette il servo. Dice che è cosa di premura… Quella donna vuole assolutamente parlarle.
—Donna!… È una donna?
—Sì, signore.
—Vecchia?
—Non più giovane.
—Piccola, tozza, rossa in viso?
—Appunto…
—E che cosa ha detto?
—Che aveva da parlarle, che premeva molto che la sentisse subito subito.
Quell'uomo sbuffò contrariato e dispettoso, ma non esitò più; puntò le manaccie villose sulla tavola e si alzò collo stento che avrebbe avuto se la tenace pece lo avesse appiccicato alla seggiola.
—Te ne vai, Lograve? gli domandò uno dei giuocatori.
—Un momento. Conservatemi il posto… vengo subito.
Raccolse in fretta le poche monete che aveva innanzi a sè, le cacciò in tasca, e col passo pesante seguì il servo in una camera attigua.
Là stava aspettando una donna quale era stata descritta dal giuocatore. C'era in essa qualche cosa di sommesso e di impertinente, di umile e di presuntuoso; l'aspetto d'una serva che fa da padrona. Vestiva un abitaccio di cotone da pochi soldi al metro e per difendersi dal freddo di quella notte invernale s'era avvolta in un mantello impellicciato da mille lire: con un fazzoletto di lana s'era coperto il capo, e ora, levatoselo in quel caldo ambiente, mostrava una capigliatura abbondante, nera come ala di corvo, in cui correvano già numerosi i fili d'argento. I pochi resti di una bellezza volgare, contadinesca, sparivano sotto la pinguedine che le faceva enormi le guancie e sotto una espulsione cutanea che glie le arrossava. Gli occhî, neri come i capelli, avevano un'espressione audace, curiosa, investigatrice, spiacente. La voce era forte, maschia; le labbra sottili della bocca troppo grande scoprivano ad ogni momento i denti bianchissimi e robusti.
Il collo grosso e corto aveva un giro di granate con un fermaglio rotondo d'oro, grosso come il dito pollice; e le mani tozze, corte, dalle unghie schiacciate, erano sovraccariche di anelli.
Appena vide entrare il signor Lograve, quella donna esclamò:
—Presto, presto, sor Lorenzo… Venga a casa… Sua moglie sta malissimo.
—Peggio di quando sono uscito?
—Assai peggio.
—È lei che ti manda?
—Oh! no… La non può nemmen più parlare. E poi essa non oserebbe…
—È di tuo capo che t'è venuta la bella idea, di venirmi a rintracciare fin qui?
—No, signore: è stato il medico.
—Il medico!… C'è il medico in casa mia a quest'ora?
—Sicuro. Jeri sera ha trovato che le cose s'incamminavano troppo male e ha detto che se la malata peggiorava nella notte lo mandassimo a chiamare. La monaca mi venne a svegliare verso l'una, che le pareva la signora dovesse passare da un momento all'altro… Abbiamo mandato pel dottore, il quale è stato sollecito a venire, e si è stupito molto vedendo che il padrone di casa non c'era.
Lorenzo crollò le grosse spalle per significare che dello stupore del medico non glie ne importava niente.
—Fra il dottore e la suora me ne hanno dette tante che mi sono decisa a venire io stessa.
—Perchè voi?
—Perchè nè il servo nè il portinajo conoscendo il bell'umoretto di vossignoria hanno osato prendersi l'incarico.
Una fiamma salì alle guancie di Lorenzo che serrò i pugni e fece all'aria un gesto minaccioso.
—Sciocchi! imbecilli! poltroni! esclamò. Sono io il diavolo forse?… Ebbene, ora che siete venuta, Marianna, riprenderete la vostra strada e tornerete a casa!
—E voi? domandò la donna guardandolo fissamente negli occhî.
—Io?… io farò come mi piace.
—Ah! Lorenzo! disse la Marianna con una nuova famigliarità. Pensa bene! Tua moglie muore!
«Che cosa dirà la gente, se tu non sarai al suo capezzale, se ti si saprà in quel momento a giuocare in una biscazza?
Il passaggio al voi e poi al tu spiacque evidentemente al Lograve, il quale si guardò ratto d'intorno, pauroso che alcuno potesse aver udito: ma erano soli. L'uomo dissimulò il suo malcontento, e rispose facendo correre qua e là lo sguardo de' suoi occhietti inquieti:
—A me importa di quel che dirà la gente!… Ma pure verrò.
—Subito?
—Sì.
—Con me?
—No, sarebbe villanìa partire senza una parola ai compagni. D'altronde ho qualche impegno… Va, va pure; fra dieci minuti sarò a casa.
—Sicuro?
—Sicurissimo.
—Non mancate.
—No.
—E presto…
—Ho già detto di sì, interruppe l'uomo con brusca impazienza.
Marianna si ricoprì il capo col fazzoletto, si serrò intorno la persona il mantello che aveva slacciato e lasciato cascare alquanto dalle spalle, e partì senz'altro saluto.
Lorenzo rientrò nella stanza del giuoco.
—T'abbiamo conservato il posto; gli dissero i giuocatori additandogli vuota la seggiola che aveva lasciata poc'anzi.
—Bene!… grazie! rispose Lorenzo sedendosi. Un taglio e me ne vado… tanto da perdere ancora questi pochi che mi sono rimasti.
E ripose sul tappeto quella manciata di monete che aveva intascate levandosi di là. Seguitò a perdere; giuocò su parola; erano le sette del mattino quando il giuoco cessò e Lorenzo Lograve si alzò da quel tavolo con la perdita delle duemila lire che si era portate in tasca e di altre cinquemila da pagarsi. Camminò lentamente, quantunque l'aria frizzante di quel mattino invernale consigliasse ad affrettare il passo. Aprì l'uscio di casa colla chiave ed entrò. Tutto era bujo e silenzio. Senza accendere il lume attraversò la stanza d'ingresso, un'antisala, un salotto e chetamente venne ad affacciarsi all'uscio di una camera da letto. Le grandi cortine cascavano tutt'intorno al letto e lo chiudevano alla vista; appiedi era stato posto un tavolino con elegante tappeto e sopravi un crocifisso fra due candele accese.
Nessuno fiatava, nulla si muoveva; il luogo parve affatto deserto a Lorenzo che fece alcuni passi innanzi. Allora egli vide alzarsi dall'inginocchiatojo a destra una donna tutta vestita di nero che stava pregando. Era la monaca vegliatrice.
—Ebbene? domandò Lorenzo con voce bassa e quasi esitante.
La monaca lo guardò bene in faccia e gli rispose freddamente:
—È morta!
Quando Marianna era rientrata, il medico le aveva detto che, se il marito della moribonda tardava una mezz'ora, non l'avrebbe più trovata in vita; poi, non essendo più possibile alcun soccorso per quella infelice, erasene partito.
La morente pareva assopita: un respiro lieve, ma affrettato, le usciva dalle labbra assottigliate, aride, livide, semiaperte; le mani brancicavano con moto macchinale il lenzuolo; le palpebre richiuse apparivano così affondate nelle occhiaje che avreste detto non esservi più di sotto il bulbo; la fronte libera, dai capelli tirati indietro, pareva enorme, il viso invece stremenzito non maggiore di quello d'una bambina. La suora di carità, curva sull'agonizzante, ne bagnava le tempie e le labbra con un pannolino e recitava le preghiere dei moribondi.
—Sempre lo stesso? domandò Marianna tanto per dire qualche cosa,
—Peggio, rispose la monaca. E il marito verrà?
—Sì.
In quel punto la giacente aprì gli occhî. Quelle pupille, già velate dall'ombra della morte, guardarono vagamente qua e là senza segno di coscienza, ma incontrando la facciona rossa della Marianna, si animarono e presero un'espressione di ripugnanza, di rancore insieme e di paura.
—Via!… via colei! balbettò la misera. Non mi ha ancora fatto male abbastanza?
Marianna si ritrasse vivamente indietro, facendosi nascondere dalle cortine alla vista della giacente, e intanto susurrò alla monaca:
—Il solito delirio… Non riconosce più le persone a cui essa era affezionata.
La monaca non disse nulla.
Lo sguardo della moribonda andò a porsi sopra una culla che stava presso la finestra. La coscienza e l'intelligenza tornarono del tutto in quell'essere vicino ad estinguersi.
—Mio figlio! diss'ella con voce alquanto più forte. Voglio vederlo.
—Il bambino non è qui, disse la monaca.
—Dov'è? dov'è? Me l'hanno rapito?
E il capo le si agitò sul guanciale, e le mani brancicarono più irrequiete sulle coltri.
—Si calmi, cara Luisa, soggiunse la suora; il bambino è di là che dorme colla nutrice.
—Ah! la balia! susurrò la moribonda; so che l'hanno dato alla balia… Me l'ha portato via la balia.
—No, no, stia tranquilla, è di là; creda alla mia parola.
—Voglio vederlo… voglio vederlo.
S'agitò maggiormente; la voce le si era fatta più forte, un lieve rossore le salì alle guancie e faceva uno strano contrasto col giallognolo della fronte.
—Abbia pazienza, disse la monaca, mettendole una pezzuola ghiacciata sulla fronte; il piccino dorme.
Ma la moribonda s'agitava viepiù.
La monaca fu commossa dall'accento di supplicazione disperata con cui quella poveretta pronunciò tali parole; si voltò indietro e susurrò alla Marianna nell'ombra:
—Contentiamola, pover'anima!… Faccia portar qui il bambino.
Marianna stette un attimo quasi esitante, poi crollò lievemente le spalle e se ne andò senza dir motto.
—Mio figlio!… mio figlio…. continuò ad esclamare con voce gemicolante la morente.
—Verrà, verrà, le disse la monaca. Sono andati a prenderlo… Si quieti, a momenti sarà qui anche suo marito.
Finalmente l'uscio s'aprì, ed entrò una balia assonnata, con aria di cattivo umore, e fra le braccia, serrato nel portabimbi, un fantolino di pochi giorni che gemicolava ancor esso, quasi alla pari di sua madre nell'agonìa.
Gli occhî di quest'ultima s'illuminarono d'un lampo di vita. La misera fece uno sforzo per tirarsi su della persona, per sollevare le braccia e tenderle al bambino; ma non potè nè l'una cosa, nè l'altra; il capo le ripiombò sul cuscino, le braccia sulle coltri.
La monaca prese il bambino dalla nutrice, e venne a porlo sotto gli occhî della madre. Era un bimbo miseruzzo, piccino, piccino, cogli occhî rinchiusi, la pelle tutta grinze, la carnagione gialliccia; e non cessava quel gemicolìo, che rivelava un continuo malessere.
La moribonda balbettò con accento d'immenso desiderio:
—Baciarlo!
La suora di carità pose presso le labbra della morente il visino patito del bimbo.
—Oh, figlio mio! susurrò la madre infelice. Lasciarti… in mano di… O Dio pietoso!… Lo raccomando… Preghi…
Un ultimo sguardo supplicante rivolse alla monaca; le labbra cessarono di baciare e di parlare; una lieve contrazione corse per tutto il corpo della poveretta e con un sospiro il capo si reclinò sulla spalla.
La monaca porse il bambino alla balia.
—Prendete, portatelo di là… Questo innocente non ha più madre!
Marianna fece vedere fra i battenti dell'uscio la sua faccia rubiconda.
—Finito? domandò.
—Sì! rispose la monaca, la quale con mano pietosa subito richiuse alla morta gli occhî e le labbra, ne adagiò il capo sui guanciali, congiunse le mani sopra le coltri e pose fra esse un crocifisso mormorando preghiere.
Marianna s'avanzò lentamente, quasi riguardosa verso la morta; la contemplò un istante con uno sguardo di espressione difficile a definirsi, ma non certo di dolore; e poi disse freddamente:
—Ha terminato di patire… Già, non ha mai goduto di florida salute… Non avrebbero dovuto maritarla… E neppure suo figlio non credo che possa vivere…
—Sarà quel che Dio vorrà, interruppe asciuttamente la monaca.
—Oh! ella ha ragione, cara suora! esclamò con accento di untuosa devozione Marianna. Dio sa meglio di noi quel che ha da fare. Dà e toglie la vita, e bisogna rassegnarsi a' suoi santi voleri.
Cambiò tono ad un tratto per dire con ostentata indignazione:
—Ma quel sor Lorenzo è proprio imperdonabile… Non essere neppur venuto a darle un ultimo addio.
La monaca non disse nulla: dispose appiè del letto il tavolino col crocifisso e le candele, accostò l'inginocchiatojo e si mise a pregare.
—Cara suora, ha ella bisogno di qualche cosa? domandò Marianna facendo meglio che poteva la voce dolce e insinuante.
—No, grazie, rispose la monaca senza pure voltare il capo. Starò qui a pregare finchè venga la mia compagna a surrogarmi.
—Benissimo… Le sue preghiere sono una carità fiorita per questa povera anima… Pregherei anch'io molto volentieri qui con lei… ma sono stanca… Ho vegliato parecchie notti… e per me le emozioni mi accasciano. Vado a gettarmi sul letto… Oh, non dormirò… pregherò anch'io… ma proprio non posso più star su.
La monaca, colla fronte serrata fra le mani, seguitava a pregare senza dar retta alle parole di Marianna.
Questa non aggiunse altro e scivolò fuori della camera senza rumore; dieci minuti dopo, essa dormiva sodo, come chi ha l'anima soddisfatta e tranquilla.
—Morta! ripetè Lorenzo fuggendo cogli occhietti grigi e maligni lo sguardo dritto, levato della suora di carità.
—Da due ore… La vuol vedere?…
E senza aspettare risposta, la monaca sollevò uno dei candelieri, tirò in là una delle cortine e fece cadere la luce gialla dalla candela sul volto della morta.
Una gran placidezza s'era diffusa su quel volto fattosi del colore del vecchio avorio; ne spirava quel non so che di solenne e di sacro, che dà ai lineamenti umani la morte.
A quella infelice la Provvidenza non aveva concesso l'inestimabile privilegio della donna che è la bellezza; irregolari i tratti, cinerea la carnagione, povera la capigliatura, troppo sporgente e a bozze la fronte, incavate le guancie, meno candidi i denti; un pregio solo: una grande aria di bontà a cui si aggiungeva la timidezza del debole.
—Luisa! esclamò Lorenzo facendo un passo verso il letto: ma il suono di quel nome pronunciato dalla sua voce parve stupirlo, infondergli non so qual paura. Anche dalla vista di quel placido volto di cadavere fuggirono i suoi occhî irrequieti. Egli chinò il capo e mormorò piano:
—Morta!… Poveretta!
—Vuol sentire le ultime parole che ella disse?
Lorenzo, sempre guardando in terra, accennò di sì col capo.
—Si fece portare il bambino, e baciandolo mormorava: «lo raccomando, lo raccomando…» È certamente a lei che voleva raccomandarlo.
Lograve fece sgusciare verso la monaca una ratta guardatura maligna.
—Sono suo padre, disse con voce cupa non ho bisogno che mi venga raccomandato… E hanno lasciato lei sola qui? s'affrettò a soggiungere per cambiar discorso.
—Sì.
—Non istà bene.
—È il mio ufficio questo, e non ho bisogno di ajuto nè di compagnìa per compirlo.
E tornò all'inginocchiatojo a pregare. Lograve rimase un momento esitante, quasi perplesso.
—E… la governante? domandò poi abbassando ancora la voce.
—Si è ritirata anch'essa, rispose la monaca senza voltarsi.
Il vedovo andò al camino dove ardeva un buon fuoco, sedette e si diede a fissare le fiamme che danzavano sui tizzi. Regnava il più profondo silenzio. La monaca stava immobile sull'inginocchiatojo a pregare; il marito di quella morta immobile a contemplare il fuoco acceso. Egli non aveva l'ipocrisìa d'una lagrima. Non si poteva dire che sentisse rimorso; ma un grave fastidio l'occupava; il pensiero dell'irrevocabile, dell'irrimediabile, gli era come un peso al cervello. Questo, stanco dalla veglia e dalle emozioni del giuoco, cadeva di quando in quando in una specie di vaneggiamento in cui le idee si confondevano scambiandosi in imagini spropositate, come quelle dei sogni, e, pur rimanendo sveglio, perdeva la percezione esatta delle cose e del tempo.
A un punto uno dei tizzi, a metà consumato dalla fiamma, cadde e rotolò giù dal focolare: Lorenzo si riscosse, prese affrettatamente le molle, raggiustò la legna, e sbadatamente si mise a battere sui tizzi; ma in quel silenzio di morte il rumore prodotto gli parve enorme, scandaloso. Egli si drizzò in piedi, depose pianamente le molle, guardò di sfuggita verso il letto, e con passo guardingo uscì dalla camera.
Lungo il corridojo, a capo del quale era la sua camera, Lorenzo passò dinanzi ad un uscio e si fermò esitante: un forte russare venne ad avvertirlo che la Marianna ci dormiva profondamente. Fece un atto quasi di dispetto, e continuò la sua strada. Giunto nella sua camera, vi si rinchiuse, accese una lampada, poichè il giorno non era abbastanza chiaro, e passeggiò un poco su e giù, colle braccia incrociate, il capo chino, più curve del solito le spalle grosse. Poi sentì un gran freddo invaderlo con un malessere di tutta la persona.
Spense il lume, si buttò sul letto vestito come era, e si avvoltolò ben bene nella coperta imbottita. La stanchezza della veglia lo opprimeva, il calore a grado gli rianimava il sangue, gli parve di potersi addormentare anche lui, e se ne rallegrò tutto. Chiuse gli occhî, stette immobile e aspettò con intenso desiderio questo sonno benefico.
Ma no, ch'esso non venne. Tornavano invece le imagini strane; prima senza senso, senza nesso, spropositate, confuse; quindi a poco a poco più nette e precise; le imagini di tutto il suo passato, che si posero a sfilargli innanzi alla mente, insistenti alcune, le più spiacevoli ribelli alla sua volontà, che si sforzava a scacciare lontano.
Ed ecco qual era il suo passato.
Figliuolo d'un uomo che doveva dirsi il fiore degli egoisti e di una donna dalla testa leggiera e dalla condotta compagna, egli era nato cogli amori d'un prodigo e le passioni d'un libertino. Suo padre lo trattava come un cane, ed egli odiò suo padre; conobbe presto le sregolatezze della madre, ed egli disprezzò sua madre. Dovette assistere a scene terribili, ignobili, fra genitori, che gli tolsero per essi ogni rispetto e riguardo. Il padre non aveva che un mezzo per tenerlo sommesso e disciplinato: il rigore, e ne abusava. Il giovinetto conobbe tutti i generi di punizione che un padre senza cuore possa infliggere a un figliuolo recalcitrante.
La madre un bel dì scappò di casa con non so quale avventuriere, e la rabbia, la vergogna del marito abbandonato si convertirono in altrettanta maggiore persecuzione verso il figliuolo. Questi pensò ancora egli più volte di sottrarsi colla fuga ad un'esistenza divenuta insopportabile; ma dove andare? e come vivere?
A quattordici anni credette poter procurarsi un mezzo di scampo. Un suo compagno di scuola, più vecchio di lui, gli parlò del giuoco: Lorenzo riuscì a rubare uno scudo dal taschino del panciotto di suo padre, a letto addormentato, e si fece condurre in una bisca. Guadagnò, e il suo guadagno subito consumò in luoghi sconci, per tornare a casa ad ora indebita, senza più un soldo e ubbriaco. Furibonda fu la collera del padre, e degni di essa gli effetti. Lorenzo, schiaffeggiato, cacciato a calci nello stambugio che gli serviva da camera, vi doveva rimanere prigione una settimana a pane ed acqua. Uscì di là più invelenito, e con nel sangue già violente le destatesi passioni del giuoco e della dissolutezza.
In quel tempo entrò in casa come governante una giovane donna, fresca, grassoccia, colla volgare bellezza d'una florida salute, colle grossolane attrattive d'una carnosa robustezza, ed in breve fu la padrona. Era la Marianna.
Lorenzo cominciò per odiarla; ma la donna, o avesse veramente compassione di quel maltrattato, o per accorta previdenza volesse prepararsi la continuazione del dominio in quella casa, anche dopo la morte dell'attuale padrone, si fece la protettrice del giovinetto. Dell'autorità che aveva saputo acquistare sul padre di Lorenzo, si giovò per mitigare i feroci umori verso il figlio; molte punizioni riuscì a diminuirgli o anche a risparmiargli affatto; molte colpe di lui seppe nascondere e nello stesso tempo valse a fornire il borsellino vuoto del giovane perchè potesse a suo modo divertirsi. Fece anche peggio con infame cedevolezza, per tenere a sè legati e padre e figliuolo; e insomma riuscì a dominare l'uno e l'altro e a spadroneggiare in quella casa in tutto e per tutto.
Quando il padre morì, le cose non cambiarono per Marianna; anzi furono meglio ancora. Sul giovane Lorenzo quella furba, corrotta donna, aveva saputo acquistare un influsso anche maggiore.
Violento di carattere, maligno di cuore, Lorenzo, imperioso, sofistico; grossolana la donna, avevano pure non di rado furiose contese; ma appetto a lei più tenace, più verbosa, più acre, che sapeva di lui tutto il brutto, ne conosceva a fondo l'anima ed era abilissima a rinfacciare, accusare, minacciare, egli finiva per cedere e col tempo s'era lasciato investire da una specie di suggezione, che pareva riconoscere nella donna una superiorità.
Inoltre la Marianna, toltasi in mano, fin da quando viveva il padre di Lorenzo non solo il governo della casa, ma tutta l'amministrazione del patrimonio, erasi fatta poco meno che indispensabile al giovane che amava trovarsi ogni cosa accomodata a dovere, e denari in pronto a ogni occasione senza aversi da prendere il menomo fastidio.
Nè era poco abile e poco zelante l'accorta femmina a procurare il proprio guadagno: tanto che, maneggiando essa e capitali e fondi e redditi, ogni anno riusciva a mettere in disparte, come cosa sua, un buon numero di migliaja di lire, e in capo a due lustri aveva investito in titoli del debito pubblico e in depositi bancarî più di cinquantamila lire. Ma mentre venivano così aumentandosi le sostanze della governante, scemavano rapidamente quelle del padrone, da lui sperperate al giuoco, nei bagordi, nel soddisfacimento delle sue passioni e dei suoi vizî. Era sempre la Marianna che provvedeva ai bisogni di lui, accattando denari di qua e di là, e specialmente da sè stessa.
Quando Lorenzo contava già trentacinque anni ed era quasi del tutto rovinato, la fortuna venne a porgergli occasione di rifarsi mercè un matrimonio.
A prender moglie egli non ci aveva mai pensato; e se vi avesse pensato, si sarebbe affrettato a fargliene smettere l'idea la Marianna, la quale a niun patto avrebbe tollerato l'ingresso in casa d'un'altra donna.
Ma ci fu una fanciulla così disgraziata da far nascere in Marianna medesima il disegno di darla in moglie al padrone. Era figliuola unica d'un usurajo ignobile e spilorcio, cui tutti disprezzavano e che tutti disprezzava, vivendo isolato nel sudiciume d'una stamberga. La misera Luisa era venuta su stentata, rinchiusa fra quelle mefitiche mura, senz'aria, senza sole, mal nutrita, mal riparata dal freddo dell'inverno, oppressa dall'afa nei calori della state. Appena se il padre le aveva fatto imparare a leggere e scrivere, mandandola da certe monache, le quali, oltre il rosario e un ricco repertorio di giaculatorie, nulla sapevano insegnare.
Della vita, la poveretta non conobbe mai nulla, del mondo non potè vedere che le quattro pareti della triste casa paterna, un umido cortiletto, e il convento e il tratto di strada che conduceva alla chiesa, e la chiesa dove il padre la traeva, estate e inverno, ad assistere alla prima messa.
In casa, naturalmente, a fare le più umili come le più faticose bisogne, non c'era altra persona che lei.
Marianna cominciò ad aver attinenza coll'usurajo, cercando accatti pel suo padrone.
Al vecchio gufo tornò gradevole la vivace grossolanità di quella paffuta e rubiconda comare; si stabilì a poco a poco fra quei due una certa famigliarità; la governante di Lorenzo fu la sola creatura umana che il padre di Luisa ammettesse in casa per altro che per affari.
Ed ecco che un bel giorno, un tiro secco di colpo rapì l'usurajo alla figliuola e agli accumulati e nascosti tesori, senza che egli, il quale rifuggiva sempre con orrore dal pensiero della morte, avesse, in alcun modo, provvisto alle cose sue.
La figliuola, unica erede, essendo già maggiore di età, entrò subito in possesso delle sostanze paterne, e, inesperta, ignorante di tutto com'era, trovossi più imbarazzata d'un pulcino nella stoppa. Ma c'era lì la Marianna, e la povera fanciulla ringraziò la Provvidenza che le avesse procurato un sì valevole ajuto a trarla d'impiccio.
Quando la governante del Lograve ebbe veduto a quale vistosa ricchezza ammontasse la eredità lasciata dall'usurajo, provò invincibile la tentazione di metterci le mani dentro, e il mezzo più facile e più sicuro per ciò vide subito esser quello di far sposare Luisa da Lorenzo. La fanciulla era una scempietta che non avrebbe mai avuto una volontà sua, che di certo avrebbe subìto dalla Marianna quella tirannìa che fin allora aveva sofferto da suo padre. Luisa poi aveva ancora agli occhî della governante un altro merito: era brutta.
Lorenzo dapprima si rifiutò energicamente a tal disegno, ma l'ostinata donna, tanto più stimolata a spuntarla, finì per vincere, e nulla valse a salvare la povera Luisa dal suo triste destino.
Da principio però ella non ebbe a dolersene: le parve anzi di non essere mai stata così bene: aveva cessato di fare la servaccia e godeva di alcuni agi e vantaggi della ricchezza, cui la spilorcerìa del padre non le aveva lasciato conoscere mai. Suo marito di certo non le inspirava nessun tenero affetto e nemmeno fiducia e stima; e il carattere violento di Lorenzo, che con tanta frequenza diventava bestiale, riuscì a incuterle una tremenda paura. Per un po' di tempo la Marianna ebbe verso Luisa un'apparenza di protezione e difesa, ma fu proprio breve quel tempo, perchè la serva-padrona ben presto prese in uggia quel mostricciuolo di donna, che, in fin dei conti, altro non erale che un impaccio e una seccatura.
Allora fu una gara fra due anime malvagie a chi più tormentasse quella debole, impotente creatura abbandonata in loro balìa; così bene, che le miserie, i rabbuffi, gli stenti ch'ella aveva dovuto soffrire sotto la tirannìa paterna parvero a Luisa un nonnulla appetto alle sragionate violenze del marito, alle perfide persecuzioni della governante.
Dopo cinque anni di matrimonio, ecco avverarsi un inaspettato avvenimento che rialzò l'animo accasciato della poveretta, le diede una energìa di cui nemmeno essa si sarebbe creduta capace: ella stava per essere madre!
Fu una rivelazione per quella derelitta, cui nessuno aveva ancora amata, che fin allora non aveva amato nessuno mai. La sua facoltà affettiva, inerte, si destò a un tratto e di subito forte e risoluta. In quell'essere ancora ignoto che la Provvidenza le mandava si concentrò per lei la ragione di vivere, tutto il bene possibile sulla terra, una luce divina che rischiarava meravigliose mai più sognate plaghe nell'avvenire. Se essa poteva soffrire rassegnata ogni sopruso, ogni travaglio, non voleva, non doveva permettere che una sorte uguale, accogliesse nel mondo quella creaturina che Dio le affidava; era suo obbligo prepararle più soffice il nido, più mite l'aurora, per così dire, più sereno il cielo. Di qui nuovi e maggiori contrasti col marito e la governante. La notizia della prossima maternità di Luisa era stata accolta da Lorenzo colla sgarbata indifferenza del suo cinico egoismo, da Marianna con nuovo dispetto e un accrescimento di malevolenza. Ogni giorno avevano luogo scene violente, disgustose, vergognose fra quei due tristi e la loro vittima, la quale ora trovava un coraggio non avuto mai per difendere in sè stessa il figliuolo nascituro; ma ognuna di quelle scene portava via, per così dire, parte della vita alla povera donna, già così debole e cagionevole, di modo che quando giunse il momento del parto, l'infelice era affatto stremata di forze. Ella avrebbe voluto allattare il bambino essa stessa, ma il medico la persuase che ciò era impossibile; avrebb'ella voluto che la nutrice stesse in casa, per aver essa sempre seco suo figlio; ma questo la Marianna non voleva tollerare, e il marito lo negò assolutamente. In una cosa sola vinse il desiderio di Luisa; nella scelta del padrino.
Dei congiunti che gli rimanevano, Lorenzo Lograve non aveva conservato relazione con alcuno, fuorchè con un cugino di secondo grado, Emilio Danzàno, ricco industriale, che da qualche tempo aveva rinunciato a fabbricare quei panni che lo avevano arricchito per godersi in pace gli agi onestamente acquistati e le dolcezze della famiglia. Nelle rare visite che si facevano, Luisa ammirò la tenerezza fiduciosa e concorde che aveva luogo fra i conjugi Danzàno e l'amore, l'attenzione di entrambi per un loro figliuoletto che, quand'ella si sentiva madre, contava appena tre anni o poco più. Un simile amore la poveretta sapeva pur troppo che suo figlio non lo avrebbe trovato nel padre, e pensò che quel galantuomo di Danzàno sarebbe stato un difensore, un ajuto al nascituro.
Fu la sola contentezza che Luisa ebbe il vedere accettati per padrino e madrina i conjugi Danzàno.
Ma non fu solamente contentezza, fu trasporto, ebbrezza, delirio di felicità quello che la povera donna provò, quando la levatrice le ebbe posto fra le braccia un fantolino che piagnucolava con appena udibil voce.
Egli era grosso come un ranocchio, magro, schiacciato il viso, nero di carnagione, tutto rughe la pelle; eppure all'estasiata madre parve la bellezza di un angioletto sceso per lei dal paradiso.
Ella aveva sofferto di molto, e dolori morali e tormenti fisici; ma tutti furono obliati, o meglio benedetti, poichè le avevano procurato tanto bene, tanta gioja, tanto rapimento.
Il medico diceva che di molte cure aveva bisogno la puerpera: ma che grazie allo zelo di chi la vegliava avrebbe potuto essere salva anche la vita della madre. Giù da un paese montanino era arrivata una balia tanto fatta che poteva dirsi il ritratto della prosperità; e la giovane madre se n'era tutta rallegrata.
A Lorenzo la nuova paternità non aveva prodotto grande entusiasmo di gioja; egli guardava con occhio fra dispettoso e mortificato quel scimiottino, e lo mortificavano viepiù i sogghigni, le ironìe, i compatimenti della Marianna.
Luisa dapprima era stata un po' gelosa della balia, ma poi, visto che essa dimostrava molto affetto al bambino, e che questi suggeva con così avida soddisfazione l'alimento da quel turgido seno, le aveva posto subito un gran bene, e avrebbe fatto non so che cosa per contentarla. La balia mostrò un gran desiderio di avere un orologio, e Luisa, staccato dal capoletto il suo, glie lo diede.
