Title: Damiano: Storia di una povera famiglia
Author: Giulio Carcano
Release date: April 26, 2008 [eBook #25178]
Most recently updated: January 3, 2021
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)
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1850
L'Autore.
Mi ricordo, Zio, che ne' miei primi anni, sotto il pergolato del nostro piccolo giardino, all'ora del tramonto, o presso il focolare nelle sere d'inverno, al tornar dalla caccia in compagnia di mio padre, vi piaceva trattenervi a raccontar con semplici e animose parole il tempo passato; quella età meno trista della nostra, quando un po' di gloria almeno non ci era negata.
Io non li vidi que' giorni così pieni di vita; ma ben so quel che ci hanno fruttato. Ed ora, rileggendo questa storia, da qualche anno dimenticata fra gli scritti miei, parmi che l'angustia e l'inutile tormento dell'oppresso Damiano riflettano in parte ciò ch'ebbe a patire una gioventù che a sè dinanzi nulla scorgeva ancora. È storia di povera gente, della famiglia d'un soldato di Napoleone.
A voi, veneratore del Grand'Uomo, il quale sarebbe stato, per verità, più grande se avesse saputo essere italiano, a voi offro questo libro. Esso vi dica come l'onorando vostro nome viva nel mio pensiero.
Dicembre 1850.
Capitolo Primo.
Di là dal ponte di San Celso, in quelle parti che conservano ancora la buona popolar fisonomia della nostra vecchia Milano, una strada solitaria, a traverso di campi e d'ortaglie, conduce da quello all'altro sobborgo della porta Vigentina, poco stante dalle mura della città. È quella che chiamano strada di Quadronno; ma, quantunque io soglia con amore frugar nelle cronache e nelle descrizioni di Milano, non andrò in cerca dell'origine di codesto nome, con buona pace de' dottori ed antiquarii che ne storpiarono, nei loro polverosi e tarlati volumi, non so che strane e stiracchiate spiegazioni, le quali troppo danno a pensare. Ma, per chi nol sapesse, dirò che il giovine innamorato, l'amico della solitudine e il dabben cittadino che brami un po' di cielo aperto, un po' di verde, o di silenzio campestre nel cerchio delle mura, si piacciono non di rado di andar seguitando per quella deserta e tortuosa via i sogni de' lor pensieri, le imagini dorate dell'avvenire.
Era il 4 di maggio del 1831.
E nella vigilia di quel giorno che, dieci anni innanzi, aveva veduto in mezzo all'Oceano, là sopra il deserto scoglio di Sant'Elena, l'ultima
«Ora dell'Uom fatale»
nella vigilia di quel giorno, uno degli oscuri eroi del popolo, un velite di Napoleone, avanzo di cento battaglie, moriva povero e abbandonato, in una casipola della disabitata strada di Quadronno.
Il sole, tramontato appena dietro le maestose e lontane cime del monte Rosa, rifletteva una luce fuggevole sulle candide e leggiere guglie del Duomo; ma vestiva d'un raggio più sfavillante e quasi di fuoco l'aurea statua della Madonna che dalla guglia più sublime pare invocar la protezione del Cielo sull'ampia sottoposta città. E la città, prima di riposare nel silenzio della notte, brulicava di mille romori; mentre, a poco a poco, andava ravviluppandosi in un interminato velo di nebbia trasparente e sottile, fra il quale scintillavano le prime stelle.
In quell'ora, una piccola processione di buona e povera gente, gli ultimi che s'erano indugiati nella chiesa dopo la benedizione della sera, era uscita divotamente, ma con passo affrettato, dal portico del tempio di san Celso, accompagnando il prete che portava Cristo in sacramento. Andavano alla dimora di un loro fratello; e salmeggiando camminavano lungo il marciapiede, per evitare il rincontro d'alcune signorili carrozze, che dal consueto giro del dopo pranzo sulle mura, passando via rapidamente per quel poco frequentato sobborgo, riconducevano le annojate signore al palchetto del teatro o all'elegante ritrovo de' circoli serali.
Al rintocco del campanello del sagrestano, alcuni onesti vecchi, alcune donnicciuole soffermavansi lungo la via, e, mettendosi dietro al sacro baldacchino, accrescevano il numero di quell'umile corteggio del Signore. Gli uomini si scoprivano il capo, le donne e i fanciulli inginocchiavansi, al passare del Sacramento, sulla porta delle case, sull'entrata delle botteghe; e a mano a mano che la pia turba veniva innanzi, vedevansi sui terrazzini, sui davanzali delle finestre d'ogni casa, a ogni piano, comparir lumi in segno d'onore e di divozione; nè finiva di passare che s'udivano le buone vicine domandar l'una all'altra dove ed a chi mai portassero in quell'ora il Signore.
La piccola processione svoltava nella strada di Quadronno. Quella via fiancheggiata da poche e malandate case qua e là sparse a gruppi, e per buon tratto listata da un fossatello d'acqua verdognola e lenta, andava grado grado rischiarandosi per la malinconica luce de' ceri e delle lanterne che circondavano il sacerdote, e che mettevano un fuggitivo bagliore sulle muraglie della via, o brillavano in mezzo all'opaco verde delle siepi, e riflettevansi via via entro al morto rigagnolo. Il prete aveva intuonate le litanie de' Santi; e ad ogni santo ch'egli invocava, la turba rispondeva con monotona e mesta voce: Prega per lui.
Nelle grandi città, sotto il maligno influsso dell'abitudine che genera tirannia di costume, indifferenza e noja, si guasta per lo più il senso dilicato del cuore; cosicchè, alla presenza delle mistiche e commoventi funzioni della Chiesa, invece di sollevarsi all'infinito, l'animo si rannicchia nella picciolezza dell'egoismo; nè comprende quanta verità e quanta bellezza vi sieno nelle più semplici e comuni solennità di una religione che benedice la culla e la fossa, e così santifica del paro la vita e la morte. Pure, quando appena si senta il mistero delle cose, non si può non esser compresi di una viva commozione a queste umili e sublimi scene che ci passano quasi ogni dì sotto gli occhi. È l'ultima visita d'un Dio al letto dell'uomo che muore. In quel punto che il passato non è se non la memoria d'un sogno, e il presente un gemito prolungato dell'umano dolore che vede la sua fine e la teme; in quel punto in cui gli uomini ci abbandonano, è il Signore che viene a visitarci; e nell'ultimo giorno di questo cammino mortale ci dona il pane della vera libertà. E l'uom del Signore s'accosta colle medesime consolazioni e promesse così al padiglione del letto reale, come al giaciglio del mendicante; con le medesime parole d'amore e di pace pone l'ostia della riconciliazione e del riscatto sulle labbra del giusto che passa nel domestico letto, e su quelle dell'assassino che sta per salire la scala del patibolo. Così la Religione dice la prima e l'ultima parola al figliuolo del dolore.
Ma già, per quella tortuosa strada, era venuto il fedele corteggio alle poche abitazioni aggruppate a mezzo del quartiere, e passando dinanzi un umile antico oratorio e l'attigua piazzetta, si fermava al limitare d'una casa più meschina, più bassa dell'altre, dalla larga tettoja che piovendo all'infuora nascondeva quasi le poche e ineguali finestre. Da' piccoli vetri cadenti d'una di quelle finestre, traspariva un lume fioco e tremolante.
Coloro che accompagnavano il Sacramento, si posero ginocchioni in fila, sotto al portone di quella cadente casa, da' due lati d'un andito oscuro; e il prete s'avanzò nel cortile, preceduto dal sagrestano e da un cherico, seguito da quattro o cinque vecchi che portavano i ceri benedetti. Salirono per una stretta ed erta scala di legno alla stanza dell'infermo.
L'uscio, che rispondeva sulla loggia, era aperto; e dalla soglia due giovinetti venivano a rincontro del ministro del Signore. Uno di que' giovinetti, il minore, piangeva forte; l'altro era smorto e ma non dava segno alcuno di dolore.
Attraversata la prima camera, il prete entrava in quella dell'infermo. Un vecchio tutto calvo, con lunga barba e mustacchi bianchi, con gli occhi fissi, incavati, con la morte già dipinta sulla faccia, levandosi da sè medesimo a sedere sul basso e scomposto lettuccio, alla vista del Sacramento, alzò la testa e le mani verso il cielo; e quasi risentendo vigorìa di giovinezza, si sostenne ritto sulla persona al cospetto del sacerdote, aperse a stento le pupille fiammeggianti ancora d'un lampo di vita, e cominciò con voce tremola ma chiara: —Sono dieci anni quest'oggi che anche lui è morto così!—Indi, fattosi lentamente il segno della croce, lasciò cader le braccia sulle coltri e la testa sul petto, chiuse gli occhi e stette immobile, senza respiro; pareva cadavere.
Il vecchio soldato di Napoleone aveva voluto vestire per l'ultima volta la sua antica assisa di velite, quell'abito di bianco panno dalle risvolte e da' paramani verdi, sotto al quale batteva lento e tranquillo ancora il suo cuore, come nei giorni della battaglia; all'occhiello dell'assisa pendeva un nastro di color verde e rancio, l'unico, il più prezioso giojello ch'egli avesse posseduto al mondo, l'insegna cavalleresca della corona di ferro. Sulla coltre, da una parte posava il crocifisso; dall'altra la spada, che da anni ed anni lasciava appesa nella corrosa e ammuffita guaina a lato del capezzale, e che venuto alla sua estrema giornata volle tenersi più vicina, come l'ultima memoria della passata vita.
Stavano alla destra del letto, inginocchiate sul nudo terreno, alcune donne. Fra loro, la moglie e la giovinetta figliuola dell'infermo; quella, abbandonata sulle ginocchia, accosciata per la stanchezza del dolore, e col volto bagnato delle lagrime scorrenti; questa, umilmente composta in atto di preghiera, accanto alla candela benedetta che ardeva da un lato, e tutta rassomigliante ad uno di que' serafini che vediamo effigiati ne' quadri dei nostri antichi pittori; bella quantunque pallidissima, spirante in ogni atto una calma rassegnata, un non so che di paradiso. E dietro alla madre e alla figlia, si tenevano rincantucciate due o tre buone femmine del vicinato, accorse per ajutarle in quel giorno della disgrazia. Dall'altra parte del letto, inginocchiavansi i due figliuoli, que' giovani che poco prima eran venuti ad incontrare il santo viatico: il minore non piangeva più, ma seguiva cogli occhi ogni moto del sacerdote; il maggiore invece non li distaccava mai dalla paterna faccia.
Il sacerdote, entrando, aveva pronunziato il saluto che il rito della Chiesa prescrive: Pace a questa casa!—Al che il sagrestano coi fedeli: E tutti coloro che vi abitano.—Poi, mentre il cherico, spiegato il candido corporale su d'una piccola tavola, accendeva due sacri ceri, il sacerdote vi posò la piscide; e facendo coll'aspersorio dell'acqua lustrale un segno di croce sul letto e sugli astanti, li benedisse colle parole del profeta:—Aspergimi coll'isopo, e sarò mondo; lavami e più che neve sarò dealbato.
Il vecchio riaperse gli occhi, ma trasognato, e come ignaro della mistica cerimonia che s'apprestava; colle dita convulse stringeva ora la spada, ora il crocifisso. Orava il sacerdote, e benedicendo un'altra volta il malato, tolse dalla piscide e sollevò in faccia a lui l'ostia divina.
Il velite si riscosse, guardò i suoi figliuoli ad uno ad uno, congiunse le mani, e mormorò quasi parlasse con sè medesimo: Era meglio vent'anni fa! Ma quando il prete, chinandosi sul letto e pronunziando le parole del mistero, gli ebbe pôrta la particola, rispose con voce forte e sicura: Così sia!—
Orò di nuovo il sacerdote; e detto agli astanti: Andiamo in pace, nel nome del Signore—ripigliò il sacro vase d'argento, poi, benedetto il morente fratello, si partì coi pochi fedeli.
E nella stanza, appena che si rimisero in via e che, nel seno della notte, allontanandosi a poco a poco, svanirono le voci della turba salmeggiante, fu una pace, un silenzio non interrotto; come se in quel letto più non giacesse un uomo all'ultima sua notte. La madre e i tre figli stavano tuttavia inginocchiati al luogo stesso; gli occhi del vecchio s'eran richiusi; ne più s'udiva che il greve e affannato suo respiro.
Passata che fu mezz'ora, l'infermo tornò a sollevarsi da sè; e facendo un piccolo cenno della destra, disse:—Damiano!
Era il nome del suo figlio maggiore. Il quale chinandosi sopra di lui, e stretta con immenso affetto la sua mano, v'impresse caldi baci, e se la mise sul cuore per riscaldarla; poichè quella mano era fredda.
—Mio Damiano, mio figlio! così il vecchio soldato, con voce piana e grave: Ho veduta mille volte la morte in faccia, ma non ho sentito mai quello che sento in quest'ora. Io non son più Vittore, non son più nulla per voi….
—Padre mio!…. lo interruppe il giovine.
—Lasciami dire! La mia strada l'ho compita; fu lunga anche troppo…. Oh! io non doveva morire così miseramente in un letto, come un vecchio che ha paura…. Quando penso che anche quell'uomo, ha finito come me!… oh! almanco, di qui a poco, Vittore potrà forse rivederlo.
Tacque un momento; e gli astanti ben comprendevano ch'egli, al suo costume, voleva parlar di Napoleone.
—Ora, tocca a te, ripigliò: tu hai ad essere il capo della famiglia, il padre di tuo fratello e di tua sorella, il compagno di tua madre. Povera donna! m'ha voluto sempre bene; e io non ho fatto nulla per essa, poco per voi. Vecchio torbido, impaziente, ostinato nelle mie idee, nelle mie inossite usanze della caserma, non ho più potuto rifarmi a' mestieri del dì d'oggi; e per questo vi lascio, poveri come v'ho messi al mondo. Ma se i preti non ci sono per niente, e s'è vero quel che vengono a dirmi, che Dio perdona a tutti, perdonerà anche a me. Ah! l'avessi lasciato anch'io a tempo il mio posto al mondo, non sentirei quello che adesso mi sta sull'anima…. Ma tu, Damiano, tu farai meglio di me.
Il giovine proruppe allora con doloroso impeto:—No, no! Il Signore è buono, il Signore avrà compassione di noi, e non vi torrà così a' vostri, alla vostra casa!
—No, è cosa finita! tornò a dire l'infermo: è meglio così, perchè ormai io v'era d'impaccio, e buono a nulla; come que' poveri diavoli de' feriti in una ritirata. Ma almeno, lo conosco, Damiano, il tuo cuore; so che cosa saresti stato in un altro tempo; in mezzo agli uomini d'adesso, si marcisce, non si vive. Ricordati di tuo padre; egli avrà forse il suo grosso conto da accomodare di là; perchè vide momenti terribili, cose che al mondo non erano mai succedute: ma se non ti lascia altro, ti lascia la sostanza del povero che camminò sempre con fronte levata, in mezzo a tutti i guai della vita; e devono valer qualche cosa, in nome di Dio! la buona coscienza, e il buon nome.
Pareva impossibile come il vecchio avesse ancora in sè stesso quella forza, con cui pronunziava queste parole. Damiano le ascoltava riverente, e pur frenavasi dal piangere; ma il suo minore fratello, che fino allora aveva pianto tacitamente, cominciò a singhiozzare; e, per soffogar quello schianto del cuore, nascose tra le mani il volto e tutto si abbandonò sul letto di suo padre. Intanto, fatta già insensibile dallo stento del vegliare, dall'angustia e dal patimento, la moglie di Vittore cadeva tramortita sul pavimento; e se la figliuola, quella creatura che pareva veramente l'angelo della pietà nella famiglia del dolore, con un vigor più grande dell'età sua, non l'avesse sollevata e posta a giacere sulla prima seggiola che le venne trovata, il suo svenimento avrebbe forse potuto raddoppiare una imminente sciagura.
L'ammalato, per buona ventura, non se ne accorse: pareva assorto in profondi pensieri; e, stese le mani, stringeva con l'una quella del suo maggior figliuolo, posando l'altra sulla bionda testa del minore. Damiano nutriva ancora in cuore un poco di speranza. Vedendo il padre rianimarsi, come per miracolo, dopo il continuo torpore di giorni e settimane, confidò che il cielo avesse a prolungare ancora per alcun tempo quella vita cara. Udendolo parlare a lungo, con insolita calma, con una dolcezza d'affetto che ben di rado gli era uscita dal cuore, credè che tutto non fosse ancora perduto, e si arrischiò di dire:—State quieto; e non vi tormentate così coi pensieri, non parlate di morire….
—E che importa, o Damiano? il vecchio riprese. Meglio oggi che domani; la vita che passò mi somiglia un giorno. Solo, ti torno a dire che sarei morto più contento, se avessi potuto darvi uno stato, a voi altri due poveretti: e quest'è la mia spina. Di te, Damiano, mi duol meno, chè, lo so bene, non avrai bisogno di nessuno; ma il povero Celso, ancora fanciullo…. I cuori timidi e semplici come il suo, son quasi sempre vittima de' furbi, o de' prepotenti. Basta, a te lo raccomando; so che vi amate, e tu penserai a lui, alla povera vostra mamma, ed alla mia Stella, che sarà il vostro angiolo custode!
Questa interna fatica dell'affetto consunse la lena dell'infermo; e lo sforzo di dire per l'ultima volta ciò che gli stava nel cuore, lo fece ricader gravemente sul letto, arrovesciata la calva testa sugli scomposti cuscini, le braccia pesanti, irrigidite, e tutta la persona abbandonata, distesa, quasi che la morte fosse già venuta. Damiano, fatto pallido come il padre suo, toccò, cercò i polsi di lui; ed eran muti. Nulla disse; un brivido gli corse per l'ossa, posò tremando la destra sul cuore paterno. Il cuore del vecchio soldato batteva ancora; caduto in un sopore tranquillo, l'ora terribile non era ancora suonata per lui.
Appunto in quella, sopraggiunse il medico; il quale, passando a caso per la via, era salito a vedere se l'ammalato da lui già dato per morto fin dalla mattina, respirasse tuttavia. Entrò con passo grave e tardo, tenendosi il cappello in testa: era uno di que' medici, che nella stanza del povero recano la schifiltosa albagìa della scienza, e il conforto, o piuttosto lo scherno, d'una sentenza dottorale, caduta loro di bocca come per caso. Diede una fredda occhiata all'infermo assopito, alla famiglia che piena d'ansietà s'era stretta d'intorno a lui; poi, accostando una candela accesa alle labbra del pover'uomo, nel veder la fiammella che agitavasi, disse:—Non la vuol finir così presto come credevo: non per niente furono le membra di quest'uomo temprate ai ghiacci della Russia. Eh via, non mettetevi a piangere voi donne, che non è tempo ancora; lasciatelo in pace, egli dorme. Ma io per me, non ho più nulla a far qui; se domandasse a bere, dategli di quella pozione di che vi lasciai la ricetta stamane: è un sedativo.—Così detto, se n'andò, non senza dare uno sguardo d'ambigua significazione alla Stella, che sollevando a lui gli occhi pieni di lagrime, pareva aspettasse dalle sue parole la grazia domandata al cielo. Quel signor dottore era uno scapolo di quarant'anni, che si teneva in pregio come buongustaio di bellezze, e non isdegnava di occhieggiare a quando a quando que' modesti fiori che l'esercizio della sua scienza severa gli faceva talvolta incontrar nel cammino.
Capitolo Secondo
Un'ora di poi, tutto era silenzio nella casa. Le donne con Celso, s'erano per un poco discostate nell'attigua camera, più squallida e nuda dell'altra, ove non si vedevano che due letti, chi sa da quanto tempo non tocchi, e alcune seggiole scompagnate. Sedettero, riguardandosi senza parlare, teso l'orecchio al più lieve movimento che si facesse nell'altra stanza; finchè, a poco a poco, la stanchezza del dolore e un sonnecchiar breve, interrotto, li apparecchiavano a sostenere il colpo pur troppo aspettato. Damiano volle rimanersi al suo posto, a veglia del padre.
Il lume della candela benedetta mandava un tremolo raggio sulla fronte del vecchio addormentato. E Damiano solo, immobile, pensava al padre, al domani, alla dolorosa battaglia della vita, alla tremenda verità della morte.—Gran Dio! diceva nel cuore, quanto è grande il carico che mi volete dare! L'anima mia si perde; ma Voi, Voi solo potete inspirarmi l'amore e la fede!
In quel momento, un colpo battuto con cautela all'uscio della casa, destò l'attenzione del giovine. Corse a veder chi fosse; e di subito rientrò pian piano nella stanza, accompagnato da un uomo, che ne veniva appoggiato a una grossa canna d'India, ed era molto innanzi nell'età. Costui, togliendosi il cappello bianco a larga tesa, s'avanzò guardingo fino al letto di Vittore; e fattosi puntello del bastone su cui intrecciò le mani rugose, stette a contemplarlo fisamente. Quel vecchio mostrava più anni che non l'uomo ch'egli vedeva morire; in altro tempo, in mezzo alle battaglie e alle vittorie, era stato il fratello d'armi di Vittore. Tanto tempo era passato; morti l'un dopo l'altro quasi tutti i loro antichi compagni, quei figliuoli delle guerre di Napoleone, i quali avevano diviso con lui la grandezza del pericolo e la grandezza del trionfo; i pochi avanzi della Russia sparsi qua e là, nelle città, nelle borgate, poveri, oscuri; languenti d'inedia o di cruccio nelle anticamere, nelle officine, nelle capanne, in mezzo ai solchi; ultimi testimonii, anzi ombre viventi di una gloria che i figli de' nostri figli forse non crederanno vera; tutto era passato per questi uomini di un'altra età. Quanti diversi pensieri, in quell'ora, vicino a quel letto di morte, agitavano l'anima di Lorenzo, l'antico granatiere della guardia reale, ch'era venuto a salutare, per l'ultima volta, il velite amico suo!
Vittore, alcun tempo di poi, riscosso dal lungo sopore, metteva un sospiro penoso; e volgendo intorno gli occhi vitrei, infossati, li fissava nel volto di quel nuovo venuto che immoto lo contemplava. E con mesto sorriso, come seguisse il filo delle memorie che avevano tessuto il suo sogno di quell'ora:—O Lorenzo, disse, che begli anni furono quelli! Ti ricordi d'Imola, delle sponde del Cenio?
—Se me ne ricordo? mi pare jeri. Fu la prima nostra campagna, da che n'andammo semplici volontarii all'armata d'Italia: disse con fuoco l'antico granatiere.
—Era nel marzo del 97. Io avevo trentacinque anni, e il mondo mi pareva tutto mio!…. lo interruppe malinconicamente l'infermo.
—Io toccava i quaranta; ma il mio cuore era giovine: riprese l'altro. Non t'è presente ancora il dì della prima battaglia, e quell'orrendo temporale che ci venne addosso la notte innanzi, là sulle rive del fiume, in faccia al nemico che ci contrastava il passo? La nostra legione vedeva il fuoco per la prima volta…. Ma non abbiam dato addietro un passo, noi…. te ne ricordi?…
—Oh sì, lo vedo ancora quel giorno; e parmi d'essere là….
—La nostra legione, in colonna serrata, ebbe ordine da quel dannato di Lahoz d'attaccare alla bajonetta le batterie papaline…. Io non so quello che fossi diventato quel giorno; ma il fuoco, il fumo, i morti non mi spaventavano più; noi corremmo addosso, come leoni, a quelle bocche d'artiglieria…. Di', non le hai ancora negli orecchi le parole scritte nell'ordine del giorno dal Grand'Uomo, quelle parole che la storia non cancellerà più?….
—Sì, sì! disse il malato: »Questa legione, e parlava di noi, che vede il fuoco per la prima volta, si è coperta di gloria….
—Essa, seguì l'amico, s'impadronì di quattordici pezzi di cannone, sotto il fuoco scagliato da tre o quattromila uomini trincierati.
Il vecchio granatiere piangeva, parlando dell'antico fatto; e il velite infermo, tornando indietro di trent'anni e più nella vita, dimenticava i suoi mali, dimenticava quell'ora che già stava sopra di lui. Allungò la destra fuor delle coltri, e con moto convulsivo sollevando la spada che posava tuttora sul letto:—Da quel giorno, disse, i nostri cuori, o Lorenzo, furono uniti, come la mia mano a questa spada. E quando dalla Romagna, la nostra legione andò a rinforzare il corpo di Guyeux, sul Tagliamento? Fu allora che noi vedemmo la prima volta Bonaparte…. Passò a cavallo, vicino alle nostre file, in mezzo a una nube nera, la spada in alto, calcato sugli occhi il cappello e i lunghi capegli sbattuti indietro dal vento…. Gridò: Avanti, e passò. Noi gli teniam dietro: una bomba scoppia a due passi da me; colto qui nel braccio da una scheggia infocata, cado per terra; e tu mi raccogli, Lorenzo; e sollevandomi di peso, vuoi ch'io non resti indietro nella vittoria. Ah! l'ho veduto anch'io quel giorno! l'ho veduta quella bandiera piantata di là dall'Isonzo!…. Posso ancora morir contento.
—E Gorizia?… ripigliò Lorenzo, animato dalle parole del vecchio commilitone, dimenticando che quella era l'ultima notte dell'amico suo. Che bujo d'inferno, quando ci mettemmo dentro al paese, al lampeggio delle archibugiate, snidando colle bajonette que' che non erano fuggiti!… E quella povera madre, con due bambini in collo, me la vedo ancora dinanzi, abbracciarmi piangendo le ginocchia, là sui barcollanti scaglioni della sua cadente catapecchia! E San Daniello?… e Osopo?… e Gemona?
—Io era alla vanguardia, seguì l'infermo, quando c'inviammo per le orride gole dell'Alpi tirolesi. Non passava quarto d'ora, che non mi trovassi la morte di faccia, ai fianchi, da ogni parte; e parecchi li ho veduti io, colti dalla palla d'un invisibile moschetto, piombar giù rotoloni ne' precipizj; e al loro grido disperato rispondere l'urlo di gioja del montanaro. Oh! lo sento ancora, quel povero Antonio, il mio fratello di latte, chiamarmi per nome nell'andar giù…. Allora, lo confesso, non potei a meno di guardarmi indietro, e rasciugarmi col rovescio della mostra una lagrima. Fu un vezzo che passò presto; e dopo una settimana, vi era usato come a un buffo di vento….
—Era proprio così. Avevamo il cuor forte, ma non cattivo; e ci credevano demonj incarnati. E la gioja di poterne risparmiar qualcuno? più di cento volte lo feci, e fui benedetto. Anche tu, mio Vittore, anche tu avesti il cuor buono e forte.
—E quel giorno che credemmo di aver tutto perduto per sempre? Lui era tornato in Francia, poi abbandonava noi Italiani, e andava a cercar fortuna in Egitto…. E noi? tornammo poveri e oscuri cittadini, peggio di prima. Ma la mala stagione durò poco….
—E venne giù dall'Alpi, come una valanga, e il 2 di giugno del nuovo secolo entrava in Milano. O campi di Montebello e di Marengo! o giorni di gloria troppo presto passati per noi!…
Così i due veterani di Napoleone, soli, in una povera stanzetta, in faccia d'un piccolo ritratto dell'Imperatore che pendeva sull'opposta parete, ritessevano in quella notte la storia famosa del guerriero, il cui nome corse, più grande di quanti furono, per tutto il mondo. E parlarono ancora d'Eylau e di Friedland, anniversario della vittoria di Marengo, di Friedland, ove sessantamila Russi furono schiacciati: e d'Ulma, e di Vagram, e d'Austerlitz, di Burgos, di Saragozza, di Tarragona, ove fu speso, ma invano per noi, tanto sangue italiano; rammentarono le nevi della Russia, e le rive della Moskowa e la terribile giornata di Malo-Jaroslawetz, poichè là era stato che que' due vecchi soldati ricevettero sul campo di battaglia la croce d'onore e il grado d'uffiziale…. Poi l'incendio del Kremlin, poi la funesta ritirata; numerarono sulle dita, l'un dopo l'altro, quegli anni dileguati come nebbia; ripeterono tanti nomi di sconosciuti eroi; ma quando menzionarono gli ultimi casi, e il Beauharnais e la resa di Mantova, e quell'ultima volta che videro il grand'uomo a Saint-Denis, allora non trovarono più parola.
E guardavansi in faccia l'un l'altro con dolore ineffabile, vivo ancora dopo tant'anni, come parlassero d'una recente sciagura. Ed essi, che forse non avevano mai pianto in vita, cominciarono a versar qualche lagrima in silenzio.
Ma il volto dell'infermo, prima coperto d'un terreo pallore, appariva acceso di una vampa febbrile; e al sollevarsi continuo delle lenzuola si vedeva quasi il violento pulsar del suo cuore. In un corpo men logoro dall'età e dai duri e lunghi travagli della povertà, quella subitana revulsione avrebbe forse potuto prolungare al buon Vittore le ore contate. Ma egli moriva di quella malattia che miete tanta gente del povero popolo, moriva di una lenta tabe, cagionata dallo stento e dalla dura lotta col bisogno quotidiano: così che le poche forze vitali che gli rimanevano, le aveva spese tutte in quell'ultimo colloquio coll'antico suo compagno d'armi.
Era già molto innanzi la notte, e Damiano, fin allora muto testimonio di quella scena, avea fatto prova più di una volta, ma invano d'interrompere le calde e commoventi parole de' due vecchi. Di nuovo s'accostò al letto paterno; e se prima, veggendo destarsi lucida e viva più che mai la memoria di suo padre, non gli era bastato l'animo di troncare il corso alla foga delle sue fantasie, ora al lampo di gioja che vide balenar nel suo volto, tornò a sperare, e con un sospiro a ringraziarne il cielo.
Ma il vecchio invece sentiva a gran passi avvicinarsi la sua fine. Attaccandosi all'amico e al figliuolo, riuscì a sollevarsi di nuovo dai guanciali; e le parole formando a fatica:—Ora, disse, posso andarmene; ho salutato l'amico, ed ho avuta una delle mie ore antiche…. Ricordati, Damiano, di tuo padre!—E altre voci rotte, che molto volevan dire, gli uscivan di bocca:—Il mio nome…. la mia spada… sangue italiano… giura, o mio figlio!
—Povero padre! Esclamò con ferma voce il giovine; so che cosa volete dire e vi giuro….
—Basta, disse Vittore. E vagando in altri pensieri:—Chi m'avesse detto, a me giacobino del novantasei, che avrei finito così!… Meglio se, vent'anni fa, m'avesse portato via una palla di cannone!… Ma vedermi il prete a fianco, i figliuoli a' piè del letto…. oh! morire così è troppo seria cosa….
—Fatti animo, Vittore, l'interruppe con una cotale bruschezza guerresca il vecchio amico; chè in letto non si muore sì presto come nella prima fila d'un battaglione. Tu sei più giovine di me, e vogliam berne insieme qualche mezzina ancora alla memoria di quel tale….
—Zitto!… riprese a stento il malato. Vieni qui, tu, Lorenzo; più vicino…. ho una preghiera a farti.—E aprendosi lo sparato della camicia, tolse fuori un sacchetto di pelle che gli pendeva sul cuore.—Tu lo conosci, Lorenzo! E devi averne al collo il compagno….
—Se lo conosco! è l'ultimo nostro tesoro; è un pugno della cenere di quella nostra vecchia bandiera della Guardia, che bruciammo a Vimercate nel 14, quando ci fu dato l'annunzio che tutto era finito…. Oh! me lo ricordo! tu fosti il primo a portare in piazza una bracciata di rami secchi e a darvi il fuoco, gridando che non avremmo restituite le nostre bandiere!…
—Sì, sì! la lascio dunque a te quest'unica memoria, che avevo pensato di portar con me; sei stato mio fratello, nè voglio andarmene senza lasciarti nulla…. oh sì! l'ultimo che sopraviva di noi dev'essere il custode di questa reliquia.—E levatosi il piccolo involto di ceneri che da diecisette anni sentiva il battito del suo cuore, lo pose nelle mani dell'amico. Poi, con voce che diventava sempre più rotta:—Bada, Damiano, che questa corona d'onore la voglio sul mio petto, anche quando sarò sotterra. Bada che non mi sia tolta quando mi metteranno via; e anche la mia spada, se lo puoi, la poni a canto a me…. son trentacinque anni che mi fa compagnia; e per voi altri, adesso, è un arnese inutile…. Zitto, zitto! non risvegliare nè la Teresa nè Celso, nè la povera Stella… è la Provvidenza che ha mandato loro un po' di sonno…. Addio Lorenzo, addio Damiano….
—Ah! no, non mi abbandonate! Il Signore abbia compassione di noi, proruppe con soffocata angoscia il giovine.
—Che ora è?… disse il vecchio, levandosi ritto a sedere per l'ultima volta.
—È passata la mezzanotte.
—Va bene, Damiano. Siamo al cinque di maggio: son dieci anni che dicono ch'egli è morto…. sono contento di far l'ultimo passo anch'io nello stesso dì! Chi sa che non lo ritrovi lassù, dov'è la giustizia, dov'è il ben di tutti!…
E ricadde, per non rialzarsi più. Cominciò a crescere l'oppressura del respiro; di lì a poco, il singhiozzo dell'agonia, l'immobilità dello sguardo, la persona agitata da tremiti violenti e continui, il gelo delle membra, il sudor della morte, annunciavano a Damiano che tutto stava per finire, che da un momento all'altro non avrebbe avuto più padre. Lorenzo, il soldato che vide le migliaja de' morti, tremava come una foglia a quell'aspetto; ma non seppe staccarsi dal fianco dell'amico; e pensò che il suo dovere gli comandava d'ajutare, di far quel poco che poteva per la superstite famiglia del suo Vittore. E vedendolo morire, giurò a sè medesimo d'adempiere quel compito sacro.
Appunto in quella, la Teresa e i figli, riscossi da un breve sopore, ricomparvero sbigottiti nella stanza del moribondo. E a lui corsero vicino, lo chiamarono a nome singhiozzando: non li udì, non li vide, non rispose più.
Ma la Teresa, in mezzo alla sua disperazione, non perdè l'animo; stringendo la mano a Celso, gli volse un'occhiata dolorosa e significante: egli ben la comprese; e staccandosi dal suo fianco, uscì di corsa a chiamare il prete.
Nell'ora che dal letto impadiglionato del ricco vicino a morte, il freddo zelo degli amici di casa rimove i più stretti congiunti, nè più vi rimane che uno sciame d'avidi servi, ad almanaccar di quanto il padrone avrà lasciato a ciascuno, agognando il momento di vederlo serrar gli occhi, per fare spazzo del poco che la previdenza degli eredi presunti dimenticò ne' cassettoni e negli armadii; nell'ora che l'uomo adulato, imbalsamato in vita dalla turba degli accorti, degli impostori e de' parassiti, vede allontanarsi dal suo letto l'un dietro all'altro, il parente ossequioso, il sollecito procuratore, l'inesorabile avvocato, il notajo inquisitore coll'estremo codicillo, le strane figure de' testimonj, e tutti, tranne l'ultimo prete a cui tocca la vece di raccomandargli l'anima a Dio; non t'incresca di fermarti ancora per poco nella stanza del povero padre di famiglia, il quale visse amato da' suoi figliuoli, e muore circondato da loro. Nessuno viene a turbarli nel compimento di quel dovere, nessuno li strappa da quella camera nuda e fredda già come un sepolcro: il pianto non è che per loro, e sarà l'unica eredità. E piangono da vero, perchè domani non avranno più chi se li tenne intorno per tanto tempo, chi spartì con loro casa, mensa e letto, chi contò per essi soltanto tutti i giorni della fortuna e della disgrazia; e dovranno andarne di qua, di là, senza fiducia di bene, senza certezza di riuscita, a guadagnarsi il pane d'ogni dì, nella bottega, nella soffitta, nel campo, o sulla via: poi, forse si troveranno ben presto un'altra famiglia d'intorno, il sangue del sangue loro; e dovran faticare, morire anch'essi, non lasciando dopo di sè altra cosa che figliuoli e povertà. Ma il Signore che disse: Beati quelli che piangono, tiene conto d'ogni sacrifizio e d'ogni patimento: nella morte almeno siam tutti fratelli; e nude l'anime, quali uscirono dalle mani del Creatore, ritorneranno a Lui.
Lo stesso prete, che al cader del giorno aveva recato alla casa di Vittore il viatico santo, ritornava nel mezzo della notte, seguito soltanto dal vecchio sagrestano e da Celso: egli portava con sè il vasetto dell'olio consacrato, per compiere su quell'uomo venuto al gran punto la mistica estrema unzione. Chi fu testimonio una volta sola di così solenne e pietoso sacramento di perdono e di riconciliazione, e non adorò il mistero che congiunge il corpo allo spirito e la vita all'immortalità?
Benedisse coll'aspersorio dell'acqua santa il letto e gli astanti all'intorno inginocchiati; poi allungando la destra sopra il morente vecchio, il prete proferiva le parole del rito:—«O Dio, Padre onnipotente! Dio d'Abramo, Dio d'Isacco, Dio di Giacobbe, che abiti nell'alto e riguardi gli umili, riguarda a codesta imposizione delle mani che facciamo sul tuo servo; e codeste mani abbiano virtù sullo spirito suo.»
E dopo ch'ebbe pregato, intinto il pollice nell'olio santo, unse in forma di croce gli occhi, gli orecchi, la bocca, le mani, e i piedi del vecchio, invocando, ad ogni volta, che la misericordia del Signore vi cancellasse la traccia del peccato, e facesse degna quell'anima cristiana dell'eterna sua destinazione.
Poi seguiva dicendo: «Riguarda, o Signore! Tu che hai pietoso affetto per la tua creatura, inchina l'orecchio alle nostre orazioni; mira placato il tuo servo che giace affaticato dalla malattia; tu lo visita nella tua salute! Non ricordarti, o Signore, dei delitti del tuo servo, e non voler fare vendetta dei peccati suoi! Salva il tuo servo, o Signore, mio Dio, il tuo servo che spera in te!»
Trascorse un'altra ora; e il sacerdote non si staccò dal letto, ma cominciò a leggere sul rituale sommessamente i salmi della penitenza e le litanie de' Santi; nel mentre che la famiglia prostrata non ardiva quasi respirare, per non turbar col pianto o col singhiozzo la presenza del ministro di Dio, in quel gran momento.
Ma ormai, veggendo che l'ultimo spazio di vita era consumato, il prete, inchinatosi sul moribondo Vittore, con voce lenta e mite continuò: «Vale in Cristo, la pace sia con te! Parti, o anima, da questo mondo, nel nome di Dio Padre onnipotente che ti ha creato, nel nome del Figlio che ha patito per te, nel nome dello Spirito Santo che in te discese; nel nome degli angioli e di tutte le anime sante care a Dio. Oggi sia nella pace il tuo luogo, e la tua casa nella celeste Gerusalemme.»
L'agonia del vecchio si faceva sempre più dolorosa; e pareva che la morte non potesse vincere un uomo indurato a tante prove. Immobile, colle braccia in croce sul petto, la fronte trasudata e grondante, le pupille sbarrate e mute nel nero cerchio delle occhiaje, contratte le labbra, le mani istecchite, livide l'unghie, e tutto della persona sfinito e perduto, quell'uomo sosteneva ancora la lotta dello spirito colla carne. Ma i momenti precipitarono: egli ebbe un altro pensiero per la terra, il supremo pensiero: girò le pupille all'angolo ove sapeva ch'erano la sua donna e la figlia sua; e in quell'ultima occhiata disse loro l'addio.
Teresa cadde svenuta, e la Stella diede un grido.
—«Accogli, o Signore, proseguiva il prete imponendo le mani sull'agonizzante, l'anima del servo tuo che dal pellegrinaggio sen viene a te; manda i tuoi angioli santi ad incontrarla, che le insegnino la via e le aprano le porte della giustizia….»
L'anima di Vittore era partita. Il ministro di Dio salmeggiò ancora per qualche tempo, e poi benedisse il cadavere. E Lorenzo, il quale, col cappello fra le mani, appoggiato alla sua canna, s'era tenuto nascosto dietro quelli della famiglia, immemore quasi del dove si fosse, si risovvenne allora che a lui toccava di far qualche cosa. Sollevò dal suolo l'una dopo l'altra, le due povere donne e sostenendole con quel poco di forza a lui rimasta, le condusse via, dicendo che la sua unica stanza era aperta per esse.
Uscirono; ma Damiano e Celso vollero rimanere in compagnia del sagrestano presso al padre loro.
La candela benedetta ardeva ancora. E ben presto, i primi albori d'una bella e serena mattina di primavera, cominciavano a rischiarare di luce rosata le finestre della casa; e il primo raggio del sole che penetrò in quella stanza di morte, venne a cadere sul letto dell'estinto soldato di Napoleone.
Era l'alba del cinque maggio.
Capitolo Terzo
Il giorno dopo la morte di Vittore, la Teresa e i figliuoli vollero, senza intender ragione, tornare alla loro casa di Quadronno; chè quasi tenevano un sacrilegio l'averla in que' momenti abbandonata. Il vecchio tenente Lorenzo li aveva fatti padroni della sua deserta stanzaccia; ma ben vedeva che vi stavano a disagio, e ch'era poi tutt'uno; poichè le due donne altra cosa non facevano che piangere e pregare; peggio poi, quando non riusciva a persuaderle che gustassero almeno qualche cucchiajata di minestra.
Quel piangere, quel biasciar rosarii, facevan perder la flemma a Lorenzo, al quale sempre andarono pel verso più i fatti che le parole: ma, buono come era, in cuor suo le compativa, e non aveva mai desiderato, quanto allora, di possedere un po' di ricchezza, per dire a' figliuoli del suo amico: Prendete, mettete la sia roba vostra. Ma non potendo far ciò che voleva, lasciò che la madre e la figlia se n'andassero, anzi le accompagnò egli stesso, alla solitaria via di Quadronno, intanto che Damiano e Celso s'eran dati attorno per quelle dolorose brighe che anche la morte del povero impone ai superstiti della famiglia, subito dopo l'ultima separazione.
La casa dove abitava la famiglia di Vittore non aveva più di cinque stanze anguste, umide, dalle soffitte basse e tarlate; due a terreno, la cucina e un camerotto, in che stavano Damiano e Celso, e tre al pian di sopra; una saletta, se così poteva chiamarsi, poi la camera dov'era morto l'antico velite, contigua a quella della Teresa, e in fondo un bugigattolo, con una finestrina quadrata, aperta a mezza via fra la parete e la tettoja, in forma di abbaìno: era là che fino allora aveva dormito sonni di pace e d'innocenza la Stella.
Quelle stanze eran povere, nude, ma pur decenti; bianche le pareti, vecchia e rada la suppellettile. Era povertà, non miseria; ma povertà non trascurata, non abbietta, anzi nascosta con molta cura da quell'ordine e da quella simmetria con che vedevansi collocati gli antichi arredi della famiglia. Il rozzo pavimento, le tavole, i due armadii, e l'unica modesta specchiera e il quadretto ov'era il ritratto di Napoleone, ogni cosa appariva linda, assettata come il primo dì ch'era venuta in casa. Ma nulla di soverchio, nulla che annunziasse pur l'ombra o la memoria d'una miglior condizione passata. Chi appena ponesse il piede in quella dimora, doveva dire: Qui stanno umili e oneste creature, degne d'una sorte migliore; è l'asilo della povertà che non conosce sè stessa.
Le donne, rientrate appena, si affaccendarono a mettere in ordine mobili e letti e l'altre cose, come se nulla fosse succeduto. Solo la stanza del vecchio soldato era vuota; e sullo sporto del camminetto in quella stanza più non si vedevano due candelieri d'argento, ultimo resto del lusso della famiglia, i quali avevano servito a pagare la spesa della modestissima esequia, e l'elemosina d'alcune messe di suffragio.
Abitavano da vent'anni in quel quartiere, che rassomigliava a tanti altri, ove dimorano tuttodì le famiglie popolane, quando guadagnansi da vivere per la via del lavoro non avvilito. Queste buone e sconosciute famiglie fanno la più gran parte della nostra popolazione; e in mezzo a loro si nascondono tante umili e vere virtù, tanti sagrificj, tante prove di coraggio, d'onore, di patimento e di grandezza! E così crescono di continuo all'industria, alle arti, al piccolo commercio, a' mestieri i più comuni e i più neccessarii tante creature che nella loro vita non vedranno forse il sole se non attraverso le grosse inferriate del fondaco, e dell'officina, o sul limitare della bottega, o dietro una finestra da' piccoli vetri verdastri; così nascono e muojono, oppressi dalla moltitudine che loro si agita d'intorno, dalla crescente tirannia del bisogno, consunti dall'impeto di tanti cari e nobili affetti soffocati nel cuore, dalla mancanza di spazio, d'aria, di cielo, mietuti innanzi tempo dalla ferrea neccessità di soffrire e tacere, uomini che potrebbero pure sollevarsi coll'anima fino alle più alte verità e spendere il sangue per il bene di tutti; solitarii, sconosciuti genii che non trovano chi stenda loro una mano, chi abbia una parola d'amore e di conforto, chi vegga nell'umiltà loro una ragione di più per venerare l'altezza dell'intelletto, chi li addirizzi a tempo sulle vie sublimi dell'arti, di cui sanno pure antiveder da sè stessi il fine unico e civile. E passano così al pari d'ombre malinconiche e perdute, senza che nessuno ripeta i loro nomi o cerchi qualche volta le poche orme che lasciarono sulla terra.
Pure, gli onesti amici del vero, che non vanno tronfii di esser filosofi e veggenti, ma rintracciano il bene e lo amano per sè stesso dovunque lo ritrovino, van nutrendo in mezzo a questa ingenua e forte generazione per tanti secoli dimenticata, il prezioso germe dei diritti e dei doveri, gli uomini d'un tempo migliore. In mezzo di loro, il poeta sorge più animoso, inspirandosi all'armonia della virtù civile e della forza morale; a loro domanda il filosofo fede, aspettazione di verità e di giustizia; poichè in ciò solo è posta la ragione di quanto fanno o piuttosto debbono fare gli uomini. Imparate dal popolo il coraggio di soffrire e di combattere senza stancarsi mai; e la virtù di risorgere, oppressi, e di non disperare, caduti. Interrogate le usanze, i costumi, le tradizioni, le credenze, i pregiudizj stessi del popolo, ed esso vi parrà sempre più grande; chiedetegli, se bisogna, i più dolorosi sagrificj, secoli interi di prova e di sciagure, e lo troverete sempre lo stesso; la sua fede nel bene non verrà meno mai.
La fraternità de' pensieri, l'esempio dell'amore e dell'amicizia, e la confortatrice parola della virtù non hanno mistero. Convien sedere presso il focolare della famiglia, entrar nella chiesa e nel cimitero in compagnia de' poveri; bisogna confondersi nel tumulto delle feste popolari, mettere i nostri fratelli a parte di quella luce di conoscenza e d'affetto che sentiamo dentro di noi; bisogna, in una parola, amare ed operare. Ma l'andar così meditando dietro ad un pensiero che cento altri ne sveglia, già troppo mi dilunga dall'umile scena del mio racconto.
La sera medesima di quel dì che la famiglia di Vittore era tornata a casa, la Teresa e i figliuoli sedevano mestamente nella stanza paterna, come in luogo sacro. Avevano pregato insieme, e scambiavano alcune meste parole, ma senza piangere: sentivano, dopo la divota comune preghiera, una calma rassegnata, una consolazione che altra cosa al mondo non può dare.
Quelle anime oneste e nuove alle dure lezioni della vita non guardavano ancora nell'avvenire. Ma Damiano ci pensava.
Damiano, divenuto oramai capo di casa, era seduto da un canto, colla testa china sulla spalliera della seggiola. Alto e snello della persona, v'era nella sua postura di quel momento un indizio di preoccupazione e d'abbandono, che non rispondeva alla vivace espressione de' suoi occhi e delle sue pallide sì ma tranquille sembianze. I capegli neri e lisci gli ombreggiavano la fronte, e sulle sue labbra, sormontate appena dal primo pelo, errava incerto e amaro quel sorriso che non sai se indichi ironia di dolore, o interna soddisfazione di poter vincere la guerra dell'animo. Egli andava vestito di nero; modesti gli abiti assai, ma li portava con non so qual naturale lindura; e il corto soprabito abbottonato fino al collo, e il fazzoletto con trascuranza annodato facevano spiccare di più il pallore dei suoi lineamenti e l'amarezza di quel suo indicibile sorriso.
Damiano aveva tocchi appena i diecinove anni: poichè era nato nell'anno della fatale spedizione della Russia, e propriamente un mese dopo partito per l'esercito il padre suo; il quale, comechè portasse di già i mustacchi bigi, aveva voluto prender moglie quando tutti i cannoni del regno, nel marzo del 1811, annunziarono che all'Imperatore era nato un erede. Ma il buon velite aveva scambiato con le dure marcie sulle nevi del settentrione la contentezza di prendersi fra le braccia, appena nato, il suo primogenito. Quel bambino, divenuto poi un fanciullo ardito, avventato, era stato la consolazione di Vittore ne' giorni tediosi, quando, mutata la scena, cominciò a rimpiangere il passato. Ora, il giovinetto non era più quello di prima: ora s'è fatto un uomo.
Quella sera egli pensava a tante cose, che per la prima volta gli apparivano chiare alla mente. Vedeva l'avvenire di sua madre, di sua sorella, del fratello minore, vedeva quelle vite a lui così care, attaccate a così lontane e dubbiose speranze! E poi, le cure divenute più che necessarie, per assottigliare di più, s'era possibile, lo spendio quotidiano della famiglia; la spina d'alcuni debiti vecchi fatti da suo padre, per provvedere alla prima educazione di lui e di Celso, ne' momenti di maggior povertà; il sacro obbligo di risparmiare, per quanto poteva, almeno per allora, la conoscenza delle angustie ond'erano minacciati d'ogni parte; e la memoria dell'illibato nome paterno; e le nascenti difficoltà di trovar subito un sostentamento della vita, senza gittarsi, come pur troppo temeva di dover fare, al primo mestiere capitato; per giunta a ciò, le ragioni da rendere alle persone del tribunale, che avevano già fatto i preliminari comandati dalla legge affine di esporre in faccia al giudice pupillare la povera condizione della famiglia; e sopra tutto, il pensiero del domani, inflessibile, oscuro che gli ripeteva: bisogna guadagnarsi il pane! questi dolori, e ben altri ancora, pesavano sull'anima di Damiano.
Sua madre, donna semplice e dabbene, che nel marito e ne' figliuoli ebbe tutto il suo mondo, che aveva amato, sperato e vissuto soltanto in loro, pareva aspettasse da Damiano quella forza che non sapeva più trovare in sè medesima. Tenendo stretta colla destra al seno la testa graziosa della Stella, la quale, seduta accanto a lei sur uno scannetto, le s'era appoggiata al grembo in atto quasi fanciullesco, la povera madre interrogava con eloquente sguardo il suo Damiano.
Ma egli, quantunque non avesse perduta neppure un'ora, e già maturasse nella mente ciò che bisognava fare, non ebbe in quel momento cuor di parlarne. Disse solamente che colui il qual nacque povero, convien faccia ogni giorno di necessità virtù: e poco di poi soggiunse, che quella materia aveva parlato lungamente col signor Lorenzo, l'unico amico che loro restava, che qualche sacrifizio conveniva pur farlo, e primo di tutti quello forse d'abbandonar la casa ove avevano vissuti tanti anni nella loro povertà abbastanza felici.
Celso e la Stella piegarono mestamente il capo; ma la Teresa che aveva avuto sotto a quel tetto i tre figli, che in quella stanza aveva veduto morire il suo protettore e amico, e che là sperava poter chiudere anch'essa gli occhi per sempre, la Teresa sentì una fitta nel cuore, e proruppe:—Oh no! Damiano, lasciami qui morire, lasciami qui morire!
Tutta sera non dissero più nulla. Ma quando si separarono per coricarsi, la madre si tenne vicina la Stella; e Damiano e il fratel suo vegliarono l'intera notte nella loro camera a terreno, cercando di dar l'uno all'altro quel coraggio che si può avere a vent'anni e quando s'è poveri.
Capitolo Quarto
Venne il signor Lorenzo la seguente mattina; nè senza perchè, come n'aveva fatto promessa a Damiano. E quando furono riuniti nella saletta superiore, lui e il giovine cominciarono a guardarsi con cert'aria significativa, come se ciascuno volesse che l'altro per il primo pigliasse la parola.
La madre, essendosi accorta alla fine di quel muto scambio d'occhiate:—Via, disse, signor Lorenzo; già so che l'è venuto il dì della disgrazia, e per me son preparata a tutto. Parli pure, dica su lei; poichè Damiano non ne ha il cuore.
Allora l'antico tenente, cercando un resto del coraggio di quel tempo che alla testa de' valorosi correva all'assalto d'una casamatta là nella Spagna, o teneva fronte all'urto d'una colonna di Cosacchi a Smolensko o a Borodino, si fregò gli occhi e disse:—Amici miei, vecchio come sono, starei più volontieri innanzi la bocca d'un cannone, collo schioppo al braccio e lo zaino ai piedi, che non qui, adesso, in faccia a voi, che siete l'anima, e il sangue del mio fratello. Ma poichè tocca a me, a me che n'ho vedute già tante, l'ajutarvi in questa trista ora, abbiate pazienza, se vi parlo senza complimenti, ma da galantuomo. Già con Damiano abbiam fatto de' discorsi, anche di troppo; è un peccato che non sia il tempo buono per lui…. Ma, tant'è! quell'uomo che teneva stretto come un balocco, tutto il mondo nel suo pugno, quello là, è caduto. E cosa potete far voi, poveri figliuoli, che non l'avete visto neppure!
—Chi ha cuore e braccio, è sempre padrone della sua parte a questo mondo: rispose con voce animosa Damiano.
—E chi ha amore per i suoi, trova sempre un po' di bene a fare: soggiunse con una ingenuità d'angiolo la Stella.
—Cari tutti e due! e avete ben ragione. In quanto a me, io l'aveva detto cento volte a quel brav'uomo che ora andò a tener compagnia ai nostri vecchi fratelli di guerra, gliel'aveva detto che pensasse a dare un mestiero a' figliuoli, un buon mestiero per cui non può mai mancar da vivere: chè, alla fin del conto, chi lavora è sempre padrone della sua fatica, come e forse più che il ricco del fatto suo; e il pane della fatica è il pane più saporito, più onorato che sia. Ma lui, non ne volle sentire: lo so bene, quella sua croce d'onore gli aveva un po' ingarbugliate le idee, e non voleva che i figli d'un cavaliere dovessero imparare a maneggiar la mestola o la pialla; lo compatisco. Ma l'ho anch'io la croce, l'ho avuta nello stesso dì che lui, e ne fo quel conto che si deve: essa è là nel fondo della mia vecchia valigia, e non la porto all'occhiello che una volta all'anno, quel giorno che sapete. Del resto poi, che cosa importa? Non voglion dir più niente adesso le decorazioni, sono un balocco di stagno dorato e niente di più: chi ci bada ormai?… Ma non è di questo che dobbiam parlare.
—Oh! signor Lorenzo, non mi tenga nell'angustia; dica pure quello che bisogna fare: soggiunse quasi piangendo la Teresa.
—Volevo dire che bisogna pensare ai fatti nostri, ripigliò. Voi siete una brava donna; ma di certe cose le donne non s'intendono nè si debbono intendere. Ora vel posso dir io, io che le ho raccolte e lette le poche carte di vostro marito, jer mattina insieme a Damiano, prima di consegnarle a quella ciera d'ospedale del signor impiegato venuto qui a frugar dappertutto, che mi faceva una stizza da non dire. Or bene, io supponeva…. io sperava che…. badate bene…. in coscienza, non avete più nulla. Già quel Vittore ha sempre avuto il suo cuor largo di soldato; ha creduto troppo alla probità degli uomini, all'onore, tutte belle cose, ma…
—Pover'uomo! disse la Teresa. Oh! se tutti fossero come lui….
—Come lui non ne troverete; ma è vero, per altro, ch'egli pensò poco al domani. Nelle sue carte che, per il meglio, ho voluto mostrare anche a un dottor di legge, mia vecchia conoscenza, abbiam trovato, in mezzo ad alcuni bollettini di guerre passate che non si vedranno mai più, certi conti, certe logore ricevute di foraggi e d'altri servigi al militare, ne' momenti che nei nostri paesi cominciò a far caldo: le son vecchie carte del 96 ch'egli ebbe dal vostro nonno, buon'anima, il quale, a quei dì, aveva anche lui terra al sole. Ed io l'ho conosciuto, sapete, vostro nonno, che potevo avere allora l'età vostra…. Ma! chi l'avrebbe detto che si doveva finir così?…
Contro il suo costume, il vecchio tenente cercava con le molte parole di far men doloroso agli amici suoi l'annunzio della povertà; e abbandonavasi così alle memorie del passato.
—Via, vada innanzi, signor Lorenzo, diceva con qualche impazienza
Damiano.
—Sì, sì! Allora, o giovine, aveva anch'io il fuoco nelle vene come voi; allora s'è fatto qualcosa… Dunque vostro padre, a quel che pare, non pensò mai a far valere quelle carte che forse gli potevan dare un migliaio di lire; adesso temo sieno buone per la pipa. E non può star che così; vorreste che costoro pagassero le spese di quegli altri?… Onde, per di qui, nulla a sperare. Qualche debituccio del resto, che salderò io; è il meno che possa fare per l'amico mio. Vi confesso che mi piange il cuore: son povero anch'io e non ci ho pensato mai; pure adesso, vedete, ne sento dolore e quasi vergogna. Oh! se avessi lo scrigno di quei musi matricolati che ho pur conosciuto e che ora non mi conoscono più, di que' volponi che gridavano più forte degli altri e fecero poi, come si dice, il san Giovanni dalle quattro faccie…. Ma io no! io e Vittore no! piuttosto mangiar pane con la muffa!… Non abbiam forse rosicchiato noi unghie di cavallo, là, in quella maledetta terra?
—La virtù costa lagrime e sangue: esclamò, come parlando fra sè,
Damiano.
—Povero padre mio! sospirava la Stella.
—Anche la vostra pensione, tornò a dire Lorenzo, anche quelle poche trecento lire all'anno, per la croce d'onore di vostro padre, son rasciutte; morto lui, non vi tocca più nulla. Che cosa fare dunque? Nessuno di voi ha pratica avviata, un'arte per le mani; voi, Teresa, e quest'angiolo della vostra tosa, lo so bene, cercaste finora di far gruzzolo col vostro lavorar di segreto; ma nell'ultima malattia di Vittore, tra medico, speziale e prete, v'han nette d'ogni cosa. Damiano sa il fatto suo e ha volontà; Celso è giovine, è un po' miserello, ma vuol studiare, e si farà; la buona gente non è tutta morta, e alcuno che vi soccorra, per Dio! lo troveremo. Ditemi un po', signora Teresa, non avete più nessun parente, nè vicino, nè lontano?
—Ho un vecchio cugino, figlio d'un fratello di mia madre, che tiene un grosso fondaco di drogherie, là dalla parte di piazza Fontana…. Ha fatto una fortuna, a quel che mi dicono, ed ha anche casa sua, qui in Milano. Non ha più moglie, ma sibbene un figliuolo.
—Benissimo! disse il vecchio soldato, se non hanno il cuore di stoppa….
—Ma sono anni e anni che non li vedo io, questi parenti. Loro son ricchi e non si sono mai dati a cercare di noi; il mio Vittore era povero, ma non usò mai piegar la testa a chi si sia, e non ha cercato di loro. Quel benedetto uomo non volle mai aver bisogno di nessuno.
—Lo dite a me? aggiunse Lorenzo. Credete non lo sappia io? E perchè restammo semplici soldati, lui ed io, fin quasi all'ultim'anno del grand'uomo? Perchè non avemmo mai bisogno di nessuno. E poi, era un tempo che il generale stringeva la mano all'ultimo soldato, come a un fratello… Ma pensiamo a voi adesso: sì, convien tentare qualche cosa presso a quel vostro parente….
—Signore Iddio! esclamò la vedova: non vorrà vedermi; se sapeste che uomo è!…
—Andremo insieme, mamma, soggiunse affettuosa la Stella; sento che avrò il cuor di parlargli io.
—Potete provare, disse Damiano; ma non basterà. Uno che per tanto tempo non volle sapere se fossimo vivi, potrà sentire a un tratto il consiglio della compassione, il bisogno di far del bene?… E poi, umiliarsi, pregare, sentirsi a dire delle parole che vi fanno guardar per terra, col rossore sul viso e pensieri d'inferno nel cuore!… Io per me…. Ma no, non date ascolto a me; noi dobbiamo fare, come tutti fanno, quando son poveri: abbassare il capo e tacere! Forse Dio ci terrà conto di questa difficile virtù!
—Non parlare così, Damiano, mio buon Damiano! lo interruppe la sorella: pensa che nostro padre ci ascolta ancora; e se tu non ne dai un po' di coraggio, che cosa faremo senza di te?
—Hai ragione, ripigliò il giovine, a cui d'improvviso balenò l'anima negli occhi. Noi staremo sempre uniti: ciascuno farà per tutti; la tua semplice e amorosa fede sarà quella che a me darà la virtù che mi manca. La risoluzione che bisogna pigliare dunque, la si pigli al più presto. Non abbiam più di che pagare la pigione di questa casa, per la quale ci voleva intera la pensione di nostro padre: cercheremo altro asilo; due camere sono bastanti per noi; la pace e la pazienza ce le faranno amare.
—Sentite, figliuoli, ripigliò, poichè stette alquanto sopra di sè, il buon tenente: se volete, possiamo far casa insieme; o venite voi a star con me o io con voi. Già sono alla stretta anch'io; fuor de la grama pensione della mia croce, e di un altro centinaio di lire che busco da un vitalizio fatto dieci anni fa, non ho niente al mondo. Io non posso lavorare, chè son troppo vecchio, ma quel ch'è mio è anche vostro.
—No, no, mai! disse con fermezza Damiano. Se verrà l'ora della necessità, voi sarete il nostro secondo padre; ma vivono tant'altri più poveri di noi; e noi, giovani e robusti, non volete che troviamo da vivere?
—Figliuolo animoso! lasciati abbracciare dal tuo vecchio amico.—Così, avvicinandosi a lui, Lorenzo lo serrò con grande affetto sul proprio cuore.
—Cercheremo casa, seguì Damiano, verso il centro della città: le pigioni sono un po' più care, è vero, ma s'è più alla portata per trovar lavoro. Io per me ho quasi compito gli studi del liceo, e alla fine dell'anno venturo, potrò mettermi a un impiego, a un'arte, a un mestiero qualunque. Intanto mi son già fatto raccomandare ad una brava persona che mi darà da fare come scritturale in un negozio. Voi vedete, signor Lorenzo, che non ho perduto tempo.
—E noi pure lavoreremo; non è vero, mamma? continuò la Stella, esprimendo col suo candido sorriso la verità che le parlava dal cuore. Io so ricamare, e quando saremo là, nella nuova casa, starò tutto il dì contenta al telajo; Damiano mi cercherà avventori, e avviato che sia il lavoro, non avremo più a domandar la carità di nessuno. A noi basta così poco….
—E io, disse alla sua volta la vedova, non conosco forse fior di persone, che ci potranno ajutare? Il signor rettore di San Celso, e il signor curato di San Calimero, per loro bontà, mi compatiscono, e si sono degnati di parlarmi le tante volte. Quelli son uomini, e hanno aderenza coi primi signori di Milano; e chi sa….
—Sì, sì, quel che volete, mamma; pure facciam di tutto per ajutarci da noi, come possiamo, che sarà ben meglio.
Così l'interruppe Damiano; il quale sapeva il debole della mamma, una gran riverenza ai preti e ai signori.
—Bravo! esclamò Lorenzo; così avrebbe parlato tuo padre.
Damiano crollò il capo; e di lì a poco, levandosi in piedi, si mosse per uscire.
—Ricordatevi sopra tutto del vostro compare, figliuoli: non è più che un vecchio ronzone condannato a tirar la barca; ma finchè avrà fiato, sarà sempre il vostro compare.
Ciò detto, il vecchio soldato si calcò il cappello sulle ciglia, prese la sua canna e borbottando fra sè, per nascondere un segreto accoramento di cui sentiva dispetto, se n'andò. Non aveva pianto l'altra volta ch'era uscito di quella casa, dopo aver veduto morire il suo ultimo fratello d'armi; ma allora, appena fu nella via, guardandosi indietro, si rasciugò gli occhi col rovescio della mano, e disse: È finita! non son più quello.—
Capitolo Quinto
Rintanato in uno studio a terreno, se ne stava il signor Domenico, antico negoziante di droghe e derrate coloniali, nell'ampio seggiolone di cuojo, appoggiate le gomita a un enorme registro impalcato sul suo scrittojo, dietro un baluardo di colli di mercanzie, di casse, di barili accatastati all'ingiro, e sepolto quasi sotto a' cumuli de' libri mastri, delle cartelle e vacchette d'ogni maniera che gli facevan muro da ogni parte.
Uno de' suoi scritturali, la penna appiccata sopra l'orecchio e gli occhiali rialzati a guisa di visiera sulla fronte, uscì del fondaco e attraversò il portichetto per annunziare al principale che due donne, l'una vecchia e l'altra giovine, le quali si dicevano sue parenti, domandavano il favore di parlargli.
—Chi sono? chiese il negoziante, senza levar gli occhi dal registro. E quando ne intese il nome:—Non ho parenti di questo nome, brontolò; non mi seccate.
—Pure…. arrischiò lo scrivano.
—Non mi seccate, ripetè lo stizzoso vecchio.
Ma in quella, venute innanzi le due donne, s'udì la voce della signora Teresa:—Scusi, signor Domenico, scusi un poco, se mi fo cuore di venire così; ma spero che tra parenti….
—Chi è?… disse il negoziante; e il capo ricoperto d'uno spelato berretto di felpa verde sporse fuor dalla trincea de' suoi libri mastri.
—Sono io, sono la Teresa, moglie del cavalier Vittore…. Non si ricorda, signor Domenico? siamo cugini: la mia povera mamma era sorella del suo signor padre.
—Um!… grugnì il vecchio.
La Teresa sentiva stringersi il cuore; e la Stella non aveva quasi osato levar gli occhi, poichè l'accoglienza di quell'uomo, che mettevasi, quasi che lei e sua madre non fossero là, a brontolar co' suoi fattorini, i quali andavano e venivano; e più di tutto una specie di rantolo continuo con cui ajutava lo stentato e rabbioso suo respirare, le facevano ribrezzo, anzi paura.
Nondimeno, quand'egli, veggendo che non volevano andarsene così subito, si volse loro a domandar brusco che cosa avessero a dirgli, le due donne si fecero più vicine; e un po' l'una, un po' l'altra, seppero trovar la via di raccontargli la loro disgrazia, e di ripetergli che avevano pensato di ricorrere a lui, come al solo parente che avessero. Una volta in cammino, la Teresa non finì di dire così presto; parlò del suo Vittore, morto da un mese; dell'ultima penosa malattia di lui, per cui s'eran consunti i loro risparmi; della necessità in cui si trovavano di cercar lavoro per vivere, e della risoluzione di lasciar la casa di Quadronno, la cui pigione era soverchia per loro, e di venirne invece a stare in quella parte della città, se loro venisse fatto di avere, con una scarsa pigione, nel contorno, un paio di camere al terzo o al quarto piano. E conchiuse:—Signor Domenico, siamo figliuoli di fratello e sorella; ci ajuti lei dove può; o ci dica almeno che cosa dobbiamo fare?
—Eh! eh! eh! rispose con una secca tosserella il negoziante, senza punto scomporsi: Saremo cugini, come vuol lei, ma posso dire che non ci siamo mai conosciuti; certo è un vent'anni buoni che non ho avuto l'onore di vedere il suo signor cavaliere, che…. a quel che m'è stato detto…. io non so niente…. fu sempre una testa matta e pericolosa. Dunque, che cosa mai vuole ch'io faccia?…
E seguitando lentamente ad ansare, diceva che la loro parentela era di quelle che non portano con sè alcun dovere; che moltissimo gl'incresceva la condizione della famiglia, e che sentiva tutta la volontà di far qualche cosa per loro, se lo avesse potuto. E qui, pensato un poco e tentennato il capo, soggiungeva com'egli pure avesse un figliuolo al quale, volendo dargli un nome e uno stato, doveva buttar dietro tesori; come si trovasse in un mar d'impicci e dovesse pensare a' casi suoi; nè lasciava di dir loro che, per altro, avevano fatto egregiamente a non parlar di lui coi signori del tribunale, come dell'unico parente che avessero, poichè egli non si sarebbe indotto mai ad esser nè tutore nè contutore, nè altro, in riguardo a loro. E quasi ciò non bastasse, continuò che il commercio è un abisso, sull'orlo del quale non bisogna camminare con gli occhi chiusi; egli poi, quantunque dicessero le male lingue il contrario, era un pover uomo; in quel momento più che mai si trovava imbarcato in rischiose mercantili spedizioni; i fallimenti fioccavano da tutte le parti; nella mattina appunto eragli venuto avviso di quello d'un suo corrispondente di Marsiglia; e da tutto ciò conchiudeva di non poter propriamente fare per loro quello che avrebbe voluto.
Ben si può imaginare come stillassero queste fredde e avare parole del vecchio nel cuor della Teresa e della Stella. Nondimeno, la vedova, quando non continuasse un pezzo ancora con quel su e giù di ma, di che, di siccome, che a lei serravano il cuore, a lui la strozza, s'affrettò a cucir insieme qualche scusa, e a dire che non bramava altro se non d'essere indirizzata a qualche onesta persona della vicinanza, che loro potesse appigionare a buon mercato quelle poche stanze di cui s'erano già messe alla ricerca. Allora il vecchio parente, veggendo come gli fosse dato trarsi d'impaccio con poco, fece un mar di promesse: avrebbe domandato, detto, parlato e che so io. Poi si pentì, entrandogli il pensiero non avessero con quel pretesto a tornare; ond'è che di tal modo conchiuse:—Aspettino: ho appunto il caso loro. Conosco il signor Pietro, subaffittuale di parecchie case nel contorno; le mando a lui, e son persuaso che si accomoderanno. Ehi, signor Dazio?…
Lo scritturale che si era lasciato veder poco prima, colla penna appiccata all'orecchio e gli occhiali sulle gobbe della fronte, tornò a far capolino dall'uscio dello studio.
—Ehi! conducete questa signora, dissegli il principale, dal signor Pietro, a nome mio, e ditegli che faccia per lei quello che può. Del resto, mi dispiace proprio, signora Teresa (e si tolse dal cucuzzolo pelato il pelato berretto) ma è inutile che si dia l'incomodo di tornar qui; i miei negozj mi tengono dì e notte occupato, e non ho tempo nè denari da buttar via, io; sono un pover'uomo io…. Servitore umilissimo.
La madre e la figliuola se n'andarono senza proferir parola, più malinconiche assai che non fossero venute. E sendo già in via, non lasciarono di visitar le povere stanze che il signor Pietro in persona, quando seppe ch'erano una raccomandazione del ricco droghiere, volle loro far vedere, magnificandole come una reggia. La mattina seguente vi tornò la vedova con Damiano; le due camere al quarto piano eran vuote; e il padrone della casa in via di Quadronno, benchè fosse di poco passata la Pasqua, lasciava più che volentieri i suoi affittuali in libertà d'andarsene, comechè il pensiero di perder la mezza pigione, non ancora pagata, gli facesse gelare il sangue.
Ben presto dunque s'acconciarono col nuovo locatore, il quale, a mero riguardo del signor Domenico, si tenne contento, per il fitto, di cencinquanta lire all'anno. Col ricavo della suppellettile di sopravanzo venduta a un arcigno rigattiere, il quale teneva bottega sul terraggio di San Celso, pagarono il semestre anticipato, e pochi dì appresso, la povera e onesta famiglia dell'antico velite s'era così allocata nella sua novella abitazione. Assai triste, la Teresa e la figliuola abbandonarono la solitaria casa, dove avevano passato tanti anni che lor parevano in quel momento anche troppo felici; dove lasciavano tante piccole memorie, tante speranze ancor vive. Le donne semplici e casalinghe, come la Teresa, attaccano, direi quasi, una parte della lor vita alle care pareti, alle note finestre, a quegli arredi che mai non mutaron luogo, che furono testimonio de' loro giorni oscuri ed ugnali; altrove, non trovano più l'aria che prima respiravano, nè quel sole, nè quell'angolo del cielo che conoscevano, che amavano tanto.
Le due stanze erano al più alto piano d'un lungo casamento che guarda sulla piazza Fontana, e dove cento famiglie del popolo, le quali vanno, vengono, e s'alternano di continuo a brevi spazii di tempo, nascondono la povertà e la fatica, il bisogno e il vizio. Nessuno aveva posto mente a' nuovi vicini di casa; e intanto le due donne, con quel naturale senso d'ordine e d'economia, che alle anime contente del poco tempera il patimento nei giorni stessi dell'avversità e dona non so quale altezza nella mala fortuna, trovarono il segreto di dare all'angusto loro quartiere un aspetto di grata mondezza e semplicità. E l'una e l'altra delle stanze avevano un uscio e una finestrina inferriata che davan sul lungo ballatojo esterno, dalla parte d'un cortilaccio; dall'altro lato, in ciascuna stanza, una finestra più grande, mal difesa da imposte vetriate, s'apriva sulla pubblica via. Nella prima, più angusta, non si vedevano che due letti, uno a rincontro dell'altro, ne' due angoli a manca dell'entrata; là stavano Damiano e suo fratello. La seconda stanza, un poco più capace, aveva nel fondo un'alcova, e di fronte a questa un cammino sporgente collo stretto e alto focolare, come tutti i cammini de' poveri. Sotto la finestra, verso il cortile, era un fornellino; accanto all'altra, che guardava la via, si vedevano sempre al luogo stesso, un tavolino e il telajo di Stella, ben forniti di biancherie diverse e di lavori d'ago o di spola: in quel cantuccio madre e figlia passavano l'intera giornata. Nell'alcova era collocato il letto della Teresa; quello di Stella, più piccolo e basso, nell'altro cantuccio, dietro una bianca tendina di percallo a drappelloni che, durante il giorno, lo copriva alla vista di chi venisse.
Non era passato che poco più d'un mese; ma in quel breve correr di giorni, le due donne, senza perder tempo, procacciatasi la clientela d'una buona mercantessa di mode della vicina piazza del Duomo, e sperando che questa n'avesse a tirar con sè qualche altra, vedevano di poter vivere senza stancare la carità altrui. Così, a poco a poco, si misero animose a quell'assidua e non conosciuta fatica delle povere madri e figliuole del popolo, la quale sostenta a un tempo e miete le vite di tante creature, che passano senza domandar ragione del loro destino.
Capitolo Sesto
Damiano che, non tocchi ancora i vent'anni, la bell'età del coraggio e della speranza, si sentiva già padrone del proprio cuore, e guardava con occhio serio e mesto la vita, aveva anch'esso obbedito con gioja alle ultime raccomandazioni del padre. Amava tanto sua madre e sua sorella, che la voce dell'amore era per lui la voce del dovere.
Ma sebbene, nell'ardita confidenza d'un'anima piena di pensieri e tuttora inesperta, egli avesse giurato in cuor suo di riuscire ben presto a qualche cosa, per sè e per i suoi; nondimeno, le incertezze del suo stato, le prime angustie sopravvenute, le stesse speranze che, disegnandosi a poco a poco quali sono veramente, e facendosi più vive e più necessarie, stancano e logorano anche gli anni d'una pensosa giovinezza; infine quel dover ricominciare ogni dì una nascosta battaglia con sè medesimo e con le cose che lo circondavano, e sentirsi cader le braccia, e trovarsi sempre al principio della via; tutto ciò aveva desto in lui il primo tormento del dubbio, una precoce malinconia che facevagli troppo spesso presagire il male, cercar la solitudine e provare il bisogno delle gravi meditazioni: per soffocare così quel germe dell'ira che gli rampollava già nell'intimo del cuore, per tenere da forte la sua promessa, senza maledir gli uomini e la vita.
Egli aveva da natura sortito una bell'anima, una mente libera e franca. Fin da fanciullo, nudrito delle forti e franche parole paterne, cominciò ad amare quanto di bello e di grande gli sfavillava all'intelletto o al cuore. I semplici e maravigliosi racconti del padre e del signor Lorenzo, suo compare, quegli eroici fatti in cui i due vecchi soldati avevano avuta non l'ultima parte; quelle storie di pericoli, di battaglie, di trionfi, quel rapido mutarsi di genti e di cose, al quale non poteva tener dietro la sua tenera immaginativa, gli suscitavano prima di tutto pensieri di grandezza, di gloria, d'onore; e s'era figurato che l'uomo, se lo vuole, è sempre l'arbitro del proprio avvenire. Abbandonavasi alla spensierata fiducia dell'adolescente; il quale desidera, folleggia e sogna, trovandosi come nel mezzo di lieto giardino, dove fanno capo tutti i sentieri della vita; e non sa per quale mettersi, chè tutti del pari gli sembran facili e brevi; ma crede che per qualunque s'avvii, toccherà ben presto un alto e onorato fine.
È vero ch'egli era stato, per pochi anni un fanciullo. A dodici anni, non più audace e avventato come prima, s'avvezzò a pensare che cosa avrebbe fatto quando fosse divenuto uomo; e cominciò a mostrar nell'indole e nel costume una intempestiva serietà, un modesto riserbo, che rado s'incontrano in chi fin da principio non si senta capace di qualcosa di bene. A quella età, come volle il padre, andò alle scuole pubbliche del ginnasio; e in mezzo alle numerose, irrequiete bande degli scolari s'era messo in pensiero d'indovinare in piccolo quel che sia, press'a poco, il mondo veduto in grande. Fra il sommesso cinguettìo nelle panche della scuola e l'insolente rombazzo che si menava ne' cortili all'ora del riposo, seppe di per sè discernere le piccole gare, le amicizie, i rancori; trovò anime tranquille, solitarie, e cuori già pieni di malevolenza e di fiele; vide gl'intrighi de' mediocri, la sfacciatezza de' cattivi, tutti i buoni e i mali affetti che già si urtano e si rimescolano fra loro. E si diede a pensare che tale doveva essere il mondo, ove si fanno continua guerra l'amore e l'odio, la virtù e il vizio.
Così, a quel tempo, ebbe pochi amici anche tra i compagni della scuola; ma con que' pochi s'era legato di fraterno amore: e nell'ore che gli avanzavano libere, massime le domeniche e i giovedì, soleva raccogliersi coll'uno o coll'altro, rifacendo gli studj in comune, leggendo insieme, e con gran gioja, i pochi libri che potevan trovare; ricopiando o mettendo a memoria le più belle pagine de' nostri poeti che loro cadevano fra mano, e de' quali, senza ch'altri ne li facesse accorti, sentivano il misterioso incanto. Allora esultavano, piangevano, parlavano a lungo insieme i poveri e buoni giovinetti; le loro candide e serene fantasie aprivano il volo nel paradiso della poesia; e il divino aspetto della bellezza rifletteva anche in essi il suo raggio creatore. Essi non sapevano allora; ma, pur troppo, l'avvenire non doveva avere per loro, come non ha per nessuno, de' momenti più sublimi, delle inspirazioni più care di quelle!
Fu appunto allora che Damiano prese a voler bene, sopra tutti i compagni, a un giovinetto di poco maggiore di lui, figliuolo d'un pittore; e ben sovente, appena il potesse, passava di lunghe ore in casa di quest'amico suo. Il pittore, di cui parlo, abitava, come tant'altra brava gente, a un quinto piano; non era un genio, ma conosceva l'arte sua; le aveva posto amore, nè mai s'era indotto, appunto per l'amore che le portava, a farne vile mercato. Per ciò era povero.
Nello studio dell'onesto e ignoto artista, il giovin Damiano sentì in quel tempo un forte turbamento, soave insieme e penoso, inesprimibile, non provato mai; era quell'incerto desiderio di bellezza e di virtù che aveva circondato fino allora gli anni suoi e che cominciava a prendere sembianza e parola. Non sapeva staccarsi dal cavalletto del suo buono amico, il signor Costanzo, che così chiamavasi il pittore; e mentre questi, silenzioso, stava dipingendo una testa della Madonna per qualche chiesa di campagna, ovvero uno di que' ritratti dei defunti benefattori dell'Ospedal Maggiore, che fanno l'aspettativa de' nostri umili artisti, il giovinetto gli si teneva a' fianchi, riguardandolo; e quando gli chiedeva il segreto di rimpastare i colori sulla tavolozza; e quando, trafugata una listerella di matita e un frammento di cartone, cheto cheto rincantucciavasi dietro il cavalletto, per ritrarre a suo modo alcuno di quei busti di gesso tolti dall'antico che fregiavano qua e colà le pareti dello studio. E il pittore lo lasciava fare. Venutigli però sott'occhio quegl'ingenui abbozzi, primi tentativi della mano fanciullesca, maravigliava scoprendo da certa nettezza de' tratti, da certa armonia de' contorni, la naturale inclinazione del giovine all'arte sublime, figlia prediletta del cielo italiano.
Pertanto, innamorato com'era di quest'arte, il pittore prese ad iniziar Damiano nel disegno. Era una festa per il giovinetto alunno l'accorrere sempre a lui nell'ore libere, e studiarsi di rispondere alle cure del brav'uomo: il quale, in breve, si addiede che in quel tenero cuore era già viva la favilla animatrice del genio. Ma, avvilito dall'oscurità sua, abbandonato nella sua soffitta, e di continuo alle prese col bisogno, il pittore provò insieme a codesta gioja un dolore, uno sconforto; e pensando a quell'anima verginale che voleva anch'essa innalzarsi nel cielo della creazione, tornava sul proprio passato. Meditata la propria sorte, temè che, addirizzando il giovinetto su quel cammino non avrebbe forse fatto che un infelice di più. Pure, alcun tempo di poi, stimò bene di conferirne col padre di Damiano; se non che al vecchio Vittore la proposta del brav'uomo di avviare nella pittura il figliuolo sembrò una mattezza: egli viveva persuaso che il regno delle scienze e delle arti era finito, se non da per tutto, qui da noi, con Napoleone. E pensando meglio per il figliuol suo che diventasse ragioniere, sensale, agente di cambio o qualcosa di somigliante, anzichè povero sapiente, od oscuro artista, non volle acconsentire che entrasse alle scuole dell'Accademia; risoluto invece che, finito lo studio del liceo come tutti gli altri, si dovesse mettere per altra via più battuta e piana, non volle sentir altro discorso di pittura nè di poesia.
Nondimeno, continuò Damiano in segreto a visitar la soffitta del suo maestro e amico. Quel primo amor dell'arte crebbe in lui ogni dì, e divenne a poco a poco il suo sospiro, il suo segreto. Vegliava le notti, disegnando al lume d'una lucernetta; o s'alzava coll'alba, per consacrar le prime ore del giorno alla sua misteriosa fatica, dando viva forma a' sogni dell'anima giovanile, dimenticando in quell'ore ogni altra cosa. Ma sopravenne una improvvisa sciagura che ruppe la sua prima affezione; una di quelle sciagure che lasciano nella vita d'un giovine tale impronta che spesso non si cancella più. La morte venne a rapirgli il suo unico e fedele compagno, il figliuolo del pittore Costanzo. Questo caso lo gittò in una profonda tristezza; e parecchi mesi passarono, senza che più pensasse ad appartarsi nella sua terrena cameretta per disegnare e schizzar sugli sparsi foglietti, come soleva, aeree figure e fantastici gruppi; o per rileggere qualche pagina di Virgilio o di Dante, dell'Ariosto o del Tasso, ch'eran tutta la sua biblioteca.
Nel suo dolore, quasi che l'anima gli si fosse oscurata per sempre, aveva fatto il voto di sagrificare al perduto compagno il più caro sogno de' pensieri. Non disegnava più, e ben di rado lasciavasi vedere in casa del vecchio pittore; il quale dal canto suo era inconsolabile d'aver perduto non uno, ma due figliuoli in una volta. In quell'intervallo, rinacque ardente in Damiano il desiderio degli studj i più severi. Fu l'anno prima che seguisse la morte del suo povero padre, quando cominciò a frequentare il liceo pubblico; e la nuova parola della scienza l'aveva riscosso profondamente. Studiò assiduo per molti mesi, non senza grave timore ne' suoi che potesse cadere ammalato. Egli credeva e amava, aveva cominciato a vagheggiar la verità sotto le splendide forme del bello; e ben presto s'avvide che la sua mente non era fatta per tener dietro al volo della scienza; e si sentì svilito, spaventato quasi dall'immenso mistero dell'umanità e dell'universo a cui per la prima volta affacciavasi. Si trovò come perduto in una landa nebbiosa, interminata, ove facesse cammino senza sapere se il sole gli fosse dinanzi, o dietro le spalle. Ma quantunque così giovine, così inesperto ancora, la vita gli parve ben più difficile che dapprincipio non avesse creduto.
Egli vide intorno a sè moltissimi a lui pari d'età, compagni di patria e di studii, che avrebbe voluto salutare, amare, più che condiscepoli, fratelli; alcuni d'illustre casato, molti agiati o ricchi abbastanza per non temer del futuro; la più gran parte di condizione eguale o poco migliore della sua; moltissimi non curanti o fastiditi; indifferenti e scapati gli altri; pochi volonterosi di cercar nello insegnamento del passato un tesoro di virtù per l'avvenire, d'apparecchiar la mente e la coscienza alla dura prova della vita, di poter dire con giustizia a' loro padri, alle madri, ai fratelli, quando tornassero in mezzo di essi: Anch'io sono un uomo, e son qui con voi e per voi! Que' giovani di cui Damiano domandava l'amicizia, o cercava qualche volta la compagnia, lo guardavano appena, pigliavansi giuoco di lui, delle sue pedantesche riflessioni, della sua malinconia; ridevano della sua povertà. Lasciavano che solo si dilungasse lungo il muro della via con qualche libro sotto il braccio, mentr'essi, zufolando un'arietta, n'andavano a gironi col cigarro in bocca e il cappello di traverso, ovvero fermavansi all'entrata del botteghino di caffè a ciarlar delle prime loro conquiste, della ballerina, della piccola crestaja, o della saltatrice de' cavalli. E Damiano camminava verso casa sua, a capo chino e col cuor ferito; gli fuggivano dal pensiero i poetici sogni dell'arte che ancora amava in segreto, e diceva: Non sarò mai nulla!… Alla svolta della via di Quadronno, tornavangli in cuore padre, madre e sorella; ma non gli tornava il coraggio. Pensava al poco che sapea della vita; e ogni suo pensiero incerto e torbido pareva domandargli il perchè fosse nato, qual fosse la invisibile catena che l'univa alla famiglia, agli uomini del suo paese, agli uomini di tutto il mondo; ma invano cercava che cosa rispondere. Tutto ciò che gli era stato insegnato gli aveva piena la mente d'aride o slegate cognizioni; già il suo cuore spontaneo, ardente, era divenuto sospettoso e freddo; parevagli quasi che tutto d'intorno a lui cominciasse a sfasciarsi, a cadere; la filosofia, la storia, cose morte; la virtù, non altro che una dolorosa necessità d'aver pace con sè medesimo.
Così, nella prima giovinezza, Damiano aveva anch'egli sentito, e senza quasi saperlo, l'influsso della funesta malattia del secolo, il tormento del dubbio. E per questo, nell'ora più difficile del viver suo, in quella notte che passò presso al letto di morte di suo padre, la sua fronte s'era curvata sotto il peso d'amarissimi pensieri, e l'animo suo fu prostrato dall'idea che la famiglia ormai non aveva altro conforto e ajuto che lui solo; lui, che non trovava nè conforto ne ajuto per sè.
Ma nel momento solenne della disgrazia, quando appunto l'anime tetre par che trovino una voluttà nel disperare e maledire, le anime semplici, sentono invece rinascere le pure e grandi forze della vita. Il cuore di Damiano fu agitato dal profondo; una virtù nuova, l'energia del vero dolore, gli diè come un'altra vita. Egli ebbe in quell'ora, per così dire, la rivelazione, la coscienza di sè. Tanto è vero che, nelle maggiori necessità, l'uomo sente la pienezza della propria vita, e, direi quasi, l'orgoglio del dolore.
Renduti al padre gli ultimi ufficj d'amore sulla terra, detto addio alle giovenili fantasie, e rivolto uno sguardo pacato al futuro, Damiano aveva veduta chiara, a sè dinanzi, la ragione del suo dovere; allora conobbe che cosa gli restasse a fare, e seppe la propria sorte. L'insofferenza di sè, l'incertezza d'una vocazione, la noja della fatica che avvelena le dolcezze dello studio e turba i nostri anni migliori, anche lo sdegno dell'opinione e dei fatti altrui, tutte le tempeste d'un cuor giovine e piagato, furono sopite in lui da quel giorno. Il sentimento dell'impotenza, il rossore e la cupa rassegnazione della povertà avevano ceduto il luogo a forti, leali affetti; l'avvenire gli prometteva consolazioni e premio; ed egli ricominciò con gioja a vivere. Il dolore del padre perduto durò nel cuor suo; ed egli tenne quasi un sacro tesoro; fu quel dolore utile e giusto che insegna, non a disperare, ma a combattere. Da quell'ora, gli rinacque l'amor dell'arte nella quale aveva fatto i primi passi; da quell'ora tornò agli studii prediletti, ai cari volumi che gli avevano insegnato l'eterna bellezza del pensiero; e disse a sè medesimo:—Il poco che potrò fare, non deve andar perduto; consacrerò la mia fatica a coloro che d'altro non ponno vivere che dell'amor mio; e il loro amore e la coscienza d'averlo meritato mi compenseranno!
Con questa libera e forte persuasione, egli aveva continuato di buon cuore a frequentar le scuole dei liceo, affinchè non gli venisse a mancare, al caso, quel primo scalino a qualche oscuro e poco ambito impiego. Intanto, ritornava, sempre più spesso, alla casa del suo vecchio amico, il pittore Costanzo; il quale, benevolo e generoso nella sua oscurità più che tant'altri in mezzo alla superba fortuna, si profferse volentieri di ravviarlo nella pittura, come meglio avrebbe saputo. Damiano vedeva l'incertezza della riuscita, e pur non sapeva rinunziare a quella cara tentazione.—Finirò questi due anni di studio, diceva fra sè, e poi… O l'arte ch'io amo, o qualunque altro più umile mestiero, a cui mi metterò con coraggio, mi darà pane. E chi sa che la vita non possa ancora esser lieta e bella, per me e per questi cari che fan viaggio con me sulla terra! Penso infine che tanti sono più disgraziati di noi, e pur vivono e debbono vivere…. E poi, siamo in un tempo che anche il povero ha una voce grande e forte, una voce che comincia a farsi sentire per tutto. Si può dir quanto si vuole—finiva—ma la giustizia è una, e quel ch'è vero è vero!
Il nostro Damiano la pensava così. E già da qualche mesi, da che la famiglia stava nel nuovo quartiere, continuava con alacre animo quella vita tutta di studio e di lavoro. Già dal principio, il suo vecchio compare, il signor Lorenzo, che non s'era dimenticato di lui, datosi attorno, aveva potuto non inutilmente raccomandarlo a un mercante di pannine della Pescheria Vecchia; uomo dabbene, che assentì a prenderlo presso di sè come scritturale, per mettergli in netto i libri di negozio e tenergli il carteggio. Questa briga, un poco tediosa, costava a Damiano tre ore ogni sera; ma gli profittava dugent'ottanta lire l'anno, che per lui, nella presente strettezza, non eran poche: bastavano per la pigione di casa, e gliene avanzavano per la misurata spesa del suo vestire, ch'era umile sì, ma decente e ben fatto alla persona; onde l'aspetto suo aveva non so che di simpatico e di gentile.
Tornato a casa la sera, egli soleva leggere o scrivere per sè, fino a notte ben tarda; poi, dormito un sonno di poche ore, levavasi col mattino, per correre allo studio del pittore Costanzo; il quale l'amava ogni giorno di più, dandogli anche tutto quell'affetto che già portava al figliuolo a lui tolto dal cielo. Di là, al batter dell'ora, s'affrettava di correr al liceo per non mancare alle lezioni; nè curando più la sbrigliata scolaresca si teneva in disparte, tutto raccolto in sè, e volonteroso di penetrare i segreti della scienza, che la monotona voce del professore non riusciva a spiegargli. Dipoi, non vedeva l'ora d'essere a casa; e arrivato al suo quarto piano, un bacio alla madre, il sorriso, il saluto della Stella, la quale, smettendo dal cucir di bianco o dal ricamare al telajo, ajutava la madre nell'ammannire la scarsa minestra e qualche avanzo di carne lessa, che neppur sempre compariva sul povero desco; e più di tutto, l'aspetto di quella pace casalinga, di quella rassegnazione nella disgrazia; e poter riposare gli occhi in volti conosciuti e cari; e dall'un canto il suo pulito letto rifatto, e il tavolino col picciol mucchio de' suoi libri, e l'aperta finestra che lasciava entrare il bel sole del mezzogiorno, gli racconsolavano il cuore, gli rallegravano la mente con idee conciliatrici d'amore e di virtù; e si sentiva più forte e migliore.
Le due donne stavano sempre in casa, lavoravano sino a notte, e di solito non vedevano anima viva. Unica loro compagnia era l'antico tenente, che lasciavasi vedere due o tre volte la settimana, e godeva nelle lunghe sere raccontar le cose de' tempi suoi alla Stella o al giovinetto Celso. Poichè, quantunque avesse una predilezione per Damiano, il buon soldato voleva bene anche all'altro suo figlioccio; anzi andava da un pezzo ruminando che mai se ne sarebbe potuto fare, senza trovar cosa che gli piacesse. Ma la madre ci pensava più di lui; ed una sera, fra le altre, in uno di que' lunghi silenzii che sembrano mettere, fra poche persone raccolte, un'aria di mestizia e quasi di sospetto, la buona vedova si fe' coraggio, ed uscì a dire:—Non sa, signor Lorenzo? Il mio Celso vuol proprio andare a prete; è una vocazione che ha da un pezzo; e per me la tengo una vera grazia del Signore!
Strabiliò il vecchio cisalpino; fece una smorfia, come per mandar giù una bestemmia che gli era venuta sulla lingua, e guardò in faccia il figliuolo. Il quale arrossì, chinò timidamente il capo e non seppe dir nulla.
Damiano, quella sera, non era ancora tornato a casa, di modo che il discorso cadde. Ma prima d'andarsene, il signor Lorenzo, volgendosi a salutare la vedova, le aveva detto un po' brusco:—In quanto al vostro figliuolo, se vuol proprio fare il prete, che lo faccia; può ben essere un prete galantuomo. Ma per me, non mi cercate nè pareri, nè altro; lasciatemi pur fuori da questa faccenda, chè non c'entro io.—E si partì, senza aspettar Damiano, come di solito faceva.
Celso aveva allora diecisette anni; ma essendo stato da piccino gracile e infermiccio, era cresciuto meschino di membra, sicchè ne mostrava quindici appena. Venne al mondo in un anno di tristezza e di sventura per la Teresa, e del quale tanto lei che Vittore non parlavano che colle lagrime agli occhi; nell'anno che vide la rovina di Napoleone, e il rimpasto del passato. Vittore si teneva caro Damiano, il suo primogenito, sopra gli altri due; e soleva dire che quello era nato almeno nel suo miglior tempo, quando c'era ancora un'Italia. La buona Teresa in vece non poteva di queste ragioni far misura al suo affetto; e compensava anzi il suo secondo figliuolo, quel poverino travagliato e gramo, con più viva sollecitudine, con quella specie d'amorosa gelosia, onde non son commosse che le viscere d'una madre.
A dieci anni, il fanciullo infermò di lenta febbre; e inchiodato nel suo letto, per molti mesi tra la vita e la morte, non aveva avuto altro medico, altro angiolo salvatore che l'amor di sua madre. La semplice e pia donna, in mezzo all'angoscia, vedendo languire limato dalla consunzione quel suo caro, come povera pianticella a cui manchi il succo della vita e la luce del sole, non dubitò di far nel suo cuore un voto, che se dal Signore le fosse restituito il figliuolo, avrebbe fatto quant'era possibile per consacrarlo al suo santo servigio. Poteva essere un voto temerario, un voto inutile; ma in vece parve un'inspirazione di lassù. Poichè il fanciullo, riavutosi quasi miracolosamente, dimostrò col crescer dell'età un'indole quieta, composta a religiosi pensieri; e da sè, senza che ne lo consigliasse la madre, correva di nascosto quasi ogni dì alla chiesa del santo di cui portava il nome; amava poi, sopra ogni cosa, le belle funzioni delle domeniche e delle solenni feste della Madonna; ed era ritirato, studioso, esemplare, tanto che la sua timidità e il suo silenzio avevan fatto più d'una volta perder la flemma al vecchio Vittore, che non gli pareva di vedere in lui un suo figliuolo. Il giovinetto non aveva osato aprirsi con alcuno de' suoi; ma ben lo seppe indovinare la madre: quantunque, timida com'era anche lei, n'esultasse e tremasse ad un tempo. Cosicchè, finch'ebbe vivo il marito, temendo il rifiuto o il dispetto di lui, che aveva messo sopra i figliuoli tutt'altre intenzioni, non trovò mai un po' di coraggio per parlargli della vocazione di Celso.
Morto il vecchio soldato, la vedova s'era consigliata col proprio confessore, e gli aveva condotto il figliuolo, che finalmente disse la propria volontà di vestir l'abito chericale; aggiungendo che, al letto di morte di suo padre, gli era sembrato d'udire un'altra volta la voce del cielo che lo chiamava. La mamma Teresa ne pianse di contentezza, ringraziando Dio che le mandasse quella consolazione; e il prete, vedendo le buone disposizioni del giovinetto, trovò savio e giusto che si avesse a pensare, senza por tempo in mezzo, al suo avvenire; di più, promise di raccomandarlo affinchè ottenesse presto qualche piccolo beneficio, con cui, avute prima le superiori licenze, continuar gli studii ed entrar nel seminario senz'altri sagrifizii della famiglia. La stessa mattina la madre aveva parlato della cosa con Damiano; il quale, sebben vedesse più volentieri che il fratello per alcun tempo maturasse una deliberazione così grave, pure non seppe contraddire all'ardente voto di lui e a quello più ardente della madre; e anzi profferse i suoi tenui risparmi, fatti in que' pochi mesi, per le prime spese che fossero necessarie. Ed avevano anche posta qualche speranza nel compare Lorenzo; ma udite le brusche parole di lui, appena venne a sapere che al suo figlioccio volevan mettere il collar da prete, non entrarono più in tale argomento.
Capitolo settimo.
—L'Illustrissimo è alzato?
—Non si sa.
—Sarà visibile stamattina l'Illustrissimo?
—Non si sa.
—Il capo credenziere domanda a che ora si ha da tener pronta la colezione dell'Illustrissimo?
—Non si sa.
Nella lunga e tetra galleria d'un palazzo che portava un nome antico quasi come quello del nostro antico Milano, così domandava, con umiltà spagnolesca, un servitore in livrea gallonata su tutte le costure; e così a lui rispondeva, con serietà spartana, un cameriere vestito di nero, passeggiando su e giù col sussiego d'un ministro.
Il servitore s'inchinò, e senza risicare una sillaba di più, ripassò il vestibolo che precedeva la galleria e rientrò nella vasta anticamera; dove forse una diecina d'altri servitori stavano qua e là sparsi; quale sdrajato e dormiglioso già di mezza mattina, sopra una delle stemmate cassapanche; quale camminando innanzi e indietro per lo stanzone, colle mani sotto le falde delle livrea; altri discorrendola con burbanza fra di loro, come avvocati in conferenza, o lasciando a ogni poco scappar di bocca grasse risa e parolacce; alcuni poi aggruppati presso il loggiato del cortile, giuocando a tavola sopra un bisunto scacchiere; nè mancava quello che, togliendosi fuori l'una dopo l'altra dalle tasche della giubba non so che fette di prosciutto, sbocconcellava sbadatamente in disparte.
La campana maggiore del Duomo, a cui facevano eco tutte l'altre di Milano, annunziava il mezzogiorno; e l'Illustrissimo, usurpata un'ora al sonno, però che quella era mattina di ricevimento, rimosse la cortina azzurra del suo letto; e sporgendo una mano dal capezzale, tirò il cordone di seta.
Un omicciattolo corputo, tarchiato, volgare all'aspetto e al portamento, entrò subito nella camera del suo signore. Era il suo cameriere, e più che servo, consigliero e amico; il solo della casa che avesse licenza di penetrare negl'intimi appartamenti del padrone; e sapeva tenerlo codesto suo privilegio: era, se volete, il Mefistofele dell'Illustrissimo.
Appena entrato, costui aperse con cautela la finestra, socchiudendo però le gelosie, e calando le tende di seta, perchè la luce troppo viva non ferisse gli occhi del padrone; poi s'avvicinò al letto; e senza dir motto, versata da un nero fiaschetto in una tazza dal labbro dorato non so che mistura biancastra, la porse al suo signore. Levatosi a sedere, torcendo la bocca e il naso, egli la trangugiò; e borbottava al servo:—Quando finirà, briccone, questa tua maledetta bottiglia?
—L'aveva detto io, rispose colui a mezza voce, con uno sghigno che il rese più brutto; l'aveva detto che certe cose costan care a lor signori, come a noi poveri diavoli, eh! eh!
—Pazienza! disse il signore, ma guai a te, se questa sciatica non finisce presto!
Il servo rise ancora d'un riso più strano, ma non rispose altro. Ponendo appiè del padiglione su d'una seggiola a bracciuoli, le vesti del padrone in una cesta coperta di broccato, gli diè braccio a scendere del letto, lo ajutò a sedere, a vestirsi di sotto, a calzar le trapunte pianelle; poi, indossata che gli ebbe una morbida veste da camera, corse ad aprire la porta; e l'Illustrissimo trascinossi nel gabinetto vicino.
Quel gabinetto, adorno di specchi, di dorature, di bronzi scolpiti, di candelabri e di mille novità della moda, racchiudeva quanto il lusso, il comodo e l'eleganza ponno desiderare. Sulla pettiniera rivestita d'una copertina di merletto antico, una miriade di vaselli, tazze, boccette di cristallo, d'argento e d'oro, con essenze e manteche portentose; ne usciva una nube imbalsamata, da disgradarne il chiosco d'un sultano del Misore; dinanzi alla tonda specchiera, un seggiolone coperto di velluto cremisino; e accanto a quello, in atto rispettoso, con un rocchetto spiegato, il parrucchiere dell'Illustrissimo.
Il quale s'abbandonò sul seggiolone; e confidando la testa alle mani dell'esperto acconciatore, si voltò al cameriere, e:—Son di là? dimandò.
—Chi, Illustrissimo?
—Quelli che ci debbono essere.—
E fatto un cenno colla mano, volle dire che li facesse passare.
Intanto che vengon costoro, e che il degenere successore di Figaro sta architettando la bigia chioma del vecchio patrizio, con cauto riserbo solleviamo una parte del velo che copre questo gran personaggio.
Quantunque egli avesse già da lunga stagione cancellato dalla memoria in qual anno del passato secolo fosse venuto a consolar le genealogiche speranze della famiglia, nondimeno portava scritta nel volto la cifra dell'età sua; e al primo vederlo avresti detto: E' non aspetta più i suoi sessantaquattro. Alto della persona, lento e superbo lo sguardo, ed in una cotale incerta severità di lineamenti spirante l'indole vera della sua gentilesca prosapia, un misto d'antica bontà lombarda e d'albagia spagnuola. Portava un gran nome, anzi parecchi, un più dell'altro grande e illustre; poichè la ricchezza e lo splendore di due o tre famiglie feudali, andavano a finire in lui. Signore d'interi villaggi, di boschi e latifondi, non sapeva nemmeno le sue rendite; ma un'amministrazione formata d'un procuratore generale, di due ingegneri, di tre o quattro ragionieri e scritturali, tutti provvisti di pingue assegnamento le governava: per tal modo le ricchezze della casa, se (come succede) non ingrandivano, non venivan meno. Bisogna dire però che l'oro nelle sue casse non ammuffava; poichè i nobili appartamenti, le coppie de' cavalli forestieri, i sontuosi pranzi d'ogni settimana, e poi cuochi, credenzieri, camerieri, cocchieri, palafrenieri, e tutto l'altro sciame della livrea, tenevano in onore un'opulenza quasi proverbiale. Molte vedove d'antichi servitori di quella gran casata vivevano delle pensioni a loro fatte: ogni anno, a giorni dati, si distribuivano, per ordine dell'Illustrissimo, piccole doti a povere zitelle, per le quali era, nel resto dell'anno, un correre, un affaccendarsi e brigare di nonne, di zie, di madri e figliuole, con una litania di miserie. Aveva poi riservato per sè il diritto di conferire certi benefizii ecclesiastici, d'antico patronato della famiglia, coi quali intanto si procacciava una piccola corte di curati, canonici e coadiutori, pronti a contrastarsi con ira tremenda, per qualcuno dei loro protetti, il più magro benefiziuolo che uscisse vacante. Nè mancava chi a tempo sapesse levare a cielo la munificenza, la pietà illuminata di quel gran signore che non intralasciava il costume degli antenati, ristorando a tutto spendio qualche vecchio altare, qualche cadente oratorio di campagna, per mettervi poi in fronte lo scudo della famiglia inquartato di stemmi di tutti i colori, come un gherone della guarnaccia di Arlecchino, con una bella inscrizione in latino, del secol d'oro, della quale i posteri, inarcando le ciglia, dio sa che cosa diranno.
Con tutto ciò, quel gran personaggio, sebben potente per nome e ricchezza, non aveva mai voluto immischiarsi nella pubbliche faccende; e se in altro tempo ci fu tirato, come si suol dire, pei capegli, fece vedere di non voler saperne punto nè poco. Coll'orgoglio della nascita, aveva ereditato dai magnanimi lombi degli avi quella specie di egoismo feudale di lasciar che il mondo cammini a sua posta, purchè non abbia a tirare in compromesso lo splendor della casa e la rotondità de' suoi tenimenti: era peccato insomma che fosse nato al tempo nostro, anzichè al secolo di Filippo II, o di Filippo IV. Finchè durarono i privilegi, i fedecommessi e le altre prerogative, aveva menato intorno corteggio come di principe; poi, in mezzo alle convulsioni politiche del paese, in quella guerra di venti anni la quale mutò la faccia dell'Europa, visse di lunghi mesi in uno de' suoi castelli, lontano più che potè dal tuonar de' cannoni; si ristrinse nel cerchio della vita privata, obbedì mano mano all'opinione trionfante, pagò censi, tributi, gravezze, e si tenne così fedele amico al potere. Marchesi, conti e baroni, qualunque avesse titolo, autorità, era in casa sua il benvenuto; non già ch'egli avesse bisogno di loro, o ne cercasse l'amicizia a lui bastava che ancora il suo nome avesse un eco in mezzo al proprio ceto; che il fasto de' suoi appartamenti, che l'oro e i cristalli de' suoi conviti abbarbagliassero coloro che si movevano, per dir così, nella sua sfera, come satelliti d'un pianeta. Con tutto questo, uomo degnevole, quantunque freddo e altero alla sembianza, amico della mensa squisita e delle belle donne; perocchè molta briga non s'era pigliata mai della nobilissima dama compagna, alla quale quarant'anni prima aveva dato il nome, in ricambio della splendida dote che giovò in quel tempo a ristorare la breccia fatta dal 96 nella sua ricchezza.
Questa dama viveva ancora, e nello stesso palazzo aveva appartamento separato da quello del marito, non per altra ragione che per consuetudine principesca; aveva pure il suo corteo di consiglieri e parassiti. Marito e moglie si contraccambiavano cordiali proteste; l'uno faceva all'altra una quotidiana visita di cerimonia; nè l'Illustrissimo aveva mai mancato, in certe solennità di pranzi e di conversazioni, di quel rispetto, di quelle onoranze che la reciproca dignità esigeva. Nondimeno, la dama s'era permessa, più d'una volta, nel solito circolo serale, di dir sogghignando ad alcuno degli amici che il signor consorte non aveva smorzato ancora tutti i capricci di gioventù; soggiungendo poi seriamente che pur troppo la nobiltà andava perdendo di giorno in giorno importanza e decoro; e che si perdevano insieme l'ordine e la gerarchia della società. E i fortunati ammessi alla patetica partita de' tarocchi, nella solenne ora del tè, strozzavansi in gola le risa e le facevano eco.
Già la mano del parrucchiere, con tutte le delicatezze dovute all'alta sua pratica, aveva raso il mento e rimesso in onore il zazzeruto occípite dell'Illustrissimo, quando il fido cameriere rientrò nel gabinetto, seguìto da diverse persone. Buon per lui che non tardasse un minuto di più, perocchè vide venir la tempesta in una occhiata obliqua lanciatagli dal padrone: abbenchè il ferro del parrucchiere gli tenesse tuttavia imprigionate le bigie ciocche della zazzera, l'inquieto signore non lo lasciò mancar del fatto suo, buttandogli in viso un:—Infame!
Il cameriere, aveva alla prima indovinato che la non era una buona mattina; però si tenne cheto, guardandosi dal far le scuse; e lasciò che i venuti si facessero al cospetto del padrone, ciascuno alla sua volta.
Senza volgere il capo al primo che s'avanzò, una figura lunga, nera, sbiadita la faccia e pelata la nuca, con gli occhiali d'argento sul naso aguzzo e col mento incastonato nella bianca cravatta:—Segretario: disse l'Illustrissimo. E colui, inchinatosi, non ardiva levar su il capo e le schiene dalla curva presa.
—Risponderete subito, seguiva il signore, alle tre lettere venute ieri di Parigi, di Roma e di Modena, che a ciascun corrispondente si pagheranno mille lire anticipate, sopra i soliti banchieri della casa; ne manderete l'avviso e preparerete le cambiali; queste le firmerò io, quelle voi. Sopra tutto, non dimenticate di domandar ragguagli dell'andamento delle cose nostre; ma, come di solito, che il mio nome non sia pronunziato. Son cose da farsi, nel mio posto; ma non c'è bisogno che tutti le sappiano. Avete capito?… Risponderete poi alla lettera della contessa mia sorella, che non posso assolutamente accettare l'incarico da lei offertomi, quantunque onorevolissimo e pio… notate bene, onorevolissimo e pio. È vero che di codeste sue cariche poco m'importa; ma bisogna dir così, perchè anche lei è una potenza, un Richelieu in cuffia di merletti e in sottana di raso. Avete dunque capito, segretario?
—Illustrissimo, è come fosse fatto.—E s'incurvò di nuovo, fino a toccar col naso il fascicolo delle carte che teneva in mano.
—Passiamo a cose più importanti, più solide. E, senza volgersi:—A voi, maggiordomo.
—Ma… ma… se vossignoria permette, arrischiò il segretario, coll'abituale suo inchino: vorrei dire che oggi sarebbe… mi pare… il dì fissato da vossignoria, per il conferimento delle due doti disponibili da un pezzo, e anche di quel benefizio vacante, del quale il reverendo subeconomo…. mi pare…. ebbe a farle parola.
—Non rompetemi il capo con affari; c'è forse necessità che voi?….
—Non io… non io…. ma la bontà, il cuore di vossignoria che, trattandosi di far del bene, non tarda mai un'ora….
—Ma senza bisogno dei vostri consigli; mi capite?
Queste parole e il tuono con che furon dette avrebbero in altro momento gelata ogni risposta sulle labbra dell'umile segretario; ma bisogna dire che un gran motivo lo stringesse, se tenne fermo e facendo un'altra riverenza, aggiunse:—Quando non sia troppo ardire il mio, vorrei chiedere…. mi pare… che una persona, la quale gode il favore dell'illustrissima padrona…. il padre Apollinare, mi pare…. dovrebbe aver raccomandato a vossignoria un giovane chierico, di famiglia onesta, bisognosa.
—Ora capisco, avete anche voi le vostre premure, signor segretario: ve l'ho pur detto che non vi prendiate di siffatti impegni, se…. se vi piace l'aria di casa mia.
—Mille perdoni, Illustrissimo, ho fallato!… ma fu perchè….
—Ma, ma, ma…. non voglio nè i vostri ma, nè i vostri perchè; le buone ragioni le so io; conosco come siete fatti voi tutti…. o qualche regalo, o qualc'altro interesse…. carità pelosa!
—Oh! prendo il cielo in testimonio….
—Lasciate in pace il cielo!
—Un'altra volta, Illustrissimo, mille e mille perdoni: volevo dir soltanto che la povera madre di quel giovine domanda un minuto d'udienza…. e le sue carte sono qui, in mia mano.
—Eh! che aspetti alla buon'ora! che gente! rubarmi tutto il dì! E voi, ci voleva tanto a spiegarvi? Via, datemi queste carte, e vediamo di che si tratta.
Pigliò le carte, ma senza pur gittarvi un'occhiata, senza aprirle, le mise giù sul tavolino, e voltosi al segretario:—Sapete voi qualche cosa di questa gente?
—Buona gente, Illustrissimo, buona e povera gente; una madre piena d'anni….
—E di catarro: non voglio vederla.
—Tre figliuoli; due maschi….
—Son pochi.
—E una fanciulla….
—Bella?
—Oh! oh! Illustrissimo…. io non so niente.
—Via, via, che lo sapete; l'ho ben capita io! bravo, segretario! non portate gli occhiali per niente. Ora veggo la raccomandazione, eh! eh! se l'ho detto subito, carità pelosa!
Il povero segretario pativa il martirio. La prima volta forse che voleva fare un po' di bene al prossimo, si trovava spacciato, come il topo negli artigli d'un vecchio leone. La famiglia di cui s'era arrischiato a parlare, era (come ben sa il lettore) quella della vedova Teresa: ella stessa se ne stava allora aspettando, giù nello stanzino del portinaio del palazzo, se venisse il buon punto di presentarsi a quel signore. Il vecchio cugino di lei, il negoziante di droghe da noi un poco conosciuto, si era indotto, per la gran ragione che non vedeva di dover metter fuori del suo, a raccomandar l'abatino al segretario che l'onorava della sua amicizia, essendo egli il droghiere della casa; ed il segretario aveva promesso, per uno speciale riguardo al signor Domenico. Se poi, nel promettere, avesse dato un pensiero a certi anniversarii pacchetti di cioccolatte tutto caracca che gli accompagnavano l'augurio del buon Natale, non saprei dire. Ma intanto la Teresa aveva potuto consegnare in proprie mani del signor segretario le carte del suo Celso; ed ella stessa, come dicemmo, aspettava col batticuore, aspettava sperando in un ministeriale Vedremo, di quel suo insperato protettore. Così stava la cosa; ed ecco perchè il poveraccio s'intese dal labbro del padrone accusar di carità pelosa.
A quelle parole, accompagnate da una risata sonora dell'Illustrissimo, il segretario indietreggiò; e il giallore del suo viso, dal mento scorcio fino alla calva nuca, divenne un rosso di fuoco; chinò il capo per nascondersi, balbettò qualche scusa che finì in un sibilo strano; ed ecclissandosi dietro al corpulento maggiordomo che in quella avanzavasi, imboccò la porta e disparve.
Così bisogna dir pur troppo che quasi sempre la fortuna o la disgrazia di chi ha bisogno d'altrui pende da un filo; è l'effetto del capriccio, del buono o malumore del momento, d'una parola, d'un'occhiata, d'uno sbadiglio. La conversazione fra il gran signore e il segretario, dal bel principio, aveva preso la mala piega; e di tal maniera, senza colpa di nessuno, il benefizio sospirato dalla povera donna per il suo figliuolo, era già ito in fumo.
Capitolo Ottavo
—A voi, maggiordomo: che novità?—Così l'Illustrissimo: e intanto il parrucchiere, dati gli ultimi tocchi all'edifizio della sua capigliatura, vi faceva cader sopra un nembo di polvere cipria, per velare il bigio di quella zazzera famosa: era codesta una sua vecchia consuetudine aristocratica, un ultimo tributo al costume de' suoi nonni. Le sue prime conquiste in amore egli le aveva fatte coll'incipriato tuppè; e forse, nella virtù del suo tuppè, sperava di vincere ancora.
—Illustrissimo: il maggiordomo rispose; aspetto gli ordini….
—La colezione, al solito, dopo la messa, nel salotto d'udienza: intanto riceverò qualcuno fino alle tre.
—Benissimo. E il pranzo?….
—Al solito: oggi è sabbato; avete ordinato?
—Sì, Illustrissimo, per i soliti invitati del sabbato; dodici coperti…
—È uno de' miei giorni di penitenza; ma che cosa fare? se non si mette insieme una dozzina di costoro, vi gridan la croce addosso. Per altro, un sistema ci vuole, e ciascuno cerca i pari suoi; ond'è che mi par benissimo pensato di tener la domenica per le persone di riguardo, e il martedì e il sabbato per l'altra gente. Io per me, dico il vero, non ho pregiudizj di ceto; anzi mi compiaccio di veder questi buoni diavoli farsi una festa di quella grazia di Dio che toccano due volte la settimana; e so mettermi alla loro portata, senza però darmi troppo fastidio. Via dunque, chi avremo oggi?
—Vossignoria lo sa: il dottor Durante: il signor Pino, ingegnere della casa; l'avvocato Natali, i due signori canonici, il signor coadiutore della parrocchia.
—Questi tre li digerisco, per riguardo a mia moglie. Poi?
—Poi il ragioniere Capra, il signor segretario, e il curato delle Cascine Nuove, venuto a Milano stamattina e invitato per ordine dell'illustrissima signora padrona. Anzi, egli aspetta il favore di riverire vossignoria.
—Già, lui! è un livello perpetuo. Mi par di vederlo colla coda dell'occhio spiare obliquamente il giro de' piatti, finchè non si fermino alla sua sinistra. Ah! ah! e un buon uomo, lo compatisco; egli porta con sè la memoria de' miei pranzi nella solitudine della sua cucina, e ne parla pur un mese colla serva, ah! ah!….
—Eh! eh! eh!—fece eco, con un cotal riso di rispetto, il maggiordomo.
—Via, delle scempiate d'oggi mi compenserò domani; chè almeno avrem commensali degni del pranzo. I biglietti d'invito li avete mandati tutti?
—Tutti, Illustrissimo.
—Non ebbi la risposta del conte Ippolito, e di sua moglie, nè quella del marchesino Alfonso…. A proposito, l'ho fatta di conio: che dirà la bella contessa, trovandosi col suo nuovo adoratore? Eh! via, in cuore mi ringrazierà, la gentile donnina; ed io pregherò il marchesino di servirla del braccio; è un fior di donna ancora la contessa!… somiglia un pochino a quell'antica mia…. a quella Rosalbina; ten ricordi, Rosso?
Questi commenti che l'Illustrissimo un po' faceva tra sè a mezza bocca, un po' indirizzava al fedel servitore, che Rosso appunto aveva nome, eran bevuti come oracoli dal parrucchiere e dai domestici. Il dì appresso, la novella degli amori del marchesino con la bella contessa doveva far le spese della conversazione nelle anticamere e nel tinello.
—E chi altro avremo? seguitò il signore; ricapitoliamo, maggiordomo.
—Quel signor principe russo, arrivato martedì, il quale passò un'ora fa, e lasciò i biglietti di visita per vossignoria….
—Bene.
—Il signor cavaliere Lavinio….
—Mi garba poco, ma compie il numero, L'abate Apollinare, e quel signor visconte francese….
—Egregiamente. Pensate a tutto e fatevi onore.
—Non dubiti; arrivarono per l'appunto stamattina due casse di bottiglie di Sauterne, due di Bordeaux, una d'Iohannisberg, due di Champagne, una di….
—Sì, non mi rompete il timpano; tocca a voi a pensarci; e a suo tempo darete le polizze all'amministrazione di casa.
Il maggiordomo s'abbottonò l'abito di fino panno color marrone, si rassettò la cravatta di raso a rabeschi che non bastava a tenergli in sesto il soggiogo del mento, e fregandosi le mani con un'involontaria compiacenza, dati due passi a ritroso, n'andò pe' fatti suoi.
Ma già l'acconciatura dell'Illustrissimo era compiuta; e il parrucchiere, il quale, diversamente da' suoi confratelli d'un secolo addietro, non aveva osato entrare nel discorso, accontentandosi al più d'accompagnarne le frasi con qualche oh! ah! eh! ovvero con mezzi sogghigni d'approvazione, raccolse gli strumenti dell'arte, li ripose nella toeletta, e strisciando una riverenza partì.
Due altri stavano nel fondo del gabinetto in rispettosa e muta attenzione. Era uno il cappellano della casa, pretazzuolo di mezzana statura, aspro e cachetico all'aspetto, magro e angoloso della persona; il suo volto col tarlo del vaiuolo pareva indizio del tarlo del malumore che dentro il rodeva. Egli tentennavasi sugli smilzi stinchi, fra cui dondolava la negra veste talare; teneva in mano il largo cappello a tre punte, e sotto l'ascella un volume del Breviario. Vedendolo agitar le labbra, si sarebbe potuto dire che andasse masticando i salmi dell'uffizio; ma invece biascicava il suo cruccio pensando all'indiscrezione di sua signoria che lo faceva tardare a dir la messa quotidiana fino a un'ora dopo mezzodì; e si torceva le nocchiute dita, e grattava la fodera del cappello, sentendosi lo stomaco ne' talloni.
Bisogna credere che l'Illustrissimo ne avesse alla fine pietà, poichè andandogli incontro e stendendogli con gran degnazione la mano:—Don Aquilino, scusi un po', se lo feci aspettar questa piccola mezz'ora; vada pure in sagrestia; e tu, Rosso, fa che si avvisi mia moglie. Una parola, don Aquilino. Tenga queste carte (e gliele pose fra mano) sono di certa donna venuta per il benefizio: finita che sia la messa, la si pigli lei l'incomodo di mandarla via con qualche buona parola; io ho tanto a fare! le dica che questa volta non posso dispor niente, che il benefizio è già impegnato per un altro…. Capperi, lei lo sa, il figliuolo d'uno de' miei fattori, ch'entra in sacris quest'anno…. Insomma, ci pensi lei, ne parli con mia moglie, colla contessa mia sorella; è pasta per loro. Vada pure innanzi; io vengo fra cinque minuti. Oggi poi, mi farà l'onore di sedere a tavola con me, don Aquilino.
Il pretazzuolo a cui tenzonavano in cuore il dispetto da una parte, dall'altra la paura di spiacere all'Illustrissimo, non seppe dir altro che un sospiroso—Obbedirò. E stava per uscire, quando il Rosso gli si fece accosto, per soffiargli nell'orecchio queste agre parole, che furono per lui come una stilettata:—Caro don Aquilino, non faccia il dispettoso; abbia giudizio! c'è un tal abate Pasquale che invidia il suo posto; è un bel boccone, e vale una prebenda.
Il prete lo guardò in cagnesco, con un'occhiata di fuoco; ma si tacque, e rivoltosi a fare un ultimo inchino all'Illustrissimo, uscì fuori di là.
Intanto l'Illustrissimo s'era fatto vicino all'altra persona che stava indifferente là, appoggiata ad uno stipite della porta. Costui, al vestire, all'impassibile serietà lo avresti detto un procuratore, un avvocato, un medico, ma era tutt'altro. Pareva come straniero a quanto succedeva, comechè non avesse perduto una parola di ciò che si era detto; e compassionando padroni e servi che gli somigliavan fantoccioni, andava fra sè dicendo ch'era lui che li faceva ballar sulle dita dal primo all'ultimo. Era uno di quegli uomini venuti non si sa donde, ma che da per tutto si trovano, consumati nell'esperienza, non per aver osservato il mondo con senso di bene, ma perchè fecero d'ogni erba fascio; un di coloro i quali sanno diventar necessarii ai grandi e ai piccoli; riescono a tutto coll'arte del non parere; parlan poco e molto fanno, con volto di bronzo, e cuor di macigno; la vita loro è un problema, e il lor mestiero non ha nome. E ciò basti di lui, per ora, giacchè avrem modo anche troppo presto di far conoscenza più stretta con tal uomo. L'Illustrissimo, per certo, se'l teneva grandemente caro; nel passargli vicino gli battè d'una mano amica sulla spalla, e:—Proprio voi, vi aspetto di là fra poco, intanto che farò colezione; ho cosa d'importanza a dirvi, signor Omobono.
Il signor Omobono, che così appunto egli era stato mal battezzato, chinò leggermente la testa; poi, tranquillamente rimettendosi il cappello, uscì per la porta opposta a quella per dove n'andarono gli altri.
Intanto la vedova di Vittore, su d'una panca nello stanzone del portinaio di quel gran palazzo, con quanta angustia un cuor materno può avere, aspettava, sperava, temeva da due lunghissime ore. Chiusa nel suo nero scialle di grossa lana, col velo sugli occhi e gli occhi a terra, la povera donna tremava, e si sentiva un freddo per le ossa, come nel fitto dell'inverno, benchè si fosse ancora al principio di settembre. Le avevano detto tanto della generosità di quel signore, che parevale impossibile avesse a mancarle una qualche provvidenza; richiamava in mente, pesava le buone parole avute da quei che s'eran degnati di raccomandarla; poi, ripensando i giorni della disgrazia, tornando coll'animo al prediletto figliuolo, si sentiva come perduta; e in segreto raccomandavasi all'Avvocata di coloro che piangono; e credeva giustizia che la sua speranza dovesse compirsi. A quando a quando, il vecchio portinaio le dirizzava qualche indiscreta domanda, oppure magnificava con goffe baje la ricchezza e il potere de' suoi padroni. La gente della casa ed altri capitati per faccende, entravano e uscivano, nè v'era chi ponesse mente alla vedova; la quale, stimandosi dimenticata, e pure non osando farsi innanzi da sè, spiava il passaggio del signor segretario, nelle cui mani stavano le carte provanti la povertà sua. Ma, non vedendolo più, si sentiva quasi morire.
Passata un'altra ora, il cappellano frettoloso attraversò l'andito, e ficcando il capo dentro la porta invetriata:—Dov'è, disse, con voce stridula, la donna che portò queste carte a sua signoria?
—Son io! rispose la vedova; e mosse verso di lui, respirando appena.
—Bene, disse don Aquilino, allungando il collo, senza movere un passo di più; non possiam far nulla per questa volta; siamo in altri impegni. Bisogna che vostro figlio abbia la pazienza di aspettare, come aspettano tanti.
—Oh mio Dio! proruppe la Teresa.
—Eh! la mia donna, non c'è che dire; vi siete male indirizzata; se aveste parlato con me, forse la cosa non sarebbe andata così…. benedetta gente! Ma io non ho tempo da perdere; tenete le vostre carte. E se ne andò difilato verso l'antico caffè del Gnocchi, dove il chiamava la fame prepotente a prendere il solito cioccolatte e a legger le novità del mondo politico sulla gazzetta del dì passato.
Alla povera vedova fu forza di tornarsi a sedere; e non ebbe parola a dire. Solo, quando intese il portinaio che così pigliava a confortarla, con serietà solenne:—Non ci pensate voi; sua signoria vede e provvede; e a suo tempo, il benefizio verrà!—essa trovò il cuore di levarsi e d'uscir di quel palazzo, dove sentiva di non poter piangere quanto n'aveva bisogno.
Celso rimase mortificato di vedere uscita a vuoto la sua prima speranza; ma Damiano, che solo non volendo contraddire a sua madre, l'aveva lasciata darsi attorno per arrivare all'anticamera di un signore, Damiano, a dir vero, non n'ebbe soverchio dispiacere. Celso aveva gittato le braccia al collo di lei, dicendole con voce commossa:
—Pazienza, mamma: il Signore non vuol farmi ancora questa grazia; ma studierò tanto e tanto, finchè venga il momento di poter vedere compita la mia vocazione.
Ma non era passata più di una settimana, quando il caso, o piuttosto qualche misterioso potere che con mano invisibile trova il filo di tante cose sconosciute ed oscure, venne a mutare in viva gioia lo sconforto della Teresa e del suo beniamino.
Stava un giorno la povera famiglia insieme raccolta dopo l'ora del desinare, allorchè udì battere all'uscio del ballatoio, e una voce ignota domandar licenza di venire innanzi. Era un prete alto della persona, pallido in viso, di modi lenti e severi; gli occhi, i passi, il gesto e le prime parole che disse annunziavano un misto di circospezione e bontà; non pronunziò il proprio nome, ma soggiunse che veniva da parte di monsignor arciprete della parrocchia e che veniva per bene. La Teresa si sentiva tutta confusa di quest'onore; e incominciò in cuore a ringraziar la Provvidenza. Quel prete aveva un accento forestiero; e Damiano, per quanto ne studiasse gli atti, le domande e le gravi riflessioni, non riusciva a immaginare il fine per cui venisse. Solo notò che il prete, ad ora ad ora, lasciava fuggir qualche rapida e furtiva occhiata sopra di lui, quasi che avesse indovinato i dubbii che gli pullulavano in cuore.
Ma la Teresa n'era incantata; ne beveva le parole, come vangelo; rispondeva a tutto, preveniva anzi le domande che le potesse fare; tutta per filo raccontava la storia della famiglia, delle loro disgrazie, delle poche speranze che avevano. E il prete a tranquillarla, a dirle che si facesse animo, a metterle innanzi religiose consolazioni e ragioni piene di carità e condite di patetica unzione. Per quel dì, egli si tenne sulle generali, e promise di ritornare e di prendersi a cuore la riuscita del giovine Celso; solamente volle, in contraccambio, che la madre e il figliuolo non facessero un passo senza dipendere da lui, nè prima che egli fosse tornato a visitarli.
Non molto andò che il prete ricomparve. Quella mattina della seconda visita, Damiano non era a casa; e l'ignoto visitatore potè meglio insinuarsi ne' segreti della famiglia, e negli animi delle tre buone creature che pendevano dalle sue lente parole, ora melliflue, or gravi, or facili ed ora severe. Prese Celso in disparte, e poichè l'ebbe a lungo interrogato, dimostrossi non malcontento dell'indole sua; e dettogli che di lì a due giorni venisse egli stesso a casa sua, alla canonica di san ***, per sentire le risoluzioni che avrebbe avuto a comunicargli, si congedò dalla famiglia maravigliata, accompagnato dalle benedizioni della Teresa. Egli aveva confidato al giovine come andasse debitore della sua fortuna ad una benefica dama della quale era costretto per allora a tacergli il nome; indi, partendosi, lo avvertì che quando fosse venuto per cercare di lui, domandasse del padre Apollinare.
Su queste cose si andò facendo in famiglia un caos di supposti; ma nessuno potè argomentare il vero. E neppure quando si seppe che il padre Apollinare profferiva al giovine Celso di venirne a star con lui, e ch'egli avrebbe pensato ad avviarlo negli studii teologici, e a dargli poi modo d'entrare negli ordini sacri, nessuno potè farsi ragione del come la cosa fosse accaduta, del come la dovesse riuscire. Ma la buona famiglia tenne per gran fortuna la profferta; madre e figliuola piangevano di gioia, d'una gioia amareggiata soltanto dal pensiero di separarsi dal loro Celso.
Due settimane di poi, il giovane cherico, pieno di speranza, abbandonava i suoi; e nella lontana canonica, in una cameretta a lui destinata dal padre Apollinare, studiava nascosto quanto è lungo il dì, svolgendo e annotando parecchi volumi dei padri e dottori della Chiesa, che il suo protettore gli aveva scelto dalla propria libreria. La Teresa si trovò per alcun tempo come deserta; ma poichè il Padre permise al giovine che ne andasse qualche rara volta a farle una breve visita, la buona donna si racconsolò; e ragionarono insieme della futura contentezza.
Capitolo Nono
Era una notte d'inverno. Nella loro stanza solitaria e fredda, stavano tuttavia al lavoro Stella e sua madre. Sedute nell'angolo vicino al focolare, su cui morivano fra la cenere gli ultimi carboni, al lume vacillante d'una candela di sego mezzo consunta, Stella al telaio ricamava di pagliuzze e fogliettine d'argento la tunica di velo d'un bel vestito da ballo, Teresa cuciva saldando gli ossicini d'un sottile imbusto fatto sur un modello parigino: l'abito e l'imbusto dovevano il domani cingere la snella persona d'una giovine deità del bel mondo. Lavoravano da un pezzo, senza smettere solo un minuto; ma interrompevano il frusciar del lavorìo di alcune rade e meste parole, parole dolorose della madre, tenere e confortatrici della figliuola. I pensieri di tutte e due eran però gli stessi.
Di tanto in tanto la Teresa, intirizzita dal freddo e dall'umido che penetravano per le scommessure delle imposte e per gli spiragli della porta, recavasi in grembo il caldanino, ne risvegliava il fuocherello, per riscaldarsi un poco le mani; e Stella pure era corsa due o tre volte a inginocchiarsi sul rialto del focolare, perchè sentiva gelare le sue piccole dita tutte rosse, che ormai non potevano più reggere la spola; e tornava poi più diligente e spedita al ricamo.
Bisogna entrare nelle case della povera gente, nelle soffitte, ne' solaj, nelle catapecchie; dove sconosciute all'occhio degli uomini, note a quello di Dio, tante madri con le abbandonate figliuole, tanti disgraziati artigiani con una corona d'innocenti creature, trovano per mezzo del lavoro, cui non misura giorno nè notte, abbastanza onde stentare la vita, così che possa venire il domani, al quale non han tempo di pensare. E là, meglio che altrove, ci potremo persuadere che nel mondo il bene e la virtù non debbono morire. Bisogna aver udito i poveri raccontare il segreto delle loro miserie; visitar quelle mura ove sta di casa la disgrazia che ha vergogna di sè medesima, e dar mente a que' timidi disegni arrischiati per migliorare un destino che non muta mai; veder la costanza della fatica, la rassegnazione coraggiosa che s'appaga di così poco, e diventa natura in quell'anime buone; la perseveranza, l'ingenuità e sovente anche la gioja che vengono a diradare il fosco dei dì penosi ed incerti; e imparare come si possa adempiere in dura vita a' doveri della paternità, della famiglia, dell'amore; bisogna, dico, vedere e saper tutto ciò per adorare giustamente la virtù che si nasconde, e sopporta quasi una condanna fatale. Non è giusto pretendere d'aver tocco il sommo della grandezza civile, quando si disprezza il lamento di una moltitudine la quale non ha la coscienza della propria forza.
Guai all'uomo che non ha fratello tra i poveri! Quando il poeta, il filosofo, il politico, condotti dalla giustizia e dalla ragione, non rifiuteranno la mano dell'ultimo degli uomini; quando, invece di porre il dito nelle più sozze piaghe dell'umanità e di torre il velo alle turpitudini della miseria, avranno sollevate dal fango le modeste e solitarie virtù che ancora sono da troppi derise e calpestate; allora forse la voce di chi parla il bene e difende la causa degli oppressi, sarà, più che non sia, ascoltata e benedetta!—
Era in quei giorni la fine del carnevale; e dall'alta loro stanza, la vedova e la figliuola udivano il sordo trepestìo delle carrozze signorili che andavano e venivano per ogni parte della città. Quel romor di ruote e di cavalli, dapprima cupo e confuso nell'aria silenziosa, crescente poi mano mano, facevasi più vicino e più distinto; ne tremavano le muraglie della casa, e traballavano ne' telaj delle finestre i piccoli vetri; poi il romore diminuivasi a poco a poco, facevasi quasi muto, finiva nella lontananza. E così, al pari di quel frastuono che turbava la notte, dovevano finire i tripudj della lieta stagione cittadina.
A quell'ora già tarda, Damiano non era ancora a casa; ma essendosi intrattenuto presso il negoziante della piazza, di cui, come dicemmo, teneva i registri, andavasene solo e pieno di pensieri per la corsia del Duomo, colla intenzione di tornarne a tenere un po' di compagnia alla madre e alla sorella; e voleva che passassero qualche ora più lieta, facendo loro la lettura di quella cara storia de' Promessi Sposi, di quel libro che porta il nome il più grande, il più bello del nostro tempo, e che, venuto in luce qualche anni prima, era già così popolare in tutta Italia. Quel nome, il nostro giovine e le due povere donne l'amavano già tanto; e quel libro aveva fatto per lungo tempo, nei giorni di libertà, tutta la loro gioja, la loro poetica festa, il loro carnevale.