A sera, Lorenzo rincasando irritatissimo per una vistosa perdita al giuoco, eccitato dai fumi del vino e dei liquori, passò nella camera della moglie, e il suo occhio grifagno vide che l'orologio mancava dal suo solito posto. Ne chiese, e udito del regalo fattone alla balia, scoppiò senz'altro in una di quelle sue tremende collere che già agghiacciavano di terrore la poveretta quando era in salute.
L'ammalata fu assalita da una violenta febbre, e quella sera medesima il medico la giudicò in pericolo.
Due giorni dopo essa era morta.
Tutte queste cose passavano e ripassavano per la mente di Lorenzo; finchè pur finalmente venne un greve sopore che lo tolse a quella penosa fantasmagorìa. Fu destato da una mano, che, senza troppa precauzione, gli si posò sulla spalla. Aprì gli occhî e vide ritta presso al letto la Marianna.
—Che cosa c'è?
—C'è Danzàno.
—Ebbene, che m'importa?
—Vuole parlarti.
—Ditegli che dormo, che mi riposo… che sono occupato.
—No; è meglio che tu lo veda subito e te ne liberi… Egli ha parlato colla monaca… Chi sa che cosa la gli avrà detto… Sai che pedante egli è… Si faranno delle ciancie in casa sua… Va, mostrati afflitto, accasciato…
Lorenzo esitò un momentino; parve che non gli piacesse troppo aver da fare col cugino: ma poi, con subita risoluzione, si gettò giù dal letto.
—Dov'è? chiese.
—È nella camera di… della morta.
—Ah! non colà, sclamò vivamente il vedovo. Fatelo passare nel salotto.
Emilio Danzàno era un vero galantuomo che aveva poca amicizia e niuna stima pel cugino Lograve, ma che aveva sentito sempre, dacchè l'aveva conosciuta, molta compassione per la moglie di lui; e questa era stata la cagione che aveva fatto accettare a lui e a sua moglie di tenere al battesimo il neonato di Luisa. Quella mattina, venuto a prendere le nuove dell'inferma, egli trovò la monaca sola a pregare presso la morta. Dalla monaca seppe come, e con che parole, la poveretta fosse spirata.
—Povera donna! mormorò guardando con profonda pietà quel cadavere: poi chiese di vedere il cugino Lorenzo.
Questi, seguendo i consigli di Marianna, comparve con un aspetto accasciato, accolse con un brontolìo, che voleva essere un ringraziamento, le condoglianze, e sospirò, asciugò sulle ciglia delle lagrime ipotetiche e pregò il cugino di assumersi tutte le incombenze che occorrevano per quella luttuosa circostanza, per le quali mancavano a lui il coraggio e la mente. Danzàno, interessandosi della salute del figlioccio, consigliò al vedovo padre di mandarlo subito nelle più sane aure del paese montanino della balia: e il consiglio fu premurosamente accolto perchè corrispondeva affatto ai desiderî e alla convenienza di Lorenzo e della governante.
Il bambino fu lasciato colà tre anni, nè il padre lo avrebbe ancora ripreso con sè, dove il Danzàno non avesse insistito per farglielo ritirare in casa.
Il piccino, così miseruzzo com'era nascendo, non aveva di molto prosperato, ma aveva pur fatto il miracolo di vivere, superando le varie crisi dell'età infantile. Se la sua venuta in casa fu poco gradita al padre, uggiosa alla governante, riuscì una disgrazia per lui, il quale dalla vita libera, in sano ambiente, circondato dalla schietta benevolenza di quella famiglia montanina, passò nell'aere rinchiuso d'una casa cittadina, dove nessuno gli voleva bene, dove anzi il padre impaziente lo allontanava da sè con violenti rabbuffi, e Marianna non faceva che rimproverarlo, castigarlo, e sovente ancora picchiarlo di santa ragione.
Qualche volta il padrino otteneva che il piccino venisse a passare la giornata in casa sua; ma ciò non tanto sovente quanto i Danzàno avrebbero voluto, perchè Marianna, temendo che il ragazzo, malgrado le minacciose intimazioni fattegli, raccontasse e i mali trattamenti suoi e le scene burrascose che così frequenti avevano luogo in casa, contrastava più che potesse a tali visite. Nella casa del padrino il figliuolo di Luisa trovava un ambiente tutto bontà, pace, ilarità ed affetto. I conjugi s'amavano, e ambedue idolatravano i loro figli che crescevano avendo pei genitori quella devozione, quel rispetto, quella stima che veramente si meritavano. Due erano questi figli, un maschio ed una femmina: quello aveva tre anni di più del Lograve; la bambina invece ne contava cinque di meno, e fratello e sorella si volevano pure un bene da non si dire. Si sarebbe creduto che quelle giornate passate nella famiglia del padrino riuscissero un diletto, un godimento pel piccolo Emilio; e invece così non era: perchè a misura ch'egli avanzava in età, si manifestava e cresceva in lui uno dei più brutti vizî, e più inspiratori di malvagità: l'invidia. Quel disgraziato, della madre non aveva pure la bontà dell'anima, ma soltanto la bruttezza del corpo; dal padre aveva attinto la tristizia dell'umore e del carattere; sottoposto alle sfuriate paterne, alle continue persecuzioni della Marianna, egli ci aveva aggiunto la dissimulazione e l'ipocrisìa.
I cuginetti erano belli, sani, ben vestiti, accarezzati, regalati d'ogni ragionevole divertimento, sempre lieti e concordi, e paragonando a loro sè stesso, infermiccio, sgraziato, male in arnese, maltrattato, ignorante, ineducato, goffo, Emilio Lograve si struggeva d'un'invidia tanto più amara quanto più dissimulata.
Per l'istruzione d'Emilio fu ancora il Danzàno che decise il malconsigliato padre a fare qualche cosa: e siccome tanto a Lorenzo quanto alla Marianna andava a versi di togliersi quell'imbarazzo dai piedi, all'età di dieci anni il figliuolo di Luigia fu cacciato in collegio.
Il soggiorno in questo fu ad Emilio poco meno ingrato di quello della casa paterna. I ragazzi sono abilissimi ad intuire il carattere di coloro con cui convivono, ed Emilio fu presto conosciuto per maligno, invidioso, mettimale ed ipocrita: e fu da tutti i compagni mal visto. Debole e odiato: si può facilmente comprendere a quante malizie, avanìe, tribolazioni e scherni egli fosse fatto segno. La sua triste indole si intristì viepiù, rispose all'odio coll'odio; maledì la sua debolezza, agognò di acquistarsi una forza qualunque da potere ripagare il male col male. Il caso venne un giorno a rivelargli che la sua debolezza poteva giovarsi d'una abilità per superare in altrui anche la forza fisica.
Fra quelli che gli mostravano maggior malevolenza e disprezzo era principale uno dei più grandi, robusto, coraggioso, bello e in ogni cosa distinto. Emilio l'odiava e lo invidiava accanitamente; aveva cercato di nuocergli, rivelando ai superiori qualche colpa disciplinare di lui, e il giovanetto se n'era vendicato a misura di carbone con famosi carpicci senza parsimonia.
Un giorno, in una passeggiata fatta sulla collina da tutti i collegiali, sbandatisi questi a proprio talento, Emilio Lograve, che non aveva mai amici, che non si piaceva della compagnìa di nessuno e di cui nessuno amava la compagnìa, si trovò solo in alto d'un poggio rivestito di boscaglia, di mezzo alla quale scorgevasi il fondo della vallata corrente al di sotto, lontano, un centinajo di metri. In questo fondo della valle stava la maggior parte dei compagni giuocando.
Fra tutti eminente il più destro, il più forte, sempre vincitore, Alberto Nori, quegli cui Emilio odiava più intensamente d'ogni altro. Ad Emilio venne una malvagia inspirazione: poter colpire da lontano, senza esser veduto, quel capo orgoglioso! Si ricordò di Davide e Golìa: duello in cui la abilità del giovanetto aveva vinto la forza del gigante: scelse lì per terra un sasso tondeggiante, grosso come un uovo, lo pose nel fazzoletto di cui si servì come una fionda, e fattolo girare due o tre volte per aria, lo scagliò in direzione del detestato compagno. L'occhio e la mano furono giusti: il giovanotto colpito cascava in terra, sanguinosa la fronte, smarriti i sensi. Emilio, ratto, s'era nascosto nella boscaglia, felice e glorioso seco stesso del suo bel colpo. Quel sasso parve a tutti i presenti piovuto dal cielo; invano guardarono di qua e di là per iscoprire da qual mano fosse stato tratto; nessuno si vide, nulla si mosse. Coll'aria più innocente del mondo Emilio raggiunse i compagni e simulò con arte perfettissima la più reale meraviglia e la più sincera indignazione.
Il ferito, lavatagli con acqua fresca la fronte, presto rinvenne, e fasciatogli come si potè meglio il capo, si sentì abbastanza in forze da potere tornare a piedi in collegio, dove però dovette rimanere un po' di giorni in infermeria.
Emilio gongolava nel suo segreto. Di quella scopertasi abilità si piacque coll'esercizio ad accrescere la perfezione; e in breve divenne sì esperto, che colla fionda e colla mano, a quella distanza a cui le sue forze potessero far giungere il sasso, egli era sicurissimo di colpire qualunque menomo oggetto preso di mira.
«La civiltà, pensava Emilio, ha voluto rendere terribile anche la debolezza di chi ha l'occhio giusto, la mano ferma, l'anima risoluta e il cuore saldo, colla invenzione delle armi. Quando io abbia in mano una pistola, non temerò più i muscoli d'acciajo di nessun Ercole o Sansone.»
In quel collegio si davano lezioni di scherma cui pochi degli allievi, e con poca buona voglia, seguitavano; Emilio fu ad esse assiduissimo e attentissimo. Piccolo, magro, sottile, ma vivacissimo, ratto, agile nelle mosse, con occhio acuto, pronto e giusto, egli divenne presto abilissimo schermitore, cui mancava la forza per durare a lungo, ma una destrezza impareggiabile dava una sicura superiorità nel primo assalto.
A sedici anni Emilio uscì dal collegio più cattivo assai di prima, più invidioso dei beni altrui, più irritato delle proprie condizioni, ma più dissimulatore, e avendo al servizio de' suoi odî e rancori una malizia più raffinata, una malvagità profonda, una volontà più ferma.
A casa, per Emilio, ricominciò una vita uggiosa al pari, se non più, di quella che aveva vissuta prima di entrare in collegio. Il padre, molto invecchiato, non tanto per gli anni, quanto per la vita sempre peggio disordinata, era di umore più intrattabile che mai: la Marianna, vecchia anch'essa, diventata un'enorme massa di carne, più padrona di prima, comandava a bacchetta, faceva colla sua avarizia e col rigore il tormento della servitù, avvicendava le eterne querele e le strapazzate alla cuoca e al domestico, colle periodiche baruffe, di cui impiacevolivano la loro convivenza padrone e governante.
Emilio fu tenuto come uno schiavo, senza mai uno svago, sempre senza un soldo in tasca: vestito così miseramente, che se ne vergognava in mezzo ai compagni di università, dove studiava medicina. Aveva provato a dire le sue ragioni al padre, e questi lo aveva irosamente respinto; aveva supplicato e n'era stato schernito, aveva osato alzar la voce, e benchè adulto, ne aveva ricevuto quelle umilianti correzioni manuali di cui si era tanto abusato verso di lui fanciullo. Scese più basso nella sua degradazione di carattere: si diede ad accarezzare, adulare quella Marianna che in cuore odiava più di tutti al mondo; e qualche cosa ne ottenne: un complice silenzio per un'ora d'assenza dalla casa, una scusa per un tardo ritorno, e qualche liretta di quando in quando datagli di soppiatto del padre. Di questi denari vilmente strappati all'avarizia della governante, egli si serviva in un modo solo; nelle sale di scherma e nei tiri a segno, cui frequentava assai più zelantemente che non le aule universitarie. Non gli dispiacevano tuttavia gli studî intrapresi, e principalmente le esercitazioni anatomiche. Gli era con una specie di voluttà ch'egli col bisturi si metteva a tagliare in un corpo umano, stesogli davanti nella sua rigidità di cadavere, e ne scrutava i visceri e i giuochi meccanici dell'organismo, e le fonti di quella vita che s'era spenta, e le cagioni di quella morte che lo dava insensibile alla sua curiosità inesperta. Con più acre senso di curiosità desiosa assisteva alle operazioni chirurgiche: tagliare nelle carni vive, farne zampillare il sangue, vedere fremere i muscoli, contrarsi le fibre, spasimare tutto l'essere del paziente, era uno spettacolo che lo attirava, lo affascinava.
Nella casa del padrino capitava di rado. Colà non trovava che nuovi motivi da inasprire la sua invidia. Il signor Danzàno era giunto ad età matura, ma godeva di florida salute, procurata dalla savia regolarità della, vita, che gli conservava il buon umore, l'amenità delle maniere e l'affettuosità, di cui era un esemplare inarrivabile sua moglie. Cesare, il primogenito, presso ormai a terminare il corso d'ingegnerìa, erasi fatto giovane, bello, elegante, vivace quanto era stato bambino leggiadro ed amabile, e chiunque rimaneva ammaliato dalle graziette di Matilde, vero bocciuolo di splendida rosa. Cesare era d'umor gajo, espansivo, impressionabile, facile a prendere da altrui idee, tendenze, abitudini, volontà; Matilde, invece, riflessiva, lasciava scorgere nella gentilezza, che mai non la abbandonava, un'anima forte, un criterio sano e robusto. Il figliuolo di Lorenzo nelle sue visite ai Danzàno mostravasi umile, devoto, strisciante, pieno di riconoscenza: il padrino, la moglie di lui e Cesare ci credevano; poco o nulla Matilde, la quale provava una istintiva ripugnanza per la figura, le maniere, le ostentazioni d'umiltà e di devozione del cugino.
Fattosi abilissimo nel maneggio delle armi, Emilio Lograve desiderava ora l'occasione di provare in solenne maniera questa sua abilità: e l'occasione venne. Fra i compagni d'università egli non s'era fatto amare meglio che dai convittori del collegio: onde non gli mancavano nè le dimostrazioni di malevolenza e di disistima, nè gli scherni e le umiliazioni. Emilio decise di pigliare, al primo insulto, tale vendetta che levasse per sempre altrui la voglia di ritentare la prova. Si era nella sala delle esercitazioni anatomiche, e uno di quelli che più l'avevano in uggia, gli fece uno sgarbo; Lograve espresse il suo risentimento con vivaci, oltraggiose parole; ne nacque un diverbio nel quale, trovandosi ben presto soverchiato dall'avversario per robustezza di polmoni e per felicità di ingiurie, il nostro gli gridò:
—Vuoi finirla? o ch'io ti tappo quella boccaccia…
—Ah, sì? esclamò l'altro beffando. Vorrei veder come!
—Così! disse Emilio, e scaraventò in faccia al compagno una grossa spugna che serviva a lavare le tavole di marmo, tutta inzuppata di acqua sanguigna e di marciume.
Lo colpi in pieno viso, sporcandogli di quel sozzo umore occhî, naso, bocca e i panni. Il giovane, mezzo acciecato, mandò una grossa bestemmia, e mentre badava in tutta fretta a ripulirsi sputando, sternutando, purgandosi, gridava con voce soffocata dalla rabbia:
—Ah! porco! ah cane d'un cane!… Aspetta, aspetta, che ora ti schiaccio come una cimice.
E appena ripulitosi un poco, fece per slanciarsi contro Lograve: questi, freddo freddo, teneva impugnato il coltello anatomico, e gli gridò con l'accento di una risoluzione irremovibile:
—Se tu mi vieni addosso, ti pianto questa lama nel cuore, com'è vero il sole!
Tutti i presenti capirono ch'egli avrebbe fatto quello che diceva: e gettatisi in mezzo, trattennero il furibondo che urlava:
—Ah, mostricciuolo infame, caricatura di scimiotto, me la pagherai, mi darai soddisfazione.
—Quanto e come e dove e quando vorrai, e ti so dir io che avrai finito di fare il gradasso e insultare la gente.
I compagni intromessisi trassero via di là lo sbuffante giovane: e Lograve pensò subito a procurarsi due padrini che lo assistessero nel duello dall'avversario minacciato e da lui desiderato. Uno lo scelse fra i condiscepoli, l'altro volle che fosse il cugino Cesare, al quale piacevagli far conoscere la sua abilità nelle armi, la sua freddezza nel pericolo, la sicurezza della sua vendetta. Ai suoi rappresentanti egli commise di accettare qualunque arma fosse proposta, volle gli promettessero che quando troppo leggiere fossero le condizioni dello scontro dagli avversarî messe innanzi, essi le avrebbero rese più severe, essendo sua ferma intenzione di non fare una ridicola mostra, ma di compiere cosa seria e di gravi conseguenze. Fu scelta la pistola da tiro; la distanza quindici passi; alla sorte chi avrebbe tirato il primo; tanti colpi quanti fosse piaciuto ai combattenti.
La mattina dello scontro, nel recarsi al convegno e là sul terreno, Cesare Danzàno, che non aveva mai preso parte a simili avventure, era assai turbato; turbati pure apparivano gli altri padrini, e turbatissimo l'avversario, giovane allegro, a cui la vita sorrideva, e che trovava doloroso l'arrischiarla così scioccamente per qualche imprudente malignità.
Egli veniva a studiare da un paesello della provincia dove stava aspettandolo una famiglia, che fondava in lui le sue speranze, un padre ormai vecchio, una madre che lo idolatrava; e il pensiero che poteva rimaner morto lì adesso, e non più rivedere la casa natìa, nessuno de' suoi cari, gli stringeva il cuore, gli affannava il respiro, gli faceva tremare i nervi, gli metteva sulle guancie un pallore mortale. Emilio Lograve, colla sua solita carnagione di morticino, non mostrava la menoma alterazione in viso, aveva una mirabile sicurezza di atti, di voce, di parole, ed aveva lui, a sua volta, uno scherno sprezzatore nel sogghigno e nello sguardo. La sorte favorì l'avversario di Emilio col vantaggio di sparare il primo. Posti di fronte i duellanti e dato il segnale, Emilio non sentì neppure il fischio della palla, così passò essa lontana dalle orecchie di lui. Fissando bene in volto l'avversario ed abbassando lentamente la pistola, Lograve disse con accento pieno di sarcasmo:
—Lo schifoso mostricciuolo, caricatura di scimiotto, ha la tua vita nelle mani… e te la regala. Mi contenterò di bucarti il cappello due dita al di sopra della testa.
Sparò, e il cappello del giovane rotolò per terra. I padrini che lo raccattarono, mentre il padrone di esso rimaneva come sbalordito, videro con meraviglia come la palla avesse colpito esattamente al punto che il tiratore aveva detto.
—E ora, disse Emilio con superbo disdegno, se al signore piace, ricominciamo pure.
Tutti d'accordo i padrini determinarono che non si aveva da continuare altrimenti. Emilio fece un lieve cenno di saluto col capo, e s'allontanò fieramente, senza volere stringere la mano all'avversario.
Di quel duello se ne fece un gran discorrere nella università e per tutta la città. Il giovane Lograve fu d'allora temuto, rispettato, non più amato di prima. In casa Danzàno, di quel fatto il padre ne fu assai dispiacente, e ne mosse severe rampogne a Cesare, il quale non nascondeva la sua ammirazione pel cugino; al figlioccio pure egli espresse la sua disapprovazione; ma Emilio con tanta umiltà seppe rispondere che, fatto segno a continui dispregi, aveva resistito e tollerato fino che aveva potuto, lasciando persino offendere la sua dignità personale, ma che, giunte le cose a tal punto che il tacere più oltre sarebbe stato viltà, egli aveva sentito che doveva a sè stesso e a' suoi congiunti medesimi di farsi rispettare, che il padrino finì per dargli ragione. Matilde non partecipava gli entusiasmi del fratello per quel sornione del cugino; ella scuoteva il suo bel capo riccioluto e non trovava che quello di sapere ammazzare freddamente altrui fosse un merito da compensare tutti i difetti fisici e morali ch'essa credeva notare in Emilio. La sorella di Cesare contava allora quindici anni ed erasi fatta ormai una giovinetta più bella ancora e piacente di quanto fosse stata da bambina: era di una mitezza d'animo e di una bontà di cuore davvero straordinarie: non poteva vedere a soffrire nessuno, avrebbe voluto sollevare ogni dolore, cambiare a tutti in gioja il tormento, avesse dovuto assumersi essa quest'ultimo: aborriva necessariamente i prepotenti, i crudeli, i maligni, i superbi.
Emilio contava ventidue anni e aveva preso la laurea in medicina. Frequentava con bastevole diligenza l'ospedale a cui era stato addetto assistente, ma con più assiduità sempre le sale d'armi e i tiri a segno, viveva sceverato da ogni godimento, tenuto a corto com'era dalla malavoglia paterna.
I soccorsi scarsi che con umiliante insistenza egli riusciva a strappare alla Marianna, non bastavano a gran pezza e si rodeva maledettamente nel paragonarsi a' suoi coetanei e sopratutto al cugino Cesare, fattosi uno dei giovani più eleganti, il quale godeva i vantaggi che in società si danno alla ricchezza.
Ah! questa sì era una potenza; questa una forza nel mondo: e quando egli potesse averla, oh come ne avrebbe saputo trarre profitto! Qualche cosa del nonno materno, egli l'aveva intesa: era un avaro, usurajo, e di certo aveva lasciato morendo un vistoso patrimonio. Sapeva pure che il padre aveva giuocato e giuocava, ma non era possibile che avesse consumato sì grossa parte, che ne dovesse rimanere a lui la povertà: dei capitali ci dovevano essere ancora, fra i quali e lui non istava di mezzo che la vita del padre, d'un padre che lo aveva sempre maltrattato, che l'aveva sempre odiato e odiava nè celava il suo odio, e cui egli non amava, come non poteva stimare. Ah! no certo ei non avrebbe mosso un dito perchè quella vita si troncasse, ma se il caso avvenisse!… Egli pensava senza ripugnanza a siffatto caso: domandava alle cognizioni mediche acquistate di chiarirlo se e quando quel caso potesse avverarsi, e scrutava nella faccia del padre i segni del progresso di un male interno, che in realtà ne minacciava i giorni.
La tumefazione delle guancie, l'impaccio della parola, l'accasciamento della persona, la incertezza del passo, rivelavano una lenta paralisi cerebrale, che poteva di colpo avere una fatale risoluzione.
Lorenzo s'accorgeva di questo affissarlo del figliuolo, per quanto i falsi occhî di lui sfuggissero ratti, appena quelli paterni facessero a incontrarli, e se ne irritava, quasi indovinandone il segreto motivo.
—Che cos'è che mi guardi con quel tuo occhio di serpe? gli gridava incollerito. Hai paura che io stia troppo bene?
Emilio non rispondeva; arrossiva un poco e si allontanava a capo basso.
Pensava:
—Una buona cura dietetica, un cambiamento assoluto di vita, qualche rivulsivo varrebbero ad allontanare il pericolo. Guarirlo, impossibile; ma prolungargli resistenza chi sa per quanti anni, sì… Ma egli non mi crederebbe, nè mi darebbe retta, farebbe peggio… È lui che sel vuole… Ciascuno è padrone della sua vita… Faccia a suo senno.
Una notte Lorenzo Lograve tornò a casa con passo più vacillante del solito, gli occhî pieni di sangue, la lingua grossa, le labbra livide. Secondo il solito, nessuno lo aspettava; giunse nella sua camera inciampando nei mobili, urtando colle spalle nelle pareti e negli stipiti; si spogliò a stento con mano quasi convulsa, strappando quasi i bottoni, lacerando i panni, e quando fece per salire sul letto, ruzzolò e diede un tonfo per terra. Marianna che dormiva nella camera vicina, svegliò Emilio che le venisse in ajuto. Quando ebbero tirato su e coricato in letto il caduto, che rantolava sempre senza dar segno di cognizione, il giovane medico si accorse subito della gravità delle condizioni di suo padre. Un'orgia maggiore e più prolungata, l'emozione del giuoco, fatta più violenta dalla vistosa entità delle perdite, avevano prodotto quell'insulto apoplettico, che il figlio già da tempo aveva preveduto.
La vecchia Marianna si affannava intorno all'infermo, fregandolo, scuotendolo, coprendolo di pannicelli caldi; inumidendogli di acqua e aceto fronte e labbra, lamentandosi, invocando santi e madonne, chiamandolo disperatamente per nome.
—Sor Lorenzo, dica che cosa ha?… Non mi sente! Non mi vede?… O Dio buono! Santa Madonna del Carmine, non l'ho mai visto in questo stato!
E, dimenticando, nello spavento di quell'istante, le forme rispettose ch'egli pretendeva da lei in presenza d'altri, anche del figlio, si lasciò scappar detto:
—Rispondimi, Lorenzo… non lasciarmi in tanta inquietudine.
S'accorse in quella della presenza di Emilio e del sogghigno mefistofelico cui gli metteva sulle labbra quella famigliarità della vecchia serva verso suo padre.
—E tu che fai? gli disse con ira: non sei buono che a star lì impalato?… È pur inutile che tu abbia studiato da medico, se non hai nemmeno appreso a soccorrere tuo padre.
Il giovane la guardò freddamente.
—Nè io, nè altri ha mezzo da soccorrerlo… Non c'è nulla da fare.
—Come, nulla da fare?… Credi che il male passerà da sè?
—No; credo che non passerà più.
—Non passerà più?… Vuoi dire?…
—Ch'egli è condannato.
—E lo dici con quella calma!… Ma gli è che non sai quello che dici… Sei un ignorantaccio con tutto il tuo studio… Io, sì, io so quello che gli farà bene.
E sollecita andò ad un armadio e ne tolse una bottiglia di rum.
—Gli volete dare di quella roba?
—Sì, un bicchierino lo rinvigorirà… L'ho già visto altre volte.
Emilio crollò le spalle e la lasciò fare.
Marianna, riempito a mezzo un bicchierino di quel liquore, sollevò il capo del giacente col braccio sinistro e mettendogli colla mano destra il bicchierino alle labbra, gli disse con tono di incoraggiamento e di preghiera:
—Suvvia, sor Lorenzo, beva questo… Le farà bene… Le ha fatto sempre bene!
E si adoperò a mandargli giù in gola il rum.
Lorenzo diede uno scossone, mandò un grugnito, fece un moto convulso come per respingere da sè qualche cosa che lo soffocasse, e giacque più inerte di prima.
Allora Marianna cominciò a persuaderai che il caso era più serio di quel che avesse creduto.
—Ci vuole un medico… Presto un medico… Giacchè tu vali quanto un ceppo… va almeno in cerca d'un dottore… Ma fa presto!… Spicciati!… Santa Madonna!… E sta lì grullo come se si trattasse di un passerotto e non di suo padre.
Emilio non disse nulla: girò sui tacchi, andò a finire di vestirsi, e uscì con tutta calma. Prima ch'egli fosse di ritorno era passata un'ora, che parve un secolo alla Marianna, e in cui l'infermo, sempre più assopito, cessò a poco a poco di gemicolare rantolando solamente in molto penosa maniera.
Il medico sopraggiunto non potè che ripetere quanto già Emilio aveva detto: che non v'era nulla da far più e soggiunse che a momenti l'infermo sarebbe entrato in agonìa. La Marianna si mise a strillare disperatamente, cacciandosi le mani nei capelli.
Il medico si volse ad Emilio.
—Qualche ora fa si sarebbe dovuto liberargli il ventricolo con un buon vomitivo. Forse avrebbe ancora potuto riaversi.
Emilio chinò gli occhî.
—Sì, certo, disse tranquillamente, è quello che penso ancor io… Ma quando fui chiamato era già troppo tardi.
Tutte le grida e la disperazione della Marianna non valsero a trattenere un minuto di più in questo mondo lo spirito di Lorenzo Lograve: e sul far del giorno, in quel letto, dove avevano coricato l'ebbro giuocatore, non c'era più che un cadavere.
Una sola persona ne accompagnò la bara al cimitero: la vecchia
Marianna.
I Danzàno padre e figlio, udita appena la notizia della morte di Lorenzo, erano accorsi presso l'orfano figliuolo, e avevano voluto condurselo con sè, per torlo alla dolorosa vista delle funebri cerimonie. Avevano trovato Emilio immerso in una tacita cupezza quasi distratta che parve loro un profondo accoramento. Nessun argomento, nè preghiera aveva potuto smuoverlo dal proposito di non abbandonare la casa. Nel momento, così terribile, quando si è perduta una persona cara, del trasporto del cadavere, Cesare venne per sollevare colla sua compagnìa all'orbato figliuolo la crudeltà di quell'eterno distacco; ma Emilio avevagli detto, con una risolutezza da sconsigliare ogni replica, che preferiva esser solo, che ne aveva bisogno; e il cugino se n'era andato ammirando quel figliuolo dall'animo così forte, la potenza di un tanto dolore per un padre che sempre lo aveva maltrattato. Emilio, rinchiusosi solo in casa, mentre Marianna, tutta in lagrime, accompagnava sino al cimitero la salma del padrone, prese le chiavi di suo padre ed esaminò accuratamente i forzieri, la scrivanìa, i cassettoni, i mobili tutti della camera del morto, in cui vedevasi ancora disfatto il letto. A mano a mano ch'egli procedeva in questo esame, il suo viso giallognolo prendeva un'espressione sempre crescente di disappunto, di rabbia, da ultimo quasi di furore. Strinse i pugni, minacciò nell'aria qualche persona lontana, bestemmiò; poi a un tratto con passo risoluto andò nella camera di Marianna. L'uscio n'era chiuso a chiave. Emilio stette un momento esitante colla mano sulla gruccia della serratura; pensava se gli convenisse scassinare quella porta. Si risolvette pel no: tornò in camera sua a capo basso, ma colla impronta dei più nequitosi propositi nei contratti lineamenti del viso.
Passarono due giorni, in cui Emilio sfuggì accuratamente la presenza di Marianna; il che gli fu facile, perchè anche la donna da parte sua non aveva una gran voglia di trovarsi con lui. La mattina del terzo giorno dopo i funerali del padre, Emilio con qualche pretesto mandò fuor di casa la persona di servizio e rimase solo nel quartiere con Marianna: dalla soglia della sua camera egli chiamò forte la vecchia, la quale, o non udisse o non volesse udire, non si fece viva. Il giovane ripetè la chiamata con tal voce e una bestemmia che la donna, atterrita, si affrettò a venir fuori.
—Che cosa c'è? domandò con qualche apprensione.
—Venite qui, rispose burbero l'erede di Lorenzo, chè abbiamo da discorrere.
Marianna col passo pesante s'avviò lenta e di mala voglia verso la camera del giovane. Questi la fece entrare, e dietro lei chiuse l'uscio; la qual cosa non piacque di molto alla donna, che guardò inquieta tutt'intorno, come cercando un'altra uscita da potere scappare: ma non ce n'era.
Emilio entrò subito in argomento.
—Ho visitato cassa, scrigno, canterani, scrivanìa e non ho trovato nè carte di valore, nè crediti, nè denari, sì invece delle obbigazioni di debiti, delle note da pagare. Parte dei beni è venduta; i restanti sono gravati da ipoteche… L'eredità paterna, per me, invece della ricchezza, non mi porterebbe che fastidî e penuria.