Piovigginava. Nello svoltare il canto della via de' Pattari, Damiano s'imbattè faccia a faccia con un giovine, suo condiscepolo del liceo, che riconobbe subito e cercò schivare: ma colui non gliene diè tempo, e ravvisatolo al chiaror della lanterna della via che gli batteva sopra, lo pigliò risoluto per un braccio, e:—Sei tu, Damiano? dove vai?
—A casa: rispose asciutto il giovine, che non aveva voglia di legar con esso, conoscendolo come uno de' più scioperati e smargiassoni di tutta la scolaresca.
—Sei matto? replicò l'amico: vuoi andartene a letto all'ora de' polli? Siamo in carnevale, per diana!
—Son già le undici, e mia madre….
—Eh! baie: non sono battute le dieci, non ho udito il campanone della piazza de' Mercanti. E poi, che cosa importa? lascia che lei vada a dormire, e tu vieni con me.
—Non potrei…. piove, non vedi?
—Andremo a tetto.
—Dove?
—Vieni con me, e non cercar altro; sarai contento. Oggi è il mercoledì grasso, e un po' di gazzera vogliam farla anche noi: tu n'hai proprio bisogno, te lo dico da buon figliuolo. Già da sette od otto mesi, anzi, da che il tuo vecchio ti lasciò in libertà, sei divenuto malinconico, misantropo; mi hai la faccia d'un primo amoroso della Stadera. Io per me, non t'ho avuto mai per uno de' nostri migliori compagni; ma per il passato eri più trattabile, eri anche tu della legge, come si dice. Con tutto questo, io ti voglio bene ancora. E stassera devi proprio farmi compagnia, chè mi ringrazierai poi…
—T'accerto che io….
—Non vo' scuse; ti sgranchirò fuori io, per dinci! Vorresti farmi il pedantuzzo? aspetta alla quaresima, quando torneremo al maledetto cortile del liceo: mancano quattro dì a finire il carnevale; e se non l'annego in quattro solenni bevute del nostrano migliore, non chiamarmi più Bernardone. Su dunque, non fare il ritroso, o ti giuoco un brutto tiro. Piove, e sono stufo di pigliarla su così in mezzo della via, per convertirti te. E ti giuro, per la cuffia di mia nonna, che non avrei fatto tanto, se tu fossi stato un bel muso di ragazza.
E tenendolo ben saldo per l'abito, faceva forza per tirarselo dietro.
Il nostro giovine ebbe un bel dire; ma non riuscì a schermirsi di seguitare i passi di Bernardone. Non volendo provare il mal talento di quel disperato compagno e le beffe di tutti gli altri, si lasciò strascinare, nè più fece parola; ma dato un pensiero a sua madre, a quell'ora di placida gioja domestica che si era figurata, ed alle segrete sue fantasie che da qualche tempo accarezzava più che mai, gli andò dietro; facendo però a sè medesimo promessa di scampar più presto che potesse dalle unghie dell'amico, del quale malediceva di cuore l'inaspettato incontro.
Passarono due o tre strade, tenendosi l'un dietro l'altro rasente alle muraglie, per ischermirsi alla meglio dalla pioggia fitta e sottile; Damiano innanzi e Bernardone alle sue spalle, chè non voleva l'amico gli uscisse di mano allo scantonar della via. Attraversato un piazzaletto deserto, l'ardito scolare entrò in una di quelle anguste e fumose botteguccie, ritrovo degli oziosi di vent'anni, dove, in onta all'insegna cubitale di CAFFÈ, si fa spaccio di tabacchi e di liquori, e si pongono innanzi a qualche mal capitato certe torbide aranciate e limonee, che Dio ne scampi. Ingombrava la bottega una gran nube di fumo, attraverso il quale potevansi a stento discernere sette od otto persone sdrajate qua e là all'ingiro, e le accese punte de' cigarri, su pei tavolini fiaschetti e bicchieri, la fiamma rossigna d'una lampana che pendeva in mezzo alla stanza, il banco inverniciato a strisce bianche e azzurrognole che volevano dir marmo venato; e dietro al banco la floscia e ritonda sembianza d'una donnaccia, avvolta in uno scialle rosso da vent'anni, con una cuffia avvizzita, e due enormi ricci sulla fronte; la signora Rosina, padrona del caffè. Si rideva, si dicevano storiaccie scipite o sconce, interrotte da qualche pugno sulla tavola, o da qualche strillo di chi, vuotando d'un fiato il bicchiere, voleva salutar con gioja più viva il carnevale.
Bernardone, dato uno sguardo all'ingiro, non trovando in mezzo a quel denso fumo coloro che dovevano aspettarlo, attraversò la bottega, come persona usata del luogo; e, pigliandosi stretto al braccio il renitente amico, imboccò un usciolino nel fondo, poi da un andito bujo scese per tre scalini in un camerotto dalla vôlta bassa e scalcinata, più somigliante ad una cantina che ad una sala di bigliardo. Di siffatti caffè pochi ne avanzano nella nostra Milano, che si rintonaca rabbellita in ogni parte; ma gli scolari vagabondi preferiscono codeste appartate e poco note botteghe, dove la ponno far da padroni senza paura degli arghi del liceo.
In quella sala di bigliardo, frammezzo al fumo palpabile, erano cinque o sei giovani, pressochè tutti discinti il collo e senz'abito, quantunque l'inverno fosse aspro al di fuori; quale con un lungo cigarro fra i denti, quale con una corta pipa di gesso, di quelle che fanno la prima delizia degl'imberbi fumatori: i vestiti, i cappelli ammucchiati in un angolo; e que' giovani compari raccolti intorno al vecchio bigliardo, se ne stavano intenti ad una partita di sfida fra i due campioni della serata.
—Viva noi, buoni amici! gridò Bernardone entrando nella tana affumicata.
—Viva! risposero in coro tutti.
E l'un d'essi, levando il pugno:—Finalmente! si credeva che il vino t'avesse inchiodato a quest'ora sopra o sotto le panche dell'osteria!
—Eh! malann'aggia, non son novizio come tu, Barello. E poi, non abbiam per noi tutta la notte?
—Gli è che non sapevamo, gridò con voce di falsetto un altro mariuolo, piantandosegli in faccia: non sapevamo ove sia il festino a cui ne devi condurre; altrimenti t'avremmo piantato bell'e bene; e io pel primo t'avrei forse rubata a quest'ora l'amorosa.
—Bada a quel che dici, anitrino spennato! ch'io ti fo rimbeccar le parole con questa carezza…. E Bernardone levò in alto la destra, che parve volesse di botto schiacciar l'incauto vantatore.
—Via, via! saltò a dire un altro: rispetto a Bernardone ch'è il nostro capo, il fior degli amici! Andiamo, non si perda tempo.
E tre o quattro, cercando il proprio abito e il cappello nel mucchio de' panni rincantucciati, vociarono insieme:—Alla festa, alla festa!
—Ohe! ohe! che diavolo vi serra addosso? un minuto! dissero i due che giuocavano la partita di sfida: un minuto che abbiam finito.—E sopra il capo mulinando le aste del bigliardo, minacciarono romperle sulle schiene del primo che uscisse.
—A noi, Tita, gli ultimi colpi.
—Quindici alle bianche, venti alle nere.
—Marco non è a tiro di partita.
—Taci là, non parlarmi sul colpo!
—Bravo, bel raddoppio!
—Giù, alla maledetta: e diecinove.
—Gran Marchino! tengo per lui un da trentacinque.
—Vada, per Tita!
—Dalli, Tita!
—Tre punti, e fan ventitre.
—T'annega, a me che rileva? Ora, disse Marco, se il giro mi scappa, mi scappi il naso.
—È un demonio il Marchino.
—Diecinove e sei…. la partita è mia.
Marco strillò di gioja; gittarono le aste sul bigliardo e arrabattandosi alla disperata, uscirono in frotta dalla bottega per correre al festino, dove Bernardone, il caporione, doveva presentarli come amici suoi. A Damiano nessuno poneva mente: parecchi lo conoscevano, gli altri non avrebbero osato domandar chi fosse, comechè venisse sotto la scorta di Bernardone. Egli però avrebbe date le poche lire che aveva nel borsello, per esser fuori del crocchio insolente e trovarsi fra sua madre e sua sorella.
Non discosta era la casa a cui n'andavano; situata in un chiassuolo, guardava altre uggiose abitazioni, addossate fra loro, nelle quali non entrava mai sole nè luna. Quel viottolo fangoso era a mala pena rischiarato dal barlume di due lampioni appiccati sopra di due porte: l'uno portava scritto a lettere majuscole di vario colore: GRANDIOSO PRESEPIO CON FIGURE e il resto; l'altro, collocato appunto all'entrata della casa a cui la comitiva incamminavasi, da un lato mostrava dipinta una mano nera coll'indice teso, e, di faccia, quell'insegna tutta milanese: ANTICA FABBRICA DI TORTELLI.
Per l'andito bujo della porta, pigliarono a manca una scala erta e sdrucciolevole per fango, e saliti rasente la muraglia grommata di muffa, si fermarono sul pianerottolo del secondo piano; dove un lumicino tremolante in un vetro a foggia di cipolla, e una porta mezzo aperta, e il romorìo del di dentro, indicavano abbastanza che là era la festa.
Già lo strepito del salire e il dar sulla voce degli urtati, e qualche bestemmia di chi sentivasi camminar sulle calcagna, li avevano annunziati. Parecchi corsero a rincontrarli sul pianerottolo o nella stanza che serviva a un tempo d'antisala, di deposito de' pastrani e degli ombrelli, di credenza e pasticceria del festino. Si vedeva in fatto dall'un canto, una tavolaccia, dietro la quale una vecchia comare stava spremendo il sugo d'una diecina di limoni in un gran secchio d'acqua, la riversava in sette tazze già pronte a rinfresco sulla sottocoppa di latta arruginita; sul parapetto della finestra erano parecchie dozzine di piattelli e buon numero di bottiglie di varia statura, fra cui primeggiavano due di que' panciuti boccioni vestiti di paglia detti damigiane, e accatastati pani e panetti d'ogni cotta e figura. Dall'altro canto, sopra un fornello cuocevano a lento fuoco in due capaci casseruole certi capponi, che già col profumo davan solletico all'appetito. In fondo, dietro un logoro paravento, si poteva indovinare un letto, confinato là in quella sera di trambusto. La comare, ch'era la stessa padrona di casa, la più famosa rigattiera del contorno, andava e veniva dal tavolo al fornello e da quella nell'altra stanza, tenendo l'occhio a ogni cosa, ascoltando questo e quello, rimestando cesti, piatti e posate di peltro, gridando, ridendo, maledicendo, ove fosse bisogno, per farsi udire.
Nella stanza appresso, era la sala del ballo, stavano raccolte da quindici a venti fanciulle, gaje, piacevoli tutte, e alcune belle, di quella bellezza che si rivela nelle aperte fisonomie, nella freschezza dell'età, nella sincerità del sorriso; veri bottoni di rosa di un semplice mazzo di fiori. Erano quasi tutte a un modo abbigliate, che parevan sorelle: uno schietto vestitino di percallo o bianco o rosso, il loro più bel vestitino d'estate; un galano di nastro verde o azzurro alla cintura, un collaretto ricamato dalle loro mani, sottili guanti di cotone lisci, lucidi i capegli spartiti sulla fronte; e poi quelle sembianze così giovanili, così liete, supplivano a tutto ciò che mancasse; e, più di ogni altra cosa, quegli occhi eloquenti e sfavillanti d'una gioja quanto più di rado gustata, tanto più viva e vera. Era il fior delle crestaje, sartorelle e cucitrici del vicinato, venute colla madre, colla zia, colla nonna al festino del mercoledì grasso in casa della signora Emerenziana, la vecchia rigattiera.
La signora Emerenziana, o piuttosto la madre Pelagia, per chiamarla col nome significativo che le davano gli scolari e tutti del vicinato, era una di quelle femmine che per malizia ponno stare a destra del diavolo, e beccano per buono tutto quel che viene. Avendo molte conoscenze nel quartiere, sapendo per il suo mestiero i fatti di mezza la città, e facendo, oltre a questo, un poco la pegnataria, per amor de' giovani dalla scarsella leggiera, era riuscita senza molta difficoltà a compor quella festicciuola, in cui voleva che i suoi conoscenti seppellissero nell'allegria il carnevalone. Due scolari, amici del buon umore e delle belle fanciulle, vennero in deputazione di tutta la comitiva alla madre Pelagia; e messogli in mano un centinajo di lire ragranellate fra loro, le lasciarono la briga di tutto ordinar per la festa. Ella se ne era pigliato il carico; e per la sera stabilita promise sala da ballo, suonatori, ballerine, rinfreschi, cena e tutto. Da tre dì non era stata un minuto con le mani alla cintola; mise sossopra le vicine comari dello stesso piano, a far trasportar mobili e roba, per porre in libertà le due camere del suo appartamento, smorbarne il vecchio pavimento di mattonelle, e tor via da' travicelli del salotto i ragnateli, che da un anno vi avevan fatto cortina e padiglione. Le seggiole mancanti al salotto le pigliò a prestanza dalle conoscenti, due o tre dall'una, cinque o sei dall'altra, poco importando poi se fossero lucide o rozze, nane o zoppe; il restante occorrevole trovollo, rimuginando qua e là le sconficcate masserizie che da mesi e anni ammuffivano nel magazzino terreno. In quella mattina però, volendo, come diceva, far le cose con onore, corse fuori all'angolo della via di San Martino, e chiamò in casa uno degli imbiancatori che colà stanno in aspettativa affinchè desse di bianco, o, per dir com'essa, di color perlino alle pareti della sala: a' palchetti superiori delle due finestre fece appiccare certi lembi di vecchia tappezzeria damascata, cadenti in ricca e bizzarra mostra, una a rabeschi verdi, l'altra a liste gialle e rosse. Due ritratti patrizj del secolo passato (dio sa di chi) e due altri quadri screpolati e neri, stanati fuori dalla sua bottega, sull'uno de' quali spiccavano appena le punte della corona e la barba grigia d'un re David, sull'altro le spalle ignude d'una Maddalena penitente, adornavano nelle sconnesse cornici ancora mezzo dorate le pareti della sala. Tutto all'ingiro poi, poco sotto della soffitta, pendeva a festoni una lunga e polverosa ghirlanda di fiori e frastagli di carta; cosicchè, al dir della vecchia, somigliava quella stanza un giardino incantato, una primavera. E codesto giardino lo rischiarava una lampada di latta, a tre becchi, che attaccata ad un arpione della trave maestra della soffitta spandeva intorno un lume rossiccio e guizzante, imbalsamando l'aria col profumo dell'olio riarso. In fine, in un angolo del salotto, traballava sulle gambe sottili un'antica spinetta, su cui erano posati gli stromenti degli altri suonatori, un clarinetto, una chitarra e un corno da caccia. E di tutti e sì varii apparecchi del festino e della cena, di tutte queste baldorie dovevano far la spesa le cento lire raccolte dagli allegri scolari; sulle quali la comare Pelagia contava anche far qualche avanzo, che sarebbe stato il suo onesto guadagno; un bel napoleone d'oro almeno.
Capitolo Decimo
Già la festa, interrotta un istante per la fragorosa entrata della comitiva de' scolari, della bella ricominciò. I giovani suonatori, tornati con maggior lena al lor posto, intuonarono un baccanale: altro nome non poteva aver quella musica; comechè uno tempestasse con furia sulla stridente spinetta; un altro facesse guaìre il clarinetto; il terzo strimpellasse sulla scordata chitarra, e l'ultimo tenesse fronte a tal confusione d'accordi col reboar monotono del suo corno da caccia: era proprio una musica nuova, infernale. Ma i suonatori, che, per non essere pagati, non volevano perdere i diritti della compagnia di cui facevan parte, li avresti veduti, or l'uno or l'altro, metter giù lo stromento e correre a mischiarsi al tumulto dei ballerini, rubando a questo o a quello la sua silfide.
Le madri, le zie, le nonne facevano alla sala una corona di faccie strane, rugose, ma pur liete; armate il capo di certe cuffie cadenti, ravvolte ne' scialli di lana bigia, rossa o bruna; sicure poi, o confidenti, nella virtù delle figliuole, chiudevano un occhio allorchè passavano dinanzi a loro nei rapidi giri del vals o del galoppo; o si intrattenevano alla cheta fra loro, ridendo, soffregandosi le mani, facendo pettegolezzo or de' mariti, or de' padroni o che so io; e ad ogni po' sbirciavano nell'altra stanza, per vedere se il momento della cena fosse venuto.
I giovani ballavano senza posa; ciascuno s'era scelta la prediletta, e quanto durava la lena dei suonatori, quella de' ballerini durava. Al ricominciar d'ogni ballo, tornava ciascuno alla compagna di prima, e rado era che la cedesse: chi mai lo facesse per generosità, non ballando in quel giro, teneva l'occhio geloso sulla coppia che trascorrevagli dinanzi. Ma tutti, giovani e fanciulle, erano animati dalla medesima allegrezza; ballavano per la gioja di ballare, e la fatica pareva farli più vivaci e più ardenti: non v'era invidia, nè volontà di primeggiare, nè sospettar maligno, nè ipocondriaca eleganza, come ne' balli di quel che si chiama il gran mondo. Era un tramestìo, un parapiglia, una confusione; ma il tripudiare schietto, vero e folle, la gioja popolana brillava nel viso e nel cuore di tutti.
In mezzo a questa baldanzosa compagnia, alcuni uomini più maturi facevan crocchio, o si pigliavan diletto del veder girare e saltare le allegre fanciulle vestite di bianco, le quali a più d'uno mettevano i grilli. E v'era fra loro chi ringalluzzito sporgeva il mento dall'ampia cravatta e dimentico della sua quarantina e de' capegli bigi, lanciava occhiate e complimenti alla briosa zitella che pronta trascorrevagli innanzi, senza por mente a quest'omaggio. Eran costoro i più stimabili vicini, mercanti e bottegai, conoscenti o amici particolari della madre Pelagia.
Un d'essi, che si dava cert'aria d'importanza, quantunque si facesse lecito di frastornar talvolta alcuna delle giovani coppie, non peritandosi nemmanco d'allungar le mani, quasi per rubare in passando qualche ballerina, pareva tener sugli altri non so quale superiorità; parlava, sghignazzava più di tutti. Costui l'incontrammo una volta nel gabinetto dell'Illustrissimo; era quella persona misteriosa, di cui finora sappiamo appena che chiamavasi il signor Omobono. Sebbene qui apparisse tutt'altro di quel d'allora, vestito com'era d'un fino soprabito nero soppannato di velluto, e con ricca lattuga di merletti allo sparato della camicia, su cui brillava appuntato un bel diamante; pure metteva sospetto e ribrezzo il tetro e maligno suo sguardo, che somigliava a quello del lupo, o piuttosto a quello d'una spia. Ma come si trovasse frammezzo a quella credula e buona gente, raccolta a fare un po' di mattìa e di bagordo, nè perchè ci fosse venuto, non è facile indovinarlo.
Damiano, in quella stipata comitiva, stava come perduto. All'entrare, Bernardone lo aveva presentato quale amico suo e compagno di scuola, giovine di proposito; altri poi lo conoscevano e gli fecero buon viso, perchè veniva sotto l'egida del caporione. Nè mancò un tale, che battendogli su d'una spalla:—So, gli disse, che anche tu hai una bella sorellina, perchè non l'hai condotta con te?… Vedi mo, la Gigia, quella birbona, non ha voluto venire; e io sto qui in un cantone come un fungo…. Animo, Damiano, va a pigliar tua sorella; è un bel fiore, che manca al mazzo.
A queste parole, il giovine arrossì; e balbettando una mezza scusa, si trasse in disparte. Ma quel signor Omobono, dall'occhio attento e dall'orecchio fino, colse in aria le parole dello scolare, e stuzzicando a diritta e a manca con isbadate inchieste l'amor proprio delle vecchie sedute in circolo, venne ad informarsi di lì a poco del nome del giovine, della famiglia, del come e del dove poveramente vivessero la vedova e la figliuola; in breve tutto ciò che mostrava non voler conoscere e forse gli premeva.
Intanto, fanciulle e giovani, continuavano i loro festevoli giri con un tripudio, con una lena che faceva ballar con loro le fondamenta della casa. E più d'un vicino dal pian di sotto aveva dovuto balzar dal letto: e comparve colla berretta di notte e gli occhi fuor del viso, all'uscio della vecchia, per tempestare contro di quel terremoto che disturbava il quieto vivere di tutto il quartiere. Se non che, messa appena la mano sul nottolino dell'uscio, di botto Bernardone era corso a sostenere l'assalto; e il vicino, sbigottito dalla vociaccia e dal possente gesto dello scolare, raccomandavasi alle gambe, rifacendo gli scalini a quattro a quattro. Il baccano, l'infuriar de' ballerini e de' suonatori ricominciava più forte, e un coro di risate e di fischi accompagnava il notturno visitatore.
Più d'una volta Damiano tentò pian piano d'accostarsi alla porta, e fumarsela inosservato; ma l'uno o l'altro de' compagni, e più di tutti il signor Omobono che pareva avergli messa addosso particolar attenzione, gli attraversarono il passo. E sebbene, per quanto a ogni poco gli dicessero, non avesse mai voluto ballare, pure se lo tenevano in mezzo quegli amici a cui aveva in cuor suo augurato cento volte il malanno.
Ma già l'afa che regnava nel salotto, il polverio destato dalla furia di quaranta piedi nell'onda del vals fuggitivo e delle saltanti monferrine, avevano ridotto allo stremo stomachi e gole de' ballerini. D'ogni parte si cominciava a gridare:—Madre Pelagia, siamo a tempo?—Signora Emerenziana, è mezzanotte!—Oh che fame, madre Pelagia!—Per carità!—All'assalto, alle padelle!—-Viva noi! dalli! dalli!—E le folleggianti coppie scioglievansi, giovani e fanciulle facevano gruppo nel mezzo della sala, e si serravano appresso, attirati dal profumo delle vivande, troppo lente a comparire. Indi si precipitavano nella piccola antisala; dove la spietata padrona, rialzato un lembo del bianco grembiale, e levata la destra armata d'una gran mestola, in sembianza d'una strega interrotta nell'ora arcana delle malie, minacciava chi ardisse avvicinarsi a' suoi fornelli, che dalle brace crepitanti mandavano faville.
Appunto in quella, tambussano alla porta, la spalancano e balzan dentro improvvisi due inaspettati compagnoni; e con essi le risa, l'allegrezza, lo strepito raddoppiano. Chi erano? nessuno il sapeva, fuor di Bernardone, al quale gli arrivati susurraron, passando, una parola all'orecchio; ed egli rispose con un Viva rimbombante, che passò il tetto della casa. Que' due, mascherati com'erano l'uno in abito di Puff, l'altro d'Arlecchino, incominciarono a far balzi, scambietti e capriole in sì matta guisa, a mandar fuori sì acute grida di gioja che tutti fecero cerchio a loro; e s'attaccò una guerra di motti, di gesti e di follìe le più strane e curiose del mondo. Nè meno ci volle della stridula voce della padrona che annunziava l'ora della cena per mettere un po' di calma in quella babilonia carnevalesca.
In men che nol dico, giovinotti e zitelle corsero a pigliar luogo di qua, di là, sulle seggiole vuote: e, come per incantesimo, formavansi da ogni parte, in ogni angolo, ne' vani delle finestre, gruppi sparsi: rimpetto a ciascuna fanciulla, ginocchio contro ginocchio, sedeva il suo ballerino fedele, in guisa da far de' ginocchi tavolino. I pochi che rimasero senza compagna n'andavano su e giù, malignando dietro i più fortunati di loro, e in mezzo allo strisciar delle seggiole, al bisbiglio, al cicalìo, distribuito a ogni coppia un piattello, una posata di peltro e un bicchiero, cominciò una nuova gara di piacevolezze e di risa, che facevano come per forza d'elettrico il giro d'ogni crocchio; ma non si potrebbero raccontarli i segreti, le arguzie, le matte risposte che si balestravano da un capo all'altro della vivace e romorosa baraonda. Quella poca volta, dicevano, volersela spassare per tutto il resto dell'anno; e tutti, ciò che avevano in cuore l'avevan sulle labbra. Oh che gioja, che felicità per quelle fanciulle senza pensieri mangiar nel piattello stesso, in compagnia del bel giovine che faceva loro battere il cuore, colle balde parole, colle misteriose promesse di fedeltà!
La stessa padrona di casa, e dietro a lei due brave comari entrarono a un punto; portava quella una capace marmitta di fumante risotto, che suol fare le delizie delle cene carnevalesche; e queste due gran piatti, sull'uno de' quali un monte di salame e di salsiccie, sull'altro un grosso pollo d'India arrostito: ne veniva a tutti l'acquolina alla bocca, e poco mancò che al profumo ne sdilinquissero nonne, zie e mammine. Quest'apparizione fu il segnal dell'assalto: s'udì un altissimo viva, e cinquanta mani corsero all'attacco. In un minuto, marmitta e piatti eran vuoti, netti come un deserto; a' discorsi della brigata, al gridìo, alla musica successe una tempesta, un battagliare di cucchiaj, di forchette sui tondi colmi d'ogni grazia di Dio. Banditi e complimenti e ritrosie e smorfiette schifiltose: ciascuno pensava a sè e alla compagna; un buon bicchiero di malvagìa, bevuto mezzo per uno, nettava dalla polve il gorgozzule delle amiche coppie. Nè i vecchi, nè le zitellone, rimaste tutta sera a veder ballare, se ne stavano con le mani in mano, comechè i migliori bocconi, i primi fiaschi strappati fosser per loro, e le ragazze e gli amici, per tenersele buone, le lasciassero fare.
Così passava la lieta notte. Ma Damiano, trovandosi colà a suo dispetto, attorniato da tanti pazzi nell'ora che avrebbe voluto esser libero e solo nella sua cameretta, tenuto d'occhio da due o tre maligni che gli pareva volessero pigliarsi gabbo di lui, si sentiva crescere il malumore; in segreto malediceva quel festino, che forse in altro dì gli sarebbe sembrato una delizia. Bestemmiò al carnevale, agli amici, a sè stesso.
Il peggio fu quando, voltosi a caso, trovossi a fianco quell'importuno che quasi sempre aveva tenuto gli occhi sopra di lui, il signor Omobono. Costui, spolpando beatamente un'anca di pollo, gli venne a brontolare all'orecchio:—E voi, caro giovinotto, non ballate? non mangiate?
—No, rispose Damiano.
—Eh, non fate l'imbecille, o dirò a tutti che siete innamorato…
Damiano tacque.
—Io vi conosco, sapete? voi, vostra madre e vostra sorella…. cappita! è un bel bottone di rosa, e le posso far del bene, io. Non dico per superbia, ma tratto i primi signori di Milano… Mi sembrate un buon giovine, so che avete avuto delle disgrazie; ma confidatevi in me e lasciate fare. Quando mi ci metto io nelle cose….
—Ma, signore…. cominciò tra iroso e superbo il giovine, che sentiva ripugnanza di colui e delle parole che gli cadevan di bocca a una a una, in tuono d'affettata compassione.
—Non occorr'altro; lasciate fare a chi tocca, verrò a farvi una visita; so dove state di casa; e parleremo con comodo; la vostra famiglia mi preme. Via, siate buono, il mio giovinetto! bevete questo bicchiero, fra noi, da buoni amici. E fidatevi di me.
—Nè io, nè i miei, non abbiam bisogno di nulla, signore! replicò, con mal celato disprezzo, Damiano. Si tolse dal crocchio che lo serrava; il signor Omobono fece per afferrargli il braccio, ma egli con una buona strappata, e con un urto a' vicini che gli eran d'impaccio, potè farsi un po' di largo, e trovossi per sua ventura vicino alla porta.
Allora, un impensato caso venne ad ajutarlo. La triplice fiammella dell'infiorata lucerna, che faceva la vece del lampadario, fumigava, vacillava, scoppiettava giù presso a morire; il che vedendo, un giovine magro e lungo il quale avanzava di tutto il capo i compagni:—A me, a me! gridò; e scavalcate scranne e fanciulle, stese la mano all'alta lampana; ma senza volerlo, e per far bene, rovesciolla. Il fuoco s'appiccò alla ghirlanda di fiori che la ornavano; e subito un gran bagliore, una fiamma rapida, fugace, poi tutto buio; la sala non rimase più rischiarata che da un moccolo dimenticato sulla spinetta. Le risate, le grida, lo spavento, la confusione, il gran guai che fu conseguenza di una disgrazia onde non venne male a nessuno, diedero tempo a Damiano con una pronta giravolta d'uscire non visto: trovata la scala, corse giù a precipizio, e senza por mente alla pioggia che s'era messa dirotta, camminò, respirando con gioja, fino a casa sua.
Sua madre e la Stella, in gran pena di cuore lo aspettavano, assidue tuttora al lavoro; l'una si lamentava di quando in quando della insolita tardanza del figliuolo; l'altra, benchè temesse in cuore, cercava soavi parole per rassicurarla. Egli le abbracciò con molto affetto, dissipò quell'angustia raccontando come, mal suo grado, alcuni compagni del liceo l'avessero trattenuto con loro, senza dir però nè perchè nè dove; esse, alla prima parola, come fan l'anime buone, si consolarono. Poi n'andarono chete a coricarsi; mentre Damiano, tornato nella sua stanza, accese la lucernetta sul tavolino di studio; e senza far romore, acciocchè lo credessero coricato, aperse i suoi cari volumi, che tante volte gli avevano popolato d'aeree, dolcissime visioni quella cameretta nuda, e fatto dimenticare le tediose cure della giornata; volse e rivolse fogli e quadernetti in cui era solito notar le più belle cose che leggeva e le memorie liete o malinconiche della sua fantasia; pagine semplici o poetiche che nessun cuore può intendere, altro che il cuore di chi le scrisse. Poi tolse fuori una cartella di disegni a matita, di schizzi e figure che a nessuno mai aveva ardito mostrare, e li fece scorrere lentamente, quasi cercando per entro a quei confusi frammenti una nuova e migliore inspirazione.
Nella solitudine della povertà, in quell'alto silenzio della notte, l'anima sua dapprima immiserita, sbattuta dalla vista di gioje volgari e sciocche che non sapeva più amare, era fatta leggera, libera; e poteva, egli pure, sollevarsi ne' poetici spazii dell'infinito. Contento di trovarsi solo, non arrossiva più degli affetti che gli agitavano il cuore e che in faccia degli altri non sapeva esprimere. Sentiva d'essere qualche cosa; e sollevando la fronte alla sgretolata soffitta, sembrava interrogar colle ardenti pupille un genio ignoto, l'angiolo che raccoglieva la sua preghiera e il suo sospiro, che gli svelava le divine forme della bellezza, e prometteva di fargli aperto a poco a poco il mistero dell'arte.
Fino a quel dì, Damiano non aveva osato confidare ad anima viva le speranze che gli davano coraggio e vita, rendendogli cara persino la volontà del soffrire. Parevagli che una voce potente lo chiamasse, una voce che diceva:—Anche tu puoi essere artista!—Ma questo misterioso ed unico amore, non doveva esser noto ad alcuno, neppure al suo vecchio amico il pittore Costanzo, a colui che, senza saperlo, aveva destata in esso la prima fiamma. Il buon uomo s'era fisso di dare un mestiero onorato al povero giovine, ma Damiano sentivasi nato per qualche cosa di più; amava l'arte, la bellezza, la verità, che gli erano apparse qua e là, ne' pochi monumenti cittadini de' tempi andati, nella maestà delle nostre chiese antiche, ne' sacri dipinti delle solitarie cappelle; aveva interrogato le grandi opere del passato, e voleva esser pittore. Mai nessuno sui primi tentativi della sua mano aveva gettato gli occhi: facendo mostra di que' fogli sgorbiati d'abbozzi strani, egli avrebbe creduto di profanar l'arte che amava tanto, e li tenne per sè; nessuno seppe, nè rinfocò il pensiero vitale di quelle bizzarre creazioni d'una giovine fantasia. Però la coscienza del bello, la fiducia di riuscire, e un'idea segreta, tormentosa, parlavano all'anima modesta di Damiano: cosicchè ebbe risoluto alla fine di farsi conoscere, di tentar la fortuna. In que' frastagli, in que' fogli tutti pieni di figure, andava da parecchi mesi cercando l'espressione d'un alto concetto già maturo nella sua mente, e che doveva essere il primo suo quadro.
Ma in quella notte, dopo un'ora d'entusiasmo, i pensieri più dolorosi della vita ripiombavano sul suo cuore. Si mise a riandare i molti affanni passati, chinò il capo sulla palma della mano; la sua fronte era ardente, sentiva batter le arterie; una nube gli veniva sugli occhi, e negli sparsi disegni onde aveva ingombro il tavolino non distingueva più nè linee, nè contorni, nè figure. Avrebbe voluto piangere, ma non poteva; la mente, instancabile tormentatrice, sembrava compiacersi de' dolori del cuore. Oh! v'ha di tali pensieri che non possiamo concepir due volte; v'ha un dolore necessario, il dolore che inspira e crea.
—O mio Dio, così pregava Damiano in quella notte, che mi ponesti nell'animo tale speranza, fa ch'io la nutra nell'umiltà e nell'aspettazione; ma toglimi da questo martirio della volontà che si stanca e trema al paragone dell'affetto; fa ch'io non senta dentro di me questa voce che mi grida sempre:—Povero pazzo, che ti credi qualche cosa e sei nulla!
E i suoi pensieri pigliavano un colore più cupo. Compiangeva sè medesimo come uno scempio ingannato che corresse dietro a un fantasma; poi, nella paura e nell'oppressione de' pensieri, sentiva un freddo nel cuore, e temeva che questa idea fissa gli facesse un dì o l'altro perdere il lume della ragione. E quella voce tornava a parlargli più aspra e severa:—Che hai tu fatto, per riuscire a qualche cosa di grande, in mezzo a tanti che nascono, vivono e muojono? Due anni di sogni, che t'assediano la notte; e tempo sprecato a gittar vane linee sopra la carta, a rimpastar colori su d'una disusata tavolozza, e scombiccherar col pennello le tele fruste del povero tuo maestro, ecco quel che facesti, l'arra del tuo avvenire!
Allora, agitandosi sotto il peso dello sconforto quasi mortale, diceva a sè medesimo:—Dunque farò sagrifizio della vita a un'ombra vana? Morirò col mio segreto, e porterò con me nella fossa questa febbre dell'anima, intanto che mia madre e mia sorella hanno il diritto di dire: Tu eri il solo che potevi salvarci dalla miseria, e non hai fatto nulla, nulla per noi?… No! no! io vedo, che sebben m'abbia a costar caro, pure bisogna ch'io soffochi in cuore queste illusioni. Che importa?… se non sarò pittore, sarò garzon di bottega, commesso, scritturale, qualche cosa come tutti gli altri. Ce n'è tanti che amano e sentono e soffrono al mondo! E sono anche loro miei fratelli. Lavorerò per il guadagno, alla giornata; e avrò il compenso di sostenere la povera vita di queste sante creature che sono l'eredità di mio padre, le sole anime che mi ameranno sulla terra. L'indifferenza de' compagni, la compassione, peggiore ancora del disprezzo, la necessità che viene innanzi, l'oggi e il domani, e la grandezza del destino che tu scongiuri, e questa malinconia che t'ha messo radice nel cuore, tutto non t'avverte che tu falli la via?… Se fossi solo quaggiù! potrei abbandonarmi a questa forza che mi strascina, come all'onda d'un torrente; tentar di riuscire, o morire! nessuno piangerebbe. Ma così… oh no no! almeno un po' d'amore, alcuno che mi sorrida, che mi dica una parola di cuore; e farò senza lamento la vita sconosciuta, sempre eguale, del povero che va e viene dalla soffitta alla bottega…. Esse mi benediranno; e tu, Signore, tu mi darai la forza che mi manca, per essere buon figliuolo e buon fratello!…
Pian piano si trasse alla finestra, l'aperse e guardò nel bujo; pioveva ancora. Non si accorse del freddo che gli penetrava nell'ossa; coll'anima vagheggiava tuttora le belle imagini che gli pareva veder fuggire per sempre. E fra sè pensava a coloro che avevano cominciato come lui, e col volere, colla fatica, colla ostinazione del coraggio eran pur saliti al sommo del tempio misterioso; e persuadevasi che, vinta la prima dolorosa prova, forse avrebbe trovato più facile il cammino. Figuravasi la gioja santa della madre e della sorella, una vita più tranquilla per loro, e una modesta fortuna, e una casa abitata in pace…. Ma poi, contava gli anni che dovevano passare, e vedeva ch'era pur forza vivere il domani.
—È impossibile, bisogna chinare il capo, è impossibile! Non ci pensiamo più; e nessuno lo sappia questo martirio!
E seduto di nuovo accanto al letto, le idee gli si mischiavano monche e aggruppate insieme nella mente: non era più meditare, era sentire e soffrire, senza aver più coscienza di sè medesimo. Eppure non lasciò sfuggirsi un lamento, non fece un sospiro, temendo che il più debole suono avesse a turbare il riposo di sua madre o di Stella. Ma nel cuore profondo, in quel centro del dolore, sopportava l'ineffabile tormento della sua vita incerta e abbandonata, la lotta della ragione contro l'amore.
Alla fine, non potè reggersi più sulla persona; per lo spasimo convulsivo tremava in tutte le membra; e lasciando cadere la testa arrovesciata da un lato sopra il tavolino, giacque in lungo e grave assopimento.
Alla prima ora del mattino, una mano bianca e leggiera si posò sulla sua spalla. Era la mano della Stella. Essa, vedendo il letto non tocco, la lucernetta tuttora accesa, il tavolino pieno di carte, credè che il fratello avesse vegliato tutta notte a studiare; e voleva rimuoverlo con dolce atto da quella incomoda postura, perchè si coricasse almeno per brev'ora.
Ma il giovine d'improvviso si riscosse, si alzò, e parve, al modo con che guardava all'intorno, avesse perduta la memoria e la conoscenza. Era pallidissimo, cerchiate di lividore le pupille; non rispose alle amorevoli parole della sorella, ma contemplatala fissamente a lungo, la baciò sulla fronte, poi scosse il capo. Di lì a poco, ripigliato il cappello, e detto che aveva bisogno dell'aria viva della mattina, uscì della povera stanzetta.
Capitolo Undecimo
Il tristo s'affatica sempre, disse già un sapiente, sia nel fabbricare i mali a danno d'altrui, sia nella paura che altri a suo danno li volti; cosicchè quanto va ruminando contro gli uomini, tanto paventa gli uomini non abbiano a macchinar contro di lui. Ma, pur troppo, v'ha di quelli che amano il male per il male; e mentre sudano per tender nel bujo le loro reti, non veggono la fine della sorda guerra ch'e' fanno ai buoni; perciocchè la malizia e il livore danno esca al delitto.
Abbandoniamo per poco la casa della vedova, e penetrando in quella del signor Omobono, che già incontrammo due volte alla sfuggita, potrem forse sapere in qual modo costui avesse sopportato il freddo rifiuto di Damiano all'offerta che gli fece della sua protezione, la sera stessa del festino.
Una femmina imbacuccata in uno scialle di Francia, del quale nessuno chimico avrebbe più saputo dire il colore, saliva le scale che conducevano alla rimota abitazione di quell'uomo misterioso.
—Chi è?
—Amici.
—Cioè, chi?
—Son'io, l'Emerenziana; aprite pure.
—Ho capito: vengo,
E il signor Omobono, messa nella toppa una grossa chiavaccia, la rigirò, alzando la bandella dall'arpione; poi cautamente aperse a mezzo un de' battenti. Veduto ch'era di fatto la vecchia pegnataria, si trasse indietro per lasciarla passare, e richiuse la porta. Dalla buja anticamera entrarono in un salottino tappezzato di sbiadita carta verdognola cadente a brandelli per l'umido delle pareti; ivi erano un tavolino, due seggiole di pelle scoriata, e una cassa forte di ferro incastonata nel muro, cui faceva difesa un paravento qua e là bucherato di feritoje, come una casamatta.
Ravvolto in una zimarra imbottita, dal collare foderato di pelle di gatto bigio, il signor Omobono si raccostò, strisciando le emerite pianelle, al camminetto dove, non si può dir bruciavano, ma andavano scoppiettando, due tizzoni umidicci e riarsi, posti in croce sopra un monticello di cenere; acconciatosi a sedere a cavalcione del fuoco, stese le calcagna su due mattoni messi là in vece d'alari; poi, sbirciata la vecchia con una trista smorfia che quella comprese, domandò a mezza voce:—E così?…
La madre Pelagia, che si era pure adagiata in un piccolo canapè a canto del cammino, rispose prima con un sogghigno di mal augurio, poi:—Bisogna vedere, continuò a mezza voce anch'essa: la cosa non è facile, come pare a prima vista. Può essere un affar buono, un affar d'oro, come suol dirsi; e si capisce che siete un buon segugio, compare mio. N'ho vedute delle altre, io, a fare una eccellente riuscita; perchè, m'intendo bene, voi pensate di trovarle un marito, a quel che m'avete detto….
—Sicuro, sicuro, a suo tempo…. brontolò l'Omobono.
—Quand'è così, chiudo un occhio sul resto; poichè tutti sanno che io sono una donna onesta…. E se non fosse per fin di bene….
—Eh via! me li avete già ricantati le cento volte questi vostri scrupoli. Al fatto, al fatto. Avete dunque saputo quel che mi preme, siete riuscita a fare un po' d'amicizia con la fanciulla?
—Adagio, signor Omobono; so e non so; c'è della buona disposizione, ma c'è pur qualche intoppo…. gente onestissima però; e la fanciulla non sa proprio niente di questo mondo.
—Tanto meglio! susurrò colui fra' denti.
—La madre è una povera bizzocca, la quale non vive che per un suo beniamino, da lei mandato a prete fuor di casa; la figliuola, per dirla, è una vera bellezzina; e quanto al giovine che avete visto in casa mia, ne potete giudicar meglio di me.
—Sì, sì, costui è il solo che non mi va per il verso e che potrebbe farmi qualche mal giuoco.
—È però un buon ragazzo, mi dicono.
—È un matto che non sa il proprio interesse, uno che non ha da vivere fino a domani, e vuol far del grande e dello schifo, con me?… Oh, verrà giù, ve lo dico io, verrà giù il figliuolo.
—Ma, intendiamoci: non vedo come mai… se avete delle buone intenzioni, a quel che dite….
—Mi pare d'essermi già spiegato con voi; io non c'entro per nulla, io. Non posso dir più di quanto ho già detto. Amo far del bene, dove posso; purchè ne venga un po' di bene anche a me, ci s'intende. Ora mettete che un gran personaggio, di quelli che hanno il gran niente da fare e la borsa piena, abbia udito dir bene di questa famiglia; mettete che gli stia a cuore d'ajutar la vedova, senza che voglia farsi conoscere; mettete che abbia degli obblighi antichi, lontani… ve ne può esser tanti e di tante sorta; mettete che questo personaggio m'abbia detto:—Omobono, voi che siete un uomo prudente, e al tempo stesso un uomo di mondo, cercate di vedere, di sapere…. il come, il dove, il perchè…. e se mai bisogna, disponete pure, anche in anticipazione, di qualche centinajo di lire….
A tali parole, la madre Pelagia rizzò gli orecchi e mostrò d'aver inteso, quantunque lo scaltrito Omobono avesse ravviluppato il suo dire in modo che la vecchia non ci avesse a veder chiaro.
—Lasciate fare a me, diss'ella alzandosi; ho capito, e farò quel che si può. Già ho messo da banda gli scrupoli, posto che voi m'assicurate che non c'è proprio niente di male, e che si tratta d'obbligazioni che quel signore ha verso la famiglia della quale parliamo. E poi, in ogni caso, mi garantite che avrò le spalle al muro?
—Andale là, andate franca che non si muoverà una mosca. Ma con questo, non fate con troppa premura; pigliate le cose alla lunga, quietamente, chè nessuno sappia, nè possa indovinar nulla; sopra tutto che il mio nome per ora non sia pronunziato; non mostrate nemmeno d'aver conoscenza di me.
—Non dubitate, siamo intesi; e quando ci sarà del nuovo mi lascierò vedere.
—No, no, non v'incomodate; verrò io stesso da voi, è meglio così: già sono di rado in casa, ho un diluvio d'affari addosso, e arrischiate dì non trovarmi; passerò io da voi.
—Non occorr'altro, come volete; intanto, state bene.
—A rivederci, signora Emerenziana.
E l'accompagnò fino alla porta, la schiuse e la riserrò dietro a lei con gran cautela. Quando si vide solo, lasciò fuggire una sonora e sconcia risata; poi, fregandosi le mani, cominciò a passeggiare in su e in giù per il salottino, ravvolgendo in mente cento pensieri che mano mano gli si dipingevano ne' mutamenti strani della fisonomia; e alcune parole gli scappavano come involontariamente di bocca:—Va pur là, vecchia strega, chè l'Omobono sa il fatto suo, e anche tu bevi grosso come gli altri…. Questa ragazza, questo fiore di cui non vidi da un gran pezzo il compagno, che pare proprio una madonnina, è quella che ci voleva…. essa deve fare in un modo o nell'altro la mia fortuna. Io non perdo il giudizio, no; e non arrischio un pelo…. e alla fin fine, se il mio giuoco non riesce, l'Illustrissimo finirà a pagar lui per me anche questa volta…. Pensate un po', s'io son uomo da fargli il cane da caccia, senza averne le mie ottime ragioni…. Ormai, tutti gli affari miei van bene, benone…. se il diavolo non ci mette la coda, innanzi che passino due anni, l'Omobono, il mercantuzzo fallito, si vedrà cavare il cappello da quei che adesso gli fanno fare anticamera e lo tengono per un barattiero venuto al pelatojo…. poveri barbagianni!—
E passando dietro al paravento, aprì l'usciuolo della sua cassa ferrata; facendo scattar la molla d'un ripostiglio segreto, ne trasse alcuni fasci di carte vecchie, ripassò molti conti, annotò parecchi chirografi bollati e non bollati, fece di molte somme e moltipliche, sfogliazzò registri e polizze di ricevuta, sprofondandosi del tutto in que' sogni di Mida.
Intanto, la famiglia della Teresa, abbastanza serena e benedetta in mezzo alle disgrazie, menava una vita umile e buona, una vita a cui la felicità non mancava, perchè non mancavano il lavoro e la speranza.
Solo Damiano, da qualche tempo, immalinconiva. La madre e la sorella vedevanlo quasi sempre sopra pensiero; mangiava poco al desinare, parlava meno; e se ne stava fuor di casa pressochè tutta la giornata. Non sapevano però com'egli passasse l'ore libere della mattina nello studio del vecchio pittore, al quale, dopo molto dubitare e molto pentirsi, aveva confidato di voler tentare a ogni modo se la sua vocazione per l'arte fosse vera, per riuscire a qualche cosa di bene o guarire per sempre. In mezzo a questo però, non era men frequente alle scuole del liceo; poichè avendo giurato di saper procurarsi, al più presto, il bisognevole per la famiglia, non voleva chiudersi l'unico sentiero a qualche onesto impiego. Intanto il poco che guadagnava presso il negoziante di pannine, lo metteva al coperto dell'imminente necessità e gli dava coraggio per l'avvenire.
Da lungo tempo la buona famiglia non aveva riveduto il signor Lorenzo, l'unico suo protettore e amico. Sulle prime non aveva sentito il vecchio soldato tutto il peso della perdita di Vittore; e le cure prestate agli orfani del suo commilitone, e un resto di fierezza del suo cuor da veterano gli avevano medicata per qualche mese la ferita. Ma l'abitudine di tutta la vita, ma il vedersi sparire d'intorno a uno a uno i pochi avanzi della gloria dell'Imperatore, coloro coi quali aveva sfidata e vinta la morte le mille volte, i suoi compagni di guerra, i suoi amici, che usava chiamare uomini d'uno stampo perduto; e quel trovarsi tutti i dì solo, sconosciuto, l'ultimo di quegli eroi che portavano scritto nella solcata fronte e nelle ferite del petto i grandi fatti del loro tempo; tutto ciò metteva nell'anima di Lorenzo una sdegnosa tristezza: e questa lo vinceva sì fattamente da tenerlo ancora lontano da que' soli i quali ancora sapevano far sì che qualche sorriso diradasse la sua serietà, e il frequente aggrottar de' suoi bigi sopraccigli.
Non faceva più i consueti passeggi fuor della porta Ticinese, da lui chiamata ancora porta Marengo, o lungo lo stradone di Mosca, o fuor dell'Arco del Sempione; andava tutt'al più da casa sua, ch'era in via di san Simone, a un piccolo e deserto caffè poco lontano, tenuto dalla vedova d'un altro suo povero commilitone morto nei gorghi della Beresina. E colà, sdrajato in un canto o ritto a guardar fuori della porta vetriata, se ne stava ore ed ore; talvolta l'intero giorno. Le sue visite alla Teresa divennero così meno frequenti; ma non già perchè fosse scemato il bene che portava a que' buoni. La consuetudine antica durava sì forte in lui, che talvolta vinceva l'unica affezione pur viva nel suo cuore, e dopo che non abitavano più la campestre casipola in Quadronno, ov'era andato per sedici anni tutti i dì dell'anno, non sapeva ancora trovar la strada della loro nuova abitazione. Ma il suo cuore non era cambiato; vivendo grettamente colla sua scarsa pensione di cavaliere (e dal giorno della morte di Vittore non s'era più veduto all'occhiello del suo sdruscito pastrano il nastro di quella corona) l'onesto vecchio aveva trovato modo, risparmiando qualcosa ogni mese, di cominciar a mettere insieme poche centinaja di lire, le quali destinava ad accasar la figliuola dell'amico, quando il momento fosse venuto. Era questo il suo segreto.
Pure, da qualche settimane, non usciva più. Seduto presso la finestra della sua stanza, dopo bevuta una scodella di caldo latte la mattina, rileggeva per la ventesima volta la Storia di Carlo XII, lasciando scappar qualche muto riso e scrollando il capo alla descrizione di quelle battaglie del secolo passato; poi, quando una vicina dabbene veniva a portargli qualche cosa per il desinare, la tratteneva per raccontarle le campagne del Grand'uomo, nelle quali aveva fatto anch'esso la parte sua, e che ormai non poteva più raccontare a nessuno. Bene spesso, a un tratto s'interrompeva; e una frase ardita, un grido di guerra del tempo andato finivano in una sorda imprecazione, in una bestemmia da soldataccio, che facevano scappar via l'onesta vicina.
Dopo alcun tempo di questa vita monotona, solitaria e direi quasi rabbiosa, il vecchio tenente cominciò a sentirsi mal disposto; poi infermò. Damiano, che da lungo tempo non aveva più saputo nulla di lui, venne per caso a visitarlo, e trovandolo malato, lo disse subitamente alla madre; la quale, tornata la pace col suo burbero amico, non lasciava passar giorno che non venisse con la figliuola ad assisterlo, a riconfortarlo. Era Damiano istesso che le accompagnava colà al mattino, e ritornava a prenderle, innanzi all'ora del desinare. Così quella rinata corrispondenza di cure e d'affetti ristorò in poco tempo la logora salute di Lorenzo, e fu per la nostra famiglia e per lui una gran consolazione.
E per non mettere in mezzo nessuna cagione di dispiacenza, il vecchio giacobino non parlò più di Celso, e di quel ch'era stato: chè ben vedeva non sarebbe riuscito a far capire alla signora Teresa le sue ragioni che credeva belle e buone. Se avesse saputo invece che il destino del giovine abate era proprio in mano di tali che pensavano far di lui ciò che nel suo rozzo buon senso egli medesimo antivedeva, non l'avrebbe tenuta in gola, per certo, a costo di romperla del tutto anche con la vedova del suo amico.
Così la Teresa, nell'aspettazione di un tempo migliore, viveva que' giorni occupati e tutti uguali della sua nuova povertà. Sul finir della quaresima, la signora Emerenziana, col pretesto di portarle a racconciare non so che merletti per commissione d'una mercantessa di mode, s'era trattenuta due buone ore colla vedova, e aveva saputo farla cantare su tutti i tuoni, compassionandola, e facendo un'eco infinita di ohi! di ahi! di Signor'Iddio! alla litania di guai che la credula donna le andava raccontando. Alcun tempo di poi, tornò in compagnia d'un signore, un po' sugli anni, che la Teresa non conosceva punto, ma che pure aveva l'aria d'una persona d'importanza. Glielo presentò come un ricco privato, un negoziante ritirato dagli affari, il quale aveva una superba commissione di lavori, nientemeno che parecchie dozzine di fazzoletti, di cuffie, d'accappatoj e d'altre simili finissime lingerie da ricamarsi per il corredo di nozze d'una illustre damina.
La Teresa, rimpastata di buona fede com'era, la credè una grande fortuna, e non rifiniva dal ringraziar quel signore, che intanto, girando intorno alla sfuggita i suoi piccoli occhi di ramarro, pareva studiasse nella rozza suppellettile di quelle stanze, nell'umile ma decente povertà, il segreto della loro vita domestica e sconosciuta. E facendo ballar colle dita la grossa catenella d'oro e il gruppetto di ciondoli di che andava ornato il panciotto, aveva l'aria di pesar sulla mano quanto potesse valere l'onestà di quelle abbandonate creature.
Innanzi lasciarle, aveva già pigliato con loro una tal'aria di confidenza e d'amichevole protezione, che la buona donna gli si raccomandò con molta e viva preghiera; anzi non esitò un momento ad invitarlo che ritornasse, per dare, se non altro, un'occhiata a' ricami delle cifre e degli stemmi, quando il lavoro fosse incominciato. Quel signore fece a simile invito un cotale atto d'assentimento, che mostrava un'affettata degnazione; ma nel suo sguardo, in tutta la sua persona appariva qualche cosa d'incerto e strano; così che la giovine Stella, la quale intanto s'era tenuta presso la finestra, al suo telajo, sentì nascere nel suo cuore, quantunque fosse un cuor di colomba, un segreto senso d'antipatia per quell'uomo.
Una settimana dipoi, costui lasciavasi vedere di nuovo; rimaneva colle due donne più lungo tempo, e menava buone tutte le ragioni che ripetevagli la Teresa; profferendosi a servirla dove potesse, per via delle tante conoscenze ch'egli vantava, di duchi, di conti, di marchesi, de' primi negozianti, e banchieri. E così egli soggiogò del tutto il cuore della onesta donna. La quale già lo stimava il fior de' galantuomini, una vera provvidenza: anzi, ell'andava fra sè imaginando il come l'avrebbe pregato di procacciar qualche buon impiego al suo Damiano, tanto che potesse anche lui vedersi una volta contento, con un pane onesto e sicuro. Ma, per quel dì, non osò fargliene parola.
Fu nel partire che il sedicente negoziante s'abbattè al piè delle scale in Damiano che se ne tornava a casa sua. Il giovine saliva, e nel passare a lato di quel signore, si volse a riguardarlo; gli era parso di riconoscere in lui quell'Omobono col quale s'era già incontrato al festino del mercoledì grasso.
Ma il signor Omobono (ch'era ben lui) si tirò sugli occhi, più che potè, il cappello; e mettendosi il fazzoletto alla faccia, come sorpreso da un impeto improvviso di tosse, svoltò lestamente la spalla del portone e si schermì dal curioso esame del giovine; il quale, preoccupato da' suoi foschi pensieri, credè d'avere sbagliato, e innanzi che fosse venuto alla sua porta, s'era già scordato di quella faccia del mal augurio. La Teresa poi, per una delle solite ragioni per cui le anime oneste credono di soverchio alle oneste intenzioni, non aveva voluto dir nulla al figliuolo della nuova conoscenza fatta; pensando di aspettare a raccontargli ogni cosa, allorchè le fosse riuscito di poter dare a lui pure qualche buona notizia. Vedendo sulla fronte della madre un'insolita serenità, anche la Stella non ardì parlarne col fratel suo; e cominciò anzi a dubitare che la ripugnanza provata dal suo cuore, alla sola vista di quell'uomo, poteva ben essere un'ingiusta apprensione, una vana ombra, un capriccio.
Capitolo Duodecimo
Era venuto il giovedì santo.
In quel giorno che rinnova le divine memorie alla fede e al dolore cristiano, la vedova, in compagnia della figliuola, secondo il pio costume del popolo nel quale vivono intatte le sante tradizioni del passato, compiva essa pure l'umile pellegrinaggio alle sette chiese, accompagnando nel consueto giro per la città la processione de' popolani che recitavano divote orazioni alla visita de' Sepolcri; avevano innalzato i loro cuori al Dio degli umili e de' credenti, implorando rassegnazione e speranza, la benedizione ne' travagli, e la contentezza dell'innocenza. Quel giorno d'austera solennità, quella continua schiera di donne, di fanciulle, d'intere famiglie seguenti la stessa via; le chiese affollate di popolo inginocchiato e pregante; e la stessa fatica del cammino e il conforto della preghiera e della sacra costumanza adempiuta, tutto aveva destato nelle loro anime buone una quieta gioja che da lungo tempo non erano avvezze a gustare.
Uscite del Duomo, poco innanzi che si facesse la sera, tornavano a casa, parlando fra loro di Damiano, il quale da parecchi dì erasi fatto assai più sereno e mite che prima non fosse. A un tratto, la Stella s'avvide che le seguitavano due sconosciuti, i quali da un pezzo si erano messi dietro a lei, di via in via, ed ora le stavano alle spalle, ora le camminavano dinanzi, e la guardavano sfacciatamente, discorrendo intanto fra loro, senza rispetto di farsi udire. Anche nel tempio, mentr'essa pregava a lato della madre, un di coloro le s'era accostato, facendole intoppo e susurrando non so quali parole da lei non intese. E intanto che quello l'aveva seguita nel Duomo, l'altro s'era fermato sotto l'arco del Coperto de' Figini: poi, all'uscir delle donne, s'erano riuniti e se n'andavano al braccio l'uno dell'altro. Ciò che prima la Stella aveva notato appena, le fissò i pensieri, quando intese dietro a sè lo scroscio d'una risata, e i discorsi di coloro le ferirono l'orecchio. Tremò come una foglia, e sentendosi quasi mancare si strinse alla madre: la quale, credendola affaticata dal camminare, e nulla sospettando, le disse: —Animo, Stella, chè siam quasi a casa.
Se la fanciulla non avesse indovinato che que' due le stavano alle calcagna a fine di vedere dov'ella fosse per entrare, le parole che correvan tra loro gliel'avrebbero chiarito. Erano due giovani signori, vestiti con eleganza alla moda del giorno, due di quegli attillati che camminano in aria di conquistatori lungo le frequenti nostre corsie, di su, di giù, all'ore consuete del passeggio, e più spesso sull'imbrunire, aspettando che la buona ventura mandi loro incontro qualche galante o misteriosa bellezza; studiosi d'andar segnati a dito da chi voglia o non voglia saperne di loro, accorti e leggiadri trovatori di lepidezze e passatempi; di quelli che pigliano le cose con buon gusto e capriccio; che si credono, essi soli nel genere umano, persone comme il faut, per dirla con una loro favorita espressione; senza curarsi mai di pensare, prima o dopo di fare; chè il pensare per essi è un di più.
—Ma, caro Lodovico! diceva l'uno, camminando lungo la muraglia, come seguisse a dispetto l'amico: Ma, caro Lodovico! bisogna proprio dire che tu metti da banda il buon genere.
Ed era veramente un tipo del bon ton d'allora colui che parlava; dico d'allora, comechè tutti sappiano il buon tuono mutar vezzo e legge, trasformarsi come il Proteo della mitologia. All'arricciata capigliatura, a' lucidi mustacchi attorti sulla punta, allo studiato nodo della cravatta, all'abito fino che gli serrava il busto, a' guanti gialli, e più di tutto all'aria burbanzosa e al passo trionfale, si ravvisava in lui il giovine semideo del nostro tempo; il quale non ha ancora fra noi trovato il suo poeta che gl'insegni, come già fece il buon Parini a quello di settant'anni fa, l'arte d'ingannare
«……. questi nojosi e lenti «Giorni di vita, cui sì lungo tedio «E fastidio insoffribile accompagna;
e così di tutto si ride al mondo, e anche di sè medesimo.
—Ascolta un po', conte: disse l'altro, vestito anch'esso come l'ultimo figurino delle mode, sebbene non apparisse in lui quella scioperata arroganza che leggevasi a chiare note sul viso del compagno. Se poi si era fatto ad apostrofar l'amico, così in aria tra seria e scherzosa, con quel bel titolo di conte, n'aveva il perchè: quel titolo era un dolce solletico all'orecchio del giovine paladino.
—E che puoi dirmi ch'io non sappia? Tu sei mortalmente annojato della quaresima, e cerchi una distrazione….
—Sì, il far di madonnina di costei che tu vedi, mi va al cuore….
—E vorresti ch'io ti avessi a dar mano, eh? è per questo che m'hai tirato a forza fin qui, proprio all'ora che sulla porta del caffè io aspettava una persona, per accompagnarla alle prove del ballo nuovo.
—Una persona?… Gran che, conte Achille! per un amico puoi lasciare ch'essa ti tiri gli orecchi qualche volta!
—Ma non che mi graffii!
—Ah! ah! tu sei proprio ingattito di que' quattr'ossucci di ballerina.
—Ehi! come parli?
—Va via: come non si sappia che le vai appresso da tre anni, e che fai il geloso, come fosse una gran dama! E sì, che per entrarle in grazia devi andar giù chino, e non contarli… Va pure, che con le tue pretensioni, fai la bella figura!
—Non capisci niente: non sai che il mio è il gran genere?
—Sì, sì, fare anticamera ogni dì alla portaccia; dare il braccio alla ragazza da una parte, alla mamma bavosa dall'altra; fare il lacchè al carrozzone del peccato, quando riconduce a casa quell'olla di ninfe, e stare col servitor bisunto sulla predella del legno?…
—Matto, matto! rispondeva il conte, sganasciando dalle risa. So bene ch'è l'invidia che ti fa parlare. Ma via, non vado in collera: ora di' su, di codesta meschina che ne facciamo?
—Vienmi dietro, ch'io vegga dove sta di casa; poi ti dirò il resto. Già sai che ho miglior gusto di te; amo i fiori di primavera io, i bei bottoni di rosa….
—Te lo credo, se vuoi: ma sartorelle e cuffiarette non sono più in moda. A Parigi, è mercanzia per gli studenti e pei giovinotti di provincia: ce n'è a nugoli di questa roba: io per me, quando ci fui, non ne volli sapere.
—Che diavolo? ciascuno ha i suoi capricci; a te la scena, a me la bottega: così saremo sempre amici. Ma senti questa, conte mio…. Non sai che mio padre….
—Che c'è di nuovo? non vuol più pagare i tuoi debiti?
—Manco male, se fosse: e' ci sarebbe il rimedio; farne degli altri.
—È vero: che ha dunque il reo genitore?…
—Vuol darmi moglie.
—Vecchio pedante!… E la prendi?
—Che fare? finora non dissi nè sì, nè no: perchè, lo sai bene, i vecchi voglion fare a modo loro; e mio padre, che fin qui mi tenne allo stecchetto, con quelle idee antidiluviane d'ordine, d'economia e di sistema, mi rovina, mi tira all'etisia. Un matrimonio mi potrebbe tornar bene, sarei padrone del mio: d'altronde, il partito è magnifico, una figlia di buona casa, non brutta a quel che mi dicono, e duecentomila lire alla mano. Vedi, che c'è da pensarci sopra.
—Ah! ah! ah! Lodovico che becca moglie!… Bravo lui! stasera, al caffè, vo' far ridere gli amici.
—Per amor del cielo! giurami che non ne dirai parola, o me la piglio sul serio.
—Poveraccio! te la fanno, e ci caschi. Va là che non t'invidio: io sono libero, indipendente, non ho chi mi faccia il moralista, e posso dire che mi godo la vita. Ma già, capisco: finchè ci sono questi padri benedetti….
—Che vuoi farci? Il mio mi vuol troppo bene, nè pensa di lasciarmi così presto. Dovrei dunque aspettare fino a quarant'anni a far le cose a modo mio, continuando intanto, come ogni misero figlio di famiglia, colla mia magra mesata che mi basta appena pei sorbetti e pei guanti?
—Ti compatisco; ma doversi ingollar una moglie….
—Che importa? alla fine non ci metto gran pensiero: anzi, ti dirò in confidenza che sto per far contento il vecchio.
—Come? come, signorino? Prendete moglie, e avete come prima il grillo delle sartorelle e delle piccole crestaie?
—Non porto ancora la cavezza matrimoniale; e senza un po' di consolazione come andar incontro ai giorni della disgrazia?
—Si vede che sei proprio un cattivo soggetto. Ma chi è la sposa?
—La figliuola maggiore del barone Alberto, una baronessina, capisci…. ma, non si deve saperlo da nessuno ancora.
—Capisco: quanto alla sposa, non c'è male, non è il diavolo. Anzi, t'impegno fin d'adesso che mi presenti a lei; e ti prometto io di confortarla, intanto che tu correrai dietro alle sottane di percallo rigato.
—Sì, matto, vedremo. Ma intanto, non far ch'io perda la traccia di questa….
—Oh! noi siam buoni bracchi; e poi, è selvaggina che si lascia smacchiar facilmente.
—È il mio genere, la mia passione!
—Buona riuscita!
Di questo sconcio dialogo poco venne all'orecchio dell'innocente fanciulla; ma bastò per farla accorta del pericolo che correva, e rivelarle in confuso il perchè quei due le tenessero dietro. Fino a quel dì, nella pura anima sua, non era penetrato mai uno sgomento somigliante a quello. A sedici anni, il pudore, quel primo gemito della virtù tremante di sè medesima, non aveva commosso ancora il suo cuore d'angiolo; bastarono poche parole di que' due giovinastri alla moda a strappare il velo a' suoi pensieri intemerati. E doveva essere appunto in quel dì d'una religiosa e tremenda ricordanza! Povera Stella!
Nel primo suo terrore, le sopravenne l'idea di dire alla mamma che, prima di tornare a casa, entrassero un momento in una bottega non lontana, per cercarvi non so che lavoro. E glielo disse, sperando che i due smarissero intanto la sua traccia o si stancassero di seguirla. Ma, come la fanciulla non trovava quasi la voce per dir chiaro ciò che dentro sentiva, la madre non le diè ascolto; le parve un capriccio, perchè non s'era avvista ancora di cosa alcuna; e poi, stanca com'era, non vedeva l'ora di trovarsi in casa. Alla Stella bisognò rassegnarsi; ed entrarono nella loro porta.
I due signorini si fermarono, alternando ciarle e sogghigni, e segnando a dito la Stella, intanto che colla madre saliva le scale. Appunto in quella, Damiano venendo dall'opposta parte della via s'abbattè faccia a faccia ne' due giovani; i quali, strettasi la mano e accennando del capo alla fanciulla, pareva facessero in quel momento una scommessa fra loro.
D'un lampo egli indovinò; e, svoltando nel portone, urtò di proposito, nel passare, uno de' due galanti ch'erano sulla soglia. Il signor Lodovico, chè l'urtato era lui, si volse pieno di maraviglia e d'ira, e:—Che fai, villano? gridò.
—E tu, rispose il giovine piantandosegli dinanzi: e tu, che cosa vuoi qui?
—Oh bello! oh bello! esclamò il contino Achille.
—Tira dritto, esclamò il cavalier Lodovico, o te la insegno io!…
Ma il giovine, smorto in viso, l'afferrò per un braccio, e con voce tremante ma cupa:—Quelle due donne, dissegli, sono mia madre e mia sorella; e se qui ti trovo un'altra volta, guai a te!…
Così detto, lo guardò bene, poi salì prestamente dietro sua madre.
—È matto colui! diceva il contino.
—Matto e insolente: il compagno seguiva. Gli credi tu? sarà un asino d'artigiano che fa all'amore con la fanciulla, e crede mettermi paura. Me ne rido io; anzi, adesso mi ci provo di gusto; la è un'avventura che stuzzica l'amor proprio. Oh! vogliam vederla; e tu, caro conte, mi terrai parola.
I due amici, dopo un'altra stretta di mano, si separarono. L'uno se n'andò fra le quinte del teatro, di cui gli schiudevano i penetrali il suo patrizio nome e l'amicizia coll'impresario, ad ammirare la bella figliuola dell'aria, com'egli soleva poeticamente chiamar la ballerina. L'altro passò a fare una visita di cerimonia alla nobile donzella, che doveva essere, di lì a poco tempo, sua sposa.
Capitolo Decimoterzo
Se non t'incresca, o lettore, di scendere e salire per le anguste scale de' poveri, di entrar nelle nude soffitte; se ti conforti il vedere i sacrificj della virtù non conosciuta, e l'impeto dell'anime oneste e generose; seguiamo i passi di Damiano, che, al far del giorno, se ne va alacre e contento allo studio del pittore Costanzo.
Ma per quale segreta aspettazione tornavano a Damiano quella gioja, quell'ardore di vita e di volontà che da gran tempo più non sentiva? Pochi dì innanzi, non era vivere il suo, ma agitarsi in cupi e riluttanti pensieri; gli uomini, le cose che lo circondavano, erangli cagione d'ira o di tristezza; pensava ch'era solo, negletto, incerto del dove andare, stanco, oppresso dalla povertà da cui credeva impossibile di poter sollevare la famiglia sua. Ma ora, il mondo più non era per lui, come prima, un'immensa e misteriosa ingiustizia; ogni cosa gli pareva mutata; tutto prendeva agli occhi suoi un significato, una ragione; e per la prima volta, nella coscienza di sè medesimo, sentiva la pienezza della vita. Ora, egli non avrebbe dato, per qualunque tesoro al mondo, quell'affetto che gli scaldava il cuore.
Povero e onesto Damiano! Ciò che tanti altri, a vent'anni come lui, provano per forza di una prima passione d'amore, Damiano lo sentiva allora per un sentimento più alto e più puro, che acceso da gran tempo nell'anima sua, aveva alla fine trovato, dopo i lunghi sogni della fantasia, una espressione di bellezza, una forma viva e vera. Era un amore solitario e forte, una ispirazione di fiamma, che a lui dava per la prima volta il senso dell'infinito.
Camminava con passo leggiero; le vie, le case vedute tutti i giorni, che prima gli sembraron monotone, uggiose, che già gli stillarono l'angustia ne' pensieri, avevano agli occhi suoi in quella mattina quasi una novella apparenza, le trovava belle, ariose, allegre; tanto è vero che i luoghi vestono sempre il colore de' nostri pensieri. Vedeva un amico in ognuno che incontrasse; e sentivasi in cuore come una volontà di stringer la mano e raccontar la sua gioja a tutti i manovali e artigiani che passavangli a fianco, camminando alla fabbrica o alla bottega. Pensava che quella buona gente era, per la maggior parte, più povera di lui; eppure tutti erano come lui allegri e sereni, tutti suoi fratelli.
Salito al quinto piano della casa del pittore, lo trovò già in piedi, vestito del suo camiciotto di tela, e col fedele berretto di carta azzurrina sulla calva nuca, ritto presso la spalancata finestra, tutto inteso a macinare colori, a preparar la tavolozza. Dalla finestra, che rispondeva sur una lunga fila di tetti, si vedevano i comignoli di mezza la città; e fra quella moltitudine di altane, d'abbajni, di torricelle e campanili che somigliavano in lontananza una mano di soldati dispersi in un terreno selvatico e ineguale, dardeggiavano con singolare riflesso di luce gli obbliqui e vivissimi raggi del sole sorto appena sull'orizzonte. Un'aria freschetta, sottile, aveva cacciato da ogni parte del cielo i vapori della notte; e il primo sorriso del sole era per lo studio del povero pittore.
Quel buon Costanzo, al comparir del giovine, si fece più sereno in viso, e stringendogli con amorevolezza la destra:—Eccoti qui, gli disse, in compagnia del sole che mi saluta in questo momento. Bravo giovinotto! tu hai cuore e volontà, sai che tesoro sia il tempo, e nol getti, perdio! Così riuscirai a qualche cosa, e farai la tua via meglio che non abbia fatto io…. Vieni, vieni; la tua gran tela ti aspetta.
—Io ti voglio bene, come ti voleva bene il tuo povero figliuolo, o Costanzo: rispose il giovine. Tu solo sei stato il mio maestro; il poco ch'io so, è cosa tua.—E mettendosi sul cuore la mano di lui, con tenerezza profonda lo riguardava; poi, dopo una pausa:—Credi tu, soggiunse, credi tu…. che io….
—Per l'anima mia! son certo, com'è vero che vivo, che tu hai qui, e qui—e portava la destra prima al cuore, poi alla fronte—una cosa ch'io non so… ma che viene di lassù; in me l'ho cercata sempre e non l'ho trovata mai!… Perchè, io son sincero, vedi! non mi stimo più del giusto; i miei cinquantanove anni, se non altro, m'hanno insegnata questa verità.
—Non dir così, buon Costanzo; la fortuna ti fece sempre la smorfia; e per questo….
—E per questo, sto al pian de' gatti, più vicino al paradiso: sorridendo l'interruppe il pittore.
—Ma sei onesto e generoso; sei un buon artista; e i pochi che ti conoscono, ti amano, che più non si potrebbe.
—Oh! per me la è finita; son vecchio; tutti i miei ritratti e quelle teste di santi, sgorbiate in tanti anni, non m'han fatto un nome più famoso di quello del tabaccajo che sta qui sotto; ma n'ho cavato di che campare…. e poi tanto d'andar fino a Roma. Oh sì! per me adesso, posso morir contento…. Le ho vedute anch'io quelle glorie dell'arte italiana, dell'arte nostra! e ho potuto contemplar la faccia di quei quadri che sono stati il sogno di tutta la mia vita. Ma tu sei giovine, Damiano; tu li vedrai a tempo, amico! e se il pellegrinaggio dell'artista a me tolse l'ultima speranza, a te darà l'ispirazione e l'amore.
—Oh! che cosa potrò far io, Costanzo? Oggi son contento, pieno di buona fiducia; ma troppo di spesso, un certo presentimento, che mi sta in fondo del cuore, mi mette una nebbia nella mente e mi rompe la forza; in mezzo alla gioja, nell'ora più santa, una voce ironica e maligna par dirmi: Non pensare all'impossibile! È lo stesso, tutto è inutile!
—Ah giovine, giovine! la tua anima è di fuoco; e bruci l'avvenire, perchè non l'hai in pugno. Ma io ho l'esperienza; e mettendo al paragone quel ch'io ho fatto con quel che fai tu, col cuore in mano, ti dico: Io sono un pover'uomo, tu sei un pittore!
—Tu mi vuoi bene, onde parli così: ma nessuno dirà quel che tu dici. Io lo sento dentro di me; l'arte è troppo grande e le mie forze son troppo piccole; eppure, son questi i soli pensieri che mi possano confortar la vita. Lo seguirò quest'incantesimo che mi strascina; e se cadrò a mezzo del cammino, almeno potrò dire che non era vile la speranza, e che ho voluto anch'io!…
—Così, così forse avranno parlato, un dì, que' tali, al cui nome bisogna adesso cavare il cappello e abbassare il capo. Pure, tu non insuperbire per questo. La via è lunga, e costa spesso la vita. Ma tu sei il mio figliuolo d'adozione, e non dimenticherai il nome del vecchio Costanzo! Vieni qui, figliuolo.—E il buon uomo volle, quasi per forza, stringerlo fra le braccia, baciarlo sulla fronte. Poi ripigliò:—Non perdiam tempo, l'ore volano e ci rubano i pensieri e gli anni. Su dunque! al lavoro.
—Sì, maestro, amico mio! al lavoro, e Dio ci guardi! rispose Damiano.
E i due amici, raccolti i pennelli e prese l'asticciuole e le tavolozze si posero al cavalletto; Costanzo da un lato della finestra, innanzi a una tela vecchia su cui l'abbozzo d'un sant'Andrea Avellino andava sparendo sotto un ritratto di commissione, un volto rubicondo e grassoccio, due occhi piccoli, bigi e senza sopraccigli, una bocca atteggiata a melenso riso, e un mento sotto il mento, proprio la fisionomia d'un arricchito mercante d'olii e saponi; dall'altro lato, Damiano s'allogò dinanzi d'un'ampia tela sulla cui fresca imprimitura vedevasi delineata a franchi contorni la bella creazione ch'egli aveva da tanto tempo vagheggiata nell'ardente pensiero. Parecchi abbozzetti di quel medesimo quadro, con forza coloriti e con viva espressione d'affetto, erano sparsi vicino a lui, su d'una seggiola e d'una rozza tavola; e un volume scompagnato del Tasso stava aperto sullo sgabello a' suoi piedi.
Ma il giovine non riguardò a quegli abbozzi, ch'erano stati i primi arditi tentativi d'una mano inesperta e forse di soverchio commossa dallo entusiasmo; si raccolse tacitamente, direi quasi con religioso sgomento, dinanzi alla tela; contemplò, studiò coll'anima piuttosto che con gli occhi quelle linee leggermente tracciate, i profili, le teste, le movenze delle figure, che sovra il fondo non apparivano ancora se non come larve nella nebbia, ma che nella sua mente egli vedeva già spiranti e vive; trasse un sospiro, poi con mano tremante diede il primo tocco di pennello al suo quadro.
Il qual suo quadro, come ben lo indicava il libro lasciato a' piè del cavalletto, figurava uno dei più belli e commoventi episodii del poema di Torquato; l'innamorata Erminia che, pellegrinando con lo scudiero in deserta parte, ritrova morente il suo Tancredi. Il volume era aperto alla pagina che ha codeste bellissime stanze, le quali, lette una volta, non si partono dal cuore:
«Raccogli tu l'anima mia seguace,
Drizzala tu dove la tua sen gìo:
Così parla gemendo e si disface
Quasi per gli occhi, e par conversa in rio.
Rivenne quegli a quell'umor vivace,
E le languide labbra alquanto aprio;
Aprì le labbra e con le luci chiuse
Un suo sospir con que' di lei confuse.»
«Sente la donna il cavalier che geme:
E forza è pur che si conforti alquanto.
Apri gli occhi, Tancredi, a queste estreme
Esequie, grida, ch'io ti fo col pianto:
Riguarda me che vo' venirne insieme
La lunga strada, e vo' morirti accanto;
Riguarda me, non ten fuggir sì presto:
L'ultimo don ch'io ti domando è questo.»
«Apre Tancredi gli occhi, e poi gli abbassa
Torbidi e gravi: ed ella pur si lagna.
Dice Vafrino a lei: Questi non passa;
Curisi dunque prima, e poi si piagna.
Egli il disarma; ella tremante e lassa
Porge la mano all'opere compagna.
Mira e tratta le piaghe; e di ferute
Giudice esperta, spera indi salute.»
«Vede che il mal dalla fiacchezza nasce,
E dagli umori in troppa copia sparti.
Ma non ha fuor che un velo onde gli fasce
Le sue ferite, in sì solinghe parti.
Amor le trova inusitate fasce,
E di pietà le insegna insolite arti.
Le asciugò con le chiome e rilegolle
Pur con le chiome che troncar si volle.»
Era quest'episodio l'argomento proposto in quell'anno al pubblico concorso del premio di pittura.
Damiano, costretto dalla povertà e dalla necessità di trovar presto un pane certo, per poterlo spartire con sua madre e con sua sorella, aveva dovuto fino allora rinunziare alla naturale sua inclinazione per la pittura, alla quale, in altra fortuna, poteva forse del tutto consacrarsi. Non avendo mai frequentate le pubbliche scuole di belle arti, era stato fino a quel dì sconosciuto allievo di sconosciuto pittore; aveva dato allo studio del disegno le poche ore rubate a' libri di scuola, a' registri del mercante, al riposo della notte. Eppure lo faceva più per quel semplice e forte amore che il traeva all'arte, che per la fiducia di riuscire. Ma intanto, coll'applicazione solitaria e tranquilla, con quella volontà intensa e segreta che procede da un ingenito sentimento del bello, e che matura nella disgrazia, il giovine s'iniziava a poco a poco, senza quasi saperlo, ai misteri dell'arte sublime.
Un'inquietudine, un desiderio prepotente lo agitavano, gli facevano battere il cuore; il grande spettacolo del cielo, l'aspetto malinconico o sereno della pianura che circonda la vasta città; il verde degli alberi e delle irrigue praterie; gli sparsi casolari e i pochi avanzi della grandezza passata sorgenti ancora nel cerchio delle mura; le chiese più antiche, e l'opere famose de' pennelli della scuola lombarda, maraviglia di chi torna a visitare qualche deserta cappella, qualche abbandonato monastero; e quel miracolo dell'arte del medio evo, il Duomo, ove il buon giovine andava a meditare nell'ore della sua tetra malinconia; e la stessa infinita varietà della vita che, sempre e senza ch'egli lo volesse, gli dava affetti e pensieri, nella pace della famiglia, nel tumulto della piazza, nell'agitarsi del popolo, in mezzo al quale sentivasi superbo d'esser nato e d'andar perduto; in fine, tutto quanto gli stava d'intorno, avevagli a grado a grado insegnato l'unica scienza che può esser maestra dell'artista, l'armonia e la diversità della natura, mistero di bellezza. Perchè, il linguaggio della natura non è mai muto per l'anime commosse dall'alito divino: l'arte è figlia della natura; e per questa sola via essa traduce, per così dire, la verità.
Capitolo Decimoquarto
Nel cuor di Damiano era dunque nascosta una passione. Ma avrebbe avuto bisogno di tutt'altro uomo che del dabben Costanzo, per tentar quel volo a cui si credeva creato. Avrebbe avuto bisogno d'alcuno che nell'estasi e nella tristezza, nei patimenti, ne' dubbii e terrori dell'animo, avesse di buon ora preveduto il lampo dell'idea che tormenta sè medesima, e che spesso più forte della mente in cui vive, non può uscire senza spezzarne il sigillo. L'idea può esser la vita, può esser la morte. Nessuno aveva letto negli occhi di quel giovine, sul pallido e contemplativo suo viso, il segreto del cuore; nessuno mai gli aveva detta una parola rivelatrice, una di quelle parole che possono mutare il destino d'un uomo. Egli sentiva, amava, studiava, per sola coscienza di fare alcuna cosa che lo togliesse fuor della bassa sfera ove respirava a fatica; perchè, leggendo i prediletti poeti, disegnando, abbozzando testine e figure, gli pareva di esser meno infelice, e nulla più.
Pure, il momento decisivo di tutta la sua vita poteva esser quello. Il pensiero unico, fisso, che da un pezzo il tormentava, di far prova una volta di quella forza intima che voleva operare, era una vocazione, una necessità. Di quanta gioja e dolore fosse commosso dentro di sè, quanto patisse nell'entusiasmo e nello sconforto, nella fede e nel dubbio, è cosa che non può esser detta o compresa fuor da coloro i quali sanno come si possa vivere e morire per un pensiero.
Non già che Damiano fosse persuaso d'aver ricevuto da Dio il dono doloroso del genio, nè ch'egli ponesse gran fede al dir del suo amico Costanzo; il quale, superbo dell'unico suo allievo, andava già almanaccando che dove Damiano si fosse fatto un bel nome, anche il suo forse non sarebbe morto con lui. Vedeva il giovine questa fanciullesca compiacenza, e gli era, piuttosto che buon presagio, sorgente di maggior dubitanza e di nuovo scoramento. Sulle prime, aveva promesso di mettersi all'opera tanto per satisfare alla piccola boria del maestro, e rispondere così in qualche modo all'affezione del buon vecchio. Ma appena si vide innanzi quella tela che aspettava dalla sua mano la vita, appena cominciò a vagheggiar col pensiero l'argomento, e aperse il volume su cui aveva pianto fin da' suoi primi anni, sognando le care visioni dell'amore e della bellezza, Damiano comprese che non avrebbe trovato più pace fino a che quel quadro non fosse fatto.
Così passarono alcuni mesi; e i forti pensieri che gli travagliavano lo spirito, e quelle immagini d'Erminia, di Tancredi e del loro cantore che notte e dì l'assediavano, l'avevano prostrato in tale profonda e taciturna contemplazione, che la madre e la sorella, ignare di ciò ch'era chiuso dentro al suo cuore, vedevano in quel misterioso contegno il presagio d'un gran male. Alla fine, quand'esso, dopo lunghe incertezze, ebbe sentito come snebbiarsi nella mente il proprio concetto, allora cominciò a provare un po' di calma, a farsi più sereno. Talvolta non somigliava più quello: con improvviso slancio di gioja, correva affettuosamente tra le braccia della madre, baciava con insolita tenerezza la Stella; ond'esse lo riguardavano, non sapendo che pensare, più atterrite quasi da codeste strane dimostrazioni d'amore che dall'abituale sua tristezza.
Ma egli tremava ancora di rivelare il suo segreto; e fino ad opera finita giurò di serbarlo gelosamente. E però volle da Costanzo la promessa che non avrebbe detto mai nulla a persona viva; e il brav'uomo gli tenne parola. Egli intanto, la notte, nel silenzio della cameretta, rileggeva il Goffredo, disegnava, schizzava di nascosto la sua composizione. E quando fu venuto il momento, s'accinse al lavoro col medesimo affetto, colla medesima religione che fecero più grandi i nostri pittori del tempo antico.
In que' giorni della settimana santa, ai quali torna adesso il nostro racconto, erano chiuse le scuole del liceo; cosicchè Damiano potè in breve vedere abbozzata la sua tela. Costanzo maravigliava, considerando la rapidità e il semplice modo con cui il giovine a grado a grado disponeva le parti del proprio lavoro; e cominciando anch'esso a comprenderne il concetto, gongolava, andava quasi in visibilio. Che più? una mattina, dimenticatosi del malaugurato ritratto del mercante d'olii e saponi che ritoccava da tre mesi con pazienza fiamminga, egli lasciossi andare a sgorbiar, fra bocca e naso di quel tondo visaccio, una bionda lanugine pari a quella che il suo giovine amico segnava intorno al pallido viso del cavalier crociato.
Ma corsi appena que' pochi dì felici, ne' quali il cuor di Damiano era diviso da questa terra, le dure bisogne della vita ripiombavano più gravi sopra di lui; la necessità, con mano di ferro, lo riconduceva tutte le sere allo scrittojo del negoziante di pannine, per mettere su que' grossi registri del dare e dell'avere cifre sopra cifre, polizze, sconti, cambiali: era il suo martirio. Ma il sagrificio gli era compensato quando, sul finir del mese, poneva in mano di sua madre un venti lire, scarso frutto della sua fatica: e già andava pensando che presto, uscito della scuola, o avrebbe potuto dedicarsi tutto all'arte così amata; ovvero gli sarebbe riuscito d'allogarsi in qualche cantuccio oscuro d'un ufficio, con un profitto modesto ma certo.
Intanto, combattuto ed incerto, continuava l'incominciato lavoro; il primo sole lo trovava dinanzi al suo quadro, da cui non toglievasi fino al toccar delle nove; a quell'ora, gittati da parte pennelli e tavolozza, correva a precipizio verso le scuole del liceo, e qualche fiata colle lagrime negli occhi. Ma in questa guerra continua del sentimento col dovere, del quotidiano bisogno colle grandi aspirazioni dell'anima, il povero giovine dimagrava, immalinconiva. Né la Teresa nè la Stella potevano ancora comprendere l'interno suo patimento; nel silenzio della casa, esse vedevano passare giorni e settimane, rassegnate al lavoro monotono, assiduo, con quella paziente speranza de' cuori fatti l'uno per l'altro.
Era la Teresa, come l'avrete a quest'ora ben conosciuta, una buona donna; ma niente di più. Il bene che le portava il suo Vittore, un bene per verità un po' fiero, un po' soldatesco, era stato per tant'anni l'unica gloria di lei: ma ora, lui perduto, benchè le fosse cresciuta la tenerezza per i tre figliuoli, non sapeva trovare in sè stessa forza bastante da sostenere sola i colpi della sventura. Gli anni della vecchiezza venivano, e il suo cuore, debole per natura e infiacchito dal tempo, sentiva il peso de' nuovi travagli a cui crescevano gravezza le memorie antiche e le antiche abitudini. Amava i figliuoli, si compiaceva in quel fior di grazia della Stella; avrebbe dato per Damiano, e più ancora per Celso, que' pochi dì che le restavano a vivere; ma nell'inesperienza d'una ingenua vita, non conosceva i profondi dolori del sagrificio, i quali pesavano sull'anima di Damiano, forte ma costretta ad umiliarsi; nè i pericoli che circondano la giovinezza abbandonata nella povertà. Religiosa e pia, essa aveva accettato senza rimpianto la sua condizione qual era; e poi, vissuta a lungo in condizione angusta sì ma non logorata dal continuo bisogno, non imaginava ancora la povertà che cosa fosse. Intanto la nobile costanza di Damiano e la serenità della Stella tenevano vivo il suo coraggio; e poi consolavasi collo sperare di riunirsi fra pochi anni al suo amato Celso, ch'ella già s'imaginava di vedere coadjutore, o curato. Il più caro de' suoi sogni era di tornare a star di casa in quelle parti di Milano che l'avevano veduta giovine e felice; di andare ogni mattina a sentir la messa del suo figliuolo, all'altare della Madonna di san Celso; e poi, di morire là in Quadronno, per essere portata al campo santo del Gentilino, non lontana dal suo Vittore.
Ma la Stella, co' suoi sedici anni, colla sua fede innocente e sicura, andava incontro alla vita, senza sgomento, senza dolore. Essa, nel segreto, indovinava ciò che doveva passare in cuor di sua madre, e qualche cosa sospettava anche dell'angoscia di Damiano. Pure, l'affettuoso costume di lei, quell'antiveggenza che solo appartiene a' cuori semplici e buoni, le avevano insegnato come far meno gravi e meno lunghi alla madre e al fratello l'ore della fatica, come rallegrare la muta alternativa del lavoro e della povertà. Spesso, seduta al telajo, cantava con limpida voce qualche canzone; la canzone d'una gioja che non era nel suo animo.
La prim'alba la vedeva levarsi sollecita dal picciol letto; e pian piano, aprendo un poco la finestra, inginocchiarsi in un canto, e pregare; mentre un raggio di luce, penetrando per il sottile spiraglio, scendeva a illuminarla. Poi, si poneva al telajo, intanto che la mamma riposava ancora; e per guadagnar l'ore, ricamava fiori, festoni e ghirlande in que' trasparenti tessuti che rapivano gli occhi, e de' quali nessuno doveva esser per lei. E non di rado, per risparmiare alla mamma il lavoro, si affrettava a finir di rimendare di sua mano le biancherie su cui l'aveva veduta, la sera innanzi, lasciar cadere il capo grave di sonno. Oh come se ne compiaceva la fanciulla, quando la povera madre, senza accorgersene, si rallegrava con sè stessa, di trovar finito ciò che parevale avere smesso cominciato appena!
Talvolta passava nell'altra stanza a salutar Damiano, innanzi che uscisse; e quando lo vedesse un poco più sereno, si faceva animo a dirgli che per certo egli le nascondeva qualche cosa, e che essa un dì o l'altro lo voleva proprio sapere. Parlavano sommesso, per non farsi udir dalla madre; ma Damiano non volle rivelare nemmeno a lei il gran tentativo al quale s'era accinto; cosicchè quand'essa, una mattina, sorridendo insieme e arrossendo, gli chiese se mai fosse innamorato, che sì poco dormiva e usciva prima del sole:—Sì, mia Stella! le risponse, e d'una bellezza così grande, che mi farà diventar pazzo o morire.—Ma subito aggiungeva non avesse a dargli mente, chè non era vero, e ch'egli invece usciva per leggere i suoi libri di studio all'aria aperta. E così dicendo, contemplava fiso la sorella; avresti detto ne studiasse i puri lineamenti, gli occhi azzurri, i leggeri sopraccigli, le sottili labbra più vive del corallo, e l'ovale così perfetto del viso. Era il pensier del pittore che cercava, nell'espressione di quel caro volto, il modello delle sembianze d'Erminia.
Partito il fratello, la fanciulla si dava attorno a ripulire, a rassettare ogni cosa nella camera; poi, udita tintinnir la campanella del cavalluccio d'un lattivendolo, scendeva alla porta di casa e comperava, per la colezione, una mezzina di latte, tepido ancora. Intanto la Teresa era anch'essa in piede; in poco d'ora, tutto tornava all'ordine; e le due stanzette parevan sì monde e pulite che avrebber fatto amare quella povertà onesta e decente. Rientrato Damiano, si faceva colezione tutti insieme, parlavasi del povero papà, di Celso, del signor Lorenzo, di tutti i piccoli fatti e discorsi che tessevano la loro ignota vita; poi Damiano alla scuola, le donne all'ago o al telajo, fino all'ora del desinare, di cui la Teresa voleva per sè la cura. Al dopopranzo, il giovine s'incamminava al banco del negoziante, le donne rimettevansi a lavorare presso la finestra; e fatta sera, Damiano, quando poteva essere in libertà, seduto in mezzo di loro, leggeva ad alta voce qualche volume vecchio della nostra storia, o disegnava strafori e ricami per la Stella. Così si succedevano, tutti eguali, i loro giorni, umili sì ma tranquilli; e n'era la gioja quell'amore che univa i loro cuori nel soffrire e nello sperare.
Fuor di qualche vicina che veniva talvolta a frastornar la Teresa nelle cure casalinghe, pettegoleggiando i fatti degli altri, volesse o no saperli, nessuno capitava in quella povera casa. Anche il signor Lorenzo lasciavasi veder più di rado, sia che gli acciacchi e il trovarsi solo a finir la strada degli anni, gli avessero messo il tedio addosso, sia che tenesse ancora il broncio, fin da quando s'era deciso di Celso, contro il suo sentimento. Non aveva mai potuto dirsela l'antico tenente nè con preti nè con frati; quantunque fosse vicino al far de' conti, c'era de' momenti in cui si ricordava con un cotal gusto selvaggio i murelli de' conventi scalati in altro tempo, e in altro paese, le cantine de' priori a cui aveva dato il secco coll'ajuto di pochi camerati, e qualche lampada d'argento e qualche turibolo ghermiti come preda di buona guerra. E poi, il vecchio soldato aveva anch'esso certe idee sui due figliuoli dell'amico: e da che s'era voluto fare e dire senza di lui, aveva giurato di lavarsene le mani. Ma non sentivasi cuor di farlo, pensando che quelle tre creature le aveva vedute venir su a poco a poco; e ricordandosi quell'ultima notte del moribondo suo fratello d'armi, e la promessa che non avrebbe abbandonati mai più que' figliuoli.
Così l'onesta famiglia di Vittore, alla quale eran rimasti l'onore e la virtù, unica ricchezza, viveva aspettando dall'avvenire un po' di bene. Ma la loro umile sorte non era abbastanza oscura ed ignota allo sguardo de' tristi. Coloro che van dietro al male vegliano nell'ombra; i buoni non sospettano; e sopra di essi non c'è che l'occhio di Dio.
Il signor Omobono non aveva dimenticato la povera ricamatrice, nè smessi i suoi scelerati disegni: ma ignorava che un altro, se non più astuto, più audace di lui, stava per attraversargli la via. Era costui il cavalier Lodovico; il quale, come volle il caso, spesso meno incomprensibile che nol sia la cattiveria degli uomini, s'era, come l'Omobono, giovato della vecchia pegnataria, per riuscire a far conoscenza colla bella fanciulla.
La vecchia pegnataria, la quale soleva chiudere un occhio sopra tal sorta di negozii, e compativa le fanciulle che avessero dato un'inciampatella, volle tener a bada tanto l'Omobono che il bel signorino; e si guardò bene dal parlar coll'uno o coll'altro di ciò che sapeva. Di più, con quel gusto maligno dell'intrigo, ch'era la sua politica, andava pensando che il vecchio o il giovane ci poteva cascar seriamente, e che la ragazza, non essendo sciocca, aveva trovato il bandolo della fortuna.
L'Emerenziana era, fra le donne del vicinato, quella che veniva più spesso a visitar la Teresa, a recarle del lavoro per le sue pratiche. Non passavan due giorni senza che tornasse, come la febbre quartana, a far la dottora colla vedova, che le dava troppo facile orecchio. Bisognava udirla cornacchiare i segreti di tutto il quartiere, dame o pedine, mercantesse od operaie che fossero; lasciar trasparire con certe reticenze, e sempre come in confessione i garbugli, i rigiri in cui si era invischiata ma per amor del bene, diceva certi imbrogli, certi coperchielle e matasse distrigate da lei sola: rigattiera e pegnataria ne sapeva, per verità, di belle; e il darla a bere era per essa l'arte di non lasciarsi metter di sotto dagli altri.
Capitava nell'ore che le due donne eran sole. S'era accorta, al primo veder Damiano, in quella sera del carnovale quando venne in casa sua, ch'egli non si sarebbe facilmente lasciato accalappiare, e volontieri schivava di rincontrarsi con lui. Anche la Stella, benchè tuttora senza sospetto, non era abbagliata dalle grandezze che andava cianciando quell'eterna promettitrice; ma ignara degli artificj e delle piccole infamie della vecchia scaltrita, si lasciò andare, quasi non volendo, a creder vero e sincero, in parte se non del tutto, ciò che udiva, ingannata da quell'aria di rozza bontà che traspariva dagli atti e dalle parole dell'Emerenziana.
Per la Teresa d'altra parte, la ragione migliore, la miglior prova d'amicizia e di premura era il lavorìo che per suo mezzo di giorno in giorno le andava crescendo, non pagato a stento, nè colla solita gretterìa; comechè il guadagno non si facesse mai aspettare, e la vedova in que' pochi mesi avesse potuto già metter da parte un gruzzolo di dugento lire. Poco piacque a Damiano, quando venne a saperla, quella pratica avviata da sua madre. Ma la Teresa non voleva essere persuasa; e un dì che il figliuolo le diede un po' sulla voce, perchè avesse consentito a Stella d'andarne in casa della pegnataria, si mise a piangere di cruccio, e disse a Damiano di quelle parole, ch'egli non pensava potessero mai uscir di bocca a sua madre. Gli disse ch'era un visionario, un cuor cattivo, e che se voleva così comandare e far tutto a modo suo, pensasse lui, più che non avesse fatto fin allora, alla famiglia.
Queste cose fecero dolore a Damiano. Chinò il capo e tacque; e da quel dì il nome della pegnataria più non venne sulle sue labbra. Usciva di casa col primo sole, come prima; ma non tornava che al far della notte; mangiando a quell'ora il poco che la sorella avevagli messo in serbo. Più increscioso e taciturno che per lo addietro non fosse, evitava lo sguardo della mamma, che ne pativa: e così se n'era ita da lui quella poca gioja, onde le giovenili speranze e i primi ardori dell'arte cominciavano a rallegrarlo. Ma poi, il disgusto fece luogo alla ragione; una sera si gettò nelle braccia di sua madre, e volle essere perdonato e benedetto.
Capitolo Decimoquinto.
Nel mondo fu veduto per secoli combattere il forte contro il debole; ora è cominciata la guerra del ricco e del povero, la quale potrà durare quanto il mondo stesso. La continua vicenda delle cose traveste, non muta, le umane passioni; ma riguardando il lor mesto spettacolo, ed è questa una delle più care consolazioni de' buoni, contempliamo con maggiore affetto la bontà che la grandezza. E chi non sa ch'è più facile conservar l'innocenza nella povertà della vita che la giustizia nella grandigia e nel fasto? La ricchezza, benchè onorata, invidiata dagli uomini, bisogna dire abbia in sè medesima un germe di sazietà e di corruzione; perchè, veramente, il ricco pare, ma di rado è felice. Certo che la virtù e la contentezza ponno essere quaggiù compagne dell'uom fortunato e grande, come di chi vive contento del poco; anzi, non v'ha, direi quasi, cosa più celeste della vera virtù nella grandezza: chi sparge il beneficio e l'esempio della bontà sulla terra, sarà sempre benedetto e amato. Ci sono molti che comprendono la parola recata da Colui, il quale disse gli uomini eguali e fratelli: ma pur troppo noi veggiamo tuttora quanto sia facile così d'abusare d'ogni più santa verità, come di creder lecito e giusto ciò ch'è soltanto conseguenza del pregiudizio umano e di quel misto di vero e di falso che forma quasi tutte le leggi del mondo.
Se nell'umile storia ch'io vo tessendo, voi vedete l'uom povero ed onesto a fronte del ricco vizioso e potente, non dite ch'io rinneghi per questo la virtù di chi siede in alto, o getti la maledizione sul capo di coloro che il mondo chiama felici. Il bene è la parte di tutti, e la virtù sulla terra è come l'aria pura che si respira più vicino al cielo. Ma fu veduto più d'una volta versarsi per beneficio il danaro di Giuda; e la stessa pietà disseccata dal fiato sottile dell'egoismo e della ipocrisia, far più tristi que' mali ch'essa pretendeva di sanare. Io non presumo di dipingere la società del mio tempo; scrivo la storia di povera e buona gente.
Alla porta d'un vecchio palazzo, situato in una parte solitaria di Milano, fermossi un dì, sull'ora del dopopranzo, una carrozza d'antica data, dalla quale, fatte tra loro non poche cerimonie, furono vedute scendere due persone, che dovevano essere, come suol dirsi, due pesci grossi, fattone giudizio dall'ampio cappello a triangolo equilatero e dalla cappa dell'uno, come dalla incipriata zazzera o dal pettoruto portamento dell'altro. Attraversato, il deserto cortile, salirono per uno scalone trionfale, adorno di statue polverose e monche, rappresentanti gli Dei dell'Olimpo, alle spaziose anticamere; l'unico servo, che vi dormicchiava da quattr'ore, si levò su dalla cassapanca, spaventato dal loro comparire; ma appena li ebbe riconosciuti, corse innanzi a spalancar le porte degl'interni appartamenti; e, annunziatili, mise dentro al segreto gabinetto della nobilissima sua padrona il consigliere Zebedia e il padre Apollinare.
La contessa Cunegonda, sorella dell'Illustrissimo, quella dama potente ch'egli stesso, se vi ricorda, teneva quasi in conto d'un ministro di stato, mosse dignitosamente verso i due venuti e con un gesto quasi regale invitolli a sedere. E i due, fatta di nuovo qualche cerimonia e qualche riverenza, obbedirono.
—Io vi aspettava, signori miei, cominciò la contessa: voi ben sapete quanto mi stia a cuore la buona e santa opera nella quale voi mi date mano. Se c'è molti ostacoli, c'è molto merito a vincerli; e….
—La signora contessa è donna incomparabile, si fece a dire il padre; la sua alta ed esemplar religione, i suoi sentimenti cristiani, le sue ricchezze consacrate al trionfo della buona morale, le sue grandi aderenze….
—Eh! padre, la dama l'interruppe; siamo ancora ben addietro; bisogna battere e ribattere; gli inciampi crescono ogni dì, e i frutti son pochi.
—Qualche cosa però s'è fatto, qualche cosa s'è guadagnato: disse, con sussiego, il consigliere.
—Sì, sì! ma ci vuol altro: con un po' di stizza repressa, aggiunse il padre.
—Vedete, per esempio, o signori, quel degnissimo mio signor fratello! ripigliò la dama. Non ci fu modo di persuaderlo ad assumere la carica che si voleva dargli; ho tentato parecchie volte; fu come parlare a un sordo.
—Peccato, considerò il padre: peccato veramente! il suo nome ci voleva.
—Per me, vi confesso, tornò a dire la dama, che sebbene io abbia fatti, in obbedienza a' vostri savii consigli, presso di lui que' passi che credeste necessarii, pure non era niente persuasa della sua buona e coscienziosa cooperazione. Lasciate ch'io lo dica senza riguardi: mio fratello è un buon uomo; ma non è fatto per noi. Egli ha certe idee, certi principii….. per dir la verità, all'età sua poco convenienti…. Vedete ch'io vi parlo schietta; facciamo senza di lui.
—Sia pur com'ella vuole, signora contessa disse inchinandosi il consigliere.
—Ma!… soggiunse il collega: io spero almeno che il capitale promesso non mancherà…. Ella sa bene gl'impegni che ci siamo addossati…. crescono tutti i dì: il Ritiro non ha guari fondato dalla specchiata carità di lei, ha bisogno di protezione e di soccorso….
—State pur tranquillo, buon padre, che noi non mancheremo al nostro dovere… finchè il Signore ci dà la grazia: disse lentamente la contessa Cunegonda, con un accento che balzò a un tratto dall'albagìa alla compunzione, come il tono musicale dal maggiore al minore.
—A proposito, ripres'ella indi a poco: E che c'è di nuovo del vostro protetto, del giovine chierico che tenete in casa?
—Del mio protetto? rispondeva il padre Apollinare: dica del suo, signora contessa! Io per me, non avrei potuto fargli quel poco di bene che gli fo, senza il sussidio di lei….
—Eh via! la piccola pensione che vi ho fissa per questo, è una vera inezia, non vale il tesoro ch'egli ha trovato in voi….
—Non mi mortifichi, per carità!
—Voi lo sapete, credo bene, consigliere: si spiegò coll'altro, a lui rivolgendosi. Il nostro buon padre, che Dio ce lo conservi sempre, si trova in un mar d'affari e d'angustie; è naturale, vorrebbe fare il bene per tutti. Ora ha pensato ch'egli avrebbe bisogno d'un segretario, d'una persona di confidenza, fatta a suo modo, di quelle che raramente si trovano; il caso gli mise proprio innanzi, alcun tempo fa, un giovine che promette bene di sè, che può e deve riuscire; questo giovine è povero, egli lo tirò con sè, e pensa a dargli un avvenire; io, com'è giusto, supplisco con quella pensioncella di che vi diceva; e così si fa due beni in uno.
—Qualche cosa ne sapeva, rispose il consigliere; ma mi consolo sempre, ogni volta che sento parlar d'una buona azione.
—Le dirò, signora contessa, prese allora la parola il padre Apollinare, che nella famiglia di quel giovine c'è ancora del bene a fare. È una di quelle famiglie, e so quel che dico, le quali, al pari di mille e mille del popolo, cominciano pur troppo a sentire in sè una specie di marasmo, di dissoluzione morale, che sono il frutto di certe dottrine sovvertitrici, spaventose, diffuse da più di un mezzo secolo per tutta Europa; zizzania sociale che va pigliando ogni dì più terreno e radice. Coloro che si sagrificano alla conservazione delle potestà costituite; coloro che posero le inconcusse incontrovertibili batterie dell'ordine contro le bande infellonite del moderno progresso, hanno combattuto e combatteranno…. Essi sanno che bisogna prevedere e provvedere….
La dama e il consigliere pendevano in estatico atteggiamento dalle parole pioventi, come rivi di mele, da quell'autorevole campion del partito dell'inerzia; e l'una scrollando la cuffia piramidale, l'altro l'incipriato cucuzzolo, ne accompagnavano le cadenze, a battuta.
—Ma per combattere che si faccia, seguitava vieppiù rinfiammandosi il padre, il nemico non si stanca e trova sempre armi ed offese. Molto avanza ancora del lievito infernale che bulicò sì fattamente sul finir del secolo passato: tutto ciò ch'era perduto non è riconquistato ancora…. il male sussiste; e guai, se ingangrenisce!… E per non dilungarmi in così trista via, eccovene in piccolo nella famiglia della quale si parlava, un palmare esempio. Un vecchio militare, mezzo rinnegato, amico del padre defunto, vuol governarla a suo capriccio: già ha guasto il cervello al maggiore de' figliuoli, un capo scarico da cui non si può cavarne nulla; per fortuna del cielo, si fu a tempo di salvare il minore, quel giovinetto del quale la degnissima signora contessa degna prendersi pensiero…. Ma non ci volle poco a venirne a fine, e per un filo quell'avanzo di giacobino non rovesciò tutto! Nè basta: c'è una figliuola, la quale tocca appunto l'età pericolosa; e in mezzo a una madre debole, a uno sventato fratello, a un vecchio peccatore, non c'è a garantire uno spillo per l'onestà sua. Ma noi non ci stancheremo nell'opera buona, noi veglieremo nell'ora che il leone rugge; non è vero, signora contessa?… Ricordiamoci quello ch'è stato detto…. Noi pure dobbiam essere pescatori d'uomini.
—Veramente, ora si tratterebbe di pescare una donna: non potè tenersi dai dire il consiglier Zebedia, il quale, con tutto il suo zelo e sussiego, nutriva certa predilezione per i motti piccanti e le freddure.
Rise, muta, a fior di labbra, la dama; il padre tacque e si fe' serio.
—Oh! ad altre cose e più importanti, soggiunse allora la contessa; passiamo, se non vi dà incomodo, nel mio gabinetto di studio, signori, e vi mostrerò il risultato delle corrispondenze di qui e di fuori, intavolate per il fine che voi sapete, sopra le quali mi bisogna il vostro prudentissimo avviso.
Ciò detto, si levò dal canapè; e attraversando con imperturbata dignità parecchie stanze, seguìta da' suoi due accoliti, il laico e il cherco, disparve ne' recessi del palagio.
Capitolo Decimosesto
Mentre le tre vecchie potenze mettevano così in comune importanti segreti, tirando pe' capegli que' principii che, secondo loro, dovrebbono essere i cardini del mondo, la povera famiglia, che s'eran degnate di prendere sotto la lor protezione, non sapeva i pericoli che più davvicino la minacciavano.
—Sentite, Teresa: diceva, la sera di quel dì stesso, la vecchia pegnataria alla vicina, lieta di averla trovata sola: domani ci sarà qualche cosa a spartire; ho fatto consegnare al palazzo di quel signore, di quel cavaliere che sapete, il corredo della biancheria, della quale fra me e voi s'era pigliata la commissione; una bellezza, vi dico niente, una bellezza!
—Lo credo bene; fra me e la figliuola vi abbiam spesi dietro gli occhi.
—Ma c'è de' guai, sapete: quel signore ha arricciato il naso sul conto…. figuratevi! che cosa ne sanno gli uomini? ho avuto bel dire, che non si stava in sul tirato, che c'era appena da vivere…. non l'ha voluta capire…. Per dir tutto in una parola, s'è concluso che quel conto l'avrebbe saldato la sua signora zia, e che si tornasse, o s'avesse a mandare per questa faccenda. Che cosa volete? Siamo stati in quest'accordo; e domani…
—Ci tornate voi?…
—Così potessi! Ma ho che fare fin sopra i capegli; andateci voi,
Teresa; mandate la Stella, se non volete andar voi…
—Ma io, vedete, non so trovarci nè via nè verso, quando si tratta di conti.
—Mandateci la Stella, che l'è una piccola strega, e saprà fare… Già si tratta di parlare con una gran dama… e ci vuol proprio lei. Io e voi, Teresa, non sapremmo farcela valere; ma le ragazze l'han sempre la ragione, n'è vero?…
Quando la Teresa fece alla figliuola la commissione della signora Emerenziana, la fanciulla, senza esitare, acconsentì a recarsi, la mattina seguente, al palazzo di cui la vecchia aveva lasciato l'indirizzo.
Venuta la mattina, si preparava ad uscire; ma, forse per caso, Damiano si trattenne più dell'usato; ond'ella, per non parlarne con lui, che nulla ne sapeva, aspettò: tanto più che l'aveva veduto mordersi le labbra dispettoso, al solo udir menzionare dalla mamma la signora Emerenziana. Se non che il giovine notò qualche imbarazzo nella sorella, e stette pensoso; indi, preso il cappello, senz'altro dire, uscì di casa. Partito lui, la Stella s'acconciò il velo, un piccolo scialle di lana quadrettato, salutò con un bacio la mamma, e dicendole che n'andava per quel conto della signora Emerenziana, disparve. Appiè delle scale, non s'accorse di Damiano che, non visto, l'aveva aspettata, e che lasciatala avanzare un poco nella via, le si mise dietro.
Suonava per la città il mezzodì. Il cavalier Lodovico, approffittando d'una breve assenza di don Ambrogio, così chiamavasi il padre suo, aveva pensato d'invitare appunto quella mattina i più intimi amici suoi ad una splendida colezione. Stava da ben tre ore aspettando la piccola ricamatrice, e s'indispettiva che non fosse venuta ancora. Questa tardanza metteva sossopra il suo piano; e ci aveva studiato sopra non poco. Gli ordini i più precisi eran dati; e pensando di sbrigarsi in poco d'ora della sua nuova conquista, compiacevasi tutto di poter serbarne il racconto agli amici, in quella colezione, la quale doveva esser quasi un commiato dalla sua vita di scapolo.
Ma suonato il mezzodì, alcuni degl'invitati già capitavano; e la fanciulla non s'era veduta. Il dispetto del giovine cavaliere era al colmo: da mezz'ora andava masticando l'unica bestemmia inglese, ch'era tutto il saper suo di quella lingua.
Il conte Achille, quel suo fido Acate, che solo era a parte del segreto, entrando nel salottino a rincontro dell'amico, gli lesse in volto il malcontento; argomentò fra sè potesse essere per la mala riuscita del suo intrigo; ma, per allora, si tacque
In compagnia del barbuto conte ne venivano altri due signori; l'uno un giovinotto sulla trentina, il quale alla sfoggiata cravatta, all'abito stringato, mostrava ancora la pretensione d'uno zerbino di primo pelo; l'altro, uno smilzo giovincello che, avanzandosi a dondoloni, diè una forte stretta di mano all'amico, e cominciò a ridere di quel fatuo riso che spesso tien luogo del bello spirito. Costui, erede di un gran casato, e tronfio del suo nome e della fama de' suoi cavalli inglesi, era da poco tempo entrato nel gran mondo sotto l'egida d'una facile matura beltà.
Questi signori stavano in aspettazione nel salotto, sdrajati ne' seggioloni presso la tavola su cui erano sciorinati non pochi disegni di caricature equivoche, e parecchi volumi degli ultimi romanzi di fattura parigina; e, mentr'essi sbadigliavano beatamente, guardando gl'intagli rappresentanti i più famosi cavalli da corsa del Regno Unito che pendevano incorniciati dalle pareti, framezzo a fioretti sciabole e stocchi, a guanti di difesa e visiere e corazze imbottite, indispensabile fornitura d'ogni elegante spadaccino; il padron di casa andava e veniva inquieto, turbato, sfogando la sua bile or sull'uno or sull'altro de' servitori. Tornò poi nel salotto, e sdrajatosi in compagnia degli amici:—Chi manca ancora? domandò.
—Tu lo saprai, rispose Achille, lisciandosi col palmo della destra inguantata la colta barba: io, per me, quando prometto, son puntuale così coll'amico come coll'amante.
—Ben dici, bell'uomo! aggiunse uno de' colleghi: anch'io, dove si tratti di pranzo o colezione, sono esatto come un creditore.
—Chi dunque s'aspetta?… chiese il terzo.
—Oh vedete! ripigliò Lodovico: me n'era scordato; quella buona lana del Martigny, il nostro allegro maestro.
—E credi che verrà?
—Sì, per tenerci allegri, se vi sarà bisogno.
—Ma chi gl'insegna la creanza di farsi aspettare? interrogò il barbuto conte.
—Eccolo, eccolo qui, dissero gli altri: proprio all'ora del buon tuono.
Un servitore annunziava monsieur Martigny. Era costui nè grande nè piccolo di statura, di faccia sinistra e fatta ancor più brutta da due singolarità: era monocolo e bucherato dal vajuolo. Si fece innanzi, franco il volto e più franco il passo in mezzo alla elegante comitiva; il vecchio cappello, la grossa mazza che portava e lo sdruscito soprabito turchino abbottonato fino alla gola, facevano strano contrasto coll'attillatura di quello scelto giovenile drappello. Eppure egli era caro a tutti, e gli si facevano intorno, salutandolo col nome di maestro. Nessuno sapeva la sua vera storia, nè dove fosse nato, nè tutti i mestieri da lui assaggiati al mondo: c'era perfino chi diceva ch'egli già fosse un frate; che in altri tempi, gittata via la tonaca, imbracciò l'archibugio ne facesse d'ogni stampo, girando mezza l'Europa; finchè, infraciosato alla meglio il suo nome dozzinale in quel di Martigny, aveva raccapezzato non so che fortuna; e capitato a Milano, in fama di valente schermitore, era riuscito a mettere alla moda la scherma col bastone, quell'arte poco cavalleresca di bene accarezzar le spalle al prossimo.
Un servo diè la nuova che la colezione era pronta; e gli amici immantinente si precipitarono nell'attigua sala, sedettero intorno alla tavola, coperta di peregrine bottiglie e di squisiti manicaretti; e cominciarono l'attacco, pronti dal primo all'ultimo a far tutto l'onore possibile agli scudi del vecchio barbogio così bene spesi in anticipazione dal figliuol suo.
Ma ben si vedeva che il padroncino di casa aveva perduto il gajo umore. Gli amici o non s'erano, o fingevano non essersene accorti; solo il barbuto conte, di quando in quando, sogghignava e guardava di sottecchi l'amico, per fargli capire ch'egli a ragione non aveva mai creduto alle sue rodomontate amorose.
Quand'ecco uno de' servi, venuto dall'anticamera, si china all'orecchio del cavaliere, per dirgli qualche cosa in segreto. Lodovico si fa di bragia, a un tratto balza in piede; poi, battendo il pugno sulla tavola, in atto d'aver presa un'eroica risoluzione si volge al servo e dice:—Che passi pure.
—Entrate, bella tosa! grida il servo, aprendo la porta.
Era la Stella.
Appena l'ingannata fanciulla si trova in mezzo a tanta gente, in mezzo a quel romore, a quelle risa smodate, appena vede que' signori balzare in frotta dalla tavola e venirle incontro, e serrarle il passo alla fuga, gettando un grido di terrore si copre colle mani la faccia. Ma pur riconosce, in quel suo primo spavento, i due che tante volte le erano venuti dietro per la via; sente un gelo in tutte le vene; ma non trovando forza di difendersi o di fuggire, si lascia cadere sulle ginocchia.
Allora fu udito uno strepito, un'arrabattarsi di gente nell'anticamera; e facendosi la via frammezzo a' servi con una forte strappata, un giovine si precipitò in furia nella stanza. Accorrere alla caduta fanciulla, sollevarla dal terreno, schiudersi il passo con un gesto disperato fra quei che gli stavano d'attorno, ancora non rinvenuti dal primo stupore, fu cosa d'un momento.
Il cavalier Lodovico, a quest'improvvisa apparizione, aveva perduto il coraggio, nè sapeva trovar parola. Solo fra tutti quel tristo arnese del Martigny, che di botto credè d'indovinare ogni cosa, si fece innanzi; e presumendo che l'intrigo potesse pigliar mala piega, pensò di mettere alla ragione quel giovine disperato col fargli paura. Ma nell'atto ch'egli stese la mano per abbrancarlo, Damiano (poi ch'era desso) gli volse le spalle; e tirandosi verso la porta:—Questa è mia sorella, disse: guai al primo che la tocca!….
Poi fissò in volto al giovinetto cavaliere gli occhi pieni di furore, e pesando ogni parola, in modo che udissero tutti:—Io ti conosco, disse; tu sei un nobile, un ricco, ma ben puoi toccar su la mano al birbante, all'assassino. Io non so tenere spada o pistola, ma non ho paura di te, nè degli amici tuoi. Ciò che tu hai tentato, lo so bene! vuol altro che parole; però intanto nessuno ti torrà via il titolo d'infame ch'io ti getto in faccia. Che m'importa? se ti degnassi di voler ragione da me, non la ricuso: sono il figlio d'un soldato.
Così Damiano, condotto da una inspirazione del cielo sulle traccie della sorella, era giunto appena in tempo a salvarla dall'insulto e dalla vergogna. Egli in cuore sentiva che Stella era innocente, e che, per certo, doveva essere vittima di qualche scelerata macchinazione: ond'ebbe coraggio di parlare, e quelle poche sue parole animose bastarono a sbigottire l'insolente giovine e i suoi amici.
Ma, nell'atto che Damiano si mosse per uscire, parve che l'ira soffocata scoppiasse a un tratto dal petto del cavaliere: cacciato da subitaneo furore, al sentirsi sfidare da colui, impugnando il bastone del Martigny che primo gli venne alla mano, corse sopra a Damiano; e l'avrebbe percosso, se gli amici, più teneri dell'onor suo ch'egli non parve, non si fossero gettati in mezzo per trattenerlo. Il giovine, vedendolo diventar pallido, e sbuffar per la rabbia, lo guardò un'altra volta in faccia, e:—Non ho altro a dire! riprese: andiamo, sorella! l'uomo che si lascia calpestare, lo merita. Ma… non sono io quello.
Ciò detto, prese per mano la fanciulla e uscì, senza che alcuno osasse più attraversargli la via. Stella aveva lasciato cadere sulla faccia il velo, sotto il quale silenziosamente piangeva.
Partito il giovine popolano, non ci volle meno delle otto braccia di que' fedeli amici per tenere costretto a gran forza l'inferocito cavaliere, che tuttavia andava tempestando e imprecando da disgradarne il suo cozzone, e gridava di volere correr dietro e romper l'ossa a quell'audace pitocco, se non per altro, per punirlo d'avergli gittato una sfida. Come si riebbe un poco da codesta furia, per verità non del tutto cavalleresca, e come potè a suo agio vuotare un sacco d'improperii dietro al nostro Damiano, dandogli del matto, dell'imbecille e dell'asino, a ufo, Lodovico si fece serio e domandò a' compagni, a sgravio di coscienza, se mai potesse essere il caso eccezionale di battersi con quel manant. Grave era il problema; tennero tra di loro consiglio; molti e diversi, ma tutti del paro strani e burleschi furono i pareri, o piuttosto i dispareri, messi in campo. Il losco Martigny, quel solo di loro ch'essendo venuto dal fango anche lui, sentiva muoversi un fondigliuolo di bile per gli smargiassi che gli bravavan d'attorno, e s'era anzi un poco compiaciuto del coraggio di Damiano, senza però lasciarne trapelare indizio, tenne duro per l'affermativa; gli altri finirono a unirsi nel voto del giovine marchesino Roberto, l'ultimo che parlò: non potere un gentiluomo avere un affar d'onore con uno della canaglia; e tanto più non trattandosi che di una tapina, d'una sgualdrinella. L'uno opinava che il cavalierino avendo, come si dice, apparecchiato un bel tiro a quel pazzo, si sarebbe messo al torto col dargli soddisfazione; un altro che l'unico guaio fu il contrattempo per cui andò vuoto lo stratagemma; e il terzo che la sarebbe stata cosa da ridere un duello così fatto, non potendosi le ingiurie della bassa gente pagar d'altro che d'una buona bastonatura, col braccio di persone della loro portata. Infine, convenivano che se mai si fosse buccinata la cosa in una certa sfera di persone, ciascun di loro avrebbe messo al coperto il credito e il nome del cavaliere.
—Voi siete proprio i miei amici, conchius'egli allora. Qua la mano; e vuotiam da bravi un altro paio di bottiglie.
E si rimisero a tavola, come se nulla fosse avvenuto.
Ma la fama, che non apprese ancora a discernere le cose delle quali sia meglio tacer che dire, divulgò in pochi giorni di caffè in caffè, da questa a quella conversazione, la curiosa avventura. Se ne menò abbastanza romore; chi la disse a un modo, chi a un altro; ciascuno vi fece la propria giunta, il proprio commento; i fedeli amici del cavaliere soffiarono a più d'un orecchio lo spiritoso fatterello, come cosa genuina; l'avventura fu colorita, ingrossata; poco mancò non si facesse di don Lodovico un Cesare Borgia, un don Giovanni. Quel buon zazzerone di don Ambrogio, e i parenti illustri gridarono un poco allo scandalo; poi, per non mandare a monte lo sposalizio già bell'e accordato, battezzarono la cosa una scappatella di cervello balzano. I genitori della sposina, non augurando un gran bene da ciò ch'era stato, tentennarono il capo; ma, per amore e rispetto di quel galantuomone di don Ambrogio, non osarono ritirar la promessa; sibben vegliarono che non si fiatasse di nulla con la giovine, per non mettere una nube in quell'anima di quindici anni che ancora non sapeva che cosa fosse il mondo.
Il cavalierino però ebbe, tra sè e sè, a tremare per settimane parecchie: egli almeno in segreto rendeva giustizia a sè medesimo. Trovò buon consiglio di mutar aria per alcun tempo; e un viaggetto di piacere, fatto col consenso della famiglia della sposa, lungo le romantiche sponde del Reno fino a Baden, e due misere migliaia di franchi lasciati colà sul tavoliere a un conte russo e a un baronetto inglese, cancellarono dalla sua memoria tutto quel ch'era stato. Ritornato fra le braccia paterne, verso la metà dell'autunno, fece una visita di cerimonia a' parenti della sposa, i quali andarono in visibilio per l'eleganza de' suoi modi, e per quel gergo mezzo francese e mezzo inglese che in così breve tempo gli aveva dato un fare distintissimo.
Indi a poco, le sue sponsalizie con la baronessina Amalia furono celebrate, soddisfatissimo tutto il nobile parentado. Poi il viaggio di rigore de' due sposi a Roma e a Napoli, le feste del carnevale, il palchetto al teatro, la stemmata carrozza al Corso, e alcuni pranzi d'invito fecero salire in alto, fra i nomi più chiari del bel mondo milanese, quello del giovine e galante marito.
Allora, ne' circoli delle belle signore e ne' pranzetti cogli amici, s'arrischiò egli stesso a menzionar fra le sue giovenili conquiste quella della piccola ricamatrice, e la seppe colorire in modo che le dame anziane, scandolezzate, gli davano sulla voce; l'altre pudicamente sorridevano; e i compagni allegri gli battevan le mani. Chinandosi frattanto in leggiadra postura sulla spalliera del canapè ove sedeva la sposa dell'amico, il conte Achille le susurrava all'orecchio:—Ah! signora, bisogna vendicarsi, e presto, de' galanti tradimenti che le fa quello sventato di suo marito: bisogna dargli una lezione…. si fidi, si fidi di me!…
E la sposina arrossiva; nè osando riguardare il suo chiomato adoratore, mordeva co' labbruzzi gli orli dorati del ventaglio.
Capitolo Decimosettimo
Intanto nella povera famiglia si pativa. Allorchè la troppo confidente e buona Teresa cominciò a tremare nel suo cuore, allorchè cominciò a capire che cosa siano i cattivi, ad aprir gli occhi sui pericoli della sua innocente creatura, ella prese a sospettare di tutto e di tutti. In poco tempo, la voce di quel ch'era successo, portata attorno dalle curiose donnicciuole, travestita dalla malignità o dalla scempiaggine altrui, creduta al di là del vero anche da' buoni che spesso han troppo paura del male, fece metter molti occhi addosso alle due donne, e brulicare sul conto loro sospetti. Chi disse, chi ripetè, rincarando la dose; chi battezzò a dirittura la madre e la figliuola con nomi da non dire; e vi fu perfino chi s'attentò di mettersi su per le buje loro scale, battendo sfacciatamente a quell'uscio, su cui un modesto cartello portava scritto in bel corsivo: Ricamatrice e Cucitrice.
Da quel dì, la Stella non fu più veduta così ilare, così contenta come prima; da quel dì una nube di malinconia cominciò ad appannare il sereno della sua fronte; e per la prima volta, il sentimento della povertà e del disonore le turbò quella fede, nella quale era vissuta fino allora senza temere, senza odiar nessuno su questa terra.
Damiano, ferito nel più vivo del cuore, andava meditando vendetta; ben vedeva che, senza farsi ragione da sè, non sarebbe riuscito a nulla: poichè vecchia è la commedia del mondo, ove il vizio titolato e vestito d'oro grida più forte della virtù coperta di poveri panni e senza nome. E poi, superbo com'era dell'onor di suo padre, Damiano repugnava troppo a ripetere il nome di sua sorella in così trista faccenda; e scorgeva la necessità di tirare un velo su quel ch'era stato.
Ma, dopo fatta codesta risoluzione, tornava alle idee di prima; sentiva più vivo l'insulto sofferto; pensava che l'unica via di lavarlo era quella di forzare il giovine signore a stargli a fronte: quantunque sapesse d'esporsi a quasi certa morte, si compiacque per alcuni dì in tale consiglio; indifferente, se non pago, di togliersi alla vita, la quale, allora più che mai, parevagli difficile a portare. Non ne volle dir nulla a sua madre; e divisava il modo di costringere il nobile seduttore a battersi con lui.
Poi, dopo una notte vegliata nel tormento dell'anima, ripensando a sua madre, alla Stella, a Celso, sentì mancarsi il coraggio di morire. Venuta la mattina, andò a cercar del fratello e per buona ventura il trovò solo. Alle parole confuse, concitate di Damiano, il giovine cherico, già a parte dell'avvenuto, seppe leggergli negli occhi il suo progetto; e tanto disse e così affettuoso parlò che Damiano, gittandosegli al collo, pentito come d'un fallo commesso, gli promise che, come lui stesso aveva detto, lascierebbe al Signore il castigo de' cattivi.
Con tutto questo, il dì seguente tornò sopra a quel pensiero; tormentato dentro di sè da tanta incertezza, volle confidarsi col signor Lorenzo, come col solo suo protettore; persuaso che il vecchio soldato, non uso a pigliar mai in ischerzo nessuna cosa, l'avrebbe soccorso colla severa sua esperienza. E in verità; quando seppe il caso, quell'antico della guardia reale lasciò scapparsi di bocca certe negre bestemmie che non aveva scagliate fuor che a' cosacchi; e giurava d'aggiustar lui a ogni modo la cosa, come si doveva. Ma, ponderando seriamente, cominciò a dubitare, e poi vide che, se anche il nobiluzzo birbone si fosse degnato di battersi, Damiano poteva giuocare con lui un mal giuoco; pensò che alla fin fine egli doveva tenergli luogo di padre, e in tuono risoluto conchiuse che per allora bisognava rinunziare a quel proposito; soggiungendo con un cotal gesto misterioso: —Fidatevi pure di quel che vi dico io, non mancherà il momento di rendere pane per focaccia a quel cattivo mobile non solamente, ma a molti altri del suo stampo.
Quel che tagliò fuori ogni dubbio fu il sapere, quasi subito, che il signor cavaliere aveva stimato prudente di mutar aria per alcun tempo. Poi, di lì a pochi mesi, fatto che fu il matrimonio del quale abbiam parlato, nel cuor di Damiano, a quell'avanzo d'ira che vi stagnava, successe compassione e disprezzo; che se prima gli bolliva dentro la smania di vederlo diffamato come sel meritava, allora sentì quasi che avrebbe potuto perdonargli.
Così, tornato in pace con sè, la buona volontà di adempiere, come meglio sapeva, il suo dovere, nel momento del maggior bisogno, era in lui rinata più viva che mai. E come, finite allora le scuole del liceo, egli toccava ormai i vent'anni, si mise a pensar seriamente alla via che gli conveniva di scegliere.
Il buon mercante, presso il quale continuava quasi da due anni a regolare i libri di cassa, gli profferse in quel torno di tenerlo nel proprio fondaco, in qualità di commesso, raddoppiandogli l'assegnamento mensuale e dandogli di più speranza di qualche provvigione sugli utili del negozio. Ma Damiano sentiva che non avrebbe potuto piegare il collo con rassegnazione ad una vita così diversa dalla vita vagheggiata e sognata per tanto tempo; e rifiutò. La Teresa e la Stella dal canto loro lo consigliavano d'allogarsi in qualche ufficio, credendo che in pochi mesi avrebbe potuto coll'ingegno e colla buona volontà ottenere anche lui un impiego, come tanti altri. E Damiano, sebben vedesse la meschina prospettiva dell'avvenire, comechè egli non potesse fare gli studj superiori, già stava per appigliarsi a codesta determinazione; allorchè il vecchio pittore Costanzo venne in mezzo a guastare ogni cosa.
Egli non poteva patire che il giovine gittasse via così il più santo dono del cielo, l'inspirazione della bellezza. Una mattina che Damiano gli parlava del proprio avvenire, egli tirò in campo tutti gli argomenti possibili per dissuaderlo. Gli fece toccare le difficoltà, le spine della via sulla quale voleva mettersi; gli fece vedere impossibile d'ottenere, prima di tre o quattro anni, un impiego stabile; intanto egli era all'età della coscrizione, nè senza miracolo avrebbe potuto schivarla; che il miracolo lui stesso lo farebbe, dando ascolto al suo vecchio amico. E qui si spiegò chiaro, che avesse a finire ben presto il quadro del concorso a cui aveva lavorato parecchi mesi nell'inverno, e a mandarlo all'Esposizione: quel quadro, senza dubbio, doveva essere il più bello; e il suo giovine autore, coll'onor della corona, avrebbe goduto il privilegio legale di andar esente dal servigio militare.
Queste ragioni, scossero non poco i pensieri di Damiano. E sopra tutto l'idea della coscrizione che lo avrebbe potuto da un dì all'altro strappare a' suoi, questa spina che da un pezzo eragli fitta nel cuore senza che nemanco avesse osato parlarne con sua madre, fu quello che il vinse. Una timida ma calda speranza, che fino allora non aveva ardito confessare a nessuno, quasi neppure a sè stesso, e che poteva forse decidere il destino di tutta la sua vita, si rianimò in quel giorno; e già nel cuore egli dava volentieri ragione al vecchio Costanzo. Era la speranza di riuscire, quella che dà vita a tutte le cose grandi e belle. Pure, la sua mente dubitava ancora.
—Ascolta, amico mio, dicevagli il buon pittore, con voce così commossa che ben mostrava la verità di quel che sentiva. Ascolta; tu sei giovine e padrone della tua vita. Il Signore ti ha dato quel che a pochi egli dà, il fuoco dell'anima; ma guai se questo fuoco lo lasci morire!… Ama la pittura, amala com'io, quest'arte sublime…. Ma fatti coraggio, vinci gli uomini e il tempo, e avrai quello che non seppi trovar io, un nome. Io, vedi, fui un povero disgraziato; mi fece spavento il cammino che bisognava salire, e mi misi a sedere al basso. Ora son vecchio, ho perduto tutto; nè posso che rimpiangere il passato, come i vecchi fanno.
—Anima nobile e onesta! pensava il giovine, intanto che l'amico suo, ragionando, gli serrava con affetto la destra.
—Ma tu, seguiva Costanzo, hai la mente serena e la volontà calda; tu devi levarti, chè il puoi, sopra a questa gente che ti circonda e vorrebbe soffocarti collo spauracchio del bisogno, colla tirannia dell'impossibile; due cose che fanno morire quanto v'è di generoso, di vero. Soffri ancora per poco, e verrà giorno, te lo prometto io, che la moltitudine sarà costretta ad ammirarti, a ripetere con riverenza il tuo nome; e diranno: Vedete quel giovine? è un gran pittore, è l'allievo del vecchio Costanzo!… Oh! ch'io li possa sentire a dir così!…
—Ascolta, amico, lo interruppe Damiano; e chi mi darà tempo e libertà ch'io mi ponga a studiare?… Chi penserà intanto a mia madre?…
—Dammi ascolto, figliuolo, riprese il vecchio, e fa quel che dico; metti insieme una cinquantina di scudi…. a tua madre, a tua sorella penserò io… quel poco che posso…. e poi, la Provvidenza non c'è per niente. Fa dunque così; non dir nulla agl'ignoranti, i quali ridono sempre del povero che combatte e spera; va con Dio, va fino a Roma, e domanda il tuo avvenire a Raffaello, a Michelangiolo, a Guido e a quegli altri pochi loro fratelli. Se puoi piangere dinanzi a que' miracoli degli uomini, se il cuore ti batte più forte e la mano non ti trema, segui pure la via: potrà esser lunga e difficile, ma è certa. E quando il tuo cuore onesto ti dirà che sei degno del voto dei buoni e della parola di quelli che sanno, ritorna allora dal pellegrinaggio, a consolare tua madre, a rallegrare il tuo amico Costanzo…. Oh sì! io spero esserci ancora, quando sarà menzionato il tuo nome fra quelli per cui non va a morire l'onore della povera Italia nostra.