Marianna fece una faccia compunta, e con voce che voleva parere afflitta e commossa, rispose:
—Ah, caro il mio ragazzo, so troppo bene che tuo padre…
Ma Emilio la interruppe bruscamente.
—Io non sono il vostro ragazzo, e non permetto più che mi trattiate col tu.
La vecchia si confuse, balbettò:
—Scusate… scusi… Sono così affezionata alla famiglia… da tanto tempo!… Lei l'ho visto a nascere.
Ed egli, troncandole di nuovo la parola con un malvagio sogghigno:
—E, grazie a Dio, con me non ci avete le vergognose ragioni d'intimità che aveste col nonno e col babbo.
Marianna volle parlare, ma non seppe che cosa dire; aprì la bocca e la richiuse senza mandare un suono; chinò la faccia più confusa che mai.
Emilio riprese:
—Mentre le sostanze di mio padre si assottigliavano, s'accrescevano le vostre… di voi che siete entrata in questa casa povera e nuda come un verme. Voi avete un cassetto ripieno di cartelle del debito pubblico, di azioni della Banca Nazionale, di obbligazioni ferroviarie…
—Che bugìa! sclamò Marianna, ritrovando il coraggio di rialzare il capo e di riprendere un po' di petulanza.
—Lo so di sicuro, affermò recisamente il giovane. Conosco il cambista da cui vi fate pagare gl'interessi, e potrei dirvi la cifra a cui ammontano.
Marianna capì che era una lotta, che le bisognava difendersi e rientrava sempre più nella sua petulanza.
—Ebbene, e con ciò che volete dire? Se vostro padre ha sciupato il suo, e io con risparmî, con privazioni, ho saputo mettere in serbo quel poco che mi sono guadagnato co' miei santi sudori…
—Lasciamo stare i sudori, interruppe malignamente Emilio, chè, se ce ne furono, non si possono dir santi… Il vero è che tutto guanto voi possedete l'avete rubato al patrimonio che doveva esser mio…
La vecchia mandò un grido indignato di protesta.
—Rubato!… O Santa Madonna della Consolata! Che osate dir mai?
Rubato! Ma io non tollero…
—Stai zitta! gridò minacciosamente il giovane. E lasciami dire in tua malora, vecchia strega!
—O Dio buono!… O Santa Vergine dei dolori!… O santi tutti del paradiso! esclamò Marianna levando le mani al cielo. Cosa mai ho da sentire?… Come ho da essere trattata!… E da voi, che ho sempre difeso contro vostro padre, che ho sovvenuto tante volte de' miei denari…
—Che!… Erano denari di mio padre e quindi miei… Ma non perdiamoci in ciancie… Date ben retta: ora son io il padrone; e quello che è mio lo voglio, capite?… tutto lo voglio!
Marianna lo guardò spaventata.
—Che cosa volete dire?… In fede mia, non vi capisco… Cosa volete dire?
—Che voi mi darete la chiave di quel cassetto dove tenete rinchiusi i valori rubati perchè io possa andare a prendermeli senz'altro.
La donna si pose la mano sulla tasca, quasi a ripararvi quella chiave che portava sempre con sè, e ritornata in tutto il suo coraggio per difendere la ricchezza con tanto e sì lungo studio acquistata, disse risoluta e sprezzante:
—Voi siete matto, sor Emilio; e questo è proprio un perderci in inutili ciancie.
E senz'altro voltò la grossa persona verso la porta per andarsene dalla stanza.
Emilio d'un balzo le fu innanzi, la respinse brutalmente indietro e chiuse la serratura dell'uscio a doppia mandata.
—Voi non uscirete, disse con una freddezza più minacciosa della collera, non uscirete prima di avermi dato quella chiave.
—Mai! esclamò essa, vacillante tuttavia per la spietata violenza ricevuta.
Egli levò dalla serratura la chiave dell'uscio, e se la mise in tasca.
—La vedremo! disse colla medesima freddezza.
Marianna fu presa da un accesso di furore; si slanciò colle mani levate verso il giovane, come per graffiargli il viso, per istrappargliene gli occhî.
—Lasciatemi uscire! gridò. Voglio uscire… aprite quell'uscio!
Emilio l'afferrò ai due polsi, e stringendoli con tutta la sua forza le abbassò le mani, poi chinando verso di lei la faccia scialba, la guardò con tali occhî pieni di ferocia da incutere paura a chicchessìa.
E la vecchia ebbe paura.
—Usereste violenza? balbettò con voce tremante.
E lui facendo piombare viepiù minaccioso quel suo sguardo di belva negli occhî smarriti di lei, rispose con voce cupa, concentrata, feroce:
—Sì!
E dopo averla scossa violentemente per le braccia, la rigettò in là, sì che la misera andò a cadere mezzo sbalordita sopra una seggiola.
—O Vergine santissima!… O Madonna del Carmine! gemicolava la vecchia coprendosi con le mani gli occhî per non vedere la faccia spaventosa del padrone. Ma questo sarebbe un assassinio!… Tanto varrebbe togliermi addirittura la vita… Sì, un assassinio!… Ma lei non è capace d'un sì gran delitto… No, non è possibile… Lei mi vuol far paura…
Guardò di sottecchi: vide lui, sempre con quella freddezza di carnefice che la guardava con occhio cattivo.
—Ma c'è una giustizia… Ricorrerò alla giustizia.
—Benone!… E io le dirò, alla giustizia, che quei valori, voi li avete sottratti all'eredità di mio padre… Vi buscherete la condanna alla reclusione per giunta.
Marianna si raumiliò.
—No, no, voi non farete sì gran torto a una povera donna, che da trent'anni serve la vostra famiglia…
—E la ruba!
La vecchia si diede a piangere, a supplicare: tutto quanto essa possedeva, lo avrebbe lasciato, morendo, a lui, Emilio; e già, la non poteva mica vivere più lungamente; la lasciasse dunque finire in pace que' pochi giorni che le rimanevano; e scongiuri e proteste e promesse; e poi di nuovo invettive e ingiurie e minaccie. Il giovane, sempre pallido in faccia, coi lineamenti tirati, con un cinico sogghigno sulle labbra, con quel tristo bagliore negli occhî feroci, la lasciò dire e dire: e poi freddo freddo, facendo un passo verso di lei, sempre accasciata sulla seggiola, e tendendole aperta la mano destra:
—Ne abbiamo già fatte troppe parole, disse; è tempo di finirla… Qui la chiave!
Marianna tornò alla rivolta.
—No, no! urlò essa. Mi toglierete prima la vita.
E fattasi pavonazza in volto, gli occhî lampeggianti, digrignando i denti, la schiuma alla bocca, si slanciò di nuovo contro Emilio, gridando:
—Apritemi… aprite quella porta… Voglio uscire, lo voglio!
Egli la respinse con un forte pugno nel petto.
—Non vuoi darmela quella chiave?… Ebbene, io ne farò senza.
E approfittando dello sbalordimento prodotto nella vecchia dal colpo ricevuto, egli fu all'uscio, lo aprì in tutta fretta, e stava per isgusciar fuori. Marianna accorse, s'aggrappò a lui, lo strinse, lo graffiò, lo morse, soffiando, gemendo, imprecando, gridando; fu un'ignobile lotta, che l'uomo finì per vincere, liberandosi dalla stretta di quella furia e ricacciandola vivamente entro la stanza. La vecchia andò a cadere lunga e distesa sul pavimento, e il giovane, uscito sollecito, la rinchiuse dentro a giro di chiave.
Marianna rimase un poco immobile, mezzo svenuta, poi, risensando di colpo e pensando a quello che poteva succedere nella sua camera, sorse con impeto, si gettò contro l'uscio percotendolo, tentando staccarne la serratura, gridando ajuto, soccorso, piangendo, bestemmiando, arrovesciandosi le unghie, scorticandosi le mani, poi stracciandosi i capelli nella disperazione della sua impotenza. Nessuno accorse alle sue grida, ai suoi clamori: e, stanca, senza più voce, senza forze, la meschina dovette, dopo forse un'ora e più, acchetarsi, divorata dalla rabbia, dall'odio, dalla paura. Dopo quella prima di furore, di spasimo, di tormentosa angoscia, passarono altre ore, che la disgraziata non seppe numerare, che le parvero eterne, ma che furono penosissime tutte, e vennero frangendola, macerandola, limandone la vita. Nella sua testa era un tumulto. Che cosa fare per salvare la sua roba? Correre subito a denunciare il latrocinio al procuratore del re? Ma se Emilio accusasse lei a sua volta? Ben sapeva essa come tutti l'odiassero e in casa e fuori di casa; quanti avevano avuto e avevano attinenza colla famiglia sarebbero stati testimonî a carico di lei. Ma si sarebbe vendicata, anzi ricattata. Oh! se Emilio avesse osato!… Avrebbe trovato ben essa il modo di fargliela pagare: accarezzò senza orrore anche l'idea d'un delitto… Ma no, Emilio non avrebbe osato; egli aveva voluto spaventarla, sarebbe tornato ad assalirla, a minacciarla, ma essa non avrebbe ceduto a nessun patto. E intanto, appena avesse potuto uscire, ella avrebbe portato fuori di casa i titoli, li avrebbe affidati all'agente di cambio, depositati presso una banca, posti in qualsiasi modo al sicuro. L'importante, il necessario, l'urgente era di uscire di là… Uscire, uscire!… Il giorno passava e non si veniva a liberarla; si provò a chiamare di nuovo all'uscio, ma le sue mani non avevano più forza: ricascava, accasciata, sempre più smarrita d'animo.
Sopravvenne la notte; l'oscurità si fece tormentosamente paurosa per quella disgraziata che nelle tenebre credeva vedere, udire terribili fantasmi e voci, e sentiva l'anima sempre più gravata da un'indicibile oppressura. La realtà, anche la peggiore, parevale da preferirsi a quello stato d'angoscia nell'oscurità e nel silenzio che la circondavano. Mancavale il respiro, la testa le tenzonava, dicevasi con ispavento: «Io sto per morire qua sola come un cane». A un tratto udì lo scricchiolìo della chiave nella serratura e il rumore dei battenti dell'uscio che venivano spalancati: non vide nessuno, nessuno le parlò.
Volle alzarsi di scatto e correre alla porta, ma le forze le mancarono. Sorse a stento, camminò trascinandosi: la pinguedine le pesava ora come una cappa di piombo. Andò a tastoni fuor della camera; entrò a tastoni nella sua; colle mani tese innanzi si diresse verso il cassettone, ci arrivò, lo toccò tremando; il cassetto era aperto, e le mani frementi affondatevi trovarono il vuoto. La disgraziata non ebbe nemmeno più la forza di mandare un grido; non fu che un gemito ad uscire dalle sue labbra. Un tonfo sordo per terra annunziò che la infelice era caduta lunga e distesa. Due giorni dopo sotterravano anche lei, morta d'un colpo apoplettico.
Emilio Lograve, diventato ricco ad un tratto, mostrò di saper godere dei suoi denari senza sciuparli e senza lasciarsene mangiare. Abbandonò l'alloggio paterno, e prese un allegro quartierino in una delle più belle case della parte più nuova ed elegante della città; lo arredò con gusto senza eccedere nello sfarzo. Si provvide di due cavalli che potevano servire da tiro e da sella, frequentò feste, conviti e teatri. Ebbe numerosi duelli nei quali diede sempre prova della sua invincibile superiorità nel trattare le armi; fu temuto e quindi rispettato in società: non ebbe amici e non ne cercò; dal cugino Cesare in fuori, sul quale conservava e anzi veniva accrescendo quell'autorità, quell'influenza che gli aveva posto addosso fin dalle prime prove del suo coraggioso sangue freddo nel pericolo e della sua abilità di armeggiatore. Una sola casa frequentava Emilio, ed era quella dei Danzàno. Al padrino erano dispiaciuti e dispiacevano i diportamenti da accattabrighe del figlioccio; e severamente aveva rimbrottato Cesare che in quasi tutti gli scontri era stato testimonio e padrino di Emilio; ma questi sapeva trovare sì speciose ragioni per difendere sè stesso e scusare il cugino, che il vecchio Danzàno finiva per tacersi, non persuaso, ma vinto.
—La natura, diceva il giovane Lograve, non ha voluto darmi nessun vantaggio nel mondo; non mi ha fatto bello, nè potente per nascita, neppur forte di muscoli; mi ha fatto per essere zimbello e vittima di tutti, se io non sapessi col coraggio e coll'ingegno difendermi. Nella vita mondana ha pur luogo una lotta nella quale colui che ha la debolezza della pecora è divorato dal lupo, che è il dileggio, il ridicolo e il disprezzo. Preferirebbe lei, caro padrino, di vedermi il bersaglio dei motti arguti dei bellimbusti, pascolo alla malignità delle signore? Quando sarà bene accertato, ben conosciuto da tutti, che un epigramma sulla mia trista figura, o sulla fama di mio nonno, o sulla vita di mio padre, frutta una buona palla di pistola, o due dita di lama in qualche parte del corpo, io sarò sicuro di poter presentare la mia brutta faccia in mezzo alle più belle signore, ai crocchî più eleganti, senza ch'essa susciti pure una smorfia… Quanto a Cesare, egli fa anzi tutto opera da buon amico e da buon parente, assistendomi, mi presta un gran servizio curando coi più delicati riguardi l'interesse del mio onore, e può inoltre, con prudenti avvisi, concorrere a rendere meno gravi le conseguenze delle sfide che mi sono fatte: perchè, badi bene, caro padrino, che, salvo casi rarissimi, sono sempre stato io lo sfidato dai miei avversarî.
Ed era il vero; ma era il vero altresì che quando Emilio Lograve voleva cimentarsi con qualcheduno, sapeva così accortamente provocarlo, tormentarlo, inasprirlo, che per finirla onorevolmente quell'altro credevasi obbligato a chiamare il suo persecutore sul terreno.
Il signor Danzàno opponeva che quei duelli erano già stati ormai tanti da bastare all'uopo che Emilio diceva; e, quanto all'intervento di Cesare, notava non apparire esso troppo efficace a rendere meno funeste le conseguenze degli scontri, perchè ognuno di essi aveva sempre procurato agli avversarî del figlioccio qualche ferita più o meno grave. Del resto un certo effetto sull'animo del severo padre di Cesare lo producevano pure la meravigliosa abilità, il valore e le continue vittorie del figlioccio, il quale presso il padrino sapeva eziandìo, in parole, apparir mite, modesto, buono.
Aveva così il vecchio Danzàno posto un po' d'affezione per quel giovane cui ricordava la povera di lui madre, morendo, aver voluto raccomandargli, a quanto gli aveva detto la monaca che aveva assistito a quell'agonìa; lo aveva compianto vittima della trascuranza, peggio, del disamore e dei vizî del padre; e si lasciava illudere dalla ipocrisia dei discorsi di quel soppiattone.
Chi non se ne lasciava ingannare era Matilde, divenuta un fior di ragazza. Bella essa era davvero e più che mediocremente: ma più ancora della bellezza poteva in lei una grazia, un incanto, un non so che, onde ne veniva ad ogni suo atto e movenza, ad ogni parola e sorriso e sguardo, tale seduzione che impossibile non rimanerne vinti. Nè questa grazia era menomamente intinta d'artificio e di civetterìa; si accompagnava colla più ingenua semplicità e modestia, e riusciva di tanto più cara ed efficace: conquideva i giovani, s'ingraziava i vecchî, vinceva persino la gelosìa e l'invidia delle donne. Una malìa speciale poi era nella voce soave, melodiosa, insinuante, che alle cose dette, sempre giuste, e ingegnose, e gentili, dava un pregio, un rilievo, un'efficacia inesprimibile.
A subire tal fascino era stato de' primi Emilio; e lo aveva provato potente fin da principio e lo sentiva crescere ogni giorno più e con sempre maggior forza. Quella stessa ripulsione che la fanciulla aveva per lui, ch'egli sentiva e cui essa non si curava molto di nascondere; quella stessa ripulsione era come una provocazione, un irritamento all'animo, al cervello, all'amor proprio, ai sensi di Emilio: il quale con rabbia si accorgeva che la imagine della sprezzante cuginetta era giorno e notte presente al suo pensiero, che ne occupava le sue fantasticaggini, che gli compariva ne' sogni, che gli aveva stampato, per così dire, nella polpa cerebrale quel suo sorrisetto così buono per altri, così malizioso, ironico per lui, sempre così affascinante. Una vera ossessione! Di pronunciare pure una parola che svelasse a Matilde i suoi sentimenti per lei, non aveva l'ardire, e nemmeno, quei sentimenti, di lasciarli apparire dal contegno, dagli sguardi; essa gl'inspirava sempre una suggezione cui non poteva vincere quando si trovava sotto il raggio di quei limpidi occhî. Ma egli era terribilmente, dolorosamente geloso di quanti accostassero la ragazza e paressero non tornarle sgraditi. Avido d'un tesoro, di cui temeva pur troppo non avrebbe potuto mai impadronirsi, non voleva, si struggeva dalla rabbia al solo pensiero che altri potesse toccarlo.
Una sera a teatro, dove egli era andato a far visita in palchetto alle Danzàno madre e figlia, Emilio s'accorse che un giovane dalla platea fissava con insistenza il suo sguardo ammiratore sulla bellezza di Matilde, la quale pareva non accorgersene affatto. Era un bel giovane di aspetto nobile e piacente, con espressione di risoluzione e di franchezza segnata in fronte—una fronte piana ed aperta da una cicatrice verso la tempia destra. Naturalmente Emilio lo trovò subito antipatico, e si pose a guardarlo a sua volta, con occhio tutt'altro che benigno; e guardandolo, s'accorse che quella non era una figura affatto sconosciuta, che l'aveva già vista altre volte; finchè a un tratto balzò nella sua memoria l'imagine di quel suo compagno di collegio, più forte degli altri, che a lui aveva dato parecchie volte le pacche, e dal quale egli s'era vendicato di poi con quella brava sassata sulla testa.
Sicuro! Era proprio quel tale; e quella cicatrice che riusciva a dare un certo interessamento alla elegante di lui fisionomia, era il segno appunto della ferita fattagli dal sasso lanciato da Emilio.
Questa scoperta rese ancora più spiacevole la figura di quel giovane al cugino di Matilde, il quale, non sapendo dissimulare il suo dispetto, colla imprudenza della gelosìa, domandò alla fanciulla in tono sprezzante:
—Conosci forse quell'imbecille laggiù che da un'ora ti sta divorando cogli occhî e col cannocchiale?
Matilde fece guizzare di traverso uno sguardo verso il giovane, e rispose freddamente:
—Non lo conosco, ma a vederlo non si direbbe un imbecille.
—Te lo dico io, soggiunse Emilio imbizzito: io che lo conosco bene, perchè è stato mio compagno di collegio.
—Oh guarda! esclamò la fanciulla sorridendo: dal collegio dov'eri tu ce n'escono degli imbecilli?
Emilio si morse le labbra.
—Già! disse poi con un sogghigno da itterico: giudicando da me non l'avresti creduto… Quello là poi era inoltre un prepotente villano, che abusava della sua forza manesca per imporsi ai compagni.
—Ah sì? disse la ragazza con intenzione e guardando bene in faccia il cugino. Allora ei non era mica un imbecille, ma un tristo che, abusando d'una sua superiorità per fare prepotenze, commetteva una cattiva azione.
Emilio non disse più nulla; e dopo un poco scese in platea. Quell'altro aveva pur riconosciuto l'antico condiscepolo, e appena questi comparve sulla porta, gli fu accosto sollecito, chiamandolo per nome.
—Lograve!
Emilio lo guardò freddo.
—Signore?
—Non mi riconosci? Sono Nori… Sai bene. Laggiù al collegio…
Alberto Nori… Ero due corsi più innanzi di te.
—Ah! Nori?… Sì, mi ricordo, rispose colla medesima freddezza
Emilio. Ci frequentavamo poco…
—Eh si… Abbiamo avuto anche qualche battibecco insieme… come, del resto, io ne ebbi con quasi tutti… Ero un po' accattabrighe.
—Un poco! esclamò con un sogghigno; mi pare anzi…
Ma l'altro, completando la frase, con allegra bonarietà:
—Che lo fossi di molto eh? Hai forse ragione. Da ragazzo ero una testa matta di prima classe; ma mi sono cambiato, sai? Son diventato il miglior pastricciano del mondo… Certo non mi lascio soffiare sotto il naso, ma del resto chi mi sa pigliare pel verso mi trova un agnellino.
E rise bonariamente come prima.
—Ah sì? disse Emilio senza dipartirsi menomamente dalla sua riserbatezza.
—Sicuro, riprese quell'altro, che aveva una gran voglia di continuare il discorso e rompere quella crosta di ghiaccio dietro cui Emilio si riparava. La disciplina militare mi ha fatto molto bene… Lo sai che sono stato militare?
—No.
—Uscito dal collegio, entrai nell'Accademia, e ne venni fuori sottotenente d'artiglieria; un anno dopo, superato felicemente l'esame, ero luogotenente…
—E ora?
—Ora non sono più nulla. Ho una vistosa eredità, e ho pensato meglio di venirmela a godere tranquillamente, libero, a casa mia… E tu che carriera hai preso?
—Ho studiato da medico; ma non faccio nulla, perchè anch'io ho avuta un'eredità, quella di mio padre, che mi permette di vivere pienamente a mio capriccio.
—Benissimo; me ne rallegro tanto… Non puoi credere il piacere che mi fa lo averti incontrato. Si ha un bel dire, ma i compagni dei primi anni conservano sempre un posto nel cuore. Mi farò un piacere d'introdurti nella società ch'io pratico…
—Grazie, ma…
—E tu mi procurerai l'onore di frequentare la tua.
—Oh! io…
—Per esempio in casa Danzàno…
Emilio ebbe un'alzata di capo che rivelava poca volontà d'acconsentire.
—Ti ho visto fin adesso in palchetto con quelle signore. So che son tue cugine. Oh, mi sono informato. È la mia buona stella, che mi ti ha fatto incontrare… Sarò schietto con te… È un mese che cerco, invoco l'occasione di essere presentato a quella famiglia…
—Per mia cugina? disse Emilio con riso più itterico che mai.
—Sì… Mi piace alla follìa. Non ho trovato mai figura di donna che mi sembrasse più degna d'amore. E… senti! La mia famiglia è onorata quanto qualsiasi altra; ho ventisette anni e venti mila lire di rendita e…
Lograve lo interruppe bruscamente.
—Cospetto, come ci vai!… Ti pare questo discorso da tenersi qui in piedi, nella platea, d'un teatro?
—Hai ragione… ma ho voluto dirti subito tutto questo, per guadagnarmi il tuo appoggio… Dovresti esser meco tanto buono da presentarmi questa sera, qui stesso…
—Impossibile! esclamò Emilio secco secco. Debbo andare subito per una certa faccenda che non posso trascurare.
—Allora, quando?
—Mah!… ci vedremo, ci parleremo.
—Dove ci vedremo? Diamoci un appuntamento domani. Potremo discorrere a bell'agio… Vuoi ch'io venga a casa tua?
—Che! Troppo tuo incomodo.
—Troviamoci al caffè Centrale. Vuoi? A che ora?
—Che so io?
—Alle dieci domattina… T'invito a colazione… Va bene?
—Va benissimo.
—Siamo intesi… Grazie!
Strinse caldamente la mano ad Emilio e andò ad appostarsi sotto il palchetto di Matilde. Emilio se ne partì con in corpo una rabbia da non dirsi, decisissimo di non recarsi al convegno dato dal Nori.
Il domani, all'ora appunto in cui Alberto Nori stava aspettando al caffè il suo antico condiscepolo e s'arrabbiava maledettamente di non vederlo comparire, Emilio si presentava in casa Danzàno e domandava di parlare a quattr'occhî al padre di Matilde. Senza preamboli gli disse di essere pazzamente innamorato della cugina e di chiedergliela in consorte. Molto si meravigliò il signor Danzàno, che non s'aspettava mai più una simile domanda; e poco disposto come si sentì subito ad accoglierla, cercò delle scappatoje per non dare lì su due piedi una risposta decisiva. Disse che la ragazza era ancor troppo giovane per pensare ad accasarla, che Emilio stesso a soli venticinque anni, colle abitudini che aveva e la vita che menava, non appariva il più atto ad essere un padre di famiglia, e siccome il giovane insisteva affermando ch'ei si sarebbe affatto emendato e ripeteva tutti i vantaggi che presentava il suo partito, lui ricco, solo, indipendente, il padrino finì per dire che, ad ogni modo, in affare che così da vicino la riguardava, egli avrebbe ritenuto per voto decisivo il volere di Matilde e che dunque a lei si sarebbe domandato il tenore della risposta.
Emilio stette un poco a pensarci, e poi disse:
—È giusto… Sia pure… Ma le domando il favore di parlare io con
Matilde e di udire io stesso dalla sua bocca la mia sentenza.
Matilde acconsentì, anzi disse che le piaceva meglio esprimere essa stessa, faccia a faccia, i suoi sentimenti al cugino Lograve.
—Possibile, esclamò essa quando ebbe luogo il colloquio, o possibile che ti sia venuta l'assurda idea di sposarci noi due?… Ma non vedi che tutto ci separa, che siamo a due poli opposti per carattere, per umore, per gusti, per idee, per tutto? Sarebbe un disaccordo continuo da impiacevolire veramente la vita comune. Io già non vorrei cedere a' tuoi modi: cederesti tu a' miei?
—Sì, rispose Emilio, a cui la emozione rendeva più pallide le guancie, tremanti le labbra, incerti lo sguardo e la voce. Sì, io sarò tutto quello che vorrai tu.
—Sul principio, finchè dureranno i primi ardori: e quanto dureranno?
—Sempre, te lo giuro. L'amore che ho per te sento che sarà il solo e l'inestinguibile nella mia vita.
—A queste affermazioni, a questi giuramenti non può credere nemmeno chi li fa. È così variabile il cuore umano! Forse tu stesso non tarderesti a pentirti, quando, svanito il prestigio della illusione trovassi nella tua compagna ben altra donna che quella che credevi…
—Oh no!… Oh! ti conosco abbastanza… E poi, senti, t'amo tanto, mi sento a te attratto e incatenato da una tal forza che, qualunque tu fossi, anche, lasciami dire, la più triste donna, io ti vorrei mia del pari.
—Grazie tante! Ma codesto, signor mio, non è un vero amore: è un capriccio, è una follìa.
—È una passione! gridò con forza Emilio, è qualche cosa di potente, di prepotente, che supera tutto, che domina tutto… Oh credimi, nessuno ti amerà mai come t'amo io, come seguiterò io ad amarti.
E le prese ambe le mani traendola a sè.
Matilde se ne svincolò con qualche asprezza.
—Lasciami! disse. Codesto tuo affetto mi spaventa più che mi commova. Non sono tali frenesìe che procurano la felicità in un matrimonio, ma un ragionato amore, fondato sulla conoscenza dei reciproci caratteri, una reciproca stima. Non si riesce a comune felicità quando l'amore, per quanto grande, è tutto da una parte sola.
Emilio ebbe una penosa contrazione nei lineamenti del volto e un maligno sguardo negli occhî.
—Tu dunque non hai di me nessuna stima?
La fanciulla fece debolmente un atto di protesta.
—Tu dunque sai che non potresti avere per me neppure un briciolo di amore?… Tu vuoi che sia così, e te ne compiaci?…
—Puoi tu credere che in questo la volontà ci abbia qualche effetto? Avviene quello che ha decretato il destino, la natura delle cose. Due si incontrano, che non si sono mai visti e si sentono attratti a vicenda: si scoprono d'un comune sentire, s'accordano perfettamente, mentre altri, stati insieme anche degli anni, sono dai loro temperamenti, dai difetti, anche dalle qualità, affatto disgiunti.
—Tu ami qualcheduno! proruppe Emilio con voce vibrante di collera.
Matilde sostenne fermamente col suo limpido sguardo quello fieramente torbido del cubino.
—Niente affatto, rispose tranquillamente; ma di certo non isposerò che l'uomo il quale riuscirà a farsi amare.
—E io non potrò mai esser quello?
La fanciulla tacque.
—Senti! riprese Emilio dopo un poco, mite e supplichevole più che seppe. Tuo padre mi diceva che siamo ambedue troppo giovani per accasarci. Forse ha ragione. Che cosa conosci tu del mondo e degli uomini? Qualche anno che passi può persuaderti che è una introvabile chimera quell'ideale che tu vagheggi. Io farò di tutto per accostarmi al modello da te pensato: e se tu m'ajuti, chi sa che non ci riesca. Intanto il tempo, coll'opera della volontà che in me è tenace, varrà a togliere dal mio carattere certe asprezze che ti dispiacciono… Sì, credilo, Matilde, tu puoi fare di me un altro uomo… Lasciami solamente un po' di speranza: lasciamela, se non per altro, per compassione. Se pure è vero che hai il cuore libero, concedimi un tempo di prova.
Matilde, imbarazzata, malvogliosa, teneva gli occhî a terra, ma nella sua aperta fisionomia lasciava apparire la sua disapprovazione.
—Ti chiedo un anno solo. Promettimi che per un anno tu non darai ad altri il tuo cuore e la tua mano…
Essa lo interruppe con vivacità impaziente.
—È la mia libertà che mi vuoi togliere, la franchigia del mio destino. E con qual diritto? Non comprendi che la tua pretesa è tirannica, e che la mia promessa sarebbe assurda?
Emilio, assalito da un accesso di rabbia, strinse i pugni.
—Non vuoi dunque far nulla per me?… disse coi denti serrati. A un povero che incontri per via dai il borsellino, e il raggio di sole di un tuo sorriso; e a me che soffro, a cui il tuo diniego farà soffrire tormenti indicibili, rifiuti l'elemosina d'una speranza.
—Elemosina più crudele del rifiuto, quando la speranza avesse ad essere fallace.
—Tu ami già qualcheduno, proruppe con nuovo impeto il giovane.
Dimmelo francamente, tu ami qualcheduno?
—Ti ho già detto di no: rispose con dignitosa freddezza Matilde; e non so mentire.
—Guai se ciò fosse! Credi tu che io potrei vederti appartenere ad un altro? Ah no, per Dio!
L'aspetto, lo sguardo, la voce di Matilde presero un'espressione di fiera risolutezza.
—Sei in un grande errore, Emilio, diss'ella, se credi che colle minaccie potresti ottenere quello che non puoi altrimenti. Io mi sento tanto coraggio da sfidare il tuo maltalento, e l'uomo che mi amasse, ch'io scegliessi, confido che sarebbe pur tale da affrontare i tuoi sdegni.
Emilio era diventato livido affatto.
—La vedremo! disse con voce soffocata dalla collera. È questa l'ultima tua parola?
—Posso esprimerti il mio rincrescimento; ti auguro di cuore che tu possa più felicemente collocare il tuo affetto; ma d'altro, in verità, non saprei proprio più che cosa dirti.
—E sia!… Chi sa che un giorno tu non abbia a pentirtene! Sarai tu stessa che l'avrai voluto. Non ti darò più fastidio… Aspetto la mia rivincita dall'avvenire… Addio!