Così con ardore parlava il vecchio maestro; e per verità, non aveva parlato mai a Damiano con tanta persuasione, con tanta semplicità e grandezza d'affetto. Nè a lui pareva vero che un uomo dato al mestiero, costretto, da che viveva, a lottare colla povertà, sentisse ancora così altamente di quell'arte ch'eragli stata ben poco liberale de' doni suoi: forse per questo, ne pigliava maggior conforto e coraggio; e sentivasi commosso, ammirando quest'anima ingenua e buona, alla quale forse, in altro tempo, era mancato ciò che egli stesso andava allora cercando, forza e volontà.
Quel colloquio mutò il proposito di Damiano. Il dì appresso, tornò al suo quadro che aveva prima condotto quasi alla metà, e che rimaneva da un pezzo abbandonato e polveroso in un canto dello studio. Tornò al suo quadro, e promise all'amico che non avrebbe smesso di lavorare finchè non lo vedesse finito. Il termine del concorso era vicino; non aveva più d'un mese di tempo.
Dimenticato ogni rancore e sopito il malcontento che gli aveva fino allora avvelenato i pensieri, s'era messo con lena a lavorare, e vi stava quasi tutto il dì, non distolto da nessun'altra cura. In breve, quella vita solitaria, tutta occupata, tutta assorta in un'idea, in una speranza, divenne per lui una consolazione, un bisogno dell'anima.
Passò di tal maniera quel mese; e Damiano finì il suo quadro. Ma allora, come avviene del corpo dopo lunga fatica, egli ricadde quasi subitamente in uno spossamento strano, in una tristezza più profonda di prima; trovava pessimo quanto aveva fatto; e se un dì voleva ricominciare, l'altro era tentato di distruggere la prima creazione della sua mente e del suo pennello: diceva che il quadro non era suo, le figure tutt'altre da quelle che per tanto tempo aveva contemplato. Il buon Costanzo invece andava in estasi dinanzi a quella tela; e mentre il suo giovine amico sentivasi il prurito di farvi col mestichino un largo squarcio, egli lo preconizzava come il capo d'opera della Esposizione.
Intanto la Stella, sempre in casa, sempre al fianco della madre, che al cader della buona stagione cominciava a intristire, non soleva più imitare gorgheggiando il suo canarino, saltellante nella pulita gabbia sul davanzale; aveva scordate le semplici e allegre canzoni d'una volta. Ricamava, cuciva, per sè e per la mamma; la quale, essa pure, crucciavasi, vedendo venir meno il lavorìo, e diradarsi le pratiche a una a una: era questa una coperta vendetta della pegnataria, che, non avendo potuto riuscire a tirar nella rete la giovine ricamatrice, studiavasi a disfar quel poco avvantaggio che dapprima ella stessa, sotto impostura del bene, aveva procacciato alle due donne. E poco ci volle; perchè è più facile fare il male che il bene.
Dalla finestra, a cui stava seduta la Stella, vedevasi a dilungo la via, e una gran parte della piazza Fontana. Allorchè la fanciulla, smettendo un poco dal ricamo, affacciavasi al balcone, distratta a guardar la gente che passava, li fermava quasi involontariamente sulla casa situata all'angolo della piazza. Era la casa di quel ricco e avaro droghiere, suo parente, il quale fin da quando sua madre e lei, ne' primi dì della disgrazia, vennero a presentarsegli, non le volle riconoscere, comechè fossero i soli parenti che gli restavano. Fissando gli occhi su quella casa, le veniva in pensiero esser meglio patire in vita onesta, che marcire nell'oro che ammorba il cuore, se l'uomo il quale avrebbe potuto sollevarli, non s'era più ricordato di loro, come non fossero al mondo. E si persuadeva che bisogna esser povero per compatire sinceramente a chi è povero.
In questi pensieri, gli occhi della Stella cadevano talora sopra un uomo, il quale, ritto sulla larga porta del fondaco del droghiere, stava tutto il dì quanto è lungo, pestando e rimestando a due braccia scorze e spezie diverse nel capace mortajo, o rigirando sul fornello con paziente lena il tamburetto del caffè. Colui, che il monello ardito salutava col soprannome di Pestapepe, aveva reso più d'una volta de' piccoli servigi alla nostra fanciulla, facendo per lei qualche commissioncella all'una o all'altra bottega, portandole su fino in casa un fardelletto, una bracciata di legne e non so che altro; nè mancava mai di salutarli, tanto lei che Damiano, quando passavano. Così tutti e due avevan preso a volergli bene, e di buon cuore rispondevano al suo saluto e se lo tenevano amico e lo chiamavano buon Rocco. Tutti gli altri del quartiere solevano invece chiamarlo Rocco il matto, o anche il Matto di piazza Fontana.
Capitolo Decimottavo
Rocco era uno di quegli sventurati che sovente s'incontrano in mezzo al popolo minuto, creature sconosciute che passano nel mondo, senza casa, senza via, senza eredità d'affetti; anime innocenti, che sembrano quaggiù dimenticate dalla Provvidenza: per loro la vita è una catena di giorni consumati dalla fatica e dalla miseria; eppur durano rassegnati e sereni, come se per essi fosse il dolore una cosa naturale, il pane cotidiano, l'aria che respirano. Non trovano quaggiù chi dia loro il nome di fratello, chi li compensi qualche volta, con una buona e compassionevole parola, di quanto loro negò natura; chi li sollevi dal fango in cui sono costretti a camminare, e li riconforti a vivere, a soffrire. Figliuoli della sventura, allorchè sono in mezzo alla gente e pensano a sè stessi, alla vita, alla felicità degli altri, debbono sentire un vuoto nell'anima, accorgersi di portare il peso d'una maledizione. Gli altri hanno una famiglia, una casa, il nome de' loro vecchi, la storia del passato a raccontare; essi non hanno che le memorie del pianto e dell'abbandono; non hanno che silenzio nel cuore. Più che la fortuna o la grandezza sospirano il conforto del domestico affetto, una famiglia che li conosca, che apprenda da loro il nome di padre e di madre. Che se v'hanno non pochi, venuti al mondo prima d'esserci chiamati, i quali sanno aprirsi una via nella folla, e conquistare, coll'astuzia o col coraggio, onore e ricchezza; se costoro ponno ridersi de' quarti di nobiltà e delle vecchie pergamene, come i bruni paladini del medio evo, superbi di sfoggiar sullo scudo la barra trasversale del bastardo; i moltissimi passano sulla terra infelici, ripudiati, deserti: e con essi altri infelici ne vanno, che nati di benedetta unione, nella casa de' poveri, pur sono nel primo dì rinnegati dai parenti, per inopia e per fame; povere anime, lasciate in mano al caso dell'altrui compassione! Succhieranno lo scarso latte di donna venale, o penderanno dalle poppe d'una capra; se non sono dalla morte mietuti nel primo anno, come dalla roncola del villano le margheritine del prato, n'andranno qua e là sperduti, per le campagne, per le officine, a stento guadagnandosi il pane, fino a che venga l'ora di tornare al Padre di tutti!
Anche Rocco, povero figliuolo, non aveva conosciuto padre nè madre. Appena si ricordava del tempo che, bambino ancora, nella casipola d'un contadino aveva cominciato a piangere, per la paura dell'accanita comare che lo batteva e malmenava, lasciandolo poi guajre tutto il dì in un canto dell'aja, nella fanghiglia, tra il razzolar de' polli e sotto la guardia del cane del pagliajo. Ma non si ricordava più che nessuno l'avesse baciato mai, come vedeva fare con gli altri fanciulli; che mai alla sua voce non si fosse volta la donna da lui nomata la mamma; che sempre gli fosse toccato il tozzo raffermo di due o tre dì, e l'avanzo de' panni smessi da' suoi fratelli di latte. Appena ebbe cinque o sei anni, gli ponevano, ogni mattino, fra mano una verghetta e il solito pan muffo, e il mandavano, quanto è lunga la giornata, fuori per la vasta prateria, o lungo le rive solitarie, in compagnia delle oche o de' porcellini; e guai se tornasse a casa, prima che il sole fosse sparito dietro il campanile del paese. La sola delizia, il solo sentimento di consolazione a lui rimasto di quel tempo era la memoria della chiesa del villaggio, alla quale correva la mattina della domenica, in frotta cogli altri fanciulletti. Com'era bello quell'altare, quel luogo venerato e tranquillo, rischiarato dal lume de' ceri, che parevangli tante stelle! Come stava attento alle mistiche funzioni che ancora non avevano per lui nessun significato, come pendeva dalle parole non comprese del curato, quando compariva sul pulpito, adorno d'una stola d'oro!
Così era passata la sua fanciullezza. Ma, solo e come perduto in una famiglia non sua, la quale, per la scarsa limosina d'un luogo pio, aveva stentato a prendersi quel carico, egli crebbe ignaro, selvaggio, come la nuda pianticella del deserto. Fino a cinque anni, non seppe quasi balbettar parola; l'occhio suo muto e fisso, la nativa rozzezza degli atti, la pigra usata postura, avrebbero dimostrato abbastanza in quel tempo, a chiunque si fosse fermato a guardarlo, la tardanza del sentimento e lo scarso lume del pensiero. Non provava nè piacer nè dolore, non amava nulla ancora, altro che il sole, sorgente dietro le lunghe file de' salici, che col tepido raggio gli sgranchiva le membra irrigidite e seminude. Rideva allora e saltellava, mettendo un grido di gioja che pareva un gemito e battendo le mani; povero fanciulletto!—Unico amico suo era il cane del casolare che spesso venivagli dietro, e sulla verde ripa accovacciavasi d'accanto a lui, per riscaldarsi al sole. Aveva tocco i quattordici anni, nè sapeva leggere; nessuno s'era sognato di dargli in mano l'abbecedario o mandarlo cogli altri fanciulli alla scuola del Comune; a nessuno era venuto in pensiero d'insegnargli a ripetere il nome del Signore; ond'egli, ogni volta che tornasse alla chiesa, inginocchiavasi vedendo gli altri far lo stesso, e piangeva non osservato, piangeva, senza sapere il perchè. Era questa la sua preghiera.
Fu verso a quell'età che la sua mente, fino allora appannata, provò per la prima volta un forte commovimento; fu allora che lo assalsero ignoti e nuovi affetti, a cui non bastava il suo cuore: comprese, per sola virtù, dell'intimo senso, il misero suo stato; e d'ogni intorno mirando le cose belle e gli uomini lieti e felici, gettato uno sguardo sopra sè medesimo, sentì nell'anima il primo dolore, dolore di morte. Oh quanta necessità d'amare e di dire altrui ciò che pativa, quanta forza d'incerto volere e quanta pietà di sè turbavano ad un tempo il fanciullo abbandonato! Ma a chi poteva domandare il perchè di tante cose che appena cominciava a conoscere e che gli opprimevano l'anima desta appena da un barlume di ragione?… Errava per le campagne correndo, ansando; parlava agli alberi, ai sassi, ai fiori della prateria, all'acqua fuggente; ogni oggetto prendeva vita agli occhi suoi; e nella sua rozza e ingenua aspirazione, invocava la nube che passa, il vento che spira tra le foglie, il baleno che solca il cielo. A poco a poco, il suo spirito, troppo fortemente agitato, incominciò a divenir giuoco di uno strano delirio. Ora si credeva un arbusto solitario; e, come fa il giunco acquidoso, l'avresti veduto tutto il dì inchino sulla riva del palude, mirando cader nell'acqua le lagrime che gli stillavano dagli occhi: ora si figurava d'essere un sasso, e colle braccia serrate al petto e le pupille fisse a terra, se ne stava, per lunghe ore, ritto a' piè della costiera, senza rispondere nè dar segno di vita a chi, per caso, passandogli avesse detto una parola. Ma, un giorno, fermatosi all'entrata del villaggio, per udir un mendicante, il quale di porta in porta andava canticchiando una canzone che finiva così:
Del tuo figlio ascolta il pianto;
Madre mia, dove sei tu?
L'han portata al campo santo;
Non verrà mai più, mai più!
quel giorno, egli pure uscì a piangere dirottamente: e d'allora in poi, impossessato forse della idea di trovar sua madre nel seno dell'ampia natura, dov'era vissuto sempre, ogni fiato d'aria, ogni brezza la più sottile parevagli una voce melodiosa che lo chiamasse per nome, e diceva ch'era la voce della madre sua. E levatosi dal terreno, n'andava là, donde l'aria spirava, dietro a quella voce; si perdeva nella foresta, sentendo tremare il cuore di gioja, a ogni stormir di foglia; e camminava dì e notte, senza stancarsi mai, senza cercar riposo; ma quando il vento taceva e facevasi l'aere tranquillo come prima, allora tutta la lena l'abbandonava, e sfinito di fame e di fatica, l'infelice cadeva, come corpo morto, nel mezzo della via.
In questa malinconica e dolorosa follìa, il povero figliuolo dell'aria, non vegliato mai da coloro che per carità lo ricoveravano ancora, dopo alcun tempo si smarrì lontano lontano dal paesello ov'erano trascorsi pieni d'amarezza i suoi primi anni. Raccolto una sera semivivo da due carrettaj sulla strada maestra, fu consegnato all'ufficio del comune più vicino, dove nessuno lo conosceva; e il deputato politico del luogo, non avendo riuscito a cavargli di bocca altro che il suo nome di Rocco, mandollo al Commissario. Costui, intrigato dagli affari, non se ne pigliò soverchio fastidio; e dichiaratolo, alla prima, imbecille e vagabondo, lo fece tradurre alla regia pretura. In tutto il viaggio, quel meschino non diè mai segno di pazzia; e senza dir nulla si lasciò strascinare come e dove volevano; nè un solo lamento uscì della sua bocca. E di colà lo trasportarono nella città, sopra una carretta, colla scorta di due guardie campestri. Gettato a passar la notte dentro un camerotto, in compagnia d'una dozzina di malviventi che lo accolsero con motti villani e sconce risa, quell'innocente si sentì soffocar l'anima nell'aria fetente del carcere; e ruppe d'improvviso in furiosi trasporti, in orribili strida. Vaneggiò per gran tempo, miseramente sbattuto da brividi e da convulsioni che facevano pietà e spavento. Fu subito condotto ad un ospizio di carità: dove stette per mesi, tra la vita e la morte, senza aver mai una lucida ora di ragione.
Finalmente, quando a Dio piacque, risanò: e parve che a poco a poco, col ridestarsi della vita, andasse morendo in lui tutta la memoria del passato. I medici dell'ospizio e gl'inservienti avevangli dimostrato un po' d'amore; ed egli seppe trovar parole di riconoscenza e lagrime di tenerezza, per esprimere la gratitudine sua a quella attenzione. D'allora in poi, sempre obbediente e rispettoso, adoperò modi ingenui e miti; parve un agnello. Parlava poco, era d'ogni cosa contento; cresciuta in guisa strana la sua fisica vigoria, voleva fare egli solo i più gravi e ruvidi servigi della casa. Ma colla forza del corpo, vedevasi invece rimpiccolirsi e mancare in lui il lume dell'anima; cosicchè sarebbesi detto inaridito già nel suo cuore il natural sentimento. Ora, passati parecchi mesi, un di que' signori del luogo pio, giudicandolo risanato, gli pose in mano poche lire, un certificato, come lo dicono, di miserabilità, e mandollo con Dio. Raccomandato da un buon ecclesiastico, aveva da prima trovato d'allogarsi come fattorino presso di un venditor di legnami; ma, non sapendo leggere nè scrivere, fu licenziato; e passò due o tre anni nella bottega d'un arrotino a girar la mola per dieci ore al giorno; pure in codesto duro mestiere, egli andava cantarellando, senza pensiero, ritornelli e brani di bizzarre canzoni campagnuole che già aveva udite o forse inventate, tanto per rallegrare la sua schiavitù. Alla fine, da quella bottega, passò al fondaco del droghiere, sulla piazza Fontana, dove ora lo ritroviamo; e già da tre anni vi stava, ultimo de' famigli di quel negoziante straricco ed avaro.
Tutti, dunque lo chiamavano il Matto di piazza Fontana: benchè, per certo, allora non fosse più matto di chi gli dava un tal nome; ma poichè nella sua innocenza del pensare, e nella semplicità di veder le cose, usciva a dir certe lampanti verità proprie tali quali sono, e faceva certe bizzarre osservazioni, di rado ben comprese, ma però significanti; le donne del contorno e i pochi che gli davan mente, dicevano che aveva spigionato il pian di sopra; o per dir com'esse, ch'era tocco nel nomine patris.
Rocco, sull'entrata dell'antico fondaco, armato il cucuzzolo d'una berretta d'incerato, rimboccate le maniche della camicia, rimestando col pestello nel sonoro mortajo, era il tipo vivente di quella figura di garzone che sullo sfianco delle imposte di ogni bottega di droghiere e d'ogni fabbrica di cioccolatte vedesi dipinto da qualche Michelangelo da colombaie. Non c'era nessuno fra le pratiche del negozio che, capitando per la libbra del zucchero o del caffè, per l'oncia del pepe o del ginepro, non dicesse passando un motto a Rocco; il quale, dove appena gli facesse un cattivo quarto di luna, rispondeva per le rime, proverbiando ognuno a sua posta.—Buon dì, matto; che novità?
—Novità vecchie; il galantuomo suda; miseria e povertà son sorelle; e a piuma a piuma l'oca si spenna.
—Eh, cosa vuoi dire?
—Niente: non c'è che i poveri diavoli che possan toccarsi la mano.
—Dammi, Rocco, i numeri del lotto: i matti la indovinano.
—Giuoca gli anni tuoi, il dì che sei nato, e quello che ti cascò in mente di vincere.
—Matto, ti saluto.
—Ti saluto, savio, che fai ammattire.
Così l'ignorante garzone faceva stare a segno i tristi che, senza compassione e per non so quale maligna abitudine, solevan pigliarsi giuoco di lui.
Ma Rocco, da qualche tempo, aveva mutato costume. Dove alcuno gli parlasse, più non rispondeva con quella sua arguta semplicità: scrollando il capo, sorrideva appena, e da indifferente e sospettoso ch'egli era, mostravasi tutto rassegnato, com'era stato nella sua fanciullezza. Non passava mai dinanzi una chiesa, non udiva il tocco d'una campana, che non si facesse il segno della croce; e se prima non perdeva mai lena per qualunque dura fatica, adesso invece ben sovente smetteva il lavoro; lasciandosi cadere sovra uno sgabello, chinava fra le mani il capo; e senza saperlo, trovavasi gli occhi pieni di pianto. Il suo principale, che fino allora l'aveva tenuto come una bestia da soma, un bel dì minacciò licenziarlo; ma il poveraccio mostravasi così compunto, così atterrito alla sola idea di trovarsi di nuovo solo in terra, che bisognò veramente promettergli di lasciarlo in pace presso al suo mortajo, sul limitare dell'antica bottega. Allora tornò a lavorare, a cantare come prima. Se non che, di tanto in tanto, rimaneva a un tratto immobile, come incantato, e troncava a mezzo i ritornelli delle sue canzoni.
Codesto singolar mutamento era dal tempo che i suoi giovani vicini, la bella ricamatrice e il fratel suo, vedendolo ogni dì e passandogli vicino, avevano cominciato a rispondere al suo saluto, a dirgli qualche parola, con quella sincerità che insegna ad amare i nostri fratelli sventurati come noi. Essendosi Damiano incontrato con lui, una mattina, in lontana parte della città, lo aveva fermato; e venutogli in compagnia lo domandò de' casi della sua vita. Era il primo in tanti anni che si fosse accorto della miseria di Rocco, che a lui chiedesse la sua storia, a lui che l'aveva da così lungo tempo dimenticata. Allora potè finalmente effondersi nel cuore d'un altro, dire tante cose che gli pesavano da tutta la vita sull'anima, e dirle senza vedere il sogghigno di chi l'ascoltava, Da quel dì, fu Damiano per lui più che amico, più che benefattore; tanto vale una dolce parola, tanto può un'occhiata di fraterno amore. Da quel dì, il primo pensiero del matto dabbene fu per i suoi due angioli custodi, come egli chiamava Damiano e la Stella. Per loro sarebbe corso nel fuoco: per loro, avrebbe dato libertà e vita. La sua gioja era quella di contemplare di lontano, come un'apparizione, la fanciulla, quando, col primo raggio dell'alba, usciva alla finestra, o quando stanca del ricamare, chinavasi sul davanzale e, aperta la gabbia, chiamava il canarino sulle sue dita.
Un dì, l'uccelletto fece capolino dall'usciolino socchiuso della sua prigione, e saltellando qua e là sull'aperta finestra, spiccò d'improvviso un bel volo, e andò a posarsi sul parapetto d'un'altana della casa di fronte. Appena se ne fu accorta, la fanciulla mise un grido; e tutta turbata correndo alla finestra, richiamava il suo canarino, imitandone colla voce il pigolio, e agitando nell'aria il fazzoletto bianco; ma poi che il fuggitivo non le rispondeva, anzi volava più alto, cominciò a piangere. E già credeva perduto per sempre il suo piccolo amico; quand'ecco su quel tetto, dal vano d'un abbaìno, vede spuntar fuori una testa, poi due braccia robuste che s'aggrappano alle travi e ai correnti, poi tutta la persona. Era Rocco.
Un freddo mortale la prese, pensando al pericolo che correva per lei quel giovine; e gli occhi pieni di spavento, il cuor tremante, senza respirare, seguiva ogni passo, ogni moto di quell'uomo, che di momento in momento le pareva vedere da tanta altezza precipitar nella via. Ma l'ardito Rocco, usando l'accortezza del gatto, camminava sugli obbliqui fianchi dei tetti, fin quasi al margine delle gronde, e arrampicandosi grado grado a' fumajuoli, di soppiatto seguiva lo svolazzar del canarino or su questo or su quel comignolo. E quando gli fu presso, strisciando dietro l'altana, s'attaccò a' bastoni dell'inferriata, arrischiò un salto che fece mettere uno strido d'orrore a tutte le donne intente a guardarlo da' balconi del vicinato; e ghermì il ribelle uccelletto. Se lo nascose in seno, tra le pieghe della camicia, e rivolto uno sguardo alla finestra di Stella, per la via ond'era venuto, calò.
Non si può ridir la festa della fanciulla, quando Rocco venne a riportarle il canarino. Egli non seppe dirle nulla, come se fatto avesse una cosa la più naturale; ma Stella, tuttora sbigottita del pericolo in cui lo vide, nel ringraziarlo con ingenuità affettuosa, lo rimproverò perchè si fosse posto a quel rischio per così poco: egli sorrise e non seppe dirle nulla ancora.
Ma, dopo questo caso, la conoscenza loro si fece più stretta, divenne la buona amicizia come c'è tra la povera gente, la più schietta di tutte l'amicizie. La vedova e la figliuola dovevano valersi del Rocco in ogni premura, in ogni occorrenza: appena avesse a far qualche cosa per loro, era felice, e si dava attorno con una contentezza da non credere. Di tanto in tanto, anche non chiamato, si faceva coraggio di venire a trovarle; e alla domenica, nell'ore libere del dopo pranzo, essendo in casa Damiano, egli non mancava mai di salire a tener compagnia a' suoi amici. La Stella lo aspettava, e qualche volta lo garriva un poco, se avesse tardato: poichè ella s'era messa all'impegno d'insegnargli a leggere; e il povero garzone pensava già di toccar il cielo col dito, vedendo che riuscivagli di cucire insieme qualche parola, quando studiava sul libro di preghiere della sua giovine maestra.
Capitolo Decimonono
Al principiar dell'agosto, furono aperte al pubblico le sale del palazzo di Brera. Fra i molti quadri mandati al concorso, uno ve n'era sul quale, più che sugli altri, fissavano gli occhi gl'intelligenti dell'arte, e que' che avevano il difficile carico di giudicare le opere del concorso e di attribuir l'onore della corona.
Quel quadro non era, per verità, un capolavoro: anzi i maestri vi avevano notate non lievi mende, parendo all'uno alquanto trasandata la composizione, all'altro poco accademico il gruppo delle figure, a un terzo male accurate le gradazioni de' toni nel colorire, che danno prova del giovine studioso. Ma, a rincontro e quasi in ammenda di tali difetti di scuola, i meglio avveduti, in quel quadro che sulle prime non faceva maraviglia alcuna, scorgevano il sentimento dell'arte, vergine ancora, ma libero e schietto, non meno che lo studio ingenuo del bello e del vero; nulla d'esagerato, di metodico nelle linee e nel colore; non risalti improvvisi, nè leziosi movimenti; ma pôse naturali, disegno gentile insieme e franco, armonia e purità di pennello; e sopra tutto, ciò che può essere soltanto dono d'inspirazione, lampo d'idea, una singolar verità nella espressione del dolore sulle belle sembianze del ferito cavaliero e della donna innamorata.
Era questo quadro il primo lavoro del nostro Damiano. Fra i tanti che lo videro, coloro che lo giudicarono, sopra gli altri, degno della corona furono i pochi e i buoni: vi scorgevano l'espressione d'un ingegno non inaridito dai precetti, ma ritemprato dalla naturale coscienza del bello; v'intravedevano un'anima compresa della serietà dell'arte, una capacità che faceva prova di sè, e meglio prometteva per lo avvenire. La maggior parte però, e quei che dell'arte fanno mercato, vivendo della gloriuzza accademica, delle rinomanze di gazzette, rimbeccandosi lodi e critiche, sguisciando fra i piccoli intrighi e le sorde invidie del mestiere, non vedevano nulla di raro o di bello nel quadro lodato; e forse, perchè lodato da' buoni, facevano studio di trovarlo cattivo. Così per lo più avviene, anche in ogni altra cosa; anche dove si tratti della virtù e dell'onore di chi appena si levi sopra il comune.
Delle altre opere mandate al concorso, e portanti al piede ciascuna un motto diverso, secondo l'uso, si nominava, o s'indovinava, l'autore: amici e compagni d'ogni concorrente, allievi di questo o di quel pittore in fama, se la intendevano, facevan crocchio, cominciavano una guerricciuola di brighe, d'impegni, di raccomandazioni; sono le solite armi con cui a questo mondo si procura di stuzzicar la giustizia nelle grandi e nelle piccole cose. Ma nessuno mai era riuscito a poter sapere di chi fosse l'ultimo quadro venuto, che fino allora, massime nella opinione de' giovani, pareva vincerla sul merito degli altri.
Costanzo, quantunque appena capisse in sè dalla gioja, argomentando l'immancabile trionfo del suo allievo, non gli mancò di parola; non essendosi lasciato andare a fiatar con persona viva il segreto del giovine pittore. E siccome Damiano tenne sempre nascosta la sua tela, e finita che l'ebbe non ne fece mai parola con nessuno; così neppure sua madre, neppure sua sorella sapevano imaginare che appunto in que' dì, pensieroso, distratto, indifferente com'era, aspettasse un giudizio che poteva decidere per sempre di lui.
Intanto il giorno solenne avvicinavasi. Ottimo e degno d'una civiltà che rispetta e onora nell'arte l'espressione della grandezza del popolo e certamente il beneficio della legge che assolve dal servigio delle armi il giovine cittadino, il quale, vincendo nell'arduo sperimento dell'accademia, promette di render alla patria quella corona dell'arte che ottenne per sè; ma, appunto perchè giusto e grande è il beneficio, imparziale e severa debb'essere la mano che lo comparte. Il modesto sentimento di sè, il dubbio di quel che aveva fatto, il veder colla mente qualcosa di meglio, tutto ciò atterriva Damiano, e gli esagerava le difficoltà del riuscire. Ma pure, non osò staccar gli occhi da quel lume di speranza, non osò d'interrogare la sorte che l'attendeva, ove quest'ultimo raggio fosse venuto a morire.
Pochi dì innanzi a quello in cui sogliono essere aperte le grandi sale dell'Esposizione, Damiano, per via d'una raccomandazione avuta dal pittore Costanzo, potè condurre la sua famiglia al palazzo di Brera. Le donne, quantunque sapessero ch'egli aveva cominciato a lavorar di pittura nello studio del signor Costanzo, non potevano figurarsi quella mattina che venissero a vedere un gran quadro fatto da Damiano, quel quadro ch'egli stesso aveva, quindici dì prima, caricato sulle spalle di Rocco, per mandarlo di nascosto al concorso. E già prima, il signor Costanzo avrebbe voluto darsi attorno, fare, dire, gridare: ma Damiano gli fece giurare di non fare solo un passo; e il galantuomo tacque.
Entrata appena la famiglia nella sala ov'erano disposti qua e là, sui cavalletti, i quadri de' concorrenti, ecco che la Stella mette un grido di gioja e riconosce, sulla prima tela che le si offre alla vista, il proprio volto in quello della bellissima giovinetta ivi dipinta. Allora comprese il segreto di suo fratello; e correndo con impeto ingenuo, affettuoso nelle braccia di lui, disse:—Oh perchè, Damiano, perchè fino ad oggi non hai voluto a parte de' tuoi pensieri quelli che ti vogliono tanto bene?
—Mia cara, buona sorella, le rispose il giovine, tenendola stretta al cuore; non dir nulla, per carità; tu mi vuoi bene, e vedi tutto bello; ma non sai che il bello dell'arte è quel fuoco che uccise chi lo rapì, come credevano gli antichi. Io non ho fatto nulla ancora… e, dentro di me, gelo e tremo.
Intanto anche la signora Teresa, avvicinatasi al quadro, domandava una cosa o l'altra, ora al signor Costanzo, al quale non pareva vero di poter dir quel che sentiva, ora al suo Celso, che dopo lungo tempo era venuto dalla solitudine dello studio a passar quel giorno presso la madre. La buona famiglia, da un solo affetto raccolta intorno al quadro, in quel momento sentiva una gioja ineffabile e santa, che brillava nel volto sereno di ciascuno. Era in verità una scena gentile e così vera che avrebbe commosso ogni cuore.
—Oh! spiegami un po', Damiano, come la è andata: a lui diceva sua madre, col volto sereno e con le lagrime negli occhi: dunque un quadro così bello, così grande, sei tu, proprio tu, che l'hai fatto?… E come hai potuto, il mio caro figliuolo, lavorar tanto in così poco tempo, fra gli studj della scuola e i travagli della nostra povera vita?
—Oh mamma, rispondeva, era il mio spasso, la mia consolazione!
—Capisco bene adesso, la Teresa ripigliava; capisco il mistero che ti teneva tutti i dì lontano dalla tua mamma per ore ed ore…. E io, vedete un po', andava imaginando certe ragioni, certe storie…. che il Signore me le perdoni!
—Madre mia, tornava a dir Damiano: la povertà e l'amore insegnano di grandi cose. Io, sì, ve lo confesso, nella mia fatica pensava più a voi che a me; e mi pareva di veder nell'avvenire que' giorni che forse avrei potuto farvi; a voi una vita meno angustiosa, meno grama; a me… Poi, bisognava proprio che io provassi: era una fiamma che io mi sentiva qui dentro! Con tutto questo, vedete, forse è un sogno, è sperar l'impossibile!
—Ecco, sei sempre quello! lo interruppe malinconicamente la Stella.
—Non parlar così a traverso, disse il signor Costanzo, facendo la voce grossa e severa: mi fai proprio rabbia!… la tua modestia è una bella cosa…. ma, quando è chiaro, come due e due fan quattro, che tu sei nato pittore…. Oh vorrei vederla!… capisco già che la va sempre di quel trotto; i buoni stanno allo scuro, e i nani si credono giganti. Ma qui, non c'è che dire…. tu devi vincerla su tutti: ho un par d'occhi anch'io…. e, al caso, mi sentiranno.
—Eh! voi mi volete bene, forse troppo! dicevagli il giovine.
—Sì: ma il ben che ti voglio non mi benda gli occhi, e posso dichiararti tondo che la tua Erminia vale lei sola tutte l'altre insieme che stanno qui attorno…. e se que' signori non hanno la vista d'una spanna….
—Guarda, mamma, com'è bella ed espressiva la faccia smorta di quel cavaliere che sembra proprio appena tornare in sè…. quello è Tancredi: non è vero, Damiano?—Così domandava la Stella, appoggiata al braccio del fratello, con amorevole compiacenza levando la piccola mano verso il quadro:—Me la ricordo bene la sua storia…. mi ricordo quell'amore della bella Erminia, che tu m'hai letto un dì nel Tasso…. Oh! que' versi mi facevan piangere.
—Buon Damiano! così anche Celso diceva il sentimento del proprio cuore al fratello. Dio ti fece un gran dono, e tu hai saputo metterlo a frutto. È impossibile che il tuo merito, adesso oscuro, non abbia ad essere, quando che sia, conosciuto e compensato. Sì, tu farai onore a' tuoi, al nome di nostro padre; e noi sarem fortunati di appartenerti.
—O miei buoni! il giovine esclamò: Che Dio vi protegga. Ma non mi parlate, non mi parlate così!—e s'era fatto severo in viso—So che il conforto di quelli che ci tengono in cuore val meglio della pubblica lode, la quale tante volte si vende e si compra a buon mercato: e il veder questa gioja sui vostri volti, e quelle lagrime di mia madre e di mia sorella, son per me un premio più grande della mia speranza. Ma se tutti v'ingannaste? Se fosse il bene che mi volete quello che vi fa vedere sulla mia fronte ciò che il Signore non vi ha messo, una luce ch'egli dà a ben pochi su questa terra!…. Allora, addio ai sogni del giovine, addio alle fantasie di tanto tempo, addio a' begli anni gettati via per nulla; per quanto io mi faccia non potrò più arrivare a quell'altezza dove il cuore libero respira!… E al destarmi, mi troverei tuttora al principio del cammino, senza più tempo, senza più lena di fare quello che avrei dovuto far prima… quello che tutti gli altri fanno.
—Vedi, come sei tu! mio povero fratello! lo riprendeva amorosa la Stella: questi sono i pensieri che ti facevano tristo e taciturno; e in vece di guardare il bene….
—Sì, aggiungeva la madre: in vece di sperare, tu vuoi togliermi la contentezza e la consolazione che m'avevi date. Ma no! è impossibile che quando si ha quel cuore e quel pensare che tu hai, non si riesca a tutto quel che si vuole. Ed io, intanto, ringrazio il Signore che m'abbia dato un figliuolo come il mio Damiano: sì, che Lui ti benedica.
A queste parole, il giovine sollevò la fronte rasserenata come prima; e parve, la sua mesta sembianza rischiararsi di quella luce interiore, che viene da un'anima pura e contenta. S'avvicinò alla madre; e chinandosi un poco, prese con riverenza la mano di lei, e la baciò.
Capitolo Ventesimo
Inosservato testimonio di questa scena, un uomo semplice all'aspetto, di mezzana statura, dai capegli già misti di bigio, e trasandato anzichè no del vestire, aveva udite, non volendo, le loro parole; aveva veduto quel figlio baciar con affetto la mano materna. Facendosi innanzi, si volse al giovine artista, e:—Siete voi, disse, che avete fatto questo quadro?… E l'atto, e il mite suono di voce, ma più ancora il lampo degli occhi intenti e gravi additavano in quel nuovo venuto l'uomo grande e modesto che conosce e sente, l'uomo di genio che sempre cerca le impronte della bellezza, che ovunque ne scopra alcuna, si rallegra e tiensi felice d'aver vissuto un giorno di più. Non lo avevano mai veduto; ma Damiano sentì batter forte il suo cuore appena incontrò, levando la testa, lo sguardo dello sconosciuto. Oh! che sentimento sarebbe stato il suo, se alcuno avesse detto allora a Damiano il nome di quell'uomo onorevole e illustre; nome ch'io taccio per riverenza alla più bella virtù degli uomini grandi.
Il giovine stette un poco sopra di sè; poi, vinto dall'impero di quello sguardo che non si staccava da lui:—Sì, rispose, con voce sicura: questo è il primo mio quadro.
—Voi siete nato pittore, o giovine! riprese lo sconosciuto: datemi la mano. Io non so chi siate, ma ho sentito le vostre parole, e già vi sono amico.
Una gioja inesprimibile balenò negli occhi di Damiano, nell'atto che stese la destra: l'altro la strinse fortemente nella sua, dicendogli:—No, non è vero che l'arte nostra sia morta, come grida una generazione d'egoisti, la quale si rassegna troppo facilmente a rinnegar patria, religione, famiglia e tutto! Noi Italiani siamo ancora qualche cosa, per dio! se pur da noi stessi non ci condanniamo a morir per sempre; la fiamma de' nostri antichi non è spenta del tutto; ma l'arte, questa patria del pensiero che cerca la bellezza, ha bisogno di figliuoli che facciano sagrifizio per essa. O giovine, non temere! Ascolta la voce che ti chiama, va pur dietro all'inspirazione del cielo: ma ti guarda da que' tristi che gelosi della buona coscienza degli altri, e d'animo imbecille, vorranno soffocarti nel cuore la divina scintilla. Vivi oscuro ed umile, studia lungamente; non istancarti del pensare; non andare in cerca dell'applauso, e non rider mai, nè da te nè con altri, dell'antica fede dell'arte. La via che cominci è dolorosa e lunga più che non pensi; ma se cammini di buon passo per tempo, se non hai sete troppo presto di un nome, se non vuoi dell'oro, tu potrai giungere là, dove a pochi è concesso…. Soffri, sii misero e forte; e un dì, forse, sarai grande!
A tali meste e solenni parole, la gioja che irradiava il volto di Damiano, disparve: le due donne, l'abate, e con essi Costanzo, s'erano discostati un poco e non osavano più aprir bocca, compresi da rispetto; cosicchè i due artisti rimasero soli in faccia al quadro. Allora lo sconosciuto, avvicinatosi lentamente alla tela, con voce pacata e sommessa, disse, e fece toccar al giovine ad uno ad uno i difetti che l'acuto suo sguardo vi aveva distinto: non erano molti, degni i più di scusa, e facili a venir tolti via; tali anzi che rivelavano una mente viva e ardita, la quale non aveva cercato ajuto che a sè medesima. Prontamente Damiano conobbe, a parte a parte, quelle mende che dapprima non aveva saputo trovar fuori; ed era appunto ciò che il faceva così malcontento dell'opera sua. Dopo questo, si fece lo sconosciuto a lodare la semplice invenzione, la forza del disegno, una certa naturale purezza di forme, un'armonia di colori, una buona temperanza di tinte e di gradazioni di luce; sopra tutto la verità e l'affetto che spiravano dalle due belle figure di Erminia e di Tancredi, nelle quali si poteva leggere quella espressione che inutilmente cercava sull'altre tele.
—Tu vedi, amico mio, conchiuse, ch'io son sincero con te: quelle due teste bastarono a rivelarmi ciò che un dì potrà fare il tuo pennello, o piuttosto l'anima tua. Queste care figure le hai vedute nella fantasia; le ha trovate, indovinate il tuo cuore; son due tipi, come diciam noi, che nessun maestro ti avrebbe potuto insegnare, fuorchè il miglior de' maestri, quello che vive qui dentro, l'amore. Ma ascoltami bene: io non so se tutti vedranno e giudicheranno al par di me; molti pregi, e pregi massimamente di studio e di scuola, spiccano negli altri quadri che ne stanno in giro; ma, te lo ripeto, nessuno ha ciò ch'io veggo nel tuo. Dove il giudizio toccasse a me, penso che tua sarebbe la corona: ma se mai la schizzinosa servilità al precetto e la pedanteria ci mettessero la coda; se mai ci fiatasse sopra l'ingiustizia ch'è losca, o l'intrigo che di soppiatto guasta le cose migliori, non ti smarrir dell'animo, o mio giovine; anzi fanne augurio per la vita penosa dell'artista che hai cominciata: perchè il genio costa dolore.
—Grazie, o signore! le sue parole io le terrò scritte qui dentro: rispose Damiano, fu un premio anche troppo grande per me quello che oggi ho udito dalla sua bocca…. Io non dimenticherò mai, che ho potuto stringere questa mano, come la mano d'un amico….
Il signor Costanzo s'avvicinò al nostro giovine, e gli disse in segreto il nome di quell'uomo con cui aveva parlato; nome ch'egli stesso era riuscito a sapere, domandandone un vecchio inserviente che di là passava. Damiano arrossì; le parole che cominciavano a uscirgli del cuore, a un tratto, gli mancarono; ma ebbe coraggio d'accostarglisi di nuovo, dicendo:—Questo giorno sarà uno de' più belli di tutta la mia vita!
Si lasciarono; e Damiano, partendosi con la famiglia, aveva l'anima rapita da lieti pensieri, e fra sè diceva:—Egli è il vero artista, egli è grande e buono!
Mentre così apparecchiavasi Damiano al cammino della vita e alle difficili prove che l'accompagnano, la sciagura che troppo presto aveva cominciato a seguitarlo, non s'era già perduta per via, e lo teneva d'occhio di lontano, come fa la tigre del deserto colla sua preda. Colui che una fatalità gli aveva suscitato contro, forse per mettere a prova la sua virtù e il suo coraggio, quel signor Omobono da lui temuto insieme ed abborrito, maturava in segreto il modo di tirar nelle sue mani la sorte della povera famiglia. Il genio del male, pareva averlo inspirato. Forse, se Damiano fin dal principio si fosse mostrato a lui devoto, se avesse accolto le sue profferte d'amicizia, il lievito dell'odio non sarebbesi diffuso nel cuor di quell'uomo. Nessuno poteva dire quali tristi pensieri egli covasse; perchè si fosse accanito così contro di quelle oneste creature. Fatto sta, che in quel tempo, quantunque non si fosse lasciato vedere, egli sapeva tutto ciò ch'era successo nella loro casa.
I nostri buoni amici intanto s'eran forse di lui dimenticati; però che i buoni, quasi sempre, credono troppo poco al male. Ma ciò che aveva voluto, che voleva ancora, egli il sapeva. E se i cattivi ponessero, per ritornare al bene, la più piccola parte dello studio che fanno per camminare spediti nella via del male, le ragioni del serpente non sarebbero ancora così spesso ascoltate; e l'animo sarebbe pago di quel conforto che viene dalla sperienza della virtù.
Era passato alcun tempo; e Damiano, pensando all'incerta riuscita del concorso, non sapeva por mente a nessuna cosa, non aveva pace un momento. Pure, per non so quale alterezza, fors'anche pel timore di mutare il dubbio che l'agitava in una trista certezza, non volle parlarne con nessuno, non volle neppur sapere il giorno nel quale la sua sorte dovevasi decidere; e fece forza a sè stesso per non pensarci. Ma il signor Costanzo non poteva star nella pelle; e se proprio in que' dì non fosse sopravvenuta una grossa febbre a inchiodarlo nel letto, non sarebbe stato cheto per certo, fino a che non avesse saputo di buon canale che la corona era posta al quadro del suo Damiano. Chi sa che appunto il dispetto di non saperlo di subito, non gli abbia tenuto addosso quella febbre una settimana di più.
Una mattina però, Damiano, partendosi dalla casa del pittore, andò quasi involontariamente e per non so quale presentimento verso la via di Brera. La maggior frequenza di gente che a quella parte incamminavasi, gli mise un ribrezzo nella persona; e confuso nella folla s'affrettò anch'esso verso l'antico e severo palazzo, dal quale era uscito l'ultima volta, pieno di così alta e bella speranza. Entrando nell'ampio cortile, parevagli che tutti gli occhi fossero sopra di lui; tremava e sudava al tempo stesso; forse l'anima sua sentiva già tutta la verità.
Pure, salì insieme cogli altri, che non gli ponevano mente, nè gli risparmiavano, in passando, qualche urto; attraversò la prima e la seconda sala già tutte piene di giovani allievi, di persone curiose o indifferenti: messo appena il piede nell'altro salone, vide pendere in faccia a sè sulla parete a destra un quadro, a capo del quale era attaccata la corona d'alloro!… E quel quadro non era il suo!
Altro non seppe, non vide; gli si annebbiò la vista, sentì una fitta nel cuore; e sarebbe forse caduto a terra, dove non si fosse appoggiato al piedestallo d'un monco colosso di scultura greca, a cui per caso trovavasi vicino. Nessuno s'accorse di ciò ch'egli pativa dentro di sè; anzi nel passare, un buon ambrogiano che voleva vedere, sapere, e non perdere il proprio tempo per nulla, se gli accostò, e additando il quadro incoronato, gli chiese ingenuamente:—Mi saprebbe dire che cosa sia quel quadro là, e perchè abbia quella corona?…
Il giovine risensò a quella voce, rialzò l'avvilita fronte, ma non potè lasciar di volgere un'occhiata al suo povero quadro confinato in un angolo, sotto una scarsa luce. Poi, con tutta la calma possibile, fece contento quell'ambrogiano dabbene, spiegandogli l'argomento della pittura, e dicendogli che il quadro colla corona, fra i molti mandati al concorso, era il più bello.
Uscì di quelle sale; ma non ebbe il coraggio di tornar subito a casa, di rivedere sua madre e sua sorella: rifatta la via fino alla dimora del pittore Costanzo, andò a sedere di nuovo al letto di lui; là, senza dir nulla, appoggiati i gomiti ai cuscini, chinò la testa nelle mani; e volle, ma non potè piangere.
Capitolo Ventesimoprimo
Il signor Omobono, che da parecchi mesi non s'era più lasciato vedere, un bel dì ricomparve in casa della vedova; e fu appunto in quel tempo che Damiano, dopo la mala riuscita del concorso, aveva perduto il coraggio e la buona speranza. Chi lavora per il male sa troppo spesso scegliere il buon momento per mettere la sua trista parola. Il signor Omobono, un di coloro che non accattan brighe colla coscienza, speditamente infilzò alle due donne una corona di bugie. Cominciò a dir loro che affari di gran peso l'avevano tenuto per tutto quel tempo fuor di Milano, ma che non per questo egli soleva dimenticare gli amici; s'informò minutamente delle cose della famiglia, mostrando di pigliarvi grandissima sollecitudine, e maravigliandosi all'udire ciò che sapeva di già meglio di loro. In pochi dì, potè così riconquistare la sua posizione. La Teresa s'era messa nelle mani di lui: anche la Stella, quantunque in fondo del cuore sentisse non so quale rimasuglio d'antipatia, pensava d'essere con lui ingiusta, se non gli credesse del tutto.
Come prima, faceva l'Omobono di non capitare in casa della Teresa che all'ore consuete in cui presumesse di non essere frastornato dalla presenza di Damiano, o da quella del signor tenente Lorenzo. Damiano, in que' dì, non sapendo che farsi della sua vita, andava dal mattino alla sera vagando alla ventura fuor di città lontano da tutti, e pieno di mesti pensieri; intanto che il signor Lorenzo, preoccupato anch'esso della malinconia del giovine, altro non faceva dal mattino alla sera che girar sulle sue traccie, per dargli una buona gridata e metterlo, come diceva, alla ragione.
La Teresa adunque si andava sfogando col signor Omobono di que' novelli suoi dispiaceri. Ma intanto ella non sapeva che una disgrazia assai più grande era vicina, non sapeva che il suo Damiano, compreso nella coscrizione di quell'anno, poteva essergli tolto da un giorno all'altro. Non ci pensava, o credeva forse che Damiano, unico sostegno di una vedova madre, dovesse essere, per diritto, franco dalla coscrizione: nè certo avrebbe potuto capire come bisognasse ch'ella non avesse modo di campar la vita e che gli altri figliuoli non toccassero ancora i quindici anni, per far godere a Damiano l'esenzione dalla legge militare.
Nè Damiano aveva mai parlato con essa di ciò che poteva succedere. Pareva ch'egli neppur ci pensasse; non cercava più del signor Costanzo, o del signor Lorenzo e neppur del buon Rocco; il quale forse era il solo che avesse indovinata l'angustia da lui compressa nel cuore; il solo che, al suo passare per la via, lo seguitasse a dilungo con uno sguardo, in cui erano pietà e amore.
Ma sorvenne il tempo che a Damiano bisognò per forza preparar sua madre al tristo avvenire che aspettava. E si provò, con certi discorsi in aria, a metter innanzi l'incertezza delle cose del mondo, la necessità di rassegnarsi, di sostenere con forza quel peso che non si può gittar di dosso: ma sua madre non voleva capire. Ben lo comprese la Stella; ben vide essa dove andassero a finire quelle rotte ed amare parole di Damiano. Pure ebbe cuor di non piangere; e, senza dir nulla al fratello, fu lei che a poco a poco, si studiò d'avvezzar la mamma a quel pensiero che Damiano le potesse un dì o l'altro abbandonare.
In mezzo a cosiffatto contrasto di domestiche affezioni e dolori, il signor Omobono continuava con assiduità le sue visite; e si sarebbe detto che i pensieri d'inferno che lo avevano istigato fino allora contro a Damiano e a' suoi, si fossero quasi per miracolo dissipati; tal'era la mitezza, tanta la bontà che alle due donne pareva di scorgere in esso, tanta la magia che l'innocente bellezza della Stella adoperava sopra di lui.
Il bel quadro di Damiano, testimonio muto della sua anima dolorosa e infelice, giaceva polveroso e dimenticato in un angolo della sua stanza, dietro il tavolino coperto pure di libri polverosi e dimenticati; poichè il giovine, dal giorno in cui si mise in mente che la sua vocazione d'artista era stata una matta superbia e null'altro, aveva detto addio a' pennelli, alle tele, ai libri; era divenuto indifferente a tutto. Una mattina, il signor Omobono, passando per quella stanza, volle vedere il quadro; lo portò egli stesso alla luce della finestra; e sfoggiando sentenze pittoriche e paroloni, i quali eran bevuti dalle donne con riverenza, disse il quadro avere il suo merito; essere un peccato il lasciarlo così tra i ragnateli; potersene quando che fosse cavar de' buoni danari; infine volere egli stesso pensare a trovar fuori un compratore.
La madre si consolò tutta, e la Stella rispose che avrebbe detto questa fortuna a Damiano: ma quel signore, per fini suoi particolari, soggiunse che si guardassero bene dal farne parola con lui, finchè la cosa non fosse veramente accomodata com'egli intendeva. Pensava la giovinetta che forse da quel quadro, s'era proprio bello come a lei pareva, si sarebbe potuto ritrarre tanto prezzo da trovare un supplente per Damiano, se mai, incolto dalla coscrizione, non avesse per sè la Provvidenza. Ma tenne per sè il buon pensiero, e neppure ardì confidarlo al fratello.
Pochi giorni appresso, Rocco che, al suo costume, se ne stava sgusciando aromatiche corteccie sul limitare del fondaco, vide fermarsi un bel carrozzino signorile, cosa per lo meno strana, presso il portone della casa ove abitava la famiglia di Damiano. Allungò il capo fuor della porta invetriata, aguzzò gli occhi; vide aprirsi lo sportello e poi scendere un tale che subito riconobbe, per averlo sovente incontrato in casa del suo principale, quantunque non sapesse fargli il nome; dietro a lui un signore di nobile e serio aspetto, piuttosto sull'età, vestito d'un largo soprabito soppannato di pelliccia di martora: anche quel signore si ricordava benissimo d'averlo veduto più d'una volta passare per le vie della città. Erano il signor Omobono e l'Illustrissimo.
Il povero fattorino si sentì come una stretta al cuore al primo vedere quel vecchio signore; senza saper perchè, un brulichìo di pensieri gli si mosse in mente; e non so che cosa avrebbe fatto per indovinare che venissero a fare que' due e che dicessero fra di loro, come chè li vedesse ridere e gesticolare in segreto. Ben s'era imaginato che andassero nella casa della signora Teresa, e ne sentiva dispetto, anzi rabbia, dolore; voleva persuadersi che la era una sua fantasia; ma una voce interiore gli suggeriva che ci doveva essere qualche mistero, che ci covava alcun chè di sinistro: ristette immobile come un piuolo, e le sue pupille non si distolsero più da quella porta e da quella carrozza.
Passò un'ora buona prima che vedesse scender dalle lunghe scale i due signori: il vecchio gentiluomo rimontò nel carrozzino; il suo satellite, fatta una gran riverenza col cappello in mano, si dilungò per la via. Ciò che passò nel cuore di Rocco in quell'ora eterna, nessuno lo seppe, altro che lui. Voleva correre dalla mamma Teresa, per domandar la causa di tale straordinaria visita, e non aveva coraggio; voleva raccontare la cosa a Damiano; ma non sì tosto lo vide spuntare a capo della piazza, si sentì morir le parole in bocca; quand'esso gli passò d'accanto, rispose timido al saluto di lui; e passato che fu, si battè con un pugno la fronte, e disse:—Povero me; povero matto ch'io sono!
Ma il dì seguente, all'ora medesima, egli vide venire la medesima carrozza e fermarsi dinanzi al portone. Il vecchio signore però era solo nel legno; se non che, nell'atto che poneva il piede sul predellino, il compagno del dì innanzi, che se ne stava, poco lontano, aspettandolo, mosse con rispetto verso di lui, e gli porse braccio a scendere. Il garzone, a quella vista, arse e gelò; ma non si tenne più. Appena i due furono entrati nell'andito del portone, egli sguisciò fuor della bottega, passò cautamente di fianco alla carrozza, e pigliate le scale, salì dietro le loro spalle, senza fare il più piccolo romore.
—Per bacco! sono un po' lunghe codeste scale: diceva il vecchio signore all'altro che lo precedeva.
—Abbia un poco di pazienza, Illustrissimo, e potrà raccorciarle della metà: rispondeva, con un sogghigno muto, colui.
—Ehi, ehi! non vi capisco: come sarebbe a dire?
—Sarebbe a dire che, se le cose vanno, ella potrà, Illustrissimo, fare un miracolo, trasportare il quarto al secondo piano.
—Briccone e matto! mi maraviglio di voi: che cosa credete? Se vi ho dato ascolto, se son venuto fin qui, se ci torno, è stato ed è solo perchè voglio veder io, quando si tratta di far del bene….
—Certo che sì; conosco il suo cuore, Illustrissimo. Se io le ho parlato ancora di questa famiglia, l'ho fatto per premura….
—Eh! voi siete un volpone; vi conosco, galantuomo! M'avete dato a credere che la giovine sia una perla….
—E lo mantengo.
—Ma io vi ho ben poca fede: so che le bazzicate da un pezzo in casa…. e basta questo….
—Baje! chi mai le ha detto, Illustrissimo?
—Chi? il Rosso.
—Impossibile: che cosa sa colui de' fatti miei? E poi, non ha veduto forse lei, Illustrissimo, non ha conosciuto, non s'è persuaso fin da jeri…. E tra sè intanto bestemmiava dietro al Rosso, suo rivale nel favore dell'Illustrissimo.
—Buona gente, sì, buona gente, ripigliò il signore: e son disposto a far qualche cosa per loro. In quanto alla giovine….
Fin qui Rocco non aveva perduto sillaba della conversazione; ma allo svoltar della scala, temendo d'esser veduto, ristette un poco; e sebbene sbirciasse in su e tendesse l'orecchio, non potè capire il resto della frase.
Poco di poi s'arrischiò a salire di nuovo, attirato quasi da incognita forza che gli faceva dimenticare ogni rispetto e pericolo.
—Vedete un po': diceva il signore, fermandosi a un pianerottolo, per pigliar fiato. Se almeno lo avessi saputo un anno fa, contentando la vecchia con quel piccolo benefizio ch'era venuto ad implorare, le sarei entrato in grazia; e a quest'ora… È vero che il chierico c'è ancora, a quel che ho sentito, e di benefizj da imbonire abatini non c'è penuria in casa….
—Grazie a' suoi santi nonni, Illustrissimo.
—Eh! eh! Cosicchè quello che non s'è fatto si può fare.
—In quanto al figliuolo maggiore, egli è necessario tenerlo basso…. perchè ha una testa…. e certe idee singolari….
—Eh! gli pagheremo quella tela impiastricciata che ho visto jeri, e felice notte.
—Basta che si contenti. A buon conto, in quest'anno ch'è per venire, la coscrizione ci potrebbe anche liberare di lui….
—Sta bene. Alla peggio, se costui ha le idee matte, saprò guarirlo io: la conosco da un pezzo la superbia de' pitocchi; pare che minacci il mondo; ma dà giù, sul più bello, al veder la faccia d'uno scudo.
E qui gli sfuggì dal labbro un superbo riso, al quale rispose l'Omobono con quel ghigno che aveva non so che di diabolico.
Giunti sull'ultimo ripiano, s'incamminarono per il ballatojo, nè ancora si trovavan dinanzi all'umile porta che Rocco lento e cauto li aveva raggiunti al sommo della scala: ma non ardì fare un passo di più; vide il vecchio signore raddrizzarsi con sussiego, rincalzarsi nella trincea della bianca cravatta, e arrovesciando sovra una spalla la pelliccia del pastrano, porre in mostra ciondoli e catenelle pendenti dall'occhiello dell'abito; poi, messo fuori un soffio di dignità sul pome di lapislazzuli che sormontava la sua canna d'India, entrare nella povera stanza. Il signor Omobono che lo aveva accompagnato fin là, si trasse di nuovo il cappello e, fattogli un'inchino, tornò indietro; cosicchè Rocco, per non esser veduto, bastò appena tempo d'acquattarsi in un angolo, dietro il parapetto della scala sullo stesso ripiano.
Quando si vide solo, Rocco balzò ratto in piedi; e sulla sua faccia di terreo colore, sulla fronte volgare dell'uomo che tutti chiamavano il povero matto, fu vista lampeggiare un'ira così grande e fiera, mista insieme di disprezzo e di dolore, che in quel momento non parve più lui. Non disse parola; ma, serrando i denti, levò in atto di maledizione la larga e callosa mano verso la porta per la quale era entrato l'uomo potente, guardò il cielo; poi discese rapidamente le scale.
Colla testa in fuoco, col cuore tremante al pensiero del pericolo che forse in quel punto correva il suo bell'angiolo, Rocco, ringraziando il cielo dell'inspirazione che gli aveva mandato, mulinava fra sè che cosa potesse fare. Non poteva vedere nessuna onesta ragione perchè il vecchio signore dovesse tornar così presto in quella casa; l'idea che vi fosse stato condotto dal signor Omobono, da tal uomo ch'egli stesso non poteva mai incontrare senza provare un ribollìo nel sangue, quest'idea fissa, prepotente lo atterriva; imaginava d'altronde che Damiano, per certo, era allo scuro di quel che avveniva; onde gli si parava dinanzi sempre più grande la necessità di trovar subito le fila di quella trama, o di troncare almeno per il momento, con un pretesto qualunque, quell'intrigo misterioso.
Capitolo Ventesimosecondo
Correre in traccia di Damiano, no: chi sa dove e quando gli sarebbe riuscito di ritrovarlo; quel bravo signor Lorenzo sarebbe stato l'uomo a proposito, ma egli lo conosceva appena, n'aveva soggezione, anzi paura, nè avrebbe saputo come dirgli la cosa. In questo turbamento di pensieri, che tutti gli si affacciarono in un punto nello scendere le scale, Rocco tornò in istrada, e vista la carrozza signorile ferma ad aspettare, e il grasso cocchiere, che sceso di cassetta, dondolavasi sulla persona a mezzo del marciapiede, mosse difilato a lui, con titubanza e facendo lo gnorri.
—Signor cocchiere? gli disse, cavandosi la berretta d'incerato, e sforzandosi di sorridere.
—Che cosa c'è? rispose, sguardandolo in cagnesco, il gallonato
Automedonte.
—Nulla…. ecco…. perchè, vede qui—e si trasse di saccoccia una carta in forma di lettera, ch'egli stesso in fretta aveva ripiegata.
—Che cosa? dite su.
—Lei forse è della casa di quel signore che ho incontrato poco fa là dentro (e indicava il portone) e che mi regalò qualche cosa, perchè portassi subito questo biglietto al suo palazzo….
—Il mio padrone?… sarà lui: rispose l'altro che cascò di subito nella trappola che la bugia di Rocco gli aveva teso: E bene? Andate dunque.
—Gli è, replicò Rocco impacciato, che non so dove sia il palazzo….
—Come? non sai dove sia il palazzo ***, dell'illustrissimo mio padrone? Bestia che sei! gira di là—e gli appoggiò uno scapezzone che lo fece barcollare—che non puoi andare in fallo; poi torna, e vuoteremo un bicchier per uno alla salute del padrone.
Al Rocco bastò il nome della casa; e senz'altro dire la diede a gambe. Intanto egli sapeva chi fosse quel signore; e, camminando, studiava inventar qualche cosa che servisse a frastornare in qualunque modo i disegni ch'egli pensava (e lo avrebbe giurato) conducessero quell'uomo. Ma non aveva fatto cento passi, quando s'imbattè faccia a faccia nel signor Lorenzo, che a capo chino, a passo lento, e parlando fra sè e sè, pareva venirne appunto verso la dimora della vedova. Rocco si fermò; e sebbene, conoscendolo poco, non avesse mai osato aprir bocca col vecchio soldato, pure gli balenò in mente il pensiero di dirgli tutto e di fidarsi a lui. Il veterano non s'era accorto del garzone; dimodochè, quando Rocco, esitando come chi fa del male, e pronunziando a mezza voce:—Signor Lorenzo! ardì toccargli il braccio perchè si volgesse, egli si riscosse, e senza nemmeno guardare indietro, chiese:—Chi è là?
Il buon figliuolo raccolse il suo coraggio, e accompagnandosegli disse che veniva a nome della signora Teresa, di quella signora che aveva l'onore della sua conoscenza; e ch'essa lo pregava di passare da lei in giornata, per una cosa di premura.
—Eh! ci verrò, rispose il signor Lorenzo al giovine, dopo avergli data in isbieco un'occhiata d'uom che poco si fidi: ci verrò dimani.
—È impossibile; replicò il Rocco: l'aspetta quest'oggi, subito….
—Via, ho altro a fare; oggi non posso….
—Ma, poichè la è in queste parti….
—Che? che sapete voi? Oggi, no; e basta: E poi quella donna è una matta, e n'avrà una delle sue.
—No! signor Lorenzo; mi dia ascolto; bisogna proprio che lei venga con me, subito, senza perdere un momento: è il cielo che l'ha mandato.
Il povero Rocco disse queste poche parole con un accento così vero e doloroso, che il vecchio amico di Vittore si sentì come scosso ne' pensieri, s'accese d'un sospetto; e stringendo con forza il braccio del giovine:—Dite, dite su, presto—balbettò fra l'ira e il terrore—forse qualche disgrazia…. forse la buona Stella, la figliuola del mio Vittore…. non mi fate mistero! andiamo.
—Io non so, ma è per lei…. per quel caro angiolo che io tremo…. rispose Rocco, pieno di gioja segreta perchè il vecchio l'avesse compreso, prima ch'egli cominciasse a parlare. E, subito:—Per carità! le dirò….
—Ditemi tutto, e presto; ma andiamo intanto, andiamo innanzi.
Non era passato più di un quarto d'ora che il vecchio soldato di Napoleone, il secondo padre della Stella, a cui l'accorto garzone del droghiere confidò tutto quello che sospettava e temeva, entrava risoluto nelle umili stanze della vedova, senza pur domandare licenza di farsi innanzi, e senza cavarsi il cappello. Egli era alla presenza dell'Illustrissimo: la Teresa si levò da sedere tutta sgomentita; e la Stella, che stava in un angolo sul suo scannetto, si nascose colle mani la faccia.
Lorenzo stette un poco senza dir parola, non già perchè il superbo signore a cui veniva dinanzi gli mettesse soggezione o dubbio su quel che aveva a dire: ma per non so quale involontaria esitanza al vedergli all'occhiello del soprabito il nastrino di quella stessa corona d'onore ch'egli pure portava, come l'ultima reliquia di giorni che non dovevano tornar mai più. Ma fu un pensiero, un dubbio che passò; un altro pensiero gli disse che nulla v'era di comune tra quel grande e lui; che colui andava, per certo, debitore della croce che portava a' suoi scudi, alla sua nobiltà, ed egli invece l'aveva comprata sul campo della battaglia, col proprio sangue. Intanto l'Illustrissimo, quantunque maravigliato grandemente di quella brusca intervenzione, non aveva dato segno di malumore o di dispetto: ma volgendosi, tra ironico e compassionevole, alla signora Teresa, la quale guardando or l'uno or l'altro non sapeva più dove fosse, le domandò sbadato:
—Ehi! ditemi un po': chi è quest'uomo?
Arrossì a tale insolente interrogazione il veterano, e mordendosi le labbra, contento che colui gli desse appicco a parlare:—Quest'uomo?… ripetè: quest'uomo?… Certo che io non sono nè un marchese, nè un conte, nè altro titolato; ma qualcosa di meglio; sono, come dice, un uomo.
Non replicò direttamente l'Illustrissimo a codesta non meno insolente risposta; ma, volto sempre verso la vedova:—Voi conoscete, disse, degli originali, buona donna. È forse vostro fratello, cognato, parente?…
—Oh! signor mio, veda… cominciò la Teresa impacciata più che mai: è un amico nostro, un brav'uomo, un amico vecchio del mio povero marito. E se lei sapesse….
—E che importa di sapere a questo signore? la interruppe brusco il signor Lorenzo; sono amico di casa, e basta; l'amico mio, il padre di questa giovine ed io eravamo più che fratelli; Stella mi conosce, sono stato il primo ch'ella ha conosciuto…. E mi par bene d'aver diritto di venirci in casa vostra: non è vero, signora Teresa?
—Ma chi ve lo nega? riprese l'Illustrissimo, con qualche impazienza, volgendosi allora al signor Lorenzo.
—Vorrei vedere che qualcuno me lo negasse, che qualcuno credesse di mettere il piede qui dentro, a suo talento, e venire così alla buona, sotto maschera d'amicizia o di protezione, in queste mura, a distruggere il bene che vi abita, il bene che consola due creature, che, potrei dire, mi appartengono!
L'Illustrissimo, non uso a simile tuono di superiorità e di rimprovero, quantunque il veterano avesse parlato in guisa di supposto, doveva sentirsene ferito; e lo si poteva argomentare dalle torve occhiate che gli volgeva, e dall'inquieto agitarsi sulla rozza seggiola che al suo peso scricchiolava.
Alla fine, rotto il freno alla pazienza, l'offeso signore gridò:—E che vi pensate di venire a nojarmi colle vostre pretensioni? Siete ridicolo, per non dir altro: se avete qualcosa a fare in questa casa, fareste bene a trovar fuori altro momento.
—Ho qualcosa a fare, appunto come lei dice: e il momento è questo!—replicò con voce sonora e franca Lorenzo.
—Oh! vedete un poco che costui vuol mettermi soggezione!—E accompagnò tali parole con un riso di disprezzo.
—Io non voglio nè so metter soggezione a nessuno, ripigliò il veterano: ma sento in me una cosa che nessuno mi può togliere o guastare, e che si chiama onore: e so come si faccia star giù chi vuol soverchiare.
—Come parlate?…
—Parlo, come un uomo a cui batte qui dentro un cuore onesto; come un soldato che ha visto il mondo, e sa cosa vaglia, e ne fa conto quanto del fiocco de' suoi stivali. Un tale che faceva ballar sulle dita i re, ha toccato un giorno questa mano…. Ed io avrò paura di chi, per portare un nome scritto in carta pecora e contar gli scudi a migliaja, si crede lecito tutto?
—Ma costui dà volta al cervello!…
—Può essere! Ma intanto, non dimenticate ciò che questo vecchio matto vi dice.
—Per carità! uscì fuori con lamentevol voce la Teresa, la quale non capiva più nulla.
—Oh signor Lorenzo! timida aggiunse la Stella, che tutto comprese, e avrebbe voluto gettarsi nelle braccia del suo salvatore.
—Io non so, riprese pacato e severo il veterano, io non so quando veggo il male che si fa da quelli che il mondo chiama grandi, se possa dirsi che ci sia una Provvidenza. Ma so che la maggior parte è ancora dappertutto calpestata dai pochi; che ancora l'esser poveri è come un delitto; e i signori credono sempre d'aver ragione quando pagan l'infamia con un po' d'oro. Ma voi non vedete, e parlo a voi, perchè siete uno di quelli ch'io dico, non vedete tutto il male che vi divertite a fare; voi entrate nelle famiglie nostre e vi recate l'infamia come un beneficio; voi cercate la dimenticanza della noja signorile, la dimenticanza d'un giorno, d'un'ora…. E non pensate al dolore, alle lagrime che vi lasciate dietro, alle maledizioni che chiaman sopra di voi la vendetta di Dio!… Ma non sarà sempre così; se ne son veduti de' momenti in cui i potenti scontarono anch'essi la miseria da loro seminata nel mondo; e i dì che corrono non correranno sempre gli stessi, e la giustizia sarà più lunga!
—Quest'uomo non sa cosa si dica!—l'interruppe l'Illustrissimo, cercando nascondere il turbamento che suo malgrado gli s'era messo nel cuore.
—Eh via! tenete a mente, o signore, due altre parole di quest'uomo. Non so come mai abbiate saputo insinuarvi nella confidenza di queste buone creature; ma ne indovino il motivo. Il benefizio onesto e sincero teme, si nasconde; la vostra carità superba ostenta protezione e copre male la vergogna che marcisce di sotto. Voi volete rapire a questa povera casa la pace e la virtù che vi si nascondono: ma io ho gli occhi aperti…. e se fosse vero!…
—Basta così, costui è matto frenetico! disse l'Illustrissimo, alzandosi: non so come io abbia potuto sopportar finora le sue insensate ciancie; se volessi, potrei farlo pentire di quello che ha osato pensare, e dire….
Il veterano sogghignava alla sua volta; e, incrociate le braccia sul petto, andava picchiando colla punta del piede il terreno.
—Ringrazio il cielo, susurrava intanto, che ho potuto venire a tempo….
—Ringraziatelo d'avervi tolto il cervello: se non credessi che fosse così, la vedreste voi!…
E mosse per uscire. Le due donne, tuttora pallide e sbigottite, non sapevano farsi ragione dell'avvenuto. Ma l'Illustrissimo, giunto sulla porta, si rivolse e disse loro con aria benevola:—Mi rincresce ch'io non possa far nulla per voi: ma il mio carattere non lo permette, dacchè c'è chi sospetta le mie intenzioni; e poi, questo signore che tanto vi protegge, potrà fare anche la parte mia.—
E con tale schernevole saluto, se n'andò, ruminando tra sè la vergogna del fallito disegno e il modo più pronto di ricattarsi dell'offesa.
Partito lui, Lorenzo rimase immobile, al luogo istesso, incrociate ancora le braccia, china la testa, tutto in pensieri. Forse dubitava d'esser caduto in inganno, d'aver precipitato, d'aver tolto alla famiglia del suo amico un'onesta protezione. Ma più ci pensava, e più gli pareva impossibile che quel ricco signore non covasse qualche tristo intento, forse incerto, forse lontano, ma non men vero. Non poteva farne parola colle donne, vedendo il loro sgomento: esse non sapevano come rompere il silenzio, e pendevano da' rapidi sguardi, da' moti convulsivi dell'antico soldato.
In quella, entrò Damiano. Vide il signor Lorenzo nel mezzo della stanza, ritto e cruccioso, che non s'era accorto del venir suo; la madre che levando gli occhi pareva cominciare una preghiera; la Stella ansiosa correre a lui e abbracciarlo, nascondendogli in seno la faccia.
—Che c'è di nuovo, mamma? domandò Damiano.
Questa voce riscosse Lorenzo dalla sua preoccupazione: egli mosse verso il giovane che s'era trattenuto all'entrare, e pigliatolo per mano:—Ringrazia, gli disse, la Provvidenza che il tuo amico vecchio ci sia ancora, e possa far qualche cosa quaggiù. Sappi che son venuto forse in tempo per impedire un gran male, una disgrazia che poteva metter l'infamia sulla fronte di tua sorella, e di vostra madre, e sulla tua, se il caso non m'avesse condotto sui passi di chi la macchinava!…
—Che cosa dite, signor Lorenzo? domandò il giovine con voce soffocata dall'ira.
—Io ti dico che un uomo potente, un di quelli che gettano un tozzo di pane per il delitto che fanno commettere, aveva posto gli occhi addosso a tua sorella, e ha avuto il cuore di venir qui, egli stesso, pochi momenti fa!…
—Dio! forse quello che saliva in carrozza al momento ch'io svoltava in casa?
—Lui! lui! ma io ciò che sentiva, gliel'ho detto in faccia; ho parlato per te, Damiano, e per me; e l'ho ben visto che tremava e voleva bravarmi…. Eh! sono un vecchio tarlato; ma il cuore è sempre quello, cuore di galantuomo.
—Ah! per amor del cielo, s'arrischiò a dir la Teresa: se quel signore se la prendesse con noi? se volesse vendicarsi in qualche maniera? Forse egli….
—Forse? che forse?
—Ma… credete dunque che venisse con cattive intenzioni?… Egli voleva vedere il quadro di Damiano; lo voleva comprare, sai? lo voleva comprare.
—Povera donna! borbottò Lorenzo: già voi sarete sempre la stessa.
—Il mio quadro?… domandò con furia Damiano: E come seppe colui?…
—Ma, veramente…. rispose impacciata la Teresa.
—Su, dite, dite, c'è qualche mistero?
—Qualcuno glien'avrà parlato…. una brava persona…. per altro.
—Chi? chi?…
—Andrete in collera, se ve lo dico….
—Non volete spiegarvi voi?… Animo, Stella, parla, parla tu.
—Oh! Damiano: risposegli la sorella: guarda la mamma; non farla piangere.
—È tutt'una: voglio sapere chi è.
—Bene: disse allora, facendosi coraggio, la vedova: è un tale che può ajutarci e ajutare anche voi…. sì, vedete, me lo disse tante volte. È quel signor Omobono….
—Ancora quell'uomo?
—Non mi fate quegli occhi; non mi guardate così.
—Tacete! capisco adesso questo mistero d'inferno…. Voi siete tanto buona che non arrivate a comprenderlo. Ma il cielo ci ha protetto un'altra volta; ringraziatelo, ringraziatelo, vi dico. E voi pure, nostro amico! seguitò volgendosi al signor Lorenzo: voi pure siate benedetto.
Dette queste parole, Damiano si fe' cupo, parve dimenticar dove fosse, quanto aveva udito e detto. Un sorriso forzato, amaro, stavagli sulle labbra; e dalla penosa espressione del volto, da' moti della persona indovinavasi l'urto degli affetti del suo cuore. Tutto ad un tratto, si spiccò dalle donne, corse nella prima stanza, afferrò il suo quadro del Tancredi, staccandolo impetuosamente dalla parete, afferrò un rugginoso pugnale antico, ch'era sulla tavola accanto al letto, e si diede a stagliar per lo lungo la tela con furia crescente. I lembi ne caddero sparsi a terra; ma egli, non pago ancora, calpestò con gioja selvaggia lo scassinato telajo e i pochi avanzi del dipinto che ancor v'erano attaccati.
Quand'ebbe finita questa frenetica distruzione, pose giù il pugnale, si cacciò indietro con una mano i capegli, e guardandosi attorno, con terrore, quasi per conoscere dove fosse, andava mormorando fra sè:—Ora non c'è pericolo che qualcuno lo veda: addio, o fantasma del povero giovine!… Comincierò da capo la vita!…
Teresa, Stella e Lorenzo stavano a vedere sulla porta; ma nessuno di loro potè indovinare ciò che sentisse in quel momento l'anima del giovine artista.
Capitolo Ventesimoterzo
Era un giorno nuvoloso, sul finir d'aprile, il giorno che in Milano si tirarono a sorte i coscritti di quell'anno. Una moltitudine brulicante, agitata dal timore, dalla speranza, da tutti insieme gli affetti che commovono gli animi semplici e forti, stava in quel dì raccolta nel secondo cortile del vecchio palazzo del Comune, che fu, al tempo dei duchi, stanza del Carmagnola, poi divenne il Broletto nuovo, e conserva tuttavia codesto nome.
La folla, per la maggior parte di giovani, cittadini e del contado, d'ogni mestiere, d'ogni ordine popolare, stipavasi intorno ad un assito a recinto, nel cui mezzo sorgeva un impalcato protetto da un padiglione di tele listate di bianco e rosso, antichi colori del Comune, gloriosi anch'essi un giorno, quando a' tempi della lega lombarda sventolarono dall'antenna del Carroccio. Su quel rialto, diverse ragguardevoli persone vestite dell'assisa ricamata, ed alcuni sacerdoti in vesta talare, assistenti alla funzione, sedevano in giro ad una larga tavola coperta d'un verde tappeto. Sulla tavola, fra' quaderni, registri e processi verbali, aperti sotto gli occhi di que' signori, sorgevano tre urne, da ciascuna delle quali si tiravano a sorte, alla vista di tutti, i polizzini de' numeri e de' nomi, che passati di mano in mano dall'una all'altra delle circostanti autorità, venivano subito scritti e contrapposti su que' libracci. Una fila di soldati, facendo ala e testa al recinto, procacciava di tener lontana la folla che riurtante accerchiava il padiglione, lentamente movendosi a onde. Uno degli impiegati, intanto che gli altri scrivevano, annunciava a voce alta un numero e un nome; e ogni volta seguiva un sordo indistinto fremito della moltitudine, un agitarsi visibile di tutta quella calca. Eran pochi i nomi e i numeri che non destassero un grido, grido di gioja o di disperazione; un represso susurrío, un accennar confuso, un aprirsi della folla al passar del giovine che, tratto dall'urna il suo numero, correva giù dal palco; poi parole di congratulazione o di conforto, cenni di mano e agitar di fazzoletti e di cappelli; e donne piangenti che si facevano largo per andare a gettar le braccia al collo d'un figlio, d'un promesso sposo, d'un fratello; padri, parenti, amici che volevano la loro parte di contentezza o d'affanno; parole miste di lagrime, abbracciamenti di gaudio o di terrore, soffocate imprecazioni e ardenti preghiere. Erano scene patetiche e sublimi, dolorose e vere, che ad ogni istante si rinnovavano, e a cui pochi ponevan mente, chè tutti n'erano parte. Quando alcuno de' chiamati non avesse risposto, il curato della parrocchia a cui il chiamato apparteneva era quello che, posta la mano nell'urna, ne traeva la sorte; ma all'annunzio del numero, la moltitudine stava muta, tranquilla: colui del quale si decideva il destino non era in mezzo di loro.
All'andare e venire della moltitudine facevano inutile inciampo i drappelli de' soldati, posti a guardia delle porte del palazzo e degli ufficii sotto il porticato. Di qua, di là, d'ogni parte, gruppi d'uomini e donne, famiglie intere, facevano ressa per avvicinarsi all'alto palco, per udire la sentenza che tutti aspettavano: intanto altri sopraggiungevano dal di fuori, incontrandosi con quelli che, contenti della fortuna, volevano uscire; i fanciulletti, smarrita la traccia della madre o della nonna, piangevano forte: dalle vie più vicine, che formicolavan di gente, udivasi un misto suono di canzoni popolane, strillate da' garzoni che in lunghe file venivano dai sobborghi e dai comuni del distretto, a schiere a schiere, dietro una bandiera formata d'un fazzoletto rosso; inghirlandato d'erbe e di fiori: essi cercavano di soffocar nel canto la dolorosa aspettazione di dover lasciare que' luoghi, ne' quali avevano creduto di poter vivere e di poter amare.
Era una giornata malinconica per tutti; eppure cantavano. Il cielo anch'esso, sotto un manto di nuvole cinericcie, non lasciando calar su quell'adunata nemmeno un raggio di sole, pareva non voler udire quelle spensierate cantilene. E ben presto cominciò a piovigginare.
Poco stante dal luogo, ove si faceva l'estrazione de' coscritti, era un gruppo di cinque persone, mezzo nascoste da una delle colonne del portico. Senza alcuna esterna dimostrazione, ma coll'anima occupata da inquietudine e da terrore, esse non vedevano più che l'istante in cui l'annunziar d'un numero più o men alto doveva decidere anche per loro una lunga e mortale aspettativa. Era Damiano colla madre, e Stella, e Celso: avevano avuto il coraggio di venirne insieme ad ascoltar la loro sorte; e con essi era venuto anche Rocco, il povero matto garzone. Tacevano, e si riguardavano a ogni nome che uscisse dell'urna.
Passò un'ora: in quell'ora a tante altre madri toccò di tremare o di ringraziare il Signore. Finalmente, il Commissario disse ad alta voce il nome di Damiano.
Nessuno si presentò, nessuno rispose. Ben s'era mosso il giovine; ma, gettando uno sguardo sulla sorella, s'accorse ch'essa, all'udir quel nome, impallidiva e appoggiavasi alla colonna del portico per non cadere; dimenticò tutto, e rimase immobile al luogo dov'era. Pensò a quel che dovesse patire la Stella, la quale fino allora avea mostrato d'essere la più sorridente e affidata; capì che la mamma in quella confusione, stornata forse da' molti che parlavano a lei vicino, non aveva udito il nome di lui, nè ebbe cuore di fare un passo di più. Rocco intanto guardavasi attorno a dritta e a manca, con certi occhi svagati, e colle mani nelle tasche; a ogni poco, sollevava la fronte, come riscotendosi da un pensiero rinascente, che lo faceva sorridere fra sè stesso; e col chinar del capo a quando a quando pareva replicare di sì alla voce del cuor suo.
Non presentandosi alcuno a rispondere per Damiano, uno de' parrochi astanti pose nell'urna la mano: il Commissario prese la polizza e disse ad alta voce il numero 57: poi la fece passar nelle mani di que' signori impiegati.
Gli occhi di Damiano s'incontrarono un'altra volta con quei di Stella. Fu appunto allora, che un bottegajo del vicinato, un omaccione calvo e panciuto, che a pochi passi da loro contemplava con curiosa calma quella scena, uscì fuori a dire:—Gli sta bene a costui! s'è fidato alla sagrestia, e l'ha servito per la pasqua… ah! ah! ah!—Intanto il fratello e la sorella, senza dirsi parola, s'erano uniti in un solo sentimento, quello di nascondere alla madre la decisione fatale: essa poi, non avendo udito chiamare il figliuolo, s'illudeva già che non glielo avrebbero tolto, e pensava potesse anche essere effetto delle raccomandazioni che, nascostamente da lui, s'avea procurate in que' giorni. Celso invece comprese la cosa qual'era: ma Damiano vedendo gli occhi di lui pieni di lagrime, gli si chinò all'orecchio e stringendogli di nascosto la mano:—Non parlare, Celso: gli susurrò: non parlare, per amor della mamma! Chi sa? Dio può ancora ajutarmi!
Poco appresso, dilungatosi d'alcuni passi:—Andiamo a casa, mamma: soggiunse con far tranquillo: per oggi non sarò più domandato; me lo disse or ora, passando, uno di questi signori impiegati. Andiamo!
—Sì, sì, il mio figliuolo; andiam pure, ch'io non so più in che mondo mi sia. E poi, che importa lo star qui più o meno? Tutto è in mano del Signore, Egli darà ascolto alle mie orazioni.
Tornarono a casa, nè lungo la via si fece altra parola. Ma saliti alle loro stanze, andò la Stella a nascondersi in un angolo e cominciò a piangere dirottamente; e la madre, nell'udire quel pianto, a domandarne la cagione: cosicchè Damiano s'ingegnò a farle credere che la sorella avesse mal di capo, e si crucciasse di non poter lavorare in que' giorni che il bisogno si faceva maggiore. Ma non volendo la madre sentirla a pianger così, col dire che avevano troppi guai senza pensare a quelli che potesser venire, la fanciulla riuscì a soffocar lo schianto del cuore; e si mise, come al solito, al suo telajo.
In verità, come si può imaginare, la condizion della povera famiglia era in quegli ultimi mesi non poco scaduta; scemato della metà il lavoro; per la malattia di Teresa, perdute molte pratiche già bene avviate, cresciuta all'incontro la spesa, e consunti i pochi avanzi fatti da principio. Tutto quel che Damiamo ritraeva dal travaglio dell'intera settimana, bastava a stento a lasciarli vivere giorno per giorno. E il tempo della sventura sopravenne. Così al paro di tanti e tanti altri, de' quali è ignota ed oscura la povertà, perchè lo sforzo della fatica, la vergogna e un resto d'orgoglio la fan nascondere, vedevano anch'essi venir la miseria, la vedevano venire lenta, ma implacabile, dopo che invano credettero di poter sostenere il peso della vita col coraggio e colla fede.
Il solo che facesse, quantunque angustiato al par di loro dalla mala fortuna, tutto quel che poteva per ajutarli, era l'antico soldato di Napoleone. Ma poteva ben poco. Pure, già da un anno e mezzo, era lui che pagava la pigione de' suoi buoni e poveri amici: e, dicendo di voler tutto per sè tal diritto, per quel po' di tempo che aveva a campare, s'indispettiva al sentir parole di riconoscenza. Con tutto ciò, la memoria del passato faceva a lui e a Damiano veder più scuro l'avvenire; e l'ultima disgrazia che si aggruppava coll'altre, poteva essere come il principio della disperazione.
La Teresa, debole all'usato e confidente, s'ostinava nel credere che quel signore il quale alcun tempo prima era venuto ad offrir loro protezione, avrebbe certamente saputo adempir la promessa: in questa fede la tenne ferma una recente visita del signor Omobono, tornato apposta per discolparsi, colle migliori apparenze, di que' sospetti che l'ostinata avversione di Damiano aveva desto contro di lui nel cuor della vedova. E siccome l'animo umano troppo spesso vuole, direi, ostinarsi nella contraddizione e trovar nebbie nell'evidenza stessa, quando l'evidenza non sia opera sua; non parrà strano che la Teresa, rimproverata dal figliuolo come cieca e imprudente, volesse in cuor suo star dura in sul non essersi ingannata: dico, in cuor suo, perchè la buona donna non avrebbe forse osato di spiegarsi chiaro con Damiano, dopo ch'egli, un dì, in un momento di mal umore, le aveva detto di voler piuttosto morir di fame e veder morire lei e sua sorella, che ricevere l'elemosina di quel signore. Queste parole la Teresa non aveva saputo spiegarsele; nè s'era accorta come Damiano tenesse dentro le sue terribili ragioni, per non vedere avvilita lei stessa, e non turbare l'anima incontaminata della sorella, con certe rivelazioni che quasi sempre si lascian dietro lagrime e veleno.
Così l'occhio del potente vizioso fermandosi appena sull'umile casa ne aveva sbandito, forse per sempre, la libera pace, unica consolatrice delle comuni sventure.
Lo stesso giorno che seguì la decisione della sorte di Damiano, stavano insieme a desinare. E come quel dì, Celso, colla permissione del padre Apollinare, poteva passarlo tutto in compagnia della famiglia, la mamma si era studiata di fargli un po' di festa. Sulla piccola mensa, oltre la solitaria marmitta, compariva un piattello di carne lessa, e una torta di latte che aveva ammannita la Stella la mattina stessa, pensando la buona fortuna che, sperava, dovesse toccare a Damiano. Ma il cielo non l'aveva voluto! Imaginate dunque con che diversi affetti sedessero allora a quel deschetto. Scambiavano i figliuoli malinconiche occhiate; e per nascondere, almeno in quell'ora, alla mamma ciò ch'essa, per il pietoso inganno di Damiano, ancora ignorava, sforzavansi a vicenda di trangugiar qualche boccone e di dire qualche allegra parola.
La Teresa così, non avendo da un pezzo avuta la consolazione di vedersi riuniti d'intorno i suoi tre figli, e tenendosi quasi certa che Damiano potesse uscir salvo della coscrizione, lasciavasi andare ad un insolito buon umore; parlava ella sola per gli altri insieme, voleva che i figliuoli facessero buon viso al suo pranzetto. Ma aveva bel dire; la sua gioja li accuorava di più, e la loro parola cadeva languida, e fredda; come le rade stille d'un tralcio reciso che piange.
Capitolo Ventesimoquarto.
—Perchè mi guardate così, Damiano? cominciò la Teresa, un momento che il figlio, contemplandola fiso, pensava che fra poco non doveva veder più il caro volto materno, che ott'anni eran lunghi, che forse al suo ritorno non l'avrebbe più trovata su questa terra.
—Per nulla: rispose il giovine. Son contento che ti ritrovo molto meglio, mamma, della settimana passata.
—Ma pure hai qualche cosa, pensi a qualche mistero….
—Dio mio! che cosa posso pensare?
—Via, entrò Stella: sai bene, mamma, che Damiano n'ha anche troppo delle ragioni per crucciarsi. E dire che poteva esser l'onore e l'ajuto nostro, se appena avessero conosciuto il suo talento; ed ecco che per noi….
—Non toccar questa corda: l'interruppe Damiano: te ne prego di cuore. C'è degli uomini, ed è il maggior numero, io credo, tirati dalle circostanze per una via opposta a quella che vedono coll'anima: io son uno. Se non ci fosse mancato da vivere, o se dentro di me avessi trovato il coraggio di metter la testa in terra dinanzi a taluni, o di darmi a credere di più di quel poco ch'io sono, sarei riuscito. Invece ho fatto bene a dir addio all'idea matta che m'ha rotto il sonno per tanto tempo: sì, sì, ho fatto il mio dovere. Studiando anni e anni, avrei forse finito a valere niente di più d'un imbianchino: che bene vi avrei portato allora? la miseria.
—Metti da parte questi pensieri, Damiano: dicevagli Celso. Tu hai tanto maggior merito d'aver saputo rinunziare ad un avvenire che poteva essere così bello. Ma se le cose andassero per il giusto….
—Che vuoi? non fui la sola, ne sarò l'ultima vittima della sfortuna e dell'intrigo. Pure sì, lo confesso anch'io, sperava che la dovesse andar meglio! E le parole di quel pittore che non ho più veduto dopo quel dì, mi stanno qui nel cuore. So come vanno le cose. Due dì prima che fosse chiuso il concorso, fu portato un quadro migliore del mio. Molti avevan capito, e se l'eran detto all'orecchio, che c'era la mano di un maestro conosciuto, che il premiarlo sarebbe stata una brutta ingiustizia. Eppure il dì appresso, quel quadro portava una corona d'alloro e un nome; e molti han detto che quello non era il nome di chi l'aveva fatto. Forse non è vero…. forse era il suo!
—Ma senza queste cattiverie, prese a dire le Stella, oggi non ci toccherebbe….
—Che cosa? anche tu dunque?… l'interruppe la madre.
—Nulla, mamma, nulla: rispondeva Damiano: sapete che la Stella mi vuol troppo bene….
—Ma se invece, ripigliò la madre, tu m'avessi dato ascolto, se m'avessi lasciato parlar di te a qualche persona di proposito, la sarebbe andata altrimenti. E anche adesso, dove non fosse venuto in mente a me di mettermi in mano di qualcheduno, saresti, come sei, salvo dalla coscrizione?
—Per carità, mamma; non parlare, non parlare; lo sai ch'io non posso sentirle a dire certe cose…. Così cercò disviare il discorso Damiano.
—Ho sbagliato forse a far quel poco ch'io poteva, io povera donna, per il tuo bene?
—Dio ti benedica, mamma! però sarebbe meglio non gettar via così de' passi che posson menare a male….
—Ecco, sempre gridori e malcontenti: già son io che fo tutto colla testa nel sacco, che credo a tutti, che metto in compromesso la famiglia…. E alla Teresa cominciava a tremar la voce.
—Ma chi ti dice questo? ripigliò Damiano impazientito.
—Quietati, mamma; lo sai pure il bene che ti vogliamo: aggiunse
Celso.
—Oh! ripetè quella: acquietarsi, tacere? se non me lo rinfaccia adesso, mi ricordo dell'altre volte. So che non gli andò mai per il verso quel negoziante che ci ha pur ajutati ne' brutti momenti, nè quell'altro signore che aveva promesso e poteva farci del bene. Ma già, lui non vuol dipendere da nessuno; e coi signori l'ha sempre avuta…. è quella benedetta superbiaccia che ha ereditata da suo padre; perchè anche col mio Vittore, con quel brav'uomo, qualche volta c'era da ammattire. Bisognerebbe però pensare a tirar innanzi altrimenti. In quanto a me, se mi cruccio, non è per me, ma per voi altri…. già non potrò durarla molto; e il Signore lo sa….
Qui la madre piangeva; Celso e Stella le si fecero intorno, cercarono di calmarla; Damiano, appoggiando i gomiti ala tavola, nascondevasi la faccia, pensava e lagrimava.
—Vedi, mamma, come fai: disse di lì a poco, tu li cerchi i crucci! È vero che, per me, avrò fallato a incocciarmi di poter solo bastare alla famiglia; ma io lo credeva, io lo voleva. Ora sento di aver troppo confidato in me; siam troppo poveri, i tempi son cattivi: ho lavorato, sudato, ma inutilmente; speriamo che Quello ch'è lassù non ci abbandoni. Pure, mamma, se tu sapessi tutta la verità; se tu pensassi che quando il ricco viene a parlare al povero, di rado il fa per bene…. Ma! guai al povero che si vende!
—È impossibile, ti dico, è impossibile; sono le tue solite malinconie; casa nostra ha un nome onorato, e vostro padre era cavaliere.
—Che importa? noi siamo nella miseria, e tutti i miserabili hanno lo stesso nome! gridò amaramente il giovine.
—Ma credi tu, tornava a insister la madre, mal soffrendo l'ostinarsi del figliuolo, contro ciò ch'essa faceva a fin di bene; credi tu che non mi prema il nostro onore?… e che se appena potessi dubitare, temere….
—Già tu sei impastata di buona fede, come sei stata sempre. E se quel dì che tu aprissi gli occhi, fosse troppo tardi?… E tutto quello che intanto si può dire di noi?… di mia sorella?… Pensa a quel ch'è successo, l'anno passato; pensaci.
—Oh! io per me ci ho pensato. Da quel dì che vostro padre m'è mancato, son sempre, come si dice, andata giù a oncia a oncia; ormai ci sarò per poco; e poi toccherà a voi a pensarci; allora farete quel che vi piace.
L'amarezza di queste parole fece ammutolire i figliuoli che, veggendo la madre prendere in mala parte quant'essi dicevano, stimarono meglio tacere che ritentar di persuaderla. Ma, per la verità, era da compatire la disgraziata donna se il lamentarsi diventava in lei più che un'abitudine, un diritto. In quel dì poi, illusa dalla fiducia di veder salvo Damiano, non avendo di che piangere, parevala quasi di trovare una compiacenza nel suo dolore passato, una gioja nel toccar le piaghe ancor vive del proprio cuore.
—Io poi lo so: ricominciava essa: nessun bene v'ho fatto, nè posso farvi a questo mondo; non ho più vista, nemmeno per agucchiar negli stracci, come ho fatto fin adesso; ho gli occhi stanchi, pieni di punture; forse li perderò del tutto…. ma prima che mi tocchi anche questa, il Signore, spero, mi chiamerà con lui.
—Non dir così, per amor di Dio, buona mamma: riprese Damiano. E che faremo noi senza di te? e che ti abbiam fatto perchè desideri tanto di abbandonarci?
—Non m'intendo che mi vogliate male; ma ormai non ho a far altro che starmi colla rocca in un cantone; sono un soprosso per voi!…
—Oh Signor Iddio! abbiate compassione di lei e di noi!… Damiano proruppe, con tale un accento che fece rabbrividir Celso, la sorella, e toccò anche l'inacerbito cuore della madre.—No, seguitava, non posso tacere; voleva nascondervi la verità, o dirla più tardi che potessi. Ma ora, voi me la strappate. Non voi, non voi partirete di qui, madre mia! Ma io, io, povero pazzo, sarò quello chè v'abbandonerà, e presto: è finita per me…. andrò dove mi manda la sorte…. partirò soldato.
—Santa Provvidenza! esclamò la madre. Non è vero, non può essere! io lo so di sicuro che sarai salvo; me l'hanno promesso. Sei tu, Damiano, che mi vuoi abbandonare; ma Dio, vedi, ti castigherà!
—Andate là, buona donna: riprese egli amaramente: vivete in buona fede; sono i signori che mi proteggono; sono io che v'abbandono, io che doveva lavorare, guadagnar la vita, fare il garzon di bottega, il fabbro, il falegname…. e che invece…. sono sempre stato un pan perduto.
—Per carità, Damiano, quietati: diceva la Stella: vedi in che stato è la povera mamma, come trema, come ti guarda!
—È il dolore che ti fa parlare: soggiungeva Celso dal canto suo, col cuore straziato. Tutto non è ancora perduto; e tu fai torto a te, al tuo buon senso….
—No, no, vi dico; la mamma ha ragione; e Dio castiga me e voi insieme perchè non ho fatto il mio dovere. Maledetta illusione!… maledetta superbia!… Se avessi avuto anch'io il coraggio che hanno tanti, che han tutti, non saremmo a questo termine!… Oh mamma, avete ragione; Dio mi castiga, l'ho meritato. Abbandonerò la mia casa, questi luoghi, questo cielo che pareva mi parlasse; andrò lontano, lontano, non tornerò più…. Celso farà lui quel ch'io doveva…. Ma, dopo un pezzo, quando penserete a Damiano, oh! gli perdonerete allora, ditemelo! e gli farete un po' di luogo nel vostro cuore; e qualche volta parlerete di lui colla Stella, e con Celso, non è vero mamma?… Lasciate ch'io la porti con me quest'idea che potrà darmi un po' di gioja, farmi dimenticare anni e anni di solitudine e di schiavitù!
Piangeva Stella; sua madre, senza piangere, senza parlare, si levò dalla seggiola, e aperse le braccia al figliuolo: Damiano vi si gettò con tutto l'abbandono dell'amore e del dolore.
Celso guardava commosso quell'abbracciamento; e l'atto con che poi rivolse gli occhi al cielo, fu come una preghiera. Oh! il Signore, in quel punto, avrà benedetta la povera famiglia.
Venuta la sera, Celso doveva tornarsene alla casa del suo superiore e maestro; Damiano ve lo accompagnò. Cammin facendo, i due fratelli si contraccambiavano confidenze e conforti; ma la mestizia di Damiano era cupa; egli ruppe più di una volta in parole d'ira e di maledizione. Prima di lasciare il fratello, a pochi passi della canonica di san ***, gli serrò con forza la mano, e:—Quando non sarò più con voi, gli disse, penserai tu alla mamma, alla Stella, al nostro buon nome…. Giura, fratello, giuralo per l'ora in cui morì nostro padre, guai a chi tocca il suo nome!
All'Ave Maria, tornò a casa; scrisse due lettere, una al signor Lorenzo, l'altra al suo vecchio amico il pittore: non aveva più cuore di rivederli.
V'ha de' momenti in cui l'anima, nella solitudine, nella notte, sente in un punto tutto il peso della vita, e patisce della stessa sua forza, il pensiero. Allora la vigorìa, la gioventù, il dolore vinto non contano più nulla; la ragione abbandonata a sè medesima, non sente più l'alito dell'affetto, ride delle lagrime, perchè essa non sa piangere; divora in un momento molti anni di vita, nè altro rimedio ai mali sa trovare che il disprezzo, veleno dell'egoismo; ovvero la più stolta delle consolazioni, il dubbio e la necessità del male.
Dire lo sgomento, i terrori, l'agonia che provò Damiano in quella notte, non è possibile, nè forse parrebbe cosa vera. Tutto il sentimento che fino a quel dì l'aveva fatto forte contro la trista vita, in un istante era svanito; tremava di sè, de' suoi pensieri; poi, con un soprassalto di paura volgevasi indietro, sentivasi perduto; e peggio ancora, si sentiva vile; e desiderava di morire.
Morire?… Questa parola gli mise il bujo nella mente; ma una volta che la terribile idea gli stette dinanzi, non potè più scacciarla da sè. Dopo lunghe ore di febbre morale, di martirio, al cospetto di quel futuro che non gli bastava l'animo d'incontrare, non pensò più nè al nome di suo padre, nè alla madre o alla sorella, infelicissime. Accosciato sulla sponda del letto, serrate al petto le braccia, pallido, immobile, si sprofondò in quel solo pensiero: poi, levatosi lentamente, guardossi attorno come chi commette un delitto, fece due o tre giri nella stanza, e con un sorriso forzato, quasi frenetico, mormorò:—Ho vissuto abbastanza per capire che cosa è la vita; nessuno saprà nulla di me, mai più!…
Aveva risoluto di fuggire, d'andare a morir dimenticato, lontano da casa, in un paese, dove combattendo per una patria non sua, potesse presto finire la vita; pensava di sottrarsi così alla sorte che lo aspettava, a un sagrificio per lui insopportabile.
La lucernetta che spandeva una luce moribonda sulla tavola sparsa di carte, di disegni e libri scompigliati, mandò un improvviso bagliore; la fiammella allungossi come una lingua di fuoco; e si spense. Dai piccoli vetri della finestra cominciava a penetrare il primo indistinto lume dell'alba.
Allora Damiano sospirò, un brivido mortale gli corse per l'ossa; soprastato alquanto, levò gli occhi al cielo; ma la testa gli ricadde sul petto: l'ultima voce della speranza non ebbe virtù di uscir del suo cuore.
Si levò risoluto per partire; ma, passando dinanzi la porta socchiusa dell'altra stanza, il pensiero di quelle due creature che sole lo amavano sulla terra, quei pensiero che tacque tutta notte, gli parlò allora, e sì forte che sentì di non potere staccarsi dalla vita senza dare un muto addio, senza contemplar per l'ultima volta coloro a cui volle ma non seppe rendere un solo giorno felice.
Entrò pianamente: la cortina dell'alcova era sollevata; il respirar greve della madre dormente gli veniva all'orecchio. Si fece innanzi; e il cuore battevagli più forte. Vide la Stella che inginocchiata a piedi del letto di sua madre, abbandonato il capo e le braccia sulle coltri, dormiva. Era in guarnellino succinto; mezzo disciolta la treccia, e giacente in quell'atteggiamento in cui vediamo talora scolpito un angelo che piange sovra una tomba. La buona fanciulla aveva continuato a lavorare silenziosa fino a tarda notte; poi, messasi in ginocchioni a pregare presso il letto materno, il sonno era venuto a trovarla in mezzo alla sua candida orazione.
Una soavità inesprimibile toccò l'animo di Damiano: quella vista fu come un avviso del cielo. Gli parve che un peso gli fosse tolto dai cuore; i cupi pensieri che aveangli dato tortura, che lo avevano condotto a disperato proposito, cominciarono a dileguarsi, come nebbia che vapora, al raggio dell'aureola che pareva circondar l'innocente addormentata. La Stella forse sognava in quel punto del fratel suo; e in sogno pregava ancora.
Damiano sospirò profondamente; quand'ecco, la giovinetta sorge d'improvviso sbigottita: poi riconoscere il fratello, gettarglisi al collo con tutta la forza del dolore, come se negli accesi sguardi e nella pallida faccia gli avesse già letto l'ascoso disegno, fu un momento. Non si dissero cosa alcuna, ma i loro occhi si parlarono e l'anime si compresero. Mentre Stella lo teneva abbracciato, Damiano si sentì tornar in cuore la pace; gli parve quasi si riaprisse il cielo per lui. Trovandosi fra le braccia di sua sorella, udendo la madre che, risvegliata in quel punto, chiamavalo a nome, più non seppe spiegare a sè stesso come, un momento prima, avesse potuto pensar di fuggire, di morire. Fatta la mattina, levate le donne e messo un po' d'ordine nella casa, Stella indossò il piccolo scialle e il suo velo; poi facendo per uscire, come soleva quando non la pressasse il lavoro, ad ascoltare una messa in Duomo, s'arrischiò di pregare il fratello che venisse con lei e colla mamma. Damiano, che da lungo tempo non era più entrato nella casa del Signore; udì quell'invito come una inspirazione:—Oh! tu non sai, disse, il bene che m'hai fatto!
Andò egli pure con loro, e là sotto gli archi del Tempio maestoso, dove fanciullo aveva trovate le prime speranze e le splendide immagini dell'arte, si prostrò dinanzi al tabernacolo, depose nella preghiera il segreto dell'anima, chiese colle semplici orazioni che gli aveva insegnate sua madre perdono e soccorso da Colui che, dopo avergli data la sua parte di dolore, gli dava allora quella consolazione.
Tornarono a casa; e Damiano sentivasi tutt'altro da quel di prima. Cominciò a figurarsi meno trista la propria sorte, tornarongli in mente i nomi di tanti che, prima del suo, erano usciti dall'urna de' coscritti; e trovò in sè stesso la forza di rassegnarsi al destino. Quel dì e i seguenti spese a metter in regola le poche faccende della famiglia; parlò col signor Lorenzo, a cui volle confidare l'ultimo frutto de' suoi guadagni di quell'anno; finalmente andò anche dal pittore Costanzo, a pregarlo d'informarsi qualche volta de' suoi, e di dargliene poi notizia, quando fosse lontano. Poi, stette ad aspettare che il giorno della visita del militare e quello della partenza, venissero; e bramava che la sua sorte fosse, quanto più presto, decisa.
Già da parecchie settimane, il giovine Rocco più non era tornato a visitare, come soleva, gli amici suoi. Damiano e le donne non sapevano che pensarne; quand'ecco, una mattina—era alla fin d'aprile—s'apre la porta, e tramutato di sembianza e di vestito, da non conoscerlo più, lo vedono comparire.
—Signora Teresa, signora Stella! diss'egli con voce timida e commossa: vengo a salutarvi, perchè… men vo lontano di qui, dove Dio vuole.
E stesa loro una mano, col rovescio dell'altra rasciugossi una lagrima. Era vestito d'una casacca nuova di tela grossolana; portava le uose nere e male assettate alle gambe, e sul berretto alla soldatesca, cucito in rosso il numero 8. Una gioja schietta gli sfolgorava dagli occhi di quando in quando; ma un misto di tenerezza e di non so qual vergogna lo faceva arrossire, gli troncava a mezzo le parole. A un tratto si fermò su' due piedi, come aspettasse che gli dicessero qualche cosa; e appoggiando il rovescio della mano al berretto, storpiò in modo burlesco il saluto del soldato.
Damiano era uscito; e le donne sulle prime non seppero spiegarsi quella metamorfosi del dabben giovinotto. Ma quand'egli, impacciato a parlare più ch'esse nol fossero a comprenderlo, balbettò che quel dì partiva collo schioppo e col zaino; e quando porse loro in un foglio con un gran sigillo non so che carte per Damiano, e fatta una giravolta sui talloni cercò d'imboccar la porta; allora la verità fu come un lampo per la Stella. La quale, correndo a lui col volto bagnato da lagrime di gioja e di riconoscenza, non potè stare dall'abbracciarlo come fratello, dicendogli:—Che il Signore ti compensi, o nostro amico, o nostro protettore! Egli accetti il tuo sagrifizio, Egli solo ti può benedire.
E ciò detto, lasciò con angelica espressione d'affetto cadere la testa sul cuore semplice e sublime di Rocco.
Arrossì il poveretto fin nel bianco degli occhi, si confuse, volle dir qualche cosa, e non lasciò capir altro che questo:—Quel ch'io fo, me lo insegna il mio buon angiolo!
E togliendosi bruscamente alle inchieste, alle premure, alle benedizioni della madre e della figliuola, per tema che Damiano tornasse troppo presto, aggiunse:—Pregate qualche volta anche per me, che non ho conosciuto nè padre, ne madre; a cui nessuno, fuori di voi, ha voluto bene!
E se ne andò difilato, senza aver coraggio di volgere indietro la testa.
Aveva lasciato alla vedova le carte che dichiaravano essere lui entrato al servizio militare in luogo di Damiano: e la mattina appresso, col cuor leggìero e contento, e colla persuasione di aver fatto la cosa più naturale del mondo, partiva cogli altri coscritti per lontane contrade, onde forse non doveva tornare mai più.
Fine del tomo primo.
Vol. 2.
1850
Capitolo Primo.
Che sarebbe mai la vita, se l'uomo non portasse con sè quella consolazione che da nessuna filosofia gli può esser data, ma ch'è più vera d'ogni filosofia, la speranza del bene? E dove andrebbe il figliuolo del povero a cercar la ragione della onestà e del coraggio, la sua allegrezza e la sua pace, la forza della fatica, l'affetto de' suoi, se non avesse la speranza, quella virtù bella come la fede, forte come l'amore?… Ah sì, tutti dal primo all'ultimo, dobbiam respirare e soffrire per qualche cosa di più grande, dì più vero, che non sia la giustizia di questo mondo.
La scuola severa delle nazioni, il cammino dell'incivilimento, quel progresso, di che tanto si scrive e si ragiona al nostro tempo, generano verità che, per esser feconde, debbono maturare nel popolo. Coloro che han cuore di rinnegar questo bisogno di libertà e di giustizia che ovunque si fa sentire, e coloro che non sanno levarsi col pensiero ad un'altezza, dalla quale l'individuo col suo egoismo e colle sue piccole passioni dispare nell'immensa luce del vero, e il mondo si presenta allo sguardo, qual fu da principio, l'opera di Dio, maledicono l'avvenire, s'attaccano ostinati al passato; e incapaci del sacrificio, adoperano a seminare odii, vendetta e corruzione, quasi per far necessaria e perpetua in terra la legge di Caino. Ma invece è scritto:—«Il ricco e il povero si scontrano l'un l'altro: il Signore è quello che li ha fatti tutti.»
Un anno vede passare uomini e cose; ma Dio non le perde di vista. Un anno passò, da che nella famiglia di Damiano eran succeduti i pochi e oscuri avvenimenti narrati fin qui; pochi e oscuri, ma pieni di contrasto, di dolore, e che potevano esser cagione d'altri affanni, d'altra miseria. E in quell'anno la disgrazia, che s'era dapprima ostinata nella sua persecuzione, pareva come averli dimenticati nella povera vita che menavano, sdegnosa forse di mettere a più dura prova le anime semplici e coraggiose che di buon'ora s'eran fatte dimestiche con essa. Anzi in quel tempo il cielo s'era fatto sereno anche sopra di loro; e come par più lucido e bello il cielo dopo la tempesta, così anche la vita, ben che di molto non fosse mutata per essi, passava almeno più tranquilla e più contenta; e poche liete vicende avevano posta ne' lor cuori quella confidenza del futuro che nessuno può promettere lunga e certa sulla terra, ma che pur sempre è grande ajuto a' buoni.
Non vo' già dire che alla nostra piccola famiglia fossero mancati in quell'anno giorni d'angustia e d'amarezza; e prima di riposare nella tranquillità in cui la ritroviamo al ripigliar del nostro racconto, aveva contate novelle disavventure, attraversate altre prove: il patimento e la disperazione erano entrati un'altra volta nella casuccia; e là s'era tribolato, s'era pianto e pregato ancora.
Damiano, allorquando seppe l'incomparibile sagrifizio che il buon Rocco aveva fatto per lui, non volle a nessun patto accettarlo; e senza por mente alle lagrime, agli scongiuri de' suoi, si profferse alle autorità per rompere l'obbligazione assunta in sua vece dal compagno; corse di qua, di là, ma non ne venne a capo, poichè tutto era in regola; e lo stesso signor Lorenzo, senza nulla dirne, aveva dato mano al buon garzone nel mandare innanzi quel suo generoso proposito. Altro rimedio dunque non vi sarebbe stato che d'arruolarsi egli pure in compagnia dell'amico, il quale per parte sua giurava di non voler lasciare il servizio militare, nel quale s'era fatto scrivere—diceva—proprio per genio e ardor guerriero. E poi il battaglione dei nuovi coscritti era partito; e non ci volle meno di tutta l'autorità ed eloquenza del vecchio commilitone del padre suo per distorre Damiano dall'ostinata volontà di dividere la sorte dell'uomo che aveva offerto la propria per la libertà di lui. Inoltre, l'antico soldato nutriva in segreto altri disegni sul figliuolo di Vittore; e per qual sia cosa non avrebbe sostenuto di lasciarlo partire; senza dir poi che, al suo modo di vedere, avrebbe creduto di far troppo oltraggio alla memoria del velite amico suo.
Ma l'interno scontento e l'urto di tanti e contrarj affetti, oltre ai travagli durati in quel tempo, avevano rotto le forze di Damiano; e una violenta febbre che lo sorprese fu quella, più di tutto il resto, che vinse l'ostinata sua ripulsa e gli fece consentire che Rocco avesse a dare otto anni della sua vita per lui. In questa non breve malattia, Stella, buona e amorosa consolatrice, non si distaccò mai dal suo capezzale; e Damiano, ch'era sempre taciturno e tetro, lasciava sfuggir qualche volta un leggiero sorriso d'amore appena la sorella venisse a sedergli a lato, e cercasse coll'ingenua dolcezza delle sue parole spargere qualche balsamo sull'anima sua malinconica e ferita. Ella sola poteva comprendere ciò che Damiano patisse; ella sola poteva avere la forza di soffocar l'angoscia e distrarre dall'inquieta mente del malato i fantasmi che l'assediavano tuttora, e che, al rincrudir della febbre, parevano pigliar rapido moto e sembianze più strane.
Già da prima Damiano avea giurato di dire addio per sempre all'arte, l'unica e la più cara cosa che fino a quel dì avesse avuto sulla terra: poichè fallire il primo passo, vedersi innanzi ogni dì più grandi dubbiezze da superare; i pericoli da vincere; la mancanza di una guida severa e forte, che lo reggesse sul principio del difficil sentiero; e più ancora la tirannia del bisogno che gl'imponeva di lavorar senza posa, per sostenere la sua e due altre vite a lui più care della sua; tutto l'aveva persuaso di rinunziare al primo suo sogno di gloria, e di mettersi senza dimora per qualche sicura e facile via che gli desse modo di trovare un pane quotidiano. La voce del dovere aveva parlato più forte; la ragione rinvigorita gli dimostrava che l'artigiano, se pure attivo e onesto, può esser utile, può esser grande nella mediocre sua sfera, meglio che il tronfio artista il quale prostituisce l'ingegno alle fastose passioncelle o alle lascivie della moda; meglio che il ricco, il quale si stima filantropo e tutore delle arti perchè getta alla cieca il suo oro a que' che si vendono, corpo e anima, a' suoi pranzi, alle ville, alle feste, vili peggio di que' giullari e di que' nani e buffoni che facevan codazzo a' tirannelli del medio evo, per diradar con motti e piacenterie le nebbie della lor noia. Damiano dunque si rassegnò, poichè gli veniva manco e tempo e studio e libertà, a cercarsi un'arte più umile, per la quale bastasse aver onestà, buone braccia e volontà costante.
Ma, caduto malato, gli convenne aspettare a mettere ad effetto il suo proponimento; e intanto la perdita del povero pittore Costanzo, di quel suo amico e maestro, che andava di lui così superbo, questa perdita che Stella voleva, ma non seppe, tenergli nascosta, aveva cresciuta la sua tristezza sì fattamente, che non parlò più del passato, e si consolò quasi d'aver rinunziato a tentare di riuscir grande nell'arte.
Appena si riebbe dal male sofferto, Damiano volle pagar l'ultimo tributo del cuore all'uomo semplice e virtuoso ch'egli aveva amato come fratello, venerato come padre; e andò al cimitero di san Gregorio fuori della porta Orientale, dove avevano sepolto, dopo il più gretto mortorio, il vecchio pittore. Quest'uomo, rimasto solo al mondo, poi ch'eragli morta la moglie e morto il figliuolo, aveva veduto svanire ad una ad una le sue liete aspettative; eppur seppe conservarsi nell'anima modesta le giovenili illusioni, l'ilarità e la pace d'una vita cominciata e compiuta in una nuda e antica soffitta, dinanzi al suo emerito cavalletto, a' suoi vecchi e polverosi modelli di gesso, non lasciando nessun desiderio quaggiù, fuor quello di potere avanzar tanto da andarne a morire a Roma, nella città eterna, nella patria degli artisti, com'egli usava dire. Damiano versò una lagrima sulla recente fossa dell'amico, e gli dolse di non averlo potuto vedere negli ultimi momenti, dubitando fosse morto col pensiero di essere stato, come da tutti, anche da lui dimenticato.
Un mese di poi, il giovine aveva cominciato una novella vita, e si sentiva contento della fatta risoluzione. Egli s'era allogato nell'officina d'uno de' più stimati intagliatori in legno che fossero nella città. E come, appunto di quel tempo, vedevansi tornate in onore, nelle case de' signori, le antiche suppellettili scolpite a fogliami e rabeschi, porte, specchiere, cornici fornite di bizzarri emblemi, di fiori, di puttini, di sfingi e di tutti i capricci dall'arte partoriti nel secolo del Bernino, il nostro Damiano, il quale conosceva per genio naturale e per istudio il disegno d'ornamenti, e avea somma facilità nell'abbozzar figure e fregi con novità e buon gusto, fu accolto, festeggiato dal padrone dell'officina, e posto di subito alla testa degli altri artigiani, affinchè ne vigilasse e dirigesse i lavori. Egli allora, volendo proprio riuscire a bene in quest'arte, comechè fosse la men lontana dagli studii da lui fatti e amati tanto, imprese a ricercar più attento come potesse acquistar quella maestria che aveva pur bastato a dar nome e fama a non pochi. Anzi, persuaso quanto sia facile, in questo genere dell'arte, il cadere nel lezioso, nel trito, nel falso, pose studio soprattutto ai modelli de' famosi fregi che sono ancora la maraviglia di chi li vede dipinti nelle logge del Vaticano e a cui die' nome Raffaello; s'innamorò di quel sapor d'arte antica che il Cellini trasfuse nelle sue delicate e stupende invenzioni; e cercò, per quanto era da lui, che tutte le opere lavorate nell'officina del suo principale avessero non so qual rimembranza di quella gentilezza d'arte italiana, che mai non potè scompagnarsi dal vero bello. In questo modo ogni più piccola opera che si fosse, ogni arnese, quantunque comune, dalla più modesta cornice di legno fino all'ampia seggiola stagliata, allo scolpito padiglione e alla superba scansia adorna di statuette e di stemmi, non usciva dal negozio del signor Natale, senza chiamar sopra di sè l'attenzione de' committenti, che vi trovavano eccellenza di pensiero e di fattura.
Così ben presto, la ricca bottega del signor Natale l'ebbe vinta sulle altre rivali in quell'arte; le commissioni, in pochi mesi, eransi più che addoppiate; parecchi fabbricatori e negozianti di suppellettili forestiere (come bisogna fare, per accontentar lo svanito gusto di tanti ricchi che aggrinzano il naso, solo al sentirsi proferta merce del paese) facevano di nascosto lavorare in quella fabbrica ogni sorta d'arredi e d'ornati, che poi vendevano a gran costo, come preziose novità venute di Parigi e di Londra; la perfezione del lavoro cresceva il diritto d'elevarne il prezzo, e quindi rendeva agevole di compensar meglio i buoni artigiani. Tutto questo il signor Natale lo doveva allo zelo, all'attività del nuovo commesso: di modo che, dopo i primi mesi, per tenersi sempre più a' propri negozii, s'indusse ad aumentargli la mercede, da tre a quattro lire al giorno, lasciandogli anche sperare di più, se l'industria avesse a continuar per quel buon cammino.
Ormai Damiano vedevasi più contento della propria condizione. La povertà, che prima aveva tenuto lui e la famiglia nelle sue strette, più non gli fece spavento, dacchè vide che col volere e colla rassegnazione un uomo può bastare a sè stesso ed a' suoi quando che sia. Gli artigiani, de' quali era il capo, gli volevano bene, perchè si mostrava amorevole e buono con loro, e studiava di tenerli in onore; sua madre e sua sorella, che per lui avevano cominciato a contar giorni migliori, non ristavano dal benedirlo, e vivevan contente della sua contentezza, vedendolo ogni dì, quanto prima era malinconico e sdegnoso, altrettanto sereno e in pace.
La bottega del maestro intagliatore era situata in una delle più larghe e frequenti corsìe, grandiosa, ben ordinata, fornita di macchine e modelli d'ogni maniera, sì che poche di simili, o nessuna, tu n'avresti trovato in Milano. Vi si contavano da trenta e più operaj, distribuiti a' diversi lavori d'intaglio, secondo che volevano esser fatti da mani più o meno adatte ed esperte; ma posti tutti quanti sotto la vigilanza di Damiano, il quale avea l'incumbenza di capo-disegnatore. E quegli operai, giovani la maggior parte, gli obbedivano tutti di buon grado, comechè egli se li tenesse quali amici e compagni, non esigendo da loro che puntualità, attività e concordia.
Eran sei mesi che il giovine si trovava così allogato nella sua novella condizione; e poteva dirsi veramente che l'officina avesse mutato faccia del tutto; poichè l'artefice, al cui luogo era entrato Damiano, non sapeva, un po' pel rozzo costume e un po' per ignoranza dell'arte, tenere imbrigliata quella mano d'uomini d'ogni stampo, che si ridevano di lui e s'eran fatti pressochè tutti rissosi e beoni. Ma quando Damiano venne e li conobbe, volle che, prima d'ogni cosa, fosse data licenza ai cattivi; e rinnovata così la piccola schiera degli operai, tutto camminò in breve a dovere.
I lavoratori erano separati in tre vasti locali a terreno, ben rischiarati da alte e frequenti finestre; le tavole de' modellatori, degl'intagliatori e dei semplici falegnami si succedevano in lungo ordine; cosicchè ciascuno a parte accudiva al proprio lavorìo, e pur tutti in una stavano sotto l'occhio del padrone, a cui bastava di venire a quando a quando sul principale ingresso dell'officina, e di volgere uno sguardo all'ingiro, per accertarsi in un momento come la faccenda non potesse camminare in modo più ordinato e pronto. A capo dell'officina, sopra un rialto ricinto da un cancello di legno, era il piccolo studio di Damiano; il quale, stando colà a disegnare, a rivedere o correggere i disegni preparati da' modellatori, teneva sempre l'attenzione su tutto l'andamento della manifattura, e bastava colla sua presenza a metter freno a que' tumulti e guaj che qualche volta, sebben di rado, venivano a nascere.
Così, al paragone di quella ch'era stata prima, la fabbrica del signor Natale era diventata un modello d'ordine, e di puntualità, cotanto può sopra le inquiete e resistenti volontà di molti la mitezza e il buon senno d'un solo, allorchè con sincerità e benevolenza non calpesti ma consigli, non rampogni ma persuada coloro a cui tocca obbedire.
I giorni operosi e alternati dalle cure diverse del novello stato fuggivano lieti e uguali al buon Damiano. Ogni mattino, trovandosi al suo scrittojo, in mezzo alle sue cartelle di disegni, a' pochi libri dell'arte sua e alle svariate e fantastiche creazioni della matita e del pennello, circondato da brava gente, fra cui non era un solo che non sarebbe, come si dice, ito nel fuoco per lui, sentiva vieppiù cara quella contentezza che viene dal dovere adempito e dalla virtù confidente nella riuscita; e ringraziava la Provvidenza che gli avesse fatto in tempo rinunziare a più alte, ma più dolorose speranze. Quando poi, la sera, ritornato a casa, trovava la vecchia mamma intenta ad apparecchiar quel desinare che la fortuna rabbonita le concedeva di non rifiutarsi, quando udiva la sorella canticchiare in armonia col canarino che rispondevale dalla gabbia sul davanzale, o la vedeva inchina al telajo trapuntar frettolosa, per non perdere gli ultimi raggi del sole morente dietro le aeree guglie del Duomo; allora, superbo quasi di pensare che quella modesta pace era opera sua, egli provava una gioja non mai gustata, non pur creduta in addietro, e gli spuntava negli occhi qualche lagrima di tenerezza. Anche la Teresa, da parecchi mesi rinfrancata di salute, più non aveva indosso quell'umor tetro e increscioso che già l'intristiva: e se ora, per gli anni cresciuti e per la vista che andava scemando, non reggeva più ad agucchiar tutto il dì com'era usata, godeva almeno di star sempre in faccende, qua e là per la casa, e di pensare a cento cose: dappoichè quel ch'era guadagno de' figliuoli era pur suo bene; nè più si vedeva stretta a darsi passione, ad anfanare in tutto per non morir di fame.
Allorchè poi all'onesto giovine riusciva con qualche risparmio, o regaluccio del principale, di poter comperare un vestitino di percallo od un cappellino di paglia per la sua Stella, ovvero uno scialle di lana color marrone, od una scatola da tabacco per la mamma, era in casa una festa, un'allegria per tutta settimana. Quelle anime eccellenti avevano perduto quasi la memoria delle disgrazie passate; e senza spavento di que' giorni in cui avevano dovuto lottar contro la povertà e l'infamia, e che potevan tornare, confidavano nel Signore e lo ringraziavano di non averli dimenticati. Il segreto poi della Teresa era il pensare al tempo non lontano in cui Celso, detta la prima messa, avrebbe ottenuta qualche piccola parrocchia in campagna e un loghicciuolo; e là avrebbe con sè raccolta tutta la famiglia.
Capitolo Secondo
Ma in mezzo a giorni così utili, così buoni, così lieti, la nostra famigliuola era stata un poco conturbata da due avvenimenti, i quali parevan di poco conto, nulla avendo di straordinario, e che invece furono gli anelli a cui doveva riannodarsi la catena delle disgrazie che l'aspettavano ancora.
Un giorno, Damiano passava dalla fabbrica allo studio terreno del signor Natale, situato all'opposta parte del cortile, recando seco il libro giornale delle fatture, com'era la pratica, affinchè il principale lo rivedesse, innanzi di pagar le mercedi agli artigiani. Appena messa la mano sulla maniglia della porta, gli vennero all'orecchio due voci alterate e violente: una era quella del signor Natale; l'altra voce, aspra, imperiosa non parvegli nuova; ma non sapeva ricordarsi dove l'avesse udita la prima volta. Egli stava per ritrarsi, allorchè il principale, accortosi d'alcuno che veniva:—Signor Damiano, gli disse, siete voi? fatevi pure innanzi, ho a parlarvi.
Il giovine entrò; e alzando gli occhi sulla persona che stava rimpetto al suo principale con albagìa e disprezzo, si sentì rimescolar tutto il sangue, e un rossore improvviso corrergli al volto, e una nebbia coprirgli la vista. Si fermò, fece forza a sè medesimo per contenersi e tacere: aveva già compreso che quel signore stava dibattendo col padrone, per ritardargli forse d'un altr'anno il pagamento di costose commissioni d'arredi e forniture, per le quali da gran tempo era suo debitore. Ma quando lo sguardo di questo signore s'incontrò nello sguardo di Damiano, la parola gli fu tronca sul labbro; la lunga polizza che teneva in mano spiegata gli sfuggì dalle dita, e involontariamente abbassando gli occhi dinanzi al lampo d'ira che fiammeggiò in quelli di Damiano, divenne bianco come un panno lavato. Le parole altere che stava per dire al negoziante finirono smozzicate in un garbuglio di frasi che non volevano significar nulla.
—Che c'è di nuovo, signor mio? disse il negoziante, strabiliando, nè sapendo come spiegare quell'improvviso mutamento di tuono, quella sprezzante signoril pretensione caduta di botto al sorgiungere di un testimonio.
—Nulla, nulla, nulla: balbettò quel signore: non fo per dire…. stava pensando…. credeva…. anzi non dubitate…. pagherò subito…. venite voi stesso, ma voi, sapete, entro domani…. anche quest'oggi, se volete, a casa mia…. e vi saranno puntualmente sborsate le milleduecento lire….
—Quando parla così, ha ragione, signore! riprese il negoziante: mi scusi, veda, mi scusi un po', se ho dimenticati i riguardi; vede bene, noi contiamo sui crediti grossi; sono i nostri capitali. Ma le ripeto, mi perdoni; e se mai non le tornasse comodo così subito, aspetterò qualche giorno ancora.
—No, no, venite pure domani…. vi aspetto e vi saluto.—E come si trovasse in aria non respirabile, ansante, trasudato, si tirò indietro fino alla porta, che pareva quasi gli mancasser sotto le gambe. Damiano crollò il capo in atto di compassione; tutto lo sdegno, che alla prima gli avea gonfiato il cuore, svanì; e pensando all'anima vilissima di colui che fuggiva spaurato da una sola sua occhiata, volle risparmiargli maggior vergogna, e non rispose al suo principale che, non sapendo capir nulla, gli domandò se conoscesse quel signore.
Era colui il cavalier Lodovico, quel giovinastro che un anno prima aveva creduto di poter facilmente tirare a male la sorella di Damiano. Egli era divenuto marito scioperato ed elegante; nella sua casa, addobbata come impone la barocca arte rediviva del seicento, passava per un de' tipi dell'uomo di moda. Dopo il suo matrimonio e i viaggi e la cresciuta boria e l'eredità del titolo e del censo paterno, il cavalier Lodovico non aveva più riveduto il giovine che un giorno, in casa sua, non temè di gittargli una sfida e di chiamarlo assassino. Forse più non pensava a quella insipida avventura. Ma il trovarsi, allorchè meno s'attendeva, al cospetto d'un uomo ch'egli doveva odiare più di qualunque altro, comechè il suo cuor di coniglio gli togliesse di guardarlo in faccia due volte; il pensar che colui poteva, quando che fosse, rovesciarlo dal piedestallo su cui con tanta pena erasi arrampicato, bastò a fargli quella mattina lo strano effetto che vedemmo.
Al punto d'uscire, il cavaliere per mala sorte inciampò, e barcollando volse indietro uno sguardo, quasi per cercar chi l'ajutasse a tenersi in piè: il signor Natale, buon uomo, s'alzò e a lui corse, temendo non cadesse per male improvviso; se non che Damiano, il qual sapeva il vero male di lui, stese il braccio e trattenne il negoziante, lanciando in quella al signor cavaliere una fredda occhiata. E con un sogghigno di più fredda ironia: —Lasci pure, disse, signor Natale, non s'incomodi; il signor cavaliere ha messo un piede in fallo!
Egli se n'andò; ma nel suo petto bolliva l'odio, e come tutti i vili, da quel dì cominciò a pensare di tirar sicura e nascosta vendetta di quella umiliazione.
Damiano ebbe il cuore di non ispiegare qual fosse il segreto di siffatto incontro al principale, che, sospettando qualche cosa, ripeteva le inchieste; nè la sera, quando tornò a casa, ne fiatò co' suoi, quantunque la sola vista di quell'uomo avesse rinfrescata nel fondo del suo animo la vecchia ruggine e il primo dolore di un insulto non rincacciato in gola a chi lo fece. Egli, in faccia a quell'uomo sentì per un minuto la gioja d'averlo quasi fatto sprofondar nella vergogna con un'occhiata, con un sogghigno; ma, passata codesta fiera voluttà d'un istante, la memoria del passato prese a tormentarlo, e ne fu per più giorni travagliato.
Non era corsa più d'una settimana da quell'incontro di mal augurio, quando un dì, poco prima dell'imbrunire, partendosi dal negozio innanzi la solita ora, e sboccando nella piazza Fontana all'angolo della casa, ove continuava a dimorar la famiglia, gli parve vedere svoltar nel portone un'altra persona, colla quale da lungo tempo non s'era incontrato. Era colui ch'egli riguardava a ragione come l'autore di tutto il male ch'era toccato a' suoi, l'unica persona forse, per la quale egli si fosse sentito capace d'odio; in una parola, il signor Omobono.
Al solo vederlo, una folla di pensieri gli occupò la mente; il cuore gli battè più rapido: e raddoppiò il passo dietro a lui. Aveva subito indovinato che quell'uom tristo, cogliendo la congiuntura della sua assenza, non aveva temuto di ritornare in casa sua; pieno di sospetto che non fosse la prima volta, e che sua madre, debole troppo, potesse dar fede ancora alle di lui infamie, cieco dalla rabbia che lo faceva gelare e sudare a un tempo, gli corse incontro difilato, e lo raggiunse ch'era già a capo della seconda scala.
Allora gli si piantò dinanzi; e levando il capo arditamente, gli attraversò il cammino, e:—Cosa viene a far qui, lei? gli disse.
—Vengo pe' fatti miei: rispose colui duramente: vada per i suoi.
—Non mi conosce più, signore?
—Non so chi sia. Mi lasci andare, dico.
—Non sa chi sono?
—So che lei è un temerario.
—Io son quello che v'ha detto, a voi, di non metter piede mai più in questa casa, se vi premeva il vostro fiato. Vi ricordate?
—Voi siete un matto. Lasciatemi andare o chiamo gente.
—Non chiamerete nessuno; ma darete ascolto a quel che ho a dirvi.
E fattosegli più accosto, gli serrò il braccio con forza convulsiva; sicchè l'altro, temendo un eccesso, si rivolse pieno di spavento per veder se alcuno venisse.
Ma Damiano il tenne forte, e squadrandolo da capo a piè, e crollando il capo, con voce sorda ma pur minacciosa, seguitò:—Noi siamo poveri, ma non abbiam bisogno di voi, nè di chi vi manda. Noi abbiamo la nostra onestà, voi mangiate il pane dell'infamia, e siete peggior del ladro, peggiore fors'anche della spia….
—Guarda che cosa dici! gurgugliò l'altro.
—Il tuo mestiere, io so qual è, o demonio! Ma bada, e tien bene a mente: io ti tengo d'occhio; e lo giuro, per Dio che ci vede, non verrai a capo del tuo mal disegno! Se poi ritorni sulle mie scale, le potresti misurar tutte d'un salto, te lo prometto io….
—Lasciatemi stare!
—Va pure…. ma no, aspetta.—E qui gli diè un altro squasso; onde colui di pallido si fe' livido, e sentì cadersi il cuore nelle calcagna.— Dirai a chi li manda o ti paga, che saprò, se capita, farlo stare a segno anche lui, come adesso te: che se lui annega nell'oro e può comperar la giustizia, io mi farò giustizia da me…. Ora va, cane senza denti, birbone dannato!
Queste ultime parole, dette dal giovine con fiera e chiara voce, come gliele dettò la stizza bestiale che sentiva in quel punto, furono udite da due pacifici vicini che salivano le scale dietro a loro; e punsero sì forte quello sciagurato di Omobono, che non volendo far mostra d'ingollare que' complimenti per verità un po' troppo netti e ricisi, fece un ultimo sforzo; e divincolandosi dalla stretta di Damiano, s'arrischiò d'assestargli in risposta, più saldo che potè, un pugno nelle costole. Ma il giovine gli afferrò colla manca il braccio in aria, e d'un manrovescio gli stampò sulla faccia le cinque dita della destra, e aggiunse:—Questo ti suggelli in capo le cose che t'ho detto, e stieno fra me e te!—L'altro n'ebbe di soverchio, e urlando per doglia e per rabbia, fece gli scalini a tre, a quattro; sceso più presto che non fosse poco innanzi salito, nascose la faccia nello scontrar que' due ch'erano stati a caso testimonii della fine del dialogo.
Costoro, argomentando forse di che si trattasse, ruppero in una risata, al vedere colui che se n'andava così sbaldanzito, come il cane del pagliajo colla coda fra le gambe.
L'incontro del cavaliere Ludovico, e quello del signor Omobono, bastarono ad avvelenare per alcun tempo la pace in che viveva allora Damiano. Egli non lasciò, con quel serio ragionare che usava quando un doloroso pensiero lo rodeva, di ricordare a sua madre le antiche imprudenze e il nuovo pericolo che correva la Stella; le rammentò il nome dì suo padre, e finì dicendo:—Dio non abbandona il povero, quando esso non si vergogna della sua povertà!
Verso quel tempo, eran giunte novelle dall'ultimo confine dell'Ungheria alla nostra famiglia: una lettera sgorbiata di grossi uncini e arpioni, in un linguaggio somigliante più al turchesco e al valacco, che all'italiano, ch'era stata scritta da un dabben sergente transilvano a nome di Rocco; il quale per la prima volta, dopo lungo tempo, faceva saper ch'era vivo a' buoni amici suoi.
Diceva loro, in quella lettera, ch'egli era contento, che la memoria di Damiano e di Stella l'accompagnava sempre in que' paesi luterani, quando, dì e notte, sotto un cielo color di fango, faceva sentinella lungo una riva gelata, alla vista delle nevose lande della Russia. Que' rozzi caratteri commossero Damiano, e fecero piangere un poco anche Stella e sua madre: egli rispose subito al suo lontano amico; disse, come potè meglio, il suo affetto a quel cuore ch'era per lui più che d'amico, più che di fratello; e si arrischiò di mandargli insieme alla lettera una bella doppia di Genova bene incartocciata, ch'era il frutto de' suoi risparmi di quell'anno, dicendogli che l'accettasse per amor suo, poichè tra fratelli tutto ha da esser comune. Il pensare a quell'anima incomparabile mitigò in que' dì il mal talento di Damiano, e riconciliandolo con le oneste gioje della virtù, il ricondusse più alacre e più sereno al quotidiano lavoro della fabbrica.