E se ne partì col cuore in tempesta, colla febbre nel sangue per la rabbia, per la vergogna, pel desiderio della vendetta.
Il fratello di Matilde, che era solito vedere ogni giorno il cugino, e passare con lui gran parte del suo tempo, si stupì quando vide passata una settimana senza ch'egli comparisse in casa Danzàno, nè si lasciasse trovare ai soliti convegni.
I genitori di Matilde, i quali avevano approvato quanto essa aveva detto ad Emilio, e Matilde medesima avevano pensato meglio di tacere quell'incidente a Cesare, cervellino un po' leggiero e dominato dalla volontà più robusta di Lograve, onde, non sapendo a qual causa attribuire quella scomparsa del cugino, fuorchè a una malattìa, Cesare, otto giorni dopo, si recò al quartiere d'Emilio.
Trovò il giovane chiuso nella sua camera, terreo in faccia, collo sguardo spento, cupo, accasciato, rispondendo a mala pena e di cattiva grazia.
—Tu se' stato ammalato, caro Emilio?
—No.
—Che cos'hai dunque? Perchè non ti lasci più vedere? Perchè sei così abbattuto? Ti è capitata qualche disgrazia? A me dovresti dirlo.
Emilio piantò negli occhî di Cesare uno sguardo penetrante per leggergli nell'anima.
—Non ho nulla: rispose bruscamente. Non mi è capitata nessuna disgrazia. Che cosa mi avrebbe ad essere capitato?
—Mah! disse ingenuamente il cugino: io non saprei; però mi pare che non per nulla tu dovresti avere quella ciera da mortorio.
Emilio si persuase che a Cesare non era stato detto nulla della scena avvenuta con Matilde.
—Ebbene, sì, sono malato: riprese, malato di nervi. Ho una melanconìa che mi consuma; lo spleen degli inglesi che mi fa dare al diavolo.
—Eh! bisogna mandar lui al diavolo; bisogna cacciarlo ad ogni costo.
Scuotiti, esci, vedi della gente, cerca svaghi.
Emilio crollò le spalle.
—Gli è trovarne degli svaghi che mi par difficile… Nulla mi diverte.
—Eh via! Tu parli come un uomo esaurito, di cinquant'anni… Vieni stasera in casa X… e vedrai che ne sarai contento. C'è una raccolta sempre più ricca di belle signorine e di stupende signore, un'allegrìa di buon gusto, l'insuperabile gentilezza dei padroni di casa, del thè, dei vini, dei pasticcini e dei sandwiches squisiti. Se tu ci fossi venuto queste sere addietro, non saresti cascato in sì brutta melanconìa: ci siamo divertiti un mezzo mondo. S'è fatto un po' di tutto; mormorazioni, giuochi di società, sciarade in azione, musica, danza, danza sopratutto. C'è venuto un nuovo ballerino, un bel giovane di spirito, simpatico, amenissimo, un certo Nori.
Emilio si riscosse vivamente.
—Ah!
—Lo conosci?
Emilio esitò un momento e poi rispose risoluto:
—Sì… E Matilde è stata lei in casa X… queste sere scorse?
—Sicuro.
—E quel Nori le s'è fatto presentare?
—A Matilde?… Sì, certo; ed ha ballato quasi sempre con lei.
—Sì, lo conosco quel Nori, soggiunse Emilio con accento di acrimonia, troppo bene lo conosco per dolermi ch'egli venga intorno a tua sorella.
—Come! Non sarebbe un giovane per bene?
—È uno fatto apposta per compromettere la virtù in persona; uno di coloro che si cacciano intorno a una donna, zitella o maritata, e la sanno circuire in modo che, anche non riuscendo a conquistarla, danno al mondo tutte le mostre d'esserci riusciti. È uno sfacciato millantatore, che, a sentirlo, tutte le donne cascano innamorate morte di lui: insomma tale che bisogna ben guardarsi dal lasciarlo penetrare in una famiglia e bazzicare per casa.
—Oh, guarda! esclamò Cesare tutto meravigliato. E dire che m'apparve tutt'altra cosa: e non soltanto a me, ma anche al babbo e alla mamma; allegro, vivace, un buon figliuolo.
—Un volpone… Farai bene a stare in guardia per Matilde.
—Diamine! diamine!… È un fatto ch'egli le è sempre intorno… Per questa sera hanno già insieme impegnato non so quanti ballabili.
—Questa sera? In casa X…?
—Sì.
—C'è ballo?
—In tutta regola… Come fare a levarlo d'attorno a Matilde?…
Avviserò lei che stia in contegno; ma non basta.
—No, non basta.
—Ci verrai tu?
—Non so… Forse!… Se sarò di umore meno rabbioso.
—Vieni, vieni: mi ajuterai a tener lontano il Nori.
—Va bene… Ah, senti! Parlando con tua sorella di colui, non dirle che le informazioni le hai avute da me.
—No?… Perchè?…
—Perchè Matilde mi ha in uggia talmente, che le basterebbe sapere ch'io ho detto nero per veder bianco.
Ma questa cauta raccomandazione doveva sortire poco effetto. Quando Cesare venne ripetendo a Matilde le brutte cose dette da Emilio del Nori, la fanciulla, ficcando il suo limpido sguardo in quello del fratello, e con una vivacità che dimostrava quanto tale argomento l'interessasse, domandò:
—Chi ti ha rivelato tutto codesto?
—Una persona che lo conosce molto bene.
—Il suo nome?…
—Il nome non ci ha che fare.
—Ci ha che far moltissimo; e te lo dico io: è il nome di Emilio
Lograve.
—Che che!… nemmeno per sogno.
—È inutile il negare; già a me stessa Emilio ha tentato di mettere quel giovane in mala vista: e so che tu da Emilio ti lasci facilmente imbeccare.
—Mi lascio i fichi secchi! gridò Cesare stizzito. E da qualunque io abbia ricevuto quelle informazioni, è mio dovere e saprò ben io levarti quel moscone d'attorno.
—Tu avrai la compiacenza di non far nulla! proseguì con forza Matilde. Oltre il babbo e la mamma non ho bisogno d'altri vigilatori e custodi.
Quella sera, entrando nel salone di casa X…, la prima cosa che vide
Emilio fu la cugina e Alberto Nori che ballavano un valzer
animatissimo, con aspetto evidentissimo di reciproca soddisfazione.
Egli s'accostò a Cesare, che era poco lontano.
—Bravo! gli disse con un sogghigno. Hai saputo bene tener lontano il
Nori da Matilde.
—Che vuoi? Matilde era impegnata… io non ho voluto fare scandali.
—Hai ragione, hai ragione! disse Emilio, il cui labbro scolorato si assottigliava sotto l'impressione dell'ira repressa.
Il valzer era finito. Emilio traendosi seco Cesare venne ad appostarsi a pochi passi dal Nori che stava discorrendo con Matilde e colla madre di lei. Si mise a parlare vivamente col cugino, dando a quel suo satanico sogghigno la più maligna espressione e fissando instintivamente uno sguardo maligno del pari su Alberto Nori: questi sentì quello sguardo pesare su di sè; si volse, vide i due e capì che parlavano di lui; se ne avesse dubitato, ne lo avrebbe chiarito il suo nome che udì pronunciato da Lograve. Turbato, offeso da quel contegno, Alberto si congedò dalle signore Danzàno e venne accostandosi ai due giovani. Emilio lo lasciò venire fino alla distanza di due passi, e poi, quando già l'altro cominciava un saluto, girò sui tacchi e s'allontanò guardando in aria.
—Lograve! chiamò vibratamente Alberto che sentì il sangue salirgli alla faccia; ma Emilio non se ne diede per inteso, e continuò ad allontanarsi. Non fece un movimento per corrergli dietro, ma si trattenne e si volse a Cesare.
—Che cos'ha meco Lograve?
—Ma! che ne so io? rispose freddo freddo il fratello di Matilde.
—Sì, che lo deve sapere: ribattè con qualche risentimento Alberto, perchè dianzi Lograve le parlava di me… Oh! l'ho ben visto… Che cosa le diceva? Ho pure il diritto di saperlo.
—Io non so se lei abbia questo diritto: ma so bene che io non ho il dovere di parlarne… e non dirò nulla.
—Ha ragione… Andrò a domandarlo a Lograve medesimo: e spero bene che non avrà sempre il coraggio di sfuggire, come ha fatto adesso.
Si mise subito in cerca d'Emilio. I due rivali s'incontrarono in un salottino appartato dove, mentre si danzava nel salone, rimasero soli.
—Tu hai parlato di me testè col signor Danzàno?
—Può darsi.
—E ne hai parlato in modo che quel giovane, il quale m'aveva sempre trattato con molta cortesìa, ha cambiato meco aspetto e contegno.
—Credi?
La calma beffarda di Emilio accrebbe lo sdegno del Nori.
—Ho diritto di sapere che cosa hai detto di me!
—E io non ho nessun obbligo di dirtelo.
—Ti obbligherò io a parlare, disse fremendo Alberto al quale facevano bollire il sangue la faccia canzonatoria, lo sguardo provocatore e l'accento insolente di Emilio.
E questi, con un ghigno ancora più insultante:
—Obbligarmi?… Cospetto!… Vediamo un poco! Eri un prepotentone in collegio e sei sempre tale e quale; ma allora avevi da fare con ragazzi.
—E ora ho da fare con un vigliacco.
Emilio s'allontanò d'un passo e disse lentamente, con voce sommessa, quasi soffocata, sibilante:
—Badate, signor Nori, che questo è un sanguinoso, gratuito oltraggio.
—È quello che vi meritate. Vile chi sparla di una persona dietro le spalle e si rifiuta di ripeterle in faccia le sue accuse.
—Ho capito! disse Emilio, accrescendo ancora l'insolenza del suo accento sarcastico. Questa è, come dicono i francesi, una mauvaise querelle che voi volete avere con me: ma io non mi lascierò trascinare a vostro talento, e per evitare il pericolo che alla fine il sangue freddo mi abbandoni, me ne vado.
E si mosse per partire.
Alberto lo trattenne, stringendogli vigorosamente il braccio.
—No, non partirete prima d'avermi dato soddisfazione.
—Signore! gridò vivamente Emilio, liberando con violenza il suo braccio, osate mettermi le mani addosso!… È troppo!… La soddisfazione che cercate sono pronto a darvela, ma non qui, non con parole, se voi avrete il coraggio di domandarmela.
—Sì, ve la domando.
—Badate bene!… Sarete voi che l'avrete voluto. Io sono ancora disposto a darvi passata, purchè mi lasciate tranquillo e dimostriate, non fosse che con una parola, rincrescimento di quanto mi avete detto e fatto…
—O impudente vigliacco!…
—Basta, signore!… Non più insulti. Sarà come volete. Aspetto i vostri padrini, e di tutte le conseguenze avrete da dire mea culpa.
E ratto, senza che l'altro avesse più tempo a trattenerlo, Emilio s'allontanò e sparì dal ballo.
Alberto, quando tornò in sala, aveva tuttora in viso un poco di quell'espressione di sdegno che la scena con Lograve gli aveva eccitato, e Matilde se ne accorse.
—Con chi l'ha, signor Nori? gli disse mezzo scherzosa, mezzo sul serio, esaminandolo bene con que' suoi occhî lucenti come diamanti sotto un raggio di sole. Qualcheduno l'ha fatta inquietare?
Il giovane rispianò subito la fronte, e seppe trovare un sorriso affatto di buon umore.
—Punto, punto, rispose; cioè sì, l'ho con un certo nojoso, che per discorrermi d'alcune sue bazzecole, m'ha fatto perdere una polka.
—Quel nojoso, se non isbaglio, è stato mio cugino.
—No, signorina.
—Mi è sembrato vederla parlare con lui e con mio fratello.
—Sì, poche parole… È stato un altro a trattenermi.
Matilde sentì rinforzarsi il concepito sospetto, cercò di Emilio, e l'improvvisa di lui partenza l'inquietò maggiormente. Poco dopo anche Alberto se n'andò. Matilde interrogò vivamente il fratello. Questi negò bensì che fra Emilio e il Nori vi fosse stata contesa, ma la sua negazione parve debole e poco persuasiva alla ragazza.
Il domattina, Cesare, ricevuto un biglietto di Emilio che lo pregava di venire subito da lui, stava per recarsi alla chiamata, quando Matilde lo sorprese colla mano sulla serratura dell'uscio di casa.
—Dove vai così di buon'ora e così sollecito?
Cesare, che non era abbastanza accorto per vedere il motivo di tacere il vero, disse d'essere stato chiamato da Emilio.
Matilde se ne turbò.
—Ah! io l'avevo indovinato fin da jeri sera. Quel tristo d'Emilio vuoi battersi col signor Nori.
Cesare disse quanto meglio seppe a persuadere la sorella che ciò non era possibile, ma ogni sua parola rimase inutile.
—Senti, Cesare, disse Matilde con forza. Tu hai da impedire codesto duello ad ogni costo… ad ogni costo, capisci… Ne faccio te responsabile… Va, e torna presto a rassicurarmi.
—Cesare, disse Emilio al fratello di Matilde, appena l'ebbe veduto entrare, quel bellimbusto del Nori mi ha sfidato, e ci battiamo questa stessa mattina.
—Possibile! esclamò Cesare tutto turbato. Ah! Matilde ha visto giusto.
—Ah ah! Che cosa t'ha detto tua sorella?
—Che si trattava di questo duello, e ch'io dovevo a ogni costo impedirlo.
—Sì, proprio? esclamò col suo malvagio sogghigno Emilio. Convien dunque dire che Matilde s'interessa vivamente, troppo vivamente, per quel signore… Oh! me ne rincresce, perchè il duello oramai non v'è modo d'evitarlo.
—Oh sì che ci sarà, disse con calore il buon Cesare; ci dev'essere. Sento anch'io essere mio dovere d'impedirlo, questo duello… Tu ne hai già avuti troppi, nessuno più di te può rinunziare ad uno scontro senza scapitarne… Di questo duello poi non c'è una soda ragione.
Emilio l'interruppe bruscamente.
—La ragione c'è, e la so ben io… Non impacciartene dell'altro tu, che per quello ch'io ti domando… Vorresti farmi da Mentore? Questo duello ti dico io che è inevitabile… È stato lui, Alberto, quello che l'ha voluto… Io ho fatto di tutto per esimermene; sono stato rimessivo fin troppo; Nori ha persistito; mi ha mandato a sfidare, stamattina son venuti i suoi padrini e fra un quarto d'ora torneranno per intendersi definitivamente coi miei, dei quali tu sarai uno e B. l'altro. Siamo già d'accordo che si finirà tutto di questa mattina medesima. Posso io dare addietro? Mai più! Lo può egli, provocatore, sfidatore ostinato, senza coprirsi di vergogna? Nemmen per ombra. Dunque? E avresti cuore tu di abbandonarmi, di lasciarmi negli impicci?… Hanno suonato. È certo l'altro mio padrino. Conto su voi due. Saprete fare le mie parti a dovere.
Cesare, dominato dall'accento e dallo sguardo di Emilio, non osò più contraddire, non osò più rifiutarsi.
Secondo le istruzioni date dallo sfidato ai suoi padrini, fu convenuto che il duello avrebbe luogo fra due ore, alla pistola, dietro il campo santo, i due avversarî alla distanza di venti passi, facendo fuoco nello stesso tempo.
Quando i due avversarî si trovarono a fronte, Cesare non potè a meno di essere colpito dalla differenza dei loro aspetti. Alberto Nori, un po' pallido, ma franco e sorridente, guardava dritto innanzi a sè cogli occhî levati; Emilio Lograve teneva un po' chino il capo e di sotto la fronte lo sguardo velenoso guizzava a scatti sull'avversario mentre sulle labbra gli si disegnava il sogghigno diabolico di un malvagio che vuole compiere un maleficio e sa di riuscirvi. Il fratello di Matilde fu assalito da una specie di rimorso; nel consegnare l'arma ad Emilio, gli disse piano, ma con calda espressione di preghiera:
—Tu lo risparmierai, non è vero?
L'altro sogghignò a suo modo.
—Vedrai come!… Lo colpirò al terzo bottone del soprabito.
Cesare volle insistere.
—Va, va al tuo posto, e non seccarmi.
Al cenno, i due colpi risuonarono insieme. Emilio stette fermo, immobile, senza batter ciglio. Alberto portò la mano sinistra al petto ed esclamò:
—Son ferito!
Si scosse come per fare un passo, vacillò, e perdendo di subito le forze, lasciò cader l'arma che impugnava colla, destra, si accasciò e si distese lungo per terra.
I quattro testimonî e il medico si precipitarono presso di lui; il terzo bottone del soprabito a doppio petto era rotto e lì vicino un bucherello lasciava uscire una goccia di sangue. Il ferito girò intorno uno sguardo incerto, volle parlare, una lieve schiuma sanguigna gli venne agli angoli della bocca, e svenne.
Emilio, senza muoversi dal suo posto, aveva incrociato le braccia e stava aspettando.
Il medico aprì sollecito i panni del caduto, ne stracciò la camicia, osservò la piaga, ne tastò coi suoi ferri la profondità, cercò la palla, non la trovò, e volgendosi ai presenti, disse con malauguroso scuoter del capo:
—La ferita è gravissima.
Mentre il medico faceva una fasciatura provvisoria, Cesare s'accostò ad Emilio, e questi senza lasciarlo parlare gli disse subito:
—Hai visto? Al terzo bottone.
Cesare sentì uno sdegno, un orrore indicibile per quel cinico omicida.
—Tu l'hai assassinato, gli rispose con labbro fremente. Ora, che vuoi tu ancora far qui? Vattene.
Emilio scosse la spalla sogghignando, gettò in terra la pistola che teneva ancora in mano e si allontanò lentamente.
Cesare rientrò in casa con aspetto così turbato, che i genitori e la sorella subito s'accorsero che qualche cosa di grave gli era intravvenuto; e siccome era impossibile nascondere la verità, egli narrò con ogni particolare l'avvenimento di quella mattina. Amarissimi rimproveri glie ne fece Matilde, severissimi il padre e la madre.
Il signor Danzàno scrisse al figlioccio tali rampogne che gli levarono affatto la volontà di presentarsi nella casa del padrino a sentirsele ripetere in faccia.
Per tutta la città l'interessamento fu vivo pel ferito, rigorosa la disapprovazione pel feritore.
Il fisco, trattandosi di un duello che fece tanto rumore, e di cui la conseguenza era la vicina, temuta, pur troppo inevitabile morte di un uomo, si trovò in debito di procedere con qualche premura.
Emilio, per togliersi alle seccature del processo e alla indignazione della cittadinanza, di cui in quei primi giorni sentiva gravarsi addosso il molesto peso, dato sesto ai suoi affari, provvistosi d'una buona somma, senza dare un saluto a chicchessia, fuggì all'estero, coll'animo di non rimpatriar più che a cose quiete e protetto dall'oblìo che nella vita sociale, coll'ajuto del tempo, seppellisce ogni cosa.
Alberto Nori stette parecchî giorni tra la vita e la morte; ma per fortuna quel benedetto bottone, preso di mira, aveva fatto deviare un pochino il projettile, e il cuore era stato salvo. Il pericolo di una emorragìa interna venne scongiurato; e dopo una settimana, i medici credettero potere affermare, che se non sopravvenivano complicazioni, il malato sarebbe guarito.
Se in tutta la cittadinanza grandi furono lo interessamento pel Nori e la indignazione pel Lograve, grandissimi essi furono nella famiglia Danzàno, e in Cesare medesimo, e più di tutti in Matilde. Le pareva che su lei pesasse un po' di colpa, che avendo essa scoperto il pericolo avrebbe dovuto fare di più per iscongiurarlo; se la prese col fratello, che non era stato capace d'impedire lo scontro, e non gli perdonò che quando vide con quali amorose cure egli si facesse ad assistere il ferito. Con ansia essa ne aspettava da Cesare le notizie, e come si era vivamente afflitta alle tristi, provò e manifestò una vera gioja al sopraggiungere delle buone. A un punto si stupì essa medesima di tanto interessamento che per la persona più cara non avrebbe potuto avere maggiore: ne interrogò tra sè e sè il suo cuore, e la risposta che n'ebbe le fece salire un'ondata di sangue alla faccia.
Fra Cesare Danzàno ed Alberto Nori, durante la malattia di quest'ultimo, venne stabilendosi una amicizia, una intimità, che non avrebbe potuto essere maggiore dopo anni ed anni di convivenza.
Guarito, Alberto frequentò la casa del nuovo amico, e vi mostrò carattere così aperto e buono, costumi così onesti e sentimenti tanto lodevoli, da ottenere la stima e l'affetto di tutti.
E quindi, allorchè, sei mesi dopo il fatal duello, Alberto Nori venne a chiedere ufficialmente la mano di Matilde ai genitori di lei, fu unanime il parere di tutti, di premurosamente acconsentire. Il matrimonio, che ebbe luogo al chiudersi dell'anno, ottenne l'approvazione e l'invidia di tutti, come quello che per le condizioni reciproche di età, di fortune, di carattere dei conjugi prometteva di riuscire il più felice che sia possibile.
E mantenne la promessa. Gli sposi furono felicissimi e lo meritarono. Matilde e Alberto potevano dirsi davvero fatti l'uno per l'altra; la dolcezza di lui temperò ancora meglio la primitiva petulanza di lei che gli anni avevano pure già scemato; l'amore, la fioritura della giovinezza, la soddisfazione del cuore, diedero alla beltà di Matilde nuovo pregio, nuovo incanto, nuovo splendore.
Come se la fortuna volesse favorire con ogni sua grazia quella giovane coppia amorosa, un anno dalle nozze non era ancora trascorso, che Matilde si vedeva appeso al seno e dondolava fra le sue braccia un amorino di bimbo così bello che Alberto voleva fosse tutto tutto il ritratto della mammina, e Matilde affermava ch'era una copia fedele in miniatura del babbo.
La loro felicità sarebbe stata troppa dove non fosse venuto a colpirli qualche dolore, e questo venne alla morte della madre di Matilde. Se per questa il colpo fu crudele, fu crudelissimo per il signor Danzàno, il quale, dopo tanti anni di convivenza sempre in pace e accordo, adorato da quella donna, ora a lui rapita, che lo sapeva circondare d'ogni cura e d'ogni affetto, sentì proprio mancarsi metà dell'esistenza, metà della ragione di vivere.
La sua casa divenne muta e deserta: Cesare, giovane vivente la vita elegante di società, non poteva e non sapeva dargli conforto; il povero vedovo in ogni stanza del quartiere trovava argomenti di ricordi che incrudivano sempre il suo dolore: egli non aveva sollievo, non provava consolazione che recandosi in casa della figlia, dove le parole e la presenza stessa di Matilde, le carezze dei nipotini (che ora erano in numero di tre, due maschietti e una femmina) gli facevano, non dimenticare, ma sentir meno la sua disgrazia. Valevano a ciò sopratutto le moìne, la figurina, i baci della bambina, alla quale era stato posto il nome della nonna, e in cui il vedovo a sua volta, s'ostinava a vedere il ritratto parlante della perduta donna. Un giorno, Alberto, andato in casa dello suocero, lo trovò così abbattuto che ne ebbe paura.
—Se quest'uomo continua a starsene qui solo, è bello e spacciato, pensò; e rientrato a casa, trasse in disparte sua moglie e le disse:
—M'è nata in capo un'idea, che spero approverai. Tuo padre ha bisogno di compagnìa e di cure: o perchè non verrebbe egli a viver qui con noi, ad ajutarci a tirar su que' birichini dei nostri figli?
Matilde gettò le braccia al collo del marito.
—Oh grazie! gli disse baciandolo appassionatamente. Tu sei il miglior uomo del mondo.
Fecero così una famiglia sola; e il vecchio Danzàno si riprese alla vita. Cesare medesimo ne fu soddisfattissimo, perchè in verità egli voleva pure un gran bene alla sorella, e ai nipoti, e al cognato stesso, ed era lieto di vedere suo padre contento, mentre egli ne diveniva ancora più libero del suo tempo e della sua volontà, di guisa che per quella brava e buona famiglia tutto camminava prosperamente, allorchè, dopo cinque anni d'assenza, fece ritorno in patria Emilio Lograve.
Questi, fuggendo, portava seco la quasi certezza che Alberto Nori sarebbe morto della sua ferita; ne aveva aspettato impaziente le nuove ulteriori, e siccome nessuno glie ne aveva scritto, s'era rivolto replicate volte per lettera a Cesare, affine d'essere informato non solo della sorte d'Alberto, ma delle cose della famiglia Danzàno. Ma Cesare non gli aveva mai risposto, e la prima notizia ch'egli ebbe, fu la partecipazione a stampa del matrimonio seguito fra il signor Alberto Nori e la signorina Danzàno.
Emilio fu assalito da un vero accesso di furore; fantasticò ogni fatta di propositi violenti a vendicarsi.
Il pensiero di Matilde in braccio ad un altro gli era un supplizio che l'angosciava giorno e notte. E quell'altro così felice era quel Nori, per cui fin da ragazzo egli aveva avuto un odio, un rancore speciale! Stette a un pelo di pentirsene e precipitare in patria per costringere Alberto a un nuovo duello da cui non lo avrebbe più lasciato uscir vivo di certo. Ma se ne trattenne comprendendo che siffatto scontro sarebbe stato sicuramente impedito. Calmato il primo furore, un'altra vendetta che giudicò più cara, più degna e più compiuta, venne a sorridere al suo tristo talento.
—Egli l'ha sposata, pensò, ha vinto la prima partita, ma non può darsi una rivincita?… togliergliela, strappargliela… averla, ora che è sua, ferirlo nell'amore insieme e nell'onore!… Impossibile?… E perchè?… Matilde è onestissima e mi odia… Ah! l'onestà delle donne, anche la più pura, può transigere sotto l'impero d'una necessità: anche l'odio la necessità fa superare… Crearla questa necessità, farla incombere minacciosa, imminente, inesorabile… Con arte, con pazienza… e il mio cervello d'artificî non ha penuria, e di pazienza il mio odio ne saprà avere. Chi sa?
Continuò i suoi viaggi. Visitò la Francia: visse la vita chiassosa di Parigi: e in quel bailame dove si cola, s'agita e ribolle «la gran fiumana di tutti i vizî d'Europa e d'America» non ebbero a farsi migliori il suo cuore, l'anima, l'indole. Passò in Inghilterra, e ciò da cui più venne colpito furono l'egoismo, la crudezza della lotta degl'interessi, il disprezzo pei deboli che contraddistinguono quella razza di forti; in Germania vide il trionfo della forza: a Berlino e Vienna incontrò le stesse passioni, gli stessi difetti e vizî e ingiustizie, onde la sua primitiva disistima degli uomini e delle donne, il suo scetticismo, il suo rancore contro chi godeva gioje a lui contese, la sua rabbia di soddisfare le sue brame si accrebbero, nè migliorarono i suoi costumi e il suo carattere. Dopo cinque anni, intravvenuta un'amnistia pei reati di duello, Emilio Lograve tornava in patria, ancora più tristo, più invidioso, maligno, ma esteriormente cambiato affatto, grazie alla maschera e alla veste d'agnello ch'egli aveva creduto utile imporsi e aveva saputo vestirsi.
«Caro Cesare,
«Eccomi di ritorno in patria, ma ben diverso da quello d'un tempo. Gli anni, l'esperienza del mondo, la mia volontà hanno domato il mio umore, vinto gl'irosi impulsi del mio carattere. Mi sono fatto umile come un povero e mite come un agnello. E sono solo, senza legami, senza affetti, mentre un prepotente bisogno mi è nato di voler bene ad altrui, e che altri mi voglia bene.
«Pensare che questo tesoro d'affetto potrei averlo nella tua famiglia! Il mio padrino, io lo amerei, sento d'amarlo come un padre: te e Matilde, come fratello e sorella. Ma non oso neppure presentarmi alla soglia della vostra casa. Che accoglienza mi farete voi, e quale Alberto Nori?… Certi momenti m'imagino che io, andando a lui con una mano tesa e dicendogli: «Dimentica: io nell'avversario d'una volta, non vo' veder più che un nuovo congiunto,» egli accetterebbe la mia destra e mi chiamerebbe cugino. Credo di ciò capace il carattere generoso del Nori; ma poi mi sgomento e non oso espormi al pericolo che un ostile accoglimento ridesti in me l'antico dèmone dell'ira.
«Ma di te almeno, spero e confido che tutta affatto spenta non sarà quella benevolenza, che mi dimostrasti un giorno, e ad essa faccio appello, come un assetato per soccorso d'un bicchier d'acqua. Vediamoci; poichè io non posso venire da te, vieni tu da questo povero solitario. Benvenuto tanto più se mi recherai la faccia e il cuore dell'animo di prima: benedetto se potrai darmi da parte dei tuoi una parola di pace.
«Tuo aff. EMILIO LOGRAVE.»
Il fratello di Matilde si affrettò di comunicare quella lettera al padre, alla sorella, al cognato. I due uomini credettero scorgervi sincerità di pentimento, vere intenzioni di accordo e desiderio di affetto: e Alberto, coll'impeto della sua generosa e subitanea natura, manifestò il proposito di andar tosto egli stesso a pigliare per mano il reduce, e trarlo seco, e introdurlo nella famiglia. Ma non fu di questo parere Matilde, la quale con molta freddezza, anzi con molta diffidenza, accolse l'atto di resipiscenza del cugino.
—Cambiato? diss'ella, sarà! Ma prima di ammetterlo in casa, vorrei averne delle prove migliori che le semplici parole. Andare da lui, tu Alberto, no sicuramente. Cesare gli rechi pure il nostro perdono. Viva perdonato, ma lontano; è il meglio per tutti.
Emilio fu con Cesare un commediante perfettissimo. Si commosse di gioja, di tenerezza, di gratitudine; perorò, pianse. Comprese dalle impacciate parole del poco destro Cesare, che Matilde impediva la riconciliazione di andare fino all'espansione dell'amicizia, e disse che essa aveva ragione: che il passato le dava innegabile diritto di diffidare; ma che egli sperava, col tempo, vincere i dubbî e i sospetti anche di lei, e giungere allo scopo tanto agognato di essere pei Nori come pei Danzàno un vero fratello. Intanto non gli si negasse almeno la consolazione di poter vedere il caro padrino, il protettore della sua infanzia, cui egli amava più di tutto al mondo.
Il vecchio Danzàno lo accolse molto freddamente, ma Emilio mostrò non accorgersi di quella freddezza. Cominciò per venire dal padrino una volta la settimana, poi due, poi quasi tutti i giorni. Non cercava mai di vedere Matilde; se la incontrava per caso, la salutava e tirava via. Sapeva svagare il vecchio raccontandogli i suoi viaggi, facendolo discorrere del passato, leggendogli libri e giornali. Lo accompagnava anche a passeggio, sostituendosi a Cesare che preferiva esser libero ed a Matilde e Alberto che consacravano viepiù il loro tempo ai figli. Il caso venne ancora in suo ajuto. Il padre di Matilde cadde gravemente ammalato: ed Emilio, richiamatosi alla memoria quanto aveva studiato di medicina, partecipò alla cura, seppe agli altri medici persuadere le sue idee in proposito, e l'infermo dovette credere che a salvarlo aveva giovato più di tutti e quasi unicamente la cura del figlioccio. In verità egli non risparmiò nè tempo, nè attenzioni, nè tratti servizievoli intorno al giacente, vegliando il più delle notti e sapendo così bene interpretare, indovinare i bisogni di lui, i desiderî, le idee, che nessun altro valeva a soddisfare ugualmente il malato, anche quando già entrato in convalescenza.