Una domenica, poco innanzi sera, il signor Omobono, passata appena una settimana dal dì che s'era buscata quella brutta lezione che tuttora gli bruciava la faccia e il cuore, sedeva in compagnia d'un altro, che il lettore già un poco conosce e non ha forse dimenticato del tutto, in una di quelle tenebrose botteguccie di tabaccajo, situate vicino alle porte della città, ne' luoghi poco frequentati, dove gli amici della pipa e del tresette si danno ritrovo per dimenticare i dì, l'un dopo l'altro, in fondo ai bicchieri dell'acquavite.
Il signor Omobono parlava sommesso e gesticolava con certa furia; e il suo ascoltatore, faccia torva, bronzina, con due folte sopracciglia nere e due grigi mustacchi, seguiva col suo sguardo sinistro e con una specie di grugnir sordo le parole di lui, accompagnandole col mover del capo, mentre colle gomita appuntate sul deschetto, batteva a quando a quando l'un contro l'altro i pugni.
—Dunque m'avete ben capito, signor Martini…. diceva l'Omobono.
—Eh! che mi rompete il timpano con questo vostro signor Martini a ogni minuto?
—Via! non andate in bestia.
—C'è bisogno di fare il nome alla gente?
—Lo so che non c'è bisogno, e vi domando scusa; ma già, tant'e tanto, non c'è chi vi possa conoscere; foste una volta il Martini, poi fra Martino, ora siete il signor Martigny: chi vi può stanar di sotto a quel vostro bigio pelo, fuor che il diavolo, vostro compare?
Colui fece un ghigno strano di compiacenza, da disgradarne quel suo compare; e brandendo a mezzo con rapido gesto la grossa canna d'India armata d'un pome di piombo, se la rigirava di sopra il capo, facendo mulinello con certa sua braveria, che scompigliò un poco e fe' bestemmiar fra i denti gli astanti e la bottegaia dal suo banco.
—Badate dunque, ripigliò l'Omobono, di far sì che nessuno sia posto in compromesso. L'amico, lo conoscete, è un magricciuolo, uno scempio, che con un buffetto gli fate baciar la terra.
—Tutto va bene; ma, il sapete, che io non m'immischio in nulla, disse il compagno facendo tonda e grossa la voce, se non ci va dell'onore….
—È un affar d'onore, ve lo dico io…. un grosso affare….
—So press'a poco—e tornava a parlar sommesso—di che si tratta; e non la guardo per il sottile. Quanto all'amico, lo conosco un po' anche lui…. è uno sbarbatello, ma sa il fatto suo; e l'ho veduto io in certa occasione mostrar, come si dice, il viso a chi si sia….
—Sarà! ma tanto più merita una lezione; è un della canaglia….
—Canaglia? piano; un par mio non l'appicca colla canaglia…. E poi, vi dico io che colui non ha cuor di piccione, e morde chi l'addenta.
—Il mio committente, quel signore che sapete…. perchè, torno a dirvelo, io non c'entro per niente in questa storia…. se lo conosco appena colui! e se anche m'avesse fatto del male non tengo l'osso in gola io…. Ma, con uno, come quel tale di cui vi parlava, la faccenda cammina diversamente…. Egli non se la potrebbe pigliare al tu per tu con simil razza…. e non di manco tiene una vecchia partita da saldare…. a qualunque costo. Ma lui…. capite? quando paga, paga bene.
—Questo è il manco! disse il collega scrollando il capo, ma non senza darsi involontariamente una fregatina di mani. Del rimanente, a voi tocca a far nascere l'occasione; perchè io, in questa sorte di cose, non son uso a metter fuoco ai buschi; e per non espormi a' garbugli del poi, non fo mai il provocatore. Voglio che la faccenda cammini chiara, come l'acqua fresca.
—Ci penso io, vi ripeto, e non abbiate paura di nulla: figuratevi, se una persona come voi, un amico, vorrei tirarlo in ballo, senza esser ben certo che ne venga fuori con onore!… Anche a me, mi preme più che non crediate. Così noi siamo, come suol dirsi, sicuri come due principi; e in certi casi, lo sapete, non si ha mai torto; c'è chi serra un occhio.
—Sta bene. Dunque….
—Dunque, mi rivedrete al più tardi domenica ventura: il luogo vel farò sapere. Ma, silenzio, per carità, signor Mar….
—E siam tornati al sicutera, corpo del diavolo!—E qui battè sul deschetto tale un pugno, che turò la bocca al compagno.
—Sia per non detto; un'altra caraffa…. e amici come prima.
—Eh! che del vostro birrone me ne infischio…. è un acquerello che nemanco vale a rasciacquar le gengìe. Fate portar del buon cognac; quello sì m'acconcia lo stomaco.
—Bottega! cognac, del buono.
—Subito! belò la padrona dal banco; e uno sciancato mariuolo, uscendo da un camerotto interno, mise innanzi ai due galantuomini una boccia impagliata e due nani bicchieri arrovesciati sur un vassojo di peltro; stappò la boccia, volse i bicchieri, e li colmò del liquore.
—Alla salute di quell'amico!
—Come volete; e alla nostra!
Il signor Omobono, che aveva fatto l'invito, cominciò a bere a centellini; l'antico maestro di scherma tracannò il bicchiere d'un fiato, e cogliendo il punto che l'altro mise giù il suo, votò pacatamente anche quello, come fosse un cordiale. Poi tolse fuori dalla tasca del lungo pastrano turchino una pipa corta e la borsa del tabacco, empì il camminello, e accostato il brano di una bisunta dama di cuori al lumicino ch'era in un canto della buja bottega, accese la pipa. Assaporando le prime boccate di fumo, si calcò il cappello sugli occhi, e se n'andò in compagnia del suo degno amico.
Capitolo Terzo
In un'angusta e solitaria cameretta dell'antica canonica di san ***, passava intanto i suoi dì, nel silenzio e nel raccoglimento de' sacri studj, Celso il minor fratello di Damiano, sotto la rigida, mortifera disciplina del padre Apollinare, suo protettore e maestro. Già abbiam veduto come quest'uomo, in una certa sfera dell'alta società, fosse riverito e potente. L'ex-frate, poichè egli era tale, sebben da tutti per segno di rispetto fosse ancora chiamato Padre, era venuto da parecchi anni a Milano; ma nessuno sapeva lo scopo della lunga stanza ch'egli vi aveva tenuto. Non era mai stato per certo un luminare della sua congregazione; ma, con una cotale austerità di frasi, col gelido costume, e con una specie di ascetica indifferenza alle cose del mondo, egli copriva forse alti e misteriosi fini. Da gran tempo cercava un'umile e mansueta creatura, della quale potesse foggiar l'animo a suo talento, e sperava d'averla rinvenuta in Celso.
Il buon chierico, aveva passato non breve stagione nell'assidua ubbidienza ad ogni benchè menomo volere del padre Apollinare, ch'egli chiamava suo benefattore; non movendo passo fuor di casa, non distaccandosi mai dai polverosi in-folio che il superiore gli faceva digerire l'uno appresso l'altro; non osando neppur chiedere di visitare la sua famiglia: e non si faceva lecito tampoco d'andarne a leggere l'ufficio della Madonna nell'attigua chiesa, senza la permissione del Padre.
Amava lo studio, amava la pace del meditare; e avendo di buon'ora raccolte le forze della mente e del cuore nella contemplazione delle sacre dottrine, seppe fare di questo studio l'unica contentezza della sua vita, il suo fine. Alla mattina, dopo le funzioni della chiesa vicina, alla quale soleva accompagnare il Padre, per servirgli la messa e attenderlo poi nella sacrestia, se ne tornava a casa con lui; e intanto che il superiore, nel damascato seggiolone a fianco del camminetto, sorbiva lentamente il cioccolatte, egli, seduto dall'altro canto, gli faceva ad alta voce lettura dell'ultimo quaderno della Voce della Verità, ovvero delle Memorie di religione e di morale, che il Padre a quando a quando interrompeva con qualche pio commento, fra l'una e l'altra fetterella di pane abbrustolato. Poi Celso ritiravasi nel suo camerino, dove una vecchia fantesca gli recava una scarsa zuppetta di brodo annacquato, solita sua colezione: il povero abate pensava alla mamma, alla povertà di casa sua; e quel magro cibo gli tornava abbastanza saporoso. Si metteva a studiare, e studiava colla quieta delizia dell'anime timide e buone; finchè non tornasse al suo ritiro la vecchia arcigna, per chiamarlo nel salotto. Il Padre gli regalava allora, per mezz'ora buona, una filatessa di consigli e d'avvertimenti morali, sfoggiando di tanto in tanto la quintessenza della sua dottrina teologica, che allo studioso abate, benchè non osasse pur confidarlo all'aria e quasi ne sentisse rimorso, non era mai sembrata gran cosa. Per tal guisa l'ex frate soggiogava a poco a poco quell'anima sì tenera del dovere. I molteplici affari, de' quali il Padre era centro, lo obbligavano ad una estesa e vigile corrispondenza, alla quale ormai non poteva più bastare da solo. Far venire un compagno sarebbe stato il meglio; ma la cosa nè era facile, nè prudente; e poi il Padre non voleva socii, non voleva riscontri. Fu per questo ch'egli aveva deciso di allevare sotto agli occhi proprj e formarsi, per dir così, una creatura, che fosse come cosa sua, attaccata al suo volere, di null'altro curante, sottomessa, muta. E questa fortuna era toccata al buon abate Celso.
Finita la cotidiana spirituale conferenza, il Padre, a un'ora dopo mezzodì, permetteva al suo alunno di tenergli compagnia al desinare; e allora, se pur nol vincesse qualche grave preoccupazione, si piaceva di spogliar la sua scorza austera; allora parlava anche, ma sempre con cauto riserbo, di cose mondane e di cittadini pettegolezzi, a' quali soleva pigliar parte, berteggiando a suo modo, anche la vecchia Dorotea che li serviva. Celso di tempo in tempo metteva egli pure qualche timida parola; ma ogni volta, appena desse ragione al Padre, la serva padrona gli saltava quasi al viso; e dove all'incontro, ch'era di rado, si fosse posto dalla parte di questa, l'ex-frate lo mangiava cogli occhi, strozzandogli in gola gli scarsi bocconi.
Bevuto il caffè, fatto un po' di chilo e un sonnellino, il Padre usciva. E di solito non tornava più a casa fino ad una cert'ora, senza che si riuscisse a sapere nè dove, nè che mai avesse a fare. L'abate intanto saliva al suo stanzino, a' fedeli volumi latini, alle solitarie meditazioni. Verso il tramonto, lo si vedeva attraversare, colle braccia raccolte al petto e gli occhi a terra, l'erboso cortile della canonica; entrar nella chiesa per la porta della sagrestia; e colà, nell'ombra del coro presso l'altare deserto, leggere e pregare fino a quando, data la benedizione della sera, la chiesa rimanesse deserta dagli ultimi fedeli. L'anima di Celso in quelle ore poteva sollevarsi al cielo; pregava per i suoi; domandava al Signore la grazia di camminare per la diritta via, e gli offeriva l'olocausto della sua giovinezza e l'incenso della sua fede.
Anche in questa rigida e monotona vita, Celso sperava e amava; ma nel tempo stesso provava una stanchezza, una malinconia che non di rado mutavansi in dubitanza e terrore. Era l'alito di quell'uomo che aveva cominciato a penetrare il suo spirito; era quell'alito che lo anneghittiva, senza quasi ch'egli lo sapesse. La vera e santa parola della religione non inaridisce i cuori; ma li tempra soavemente al bene; non è parola d'ira e di vendetta, ma di perdono e d'amore.
Celso aveva sortita un'anima sensitiva in un corpo gracile e delicato; e però quella cieca e paurosa dottrina, che insensibilmente gli veniva stillata in cuore dall'ex-frate, gli avvelenava quasi ogni fidanza del bene, e lo prostrava in lunghe e dolorose incertezze. Pensando al passato, la sua mente tornava limpida e sicura; egli sentiva più forte il bisogno d'amare coloro che vivevano e pativano con lui; venerava la memoria di sua madre, non aveva altro desiderio che di vedere i suoi cari, di vivere con loro.
Ma poi, appena udisse la voce del superiore, chinava il capo, adempiva il più piccolo suo cenno; e quasi sempre si pentiva de' pensieri che aveva avuto. Se usciva di casa, camminava timido, rasente la muraglia, raccolto nella breve sua cappa, il viso affilato, pallido sì ma dolce, le labbra smorte e sottili, la testa inchina: avresti detto che volesse fuggir frammezzo alla gente; e sovente faceva sorridere il passeggiero. Ma più d'uno guardandolo, con un segreto senso di compassione, usciva a dire:—Quel povero abatino non vuole arrivar a tempo a dir messa!
Così, per mancanza d'alimento, la sua oscura vita pareva consumarsi nel silenzio, come la lampana dimenticata nell'angolo d'una chiesa deserta.
Il vecchio orologio a pendolo, che spiccava sulla tavola del camminetto, nel salottino dell'ex frate, aveva già battute le sei del dopo pranzo; e contro l'usato il Padre tardava a rientrare in casa. La Dorotea, nella cucina a terreno, seduta presso la finestra, e inforcati gli occhiali sul naso, stava sgusciando semi di popone in un piattello; pareva che intanto biascicasse giaculatorie, ma in vero brontolava per la tardanza del padrone. E l'abate Celso s'era fermato nel salottino, aspettandolo, come credeva dover suo.
Seduto in un angolo, egli teneva fra mano un libretto, col quale aveva fatto da poco tempo conoscenza, e per caso, avendolo ritrovato mentre frugava nella libreria del Padre. Quella lettura, da principio, l'aveva turbato e commosso non poco nelle sue umili convinzioni, mettendo dentro di lui per la prima volta alle prese la ragione e il sentimento: e gli s'era accesa in cuore una fiamma, che facilmente poteva in breve distruggere la semenza sparsa per quasi due anni dalla rigida e gretta parola del Padre. Leggeva, e cadevagli intanto qualche lagrima; una vasta e sconosciuta regione parevagli che s'aprisse dinanzi al suo intelletto. Quel libro era un'antica edizione de' Pensieri del Pascal.
La vecchia Dorotea, la quale, fin dal principio, quando s'accorse che l'abatino non volle prendere da lei l'imbeccata, come le sarebbe tornato acconcio, non parlavagli mai, se non per mortificarlo o dirgli villania, quel dì, punta dalla voglia di saper come e perchè mai il padrone non fosse tornato ancora, entrò nella saletta, col pretesto di metter ordine a qualche cosa; e cominciò a stuzzicar con mezze parole il giovine Celso, il quale, sprofondato nella sua lettura, non le badava punto nè poco.
La saletta era quadrata e bassa, ma dipinta a scompartimenti con ghirlandette intrecciate di grappoli, sparse d'uccelletti e di conchiglie; alcuni quadroni vecchi e foschi, in nere tarlate cornici, la ornavano, dopo aver marcito per due secoli nel refettorio di qualche convento. Alle due finestre pendevano tende di percallo, di bianche fatte giallognole, che già ragnavano; sul pavimento un tappeto altra volta verde; in faccia al cammino un elegante canapè di mogano, coperto d'un bel trapunto a vivi colori, mobile degno del gabinetto d'una damina. Sulla sponda del camminetto, a lato della specchiera, pendevano quadretti di santini e madonne, ricamate sulla seta da nobili e divote mani; poi un mucchietto di libercoli ascetici, di manuali, il rituale e il breviario. V'eran pure qua e là su' tavolini, e per le scansie cento cosette d'arte, che mostravano la pretensione dell'ex-frate ad esser tenuto un buongustajo, statuìne di cera e di porcellana, vasi o canestri d'alabastro con frutti e fiori, galanterie d'oro falso; ricordi e doni votivi d'illustri coscienze.
Sorgeva sullo scrittojo una formidabile falange di latini in-folio, legati in pergamena, che quantunque non tocchi da anni, dovevan dare a' visitatori sommo concetto della sapienza teologica del Padre. Sotto un gran Crocifisso sculto in legno di bosso, che pendeva dalla parete tra la finestra e il camminetto, vedevasi l'inginocchiatojo; e presso a quello un comodo seggiolone coperto di rascia rossa: era là che alcuni peccatori titolati, ammessi all'intimità del Padre, venivano a prostrarsi in certi giorni a' piedi suoi.
Dall'altra lato sorgeva la libreria riservata, chiusa da ondate vetriere allo sguardo de' profani; e là dentro, in un cantuccio particolare e segreto a tutti, andava a seppellirsi il carteggio epistolare del Padre, e tutto ciò che potesse in qualche modo metterlo sott'occhio a persone delle quali a lui non tornava acconcio destar la vigilanza. Un altro scaffale rozzo e aperto, ingombro da cima a fondo di vecchi volumi teologici, ascetici, stava nella piccola anticamera: ed era quella la biblioteca a cui il Padre consentiva che ricorresse il giovine abate, nel primo entusiasmo dello studiare che in que' giorni lo rapiva da ogni altro pensiero della vita.
Intanto, la Dorotea masticava il suo mal umore, veggendo che don Celso non s'era pure accorto della venuta di lei: quando, a un tratto, nell'altra stanza s'udì un suono di campanello, prima leggiero, poi ripetuto, alla porticina dell'appartamento. S'accorse di subito la vecchia che non era il solito tocco del suo padrone; pur non riusciva a indovinare chi potesse mai venire a quell'ora. E si volse, per correre a vedere. Ma il passo della Dorotea non era così pronto come l'impazienza di quella persona: onde, innanzi ch'ella avesse attraversata l'anticamera e schiusa la gratellina della porta a spiar chi fosse, s'udì scampanellare un'altra volta.
—Che tu sia mal…. Misericordia! mi fa dire una bestemmia.—E intanto, tirando la stanghetta del chiavistello, schiuse a spiraglio la porta, e intravvide una giovinetta, che in modesto atto, anzi timoroso, chinata la faccia, stava esitante, senza farsi innanzi e senza parlare.
—Chi siete? cosa volete, a quest'ora?…
—Ah se sapesse!… scusi, sappia….
—Che scuse? chi siete?… ripete più risentita la vecchia, mettendo un pugno sull'anca.
—Forse non mi conosce più; sono la sorella dell'abate Celso…. ho bisogno, sul momento, di dirgli una parola.
—Sorella?… sul momento?… Che sorella?
—Si tratta d'una gran cosa…. Per amor del cielo! mi lasci venire innanzi.
—Mo, siete bella! sono obbligata a conoscervi io? a quest'ora non si va per le case….
—Oh! non mi faccia piangere…. è per la povera mamma, è per il nostro Damiano!…
—Andate via, vi dico; il Padre non c'è; e queste son ore illecite…. e non si parla con nessuno.
Se non che il giovine abate, per codesto diverbio distolto un istante dal meditare sul severo volume, alzando il capo, riconobbe la voce di sua sorella: e correva verso di lei nell'altra stanza:—Mia buona Stella, sei tu? perchè vieni qui, tu, così sola?…
Ma non ebbe finito di dire, che mentre la fanciulla affannosa s'avanzava verso di lui, nel vano della porta rimasta aperta, videsi comparire, all'incerto lume del crepuscolo che rifletteva sul pianerottolo, la negra e inquisitoria figura del padre Apollinare.
Capitolo Quarto
All'improvviso comparir del padre Apollinare, gelarono le parole sul labbro della tremante giovinetta, si snebbiò subitamente il volto della vecchia, e l'abate Celso, fulminato da quel noto sguardo austero, indietreggiò d'un passo; ma, nella confusione del momento, non si scordò d'intascar prestamente il tomo del Pascal, che teneva ancora fra mano.
Il Padre, che per fermo aveva riconosciuta la giovine e indovinato fors'anche, press'a poco, a che ne venisse, si avanzò lento e contegnoso; e facendo capir con un cenno all'abate Celso che lo aspettava nel salotto, ve lo precedette. La vecchia, tra sospettosa e impaziente, gli si tenne alle calcagna, per veder di cavare dalle sue prime parole qualcosa dell'avvenuto, o, se non per altro, per metter male.
Intanto Stella, come rianimata dall'angoscia medesima che le stringeva il cuore, corse pronta a Celso, e giungendo le mani:—Ah tu non sai, proruppe sommessamente, tu non sai perchè vengo qui…. Il nostro Damiano….
—Damiano?… ma cosa è successo?—E Celso impallidì.
—Oh Signore! non ho il cuor di dirtelo…. ma, è vero! Ieri…. sulla bass'ora…. L'han preso, l'hanno condotto in prigione.
—Povera mamma! poveri noi!—esclamò il giovine abate; e subito, abbassando la voce:—Ma come?… ma perchè mai?
—Dio lo sa!
—Ma cos'ha fatto?…
—Per me, son certa che Damiano non ha fatto nulla di male.
Appena si dissero queste rapide, dolorose parole, la porta del salottino venne aperta dalla Dorotea, e fu udita la voce del Padre:—Don Celso, venite pure… E passi anche lei, quella giovine.
Senza più far motto, il fratello e la sorella, benchè tutti e due col cuore spezzato, si fecero innanzi. L'abate si accostò allo scrittojo, dietro al quale stava il Padre nell'imbottito seggiolone, colle braccia incrocicchiate, coll'occhio scrutatore, colla fronte impensierita. Ma la fanciulla, appena fu nella stanza, si fermò tutta peritosa tra la porta e la finestra: non osava sollevar gli occhi, e non sapeva perchè il cuor suo tremasse più di prima.
—Che cosa dunque siete venuta a fare in casa mia?… disse, rivolto alla giovine, con voce tutt'altro che confortatrice, il Padre.
La Stella non rispose, non ardì nemmanco levar la fronte da terra.
—Una disgrazia ben grande… cominciò a dire Celso, accorgendosi della timidezza e della confusione di lei.
—Mettete ch'io sappia già tutto: con più rigido accento s'indirizzò il Padre al suo giovine accolito: mettete ch'io sappia che Damiano, quel vostro fratello, il qual segue da un pezzo la mala via, cominci a ricogliere ciò ch'ha seminato.
—Ah no! no, non creda…. uscì con impeto allora la povera Stella, che troppo amava il suo Damiano per sentirlo malmenare così, nell'ora della disgrazia, e tacere.
—Come, Padre? lei dunque sa?… la interruppe Celso, affinchè non venisse a cadere anche sopra di lei il rimprovero del suo superiore.
—So quel che è: ripigliò l'ex frate, collo stesso rigido e monotono attento.
—Ma è una cattiveria, sa, è un'ingiustizia che gli han fatto…. disse la Stella, sfidando con innocente franchezza quell'impassibile sguardo. E poi:—Anche lei lo sa? e non son passate le ventiquattr'ore?…
—So tutto, ripeto. Gli è poco che vostra madre ha parlato col reverendo parroco di san Calimero; non è così?… D'altra parte, le son cose che, pur troppo, si ponno predire buona pezza prima che succedano.
—Oh! se lei conosce questa cosa trista, si fece coraggio a replicare l'abate, per carità, Padre, ci dica tutto quello che sa, ci tolga da quest'angustia, ci assicuri lei che nostro fratello è innocente.
—Non vi accorate così: con flemma riprese il Padre: son cose, è vero, che riguardano un poco le vostre attinenze col secolo….
—Ma è nostro fratello!… non potè star di ripetere la giovinetta.
—Un po' di rispetto, quella giovine; lasciatemi dire, e pensate ch'io vi posso far del bene. In quanto a voi, don Celso, lo sapete, quantunque a me non tocchi di farvene ricordare, quello che per voi ho già fatto. Alla morte di vostro padre, che, per verità, nel tristo tempo suo, poco e male ebbe a pensare a' figliuoli, io vi ho ricevuto in casa mia, per esaudir quel buon desiderio, a cui l'indole vostra e la divozione di vostra madre v'indirizzavano; vi ho fatto studiare, vi ho scampato dall'influsso de' pseudo-filosofi del tempo nostro; e come il vostro cuore è docile, ho potuto concepir di voi le migliori speranze.
—Ma io tremo adesso…. ma io penso…
—Pace, il mio giovine, pace, indifferenza, e sommissione: son queste le virtù necessarie, per ottenere la grazia d'un distacco totale dagli affetti e dalle cose di quaggiù.
—E la mia povera famiglia ch'è oppressa? e una madre….
—Vi ho detto: pace! e voi vi agitate e tremate, come l'uomo ch'è schiavo della passione e della colpa. Raccoglietevi un poco, ricomponete il cuore, e ragioniam delle cose pacatamente.
—È impossibile! io voglio vedere mia madre; in un momento come questo, essa ha bisogno di me; chi vuole che le parli, che le dica una parola di consolazione?… E poi… Damiano! chi lo ajuterà, chi farà un passo per lui?…..
Mentre così parlava con tutto il calor dell'anima affettuosa, Celso fece come per tirarsi più vicino alla sorella; e questa, a cui le gelide parole udite crescevano l'angoscia e lo sgomento, mosse vivacemente verso di lui.
—Sì, diss'ella: noi vogliamo andare dalla nostra mamma!
—Noi vogliamo!—E il Padre crollò un poco il capo, poi sorrise tra amaro e scherzoso; e continuò col medesimo tuono inesorabile:—Lasciate pensare a cui tocca; noi rimedieremo, per quanto si possa, al mal fatto, purchè la vostra volontà si pieghi e si rassegni ai rimedii necessarii. È bene che, per ora, voi, don Celso, rinunziate a veder vostra madre; è già notte, nè io potrei permettervi d'uscire; non sarebbe dicevole e onesto che, ad ore così tarde, vi faceste veder per la via insieme ad una giovine, ben che sia vostra sorella.
L'abate, avvezzo già da lungo tempo a una cieca e timorosa obbedienza, non sapeva più che ripetere; l'affettuosa e buona sua volontà finiva a ceder sempre all'inflessibile autorità del Padre, dalla quale non egli s'era arrischiato discostarsi mai. E per lo passato molte volte aveva provata nel cuore non so quale dolcezza nell'umile sagrificio di sè; ma in quella sera che l'affetto parlava più forte, più vivo, non sapeva rassegnarsi.
E cercava qualch'altra ragione da metter fuori; quando la Dorotea, la quale s'era tenuta in disparte durante quel colloquio, e pareva trionfar in sè stessa della piega che prendeva la cosa, non per altro che per segreta stizza e mal talento verso il timido abate, si fe' a un tratto in mezzo al fratello e alla sorella, e con un cotal suo fare d'ipocrita compunzione:
—Domando scusa, se dico anch'io una parola. Non può stare, certissimamente, come osserva sua signoria, che si passi sopra all'onestà e al decoro: ma intanto, appunto per la ragione che l'ora è indebita, questa giovine dovrebbe già trovarsi in casa sua; se le preme d'esser tenuta una figliuola onesta.
—Anche questo è ben vero; riprese l'ex-frate: cosicchè, don Celso, abbiate pazienza; bisogna che vostra sorella torni, senza perdere altro tempo, a casa…. Anzi, pensandoci su, troverei bene che la non avesse ad andar sola, e che la signora Dorotea volesse accompagnarla.
—Io? ma, come? e lei crede?….
—Ci avreste difficoltà? una donna come voi?
—Una donna come me? Cosa mai s'imagina vostra signoria?…. E come potrei tornarmene indietro così sola, attraversar di notte la città, nell'ora di tutti i pericoli, mettere in compromesso il mio carattere, il mio pudore?…. Dico la verità, che vostra signoria, in questi trent'anni, non mi ha mai comandato cosa simile.
Ma l'abate sentivasi tutt'altra voglia che di ridere; onde quel subitaneo inferocir della vecchia gli fece quasi più male, che non gli avessero fatto fin allora le gelide osservazioni del suo superiore. Se non che la Stella, raccogliendo il suo coraggio innocente e sicuro, tolse via ogni dubbio, e si fe' a dire:—È vero; ormai è notte, e la mamma mi aspetterà; domando perdono, se son venuta qui a disturbare. Celso, preghiamo il Signore, per Damiano e per noi… Quello ch'è lassù, non abbandona!
E senza attendere di più, uscì del salotto, e diede le spalle a quella casa, donde quasi la discacciava con indifferente apatia un uomo che invece avrebbe dovuto, per il sacro carattere che portava, compatire e consolare.
Il padre Apollinare, e l'abate rimasero soli. La Dorotea ch'era ita a chiuder la porta dietro la fanciulla, si sentì paga abbastanza che la cosa fosse riuscita al suo verso; accese la lucernetta di studio del suo padrone, e posta che l'ebbe sullo scrittojo, senza far altre parole, calò per l'interna scaletta nella cucina, e si rimise tranquilla al suo passatempo di sgusciar semi di popone.
L'ex frate non parlava, e Celso, turbato da mille diversi pensieri, avrebbe pur voluto domandargli qualche cosa di più chiaro e di più certo sul caso di Damiano; ma non osava.
Forse il Padre indovinò quella segreta angoscia, ma non mostrò d'accorgersene. Trasse fuori non so che lettere, le trascorse, le rilesse; si pose a scrivere lentamente; spolverò, ripiegò, suggellò il foglio, poi l'allogò a parte in uno stipo dello scrittojo.
Passò quasi mezz'ora; e l'animo di Celso, quantunque oppresso e travagliato, non aveva saputo formar un pensiero di collera o di amarezza contro colui ch'egli riguardava ancora come il suo benefattore. Alla fine, il Padre levò la testa, e come s'avvedesse in quel momento della presenza dell'abate:—Come? siete ancor qui? avete forse qualche cosa a dirmi?
—Potrei adesso, rispose con esitanza, andarmene coll'angustia che ho nel cuore? Ho veduto piangere mia sorella, non posso correre presso mia madre; e quanto al povero Damiano….
—Dite, dite pure.
—Quanto a lui, non so nulla ancora della verità; faccia il Signore che non sia!
—Non vi ho dunque detto abbastanza? ripigliò il Padre, corrugando la fronte, e col tuono severo di prima. Or bene, datemi ascolto. Non per nulla, io cercava fin qui di staccarvi dalla perniciosa influenza, non dirò della famiglia, ma del fratel vostro. Io sapeva come costui avesse cominciato male; e di fatto, non tardò a pregiudicar sè stesso in faccia alle persone oneste, a svegliar l'attenzione dell'autorità: sebben non avesse dato ancora serio motivo di censura, lo notavano come una testa calda, turbolenta…. Da ultimo, nella fabbrica ov'è impiegato, cominciò a mettersi in lega cogli artigiani più giovani e più disperati, a farsi loro caporione, e a menar baldoria nelle taverne de' sobborghi. Questi suoi capricci d'indipendenza, questa audacia erano tristi principj; e tristo, come doveva essere, ne fu l'effetto. Per dir tutto in una volta, jersera, ritrovandosi nella compagnia di molti altri scioperati in uno di que' luoghi aperti al bagordo e al cattivo costume, egli ne venne a rissa con alcuni malandati del suo stampo, passò a vie di fatto…. e colto in flagranti, fu catturato.
Come si rimanesse Celso, mentre gli ferivano il cuore, l'una dopo l'altra, queste implacabili parole, lo si può appena pensare. Le sue memorie, il suo affetto, ripugnavano a crederle vere; pur non sapeva imaginare nè come nè perchè mai il Padre avesse a nutrir quel rancore contro il suo sventurato fratello.
—Ecco il frutto della insubordinazione e della indipendenza, di questa matta morale del secolo!…
Cosiffatta breve, irosa conchiusione, pronunziata dopo una pausa, con non so qual feroce cupezza, dal padre Apollinare, strinse troppo forte il cuore del suo alunno, che più non seppe nè parlar nè pregare. Anzi, non potendo quasi reggersi in piede, s'abbandonò sulla prima seggiola che gli venne trovata; e se il mesto lume della lucernetta fosse giunto fino all'angolo ov'egli era, il Padre avrebbe veduto qualche lagrima rigargli la faccia.
Di lì a poco, non l'udendo pur fiatare, gli si volse di nuovo, ma con voce rabbonita:—Non intendo, per altro, di darvi troppa pena con quel che ho detto; solamente ho voluto farvi vedere come non bisogni confidare in noi, e nelle perfide illusioni della mente, e nelle superbie del mondo. Lasciamo fare a coloro che si sono assunti il grave carico di condurci, d'illuminarci, d'insegnarci a pensare, a sentire, a vivere. Voi dovete ormai essere in questa persuasione; i vostri studj, la vita che fate, l'avvenire a cui vi siete consacrato ve ne fanno un debito irremissibile. Morire al mondo…. morire alla volontà…. e poi, aspettare il premio della sommissione e della perseveranza.
Con questa predica, la quale, per dirla, era una delle solite dal Padre regalate al dabben giovinetto, egli stimava di tenere allacciata e compressa quell'anima bisognosa di puri affetti e di alte verità. Ma l'arido spirito non è parola di fede, e il gretto rigorismo non è consiglio di speranza e d'amore.
—Via, lasciam tutto questo: riprese l'ex frate: non è di voi che si tratta, ma della vostra famiglia. Prima di tutto, vi confesso che compiango l'abbandono in cui vedo la sorella vostra…. Ditemi un poco, quali sono le sue inclinazioni? la sua morale qual'è?…
—Oh, veda! essa è un angelo di bontà.
—Un angelo? badate a quel che dite, a simili irriverenti paragoni, de' quali, pur troppo, si fa sciupo a questo tempo.
—Voleva dire ch'è una giovine, come poche ce ne sono; è così savia, così buona; è come mia madre…. e poi attiva, onesta…. Oh se sapesse! con che virtù, con che coraggio veramente cristiano han sostenuto dolore, povertà e persecuzione….
E così dicendo, vivissimo affetto lo animava, e le sue guancie coprivansi di un leggier rossore.
—Che intendete di dire? accipigliato lo interruppe il superiore.
—No, non c'è fede nè virtù che abbia merito presso il Signore, se la virtù di que' buoni non gli è accetta.
—Fede? virtù? coraggio cristiano?… Ma dove avete imparato codesta confidenza tutta terrena, codesta cieca presunzione?… Io, vedete, io, con una parola potrei smentire tutto ciò che voi asserite così esplicitamente. Ma passo sopra anche a questo, per il turbamento in cui vi vedo…. se non che, ve ne prego ancora, moderatevi e date mente al poco che mi resta a dirvi.
—Parli, Padre, parli; e mi perdoni.
—Vi dirò dunque che ho in animo, per mezzo di certe pie e rispettabili persone, di sottrarre vostra sorella a' pericoli che la circondano; io ne aveva appunto già messa qualche parola alcun tempo fa; ma, adesso me ne fo un assoluto dovere; adesso, non c'è a perdere un'ora. Io son certo che in qualche pia casa, in alcuno di que' ritiri che la carità oculata apre anche in questa città alla virtù pericolante, ella potrebbe sperare d'essere accolta. Ma temo, ve lo confesso, temo la sua ripulsa, la sua ostinazione….
—E dunque, disse Celso con un sospiro, dovrebbe la nostra povera madre restar là, sola, in giorni come questi….
—Anche a lei si potrebbe pensare.
—Ma, se la Stella….
—Quella giovine cammina sull'orlo del precipizio, ve lo dico io; e…. tocca a voi a salvarla.
—A me? e come?
—Basta, per ora; sapete abbastanza, ci penserete su, e domani concerteremo meglio quello che convien fare. Voi siete forse lo strumento con che il cielo vuol menare a fine un'opera buona. Ora, ritiratevi pure; dormite in pace, e domani mi renderete grazie di ciò che intendo fare per la vostra famiglia e per voi.
E alzatosi dal seggiolone, egli congedava con un gesto grave l'abate, il quale mutolo e confuso salì al suo freddo stanzino. Il Padre poi passò nel salotto, ove la Dorotea avevagli apparecchiato, al solito, qualcosetta per la cena; e sedè per rimettere in sesto le potenze dello stomaco.
Capitolo Quinto
Amore e Odio sono veramente l'Ormuzd e l'Ariman che tengono il governo delle cose umane; e nella continua guerra che l'un l'altro si fanno, agitan del pari il potente e l'oppresso, turbano i sonni de' grandi e de' piccoli, stillano balsamo o veleno nella vita del più povero ed oscuro degli uomini. Amore e Odio non dimenticano mai; e per essi bisogna imparare quella dolorosa e fatale verità che il male non muore sulla terra. Ma quaggiù, noi vediamo che il piacere e il dolore, il bene e il male van dietro l'uno all'altro, e s'alternano, come le lucide ore e le ore brune, a tondo danzanti nel cielo della greca mitologia.—E che più? Vien tempo che anche il dolore si trasmuta per noi in ricordanza di soavità, in malinconico piacere; comechè abbiamo in noi stessi quasi sempre un rimedio alle sventure in quella forza di vita che, per non so qual sublime mistero, nutre insieme al dolore gli affetti che lo vincono e lo fanno, direi quasi, necessario. L'educazion del dolore suscita la virtù di combattere; perchè nel combattere è la vita.
Damiano, a quel tempo, vedevasi dinanzi la bella prospettiva dell'avvenire, come un cielo senza nubi, e contento dell'ignota ma onesta sua sorte d'allora, non pensava più alle angoscie passate, alla speranza un giorno sì cara e pur cagione di disinganni e di miseria. Ormai, l'unico suo voto era quello di rendere più sereni e più quieti i giorni che restavano da compire alla madre sua, circondandola d'attente e confortevoli cure, procacciando a lei e alla Stella, ove il potesse appena, quel poco agio che basta a render paghe e felici le anime buone vissute a lungo nell'aria della povertà. Le abitudini dell'assiduo lavoro e dello scarso bisogno gli avevan concesso di poter già mettere a parte alcune centinaja di lire, le quali confidava a mano a mano al vecchio signor Lorenzo, ch'era sempre l'unico suo consigliere e amico: onde riusciva, col picciol frutto che aveva cominciato a cavarne, a far qualche regaluccio alla Stella e alla mamma; ed era felice della loro gioja, della loro sorpresa.
Quando il principale gli dava libertà, soleva con uno o due degli artigiani suoi compagni andarne a diporto fuori della città, camminando per molte miglia, discorrendo all'avventata di tutto quanto gli venisse nell'anima, contento anche troppo, se in que' poveri giovani della sua età, fratelli suoi di fatica, avesse trovato alcuno che rispondesse alle idee non del tutto chiare, ma pur sentite e vagheggiate dal suo caldo pensiero; sia ch'egli parlasse dell'arte sua; sia che, levandosi quasi senza saperlo a più alte cose, tentasse d'esprimere alla meglio la semplice e generosa fede del suo cuore, e quella naturale persuasione di bontà e di giustizia che lo portavano ad amare così forte tutto ciò ch'era bello, tutto ciò ch'era buono.
Talvolta ancora si conduceva tutto solo fino all'umile stanza di Lorenzo. E il vecchio soldato, che, col tornar della bella stagione, si sentiva tornar la salute, il buon umore e la sua antica baldanza, lo vedeva così volentieri, e pregavalo che venisse a tenergli un po' di compagnia nella sua solita passeggiata. E pigliavano insieme verso a que' luoghi e per quelle stesse vie, fatte e rifatte tant'anni prima da lui e da Vittore, ricordandosi fra loro delle famose guerre d'Italia, di Spagna e di Russia, portando ancora la mano al cappello nel pronunziare il nome di Napoleone, e bestemmiando per aver campato dopo di lui.
Fermavasi per via, e appoggiandosi al bastone, il veterano parlava al figlio del suo fratello d'armi; parlava del gran cuore e della povertà di quel brav'uomo; poi passava a dir del suo paese, di tanti spergiuri, di tante infamie, di tanti tradimenti. Allora pareva rifarsi, qual era stato trent'anni prima, il fiero giacobino, il soldato patriota. E poi, al tornar del 5 maggio, ch'era pur l'anniversario della morte di Vittore, andavano silenziosi fino al cimitero del Gentilino. Lorenzo, all'occhiello del vecchio pastrano, aveva messo in quel dì un nuovo nastrino rancio e verde, nè diceva sillaba per tutta la strada; ma teneva gli occhi a terra, e il bastone sotto il braccio. E Damiano, venendogli a lato, provava allora una compassione, un dolore nell'anima, al veder cadere una lagrima dalle pupille del veterano su quella croce che portava il nome oscuro d'un eroe.
Così passando la sua onesta e operosa vita, nè più temendo per sua sorella, dopo quell'ultima spiegazione, esplicita abbastanza, che aveva avuto coll'Omobono, il nostro giovine, come tutti fanno quando ben cammina il presente, creava i più bei disegni per il futuro; nè scorgeva la tempesta che già s'adunava sopra di lui.
Era una domenica di luglio, non più di una settimana dopo l'incontro fatto di quel suo nemico; e in compagnia appunto del vecchio Lorenzo e di un altro giovinetto artigiano, col quale cominciava ad usare amicamente, aveva pensato fare un po' di festa, andando a merendar con loro fuor della porta Ticinese, in quella vecchia osteria che la tradizione del popolo ha destinata a luogo prediletto di gran ritrovo, in certe epoche dell'anno, e singolarmente nella festa di san Cristoforo.
Fuor dell'Arco ticinese, che il nostro Lorenzo s'ostinava, come sappiamo, a chiamar porta Marengo, seguendo la ripa del Naviglio grande e quella lunga costiera fiancheggiata di case e di tettoje, vedi in mezzo a un pittoresco gruppo di casali, detti la Cascina Campagnuola, l'antica chiesa di san Cristoforo. Fu dedicata, fin dal trecento, per voto de' buoni Milanesi dopo una fiera peste; e d'allora in poi, ogni anno, nell'ultima domenica di luglio, è costume dell'allegro popolo, divoto delle sue feste e buontempone, d'accorrere a venerare il santo gigante, e a finir la bella giornata nella vicina osteria della Samaritana, vecchia quasi al par della chiesa, e sulle aje e ne' prati che la circondano. È una delle poche feste popolari che ancora durano ab antico. E in quel dì puoi colà studiare e conoscere, qual è veramente, il popolo della vecchia Milano, colla sua romorosa ilarità, colla sua balda e franca bonomia, che di solito non invidia a nessuno dove faccia il buon pro, e canti, e non pensi al domani, sempre contento, sempre lo stesso. Dico, di solito, perchè ci sono de' giorni in cui è tutt'altro da quel che pare… e sente ancora il suo sangue antico.
La chiesa sorge in mezzo a un verde pratello, ombreggiata d'alberi secolari, fra i quali spunta l'acuto e gotico campanile; sulla doppia facciata, tra gli acuti archi e i pilastri, s'indovinano ancora le reliquie di vecchie dipinture, e la croce rossa in campo bianco della nostra antica repubblica, il biscione de' Visconti, e un altro stemma, che si vuole esser quello dell'abate di san Vincenzo in Prato; a fianco della porta maggiore appar tuttavia, quantunque sbiadita e mezzo coperta dall'intonaco più recente, la gran figura di san Cristoforo, col Bambino sur una spalla e nella destra il bordone del viandante, come sempre il dipinse la volgar tradizione.
In quel giorno, le due strade correnti lungo il canale, dalla porta Ticinese fino alla cascina Campagnuola, formicolavano d'una confusa moltitudine che andava e veniva, a schiere, a brigate, a famiglie intere: anche per il canale andavano e venivano continuamente parecchie barche, tirate da magri ronzoni, stracariche di tanta gente, che ogni poco minacciavano d'affondare. Que' che tornavan per acqua cantavano allegri a piena gola, e mettendo certi strilli sonori, significavano anche troppo la gioja della passata festa: i passeggieri delle due rive rispondevano a quelle canzoni, a que' gridori, e sventolavan frondi e banderuole, in segno di riconoscimento e di saluto; uomini, donne e fanciulli chiamavansi a nome di qua, di là, per ogni parte; salutavansi con tali sode dimostrazioni di fratellanza che facevano strillar le zitelle, bestemmiar gl'innamorati: e ad ogni biroccio, ad ogni carretta incontrata, era un far cerchio alla gente che su vi stava accalcata, un ripetere i canti, un ricominciar le grida trionfali e matte.
Nella piccola osteria poi, era un andirivieni, un tramestìo, una gazzarra di casa del diavolo; piene la cucina, le stanze terrene e il pian di sopra; intorno a lunghi deschi, alle rozze tavolaccie, su' panconi malfermi stavano a giuocare, a trincare, a urlar di gioja bande d'amici, di conoscenti, di compagnoni, tutti artigiani, garzoni, bottegai, braccianti, la più numerosa, la più disgraziata parte del popolo; i quali, per lo più, altro sollievo non trovano alla dura vita di sei giorni fuorchè di dimenticare il settimo fra mezzine e fiaschi, lontan dalle donne, da' figli e da' vecchi loro. Sedute sulle ripe e sparse per la campagna, nel dintorno della chiesa, avresti veduto le famiglie de' buoni borghigiani, le men povere e le più contente ch'eran venute alla festa del santo, cavar fuori de' canestri le loro provviste, e far qua e là, con una allegriona da non credere, il loro desinarino sull'erba. Era una scena tutta italiana, vivace, tumultuosa, degna che qualche pennello de' nostri giovani artisti la sapesse ritrarre; e parevan come la voce di questa scena il suonare a vespro delle campane, e il canto de' salmi ripercosso dalle vôlte della chiesuola affollata, e diffuso in lontananza per l'aria tranquilla; mentre vedevasi scendere il dorato riflesso del sole cadente sull'accolta moltitudine, sulle antiche mura del tempio, e sul vicino prospetto della città, come un lungo e malinconico saluto.
Nel giardinetto dell'osteria, sedevano a un deschetto, un po' lontani dal maggior chiasso e dalla folla de' bevitori, il nostro Lorenzo, Damiano e Giovanni, l'allegro compagno della fabbrica ch'era venuto con loro. Tra tutti e tre avevano rosicchiato una magra pollastrina arrosto, inaffiandola d'un buon boccale di bianco; e già pagato lo scotto, stavano chetamente cianciando fra loro, senza dar mente agli strilli, agli scambietti, alla filosofia tirata in iscena dagli altri, non pochi de' quali erano già in cimberli e, camminando a sbilenco, non sapevano più trovar l'uscita dal giardino dell'osteria.
Il signor Lorenzo, ch'era in vena quel dì, si piaceva in mezzo a quello strepito popolare, e cominciava a parlar con foga più pronta, più franca delle sue idee favorite. Ma Damiano, che fino allora era stato anch'esso più gajo del consueto, non rideva più, e stava fiso e pensieroso guardando l'antico soldato; mentre Giovanni, a ogni poco, usciva fuori a mezza voce con una canzone di fresco insegnatagli dalla sua bella amorosa.
Damiano non rideva più, dacchè s'accorse d'uno sciancato, ladra figura d'accattone, il quale s'era appostato all'angolo della tavola stessa, ov'egli sedeva cogli amici. Costui, lestamente zoppicando sulla sua stampella, aveva camminato fin là, sempre dietro a' passi loro, e facendo vista di non trovare altro luogo s'era colà messo; poi, fatto recare del miglior vino, vuotava bicchier sopra bicchiere, e di tanto in tanto lanciava uno sguardo di traverso a Damiano, con aria provocatrice.
Di lì a poco, furon vedute accostarsi a quella tavola due altre persone, le quali scambiarono prima fra loro qualche sommessa parola, poi un'occhiata col pitocco; e costui si tirò più vicino a Damiano, per lasciar luogo a' nuovi venuti.
Intanto, fra la gente stipata nell'osteria, e precisamente dietro un finestrone della cucina, un tale s'appostava, a cui sopratutto premeva di non esser notato, ma che seguiva, coll'impazienza negli atti e negli sguardi, la scena che stava per succedere in quel canto del giardino. E di là in effetto poteva vederne abbastanza, perchè la siepe di pruni, che separava l'orto dal cortiletto, era sfrondata e rotta in più d'un luogo.
—Ascoltate i miei giovani: diceva a voce alta il buon veterano, che in quella lieta giornata sentivasi, dopo il tedio di tanti mesi, ringalluzzare: Vedete! se tutti quelli che sono qui avessero capo e cuore, come voi due che, per dirla com'è, tenete un po' a quel ch'eravamo noi, vostro padre, o Damiano, ed io a' nostri bei tempi… oh! allora si potrebbe far qualcosa di meglio che non vuotar fiaschi, o cantar vespero, in onore e gloria del santo dal buon viaggio!
—Non parlate così forte, signor Lorenzo! l'interruppe Damiano, perchè, in pubblico, non si sa mai che razza di bracchi ci fiutino attorno.
—Eh! che m'importa a me? Tanto meglio! io per me, quel ch'ho nel cuore l'ho sulla lingua; la mia franca ragione l'ho detta sempre, in viso a tutti. E non son io, se…
—Bravo, signor Lorenzo! gridò l'ardito Giovanni: E così facessero tutti!…
—So quel che dico, io: ripeteva Damiano.
—Tu sei un buon giovine; anzi, sei un uomo! tornò da capo il veterano. Ma non hai veduto quello ch'ho veduto io!… E perchè gli uomini, in certi tempi, son come le pecore, tu vai dietro al vezzo degli altri, e non ti senti il coraggio di dir forte quel che pensi…. Lo so bene anch'io, che c'è de' traditori, de' rinnegati, e peggio. E non ho forse visto io andar tutto alla cà de' cani, per causa di que' maladetti che han saputo dar a bere alla povera gente?….
—Pure, non potè tenersi d'osservare Damiano, è meglio far che parlare!
—Oh sì! benedetto te: ripigliò il vecchio: questa è la prima legge! Ma, chi svigna, o sta a covar l'uova, come si dice da noi, appena venga un buffo di traverso, cosa volete che faccia?… Lui, quell'ometto che faceva ballar il mondo sulle dita, non ha voluto saper che una cosa: Avanti! l'ho sentito io, le cento volte, gridare: Avanti, miei Italiani! E noi, avanti! sarà quel ch'ha da essere… e l'Europa era nostra. Ma, vedete, finchè egli camminò con noi, che sapevamo la sua strada, ha fatto quel ch'aveva a fare; poi, quando ha voluto impancarsi anche lui sopra un trono, e venire a patto coi tuppè, addio bel tempo!… Eh! fu pur troppo così!
—Caro signor Lorenzo, avrete ragione, ma, per carità, non dite di più: insistè Damiano.
—Oh, sta a vedere!…
—C'è della gente che cerca rogna….
—Sta bene! chi cerca trova. Credete ch'io abbia paura di qualcuno, io?
—E noi pure, disse Giovanni, siam qui pronti a dar di buona moneta a chi vuole; a ognuno il suo!
—Sì! gridò ancora Lorenzo: A ognuno il suo! Voi, buona gente, vi contentate di pane e di preti!… e venite qui a far baldoria, senza pensare all'jeri nè al domani; e non sentite, non pensate nemmanco a quel che potrebber fare i poveri diavoli; e se c'è un rinnegato che vi bestemmii le sue imposture, voi tremate! voi non sapete, no, piantar questo nel cuore d'una spia!…
E così dicendo, l'audace vecchio, afferrando un coltello che gli venne tra mano, ne ficcò d'un colpo la lama nelle tarlate assi del desco.
In quel momento, lo sciancato, ch'era lì coll'orecchio teso, senza perdere sillaba di quel dialogo, alzatosi di botto, cacciossi in mezzo tra Damiano e il vecchio soldato, e martellando sulla tavola colla sua stampella, gridò:—Chi è l'infame che insulta i galantuomini col nome di spia?
Con lui saltarono su gli altri due, che fino allora non s'erano occupati che di tracannar bicchieri, squadrando in cagnesco i vicini, senza però far nessuna parola. Appena Damiano li vide alzarsi e venir verso di lui con un'aria d'insulto e braveria, comprese ch'era cosa concertata, e che quelle faccie proibite volevano a ogni costo attaccar briga: pur non sapeva che pensarne, non ricordandosi d'aver mai veduto nessun di coloro.
Il primo che si fece innanzi, dal volto ulivastro, dai grigi mustacchi, schizzando furore dal solo occhio che gli restava, era armato d'un grosso bastone; e calcatosi in testa il cappello, stese la manca fin quasi a toccare il viso di Damiano. Intanto il compagno, che pareva un facchino vestito dal dì delle feste, abbrancò di lancio il braccio di Giovanni, che s'era vôlto per veder che fosse. L'uno, come forse l'indovina il lettore, era quel tristo del Martigny, il maestro di scherma, che, uso a garbugli e a risse, aveva preso sopra di sè d'aggiustar con Damiano le partite dell'Illustrissimo e quelle ancora del cavalier Lodovico. Il compagno era un furfante, postogli a' fianchi per conto suo, dallo stesso signor Omobono.
E costui appunto, tanto gli stava sul cuore la vendetta, era venuto in compagnia a quella festa, senza che nessuno il sapesse. L'uomo che da una finestra della cucina aguzzava gli occhi per vedere come andasse a finire la cosa, era lui.
Capitolo Sesto
Lorenzo e Giovanni balzarono in piedi a un tempo, stupefatti per quella provocazione; anche Damiano levossi, per toglier di mezzo una seria cagion di litigio; scavalcò la panca, e volgendosi a quell'ignoto che pareva volersela pigliar con lui, gli disse con ira a stento soffocata:—Venite in disparte voi, signore, se avete a dire con me; parlate pur chiaro, che son qui a rispondere.
—Corpo del diavolo! E come non avrei a dire…? cominciò l'altro, alzando la voce, e serrando in pugno il bastone.
—Non alzate la voce, l'interruppe Damiano. Se avete bisogno d'imparare a vivere, son qua io.
—È stato quel vecchio birbone, che m'ha fatto venir la muffa: ripigliò colui, levando il bastone verso Lorenzo; il quale, strabiliato ancora, non sapeva a chi volgersi de' tre che gli stavano attorno co' pugni stretti e la bestemmia in bocca.
—Lasciate stare quell'uomo: Damiano ripigliò: son qua io, rispondo io per lui.
—Non s'insultano così i galantuomini, come avete fatto voi….
—E chi v'ha detto una parola…?
—Quel vecchio vostro compagno ha dato della spia a qualcuno di noi…. e levò in aria il coltello, per il demonio!
—Via! non era per voi….
—L'ho veduto io, io l'ho sentito, vi dico… e non son uso a questa sorte di villanie….
—Voi sì piuttosto, continuava il giovine, a fatica frenandosi, voi sì vi poneste presso di noi, con un'aria insopportabile…. Fatevi indietro!
Fidando di tagliare a mezzo il diverbio, traevasi verso l'entrata del giardinetto, intanto che la gente, chiamata dal romore e dalla speranza di veder menare le mani, faceva ressa alla porta.
—Indietro voi! Noi siamo galantuomini….
—E noi chi siamo, per il cielo!
—Siete una mano di straccioni, e ve la darò io la lezione, io ve la darò, se non….
—Questa sera…. domani…. quando e dove a voi piace; ma non qui: non facciamo scene; ch'io non perda la pazienza.
—Che domani? che pazienza? Rispettate i cittadini, e non avrete brighe…. E così dicendo, l'insolente Martigny pigliò per l'abito Damiano e fece con una strappata per torselo d'innanzi.
Il giovine, a cui già bolliva il sangue, non ci vide più; e trovando impossibile di scampar altrimenti da quell'uomo, che pareva l'avesse giurata a lui, volle farla finita. E sferrò un pugno così violento nel petto del maestro di scherma, che lo mandò rovescioni sulla panca, sì che ne perdè il cappello, e rimbalzarono dal desco in terra fiaschi e bicchieri.
—Dalli—addosso—bravo!—uh! uh!—gridava la gente, accerchiando i due campioni.
Intanto Lorenzo e Giovanni, che la folla aveva divisi da Damiano, rimbeccavano ingiurie e bestemmie agli altri due compari del maestro; e tra la gente che li accerchiava, molti ridevano, molti potevano appena tenersi dal prender parte al parapiglia.
Lo sciancato faceva di sopra il capo mulinare la gruccia, gridando che avrebbe rotte le ossa del vecchio maladetto che non portava rispetto alla gente onesta: Giovanni, riurtando a forza, lo tratteneva, cercando tirarlo in altra parte; mentre il veterano, non sapendo più dove si fosse, gridava con furore:—Poveri imbecilli! che non capite nè manco che cosa siate!… Io, vecchio come sono, ho cuore di tenervi indietro tutti! Badate ch'io sono una vecchia lama, irruginita sì, ma salda ancora…. Largo vi dico! lasciatemi passare, ch'io ne voglio degli altri…. Dove sono i miei compagni?… Qua, Giovanni, Damiano!—E faceva per romper la folla che lo accerchiava.
—Uh! il vecchio matto?—Via di qua!—Cos'è stato?—Una spia…!—Addosso!—Lasciate stare la povera gente!—Abbasso il vecchio!—Dalli alla spia!—Dalli!
Così gridavano di qua, di là, senza saper che si fosse, senza cercare nessun perchè: avevano bevuto lietamente, e bisognava gridare, sfogare il caldo, far chiasso, menar le pugna; e urlavano tutti in una volta. Ma il disgraziato maestro di scherma, caduto sul campo al primo attacco di Damiano, e scornato da quanti gli eran d'attorno, volle rendere il colpo; rialzandosi, furiosamente corse sopra il giovine per rompergli sul capo il bastone dal pome di piombo; e:—Prenditi questo…. assassino!—urlò.
E forse il colpo sarebbe stato mortale, se in quella appunto, riconosciuto da lunge Damiano, senza pur sognare che l'onesto giovine potesse avere il torto, non si fosse cacciato innanzi un barbuto e fiero garzone, il quale, rotta con pochi urtoni la folla, precipitossi e fu a tempo d'afferrar di botto in aria il bastone dell'invelenito provocatore. Un grido d'applauso rispose d'ogni parte, tanto quell'improvvisa prova di destrezza e gagliardia piacque e fece la maraviglia di tutti.—Quel giovine protettore, sorgiunto così a proposito, era Bernardone, era quell'antico condiscepolo di Damiano, che da gran tempo più non l'aveva riveduto; e, secondo il suo costume, compariva dapertutto ove fossero feste, baldorie, amico sempre del vino, dell'allegria, delle belle fanciulle e della povera gente.
A quell'atto di Bernardone, lo scroscio d'una gran risata, e un batter di mani di tutti i circostanti, misero il colmo all'ira del Martigny, che in mezzo a due fuochi, e vedendo il giuoco pigliar la mala piega, bestemmiò in cuor suo il momento in che s'era messo in quella trista impresa; ma non volle nettare il campo, senza avere sfogata la sua bile, menando il bastone sul dosso dell'uno o dell'altro de' suoi antagonisti. Tornò infellonito alla riscossa, e tempestando colpi a ritta e a manca riuscì a farsi largo nella calca che più e più lo stringeva; ma Damiano e Bernardone, i quali, benchè senz'armi nè bastoni, pur non volevano indietreggiare, vista quella cieca furia, con una giravolta gli riuscirono alle spalle.
—Tien fermo, Damiano! gridò Bernardone, che gliela fo veder bella io, a questa faccia proibita!
—È matto! rispose Damiano: lasciamolo in pace!
—No, per diana bacco! quando i vecchi dan la volta, tocca ai giovani a insegnar loro il viver del mondo!—gridò l'amico.
—Eh! non l'aveva con me costui, ma con quell'altro là in quel gruppo di gente.—E additava il buon Lorenzo, il quale, serrato in mezzo a molti di quegli sfaccendati e bevitori, ajutato invano da' gagliardi polmoni e dalle salde pugna del Giovanni, cercava tuttora di far comprendere la ragione e d'aprirsi la via fra que' ribaldi arrancati e mezzo briachi, che avevan giurato di farlo uscir de' gangheri del tutto. Quando il Martigny si vide solo contro due, e capì andare i suoi colpi al vento, più accanito di prima, si volse indietro; e sperando trovar fra la gente chi pigliasse le sue parti:—Maledetti! gridò, che danno addosso in due a un galantuomo!… Eh! non c'è chi dia mano a un onesto cittadino contro i ladri e i birbanti?
—Sì, per dinci!… uno contro due è un'infamia! cominciò a dir uno tra la folla.
—Lasciateli stare! Che se la peschin tra loro!
—No, separateli!—Via! via! giù il bastone!—E viva!—Addosso da capo?—Dagli al vecchio! è una spia!—Ohe, ohe!
E la moltitudine ingrossava, e tutti volevan sapere, vedere, gridare a un tempo: balzavano sulle panche, sulle tavole, levavan per aria berretti, cappelli e bastoni, agitavano fazzoletti, scuotevan rami d'albero e ventaruole, in segno quasi di trionfo, e come pazzi di poter finire quel dì di festa collo spettacolo d'una bella baruffa. Damiano vedeva l'ora di spacciarsi di tutti, di confondersi tra la gente, per non far peggio; e malaugurando fra sè al pensiero che l'ebbe colà condotto, già stava per perdere il sangue freddo che l'aveva ajutato fino allora. Ma tutti gli occhi eran addosso a lui; e gli spettatori cresciuti di modo, che ormai ogni ritirata gli tornava impossibile. Bernardone poi, che moriva di voglia di romper sulle spalle del suo padrone istesso quel gran bastone che vedeva tuttora mulinar per aria, incalzava con furia sempre maggiore il maestro di scherma; tanto che costui, adoperate invano tutte le parate e le botte dell'arte sua, stanco, sfinito dalla rabbia e dalla fatica spesa nell'inutile lotta, cominciò a ritrarsi d'un passo e a cercar d'intorno cogli occhi spaurati i compagni suoi.
—A me, Michelaccio!—urlò, al vedere il facchino il quale, poco lontano, maledicendo si dibatteva fra le mani del Giovanni, che gli parevan due tenaglie. Il signor Lorenzo intanto era riuscito a salvar la sua vecchia testa dalla gruccia dello sciancato; e costui, disgiunto dal suo avversario per l'onda del popolo che andava e veniva nell'angusto giardino dell'osteria, si trovò a un tratto fuor della mischia: ma non per questo rifiniva dallo scagliar maledizioni.
Michelaccio, all'urlo del suo compagno, con una forte strappata si tolse da Giovanni, e rincacciati i più vicini, fu d'un balzo a fianco del Martigny.
—Dov'è? gridò costui allora, fatto più audace; dov'è, quel birbone che m'ha insultato?
—Siete voi che cercate pane per i vostri denti, scimiotto dal pel bigio?… gli replicò Bernardone, piantandosegli in faccia.
—Eh via! tornò a dire Damiano: tenete le mani a casa; giù quel bastone; e se volete ragione, ve la darò quando che sia.
—Che ragione?… siete prepotenti, infami; io sono un uomo d'onore: gridava il Martigny.
—Voi, Damiano l'interruppe, ci fate in pubblico ingiurie da galeotto: e volete….
—Ve le manderemo in gola! soggiunse Bernardone con un gesto di minaccia, e tenendosi a fatica.
—Siete ubbriachi, e siete vili voi!… urlò di nuovo lo schermidore.
E Damiano:—Finitela una volta! andiam fuori di qui!…
—Voglio soddisfazione sul momento….
—Fuori! vi dico; non mi tentate di più!
—No, voglio farvela vedere, canaglia!
—Fatevi indietro…. No? e tal sia di voi!
E come il Martigny, in quel punto, brandito di furia il bastone tentava, a tradimento, sferrar sul capo di Damiano un colpo decisivo, il giovine perdè la mente, e venutogli alla mano il coltello confitto poco prima da Lorenzo nel descaccio, ne lo trasse, e si scagliò contro il ribaldo assalitore. Un grido d'orrore, alla vista del coltello, uscì dalla gente; e il Martigny, scorgendo l'arma nel pugno del suo avversario, spaventato diè addietro, e gridò:—Ferma l'assassino!…
Tutta questa scena, durata pochi minuti appena, seguivano di lontano con ansiosa attenzione tre persone; le quali, abbenchè sembrassero straniere del tutto al tumulto, pure alla riuscita di quel brutto negozio mettevano la più seria importanza. L'uno, cioè il signor Omobono, dalla finestra terrena della cucina, poteva comodamente dominar l'orticello: e dietro le sue spalle due strani visi spuntavano; quello d'una donnaccia, con uno sgualcito cappello di paglia e vestita d'un vecchio abito di taffetà cangiante; e un'altra sembianza lunga, magra, con un paio d'occhiali verdi, che pareva la febbre personificata, sotto un gran cappello triangolare.
Perchè costoro, ne' quali non sarà difficile riconoscere la vecchia pegnataria Emerenziana, e lo sparuto don Aquilino, cappellano dell'Illustrissimo, fossero venuti col signor Omobono, e nella stessa vettura da nolo che lo trascinò a quella festa popolare, non sapremmo dirlo precisamente. Ma ben possiamo supporre che l'una e l'altro sentissero, presso a poco, in quel momento ciò che sentiva l'Omobono; comechè si guardassero fra loro di sottecchi, e l'una si mordesse le labbra, e l'altro scrollasse il capo. Di più, la stizzosa pegnataria, la quale aveva il tarlo col povero Damiano dal dì ch'esso più non volle vederla bazzicare in casa sua, non poteva star cheta, e lasciavasi fuggir di bocca qualche parola di trista significazione, come a dire:—Imprudenti!… Ma cosa fanno adesso?… Colui guasterà tutto…. Bravi! Cani!… Il cappellano, all'incontro, guardandosi le punte de' piedi, con certi atti di sospetto e di paura, mostrava come di mal animo si fosse lasciato condurre a quella spedizione, e come solo obbedisse ad un consiglio ch'era per lui più terribile d'un comando.
Ma il signor Omobono che, vedendo la mala parata per il maestro di scherma, andava cercando fra sè come potesse raddrizzar la cosa e farla riuscire al proprio intento, udito ch'ebbe appena quel: —Ferma! all'assassino!—Ferma, ferma! gridò anch'esso con una voce da squarciarsi la gola:—La guardia! La guardia!…
Quell'improvvisa chiamata: La guardia! fu come un tocco di magica verga, e mutò a un tratto la faccia delle cose. I combattenti o la folla soprastettero; e due gendarmi, alla testa di pochi soldati, coll'energica persuasione del calcio de' moschetti, fattasi la via per mezzo a quella stipata muraglia d'oziosi e di beoni, si trovarono nel centro del giardinetto, dove l'ondeggiare e il riurtar de' sopravegnenti aveva a poco a poco sospinti i diversi campioni di quell'arrabbiato scontro.
Il signor Omobono, che per il primo aveva veduta passar la pattuglia per la strada maestra, e gettato quel grido, appena entrarono i soldati per acchiappar nel parapiglia qualcuno a cui toccasse di vedere a scacchi il sole del domani, corse fuori anche lui; e tenendosi ormai sicuro d'ogni rischio, si mise dietro a' soldati, e pervenne con loro nel mezzo de' litiganti. Ma in quel punto che uno de' gendarmi, scorgendo luccicare un coltello in pugno a Damiano, gli si volgeva cagnescamente per porgli addosso le mani, all'Omobono il suo mal genio consigliava di farsi innanzi a metter pace, per veder meglio riuscire la vendetta, e guadagnarsi in uno dalla gente la riputazione di persona assennata e importante. Cacciossi dunque fra Giovanni e il veterano; i quali, poco badando alla venuta della forza, riappiccavano le lor nette ragioni contro quel traditore del maestro di scherma. E cominciò a far l'autorevole, a dir parole severe di minaccia e di rampogna:—Ohibò! lontani, lontani dico!… si rispetta così la legge?… Che gente!…. che vergogna!…. a casa, a casa!
Damiano, quantunque discosto da quel gruppo, vide e conobbe il signor Omobono; fu come un lampo che gli schiarò l'iniquo mistero. Pensò che que' tristi, accaniti per fargli fare un mal passo, non potevano essere che vili pagati da lui, o dal suo prepotente padrone; levò al cielo un'occhiata di disperazione, e battendosi col pugno la fronte, lasciò, senza saperlo, cadersi a' piedi il coltello che aveva poco prima levato in aria.
Uno de' gendarmi raccolse dal terreno quell'arma, e l'altro, con due de' soldati, arrestava l'un dopo l'altro Damiano, il Martigny che bestemmiava, e il vecchio signor Lorenzo, che voleva pur farsi sentire, e non aveva più fiato per dir parola. Bernardone, Giovanni e lo sciancato, cacciandosi in mezzo alla calca, s'erano già perduti. Damiano avvilito, turbato nel profondo del cuore, non voleva, al par d'un ladro, d'un assassino, attraversare in mezzo a' soldati il popolo curioso di veder lo scioglimento di quel garbuglio; ma aveva un bel volgersi a' soldati, un bel dire il suo nome e giurare di presentarsi subito egli stesso all'autorità. Essi lo spingevano innanzi cogli altri, senza dargli ascolto.