Matilde, da principio s'era adattata assai malvolentieri a trovarsi sempre in compagnìa di Emilio, ma poi vedendone la buona, zelante e giovevole opera, si era dipartita a poco a poco dalla primitiva ostile freddezza, e grazie pure alle umili, insinuanti, affettuosamente bonarie maniere di lui, aveva lasciato introdursi fra loro una certa famigliarità che aveva anche le apparenze dell'amicizia. E così non era trascorso un anno dal suo ritorno, che Emilio vedeva effettuato il voto da lui espresso nella lettera a Cesare, di essere cioè accolto nella casa di Alberto e da Alberto stesso come un congiunto. Con Matilde egli continuava nella sua fredda riserbatezza: non cercava mai di essere solo con lei, anzi, ne sfuggiva l'occasione; se la cosa avveniva, egli accresceva ancora la espressione di indifferenza, che aveva di solito, e più presto che poteva, partivasene. Due sole volte quell'interno fuoco, ch'egli così abilmente nascondeva, fu sul punto di manifestarsi.
La prima nella camera del convalescente, quando questi era appunto ritornato da una passeggiatina fatta in compagnìa e col sostegno di Emilio. Stanco il vecchio erasi abbandonato sulla poltrona, e Matilde, che era accorsa sulla soglia del quartiere a riceverlo, e lo aveva guidato fin là, gli accomodava dietro la testa e le spalle i cuscini. Era essa così bella in quell'atto, con una sì seducente espressione di amorevolezza, che Emilio, nel contemplarla, sentì le fiamme salirgli al capo. Nell'ajutarla ad accomodare un guanciale, Emilio incontrò colla sua la mano di lei, e involontariamente la prese, la strinse. Matilde liberò vivamente la destra, e levò in volto al cugino uno sguardo stupito, quasi offeso, interrogatore. Ma il giovane aveva già ripreso il possesso della sua volontà, e il dominio della sua passione; spense con meravigliosa rapidità il lampo degli occhî, atteggiò le labbra ad un sorriso innocente, e disse colla calma d'una discreta ammirazione:
—Che brava infermiera, e che buona figliuola sei tu!
Matilde non ci pensò altrimenti.
La seconda volta così avvenne. Emilio sorprese la famigliuola Nori in uno di quei momenti d'espansione della mutua tenerezza che sono così cari e soavi. Marito e moglie abbracciati avevano intorno i figliuoletti che facevano ressa per essere accolti e carezzati in quell'amplesso anche loro. Quelle testoline bionde, ricciute, quei visini rosei, paffutelli, quegli occhietti vividi, furbicciuoli, amorosi, quei labbruzzi porporini, da cui usciva la cara melodìa di parole nella tenera voce infantile, e in mezzo quelle due belle figure d'uomo e di donna giovani che avevano intorno l'aureola della felicità e della tenerezza, formavano uno spettacolo da commuovere e rendere invidioso qualunque. Emilio impallidì, si scusò di venire a disturbare. La sua presenza pose fine a quella intima festicciuola. Dopo un breve discorso, Alberto si alzò e disse dover uscire.
—Conducimi teco, incominciò il maschietto più grande, conducimi a spasso, babbino mio.
—Sì, sì, conducine, conducine a spasso: gridarono gli altri quattro, serrandoglisi ai panni.
—Adesso, subito, no, no, non posso: disse il padre. Ma fate vestir la mamma, e con essa vi attendo tutti fra un'ora sulla piazza grande… Va bene, così?
—Sì, sì, sì, gridarono i piccini, battendo le mani e saltando.
Andiamo, mamma, vieni a vestirti.
—Eh! ci ho il tempo! rispose Matilde ridendo. Andateci intanto voi altri che ci impiegate un anno. Tu Alberto, accompagnali di là, e di' alla cameriera che li acconci.
Alberto prese in braccio il più piccino, gli altri si attaccarono alle falde dell'abito, ed egli ridendo, gridando, baciando quello che gli si era appeso al collo, senza nemmen più pensare a salutare il cugino, se ne uscì dalla stanza. Fu come un piccolo turbine di allegrìa che si partisse.
Emilio seguì quel padre e sposo avventurato con uno sguardo che si sarebbe potuto dire feroce.
—Ah! si lasciò sfuggire a mezza voce. Che cosa non avrei dato, che non darei per la felicità di quell'uomo!
Matilde sollevò vivamente la testa, e fissò su di lui il suo sguardo limpido e penetrante.
—Che cosa dici?
Emilio fu sollecito a riprendere la sua maschera d'indifferenza.
—Nulla… Che Alberto è un uomo felice, e che se lo merita… e che tu hai avuto ragione a preferirlo… a tutti gli altri.
E si partì.
Lo spettacolo di simili scene, a cui la sua frequentazione in casa Nori lo faceva assistere sempre più sovente, a cui anzi egli cercava di assistere con quella fiera voluttà che altri prova nell'inasprire un forte dolore che lo tormenta; lo spettacolo di queste scene accresceva in Emilio l'odio, la rabbia, l'invidia, gli lacerava il cuore così da mandarlo in furore, quando solo nella sua camera egli ripensava ad esse. Allora il tristo malediceva, bestemmiava, si mordeva i pugni, giurava e spergiurava al suo odio che un giorno l'avrebbe la sua rivincita; l'avrebbe a ogni modo, a costo di qualsiasi delitto, a costo di qualsiasi infamia.
Meditava intanto il suo disegno colla pazienza d'un odio eterno e d'una passione maniaca, camminando guardingo per non metter piede in fallo.
Una mattina, Emilio, entrando colla sua solita famigliarità nella camera di Cesare, assente da casa, sorprese il domestico che si faceva un generoso regalo dei sigari del padrone.
—Cesare non c'è? domandò egli, facendo mostra di non aver visto nulla.
—No, signore, rispose il servo, cacciando destramente in saccoccia i sigari e richiudendo la scatola con mano franca.
—Bene; ma non tarderà a venire, perchè eravamo intesi che sarei venuto a quest'ora: lo aspetterò.
E sedette presso la tavola, prendendo un libro e mettendosi a sfogliarlo.
—Come le piace, disse il domestico; e si mosse per partire.
—Ma voi non avete mica finito di rassettar la camera? notò Emilio.
—No, signore, ma smetto per non disturbare. Là… tornerò più tardi.
—No, no, fate la vostra bisogna; non mi disturbate niente affatto.
Il domestico s'inchinò e riprese il suo lavoro.
Emilio, voltando le pagine del libro, lo guardava di sottecchi. Non era la prima volta che egli facesse attenzione a quel giovane; tutto quello che apparteneva alla casa egli l'aveva esaminato e studiato: la cuoca, una buona donna senza nessuna nota speciale; la cameriera, abbastanza bellina per essere civetta, e giovandosi della facoltà, ma contenuta dalla severità della padrona che non avrebbe tollerato neppure una leggerezza nella sua condotta; fra lei e il domestico, Emilio aveva creduto di osservare alla sfuggita, molto alla sfuggita, qualche lieve cenno d'intelligenza, e si era permesso di appurare la cosa. Il domestico era un giovinotto di venticinque anni, di statura bassotta, tarchiato, con capelli rossigni, fronte bassa, testa quadra, labbra grosse, una falsa aria da nesci, il portamento da contadino rincivilito e negli occhî vivaci, a lampi, la rivelazione d'una intima furberìa che si voleva nascondere.
Su questo cotale, Emilio aveva fondato alcune speranze.
—È da molto tempo che siete in questa casa? domandò Emilio colla indifferenza di chi parla tanto per non istare in silenzio.
—Sì, signore; più di sei anni, fin da prima ancora che il signor
Alberto si ammogliasse.
—Vuol dire che siete proprio affezionato al vostro padrone?
—Si figuri!… Sono figliuolo d'un suo contadino. Sono nato, si può dire, al servizio di questa famiglia. Siccome il lavoro dei campi mi piaceva poco e il vivere a polenta e acqua mi piaceva niente, mi sono raccomandato al signor Alberto; ed egli credendo, per sua bontà, di vedere in me qualche disposizione a diventare un buon servo di casa, mi prese con sè…
—E vi ci tiene in panciolle, interruppe Emilio ridendo.
—Eh! non ci si sta male certo… Ma ci si stava meglio quando il signor padrone era scapolo.
—Ah sì?
—Poco da fare… parecchie mancie per commissioni delicate… che ora non si fanno più.
—Ah! briccone! sclamò Emilio con un sorriso incoraggiatore, approvatore. E poi, unendosi anche la famiglia della signora, il lavoro è cresciuto di certo.
—Oh! non mi lamento: i padroni son tutti buoni… Madama è un angelo, severa in certe cose, anche rigorosa, ma un angelo!… Suo padre, povero vecchio, che cosa ne può se la sua malattia ci ha dato tanto da fare? Il signor Cesare è una perla… Oh! eccolo appunto.
Cesare entrava; il servo riprese con zelo la sua finzione di spolveramento. Scambiate appena alcune parole con Emilio, il fratello di Matilde, come soleva, offrì dei sigari e aprì la cassetta. Il domestico raddoppiò di ardore nell'agitare lo strofinaccio.
—Ah, ah! sclamò Cesare che si accorse della sparizione dei migliori sigari. Qui c'è stato un leva ejus… Battista, sapresti darmene notizia?
Il domestico voltò verso il padrone una faccia stupidamente franca e sicura.
—Notizie di che? disse.
—Dei sigari che mancano.
—Oh! ce ne mancano?… Io non so nulla: io non ho manco mai visto che lì dentro ci fossero dei sigari.
Cesare stava per montare in collera.
—È vero, saltò su Emilio: Battista non ne sa nulla, e non ne può nulla, perchè quei sigari sono io che te li ho presi.
—Tu!
—Ne sono rimasto senza; me no son fatta una piccola provvista, che ti restituirò alla prima occasione.
—Va bene, va bene: non parliamone più.
Battista guardò Emilio coll'aria stupita e quasi spaventata, che avrebbe avuto vedendo qualche mostro meraviglioso e arrossì leggermente sotto le lentiggini della sua carnagione: poi girò vivamente sui tacchi e uscì sollecito, forse per andare a meditare intorno a quell'indovinello, di cui non gli si presentava subito la soluzione.
Emilio aveva ammirato la franchezza di menzogna in Battista che, come non aveva scrupoli a rubare i sigari, poteva, per interesse, non averne nemmeno per altre azioni od omissioni. Da quel giorno ogni qual volta s'incontravano il signor Lograve e il servo Battista, quegli aveva un sorriso di compiacenza protettrice, quasi di segreta intelligenza, e questi abbassava gli occhî e tirava dritto a capo chino. Vi era quasi una tacita complicità fra quei due, e il servo sentiva come se l'amico dei suoi padroni gli avesse lanciato nelle carni un uncino e lo tenesse per esso, e anzi questo uncino penetrasse ogni giorno più addentro. Emilio trattava quel servo coi modi più amorevoli e generosi; lo chiamava suo caro, aveva sempre un elogio da fargli, e prendeva ogni menoma occasione per dargli delle buone mancie, a lui e a Lisa la cameriera.
Un giorno, venuto a fargli una commissione da parte di Cesare, Battista trovò il signor Lograve in un lungo corridojo della sua abitazione, ch'egli aveva ridotto a tiro a segno, dove ogni giorno si esercitava per delle ore colla pistola da sala.
—Lo disturbo? disse Battista rimanendo sulla soglia.
—Niente affatto: parlate pure, e io intanto continuo il mio tiro.
Mentre Battista espose la sua ambasciata, Emilio cacciò tre pallottole nel centro del bersaglio, l'una spingendo dentro l'altra.
—Corpo di Bacco! esclamò il servo meravigliato. Che sicurezza d'occhio e che fermezza di mano!
—Peuh! esclamò con indifferenza Emilio, gettando in là la pistola; e voltandosi a un tavolino dov'era un servizio da liquori, si mescette un bicchierino di acquarzente che tracannò d'un fiato. Ne caccierei nello stesso buco cinquanta, cento delle pallottole, l'una dopo l'altra.
—Ah! non sarebbe molto propizio alla salute l'andare a soffiare sotto il naso di vossignorìa.
—Una volta s'aveva poco da scherzare meco; ero un solfino, m'accendevo subito; ma ora ho messo tanto ghiaccio nel mio sangue, che a farlo ribollire ce ne vuole!…
Battista, compiuta la sua missione, prendeva commiato.
—Aspettate, gli disse Emilio. Assaggiatemi un po' questo cognac.
E gli mescette un buon bicchierino, atto a sciogliere lo scilinguagnolo.
—Ditemi un po' se vi gusta.
—Oh! eccellente! esclamò Battista, centellinando quel fuoco liquefatto e facendo schioccare la lingua contro il palato.
—I vostri padroni non ne hanno di simile.
Battista fece un gesto evasivo.
—Non è punto cattivo quello di casa Nori, ma io ritengo che il mio è migliore. Che cosa ne dite?
—Mah!… non saprei… Quello di casa non l'ho mai assaggiato.
—Possibile. Avete avuto tanto scrupolo?
—Sissignore… Gli è che lo tengono sotto chiave.
—Ah!…
—Già, in casa tutto è chiuso a chiave: vino, liquori.
—Sigari? soggiunse Emilio sorridendo.
—Bè!… Il signore vuol dire?…
—Voglio dire, s'affrettò a interrompere Emilio, che è un brutto sistema, quello di non lasciar godere alla servitù quel poco di buono che c'è in casa. Per me i servi sono parte della famiglia, e quello che è mio è anche loro.
—Oh bravo! Lei sì ch'è proprio un buon signore!
—La più rigorosa dev'essere madama, mia cugina.
—Proprio!
—C'è quella buona Lisa, la cameriera… bellina, non è vero?
—Peuh! fece ipocritamente Battista, chinando gli occhî.
—Scommetto che vi piace.
—Oh! io faccio i miei affari e lei fa i suoi.
—Ne son persuaso… Ebbene, volevo dire che quella buona ragazza è un po' vittima dei capricci della padrona.
Battista allargò lo braccia, si strinse nelle spalle colla diplomazìa d'un ingenuo che non vuoi dir nulla.
—Voi siete affezionato al Nori, e non ne lascierete il servizio, a nessun patto, non è vero?
—Sono affezionato ai miei padroni… sissignore… Uscire di quella casa… sicuro… che mi farebbe dispiacere… Ma però… sa bene… se si può migliorare il proprio stato… onestamente, s'intende… è da matto il non farlo.
—Quanto vi danno al mese?
—Trenta lire… e non è molto.
—È poco, in verità, per un uomo come voi… Ci sono di quelli che non vi valgono che guadagnano cinquanta, sessanta lire.
Battista mandò un gran sospiro.
—Eh, bisogna nascere fortunati a questo mondo.
—Ma la fortuna vuol anche essere cercata.
Il domestico fissò i suoi occhietti furbi, penetranti, nel sorriso compiacente e incoraggiatore del Lograve.
—Se alcuno mi ci ajutasse… se s'interessasse per me… Dove sono non ci sto male, non mi lamento, ma via, se potessi stare anche meglio…
—Chi sa! disse con aria misteriosa Emilio, chi sa che un'occasione non si presenti, in cui io stesso possa far qualche cosa per voi!…
—Ah, signore!… Le sarei tanto riconoscente!…
Emilio mise mano al portabiglietti e fece scivolare nella destra di
Battista un fogliolino da cinque lire.
—Signore! soggiunse Battista con calore. Se mai avesse bisogno di me, non ha che da comandarmi.
—Va bene, va bene… Chi sa?… Forse più presto di quel che credete.
Era venuta l'estate, e la famiglia Nori stava per andarsene in campagna: con lei naturalmente partivano i due Danzàno padre e figlio. Lograve fece venire Battista a casa sua.
—Voi m'avete detto, cominciò tosto Emilio, che siete figliuolo d'un mezzadro d'Alberto.
—Sì, signore.
—Siete dunque pratico di quel paese?
—Pensi un po'!… Ci sono nato, e non ne son venuto via che ai diciott'anni… tutte le stati vi vado coi padroni a passarvi tre mesi…
—Ed è proprio in quella fattorìa dov'è vostro padre che i Nori vanno a scampagnare?
—No, signore… La fattorìa non ha che gli edifici rustici. I padroni abitano una villetta posta più in su, a venti minuti di lontananza, una bella villetta, bene esposta con una magnifica veduta, ma con un palmo di giardino e niente più.
—Se alcuno volesse andare a passare in quel paese una quindicina di giorni, ci troverebbe una locanda?
—Oh, sì, signore; ma una povera locanda dove starebbe male… È già migliore l'osterìa di X… villaggio lontano di là un dieci o dodici chilometri… bel villaggio, proprio alla frontiera verso la Svizzera.
—Di quello non m'importa… Vi parlo del vostro paese.
—Nel mio paese si potrebbe prendere in affitto una casina.
—Se ne trovano?
—Altro che!… Proprio attiguo alla villa Nori, c'è un palazzotto, le cui finestre guardano nel nostro giardino, tanto che il signor Alberto lo voleva comperare per levarsene l'incomodo: ma il proprietario, vedendo appunto che se ne aveva tanto desiderio, avanzò pretese sì esagerate, da farlo mandare ai cento mila diavoli. Da parecchî anni quel palazzotto non fu più abitato, e non s'ebbe a soffrire l'incomodo.
—Vuoi dire che, se quest'anno fosse ancora libero, si potrebbe ottenere a pigione?
—Senza dubbio.
—Or dunque voi mi dovete fare un piacere.
—Mi comandi.
—Se quel palazzotto non è affittato, prenderlo subito per me.
Battista lo guardò stupito.
—Ah!
—E a qualunque prezzo.
—Ah! ripetè il domestico.
—Voglio farne l'improvvisata ai cugini, ai quali non direte nulla di nulla.
—Stia sicuro, non parlerò… E se mai, per caso, quel palazzotto non si potesse avere?
—Mi cercherete qualche altra casetta, la più vicina che sia possibile… che ci sia da alloggiarvi me e il mio servitore… e mi basta.
—Farò di contentarla.
—Prendete. E diede al domestico un buon pizzico di biglietti di banca. Se aveste a far spese, anticipazioni… caparre… mancie… che so io… non voglio che restiate impacciato.
Battista intascò gravemente il denaro.
—Lasci fare a me: non rimarrò impacciato in niente e per niente.
A villeggiare in quel poggio ridente, Matilde ci andava sempre di gran voglia per tante ragioni; perchè gli era un amenissimo luogo davvero, perchè colà essa aveva passato i primi mesi del suo matrimonio in una ebbrezza continua di felice trasporto, perchè in quelle aure sanissime i suoi bambini prosperavano a meraviglia, perchè cessavano per lei tutte le noje della vita mondana, essendo quel paese affatto deserto di gente alla moda e di seccature eleganti.
Non c'era che una famiglia con cui scambiassero qualche visita, e vicendevolmente inviti ospitali; ma questa famiglia villeggiava in quel vicino villaggio X… nominato da Battista, e le relazioni con essa non potevano turbare la libertà e la pace delta vita famigliare nella villetta.
A Matilde in quest'anno un'altra cosa piaceva della villeggiatura, ed era di essersi per tre mesi liberata dalla frequenza in casa di Emilio, del quale, se essa non nutriva più sospetti, pure trovava uggiosa la compagnìa.
Gli uomini invece rimpiangevano la mancanza del giovane: il padre Danzàno, sempre ancora deboluccio, desiderava i consigli e le cure medicali del figlioccio, Cesare credeva che Emilio avrebbe trovato modo di far passare più gradevolmente certe ore che tornavano lunghe, e Alberto medesimo, il quale aveva finito per abbandonarsi completamente alla ostentata bonarietà del Lograve, pensava che questi non sarebbe stato di troppo in quella solitudine. Ma per Matilde il tempo non era nè lungo, nè pesante: accompagnare a braccetto il padre in passeggiatine, che a poco a poco ridonavano le forze al convalescente; fare più lunghe gite in quelle amenissime valli col marito e bambini; giocare con questi, che riempivano la casa delle loro risa; badare al domestico governo, così che tutto camminasse a perfezione con grande soddisfacimento di tutti i suoi, erano le sue occupazioni ed essa non trovava mai che le sopravanzasse un'ora da lasciar prender dalla noja.
Ed ecco una mattina, dopo forse due settimane che erano colassù, gli abitanti della villa Nori videro aprirsi le finestre del palazzotto e uomini spazzare, ripulire, spolverare, lavar vetri, appiccar tende, scuotere tappeti.
—Che novità è questa? disse Alberto di mala voglia. Sta a vedere che ci viene a disturbare qualche seccante di vicino.
Battista fu mandato ad informarsi, e tornò colla notizia che il palazzotto era stato affittato per tutta la stagione, e che a giorni stava per arrivare il nuovo pigionale.
Alberto lo mandò di tutto cuore al diavolo. Che bestialità aveva fatta, esclamò, a non comprare ad ogni modo quella bicocca! Ora avrebbero dovuto rassegnarsi alla seccatura di aver lì a ridosso chi sa chi, forse indiscreto, pettegolo, maligno, che poteva ficcare, ed avrebbe ficcato il naso nei fatti loro. Almeno si sapesse chi fosse!
Battista, che aveva ascoltato colla sua aria da nesci, senza batter ciglio, fu rimandato a interrogare, tornò a riferire con aria, più da nesci di prima, che non si conosceva il nome del forestiero, ma che si sapeva che era un uomo solo col suo servitore.
—Meno male! disse Alberto. Possiamo sperare di salvarci dai pettegolezzi.
Non era passato il terzo giorno, quando una carrozza da posta fermavasi al cancello della villa Nori, e gli abitanti di questa, chiamati fuori dalla curiosità, videro scendere e penetrare con passo affrettato in giardino Emilio Lograve. Esclamazioni di stupore, saluti ed abbracci degli uomini. Matilde avrebbe fatto volentieri una smorfia; fece in cambio un sorriso ospitale.
—Sei stato proprio buono a venirci fare una visita in questo deserto! disse Alberto.
—Una visita! rispose Emilio con allegra baldanza. Ah, credete di liberarvi di me come di una visita? Sapete una cosa? Partiti voi, mi sono accorto che era un'uggia insoffribile il rimanere in città. Ho fatto su le mie valigie, ed eccomi qui per non andarmene via più che quando ve ne andrete voi altri.
Matilde questa volta non potè dissimulare la smorfia: la fece appena visibile, ma la fece.
—Mi rincresce, rispose Alberto, che la casa è piccola e non possiamo offrirti che una cameretta…
—Ma io non ho bisogno di camera nessuna, Ci ho il mio quartiere…
—Dove?
—Là, in quella casetta, se non isbaglio, che mi attende a finestre e porte spalancate.
—Come! sei tu il pigionale del palazzotto?
—Sono io.
—Tanto meglio! Bravissimo! Ecco una bella idea!
Emilio fu subito un prezioso compagno; lui a regolare dieta e passeggiate del convalescente e somministrargli farmaci opportuni; lui a guidare per quelle amene colline escursioni che riuscivano salutifere e dilettevolissime ai grandi e ai piccini; lui a sollazzare questi ultimi con giuochi, racconti ed esercizî ginnastici; lui a dare al padrino la soddisfazione di vincerlo agli scacchi, a far la partita al bigliardo con Alberto e con Cesare; lui a fare a questi due da maestro di caccia, mandandoli sempre più meravigliati della sua abilità di tiratore di cui poi e l'uno e l'altro narravano a gara in famiglia le stupende gesta. Matilde, senza dirsene chiaro il perchè, udiva sempre quei racconti con una mala voglia che era quasi un presentimento di male.
Quella di Emilio fu una perfezione di dissimulazione che avrebbe ingannato qualunque. Eppure uno vi fu che riuscì a travedere sotto quella maschera; e fu Battista. Egli sorprese due o tre volte lo sguardo ardente, cupido che il giovane, quando non visto, lanciava su Matilde; e capì allora in gran parte quello che non si era saputo spiegare. Il sedicente suo protettore sperava giovarsi di lui per le sue mire segrete sulla padrona. Ma in che modo? Chi sa? Egli avrebbe fatto mostra di nulla, avrebbe aspettato, e poi, secondo le proposte e le condizioni e i casi, sarebbesi deciso.
Non gli venne l'idea che sarebbe stata opera buona l'avvertire il padrone: ma questi avrebbe egli creduto? Era facile ancora che se la pigliasse con lui, improvvido denunciatore, che non aveva nessuna prova da fornire della sua accusa. E Battista continuò nella sua profonda aria da nesci.
Se Battista aveva penetrato in parte il segreto del signor Lograve, questi, acuto e minutissimo osservatore, aveva scoperto un pari segreto di Battista; del qual segreto egli aveva già avuto sentore, fin da quando erano ancora in città. Un giorno, avutolo in disparte, egli disse al servo a bruciapelo:
—Briccone!… Tu te la intendi affatto con Lisa.
Battista arrossì fino agli occhî.
—Non è vero, gridò: neppur per sogno.
—Sfacciato bugiardo! Chi è che la notte pian piano sguscia nel giardino e se ne va alla finestra dell'anticamera, dove apparisce una forma femminile con cui, traverso l'inferriata, scambia strette di mano, e anche baci… e discorsi che non finiscono più?
—Lei ci ha visti?
—Come ti vedo in questo momento, dalle mie finestre, caro mio: la notte io dormo poco.
—Ah! signore, per carità non ci rovini.
—Che paura ci hai?
—Ci manderebbero via tutt'e due, e saremmo in mezzo alla strada… Quando Lisa è venuta in casa, siccome è belloccia, la padrona mi fece due righe di sermone per proibirmi di farle il galante, e il signor Alberto, senza tante frasi, soggiunse che appena s'accorgesse di qualche famigliarità fra di noi, ci avrebbe messi alla porta ambedue. Che vuole? Forse appunto perchè la era il frutto proibito, me ne sono innamorato; essa mi corrispose, e poichè di giorno ci è impossibile stare a parlare insieme, e di notte essa dorme a un capo della casa e io dall'altro senza possibile comunicazione, abbiamo imaginato di trovarci insieme a quel modo.
—E che intenzioni sono le tue?
—Le più oneste del mondo; sposarla… quando ne avessi i mezzi. Ma in questa casa ci è impossibile; e trovarci un'altra casa conveniente per tutt'e due non è sì facile. Per ciò avevo accettato con premura certe sue offerte, o meglio promesse…
—Non ho dimenticato quello che ti ho detto; e non andrà forse molto tempo che ti leverò di impiccio.
Ai primi di settembre nel villaggio di X… aveva luogo la gran festa patronale, che con fiera e pubblici divertimenti durava tre giorni: era la maggiore e più splendida di tutta quella contrada, e chiamava un popoloso concorso di gente da tutta la provincia. La famiglia conoscente dei Nori aveva fatto loro e ripetuto più volte con insistente premura l'invito di recarcisi e passare colà almeno due di quei giorni festajuoli.
Matilde, già poco disposta ad accettare, ebbe buona ragione al suo rifiuto nella salute del padre, che da qualche giorno erasi peggiorata; ma Alberto, temendo offendere quella buona famiglia, stimolato da Cesare, che desiderava di rompere con qualche divertimento la monotonìa di quell'esistenza, decise di andarci egli col cognato, e di assistere al gran ballo che davasi in quella casa la sera appunto della festa religiosa. I due cognati sarebbero così partiti alla mattina della domenica per tornare alla sera del lunedì.
Al sabato vi fu, fra Lograve e il servo Battista, un segreto, importante colloquio.
—Caro mio, cominciò il primo, è venuto il momento in cui io posso, e sta in te ch'io voglia, mantenere le mie promesse, ed effettuare i tuoi più cari desiderî.
—Come sarebbe a dire? domandò Battista coll'aria diplomatica d'uomo che si dispone a difendere con pertinacia e senza discrezione i suoi interessi.
—Sarebbe a dire che per isposare la Lisa e vivere felice, non hai che da volerlo.
—Altro che lo voglio!… Lei dunque ne ha trovato i mezzi?
—Sì.
—Una buona casa in cui servire ambedue?
—Meglio; una buona somma che può essere la sorgente della vostra fortuna.
—Ah! esclamò il servo con poco entusiasmo. Può essere la sorgente non vuol dire ancora che sia la fortuna.
Emilio guardò stupito quel giovane che a un tratto aveva smesso la sua aria da nesci, e lasciava travedere nello sguardo sicuro una ferma risoluzione.
—Nelle mani d'un uomo intelligente, destro, risoluto, come m'hai l'aria d'essere tu, diventerà una fortuna senza fallo.
—E qual è codesta somma?
—Diecimila lire! pronunziò lentamente Emilio spiccando chiare chiare le sillabe, per fare maggiore impressione sul suo ascoltatore.
—Ah! fece il servo, impassibile, chinando il capo e gli occhî, e non disse altro.
—La ti va? domandò Emilio dopo una pausa.
Battista guardava sempre fissamente la punta delle sue scarpe.
—Diecimila lire… peuh! disse poi con calma indifferente, al giorno d'oggi… peuh!… e per prenderle non avrei che da tendere la mano?
—Poco di più.
—Che cosa?
—Senti una supposizione. Una notte, tu sei solo a difesa della casa della padrona, perchè il marito e il fratello di costei sono andati…
—Alla festa di X… suggerì freddamente Battista.
—Sono assenti, finì Emilio la sua frase. Or bene, a un dato momento, s'introduce in casa un uomo…
—Un ladro?
—No… uno che ha qualche segreto interesse a sbrigare…
—Colla signora Matilde?
Emilio guardò un momento in silenzio il domestico; poi soggiunse abbassando la voce:
—Mettiamo che la signora si spaventi e gridi ajuto, tu cosa faresti?
—Accorro e getto quell'uomo dalla finestra.
—Quell'uomo può venire armato e avere tanta abilità da non isparare un colpo di pistola in fallo.
—Come lei!
—Ti faresti fracassare la testa?
—Credo che non avrebbe pur tempo a sparare, perchè gli sarei addosso d'un salto, e con queste mani lo strozzerei come un pollastro prima che dicesse «ahi!»
E tese innanzi due manaccie che promettevano di essere fedeli e esecutrici di quel programma.
Egli guardò quelle manaccie, la complessione tarchiata e il collo torso del giovane, e capì che nel caso non ci sarebbe stato da scherzare.
—Ma, soggiunse, per evitare ogni disgraziata conseguenza, il meglio sarebbe che quell'uomo e tu non vi trovaste al cimento.
—Che quell'altro non venisse?
—No… che tu non vi fossi.
—Ah, ah! Come?
—Se, per esempio, quella medesima sera tu di cheto te ne partissi con la Lisa per essere felici insieme… altrove…
—Capisco!… Ma ci resterebbero in casa la cuoca e il padre della signora…
Lograve fece un gesto che significava non importargliene.
—Capisco! rispose Battista con accento più malizioso. La cuoca dorme in alto, dall'altra parte della casa, e non potrebbe sentire… Ma il signor Danzàno, la cui camera non è lontana da quella della signora che di pochi passi?
—Veniamo a noi! interruppe con qualche impazienza il tentatore.
—Capisco! ripetè ancora il servo, di cui l'accento e il contegno pigliavano una sempre più insolente famigliarità, questo è l'affare di… di quell'uomo… Veniamo a noi, come lei dice. Io dunque dovrei partirmene?
—Partendo, darmi la chiave dell'uscio di casa.
—E per codesto che lei domanda, avrei diecimila lire?
—Contanti.
Battista appoggiò il gomito destro sulla mano sinistra, e accarezzandosi il mento colla destra disse, gli occhî impertinenti fissi sul volto del Lograve:
—Sa una cosa?… Che per quello che lei vuole, diecimila lire sono troppo poco.
—Ti pare?
—Assai troppo poco, Quella chiave ha un prezzo molto maggiore.
—Quale, per esempio?… Sentiam il tuo parere.
—Non tocca a me il dirlo… Tocca a lei che vuole procurarsela…
—Bè… accresciamola della metà: quindicimila lire.
Battista rimase impassibile, fregandosi sempre il mento.
—Diamine! riprese Emilio. Bada che, per voler troppo, perderai tutto.
Il servo si rizzò del busto e prese una mossa solenne.
—E chi le dice ch'io voglia qualche cosa? Oh non può nemmeno supporre che la mia onestà sia superiore alla tentazione di qualunque somma? Non sa ch'io sono affezionato ai miei padroni? Non pensa che il mio dovere è d'andare a svelar tutto al signor Alberto… e che ci vado?
Mosse alcuni passi verso l'uscio: Emilio, diventato livido in volto, gli si gettò dinanzi.
—Tu non uscirai, gli disse con voce soffocata dall'ira. Il segreto che tu hai è un segreto mortale: se una parola di esso ti sfugge dalla bocca, te lo giuro per l'anima mia, t'ammazzo come un cane.
Battista s'arretrò spaventato, tanto era terribile la figura di quel tristo.
Successe una pausa. Emilio, rifattosi calmo, s'avvicinò alla finestra, e trasse di tasca la rivoltella di cui andava sempre armato.
—Signore! esclamò Battista allibbito.
Ma l'altro, senza badargli:
—Come volano ratte quelle rondini! Ma vola più ratta la palla della mia pistola.
Sparò senza mirare e una rondinella cadde morta nel giardino.
—O signore! disse il servo sbalordito. Il suo occhio e la sua mano sono infallibili… Lo so.
—Or dunque, riprese il Lograve, affatto in calma, tu hai da scegliere: o servirmi come voglio o raccomandarti l'anima.
—C'è ancora una terza uscita, disse Battista tuttavia turbatello. Io non la servirò, ma le prometto di tacere…
—Non mi basta, proruppe l'altro. Quest'occasione che si presenta, sono anni ed anni che l'aspetto. Ho lavorato per farla nascere, per potermene giovare, con intensa tenacità: non la tornerà forse mai più. Non posso rinunziarvi… Ebbene, sì, tu hai ragione; la chiave che io ti domando ha un valore immenso per me. Sono pronto a tutto per averla… Vuoi ventimila lire?
Un'ondata di sangue salì al capo di Battista, le vene del collo gli si gonfiarono; un'aspra lotta si combatteva in lui; perchè il tentatore non gli potesse leggere nell'anima, egli si coprì colla destra gli occhî.
L'insidiatore insisteva:
—Siamo a due passi dalla frontiera, tu colla tua Lisa in due ore sei fuori… Porti teco in tasca la fortuna, l'indipendenza tua e di tua moglie…
Il servo non abbassò la mano dalla fronte, e con voce che appena s'udiva, domandò:
—Ventimila lire?… Quando me le darebbe?
Emilio ebbe sulle labbra un fugacissimo tristo sogghigno. La sua penetrazione non l'aveva fatto sbagliare sul conto di quel giovane.
—Al momento stesso in cui tu mi consegnerai la chiave, rispose.
Battista abbassò le braccia lungo la persona nella mossa del rispetto e tornando nel contegno umile d'un domestico bene ammaestrato, disse, gli occhî vòlti a terra, e un po' esitante:
—Signore… avrei da fare delle spese… anche per la Lisa… affine di metterci in condizioni di partire.
Emilio levò di tasca il portabiglietti, e cavatone due polizze da cento lire, le porse a Battista.
—Prendi per le tue spese.
Il servo intascò inchinandosi e ringraziando.
—E ora, intendiamo per bene tutti i particolari, perchè non nascano imbrogli ed equivoci.
Battista usciva mezz'ora dopo dal palazzotto con tutte le occorrenti istruzioni.
Era una bella mattinata. Alberto e Cesare se ne partirono alla volta di X…, in biroccino, con un giovane cavallo buon corridore, che in meno d'un'ora si divorava quella strada. Emilio disse che avrebbe passato tutta la giornata alla villa per far compagnìa al padrino e alla cugina; e tenne la parola. Fu tutto attenzioni pel vecchio, tutto cortesìa per la giovane, tutto amorevolezza pei bambini. Soltanto più frequenti del solito scattavano dagli occhî suoi quegli sguardi accesi che parevano voler prendere possesso anche violento della bellezza di Matilde. Battista li colse al volo più volte e ad ogni volta e' sentiva in sè stesso un rimescolìo che non sapeva bene se era rimorso, rabbia contro sè stesso e contro colui che l'aveva comprato. Intanto alla sua amante, senza rivelarle il come e il perchè, egli aveva assicurato d'avere i mezzi d'un comune avvenire di godimenti e di libertà e che per lei non c'era altro da fare che partirsene di nascosto con lui quella domenica a sera. A quell'amo ogni fanciulla di tal condizione sarebbe stata presa; e ad esso morse più facilmente la Lisa, innamorata, la quale fu subito pronta al gran passo e anzi impaziente di vederne arrivar l'ora. Battista invece, più s'avvicinava quell'ora, e più sentiva accrescere un interno disagio, una tormentosa inquietudine.
L'avvicinarsi d'un fatale momento, tante volte e per tanto tempo pensato, voluto con intensità di proposito e per ogni sorta di mezzi, poneva nel sangue d'Emilio un ardore febbrile, che, malgrado la forza dell'impostasi dissimulazione, tratto tratto rompeva la corteccia d'indifferenza per lampeggiare in quei certi cupidi sguardi. Matilde sentì una volta come una fiamma passarle sugli occhî: era uno di quei lampi delle pupille d'Emilio, che questi non aveva avuto tempo di spegnere, di riparare dietro le palpebre, sì improvvisamente ella s'era volta verso di lui.
Un gran turbamento invase l'anima della giovane donna; di colpo rinacquero in lei tutti i sospetti d'un tempo: la si fece subito nel contegno più fredda e più fiera, tenne sempre a' suoi fianchi i bambini. Emilio non mostrò di accorgersene.
Alla fine del pranzo, al padrino che si lamentava della insistenza di certi incomodi, Emilio disse:
—Ciò proviene dalle notti insonni che lei passa. Quella pozione calmante ch'io le ho ordinato non le fa più effetto?
—Poco, rispose il padre di Matilde. Mi dà una buona calma per qualche ora, ma il sonno non viene, e a mano mano si ridesta l'agitazione.
—Vuol dire che il calmante è troppo blando: ne rinforzerò la dose. Questa notte voglio che ella dorma saporitamente d'un sonno solo fino alla mattina: e vedrà domani come se ne sentirà bene.
—Bravo! Ne ho proprio bisogno.
La sera Emilio fece la solita partita a scacchi col padrino. Alle nove Matilde andò a mettere a letto i bambini, e alle dieci il vecchio convalescente si ritirò nella sua camera per coricarsi.
Emilio ve lo accompagnò: lo ajutò con amorevole garbo a spogliarsi, salire nel letto, poi mescette in un bicchiere la pozione calmante e vi aggiunse parecchie goccie d'una boccettina che aveva in tasca.
—Beva! disse al padrino porgendogli il bicchiere.
Ma il vecchio scosse la testa.
—Non ancora, rispose. Ora mi sento tranquillo, voglio aspettare che incominci la inquietudine.
—E allora sarà troppo tardi… Creda a me: è meglio non lasciarla venire codesta inquietudine.
—Mi sento lo stomaco grave… Ho paura di non digerire la cena… Se mi caccio quel liquido nel ventricolo temo di non sopportarlo.
—No, no, disse con qualche impazienza il figlioccio; più tarda, e meno ne avrà l'effetto. Su, animo!
E porse di nuovo il bicchiere.
Ma per un capriccio di convalescente il Danzàno resistette.
—Lo piglierò più tardi, ti dico… Lasciamelo lì sul comodino.
Emilio ebbe un movimento di contrarietà che represse a stento: poi temendo, coll'insistere, di destar sospetti, depose il bicchiere e disse con mellifluo tono di amorevole rimprovero:
—Ha torto, padrino. Lei si ruba qualche ora di buon sonno… Ma almeno mi promette che lo prenderà?
—Sì, te lo prometto.
—Sicuro? sicuro?
—Eh diamine! Sai pure che mantengo sempre le mie promesse.
—Ci conto… Mi preme troppo il suo benessere.
—Caro Emilio!… Sta tranquillo; fra mezz'ora avrò bevuto tutto.
Il giovane, accomodato bene le coperte intorno al giacente, e datogli la buona notte, andò a raggiungere Matilde nel salottino.
—Vuoi tu vegliare ancora un poco? le chiese.
—No, ella rispose, sono stanca; vado subito a letto.
E suonò il campanello.
—E allora, soggiunse Emilio, non mi resta che augurarti la buona notte e andarmene… Tu andrai certo ancora a dare un bacio a tuo padre.
—Sì.
—Ebbene, non dimenticare di fargli bere la pozione che gli ho preparata… È indispensabile.
—Va bene.
Battista comparve sulla porta.
—Mandate Margherita a dormire, gli disse la padrona, dite a Lisa che venga da me e chiudete tutto.
—La cuoca, rispose il domestico, si è già ritirata lassù nella sua soffitta, e a quest'ora dorme che non la sveglierebbero i cannoni. Lisa verrà subito, e io chiudo ben bene, appena uscito il signore.
—Questo è un mettermi alla porta in modis et formis, disse Emilio ridendo. Pazienza! Ci vado; buona notte.
—Buona notte!
—E non mi tocchi nemmeno la mano? soggiunse lui che le aveva porta la destra.
—Sì, sì… addio!
Matilde toccò leggermente colla punta delle dita la palma ardente del giovane, e s'alzò per entrare ancor essa nella camera da letto. Emilio uscì seguito da Battista.
Non si parlarono fino a che furono sulla soglia dell'uscio di strada.
—Fra mezz'ora a casa mia! disse Emilio.
—Sissignore.
—Colla chiave!
—Sissignore.
Emilio si mosse; il servo lo trattenne per la falda dell'abito.
—E la somma? domandò,
—L'avrai nello stesso momento; non dubitare.
Lograve s'allontanò ratto, e il rumore de' suoi passi presto si perdette nella notte che era oscura e nebbiosa.
Battista rimase sulla soglia a guardargli dietro finchè lo vide, sentì il rumore dell'uscio del palazzotto che si apriva e si richiudeva, poi rientrò, crollando il capo e masticando fra sè colla mala voglia di chi ha un gusto amaro in bocca.
Matilde entrò nella camera dei bambini. Essi dormivano così saporitamente e in così graziose mosse di abbandono, che un sorriso di beatitudine si disegnò sulle labbra della giovane madre; essa li baciò dolcemente uno per uno e tornò nella sua camera. Là trovò Lisa venuta al suo comando.
—Aspetta un momentino, le disse, vado a salutare mio padre.
Questi sorrise lietamente nel vedere sua figlia.
—Stanotte sei vedova, le disse scherzando. Non avrai mica paura a dormir sola?
—No, certo: di che cosa dovrei aver paura?
—Di ladri no, chè in questo paese non ve ne sono. E poi, soggiunse col medesimo tono di scherzo, ci sono io qua: e ci avresti un forte campione a difenderti. Dormi dunque tranquilla, anche in assenza del marito.
—Hai bisogno ancora di qualche cosa?
—Sì: dammi la mia solita pozione. Emilio ha insistito tanto perchè la prendessi.
—E l'ha ripetuto anche a me.
Matilde prese il bicchiere e lo porse al padre. Ci sentì un forte odore di amandorle che le altre sere non ci aveva sentito mai.
—Questa non è più la solita? disse al padre.
—Sì; ma Emilio vi aggiunse alcune goccie di non so che per renderla efficace.
E così dicendo cominciò a bere. Una strana, vaga, indefinita idea, ma un'idea di paura attraversò come un lampo la mente di Matilde; essa tolse vivamente il bicchiere dalle labbra e dalle mani del padre quand'egli aveva appena bevuto un terzo del farmaco.
—Basta, gli disse, ho paura che il berlo tutto ti faccia male.
—Perchè?
—Ha un odore così forte!… Emilio potrebbe avere sbagliato nella dose…
—Eh via!… egli così riflessivo!
—Dammi retta per farmi piacere.
—Veramente stasera ci trovo un gusto diverso… Ma bada che se poi il sonno mi fugge…
—Senti; se il sonno non verrà, chiamami, e verrò io stessa a porgerti il rimanente di questo farmaco.
—Va bene… E ora vattene a letto anche tu.
Matilde pose un bacio sulla fronte del padre; accomodò la lampadina perchè la luce non desse fastidio al giacente, e s'allontanò in punta di piedi. Lisa era così assorta ne' suoi pensieri che non sentì venire la padrona, e questa la dovette toccare sulla spalla.
—Sei incantata?
—Oh scusi.
Le mani della cameriera, nello spogliare Matilde, tremavano siffattamente che la padrona, stupita, osservò meglio la fisionomia della giovane. Vi scorse un'agitazione, un turbamento, quasi le mostre d'un affanno.
—Che cos'hai? le dimandò amorevolmente.
—Nulla, nulla, rispose Lisa colle labbra pallide e tremanti.
—Eh via! non mentir meco. Hai qualche dispiacere? T'è capitata qualche disgrazia?
—Ma no… no, signora… le assicuro.
—Dimmi la verità. E se io posso qualche cosa in tuo ajuto, parla con fiducia, che ti prometto di far tutto che sta io me.
—La signora è troppo buona! esclamò la cameriera commossa, ma non ho nulla davvero.
—O forse non istai bene?
Lisa s'affrettò a prendere questa scappatoia.
—Ecco… sì, signora… la è così… Da un po' di tempo non istò bene.
—Che cosa ti senti?
—Ma… capogiri… languori… affanni… agitazione… un malessere generale… Ho paura di non poter continuare nel servizio… penso che dovrò abbandonare la casa… lei…. e questo pensiero mi è così doloroso, mi dà tanta pena, che….
E scoppiò in pianto.
—Via, via, disse Matilde con sempre maggiore amorevolezza; non crucciarti così… consulteremo un medico… ti faremo guarire senza che tu abbia ad abbandonarci… Sono contenta di te, ti voglio bene, e sarai trattata come una della famiglia.
—Ah! signora! Lei è un angelo! esclamò Lisa sempre più commossa, e, afferrata una mano della padrona, la coprì di baci e di lagrime; poi con uno sforzo si tolse di là e uscì ratta dalla camera senza più aggiungere parola.
Matilde pensò subito richiamarla, ma poi avvisò meglio aspettare il domattina a interrogarla più particolareggiatamente; e senz'altro si pose a letto. Una preoccupazione, quasi una mestizia le si aggravò sull'anima al trovarsi sola (ed era la prima volta dacchè era moglie) tutta una notte in quella vasta camera, dove aveva passato ore così felici, e dove ogni sera, in confidente abbandono, si versavano amorosamente l'una nell'altra l'anima sua e quella dell'innamorato marito.
Era una vasta camera, in fondo alla quale si apriva un'alcova, dove stava il letto conjugale. Due sole porte erano in quella stanza; l'una comunicava col resto della casa per un andito, nel quale a pochi passi era l'uscio della camera del padre: l'altra porta metteva nelle due camere in cui dormivano i bambini.
Matilde spense il lume e cercò dormire, ma il sonno fu ribelle. Strane fantasìe e bizzarre chimere passavano pel capo di lei, come imagini di sogno, o vaneggiamenti di mente confusa: e in quel turbinoso succedersi di ombre, di scene, di vedute, tornavano più nette ed insistenti, e non sapeva perchè, le memorie del duello di Alberto con Emilio, e la pozione soporifera del padre con quell'odore acuto, e lo sguardo di fuoco, quasi feroce di Emilio: pensò ad una vendetta di quest'ultimo, ma quale? Contro il padre? Contro di lei?… Oh quello sguardo! E a un tratto le vennero alla mente il contegno e le lagrime inesplicabili di Lisa. Finalmente si era oramai a mezzanotte quando Matilde cominciò a sentire il riposo scendere sul suo cervello e sui suoi occhî, e poco stante si addormentò.
Lisa, uscita dalla camera della padrona, andò a raggiungere Battista.
—Ah, mio caro, gli disse, tutta ancora in lagrime, con accento di vivo dolore, non avrei mai creduto che ad abbandonare la signora Matilde avrei provato tanta pena. Che buona padrona! Che creatura angelica, è quella! Si merita davvero che il Signore le dia del bene.
—Pensiamo al nostro bene di noi, e lasciamo stare gli altri, rispose
Battista con impaziente malavoglia. Sei tu pronta?
—Sì.
—Dunque andiamo.
Nella giornata ambedue s'erano fatto un fardelletto delle cose loro più indispensabili e di più valore. Battista aveva in segreto noleggiato un biroccino, il quale doveva trovarsi allestito alle undici a un dato punto della strada di X. I due fuggitivi uscirono pian pian dalla villa, e Battista chiuse a chiave l'uscio dietro di sè.
Quando furono a pochi passi, Battista, deponendo il suo fardello a terra, disse a Lisa:
—Aspettami qui: io vado per una commissione; in cinque minuti mi sbrigo e poi ti raggiungo.
Lisa s'aggrappò al braccio del suo compagno.
—No, non lasciarmi qui, sola, di notte. Ho una paura maledetta.
—E di che cosa vuoi aver paura?… Qui a quest'ora non ci passa nessuno… Ti dico che vengo subito.
—No, no; non ti lascio.
—Ma è necessario.
—Perchè? Che cosa hai dunque da fare? Dove vai?
—Qui dal signor Lograve.
—A far che cosa?
—Un certo interesse che ho con lui… A te non importa il saperlo.
—E io ti dico che non rimarrò qui ad aspettarti, che o ti accompagno, o non ci andrai neppur tu.
—Brava! E allora tutto il nostro disegno va in aria.
—Come?
—Gli è lui che ci deve dare i denari.
—Il signor Lograve?
—Sì.
—E perchè ce li dà?
—Perchè… perchè… questo non ti deve importare.
—Sì che m'importa. Da bravo, non farmi dei misteri… Possiamo già considerarci come marito e moglie… e non ci devono essere segreti tra di noi.
—Questo segreto, mia cara, non è mio, e non posso disporne… Ma mentre noi stiamo qui a discorrere, il tempo passa, ed è tanto di perduto. Suvvia, coraggio, Lisa, non farmi la femminetta; un minuto solo e ti raggiungo.
—No, no, insistette Lisa stringendo più forte il braccio di lui: non, istò qui, neppure per tutti i tesori del mondo… Lasciami accompagnarti.
—No, devo parlare a quel signore da solo a solo.
—Almeno fino alla porta… Là vicino alla casa, più vicino a te, non avrò più paura.
—Ebbene, sia, vieni fin là… ma non cercar d'entrare.
—No, starò fuori: ma se mai qualche cosa capitasse, che so io… potrei chiamarti… e se mai tu sarai lesto ad accorrere, non è vero?
—Sì, certo.
Giunsero al palazzotto. L'uscio era socchiuso. Per la finestra aperta di una stanza a terreno usciva nella notte un fascio di luce; traverso quella luce si vedeva andare e venire l'ombra del Lograve che passeggiava impaziente. Battista fece ancora a voce sommessa una raccomandazione alla Lisa, ed entrò. La stanza dove Emilio aspettava era subito lì a destra. Al passo del domestico Emilio si fermò e si volse verso di lui; era pallido, coi lineamenti contratti; aveva una profonda riga fra le sopracciglia e teneva le braccia serrate al petto.
Nel pomeriggio egli aveva detto al suo servitore che preparasse la valigia per una improvvisa partenza: egli sarebbe forse partito la notte o la mattina seguente, e avrebbe poi scritto dove il servo avrebbe dovuto raggiungerlo.
Rientrato in casa alle dieci, aveva domandato al domestico se i suoi ordini erano stati eseguiti, al che il servo avendo risposto affermativamente, egli lo mandò a dormire, e rimase solo nella stanza a terreno.
Sedette a tavolino e scrisse la lettera seguente:
«Ad Alberto Nori,
«C'è un uomo sulla terra, al quale io vo debitore delle più fiere angoscie: e quell'uomo sei tu.
«Mi hai rapito ogni bene: mi hai insultato colla tua felicità. Sono anni che aspetto la mia vendetta; e ora la stringo in pugno e me ne appago.
«Alla coppa d'amore di cui ti sei inebriato, ho voluto bere ancor io, e ti lascio la coppa contaminata.
«Vado in Isvizzera e vi ti attendo, se la rabbia e la vergogna ti daranno tanto coraggio da venirci.»
Ripigliò il foglio, lo suggellò e se lo mise in tasca.
Prima d'abbandonare la villetta Nori, avrebbe lasciato questa lettera nella camera conjugale, stata teatro del suo infame attentato. Poi scese nel salotto a terreno ad aspettare con quella nervosa febbrile impazienza che non lo lasciava quetare.
—Si può? disse Battista, affacciandosi all'uscio.
—Avanti! comandò Emilio con voce rotta, imperiosa. Ti sei fatto molto aspettare.
—Ho fatto più presto che ho potuto.
Emilio, a cui premeva venire al sodo, lo interruppe piantandogli in faccia quel suo sguardo maligno.
—E dunque?
—E dunque eccomi qua.
—La chiave?
—L'ho meco.
—Dammela.
—Sì, signore, ma prima…. Ella capisce…. Lei sa…
—Vuoi i denari?… Eccoli.
Gli gettò una busta che Battista afferrò vivamente; accostatosi al lume, il servo aprì la busta e si mise a contare i biglietti.
Lisa, di fuori, udite le voci dei due uomini, non potè frenare la sua curiosità: si accostò piano piano alla finestra aperta, e tenendosi cautamente nell'ombra potè vedere e udire quanto avvenne e si disse nel salotto.
Dopo avere passato uno per uno i biglietti, Battista levò il capo, e disse con accento di rimprovero:
—Signore, mi mancano duecento lire.
—Come?
—Sissignore. Lei mi ha promesso ventimila lire; qui ce ne sono diciannovemila e ottocento. Mancano duecento lire.
—E le duecento che t'ho date jeri?
—Ah! quelle erano per le spese indispensabili per la riuscita del disegno. Devono essere all'infuori del prezzo convenuto.
—Questa non me l'aspettavo.
E Battista con insolenza:
—E io da lei non m'aspettavo una simile piccineria.
Emilio arrossì di sdegno; ma si contenne; levò di tasca due biglietti da cento e li gettò al servo senza parlare.
Battista li prese, li mise accuratamente nella busta cogli altri e la busta in tasca; si abbottonò bene il soprabito, fece un leggiero inchino e disse laconicamente:
—Va bene!
—La chiave? ridomandò con voce fremente Emilio, colla mano tesa che tremava.
Il servo gli porse la chiave che Emilio afferrò con avidità ancora maggiore di quella mostrata da Battista nel prendere i denari.
—La riverisco, disse Battista avviandosi.
Ma l'altro lo trattenne.
—Un momento. Entrato ch'io sia, non troverò più altro uscio chiuso all'interno?
—No, signore.
—Sono tutti a letto?
—Tutti.
—Sta bene. Vattene e la fortuna ti accompagni.
Battista uscì frettoloso: appena fuori si sentì serrare fra due braccia frementi; e una voce concitata, benchè sommessa, gli disse all'orecchio:
—Che hai tu fatto? Che cos'è quella chiave? Perchè il signor Lograve ti ha dato tutti quei denari?
—Vieni, vieni, susurrò Battista trascinando seco la Lisa, caricatosi dei due fardelli. Ti spiegherò poi.
—No, gridò la ragazza, voglio saperlo.
Battista pensò di gettar via i fardelli, di prendere alla vita la giovane e portarla di peso fino al luogo dove si sarebbe trovato il biroccino, ma preferì pigliarla colle buone.
—Tu ci vuoi rovinare… Ti dirò tutto, ma vieni presto… Una parola di troppo, e tutto è perduto. Io sarò obbligato a fuggire e piantarti qui.
Questa minaccia ridusse la Lisa cedevole. Correndo giunsero al legnetto che aspettava; Battista vi cacciò dentro Lisa, pose una moneta in mano al garzoncello che teneva il cavallo, balzò presso la fanciulla, prese le redini, frustò il cavallo e via di galoppo.
Emilio con un sogghigno mefistofelico stringeva in pugno la chiave ricevuta da Battista, ed esclamava seco stesso:
—La tengo in pugno la mia vendetta, e il ripago di ogni mio tormento.
Guardò l'orologio.
—Appena le undici e un quarto!… Come passa lento il tempo!… A mezzanotte—fece un ghigno—l'ora dei delitti… e degli spettri… A mezzanotte varcherò quella soglia!
Quei quarti d'ora gli parvero eterni; eppure quando udì dal lontano campanile del villaggio battere lentamente dodici rintocchi, si riscosse come assalito da un subito terrore, guardò il suo orologio, per accertarsi che quel suono di campana non lo ingannava; prese e intascò una rivoltella, e uscì con passo guardingo, ma fermo. Giunse alla porta, della villetta, e con mano sicura pose la chiave nella toppa. L'uscio si aprì.
Emilio entrò pianamente; era così pratico del luogo, che non ebbe mestieri di accendere lume per passare l'andito, salire le scale, percorrere il corridoio e arrivare all'uscio della camera in cui dormiva Matilde.
Pensava:
—Purchè non la si sia chiusa dentro a chiave! Ma l'avesse anche fatto, poco importa: con una spalla faccio saltare la serratura: il rumore non può svegliare che lei… Ed entrato ch'io sia!…
Prima di mettere la mano sulla gruccia di quella serratura, si fermò un momento: poi piano piano tentò la serratura; questa non era chiusa che con una mandata della stanghetta a scatto; girando la maniglia Emilio l'aprì; cacciò dentro la testa; tutta era bujo e silenzio; egli entrò.
Lisa non s'era acchetata. Mentre Battista badava a far correre il cavallo con ripetute frustate, la fanciulla veniva tempestando il compagno di domande, di supposizioni, di preghiere.
La sua accortezza di donna le aveva fatto capire le intenzioni del Lograve. Era la signora Matilde abbandonata, senza difesa; la buona signora Matilde tradita per quel denaro. Lisa si rivoltava contro tale iniquità.
Quella signora, tutta quella famiglia, non avevano fatto che del bene a loro due. Come aveva potuto dimenticarlo Battista?
Ah! la signora Matilde bisognava salvarla. Lisa voleva tornarsene indietro, gettare in faccia a quello scellerato il suo denaro e lui fuori dalla finestra. Quel denaro, prezzo di tanto delitto, avrebbe loro recato sfortuna. Ella pregava, scongiurava, imprecava.
Battista non rispondeva nulla, non badava che a far correre il cavallo; ma frattanto anche nel suo animo, già travagliato da un'intima scontentezza di sè, le parole di Lisa riuscivano a far nascere il rimorso.
Rinunziare a quella somma che teneva in tasca e di cui palpava di quando in quando la grossa busta, quasi a persuadersi di realmente possederla; rinunziare a Lisa, alla vita felice che aveva sognata e cui credevasi pervenuto a procurarsi, no, non poteva; ma se ci fosse pur modo di soccorrere la signora Matilde!…
Il cavallo correva sempre. Già si vedevano le prime case del villaggio di X, presso il quale bisognava passare per giungere alla frontiera. Tutto il villaggio era immerso nell'oscurità, fuori d'un'elegante villa, appartata dal resto dell'abitato. Era la villa degli ospiti di Alberto e di Cesare, dove aveva luogo il ballo. Una subita idea attraversò la mente di Battista. Un difensore, un salvatore della signora Matilde era trovato: il marito che se ne stava tranquillo a quella festa. Lo disse alla Lisa.
—O Dio! esclamò questa: ma i due uomini si sbudelleranno…
—Che! notò Battista. Il signor Alberto con un pugno schiaccierà quella cimice del Lograve.
—Ma si arriverà in tempo?
—Ah! esclamò Battista allargando le mani e curvando le spalle per indicare che questo sarebbe stato il compito della Provvidenza.
Fermò il cavallo e diede le redini alla Lisa.
—Aspetta qui due minuti… Vado e torno.
—Che cosa vuoi fare?… Cosa vuoi dire al padrone?
—Non lo vedrò neppure… Lo farò avvertire… Lascia, lascia fare a me.
E prese la corsa verso la villa illuminata. Arrivò nell'atrio di questa, ansimante e con aspetto turbatissimo, così che il domestico della casa in cui s'incontrò, prima stentò a riconoscerlo, e poi si sgomentò nel vederlo a quel modo.
—Tu qui, Battista? A quest'ora!… Oh che cosa è avvenuto?
E il servo del Nori, mezzo trafelato:
—Di' subito, ma subito, al mio padrone e al signor Cesare che corrano a casa… in fretta… senza il menomo ritardo… che corrano… ammazzino anche il cavallo… ma volino.
—Che cosa c'è?… Il fuoco?… La signora ha preso male?… Il padre della signora?
—Non farmi interrogazioni… va e fa la commissione subito…
—Ti faccio venir qui il padrone.
—No, no: io non posso fermarmi… Bisogna ch'io vada… mi raccomando… presto… presto per amor di Dio!
E senza voler aspettar altro, Battista voltò le spalle, e se ne andò correndo com'era venuto. Raggiunse il carrozzino, ci saltò dentro, riprese le briglie, e via di nuovo al galoppo.
Se Alberto e Cesare, udito di questa comparsa di Battista e delle cose da lui dette, si spaventassero, è facile a pensarci.
Imaginando chi sa quale disgrazia, fecero in un baleno allestire il biroccino, e sferzando spietatamente il cavallo, andarono verso la villa. Ma prima che vi giungessero, già era suonato il tocco al campanile del villaggio.
Matilde non avrebbe saputo dire da quanto tempo dormisse o meglio fosse assopita, quando si sentì scuotere come da un interno commovimento, da un intuito instintivo che l'avvisasse d'un imminente pericolo. Si drizzò a sedere, volse intorno gli occhî spalancati, vide un uomo che entrava cautamente in camera, si fermava come incerto del da farsi. Un grido le venne alle labbra, ma lo soffocò, perchè, coraggiosa com'era, serbando la calma dello spirito, pensò allo spavento che ne avrebbero avuto il padre, vecchio e malaticcio, e i bambini che dormivano lì presso. Si gettò giù dal letto, e, riparata dalla tenda dell'alcova, indossò in fretta e in furia una vestaglia da camera che la copriva da capo a piedi, prima che l'intruso facesse un atto o dicesse una parola. Poi essa afferrò il cordone del campanello allato al capoletto e gli diede una violenta strappata.
Emilio, nell'oscuro dell'alcova, s'accorse che la donna s'era mossa, ma non potè vedere quel che avesse fatto; di colpo la vide, tutta coperta di quella vestaglia, sbucar fuori dalle tende e correre verso la camera dei bambini. L'idea di Matilde era precipitarsi colà, chiudersi dietro l'uscio a chiave, chiamare soccorso, e ad ogni modo difendere i suoi figli.
—Matilde! disse Emilio con voce sommessa e per quanto potè soave. Non ispaventarti… Sono io.
La giovane donna si fermò.
—Tu Emilio!… A quest'ora?… E come entrato? Che vuoi?
Le venne subito il sospetto del vero, e con questo sospetto un'ira che le accrebbe il coraggio. Le pareva che un tristo simile, sarebbe bastato ad annientarlo il suo disprezzo. Lo guardava con aria di sicurezza e di sfida, e quello sguardo, nella penombra, luceva stranamente.
Quello sguardo irritò ancora, se pure ne fosse bisogno, i feroci propositi di quello scellerato.
—Che cosa voglio? egli rispose. Te lo dico subito… Ma siccome non è cosa che si possa sbrigare in poche parole, se non ti dispiace, accenderò un lume, perchè possiamo vederci meglio in viso… e sederemo sul sofà per discorrere più comodamente.
Sul piano marmoreo del camino stavano due candelabri con quattro candele ciascuno. Emilio le accese tutte, poi si volse di nuovo a Matilde. Questa si teneva stretta al seno la vestaglia colle braccia incrociate ed aveva nel contegno, come in quello sguardo che già era balenato nell'ombra agli occhî d'Emilio, una fierezza sprezzante e indignata.
Era bellissima. La veste lasciava scoperta la base del collo, modellata a perfezione, da cui con tanta grazia si ergeva quella testolina leggiadra e ne appariva un poco del candore quasi abbagliante del petto; le braccia tornite, degne d'una statua greca, uscivano dalle maniche larghe, ricadenti; tutta la venustà della ben formata persona si scorgeva sotto le pieghe di quella veste che l'avvolgeva.
—Dove hai tu presa l'audacia d'introdurti in questo modo, a quest'ora, fin qui? diss'ella severamente.
—Dove l'ho presa? egli proruppe. Nel mio amore, che non solo è sempre vivo, ma è più forte che mai.
Matilde gli troncò la parola con un moto violento, e gridò con forza:
—Non una parola di più… Vattene!
—Andarmene così subito? domandò Emilio con insolente ironia. E puoi crederlo, Matilde? Non riconosco il tuo buon senso. Capisci che non sono giunto a questa riuscita senza aver vinto molte difficoltà, e che se ho voluto riuscirci è per ottenere qualche cosa di meglio di un tuo rabbuffo. Ora, che matto o che imbecille sarei, se, appena entrato, mi lasciassi così di piano mettere alla porta?… Oibò! Oibò!… Ci sono e ci resto.
E sedette tranquillamente sul sofà.
Matilde lo guardava con uno stupore che cominciava a farsi inquietudine.
—Sei matto o imbecille a credere che io tolleri più oltre la tua presenza, e stia qui a discuter teco.
E si mosse verso l'altro cordone di campanello che pendeva verso il camino.
Emilio diede in una sghignazzata.
—Ah, ah! la scena da dramma francese. Si suona il campanello; accorre un domestico tanto fatto, come Battista: «Accompagnate il signore.»
Matilde aveva dato una forte strappata al cordone.
—Tu straccerai inutilmente quel cordone, cara mia. Se non isbaglio, hai già suonato dall'alcova… Chi è venuto?… Ebbene, non verranno di meglio adesso. Suonassi fin domani, nessuno verrà… te lo assicuro io.
—Tu hai comprato i miei servi?
—Sicuro! Senza di ciò come potrei io essere qui?
Matilde si slanciò verso l'uscio del corridojo; ma Emilio sorse di scatto, le si gettò innanzi, e la fermò afferrandole colle mani ambedue le braccia.
—Che cosa vuoi fare?… Fuggirmi?… Impossibile.
Ella s'agitava per liberarsi; la veste le si aprì di più sul petto, e gli occhî di Emilio caddero sulle seducenti curve del seno; egli strinse viepiù quelle braccia, tanto da lasciare su quella morbida pelle il livido dell'ammaccatura, le abbassò di viva forza, si curvò su quel giovane femmineo corpo fremente, e stampò un bacio che pareva un morso sul candore di quella spalla.
Matilde gettò un alto grido di indignazione, di ribrezzo, di orrore. Fece uno sforzo supremo e riuscì a svincolarsi dalle mani di lui; lo respinse lontano da sè, e presa da un accesso di spavento si diede a gridare:
—Ajuto! Ajuto! Lisa! Battista! Babbo!
Emilio stava innanzi all'uscio del corridojo ad impedirle il passo.
—È inutile ogni tuo grido, ogni tua smania. Te l'ho già detto e te lo ripeto; nessuno verrà. Lisa e Battista, a quest'ora, sono lontani delle miglia, e tuo padre, ci vuol altro che la tua voce a destarlo.
Queste ultime parole fecero correre un brivido di angoscia per le vene di Matilde: ricordò la pozione notturna, l'odore strano, le goccie versate da Emilio. Si arretrò di orrore.
—Infame! gridò, tu hai avvelenato mio padre!
—Grazie della buona stima che hai di me: diss'egli con quel suo odioso sogghigno. Gli ho dato del soporifero che lo farà dormire quieto quieto fino alle otto o alle nove. E vedrai come egli se ne sentirà meglio.
—Babbo! babbo! gridò di nuovo Matilde disperatamente… Oh il mio povero padre!… Voglio vederlo.
Ma Emilio non si tolse dall'uscio.
—È inutile, disse, tanto e tanto non lo sveglieresti; e, se riuscissi a destarlo, gli nuoceresti assai.
—Non lo sveglierò, ma voglio vederlo… Ah babbo mio! babbo mio!
Ed ecco dalla camera vicina la voce del padre risponderle fiocamente:
—Matilde! che c'è!… Hai bisogno di me! Vengo vengo.
Matilde mandò un grido di gioja, Emilio si morse rabbiosamente le labbra.
—Ah! non ha bevuto! mormorò fra i denti.
In quel momento la moglie di Alberto non pensò ad altro, se non che la presenza del padre la salvava da ogni pericolo.
—Oh vieni, vieni, babbo: gridò.
—Che fai? le disse piano, ma con forza, Emilio. Come spiegheremo a tuo padre la mia presenza qui?… Ami forse le conseguenze d'uno scandalo?
—È vero… è vero: mormorò la povera donna. No, no: gridò verso l'uscio, non venire… non scender di letto… vengo io da te…
Ma già una mano si era posata sulla gruccia della serratura di fuori e accennava ad aprire la porta.
Emilio si gettò nell'alcova, dicendo a Matilde minacciosamente:
—Taci!… Non una parola… o guai!
E si nascose dietro le tende.
Il padre di Matilde entrò. S'era gettato addosso anche lui una veste da camera e veniva portando in mano la sua lampadina.
—Che cosa t'è capitato? domandò egli con inquieta premura.
—Nulla, nulla; rispose Matilde, gettandosi all'incontro del padre, e quasi cercando impedirlo d'inoltrarsi. Perchè sei venuto?… Scendere così di letto è un'imprudenza… Torna subito fra le coltri.
Ma il padre, insistendo benevolmente, s'avanzò nella camera.
—Non ne soffrirò… sta tranquilla… Come volevi che non venissi, sentendoti chiamare ajuto?… Ma dimmi, che cosa è stato?
—Nulla, nulla; ripetè Matilde. Un sogno… un cattivo sogno…
Svegliatami in sussulto, ho gridato senza saper bene io stessa…
Il Danzàno andò a posare il suo lume sul camino.
—E tutti questi lumi accesi?
—Li ho accesi io… per levarmi la paura.
Il padre sedette sul sofà.
—Bene; starò un poco a farti compagnìa.
—Oh! adesso è tutto passato.
—Sei però molto turbata ancora.
—Ho paura che tu ne soffra. Piuttosto t'accompagno io nella tua camera, e sto là un poco al tuo capezzale… finchè tu ti sia riaddormentato… Quanto mi rincresce d'averti rotto così il sonno!
—Non ero mica addormentato del tutto… Ero in una specie di dormiveglia… Hai fatto male a non lasciarmi bere tutta la pozione preparatami da Emilio… Avrei certo dormito tutta la notte… Sarà meglio ch'io beva il resto.
—No, no, s'affrettò a dire Matilde. Abbi pazienza; quei soporiferi conviene usarli con molta moderazione… Intanto torniamo a letto… Vieni, t'accompagno.
Era pensiero di Matilde ricoverarsi così nella camera del padre e rinchiudendovisi con lui aspettare che il giorno venisse a liberarla. Ma il padre adagiandosi sul sofà, con una nuova compiacenza, disse:
—Aspettiamo ancora un poco… Ci si sta benissimo qui… Mi sento prendere da una certa stanchezza…
—Ragione di più per tornare subito in letto.
—È strano come la testa mi pesa…
—Vieni dunque…
—Andiamo.
Fece per alzarsi: ma in quella un subito pensiero attraversò la mente di Matilde. Ricoverata nella camera del padre, ella sarebbe salva; ma la camera dei figli era aperta, ed essi rimanevano in balìa di quello scellerato che aveva dato prova di essere capace dei più iniqui propositi.
—Un minuto: ella disse. Do un'occhiata ai bambini, e poi sono con te.
Prese il lumicino del padre, e corse di là a contemplare i suoi figli, quasi per attingere da quella cara vista nuovo coraggio, sangue freddo e forza. Tornando indietro rinchiuse l'uscio a chiave e questa si cacciò in tasca.
Poteva ora allontanarsi tranquilla. Ma mentre essa passava innanzi all'alcova, una voce sommessa, ma minacciosa, uscì dalle tende.
—Se tu non sei di ritorno qui fra un quarto d'ora, andrò io di là a pigliarti a ogni costo.
Ella rabbrividì; ma non un lineamento della sua faccia si alterò.
S'accostò al padre con un sorriso.
—I piccini dormono… Vieni a fare tu altrettanto.
Il vecchio fece di nuovo per alzarsi, e non potè.
—È strana, balbettò con lingua impacciata, mi sento mancare le gambe… Oh come la testa mi pesa!… Ajutami.
Matilde lo prese per le mani e tentò trarlo su; ma egli a un tratto ripiombò di tutto il suo peso sul sofà, e la testa gli cadde sul petto.
—Babbo! babbo! esclamò Matilde, scuotendolo.
Non ebbe risposta; il vecchio immobile, cogli occhî richiusi, pareva morto.
—O Dio! gridò spaventata Matilde, egli è svenuto.
Una mano le si posò sulla spalla, e la voce d'Emilio, venutole presso, le disse all'orecchio:
—No, rassicurati; egli non è che addormentato. Il soporifero, di cui tu non gli hai lasciato bere che una parte, ha ritardato i suoi effetti; ma pure ei ne ha bevuto a sufficienza per averne un sonno che nulla potrà interrompere, hai capito? Nulla!
Toccò la fronte e il polso del dormiente, sollevò le palpebre e ne osservò la pupilla volta in su.
—Per sei ore almeno quest'uomo è segregato dal consorzio dei viventi.
Matilde se ne scostò fremendo; sentiva uno spasimo tale di odio, di rabbia, di orrore, che se le fosse bastato dire una parola per incenerire quello scellerato, essa l'avrebbe detta con voluttà.
Successe un momento di silenzio. Si guardavano fronte a fronte quei due, egli con la feroce impazienza della belva che si vede innanzi senza scampo la preda, essa con quell'accesso di aborrimento, in cui cominciava pure a entrare un'altra paura. Sentivano, sapevano ambedue che qualche cosa di orribile stava per accadere fra di loro; e parevano, lui esitare ad assalire, lei sperare col suo silenzio d'indugiare lo scoppio.
Quell'angoscioso silenzio fu rotto da Emilio.
—Tu lo vedi, Matilde: non c'è nessuno che possa venire a porsi fra noi; tu sei completamente in mia balìa.
—No! rispose levando fieramente il capo la giovane donna, con aspetto di maggior coraggio e sicurezza che non fossero in lei, ma col cuore che le palpitava da farle male. No, non sono in tua balìa: fra di noi v'è il sacro capo incanutito di questo vecchio. Mi difende mio padre.
Emilio ebbe un diabolico sogghigno.
—Bella difesa, disse, un uomo che non sente e che non vede!
E il tristo fece un passo verso la donna. Questa si gettò dietro una tavola a farsene riparo.
—Come! esclamò. Oseresti?
—Tutto! rispose con selvaggia energìa Emilio. Tutto, ti dico: e persuaditi bene che nulla… nulla, capisci… mi potrà fare rinunziare al mio proposito, nè impedirmi d'eseguirlo. Ah! tu mi hai respinto, disprezzato, amareggiato, abbeverato di fiele, con una crudeltà inesorabile… Hai tu creduto che il mio amore si estinguesse per l'ira e pel dolore? No; si è anzi rinfiammato viepiù, si è invelenito, inciprignito… è un amore feroce, che forse somiglia all'odio, ma che vuole soddisfazione… Da tanti anni ho vagheggiato questo momento; l'ho voluto e l'ho preparato, mi sono corrosa l'anima all'aspetto della felicità d'un altro, ho sofferto spasimi infernali, ho dissimulato, ho sorriso. Sono diventato agnello… E ora che tengo in pugno la mia vendetta, lo sfogo della mia passione, ora mi arresterei a quattro tue parolette, alle tue lagrime, forse al muto aspetto di quel vecchio addormentato? No. L'agnello scompare, si rivela il leone, e a nulla serviranno le tue preghiere.
—E chi ti dice che io voglia pregarti? proruppe con fierezza Matilde, riparata sempre dietro la tavola. Senti, Emilio! Fino da bambini, io ho indovinato in te un'anima scellerata. Da ultimo ho fatto forza al mio istinto che mi inspirava per te la più viva ripugnanza. Ho avuto torto… Ora ti odio e ti disprezzo… e piuttosto che subire pur l'ombra d'un tuo oltraggio, preferisco la morte.
—Frasi! frasi!…. Veniamo ai fatti! disse Emilio, che si slanciò verso di lei per afferrarla.
Ella, smarrita, spaventata, si diede a fuggire per la stanza; ed egli a rincorrerla coll'accanimento d'un segugio dietro la preda.
A un tratto l'idea venne a Matilde di salvarsi per la finestra.
Avesse anche dovuto uccidersi cadendo, si sarebbe ad ogni modo sottratta a quello scellerato. Corse, vi giunse; ma le invetrate erano chiuse; la sua mano, per l'agitazione, tremolante; e quando appena era riuscita ad aprire i vetri, il suo persecutore le fu sopra, e l'abbrancò alle spalle.
O Dio! la finestra! diss'egli con feroce scherno. Che vecchiume! Roba da romanzo di cinquant'anni fa… Via, via, non far pazzìe… Conserva una madre ai tuoi figli… e fa felice, almeno per un'ora, un uomo che fin da bambino ti adora.
Ella si voltò in una specie di parossismo di rabbia, che aveva vinta la paura.
—Lasciami! lasciami! gridò, e gli cacciò le mani nella faccia con tutta la sua forza, raddoppiata dal furore.
Emilio non potè trattenere un'esclamazione di dolore.
—Ah, maledetta!… Tu hai la bellezza d'un angelo, ma gli artigli d'un demonio… Angelo o demonio, io ti soggiogherò.
Successe una ignobile lotta: la povera donna si difese con tutta l'energìa di cui era capace; ma la stanchezza sopravvenne, l'emozione la vinse, il terrore l'invase: a un punto si sentì mancare ogni vigore, si sentì perduta. Mandò un grido acuto, quasi supremo appello di soccorso, e mezzo svenuta s'accasciò fra le braccia del suo nemico.
Egli, con un ghigno di trionfo, la trascinava verso l'alcova.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Alberto e Cesare facevano galoppare senza interruzione a forza di frustate il cavallo giù per la strada deserta, presi ambedue da un'ansietà angosciosa e da una pungente paura, che s'accresceva ad ogni momento. In tre quarti d'ora giunsero al punto in cui dall'alto d'un poggetto vedevasi la villa: li sgomentò maggiormente, nella facciata scura, la finestra della camera coniugale vivamente illuminata. Poi videro di quella finestra aprirsi le invetrate, e due ombre, che non potevano discernere bene, agitarsi in quel quadro: una di esse Alberto era sicuro che fosse sua moglie. Nuove frustate fecero ancora più precipitare la corsa del cavallo…
Erano a pochi passi, quando udirono suonare in quella quieta aria della notte il supremo grido disperato di Matilde.
Alberto si precipitò dal biroccino. Cesare ne seguì l'esempio, abbandonando a sè il cavallo; corsero ambedue alla casa. Con mano convulsa il marito di Matilde aprì l'uscio di cui aveva seco la chiave, e su per le scale, in due salti fu alla soglia della camera da letto. Entrando vide in un batter d'occhio lo suocero disteso sul sofà come morto, e un uomo che trascinava il corpo inerte di Matilde. Colla rapidità della folgore, disarmato com'era, ma col coraggio e le forze raddoppiate dal furore, egli si slanciò su quell'uomo, lo afferrò al collo, poco mancò lo strozzasse, e lo avrebbe strozzato, se le braccia di Emilio abbandonando Matilde, questa non fosse caduta a terra. Ma essa aveva riconosciuto il marito, e un grido di gioja le uscì in quella dalle labbra col nome del suo salvatore.
—Alberto!
Questi lasciò il collo di Emilio, il quale invano tentava con mani convulse liberarsi da quella stretta; poi, dato un potente pugno sul capo al creduto assassino, Alberto si affrettò a sollevare la moglie.
Emilio, già vacillante per la soffocazione, da quel colpo sulle tempie fu mandato a rotolare tre passi in là sul pavimento.
Matilde, tornata in sè, gettate le braccia al collo del marito, si sentiva a rinascere, piangeva, rideva, non sapeva esprimere i suoi sentimenti che ripetendo quel caro nome:
—Alberto! Alberto!
Emilio, sbalordito, stette un momento immobile per terra: poi cominciò a sollevarsi del tronco, puntando una mano sullo spazzo. Innanzi a lui i due sposi abbracciati teneramente si baciavano.
Una rabbia, un furore inesprimibile si dipinse sulla figura di quel tristo; la faccia lacerata dalle unghie della donna e gocciante sangue, le guancie d'un rosso cupo e gli occhî che mandavano lampi di malvagità feroce, la schiuma che gli imbiancava la bocca fremente, lo rendevano orribile a vedersi. Nè anco Cesare che s'avanzava in ajuto del cognato, lo riconobbe.
Emilio, sostenendosi sempre colla mano sinistra, colla destra levò di tasca la rivoltella, e la puntò verso il gruppo di Matilde e di Alberto; ma non ebbe tempo di far fuoco, chè Cesare, venutogli di dietro senza ch'egli se ne accorgesse, di colpo gli afferrò con tutte e due le mani il polso, e il projettile deviato dalla scossa andò a piantarsi nel soffitto. Stringendo forte il braccio del cugino, Cesare gli fece cader l'arma di mano, e ratto se ne impadronì. Allora Emilio si volse, invelenito, a quel nuovo avversario, e Cesare lo riconobbe.
—Emilio! esclamò. Tu!
Emilio s'alzò lentamente: sotto le righe di sangue che gli solcavano la faccia, sotto le chiazze di cupo rossore che stavano sulle sue guancie, la carnagione giallognola era diventata verde.
—Emilio! ripetè Alberto attonito, volgendosi verso di lui. Possibile!
Il tristo levò con risoluzione la testa, e rispose impudentemente:
—Sì, sono io… Tu mi hai rapito la mia felicità, e io ho voluto contaminare la tua.
—Ah! sciagurato! gridò Alberto minaccioso, facendo un passo verso di lui.
Matilde lo trattenne al suo amplesso.
—Lascialo nella sua infamia! gli disse. Dio, che t'ha condotto a tempo a salvarmi, lo punirà meglio di quanto potresti far tu.
—Bene, sì! disse ghignando. Ti aspetto al giudizio di Dio, Alberto Nori. Io ti ho fatto il più fiero oltraggio che possa un uomo: tu mi hai percosso… qui sulla fronte… Per questo non c'è perdono, non c'è oblio… Tu mi devi odiare, io ti odio… Ti odio fin da quando eravamo in collegio… Già d'allora Dio ha punito la tua tracotanza per la mia mano… che ti ha spaccata la fronte con una pietra.
—Ah! fosti tu!
—Il mio odio, covato nel più profondo dell'anima, s'è accresciuto… da far spavento a me stesso.
Alberto riuscì a liberarsi da Matilde, fu sopra al suo insultatore, e colla robustezza della sua mano, cacciatagli sulla spalla, lo fece curvare a terra.
—Miserabile! gli disse. Dovrei schiacciarti come una vipera introdottasi nel seno della mia famiglia… Dovrei…
Levò la mano poderosa sul capo del tristo chinato innanzi a lui.
Matilde venne a fermargli il braccio.
—No, Alberto! Non macchiarti al contatto di quel vigliacco.
—Vigliacco!… esclamò Emilio. Sia pure… Anche degli insulti di tua moglie, Alberto, hai da rendere ragione… E me la renderai… Non in questa ignobile gara facchinesca, in cui sei facilmente maestro: ma lealmente, in pieno giorno, faccia a faccia, colle armi alla mano…
—Oh, no! gridò Matilde, che ricordò tosto l'infallibile perizia di tiratore, che rendeva sicura la vittoria ad Emilio; no, egli è indegno.
Ma Alberto la interruppe:
—Di ciò non è questo il luogo, nè il momento di parlare… Per ora colui non ha che da levarsi dagli occhî nostri. Cesare, tu bada ch'egli esca, e chiudigli l'uscio alle spalle.
Emilio fece il suo ghigno, così perfido, così insultante, che in
Alberto si riaccese il furore da quasi levargli la ragione.
—Oh, digli che parta! urlò terribilmente, o ch'io non mi trattengo più, e lo schiaccio come un verme.
Emilio s'avviò lentamente; quando fu sulla soglia si volse:
—A domani! disse, e partì.
Quando Alberto ebbe udito i particolari del tentato delitto di Emilio, fu assalito da tanto sdegno, che si pentì di non averlo addirittura strozzato, quel mostro; protestò che ogni maggior vendetta sarebbe stata poca a tanta scelleraggine, e giurò che il domani l'avrebbe ammazzato come un cane.
Allora fu un altro strazio, un altro sgomento per Matilde. Alberto contro Emilio camminava ad una morte sicura: era la felicità, era la vita di tutta la famiglia che venivano tronche. Supplicò essa, scongiurò con lagrime, convulsa, impazzita, perdendo i sensi. Che un essere come Emilio era indegno di avere a fronte un uomo d'onore; che si doveva disprezzarlo, che ben altri doveri più sacri comandavano ad Alberto di astenersi da quel duello; ad Alberto marito e padre. Non pensasse pure a lei… Essa sarebbe morta di dolore senza fallo, nulla le avrebbe impedito di seguirlo nella fossa; ma pensasse ai figli, bambini tutti, che sarebbero rimasti al mondo senz'altro sostegno che uno zio troppo giovane e il nonno vecchio e malaticcio. E ancora, questi avrebbe egli resistito a una sì fiera catastrofe? alla perdita del genero e della figliuola?… Tutte queste ragioni torturavano il cuore d'Alberto; ma il suo giusto furore era troppo perchè egli potesse accogliere l'idea di lasciare impunita la iniquità di quel traditore.
—E poi, egli soggiunse, credendo con ciò convincere Matilde dell'assoluta necessità d'uno scontro. Tu l'hai udito! Se non vado io da lui, sarà egli che mi chiamerà sul terreno; e vorresti tu ch'io commettessi la viltà di rifiutarmivi?
—No, non è viltà! esclamò la donna. Sarà anzi forza di carattere…
—Egli è capace di provocarmi in modo da farmi spregevole in faccia alla gente…
—Quando la gente sappia…
—Oh no, per Dio!… La gente non ha da saper nulla. Tutto questo deve rimaner sepolto fra di noi. Lo voglio ad ogni modo… E di resistere alle sue provocazioni no, non me ne sento la virtù. Per quanto ti promettessi, sotto un suo insulto, giuro al cielo! il sangue mi bollirebbe nelle vene… e… e forse mi perderesti tu stessa la stima, se così non fosse.
Matilde si attaccò ad una lieve speranza che le parve si presentasse…
—Or bene, sia… Provocato ancora… capisco… ma se egli non facesse più un passo, se invece si allontanasse…
—È impossibile…
—Chi sa!… Io pregherò tanto il buon Dio… Se ciò fosse, promettimi che tu non cercherai altrimenti di lui… Oh, promettimelo, per l'amore che ti porto, pel nostro tanto amore… per l'amore de' tuoi figli…
Alberto, commosso, spaventato sopratutto dagli accessi di convulsioni e dagli svenimenti che seguivano gli scongiuri respinti della povera donna, finì per cedere e promettere.
Era giunta l'alba: il vecchio Danzàno, trasportato sul suo letto dal figliuolo e dal genero, continuava nel suo letargo; tutte quelle ore passate di spasimo avevano affaticato all'estremo Matilde; la promessa strappata finalmente al marito era riuscita da ultimo a quietarne alquanto l'animo.
Ella non sapeva come; la sua mente confusa e il cervello stanco non potevano per allora suggerirgliene un modo, ma in nube aveva l'intima speranza che essa avrebbe potuto ottenere l'intento: Emilio s'allontanasse, e tutto fra lui ed Alberto fosse finito. Ai primi raggi del giorno, ella s'addormentò.
Il marito la guardava con profondo intenerimento nell'anima e le lagrime negli occhî.
—Povera donna! egli pensava. Potesse almeno dormire finchè io le ritorni sano e salvo!… Ma ritornerò io?… più facilmente no!
Un grande scoraggiamento lo invase, una gran debolezza gli occupò il cuore. Solo con sè stesso, in presenza di quell'amata donna che dormiva, presso a' suoi figli, che dormivano ignari del pericolo che incombeva sulla famiglia, tutto il suo solito coraggio svanì; egli ebbe paura.
Poi tosto un nuovo e maggiore sdegno venne a risollevarne l'animo.
—Ma è possibile, è permesso che uno scellerato riesca a turbare la quiete, a minacciare l'esistenza d'un'onesta famiglia, e che la vita d'un marito, d'un padre, la sorte e l'avvenire di innocenti creature abbiano ad essere in balìa d'un mascalzone qualunque? Dove sarebbe la giustizia di Dio?
L'occhio suo si posò più intensamente affettuoso sul dolce viso della moglie addormentata. Ogni traccia d'inquietudine era passata da quei leggiadri lineamenti, e un lieve sorriso aleggiava sulle labbra semiaperte.
—Sarà meglio, disse Alberto a sè stesso, che io m'allontani mentre essa dorme. Al suo risveglio nuove lagrime, nuove preghiere a trattenermi, commuovermi, indebolirmi. Andiamo.
In quella, Cesare cautamente mise il capo dentro dell'uscio. Alberto gli fe' cenno di non inoltrarsi, e s'affrettò a raggiungere il cognato nell'altra stanza.
—Che cosa c'è? gli domandò.
E Cesare gli porse un bigliettino, che disse essergli stato rimesso allor allora dal servo del Lograve.
Alberto lo prese e lo lesse.
«A Cesare Danzàno,
«Le brighe, come quella che ora passa fra me e il signor Nori, mi piace finirle presto. Aspetto senza ritardo Cesare Danzàno colle istruzioni del signor Nori, così che tra un'ora tutto sia finito.»
—Ebbene? domandò Cesare, quando Alberto ebbe letto.
—Ebbene, rispose Alberto, vacci subito, e accetta tutte le condizioni che egli proporrà, quando, s'intende, non sieno più vantaggiose per lui. Io esco subito di casa, e t'aspetterò colla risposta presso al pilone di San Giacomo. Fa di stabilire là vicino, che è luogo isolato, dove a quest'ora non passa anima viva, il terreno dello scontro.
Cesare, di gran malavoglia e con molta agitazione nell'anima, si recò presso Emilio.
Alberto rientrò pian piano nella camera, andò a dare uno sguardo ancora ai figli addormentati, di cui lievemente, ma con crudele strazio del cuore, baciò la fronte, e diede poscia anche a Matilde un bacio leggiero leggiero, in cui però c'era tutta l'intensità del suo affetto; passò nel suo studiolo, dove s'armò d'una rivoltella a sei colpi, carica, e si avviò lentamente verso il pilone, dove aveva dato convegno a Cesare.
Emilio neppure non aveva passato sopra un letto di rose le ore che avevano tramezzato fra la sua uscita dalla villetta e l'invio del suo biglietto a Cesare. L'ira e la umiliazione della sua sconfitta, la vergogna delle ricevute percosse ne avevano ancora accresciuto l'odio e la smania della vendetta. Non aveva chiuso occhio, non aveva neppure provato a gettarsi sul letto, nemmeno seduto non aveva potuto stare; un'agitazione febbrile gli concitava muscoli e nervi, cuore e cervello. Aveva passeggiato su e giù, bestemmiando, imprecando, minacciando, si era compiaciuto di passare in rivista una per una tutte le sue rivoltelle, delle migliori fabbriche inglesi, eccellenti, infallibili tutte nella sua mano esercitata. Quante volte aveva spianato or l'una or l'altra a mira, imaginandosi d'aver a giusta distanza l'odiatissimo avversario, ed aveva fatto un sogghigno di trionfo nella certezza di gettarlo a terra col cranio fracassato!
Il tempo gli tornava lungo e pesante, maledisse gli indici dell'orologio che camminavano così lentamente; mandò un'esclamazione di gioja, quando vide alla fine una striscia bianca all'orizzonte annunziare la venuta del giorno. Scrisse sopra un foglio di carta una dichiarazione (e vedremo presto quale), poi il biglietto che mandò subito a Cesare, e stette aspettando impaziente.
La faccia di Emilio, di color verzigno, corsa dalle righe sanguigne delle graffiature, era così contratta, che a Cesare fece quasi ribrezzo e poco meno che paura.
—Che cosa avete da dirmi? domandò asciuttamente Emilio ritto presso la tavola su cui erano il foglio scritto poc'anzi e le armi.
—Che Alberto accetta qualunque condizione, rispose Cesare, per quanto grave essa sia, purchè non a svantaggio d'uno degli avversarî.
—Va bene. Ci batteremo subito.
—È appunto l'intenzione di mio cognato. E anzi questi è già andato ad aspettare presso il pilone di San Giacomo.
—Benissimo: il luogo è adattissimo e ci batteremo colà. Sentite! Perchè le armi sieno uguali, voi sceglierete fra tutte queste, che sono compagne, quella che vi parrà la migliore, e la porterete a… al vostro primo. Armato ciascuno di una di queste rivoltelle a sei colpi, ci metteremo, lui al pilone, io al ponte del torrente. Di là, a un segnale che darete voi, ci cammineremo incontro colla facoltà di sparare i nostri sei colpi quando e come ci piacerà, e di avanzarci tanto che, se nessuno cade, arriviamo a metterci la canna al petto e sparare a bruciapelo. Se uno dei due, soggiunse col suo selvaggio sogghigno, potrà tornare a casa co' suoi piedi sarà stato ben fortunato… Vi va?
Cesare, perplesso, confuso, con un grande turbamento nell'animo e nel cervello, stette lì, senza sapere che rispondere. Egli non era abbastanza esperto, e non aveva bastante freddezza di mente per vedere come un gran vantaggio vi fosse per Emilio in quei patti. La distanza in cui si dovevano porre i duellanti era fuori del tiro delle rivoltelle, camminando l'uno verso l'altro gli avversarî sarebbero entrati poi nel campo del tiro; ora Emilio, dall'occhio praticissimo a misurare le distanze, appena Alberto sarebbesi trovato al punto da poter essere colpito, mercè la sua sicurezza di mira, l'avrebbe fulminato; mentre Alberto, se avesse pure voluto sparar prima, non avrebbe fatto che sciupare il suo colpo.
—E voi? riprese Emilio, dopo avere aspettato un minuto. Avete pur detto che… colui avrebbe accettato ogni condizione!
—Sì, è vero, balbettò Cesare, ma…
E l'altro, senza lasciarlo continuare:
—Non avremo altro testimonio che voi. Credo che piaccia anche al vostro rappresentato che non ci ficchino il naso persone estranee. E siccome, se mai uno di noi n'esce salvo, può avere delle noje dalla giustizia, io ho pensato di redigere questa dichiarazione, cui ciascuno di noi si metterà in tasca, e che salverà da ogni fastidio il superstite. Sentite!
E lesse:
«Per motivi miei particolari, che saranno sempre un segreto per tutti, e che prego tutti di non volere investigare, io mi trovo spinto a uscire di questa vita. Dichiaro che nessuno deve incolparsi della mia morte, e prego di perdonarmi coloro a cui questa sarà un dolore.»
—Il signor Nori scriverà questa dichiarazione tale e quale, ci metterà la data colla sua firma, come ho fatto io, e la terrà in tasca al pari di me. Il cadavere di colui che cadrà sarà lasciato lì sul posto, e quando sarà raccolto presso la giustizia questo scritto farà il suo effetto.
Cesare stette un po' a pensarci, penosamente imbarazzato.
—E se ci rimanete tutt'e due?… disse poi.
—Eh, allora, rispose Emilio col suo solito sogghigno, tu che sarai il solo superstite cercherai il modo d'aggiustarla, e il fisco non potrà d'altronde molestare nessuno dei due.
Cesare scosse tristamente il capo.
—A una cosa simile non si è affatto pensato, e io non so se Alberto sia disposto ad acconsentire. Bisogna assolutamente ch'io gliene parli.
Emilio crollò impazientemente le spalle.
—O mio Dio! che scrupoli fuor di luogo. Il signor Nori dev'essere contento ancor egli di cosa che lo mette al sicuro da una responsabilità piuttosto grave… Ma sia come volete… Per non perder troppo tempo, facciamo così: portate la dichiarazione al signor Nori; s'egli non affaccia nessuna difficoltà, la ricopia, la firma, e se la ritiene. Se rifiuta, voi verrete subito a dirmelo, e io allora lo inviterò a passare la frontiera ed andarci ad ammazzare in Isvizzera. Sono le sei: aspetterò fino alle sei e mezza: se non siete venuto, vuol dire che mi aspettate senz'altro al luogo del convegno, e io mi vi recherò sollecitamente.
—Va bene, rispose, accennando ad avviarsi Cesare, il quale non vedeva l'ora di esserne fuori.
—E non prendete copia della dichiarazione?
—Ah! è vero.
Cesare sedette al tavolino per iscrivere; ma la mano gli tremava talmente che le parole gli riuscivano sgorbi poco intelligibili.
—Aspettate che ve la scrivo io più in fretta, disse Emilio, ghignando a suo modo.
E in due minuti, con mano ferma egli ebbe scritto quelle righe, che consegnò a Cesare.
—E intanto, soggiunse, potete prendere l'arma pel vostro mandante.
Il cognato d'Alberto ne esaminò due o tre, tanto per avere l'aria di fare una scelta; poi ne prese una che si mise in tasca.
—Ricordatevi! gli gridò Emilio, mentre Cesare stava per varcare la soglia. Se non siete tornato prima, io alle sei e mezza sarò al ponte; il signor Nori dovrà trovarsi al pilone. Scorretto chi ritarda; vile chi manca! A rivederci.
E volgendo le spalle a Cesare che partiva, egli rientrò nel salotto.
Cesare s'affrettò a raggiungere il cognato che già stava aspettando al pilone. A tutta prima Alberto non trovò obiezioni da fare alle proposte dell'avversario, e parve anche a lui che quello della dichiarazione fosse un prudentissimo partito per tenere nascosto alla gente il dramma domestico, per togliere dalle peste il superstite dei duellanti. Ma dove andare a scriverla quella dichiarazione? A casa no, perchè sarebbe andato incontro a quella scena di separazione straziante da Matilde, ch'egli voleva assolutamente evitare. La casa più vicina, di cui si potesse prevalere, era quella del parroco: Alberto decise di correre colà a preparare il documento.
—Tu rimani qui, disse al cognato. Spero fare in tempo da tornarmene prima che quell'altro arrivi; ma se mai dovessi tardare, tu sarai qui a spiegargli la mia assenza e assicurarlo che non avrà molto da attendere.
Così fu fatto. Cesare rimase di sentinella al pilone, e Alberto s'avviò di buon passo verso la casa del parroco. Giunto colà, dovette aspettare un poco prima che la serva, allor allora alzatasi, venisse ad aprirgli; poi, quando fu venuta, fatte le cento meraviglie per quella visita così mattutina, la buona donna disse che il suo padrone era ancora a letto, anzi ella credeva dormisse, ma che il signor Nori avesse la bontà d'aspettare, ed ella sarebbe andata tosto ad avvertire il padrone, svegliandolo, se occorreva. Alberto non ebbe poco a dire per farle comprendere che era inutile svegliare il sor prevosto, al quale egli non aveva nulla da comunicare, che desiderava solamente avere un pezzo di carta, penna e calamajo per iscrivere quattro righe per una certa sua bisogna di premura, la qual cosa egli avrebbe potuto fare senza disturbare nessun altro, quando essa, la serva, lo introducesse un momento nello studiolo del padrone.
Era quindi passato più d'un quarto d'ora, quando Alberto potè sedere alla scrivanìa parrocchiale e cominciare a scrivere: ma rileggendo così più attentamente, come richiede l'azione del ricopiare, quella dichiarazione, Alberto non la trovò più così accettabile, anzi gli parve che e la scritta in sè stessa, e i termini in cui era redatta, non convenissero affatto.
—Tutti sanno la felicità di cui godo, pensò, tutti conoscono l'amore, la pace che regnano nella mia famiglia, le fortunate condizioni che ci permettono un'agiata esistenza. Quali ragioni particolari potrei avere da odiare la vita che tanto mi sorride? O non sarò creduto, o si giudicherà, che questa mia felicità è un inganno e che io la smaschero colla più orribile smentita. Getterò ancora una nota di biasimo alla mia adorata Matilde, agli adorati figli miei. Insieme al crudele dolore che cagionerò loro, lascerò ad essi per ultimo addio un rimprovero che procurerà a quei cuori amorosi un immeritato rimorso. E ciò per salvare dagli impicci quel miserabile? Oh, no, mai, mai!
S'alzò risoluto, stracciò in minutissimi pezzi e il foglio che gli aveva rimesso Cesare e quello che egli aveva già scritto, e fece per partire: ma ecco sulla soglia dello studiolo medesimo fermarlo, sopraggiungendo, il parroco.
Alla serva era parso un troppo gran fallo lo avere introdotto in casa un signore di quella sorte e non avvisarne il padrone, cui ella sapeva aver tanta deferenza per quel signore: e il parroco s'era affrettato a vestirsi per correr giù a complimentare il mattiniero suo parrocchiano e offrirgli i suoi servigî. Alberto dovette impiegare dieci buoni minuti per dire al buon prete quel ch'era venuto a fare e che aveva già fatto e per cui lo ringraziava, e se ne partiva senz'altro, avendo un affare di premura da sbrigare. Ma sì! Alla virtù capitale del parroco pareva una colpa il lasciare partire il signor Nori così a bocca asciutta: ed ecco offrirgli caffè e rosolî e ogni fatta di bibite, e ripetere e trattenerlo con quell'insistenza che dai campagnuoli è creduto debito di cortesia, così che quando Alberto potè liberarsene e lasciare la canonica, guardato l'orologio, vide che le sei e mezza erano passate da cinque minuti.
Corse al luogo del convegno e respirò vedendovi Cesare solo. Emilio non s'era ancora veduto.
—Or bene, va tosto da lui, disse Alberto affrettatamente al cognato, e digli che della sua dichiarazione io non ne voglio assolutamente sapere. Preferisco andare a battermi in Isvizzera. E riportagli la sua rivoltella, che non me ne voglio servire. Ne ho una anch'io di sei colpi, e preferisco d'usare la mia. Va, e fa presto; ti aspetto sempre qui.
Cesare partì di buon passo e Alberto si diede a passeggiare su e giù dal pilone al ponte, trovando eterni i minuti che passavano. E ce ne passarono in verità molti più di quello che Alberto si aspettasse, tanto che l'orologio, dicendogli trascorsa omai mezz'ora, smarrita la pazienza, egli stava per abbandonare il posto e andare a vedere che cosa fosse successo, quando vide Cesare che tornava correndo: ma egli era solo.
—E così? gli gridò Alberto appena Cesare fu a un punto dove gli arrivava la voce. Che cosa risponde?
Ma Cesare, affannato, con segni vibrati che supplivano alle parole, cui per lo strafiato non poteva profferire, gli fece intendere che qualche cosa di nuovo era capitato, e qualche cosa di grosso, per cui egli era tutto sossopra.
—Che cosa c'è? Che cos'è stato? domandò Alberto ansiosamente.
—Ah! vieni, vieni subito, gli disse Cesare. Matilde ha preso male.
—Matilde! esclamò Alberto turbatissimo.
—Sì. Ha delle convulsioni… del delirio… dice parole che non si capiscono… ti chiama…
Alberto si mosse tosto con impeto: ma poi si fermò.
—E quell'altro?
—Ah! non l'ho visto.
—E se viene?
—Non credo che verrà.
—Perchè?
Vieni, vieni ti racconterò.
E andando tutt'e due di buon passo verso casa, Cesare raccontò come, arrivato alla vista della villetta e del palazzotto, aveva visto Matilde che vacillante stava per entrare in casa, quando, assalita da subito malore, cadeva sulla soglia… Egli era corso a sollevarla, e, ajutato dalla cuoca, che a forza di chiamare aveva fatto accorrere, l'aveva trasportata sul letto svenuta. Là, pei soccorsi prestatile, dopo un poco Matilde era tornata alla vita, ma non in cognizione, perchè vaneggiava con isconnesse, incomprensibili parole, chiamando tratto tratto con istraziante voce di preghiera il marito. Cesare aveva pensato necessario il venire ad avvertire Alberto senza indugio. Quanto a Emilio, aggiungeva, dovergli essere sopravvenuto qualche cosa perchè uscendo di casa egli aveva udito il domestico mandare esclamazioni di meraviglia e di spavento e domandare ajuto, ma Cesare affermava di aver troppa premura di venire dal cognato per fermarsi a chiedere che cosa fosse avvenuto.
I due cognati arrivarono correndo alla villetta e furono di balzo nella camera di Matilde.
Alla voce del marito che la chiamava, la giacente si riscosse, aprì gli occhî, la luce dell'intelligenza tornò a brillare in essi; ed esclamando con immenso affetto:—Ah! mio Alberto, mio Alberto! essa gli gettò le braccia al collo e ruppe in un pianto dirotto da cui ebbe subito grandissimo sollievo.
Emilio, quando Cesare si fu partito da lui, ordinò al servo di andare al villaggio a far allestire il carrozzino, perchè fra un'ora al più, egli sarebbe partito, poi, rimasto solo in casa, egli finì di preparare una sua valigetta, si pose in tasca tutti i denari e i valori, e visto che mancavano appena dieci minuti alle sei e mezza, prese sulla tavola del salotto la rivoltella che già aveva sceverata dalle altre, e si mosse per uscire. Ma sulla porta s'incontrò in una donna che entrava impetuosa. Era Matilde.
Svegliatasi poco dopo la partenza d'Alberto, la misera donna stette dapprima in un momento di fortunato oblìo di quanto era avvenuto; poi la mente ancora confusa travide la funesta verità, ma annebbiata ancora, ed essa si domandò se era un angoscioso sogno che avesse fatto, oppure una crudele realtà. Aimè! il dubbio non durò a lungo. Il sentimento della brutta realtà invase ad un tratto, quasi con violenza, l'animo della poveretta; essa sorse a sedere sul letto: gettandosi le mani alla fronte e chiamando con voce tremula per angoscia e paura: Alberto! Alberto! Nessuno rispose. Matilde volle scendere dal letto; ma si sentì così fiaccata, che si persuase non avrebbe potuto reggersi in piedi. Afferrò il cordone del campanello e suonò. Le altre mattine Lisa era sollecita ad accorrere, quel giorno nessuno venne. Matilde tornò a suonare parecchie volte con crescente forza finchè riuscì a scuotere la cuoca nella lontana cucina e la fece accorrere al letto della padrona.
Questa apprese così che la Lisa e Battista non si trovavano da nessuna parte, che all'alba era venuto il servo del signor Lograve con un biglietto pel signor Cesare e che poco dopo i cognati erano usciti insieme. Dov'erano andati?—Ah! la cuoca non lo sapeva, perchè dalla sua cucina non aveva potuto vedere da qual parte si fossero diretti. Matilde mandò un gemito. Era certo che la provocazione era venuta con quel biglietto di Emilio, e che il duello doveva aver luogo, forse succedeva in quel momento, forse già era avvenuto!
Questa idea, questa terribile paura le ridiede un poco di forza. Si buttò giù dal letto, si fece ajutare dalla cuoca a vestirsi, che da sola non avrebbe potuto. E intanto la sua testa faticosamente, penosamente lavorava.
Maledizione a quel sonno che l'aveva tenuta inerte, mentre avrebbe potuto agire. Agire? Ma come? Che cosa avrebbe essa potuto fare per impedire il passo fatto da Emilio? Le pareva che parlando con Alberto un'idea per ciò le si fosse affacciata: ora quest'idea di cui sentiva pure come una traccia nel cervello, si rifiutava di lasciarsi rievocare, appariva appena, vaga, inafferrabile e svaniva in un bujo che faceva smarrirsi quel povero spirito doloroso. Ma e ora che cosa era da farsi? forse si battevano… Dove?… Oh saperlo!… Bisognava scoprirlo, indovinarlo… Ella si sarebbe gettata là in mezzo a loro, avrebbe fatto riparo di sè al padre de' suoi figli. No, non l'avrebbe lasciato ammazzare. Ma dove andare? e sola, svigorita come si sentiva? Se suo padre potesse ajutarla!… Ma sarebbe stato necessario apprendere tutta la brutta verità a quel povero vecchio malaticcio, che ne avrebbe chi sa quanto sofferto! Matilde ricordò a tal punto il soporifero dato al convalescente da Emilio, e sentì rimorso di non averci pensato prima. Si trascinò nella camera di suo padre. Questi svegliavasi appunto allora; disse aver dormito sodo, ma di un sonno pesante che parevagli averlo stancato più che sollevato, e che gli aveva lasciato il capo confuso, il cervello come vuoto, la bocca allappata, lo stomaco oppresso.
Matilde si convinse viepiù che da quel poveretto non poteva sperare ajuto nessuno, e che era obbligo di carità il tacergli affatto ogni cosa. Si tolse, con grande pena di lui, dal letto del padre e passò nella camera dei figli che dormivano ancora tutti tranquillamente: la loro vista le fece sentire più forte, più imminente la necessità in lei di agire. Per la finestra aperta vide nel salotto a pian terreno del palazzotto Emilio presso alla tavola su cui stavano parecchie rivoltelle. Ah, fortuna! Egli era ancora in casa; s'era ancora in tempo. Matilde si gettò sulle spalle il primo mantelletto che le capitò sotto mano, e corse al palazzotto.
—Tu qui, Matilde! esclamò Emilio, arretrandosi d'un passo per lo stupore.
Matilde non rispose; entrò, prese a un braccio Emilio e con forza superiore alla sua solita, che la disperazione dava alle sue membra un poco prima sfinite, lo trasse nel salotto, dove stette innanzi a lui, ansimante, premendosi colla mano il cuore che le batteva da rompersi.
—Che cosa vuoi? le chiese ruvidamente Emilio, che sentiva ancora al cospetto di lei la vergogna dei trattamenti subiti dal marito di essa.
—Tu vai ad assassinare Alberto, diss'ella con voce soffocata.
Un infernale sogghigno di trionfo si disegnò sulle labbra di Emilio.
—Vado a vendicarmi!
Il petto oppresso da una inesprimibile angoscia, la gola serrata da non poter parlare, Matilde strinse forte il braccio di lui, e, scuotendo il capo, fiammeggiando dagli occhî, non potè pronunziare che un monosillabo:
—No! no!
Emilio liberò violentemente il suo braccio.
—Ah no? proruppe coll'impeto de' suoi pessimi istinti, della sua furente passione, del suo malvagio talento. Ah no?… E chi me lo impedirà?… Tu forse?… Puoi tutto su di me, fuor che questo: tu la cagione dei miei più forti dolori, della infelicità della mia vita… Ti ricordi quando sono venuto a pregarti, a metterti ai piedi l'anima mia, e tu mi hai crudelmente con tanto disprezzo respinto?… Tu potevi far di me non solo un uomo felice, ma buono, migliore di tanti a cui il difetto di malvagità non è che un difetto di passione e d'intelligenza; hai voluto invece rendermi disgraziato, invidioso, odiatore di tutto e di tutti… e della vita, e fin di me stesso… Pensa qual odio si è accumulato in me contro chi si godeva quel bene ch'io non potei conseguire! Te lo dissi allora: guai se ad alcuno dài quell'amore che a me neghi così oltraggiosamente: tu mi rispondesti che non mi temevi, che l'uomo da te amato bene avrebbe saputo difendersi dall'odio mio… Ebbene, vediamolo!… Si difenda! Vita contro vita; egli, sorretto dal tuo amore, io dal mio odio; a lui, se vincitore, in premio il tuo amplesso; a me le tue lagrime.
Mentre egli parlava, in Matilde s'era venuta un poco quietando l'agitazione del sangue e dell'animo; essa potè a sua volta trovar le parole, e cominciò a dire con voce debole, ma vibrante di profonda emozione:
—Se il tuo odio volesse appagarsi solamente delle mie lagrime e del sangue dell'uomo che tu odii, il che vuol dire anche del mio, perchè a quell'uomo io non sopravviverei…
Emilio fece un atto fra d'ira, di minaccia e di crudeltà.
—No, non gli sopravviverei, ripetè essa con più forza. Se tu ti soddisfacessi della morte di lui, e mia, sarebbe un'opera iniqua, scellerata, ma che si può comprendere. Il tuo odio invece vuole colpire, più ancora di quelli che odii, degli innocenti che nulla ti hanno fatto, e tale che anzi può vantare titoli alla tua riconoscenza…
—Chi? domandò aspramente Emilio.
—Chi?… E i miei figli?… E mio padre?
—I tuoi figli?… Sono sangue suo; li odio al pari di lui.
—E mio padre?… Egli ti fu amorevole padrino, ti difese nell'infanzia…
Emilio la interruppe.
—Ha fatto troppo poco, perchè io ora sacrifichi per lui quell'unica cosa che mi rimane cara al mondo, la mia vendetta, perchè io vada a farmi uccidere…
—Uccidere?… Ah no!
—E che cos'altro sei tu venuta a domandarmi, se non questo? Che io vada ad espormi alle palle di colui senza cercare da parte mia d'offenderlo; in breve, che mi lasci ammazzare come un stupido… chè non sarei altro.
—Ti domando invece di non andarci, disse in fretta Matilde.
—Come? interrogò Emilio, quasi non avesse capito.
—Sì, rispose ella, ti domando di non andare a questo orribile duello.
—Ma sei matta!… Mi domandi ancora peggio di quel che credevo… Che tu, sapendomi sicuro del mio colpo, fossi venuta a pregarmi di restituirtelo azzoppato, ma vivo, colui, è una temerità a cui non posso far buon viso, ma che posso tollerare: ma venirmi a dire che, per salvare lui, io mi macchii d'una viltà…
—Nessuno ti potrebbe accusare.
—E io?… E lui?… Oh donne, donne, che credete tutto il mondo debba cedere ai vostri desiderî!… Ma tu hai dunque obliato quanto è successo, quanto hai visto tu stessa cogli occhî tuoi?… Io sono stato assalito brutalmente, con prepotenza percosso nel modo più oltraggioso, tanto che nessuno, fosse pure un santo, lo potrebbe perdonare; ne richiedo, com'è mio diritto, la riparazione, e quando questa mi si dovrebbe dare, io mancherei, fuggirei?… Oh per Dio!… tu hai l'audacia di domandarmi addirittura l'impossibile.
—Emilio! Emilio! esclamò Matilde stringendo le mani quasi in atto di preghiera, e mettendo nella sua voce una intonazione più calda. Nessuno, ti ripeto, potrebbe accusarti… Io ti difenderei… Ogni anima bennata… che dico?… Tutti, tutti riconoscerebbero in questo un atto di generosità, un atto di cui la tua anima deve pure essere capace… Pensa che avresti una riconoscenza eterna in me, ne' miei figli, che ti benediranno e pregheranno per te tutta la vita… Oh, ci deve pur essere nel tuo cuore una fibra che si commova al pensiero di essere benedetto come il salvatore d'una famiglia!… Pensa al tempo in cui ti sarà sopraggiunta la vecchiaja, in cui s'accosterà il giorno della morte. Non sai tu che il pensiero del male che avrai commesso ti affannerà le ultime tue ore? che vedrai i fantasmi delle tue vittime apparirti ad imprecare e maledire? Invece il ricordo della generosa azione ch'io ti domando, ti sarà di conforto e di speranza!…
Parve a questo punto a Matilde di vedere dileguato dal volto del cugino quel sogghigno scettico e ironico con cui egli aveva ascoltato fin allora le parole di lei e un'ombra di commozione manifestarglisi negli sguardi. Era invece che la emozione della giovane donna dava alla bellezza di lei nuove attrattive, nuovo splendore, e, a dispetto di tutto, ridestavasi in lui la fiamma della concupiscenza.
Essa, illusa, gli si fece più presso, gli prese le mani; pensando ai figli, la madre superò ogni ripugnanza, ogni rancore, ogni disprezzo per quell'uomo, e con voce piena di supplicazione, quasi d'affetto, continuò:
—O Emilio!… Per tutto quello che c'è di più sacro sulla terra, per l'anima tua, se tu possa esser lieto e felice, non rigettare una povera madre che t'implora… Io sono stata sdegnosa e superba teco… Vuoi che mi umilii a te dinanzi? Eccomi a' tuoi piedi! Abbi pietà di me, abbi pietà di mio padre, abbi pietà de' figli miei!
E si gettò ginocchioni, tenendolo sempre per le mani, sollevando verso di lui quel suo bel viso acceso di commozione, di desiderio, di speranza, que' suoi occhî splendidi, pieni di tanta luce, di tanto amore. Era, in quell'atto, così potentemente bella, che tutto il fuoco della passione in Emilio divampò, divenne irresistibile. Egli si chinò verso di lei, gli occhî fiammeggianti di libidine, le labbra tumide e frementi; l'afferrò alla vita per sollevarla a sè, e balbettò con voce rotta dalla intensità della passione:
—Ebbene, sì… se vuoi!… Egli mi aspetti là… invano… e tu compensami col tuo amplesso.
Per Matilde fu come se vedesse a un tratto drizzarlesi innanzi il capo d'una vipera. Balzò in piedi, si sciolse bruscamente dalle braccia di lui, e respingendolo da sè con tutta la sua forza, esclamò:
—Miserabile!… miserabile!… Mi fai ribrezzo ed orrore!…
Successe un momento di silenzio. Emilio si morse le labbra fino al sangue; poi parlò con una forzata calma, forse più iniqua della collera.
—Sta bene!… Tu hai detta l'ultima parola del nostro colloquio…
Non puoi più aggiunger nulla, nè io voglio più ascoltar nulla.
E siccome ella trovavasi innanzi alla porta, egli fece un cenno imperioso perchè si levasse di lì.
—È tardi… ho già troppo indugiato… Sgombrami il passo.
Essa invece, risoluta, fiera, si portò all'uscio e disse, con tono di violenza:
—No, no, non uscirai di qui… No, no, non ti lascierò ammazzare il mio Alberto.
—Lasciami andare! gridò egli coi denti stretti e il furore dell'anima negli occhî.
—No!
Emilio afferrò la donna per un braccio, con tutta la sua forza la trasse via dall'uscio e per una spinta brutale la mandò barcollante nell'interno della stanza, poi s'affrettò ad aprire l'uscio.
Matilde sarebbe caduta in terra se non avesse incontrato la tavola, a cui si sostenne; la sua destra si posò sopra una delle rivoltelle che là si trovavano; le sue dita, quasi involontariamente, ii serrarono intorno al calcio dell'arma.
—Fermati! ella gridò ad Emilio, fermati, in nome di Dio!
Egli si volse a lei col suo maledetto ghigno, e le rispose ferocemente:
—No… e puoi contare che il tuo Alberto è morto.
Fece per partire. Matilde sollevò la rivoltella che aveva istintivamente impugnata. Che cosa successe in lei, quale coscienza ella avesse degli atti suoi, in quel momento, non seppe pure spiegar mai a sè stessa; sparò…
Emilio, che già aveva un piede al di là della soglia, gettò un gran grido; si volse ratto.
—Mirato giusto, per Dio! esclamò, e agitate le braccia, cadde lungo e disteso sul pavimento.
Madide rimase un momento immobile, sbalordita, coll'arma in mano; poi, capito quel che era successo, mandò una esclamazione d'orrore, gettò via l'arma e s'accostò al caduto.
—Emilio! Emilio!
Egli giaceva supino, e nelle pupille che vagavano incerte, veniva spegnendosi la vita.
—Sei ferito?… Cos'hai?… ella domandò, chinandosi su di lui.
Egli non diè segno d'aver inteso; le sue pupille s'offuscavano sempre più. Siccome in lui non appariva nessuna traccia di ferita, Matilde, benchè col cuore serrato dallo sgomento, non poteva persuadersi che sì funeste conseguenze avesse quel suo atto quasi inconscio; ma ad un tratto vide di sotto il capo del caduto spuntare e scorrere un rivolino rosso che si venne allargando e fece in breve sullo spazzo una pozza di sangue.
La palla aveva colpito Emilio dietro l'orecchio destro: la mano inesperta di quella donna disperata aveva realmente schiacciata la testa della vipera.
La vista di quel rivolo di sangue empì d'orrore e di spavento Matilde; essa mandò un grido, scavalcò il corpo del caduto, e, mezzo pazza, un tumulto nella testa, lo spasimo nel cuore, la soffocazione alla gola, corse e venne a cadere svenuta alla porta della villetta dove Cesare la raccolse.
* * *
Il servo di Emilio, tornato a casa dopo averne eseguiti gli ordini, trovò il padrone steso per terra e che pareva morto.
Gridò all'accorr'uomo, ma nessuno venne ad ajutarlo, onde egli, trascinato, come potè, il giacente fino al sofà del salotto medesimo, non sapendo che fare, corse nel villaggio a cercarvi il medico, senza pensare altrimenti a soccorrere il ferito, ch'egli ritenne d'altronde per bello e spacciato.
Spirato non era: una fiammella di vita guizzava ancora in quell'organismo, un barlume d'intelligenza rimaneva in quel cervello. Emilio non poteva parlare, nè far cenni, nè dar segno nessuno, ma viveva e sentiva di vivere, sentiva sè e il mondo intorno a sè: ma una voce piccola, piccola, intima, intima, gli diceva piano piano in fondo all'anima che quella era l'agonìa e che egli stava per morire.
Morire? Chi era che gli aveva richiamato poc'anzi quella brutta idea?… Ah! era Matilde: ecco che gli pareva d'udire ancora la voce di lei ripetergli: «Non sai che il pensiero del male che avrai commesso ti affannerà le ultime tue ore? che vedrai i fantasmi delle tue vittime apparirti ad imprecare e maledire?» Delle vittime egli ne aveva fatte parecchie: gli uccisi in duello.
…. Sì, ecco che venivano e lo guardavano con isdegno, sanguinosi il petto o la fronte; e muovevano le labbra. Egli non udiva quello che dicevano, ma erano certo parole di maledizione quelle che uscivano senza alito di vita. Ma di sue vittime ce n'erano pur altre, più lontane nel tempo, ma più vicine a lui nella vita. Chi? chi? chi? Sapeva che dovevano comparire e ne aveva paura, e non poteva dire chi fossero. Comparve una donnaccia vecchia, volgare, col faccione adiposo, rosso cupo per la congestione sanguigna, furibondi gli occhî stravolti, che con voce senza suono, ma ch'egli intese perfettamente, gli disse; «Assassino! Assassino!» E dietro lei un altro fantasma ancora più pauroso; un vecchio burbero, arcigno, colla collera e la minaccia negli occhî: suo padre, ch'egli avrebbe potuto salvare dall'apoplessia, e non volle, e che ora sapeva tutto, e gli diceva con quella voce di spettro: «Parricida!»
Emilio fece un moto, come per fuggire: ricadde: mandò un gemito.
Quando il medico venne condotto dal domestico, disse:
—Non c'è più nulla da fare, il signor Lograve è morto.
Fu letta la dichiarazione scritta da Emilio: si credette ad un suicidio, e non s'inquietò nessuno.
Matilde, guarita da una breve malattia, fu condotta in altro paese col babbo e i figli dal marito; e a quella villetta i Nori non vennero a scampagnare mai più.
NOTA di trascrizione: sono stati corretti i seguenti refusi:
quell'essere vicino ad estingersi. avevano luogo scene violenti, disgustose, vergognose a prendere da altrui idee, tendenze, abitutudini, a chiave. Emilio stette un momento esistante nuovo impeto il giovane. Dimmilo francamente, Quella sera, entrandon el salone di casa X…, da ottenere la stima a l'affetto di tutti.
End of Project Gutenberg's La testa della vipera, by Vittorio Bersezio