Se non che l'Omobono, il quale continuava a fare il paciere, rimestando, con gesti d'orrore, la storia di quel ch'era stato, punto forse dalla brama di veder più presto messo in muda Damiano, profferse generosamente la vettura da lui noleggiata, che stava aspettando, a pochi passi dall'osteria. I gendarmi non dissero di no, e il signor Omobono si diè premura di gridare:—Innanzi! al vetturino, che mezzo brillo barcollava a cassetta del legno. I soldati, i quali avevano serrato in mezzo i tre arrestati, li fecero salire nella vettura: Damiano non se lo lasciò dir due volte, che gli premeva di togliersi agli sguardi della moltitudine: Lorenzo, benchè non si desse pace di quell'ingiustizia, e guardando invelenito coloro che gli stavano alle calcagna, si facesse pregare, pure seguì l'esempio del suo disgraziato amico; ma il Martigny non voleva a nessun patto, e cominciò ad acciuffarsi coi soldati, che durarono fatica a spingerlo nella vettura.
Il signor Omobono, che teneva aperto lo sportello, gongolava in segreto di gioja, vedendoli andar bellamente in prigione, chè tanto non avrebbe sperato; quand'ecco i due soldati che stavangli dietro, con un urto gagliardo, vollero cacciar dentro lui pure in compagnia degli altri; gridò, tempestò, maledisse, per far loro capire ch'egli non c'entrava, che aveva voluto accomodar la cosa, che non ne sapeva nulla. Non ascoltarono ragioni; e una volta ch'ebbe messo per forza un piede sul predellino, un de' soldati serrandogli un braccio con tal grazia da slogargli una spalla, l'altro ajutandolo con una soda spinta di sotto in su, lo ficcarono nella vettura; e fattolo a forza sedere sul davanti in faccia al Martigny, richiusero lo sportello. Seguitava a gridare, a levar su, a cacciarsi mezzo fuor della portiera il mal capitato paciere, che lo lasciassero scendere, ch'era innocente, ch'era una persona di riguardo, ch'avrebbe dato conto di sè: la gente gli sghignazzava, gli urlava dietro; e il vetturino, a un cenno del gendarme ch'era salito al suo fianco, punse col mozzicone della frusta i due ronzini, che con trotto inusato tornarono verso la città, in mezzo alla moltitudine spensierata e chiassona che restituivasi alle sue case dalla festa di san Cristoforo.
Capitolo Settimo
Cominciava a fuggire il sole dall'alte loro finestre, quando Stella e sua madre, che Damiano aveva lasciate in casa, si posero a guardar nella via, se mai egli tornasse: e bisogna dire che la fanciulla, essendo la domenica, e vedendo l'aria e il cielo così belli, così sereni, sentisse, senza dirla, un po' di voglia d'uscire a spasso, come soleva fare qualche volta, insieme a suo fratello, in quelle rapide ore di libertà. Ma sapendo com'egli se ne fosse ito, dopo desinare, in compagnia del signor Lorenzo, poco speravano che avesse a tornar a casa prima di sera.
Poco di poi la Stella che, nel vagar d'uno in altro sereno pensiero, guardava nella via invidiando i passeggieri, s'accorse d'uno che veniva a gambe e levava gli occhi verso le loro finestre. Le parve di conoscerlo; e lo vide veramente svoltar nel portone della casa. Non sapeva ricordarsi chi fosse; ma senz'altro lo conosceva. Perchè mille negri e confusi pensieri le attraversarono la mente, nel breve tempo ch'egli mise a far le scale, a venirne fino alla loro porta?
—Mamma!… disse la Stella, al sentir quel passo che s'avvicinava; e impallidì.
—Cos'hai? perchè mi guardi così?
—Oh, mamma! io lo sento, qualche disgrazia è successa.
—Caro Iddio, che pensieri!
—Oh non sia al nostro Damiano!
S'udì battere un colpo violento alla porta; e Stella, prima di correre ad aprire, si rivolse alla madre:—È il Giovanni, un de' compagni di Damiano; certo c'è qualche cosa.
L'animoso giovinetto entrò, confuso, furibondo ancora di quel ch'era successo; ma si fermò su' due piedi, vedendo le donne; e non seppe trovar nulla a dire.
—Parlate, per amor del cielo! Cos'è stato?… E Damiano, dov'è?
—Oh signora Stella! cominciò a balbettare il giovine, cercando invano quel coraggio con che poco innanzi aveva fatto fronte a' tre galantuomini dell'osteria: signora Teresa…. Damiano…. era venuto con noi…
—Sì, sì; ma dov'è adesso?…
—Che gli sia successo qualche cosa? aggiunse la madre: dite su, per carità!
—Ecco cos'è stato….—E il Giovanni pareva che cercasse le parole nell'abbottonare e sbottonare il farsetto di frustagno.—Damiano ed io…. ma c'era anche quel brav'uomo del signor Lorenzo, vedete… A pensare, un uomo come quello, un cavaliere…. basta, bisogna dire che ci fosse un complotto, è roba d'inferno….. Ecco qui, per quanto si faccia, il sangue non è acqua di fagiuoli; e un galantuomo, quand'è tirato pei capegli….
Nè l'una ne l'altra, ansiose, incerte com'erano, riuscivano a comprendere una parola; ma la Stella si figurò ch'egli volesse forse parlare d'una rissa, e:—Com'è possibile, domandò, che Damiano si sia lasciato insultare?…. Ma dite su, dite la verità, se la è stata una lite, cosa n'è venuto?…
—Oh santo cielo! l'han ferito forse?…
—No, no, non vi spaventate, signora Teresa; non è stato niente, nessuno gli ha fatto del male; che nè lui, nè io vedete, ci lasciamo mettere in sacco da nessuno…. Ma, non so come la sia stata, quel birbone d'un forestiero che l'aveva con lui…. ma giuro che c'è sotto qualche diavoleria!
—E lui?
—Oh dite su!
—Lui vede che quel birbone gli viene addosso per accopparlo…. e fa per difendersi; io aveva ad aggiustar i conti con un camerata del forestiero…. Ecco, che sul più buono, capita in mezzo la pattuglia…. Io, per miracolo, arrivo a perdermi nella gente; ma gli altri, birboni e galantuomini, son belli e agguantati.
—E Damiano?
—Cosa volete? pur troppo, anche lui; ma per lui, non ci state a pensar su, stasera o doman mattina, torna qui; è certo, come due e due fan quattro; figuratevi…. un fior di giovine, come lui!
—E il signor Lorenzo?
—E lui? come vi diceva, un uomo di quella sorte?… l'han condotto via come un briccone…. Oh! ma non son io, se non la faccio pagar salata, a un per uno, a tutti e tre quei cani…. non so cosa darei per farla finita!
—Oh! ma intanto egli è là…. è in prigione! Povero Damiano, poverette noi!
Così venne alla famiglia l'annunzio di quella nuova e improvvisa sciagura.
La fanciulla, correndo coll'anima ad altri terrori, ad altre persecuzioni, si dava a pensare che Giovanni non le avesse detta tutta la verità, e pigliava a interrogarlo da capo, con un'angustia sempre più viva. Ma la mamma, abbenchè mutola e stordita di quel colpo, non pensò che al momento; e voltasi a frugar qua e là, dentro all'armadio e al cassettone, tolse fuori un po' di biancheria e qualche fazzoletto, mise in un cartoccino poche lire tenute in serbo da un pezzo per comperarsi un piccolo crocifisso d'argento, e facendo di tutto un involto, tornò a Giovanni, lo pose nelle mani di lui:—Voi siete un buon giovine; e avete, ne son certa, un po' di compassione di noi; fatemi dunque un piacere, a me, e al nostro povero Damiano, cercate d'andar là, ove l'han condotto; cercate di vederlo, e fate di dargli queste poche cose, e questi quattro soldi; ditegli che la sua mamma prega per lui!… E il Signore vi benedirà! Andate, più presto che potete; oh! se fosse questa sera….
—Così potessi! vorrei far ben altro io. Pazienza! a costo di restarci anch'io in quell'uccellanda, se mai m'avessero a conoscere, farò di tutto, signora Teresa; parola di Giovanni.
—E doman mattina….
—E doman mattina, se non viene lui, sarò qua io, a dirle quel che so.
E se n'andò, per non finire a piangere, chè già si sentiva un groppo alla gola.
Come passasse quella notte per la Teresa e la figliuola, io nol dirò, ma venuta la mattina, e non vedendo comparir nè Giovanni, nè Damiano, come ancora, senza dirselo, speravano, esse cominciarono a credere che non si trattasse di piccola cosa, secondo quel che aveva raccontato Giovanni. E, come avviene, le incertezze crescevano i terrori. Più tardi, non sapendo che ben fare, la povera donna era ita a raccontar la sua disgrazia e a raccomandarsi al vecchio curato di san Calimero, che le aveva sempre dimostrata non so quale premura, fin dal tempo che abitavano in Quadronno. Fu verso la sera dello stesso lunedì che la Stella credè bene di mettere a parte di quella trista vicenda il fratello abate; e come, là nella canonica, fosse ricevuta e di quali speranze confortata, già lo vedemmo.
Comparve alla fine, il seguente mattino, nella povera casa il signor Lorenzo; e a stento il riconobbero. Era pallido, stralunato, e le sue labbra tremavano ancora per la furia che dentro il rodeva. Raccontò come uscisse allora di prigione, senza sapere perchè vi fosse stato messo, perchè lasciato in libertà; raccontò che di Damiano non aveva potuto conoscer altro, se non che la cosa sarebbe stata forse un po' lunghetta. E mentr'era venuto per portare alle donne un po' di consolazione e di speranza, finì a sfogare tutta in una volta la rabbia che teneva in cuore da vent'anni, colle maledizioni le più indiavolate. A poco a poco s'acquietò, e giurò alla Teresa e alla Stella che non le avrebbe abbandonate, promettendo di far di tutto perchè fosse conosciuta l'innocenza di Damiano: e incolpava sè di quel tristissimo caso.
Aveva promesso di tornare; e tornò la mattina del martedì. Ma, nell'aprir l'uscio, venendogli veduta, fra la madre e la figlia, sotto un largo cappello da prete, una tonaca nera, si rabbujò nel pensiero; e borbottando:—Le si son messe in man de' preti, e ci stieno!—volse le spalle a quella porta. L'ex-frate, poich'era lui stesso, venuto in persona la stessa mattina, a persuader la vedova che dovesse pensar seriamente all'avvenire e salvar la figliuola da' pericoli del mondo; l'ex-frate non s'accorse di lui, e continuò le sue patetiche insinuazioni.
Così il capriccio d'un potente ozioso da una parte, dall'altra uno zelo vanitoso, indiscreto, agitavano il destino della povera famiglia. Ma gli oscuri fatti da ultimo narrati avevano un eco anche ne' dorati appartamenti, ove non di rado trovansi a fronte il vizio cortigiano, e il bachettonismo intollerante.
In un'ampia sala terrena del palazzo dell'Illustrissimo s'accoglieva, la domenica dopo quella in cui Damiano fu preso e messo prigione, un circolo di dame e cavalieri più dell'usato numeroso e magnifico. In quel dì aveva l'Illustrissimo convitate non poche persone della maggior distinzione allo splendido banchetto della domenica; e dopo il pranzo, comechè si fosse tuttavia nella mezza state, la nobile brigata s'era intrattenuta per alcun tempo ne' giardini, ai quali rispondevano le sale terrene del ricco appartamento. Due camerieri, nero il vestito, bianca la cravatta e bianchi i guanti, con un satellizio di servitori in livrea listata di stemmati galloni, giravano frammezzo alla comitiva, offerendo sugli argentei vassoj caffè e rosolii: nè intanto veniva meno la decente e contegnosa allegria de' convitati; anzi era un incrocicchiarsi di discorsi, di novelle e complimenti, massimamente nel nucleo di quella nobilissima adunanza, cioè fra coloro che sedevano a cerchio, fra due belle magnolie e due variopinte piramidi di vasi di fiori.
Sorgiungevano le carrozze a prendere alcuni degl'invitati; e dai cortili s'udiva strepito di ruote, scalpito di cavalli, e fors'anche qualche bestemmia degli automedonti in parrucchino.
Tutta quella nobiltà poi, sul primo imbrunire, era rientrata nelle sale già illuminate da doppieri e da lampane d'alabastro pendenti dalle storiate vôlte; e qua e là spartivasi in diversi gruppi, senza però che alcuno perdesse d'occhio il padrone e la padrona di casa.
Quest'ultima, seduta tutta sola, su d'un canapè coperto di raso turchino, aveva raccolte intorno a sè le dame men giovani e più sfoggiate d'abbigliamento. La vecchia dama, in que' giorni di solenne ricevimento, non appariva più qual'era agli occhi de' suoi più intimi nel restante della settimana; e la preponderanza del nome e del grado pigliavano nel cuor suo il luogo della pettegola curiosità de' fatti altrui, della segreta compiacenza con che pescava le occasioni di far fiorire e prosperare la società all'ombra della divozione, o piuttosto all'ombra del suo partito. Allora sapeva trovar parole cortesi, melliflue per gl'illustri amici; accoglieva con sorrisi d'adesione le profferte di servitù di quanti venissero a raccomandarsi alla sua influenza; e qualche volta mostrava perfino d'udir senza scandalo certi annedoti, certe storielle del gran mondo che alcuno le raccontasse, colorate o velate col vezzo degli spiriti molli ed eleganti. E così poteva, almeno, compassionare a sua posta le miserie umane.
In quella sera, fra il contraccambiarsi di onoranze, di proteste d'umiltà e servitù, fra uno strisciar d'inchini e un curvar delle reni e delle teste, suonavano ancora le inzuccherate melensaggini de' Caloandri di vecchia data, e ne sorridevano alcune dame, non senza aristocratica schifiltà. Ma su que' diversi parlari trionfava l'infranciosato cicalío de' giovani cavalieri, i quali facevan diversi crocchi, o presso gli aperti balconi della sala, o intorno a' tavolieri di giuoco.
E nondimeno, in quella titolata conversazione, si sarebbe potuto indovinare che una misteriosa preoccupazione signoreggiava gli animi di tutti; come le nuvole estive che in un cielo azzurro passano tratto tratto dinanzi al sole. Era facile presumere che una grave e diversa cura tenesse desti e sospettosi l'un dell'altro il padrone e la padrona; poichè marito e moglie, da un capo all'altro della sala, si sogguardavano alla sfuggita, quasi in atto d'ira a lungo simulata e di tacita disfida. Pareva che non pochi de' nobili invitati fossero nel segreto di quell'intestina discordia e pigliassero parte fra i due potenti rivali: e veramente, a ogni poco, la conversazione animata, romorosa, di subito languiva, moriva; e cominciavano qua e là per le sale le confidenze bisbigliate all'orecchio da vicino a vicino, mezzi sogghigni, parole tronche di maraviglia o di riserbo: tutti segni che bastavano a dinotare qualche cosa di grande e d'arcano che s'aspettasse o si temesse. Alla destra del canapè, ritta e altera, sedeva discorrendo colla padrona di casa un'altra dama ossequiata e potente, la contessa Cunegonda, sorella dell'Illustrissimo. Alla dignità della persona, all'abito di seta nera rabescata, al maestoso girar del capo, adorno d'una cresta di merletti, vedevasi in lei l'abitudine del comando, mista a quella specie d'umiltà superba, per la quale aveva saputo farsi quasi centro d'una nuova e segreta inquisizione. E l'Illustrissimo la temeva. Vicino a lei stavano in ampii seggioloni due altre contesse sue amiche, di nobiltà pura come l'oro, e di pietà famosa. Sul capo dell'una torreggiava un turbante di velo cilestrino che proteggeva due vistose ciocche bionde, fatte lavorare espressamente a Parigi; l'abito di mussola di seta che vestiva, non abbastanza accollato, pareva voler permettere di gettar lo sguardo sugli avanzi di tesori che un dì furono il tema di qualche arcadico sonetto, se la dama non si fosse tenuta con molta cura ravviluppata in una gran ciarpa turca che le scendeva fino a' piedi. L'altra contessa portava in vece una cuffia pomposa, somigliante al paniere di Flora; non aveva nè ricci, nè giojelli, non vestiva così sfoggiata come la sua vicina; ma le si vedeva nel languor degli occhi, nel torcere del collo e nella contegnosa postura una certa pretensione, comechè innocente, d'esser creduta giovine ancora: chi solo avesse guardato alle sopracciglia nere e al roseo delle guancie, non alle rughe sottili, nè agli occhi appannati, nè alle labbra a studio ristrette, poteva anche dire che al più toccasse la trentina.
Dietro a queste tre inseparabili potenze tenevano il campo cinque o sei signori, alcuni in piedi, altri seduti, facendo le spese della conversazione: due preti: un consigliere; e un zio materno della padrona di casa, uomo ricchissimo, che sputava tondo e non poteva soffrir contraddizioni: e presso al muro, nella penombra, quali astri minori, due persone di mezza età, che non fiatavan quasi mai se non interrogate, ma, guardando sempre all'ultimo che parlava, sorridevano, chinavano il capo in atto di consentimento.
—Cara signora marchesa: diceva con voce nasale l'incipriato consigliere Zebedia, ripigliando il filo del discorso, che una sdegnosa occhiata, volta a quella parte dal padrone di casa, aveva interrotto: io lo ripeto; se vogliamo riuscire a metter argine al torrente delle novità sovversive, bisogna che uniamo tutte le nostre forze, la volontà, la prudenza, la carità, e anche un po' d'accortezza; poi, con quel potere che naturalmente ci fu dato…. essendo noi in alto, e governando il presente, per meritarci il bene futuro…. dobbiamo adoperare a fondar le basi di quella terrena gerarchia, senza cui il mondo, in men di quarant'anni, andrebbe di nuovo nel caos.
—Eh! queste sono teorie e null'altro, signor mio: gli diè sulla voce con una cotale asprezza il conte Alberigo, zio della padrona. Vi so dir io che il mondo non andrà in polvere così presto; son migliaja d'anni che coloro, i quali la pensano al par di voi, cantano su questa solfa, e il mondo è sempre stato di chi l'ha saputo pigliare. La gente grida a quando a quando, strepita, tambussa, fa come l'asino a cui si tolga il basto, raglia, calcitra, fa il tombolo sull'erba; rimettetegli la cavezza, e torna contento a obbedire. Ma…. tocca a noi, a noi, vi dico, di saper comandare.
—Sì, sì: ripigliò il consigliere col suo tuono flemmatico: ma quando l'ordine sociale va sottosopra, quando si grida così forte per la vil moltitudine… un formicajo che finora tenne sempre il suo nome di plebe, e adesso crede nobilitarsi col nome di popolo…. eh! eh! eh!
—E notate! entrò a dire uno dei due tonsurati; e dalle opinioni sue, che in parte già conosce, non tarderà il lettore a ravvisare il padre Apollinare. Notate bene che, pur troppo, siam noi che li abbiam guasti e sbrigliati costoro. Quel gridar tutto di lumi, lumi, istruzione, incivilimento, umanità, e tant'altri paroloni, ha messo loro il capostorno, per tenermi al paragone, qui, del nostro conte Alberigo….
—Catechismo e abbecedario! aggiunse l'altro reverendo, un pingue e rubicondo canonico, l'erudito dell'illustre comitiva. Catechismo e abbecedario! la dev'esser questa la scienza del popolo, se si vuole che stia cheto al suo luogo. E tocca a noi, che abbiamo studiato, a sminuzzar loro tale dottrina. Il popolo, come lo vogliono questi filosofastri, questi profeti della moderna Babilonia, è un sogno, un'astrazione; bisogna studiarlo nel fatto questo popolo, che un classico, un sapientone del paganesimo chiamò giustamente bestia di molti capi…. Chi ha letto, ne sa.
—Don Fulgenzio mio, rispose il conte Alberigo, è ben vero che una parte della colpa è nostra; noi, in cambio di tenerci nel grado competente, abbiam cominciato a transigere: fatto il primo scalino….
—Certamente, siam andati giù giù, ci siam mischiati con la folla, e ne proviamo gli urtoni: aggiunse il consigliere Zebedia.
—Ma lo scandalo peggiore, si mise dentro allora nel discorso la contessa Cunegonda, la decadenza dell'ordine e delle podestà, e quindi la rovina della morale e il trionfo della miscredenza, furono la vergognosa mescolanza delle classi, la profusione delle ricchezze nel piacer mondano, la corruttela dell'oro sostituita allo spirito vero della carità, alla savia e oculata beneficenza.
Arrischiando cotali querele nel cerchio de' suoi fidi alleati, la vecchia dama guardava all'altro lato della sala, ove, in mezzo a più romorosa conversazione, primeggiava riverito, contornato, adulato, suo fratello l'Illustrissimo. E per comprendere tutta la portata di siffatte allusioni, conveniva essere nella confidenza di certe cose importanti e segrete, venute a galla nell'intimo crocchio della contessa Cunegonda, in quella stessa mattina. S'era parlato, ma sempre in nube e con tutta convenienza, di certi bassi e volgari intrighi, che potevan mettere in compromesso la dignità di qualche famiglia; s'era buccinato di certe indegne persone che, approfittando della debolezza dell'Illustrissimo, adoperavano il suo nome e il suo oro, per occasione di vizii e di vendette.
Anche la consorte dell'Illustrissimo, la quale fino allora, in sì dilicata materia, aveva saputo serbare il più scrupoloso riserbo, apparve in quella mattina, ad ora insolita, nel consiglio della dama cognata. Le due vecchie eccellenze confabularono in un appartato gabinetto, per mezz'ora buona.
E fu, dopo tal colloquio, che la contessa Cunegonda e i suoi inquisitori decisero, senza dimora nè riguardo, di soffocare, finchè c'era possibilità, quegli scandali. Venne in mezzo il padre Apollinare, il braccio destro della contessa, a parlare, in proposito, della famiglia di Damiano, e delle cose ch'eran succedute, aprendo anche un usciolino a' suoi sospetti: ma egli ne sapeva più che non dicesse. E la conchiusione fu che si togliesse da ogni pericolo quella povera giovine, collocandola al più presto in un ritiro: al che però si doveva riuscire con grand'arte e mistero; non volendo la contessa Cunegonda, a rischio d'uno scandalo peggiore, rompere guerra aperta all'Illustrissimo fratello.
Il quale, dal canto suo, bisogna dire che avesse subodorato qualche cosa di questa pia trama; poichè, qualche ora prima, al punto di sedere a tavola, al fido suo Rosso, venuto a fargli non so che misteriosa imbasciata, aveva risposto:—Fa domandare l'Omobono domani mattina; e la vedremo!
Capitolo Ottavo
Mentre così, da una parte del salone, s'agitavano in quel grave consesso opinioni, pregiudizj e piccole ire di congregazione o di partito, con le maestose apparenze d'ordine sociale, di moralità, di guasto popolar costume; dall'altra parte s'eran qua e là formati diversi gruppi, d'uomini e donne eleganti, secondo che volevano simpatia o curiosità, indifferenza o noja.
L'Illustrissimo aveva lasciato il corteggio de' vecchi alla sua dignitosa metà; e passando dall'uno all'altro de' crocchi più allegri, piacevasi di sfiorare, qua e là, le avventure curiose, la cronaca scandalosa della settimana, o le insulse novità della politica. Così, tenendo in credito la sua degnazione e popolarità, sentiva solleticarsi l'amor proprio da' complimenti che non gli mancavano; così spariva visibilmente dalla sua fronte la nube del sospetto e della inquietudine, onde per tutto il durar del pranzo parve offuscato il consueto suo buon umore.
Stava egli ritto in quel momento nel circolo d'alcune dame, le più giovani e le più belle della conversazione: neppur uno degli elegantissimi che loro facevan corona avrebbe osato contrastargli il diritto d'entrar nelle grazie di questa o di quella, con piacevolezze o complimenti a suo grado. Alcuni giovinetti di primo pelo, poco gelosi di lui, discorrevano fra loro a mezza voce, ridendosi forse delle sue pretensioni alle galanterie, e l'un l'altro da capo a piedi pavoneggiandosi con disinvoltura, occhieggiando e scambiando bei motti, nel gergo alla moda.
L'Illustrissimo s'inchinava con molta cortesia sulla spalliera d'un seggiolone, ove stava più abbandonata che adagiata una dama forestiera, donna sui trent'anni, bellezza famosa, la quale sebben cominciasse ad appassire, pur non aveva scordata la magia delle occhiate or languide or truci: un braccio ignudo e ben tornito, e il vezzo con cui, agitando il miniato ventaglio, concedeva all'aria commossa di scompor lievemente i veli del seno, chiamavanle intorno, come farfalle inquiete, i damerini più svenevoli e più azzimati. Ma l'Illustrissimo, antico buongustaio di bellezze, avevale posta tutta l'attenzione, e n'accoglieva essa l'omaggio con singolar compiacenza; intanto che tre o quattro altre signore, stelle di minor chiarezza, affettavano di non volgersi neppure verso la fortunata che loro usurpava in quella sera i primi onori. Pure non mancavano anche a quelle, tra i cavalieri di mezz'età, ammiratori più modesti; i quali co' frizzi d'uno spirito un po' stantìo chiamavano sulle labbra di quelle corrucciate un sorriso che presto fuggiva. Tra que' giovani signori del bel mondo notavansi alcune nostre conoscenze: il cavalier Lodovico, assiduo presso una signora vezzosa, alquanto attempatella, a cui parlava spesso misteriosamente; il conte Achille, che s'era discostato a cominciare una partita d'ecarté colla giovine sposa dell'amico suo; e infine il marchesino Roberto, il quale, come fa la cingallegra, balzellando leggiadramente dall'uno all'altro gruppo, da questa a quell'altra damina, diceva le più scempie cose del mondo, rideva, e faceva ridere.
Nel vano d'una finestra, due sconosciuti a' quali nessuno poneva mente, forse perchè, in quella vicinanza di purissimi sangui, nè l'uno nè l'altro aveva tampoco la miseria d'un don, se ne stavano a discorrere alla buona, osservando le variate scene di quella illustre commedia. Il più giovine, trasandato anzi che no del vestire, e con una lunga capigliatura cadente, non poteva essere che un letterato od un artista; l'altro, severo in volto, abbottonato l'abito, e con una tabacchiera d'oro in mano, non avresti fallato a dirlo un medico. Come poi fosse loro piovuta la fortuna d'un invito in quel giorno, nol sapevano neppur essi argomentare. Fatto sta, che trovandosi impacciati in mezzo a quelle etichette, e fuor di luogo, come in troppo rarefatta atmosfera, s'erano messi in disparte, ciarlando sotto voce di tutto quel che vedevano, intanto che venisse il buon punto d'imboccar la porta inosservati. E bisogna dir che ne sapessero abbastanza di tutte quelle grandezze, comechè non morisse loro la lingua in bocca.
—Ve l'ho detto io, che il nostro antìtrione è sempre quello: diceva il più giovine: il prurito de' suoi vecchi lo pizzica ancora…. Vedetelo, che fa il cicisbeo a quella novità d'oltremonti.
—Avete ragione; maledette queste pavoncelle forestiere, che ci portano le loro smorfie e il loro gergo!
—Eh! che volete? son passatempi…. e poi questa non è che opera buffa; il serio è dietro le scene.
—Cioè?
—Se fosse tutto qui, non ci sarebbe che da ridere; qui si scambiano cerimonie, si va in visibilio, l'un liscia l'altro…. roba falsa, princisbecche! Vorrei ben legger io dentro al picciol cuore di tutti questi grandi.
—Ma voi m'abborracciate della morale….
—Perdonate, sapete, se pago di questa moneta i favori dell'Illustrissimo; ma in capo mi frullano certe fantasie così nere, che temo non mi faccia mal pro il suo gran pranzo, a cui son venuto in mal'ora.
—Confesso, che ne abbiam sentito di belle; cose, cose…. che fanno angoscia allo stomaco…. scusatemi un po'….
—Lo dite dunque anche voi, dottore?
—Ma sì…. Date orecchio a quello sbarbatello che si dondola sull'anche, lì presso al paravento, dinanzi a quella dama dal color ch'essi dicono sentimentale, e che noi diciamo itterico.
—Di che cosa parlano?
—Imparate, se volete far breccia…. Li sentite? Lei ha detto:—Marchesino, c'est une mystification! E lui:—Pas vrai!… il filo de' diamanti che ha in fronte la famosa contessa, per me non vale il nastro che allaccia il vostro bel piedino!… Che, vi par della frase?
—Oro colato; non si può dir meglio.
—Lo so ben io, che a star qui nell'ombra, come facciam noi, c'è da goder mezzo mondo.
—Se ci sentissero!
—Pur troppo, a venire in certi siti, bisogna lasciar la carità del prossimo alla porta.
—Bella scusa!—E offerse al suo giovine vicino una presa di tabacco.
—Grazie no, dottore. Ma ditemi, chi sono quelle sfingi, che là, intorno al canapè, fanno tanta corte alla padrona di casa?
—Oh! quelli sì lo sanno il fatto loro. È la solita comitiva della sagrestia: là si fruga, là si giudica e si condanna; e quelle vecchie han le braccia lunghe, sapete! Però, tutto quel che fanno è per fin di bene; e prima di tutto, per fin di bene, vogliono comandar loro. Anche questa, giovinotto, è strada buona per far fortuna: pigliate l'imbeccata da una di quelle grinze contesse, e siete sicuro di toccare il segno.
—Obbligatissimo; spero proprio di non averne bisogno.
—Ah! ah!… Vedete, quest'oggi, io l'ho capita, c'è delle nuvole per aria. In tutta sera, l'Illustrissimo non ha mai aperto bocca nè colla signora moglie, nè colla contessa sorella. Ne' dì passati, a dirvela in confessione, s'è parlato di certe storie, cosette un po' losche per verità, e pare che l'Illustrissimo c'entri anche lui in qualche modo… S'è parlato…. ma, zitto! per amor del cielo! d'una giovine, alla quale si voleva…. far del bene…. mi capite?… e d'un suo fratello, o amante che sia, a cui si pensò di dare, così alla lesta, una buona bastonatura, per commissione….
—È impossibile! sarebbe una cosa infame, troppo infame!
—Forse non sarà vero; io non ve la do come cosa storica; ma pure, non so che di simile ci dev'essere.
—Permettetemi, dottore, ch'io non vi creda. E poi, cos'ha a fare ciò che mi dite, coll'aria che regna qui stasera, come di due campi nemici?
—Canzonate?… Mettete un po' che sia; e pensate voi che guai, che subisso n'avran fatto nel loro crocchio le cuffie e i parrucchini! Anzi, vi dirò, appunto l'aria che spira mi fa pensare ci sia del positivo.
—Siete pur maliziosi voi altri dottori!
—Eh! che volete? voi li scrivete i romanzi; noi ne siamo testimonii, e talvolta anche parte.
—Basta, voglio saperne di più.
—Abbiate però giudizio, se vi piace di godere qualch'altra volta le grazie dell'Illustrissimo.
—No, no; qui mi par di soffocare; non è luogo per me: può stare, ma non ci vengo altro in queste sale. Buon per noi che, tra i nostri signori, per dir vero, ce n'è pochi di simile stoffa; altrimenti, s'avrebbe ragion di dire….
—Eh! voi avete ancora troppa poesia in mente. Fate com'io fo; ridete in un cantuccio, e con una scrollatina di capo, dite: Fralezze umane!
I due sconosciuti passarono dietro le spalle d'alcuni servitori, sopravvenuti in quel punto ad apportar sorbetti e rinfreschi; infilarono le porte del sontuoso appartamento, e uscirono umili e pedestri, insalutati perfino dal guardaportone.
La conversazione intanto si faceva più animata in qualche gruppo; e se ne togli l'immobile circolo della padrona di casa, tutti gli altri, cavalieri e dame s'aggiravano di su, di giù, contraccambiavansi cortesie e saluti, parlavano di musica, di mode, di corsi e d'altre nullaggini. L'Illustrissimo non aveva ancora finito di chiacchierar colla contessa forestiera; ma dalle gentilezze di prima il colloquio piegava a non so qual vaga e indolente querela sul tedioso vivere in una città che non sia Londra, Parigi, o Pietroburgo. E vedevasi che l'Illustrissimo voleva sfogare un resto del suo mal umore; poichè, interrompendo la dama in mezzo a non so qual complimento:—Sono illusioni: le diceva: Milano è pettegola, come la più piccola città di provincia. Credete che qui si possa dire o far cosa alcuna, senza che tutti lo sappiano e ciarlino a loro posta?… Io per me sono sempre stato superiore a tali miserie…. ma intanto, le convenienze, i riguardi, l'opinione, non ci lasciano libertà nè pace.
La dama faceva le maraviglie, con un accento che aveva più del tartaro che del francese; e l'Illustrissimo seguiva:
—Così è, cara contessa! delle donne come voi ce n'è poche…. Di rado lo spirito e il buon gusto vanno di conserva colla bellezza; e le nostre signore…. Oh! non mi fate dir di più, che ne conterei di stupende.
Appunto allora, una sonora risata, di quelle che di rado turbavano gli echi delle magnifiche sale, interruppe le varie conversazioni; e tutti gli occhi si volsero al crocchio de' giovinotti più azzimati, i quali presso all'aperta balconata s'erano stretti ad udire una curiosa storiella che il marchesino Roberto finiva allora di raccontare:
—È proprio così, come ve l'ho detta: continuava nel suo falsetto l'imberbe garzone, racconciandosi intanto la lucida chioma arricciata e il nodo della cravatta:—E del povero Martigny non sapete nulla?… Quel diavolo incarnato ne ha fatto una delle sue, e non so come finirà. È stato un affar grosso e serio, ve lo dico io, una mezza rivoluzione; gli serrava addosso un centinajo d'artigiani e d'altri imbecilli…. e il maestro tira di qua…. para di là…. gira, pesta e tempesta…. in men che nol dico, ne mise alla ragione, cioè per terra, un venti almeno; e chi sa cosa avrebbe fatto degli altri, se non capitava sul luogo un fulmine di soldati e di gendarmi, che in un momento nettarono il campo di tutta la canaglia, e condussero il disgraziato Martigny in prigione.
A questa grave notizia, che il marchesino fece seguire ad una scandalosa avventura narrata dapprima, onde s'era desta la prepotente ilarità di que' giovani signori, tutti trasecolarono; alcuni si mostrarono scontenti; altri dubitarono, altri dissero che non ne credevano niente. Solo due persone non fecero motto, l'Illustrissimo e il cavalier Lodovico, i quali forse ne sapevano più degli altri. Ma la nuova di quell'accidente non era tale da occupar troppo a lungo la lieta adunanza; se ne rise ancora un poco, e la cosa finì.
A sera avanzata, signori e dame tornarono qua e là a' tavolieri di giuoco; e passavano dalla sala di conversazione in quella del bigliardo, e nelle altre splendenti stanze dell'appartamento. Più di una giovine marchesina, più d'una schizzinosa contessa, ammansandosi a poco a poco, degnaronsi di dare orecchio alle amabili confidenze di questo o di quello: alcuna dilungandosi di sala in sala, a braccio del più fortunato de' figurini alla moda, s'appartò non veduta sur un terrazzo tutto adorno di fiori esalanti soavissimo profumo; alcun altra, mollemente adagiata sovra morbido sofà, in solitario gabinetto rischiarato dalla timida luce d'una lampana d'alabastro, ascoltò per la prima volta da uno de' suoi adoratori misteriose confidenze, tutte scintillanti di motti francesi.
A quell'ora, la contessa Cunegonda era già partita; e appena partita lei, anche la padrona di casa annunziò ad alcune delle dame che la circondavano come, per la sua solita emicrania, non potesse trattenersi di più: e rientrava nel suo appartamento. Questo fu come il segnale dello scioglimento del consiglio per tutti i suoi fedeli; disparvero l'un dopo l'altro; ma non senza fare all'Illustrissimo profondi inchini, augurii e saluti. Egli, che per dispetto aveva affettato di non accorgersi neppure che sua moglie avesse lasciata la sala, ringraziò con molta freddezza que' signori, e a più d'uno non rispose che con un leggiero chinar del capo.
Capitolo Nono
E la Stella?—La Stella intanto, a cui nulla era noto della sorda guerra che le due misteriose avverse potenze andavan facendo tra loro, quasi per disputarsela come una preda, aveva passato que' giorni in una muta e penosa incertezza.
Dopo la disgrazia succeduta a Damiano, la madre e la figliuola vedevansi innanzi un avvenire tristissimo, muto e senza speranza. Già da varie settimane si trovavan nella solitudine e nelle lagrime: continuavano a lavorare per vivere di giorno in giorno; ma il lavoro era scarso, mal pagato; mancava colui che con tutto il suo coraggio le sostenne fino allora, colui che coll'animoso sagrificio di sè medesimo seppe far loro dimenticare che il tempo della povertà potesse venire. Que' tali, che da prima si lasciarono vedere a ogni poco, spacciando promesse di favori e di protezioni, non s'erano più veduti; le due abbandonate donne, affatto sole, già non potevano pensare al domani senza spavento.
La Teresa, e per l'età e per le molte angustie patite, si sentiva venir meno la forza di dì in dì; il continuo lavorare le struggeva la fiacca salute; e già più d'una volta, al venir della tarda sera, accorgevasi di non esser riuscita a guadagnare quanto bastasse per il pane della giornata. La povera donna non diceva nulla; ma la Stella s'era bene accorta che la vista della mamma s'affievoliva; che ormai, nel cucir di bianco, essa più non sapeva infilar la cruna dell'ago; cosicchè s'era ridotta, la più gran parte del dì, a lavorar di maglie, rattoppando le calze grossolane de' vicini poveri com'essa.
Quella buona figliuola, comechè si sentisse la morte nel cuore, e non rare volte, quando stava al telajo, le cadessero lagrime mute sui graziosi ricami, faceva di tutto per supplire col lavoro più lesto, più attento e non intermesso, a ciò che la madre non poteva. Nondimeno era ancor troppo poco, per far loro sopportare con un po' di fiducia e di pace que' miserabili giorni. Quante volte ella, senza ristar dalla fatica, sollevava gli occhi al cielo con un sospiro di preghiera! Quante volte, nel mezzo d'un bel dì sereno, udendo la mamma rammaricarsi che facesse nuvolo e ci si vedesse appena, la fanciulla soffocava lo schianto del cuore, e mentiva, dicendo ch'essa pure distingueva a fatica i minuti disegni del ricamo.
Sulle prime, la Teresa usciva spesso a dire che quelle brave persone a cui s'era già tante volte raccomandata si sarebbero un dì o l'altro ricordate di lei; ma la Stella, che mai non aveva potuto creder sincere le belle parole di que' protettori, non sapeva persuader sè stessa che n'avesse a venir bene. Quando poi i giorni passarono, e si portarono via con sè quella tenue speranza; quando, dopo lunghe settimane, non riuscirono a saper nulla del destino di Damiano, e non videro comparir più nè Giovanni, nè il signor Lorenzo, i quali avevan pure data parola di far tutto il possibile per quel povero innocente; allora le due abbandonate conobbero che oramai non avevano che mettersi nelle mani della Provvidenza.
Esse non sapevano che nè l'onesto veterano, nè Giovanni il lavorante non eransi dimenticati del perseguitato Damiano; non sapevano che, se loro mancò il cuore di tornar su per quelle scale, non fu per altro se non perchè, con tutta la buona volontà, non vennero a capo, in tutto quel tempo, di saper nulla di consolante. Nè, d'altra parte esse avrebber sentito, ne' loro semplici cuori, nè imaginato come quell'esser così dimenticate, nel momento più doloroso, dalle potenti persone abbastanza informate della loro disgrazia, dipendeva forse da un calcolato concerto, per fini non facili a scoprirsi.
Così passavano, d'una in altra angoscia, d'uno in altro spavento, i giorni e i mesi. La Stella tremava per sua madre; ogni dì più, era stretta a convincersi ch'essa non poteva durare sotto a quel travaglio della povertà; e parevale, oltre la crescente debolezza degli occhi, covasse qualche male, che l'avrebbe da un momento all'altro ridotta nel letto. Celso venne ancora qualche rara volta, appena potè fuggire all'inasprita vigilanza del suo superiore; ma non venne che per crescere il loro affanno, piangendo anche lui, e non trovando nessuna via per fare ciò che pur sentiva essergli sacro dovere.
La Stella, in que' due mesi, facendo quasi miracoli, poteva giungere in tempo a pensare a tutto; e a furia di crucci, di stenti e di pietosi inganni, era riuscita fino allora a tener nascosta alla madre la mancanza delle cose più necessarie. Ma la povertà era in casa.
Già da parecchi dì non si vedeva più fuoco sul loro camminetto; spento il fornello, per mancanza di carbone, e perchè la scarsa provvigione di legne, fatta da Damiano alcuni mesi innanzi, era finita. La Stella, che faticava dì e notte, quando non le mancasse il lavoro, tornava quasi ogni mattina da due o tre onesti mercanti, sole pratiche a loro rimaste, cercando colle lagrime agli occhi qualche anticipazione sul prezzo de' ricami che aveva ancora in mano; ma non sempre poteva raccorre più di quanto bastasse per non morire quel giorno. A tarda mattina, un po' di pane raffermo e mezza chicchera di latte bastavano per la sua colezione; ma voleva che la mamma mangiasse qualcosa di caldo; e lesta scendeva ella stessa alla più vicina osteria, per farle bagnare col brodo appena fatto una piccola zuppa. Al cader del sole, le poche monete avanzate, eranle appena bastanti per comperarsi in quella osteria una scodella di minestra allungata, che spartivano fra tutte e due.
Il piangere poi che faceva la povera fanciulla, quando, di notte, si trovava sola, e non sapeva più pregare, e faticava a prender sonno nel suo umile lettuccio, il piangere e il pensare a quel ch'era, a quel che poteva essere, ella sola lo seppe.
Ma pur qualche volta consolavasi un poco, allorchè la mamma, che non s'era avvista ancora di tutta la verità, dicevale d'alcuna cosa che desiderasse avere, ed ella riusciva a contentarla. Spesso bisognava però che nascondesse con piccole menzogne quello che in casa non poteva farsi come di consueto: così, quando non ci furon più legne, le aveva detto come stimasse più comodo farsi dar la minestra dall'oste, fintanto che non tornasse Damiano, per aver libero tutto il giorno al lavoro. E la mamma non vedeva la Stella arrossire; non vedeva come in que' momenti, col darsi attorno a qualche cura, ella studiasse di nascondere che la sua voce tremava.
Intanto avvicinavasi il giorno d'un santo, che fa terrore a tanta povera gente, il giorno del san Michele. Sapeva bene la Stella come Damiano, di poco passata la Pasqua, avesse pensato a pagare al signor Pietro la metà della pigione di quell'anno: ma tenevasi pur certa che se prima del dì fatale, non fosse contato il restante, quest'uomo dal cuor di sasso, dopo essersi ricattato su quella po' di robicciuola che loro restava, le avrebbe mandate con Dio. Ma dove trovarle settantacinque lire? chè manco non ci voleva. E chi si sarebbe fidato d'imprestargliele? e come restituirle, se la disgrazia non si fosse stancata di star con loro? Lasciando poi, che alla modesta fanciulla ripugnava l'andarne qua e là a piangere, a raccontare la sua miseria; e che non voleva dir nulla alla mamma, per non vederla patire di più. Pensò che poteva ricorrere al signor Lorenzo: quel brav'uomo, l'avrebbe, se non altro, ajutata con un buon parere; si sarebbe dato attorno anche lui. Ma egli da un pezzo più non era tornato; onde la poveretta si mise in capo che di loro non volesse proprio saperne più.
Una mattina però si fe' cuore, e senza dir nulla alla mamma, andò ella stessa fino a casa sua, in via di san Simone. Ma non lo trovò: la porta era chiusa; e un vecchio calzolajo che abitava una stanza vicina, sullo stesso pianerottolo, le raccontò che da un bel pezzo il signor cavaliere sbucava col sole, e non si lasciava più trovar da nessuno.
Tornò a casa, non parlò; e venuto poi il mezzodì, disse alla mamma che doveva uscir di nuovo per certo lavoro a lei promesso; e pigliato di nascosto un picciol rinvolto, che già aveva preparato fin dalla mattina, se ne andò tutta tremante. Ella camminava rapida e confusa di via in via, quasi che temesse di esser veduta; le sembrava come se gli occhi di tutti la spiassero, e come se andasse a far del male. Schivando i luoghi più frequentati, sboccò nella via de' Tre Monasteri, ed entrò frettolosa nella porta del Monte di pietà.
È in quella casa, che va a finir tutto ciò che nel tugurio e nella soffitta è insegna di ricchezza, è reliquia d'agio o di comodità; è là che il povero si distacca da qualche preziosa memoria de' suoi vecchi, il miserabile impiegato dall'ultima sua posata d'argento, la vedova dell'operaio dal suo anello di sposa, dal crocifisso che pendeva al suo letto. Quanti misteri e quanti dolori potrebbero esser narrati da chi sapesse che cosa voglion dire tutti que' depositi della sciagura, così molteplici, così diversi, che di continuo vanno e vengono, e formano come gli anelli d'una catena che lega il povero alla sua povertà!… Ma quella casa è un luogo benedetto; e uomini santi furono i primi che già da secoli cominciarono a spartire, nelle mani di chi non ha pane, un tesoro a tempo raccolto dalla misericordia.
La Stella non era mai entrata colà, e non sapeva trovar parola per dire a che fosse venuta; ma una vecchia servente del luogo, nella quale, benchè la fosse incallita, non era del tutto morta la compassione, vide l'imbarazzo della poveretta; e facendosela venir dietro nelle stanze d'ufficio destinate a' depositi, pigliò dalle sue mani quel rinvolto, lo sciolse, e vi trovò una piletta d'argento, una grossa fibbia, d'argento anche questa, che pareva aver servito a una cintura militare, e una collanetta di belle granate col fermaglio d'oro: era tutto quanto della passata modesta fortuna restava alla famiglia. Quella collana poi l'aveva, per sua memoria, lasciata alla Stella una buona signora, morta da parecchi anni; la quale, allorchè abitavano in Quadronno, essendo priora della dottrina in san Celso, volle accompagnar la fanciulletta alla prima comunione. In pochi minuti fu stimato quel piccol deposito; e fatte alcune annotazioni sui registri dell'ufficio, quel signor impiegato mise in mano della Stella un biglietto di pegno, le contò ottanta lire di Milano; poi si voltò stizzito a un gruppo di donne, che s'affollavano colle loro miserie intorno al suo banco, e:—Una alla volta! disse: non è il pozzo di san Patrizio, questo!
Il pensiero dell'onor di suo padre e di Damiano, e l'affetto che dona coraggio e fede, sostennero la fanciulla in quel doloroso passo. Ritornò verso casa sua, più quieta, più franca, coll'interna persuasione d'aver compito un dovere: entrata in una chiesa, ripensò alla buona signora che in un dì più bello le aveva donata quella collanetta, e pregò per lei come per isdebitarsi d'essersi così divisa da quella memoria cara. Poi, ebbe coraggio, prima di svoltare nella piazza Fontana, di salire ella stessa al bugigattolo, ove si rimpiattava fra un monte di stracci e ferrerie, il signor Pietro, sottaffittatore del vasto casamento. Quell'avaro rantolone la ricevè con aria nè corrente nè brusca, non sapendo se venisse per pagare, o per cantar la solita canzone della disgrazia; ma si fe' netto in ciera, al toccar delle monete, che la fanciulla, con qualche parola di scusa, aveva posto sulla tavola. Alzò gli occhi, guardolla fisso, con una certa smorfia maligna, quasi che volesse domandare donde le fosse fioccato quel ben di Dio. Per buona ventura, ella non comprese.
Rientrata in casa, sentivasi come le fosse stato levato un peso dal cuore, e correva lieta alla mamma, per chiederle perdono di quel suo tardare, quando il suon d'una voce lenta e grave le venne all'orecchio. Si fece innanzi, e nella persona che, senza accorgersi della sua venuta, continuava a parlare autorevolmente alla mamma, essa riconobbe il Padre Apollinare.
Il Padre, dicendo aver saputo da poco tempo le strettezze della famiglia, veniva a proporre alla Teresa lo spediente di collocar la figliuola in un ritiro, dove non le sarebbe mancato nulla di quello ch'è necessario, diceva, per questa vita e per l'altra. Fu un colpo per la povera vedova quest'annunzio; ma non sapeva trovar ragioni per combattere que' solenni argomenti.
Appena s'accorse della fanciulla, il Padre la fece sedere, parlò a lungo anche a lei, senza voler che gli rispondesse; le fece comparir come una grazia quella ventura che le si offeriva così a proposito, le disse che a sua madre non sarebbe mancato più nulla, poichè s'ella acconsentisse ad entrare nel Ritiro, non doveva venir meno anche alla madre sua, la protezione d'alti personaggi, che le provvederebbero di quanto fosse di mestieri; le diede a capire, in aria di mistero, che dalla sua sommissione sarebbe venuto così il maggior bene per la famiglia tutta. E conchiudendo riflettesse seriamente a quel tanto che, in tutta coscienza, le aveva significato, si levò, lasciando le due donne confuse e senza fiato. Ma prima d'uscire, si volse indietro a promettere che sarebbe tornato la mattina appresso per sentire una decisione.
Quella sera, nell'intima consueta società della contessa Cunegonda, si menò non poco trionfo di così bella vittoria, e ci fu chi storpiò in proposito il patetico paragone della pecorella smarrita.
Stella, alla domane, levatasi coll'alba, aperse la sua finestra. L'aria freschissima, il sereno e la prima luce che irradiava la statua della Madonna del Duomo, la consolarono un poco dagli ardenti e nuovi pensieri che non le avevano lasciato gustare sola un'ora di sonno in tutta notte. Guardava malinconica la luce maestosamente riposarsi su quelle cento candide guglie erette al cielo, che da tant'anni vedeva ogni mattina indorate dal nascente sole, così leggiere, così trasparenti, che le imaginava scolpite dalla mano degli angioli; guardava le case, le finestre più alte che l'una dopo l'altra s'aprivano; e la sottoposta via, e la vicina piazza Fontana, ove compariva qualche lesto artigiano, o qualche femminetta del popolo, o la carriuola del lattivendolo. E pensava che il dì appresso non avrebbe respirato così sola e in libertà quell'aria che veniva dalla Brianza; pensava che non avrebbe veduto forse mai più que' tetti, quelle case, quella parte del cielo.
Tornò nell'angolo della stanza ov'era il suo letto; e pian piano, senza farsi sentire, distaccò dalla parete, ov'era appesa, la gabbia del suo canarino, e la posò sul davanzale. L'uccellino pigolava lietamente, e saltellando sugli staggi della gabbia, batteva le alette e pareva chiamasse col primo gorgheggio la sua buona amica. Stella gli sorrise, lo chiamò essa pure coll'usato vezzo, e dopo aver guardato svolazzar su e giù quel solo compagno d'ogni sua gioja e dolore, che le tornava sovente alla memoria il povero Rocco, stese la mano a un tratto, e come sorpresa da un pensiero, aperse lo sportellino della gabbia. Il canarino balzò fuori della piccola prigione, andò a posarsi sulla mano, e poi sur una spalla della giovinetta; di là spiccò un leggier volo, gorgheggiando più arguto, ma ritornò subito sul parapetto a cui Stella s'era appoggiata; fece per due o tre volte lo stesso, rivenne un momento sulla spalla di lei, quasi volesse renderle grazie della libertà, e salutarla ancora; alla fine prese il volo e fuggì via per l'aperto cielo. Quando Stella nol vide più, nè più intese il sottile suo canto, si rasciugò una lagrima; e partita dalla finestra, la socchiuse, perchè il sole, che alzandosi a grado a grado cominciava a penetrar nella stanza, non avesse a turbar troppo presto il sonno della madre entro l'alcova.
Preparò, come l'altre mattine, la colezione per la mamma e per sè; e andava pensando che forse da un dì all'altro, lasciato in libertà e conosciuto innocente, sarebbe tornato a casa il fratel suo; ma ella non le avrebbe posto più quella tazza e quel pane sul suo tavolo, presso il balcone. Mezz'ora di poi, Stella avea disfatto il letticciuolo in cui non doveva più dormire; e raccolte poche robe da portar con sè, e le piccole memorie della sua fanciullezza, cose che solo avevan pregio per lei, andò incontro alla mamma, colla faccia bella e serena come all'usato.
Indi a poco, s'aperse la porta, e il signor Lorenzo più rannuvolato, più sbattuto del solito, dopo tanto tempo, si lasciò vedere.
—Sei stata tu, la mia figliuola, cominciò a dire, che jer mattina sei venuta a trovare il vecchio lupo, a san Simone?… Non diventar rossa, che non è il caso. Vedi, se io t'ho indovinata! Quel mio vicino di casa, Gaspare il calzolajo, al quale tu hai parlato, diceva che l'era una bella tosa, così e così, con un far buono e la faccia un po' malinconica… È lei, senz'altro: ho detto io: ma cosa vorrà mai?… Vecchio maledetto ch'io sono! nè ho più tempo a mutar nè il pelo nè il vizio… e se mi va a traverso una parola, se un cristiano non fa a mio modo…. non son più io…. gli volto l'occhio; e lì, duro, incocciato, come un marmocchione…. Ma con te no, la mia Stella! con te, che sei la figliuola del mio Vittore, no!… Dì su, dunque; ti bisogna qualche cosa dal tuo compare? Dì su…
La Stella tremava; ella non s'era spiegata con sua madre; e, ben che molto avesse nel cuore, non sapeva che rispondere a quella interrogazione brusca insieme e affettuosa. Se non che il signor Lorenzo s'accorse che una lagrima cadeva dagli occhi della fanciulla: fece due passi innanzi, guardò lei, guardò la signora Teresa; e pensato un poco:—Che c'è di nuovo? ripigliò: nè tu parli, nè parlate voi…. Oh! la vedo, c'è magagna sotto. E cosa v'ho fatto io, perchè non vogliate più nulla da me?…. Quanto a voi, signora Teresa, lo so bene, sono i vostri preti che v'han messo su contro di me; ma io, tanto e tanto, voglio esser buono a qualcosa ancora…. Io penso a Vittore…. e non sono un voltafaccia io….
—Scusate, signor Lorenzo: disse finalmente la vedova: mi dispiace proprio che vi siate incomodato…. ma avete torto di pensar male di noi. Certo che ci sono…. delle brave persone che s'interessano a favore di me…. e della mia povera figliuola…. Anzi, vi dirò….
—Cosa serve, mamma?… timida la interruppe la Stella.
—Parlate chiaro una volta! disse il vecchio soldato, inquietandosi.
Già n'avrete fatta un'altra delle vostre….
—Come sarebbe a dire, signor Lorenzo? quasi che il trovar chi pensa alla mia creatura, e il poterla allogare in una casa benedetta non sia una grazia singolare, una fortuna del cielo!…
—Se l'ho detto io! scappò fuori l'antico cisalpino, perdendo la flemma. Ecco, cos'hai fatto, o Vittore, a pigliarti una beata!… Vedi, dove vanno a finire i tuoi figliuoli. E io, vecchio mulo, che m'ostinava a volerne cavar qualcosa…. Già, l'ho capita da un pezzo! la casa del mio compagno d'armi non è più la mia casa. Bisogna che me ne vada via, com'era venuto, senza la medicina d'un po' d'amore…. Pazienza! morirò solo, e non importerà a nessuno che io non ci sia più…. Ma tu Stella, ricordati! se i tuoi protettori, un dì o l'altro, non facessero più nulla per te, il fratello di tuo padre venderà la sua croce d'onore, per darti un pezzo di pane.
E senz'aspettare quel che fossero per dirgli le donne, se n'andò in furia fino alla sua dimora, e stette chiuso per tutto quel giorno. Nessuno de' molti casi della sua vita aveva lasciata, come quello, un'amarezza così fiera nel suo cuore.
Partito lui, la Stella, senza parlare, gettava le braccia al collo di sua madre, prorompendo in un largo pianto.
Sul mezzodì, un modesto calesse coperto si fermò alla porta della casa. Poco stante, la Teresa, non ancora rinvenuta dallo sgomento in che l'aveva messa la brusca visita del veterano, vide entrare una dama, sul tramonto dell'età, dal viso secco e composto, colla cuffia bianca a bendoni, nera la veste, nero lo scialle. Le veniva alle spalle un prete dal collo torto e dalla logora zimarra; il quale, a ogni parola di lei, abbassava il capo; col forzato sorriso di chi assente per riverenza o paura. Quella dama era, nientemeno, la Contessa Cunegonda: nella sua qualità di dama protettrice del Ritiro, compariva, spalleggiata da don Aquilino, a lei mandato dalla cognata espressamente per compire quell'opera tra loro così caritatevolmente deliberata.
Don Aquilino volle dir qualche parola alla giovine, che umile s'era fatta innanzi, per baciar la mano della dama; ma la pia massima che stava per metter fuori finì in una muta contorsione di labbra. La contessa, salutando con degnevol cenno di mano la vecchia Teresa, la quale confondevasi a cercar ringraziamenti e scuse, trasse dolcemente a sè la fanciulla, e accarezzandole i neri e lisci capelli, le disse, con affettata unzione:—Venite, brava giovine! facciam di buon cuore il sacrificio della volontà ribelle… prepariamoci all'umiltà, alla cieca ubbidienza…. rispondiamo alla chiamata… e allora vinceremo i tre nemici dell'anima nostra, il mondo, il demonio, la carne.
La Stella commossa, non da queste parole, ma dalla forza degli affetti che l'avevano combattuta tutti que' giorni, volse indietro il capo, per non lasciar vedere le lagrime; mentre la Teresa, edificata dalle esortazioni della dama protettrice, giungeva le mani in atto di ammirazione compunta; e il restío cappellano, che non capiva del tutto quel metter quasi il coltello alla gola per far il bene, comechè non avesse l'animo di fiatar contro la potente volontà di chi lo mandava, a ogni poco traeva la tabacchiera dal taschino del giustacuore, e colle grosse prese del rapè cercava dissipare non so qual nebbietta dalla coscienza.
Dopo altre poche e serie parole, la Stella che avrebbe voluto ancora baciare e ribaciar la mamma, fece forza a sè stessa, e s'accontentò di stenderle la mano; poi subito, pigliando ella stessa il suo fardelletto, disse alla dama ch'era pronta. Un servo, che di fuori aspettava, accorse a levarle di mano l'involto; e don Aquilino, fino allora mutolo testimonio, fattosi gran coraggio, credè bene di cucir insieme questo magro conforto:—State di buon animo, figliuola! portate volentieri anche voi la vostra croce…. e poi, non andate già sotto clausura…. e se proprio non aveste vocazione….
Ma la dama, vibrandogli un'occhiata di fuoco, gli tagliò la parola:—Come parla, signor abate? le pare? mettere in dubbio il buon proposito di questa brava giovine?…. Il cielo glielo perdoni!
Il prete non ardì aggiunger sillaba; e facendo spalla alla porta strisciò una riverenza, e lasciò che la contessa e la giovine gli passassero innanzi. Alla Teresa mancò la forza di accompagnarle. Quel momento le riusciva troppo doloroso; e per la prima volta, l'idea di rimaner sola, di non poter forse veder più la figliuola le parve insopportabile.
Sentì lo strepito del calesse che s'allontanava; e giunte le mani in atto di preghiera, sollevò gli occhi al cielo. Poi li girò intorno, ma le pareva di nulla vedere; quasi tentone, si trasse fino all'angolo ov'era il letticciuolo: lo trovò disfatto; cercò coll'annebbiato sguardo la porta, per la quale era uscita la Stella; ma una tetra oscurità le copriva ogni cosa, come fosse già venuta la notte. Per la prima volta, un orribile dubbio le sorse in mente, il dubbio d'esser cieca per sempre. Si mise a sedere, e non potè piangere.
Le due povere stanze eran mute, ed essa era sola.
Capitolo Decimo
Intanto il calesse della dama protettrice avanzavasi, al pesante trotto di due cavalli svizzeri, verso il Ritiro. Stella, seduta rimpetto alla contessa, teneva chino il pallido viso e taceva; e questa, ritta sulla dignitosa persona, le volgeva a quando a quando una compassata parola che credeva di conforto. Ma il prete, rincantucciato a fianco della dama, nulla trovando a dire, girava gli occhi ora torbidi ora pietosi dall'una all'altra, e osava appena pensare nel fondo del cuore come il voler per forza che gli altri a questo mondo facciano il bene a nostro modo, non è quel fior di carità ch'essi pretendono. Attraversata gran parte della città, il calesse svoltò in una via lunga, deserta, fiancheggiata d'un'alta e tetra muraglia: indi fermossi all'ingresso del Ritiro. Don Aquilino smontò il primo, ma col piede quasi non sapeva trovare il predellino; si volse per dar mano alla giovine, che sebbene nel tragitto non avesse mai aperto bocca, pure, all'aspetto, pareva divenuta più sicura e tranquilla. La dama, nello scendere, si chinò all'orecchio del prete per susurrargli qualche cosa ch'egli appena comprese, e a cui rispose con un umile chinar del capo. Entrati nel vestibolo, don Aquilino tirò il cordone; e al primo toccar del campanello, la porta tarlata e massiccia del Ritiro s'aperse, senza che si fosse veduto alcuno. S'avanzarono per l'andito bujo, intanto che la porta, come s'era aperta, si richiuse dietro di loro. La dama si volse con piglio più dolce alla Stella, e prendendola per mano la guidò sotto un porticato basso, chiuso all'ingiro da vetriere cadenti, dalle quali penetrava una luce verdognola, opaca: di là passavano in un camerone terreno, deserto e fatto più tetro da vecchi quadri, bucherati e grommosi che pendevano dalle umide pareti. Il silenzio, l'aria morta e il freddo sepolcrale di quel luogo, destarono un vago terrore nella giovinetta, che, riguardando timidamente la dama:—Oh Signore! le disse: dove mi conduce? questa casa pare una prigione!…
Sorrise quella, e stringendosi al cuore la mano di Stella:—Abbiate pazienza, la mia figliuola; adesso troverete la vostra nuova famiglia.—E don Aquilino, a capo dimesso, strisciava dietro alla protettrice; e per consolarsi di quella trista spedizione, pensava che la signora contessa, nel ritorno, non avrebbe potuto a meno di pregarlo che volesse favorire quel giorno la sua tavola.
Attraversarono un altro andito, un'altra stanzaccia, e si trovarono alla fine in una specie di salotto di ricevimento, più decente, più arioso, che rispondeva sur un orticello: due donne d'età provetta, vestite di saia oscura, che sedevano presso un finestrone, al loro apparire si levarono in piedi, e rispettose mossero verso la dama. Ma questa permise con un cenno che tornassero a sedere; e sedendosi ella pure in un seggiolone addossato alla nuda parete, si volse alla più attempata delle due donne:—Madre Eleuteria: lentamente disse: ecco la giovine della quale le è stato parlato. Ella si raccomanda alla sua bontà, al suo compatimento; vogliamo sperare che un po' di vita edificante e ritirata varrà a far fruttare quelle disposizioni che la grazia spirituale, più che il merito e l'opera nostra, ha fatte nascere nell'animo suo. Avvicinatevi, Stella: baciate la mano della vostra superiora, della vostra nuova madre; noi vi poniamo sotto la sua tutela; e qui, se vi mostrerete docile, obbediente, se darete segni di compunzione, d'emenda, vi sarà restituita ben presto quella quiete di coscienza che il mondo vi voleva rapire. È bella la virtù che illibata passa attraverso il mar tempestoso della vita; ma la virtù che caduta si rialza è più bella e più gloriosa. Il cuor penitente è come il corallo che, uscendo dall'acqua all'aria, si assoda.
La fanciulla non sapeva spiegare a sè medesima quest'artificioso parlare. Ella si sentiva tranquilla, innocente; pensava e amava, come ne' primi dì della sua vita; e non per altra cosa che per il bene di sua madre e di suo fratello, accettando la prova che le era domandato, colà ne veniva con quello stesso religioso sentimento di purità con cui, pochi anni innanzi, s'accostò alla sua prima comunione; nè avrebbe potuto comprendere il perchè l'austera dama le imponesse come penitenza ciò ch'essa faceva per virtù d'amore. Ma un'idea incerta del male, uno sgomento confuso de' pensieri ch'essa non aveva provato mai, la contristavano; e mentre voleva dir qualche parola, si sentì come stringere il cuore da una fredda mano. Forse comprese che là non era il luogo della sua pace, che là altre angustie, altri terrori l'aspettavano; che forse era perduta per lei ogni contentezza, ogni serenità della vita. Incontrò lo sguardo severo di quelle donne, e ammutolì. Non la pietà incauta, faccendiera, nè l'insofferente zelo che fa servire le verità sante e consolatrici alla propria ambizione, sollevano le anime sconfortate alla speranza, alla rassegnazione. La parola compassionevole e amorosa, quella parola che trovò una consolazione per tutti i dolori, che col soffio della carità rinnovò la terra, non insegnava ad anneghittire gli affetti, a stringar la volontà nello scrupolo, a far pauroso il dovere: ma fu parola di libertà e d'amore.
—Essa è figlia d'un soldato: ripigliò indi a poco la dama protettrice: sua madre, troppo debole, trasandò quelle pratiche che potevano esser medicina alle cattive influenze mondane. Oggidì più che mai, in ogni stato si diffonde la zizzania del mal costume: v'ha di quelli che si fanno del vizio un mestiere; e questa poverina camminava sull'orlo dell'abisso: se non che, il cielo ha permesso non fossero vani gli sforzi di quelle persone le quali si consacrano a opere che il mondo chiama filantropiche, e che io dico cristianissime. In una parola, noi l'abbiamo salvata; e in questa casa, dove tante anime furono strappate al male, essa viene di buon grado, madre Eleuteria, sotto l'egida della sua virtù, a racquistare il candido vestimento dell'innocenza.
La dama, superba di codesta edificante parlata, guardava attenta or la madre Eleuteria, or la fanciulla, e pensava di leggere ne' loro composti visi il trionfo della sua clemenza. Allora, indirizzandosi a don Aquilino:—A lei, signor abate!… noi abbiam fatto la parte nostra; a lei, la sua.
Allora la madre Eleuteria, che non aveva pur detto una sillaba alla nuova figliuola, ma s'era fatta a guardarla alla sfuggita, s'alzò; e avvicinatasi a un vecchio armadio, l'aperse con una delle grosse chiavi che teneva appese alla cintura, ne trasse due registri e una cartella, e li depose sullo scrittojo ch'era nel mezzo della stanza, e dinanzi al quale s'era affrettato a sedersi don Aquilino, come obbedendo a una forza invisibile.
La madre Eleuteria (chè così era chiamata fin da quando, uscì ancor giovine dal suo monastero, soppresso fra gli ultimi, al cadere del passato secolo) teneva come superiora le redini di quella pia casa da poco tempo fondata per le povere zitelle. Avvezza alla muta disciplina del chiostro, essa vedeva a malincuore l'autorità, la tutela e gli scandagli che si usavano dalle persone da cui era stata chiamata a regolare il Ritiro; e avrebbe voluto a suo beneplacito fare e disfare, col sistema adoperato in altro tempo dalla madre priora nel convento ov'essa pronunciò i voti. Vecchia e irosa, voleva essere adulata, temuta; nè pativa che persone secolari e influenti nel mondo volessero dar legge a lei. Ne' trent'anni e più da che, logora dalle piccole passioni della vita monastica, s'era per così dire consumata nello squallore d'una soppressa casa di religione, essa non avea vagheggiato che una speranza, una gloria; quella di vedere riaprirsi, per opera sua, lo stesso convento dond'era stata cacciata, e di condurvi uno stuolo di povere creature, o, per usare un suo bel paragone, una famiglia di candide colombe. E su queste, sperava alla sua volta esercitar l'assoluto impero del quale non era riuscita a gustar la voluttà fino allora, causa la grave responsabilità e l'obbligo di piegarsi alla formalità, alle regole minute, a una a una prescritte dalla curiosità delle dame protettrici, e più di tutto dall'onnipotenza di chi poteva farle molto bene, o molto male, ajutando o tergiversando l'effetto dell'unica sua cura. La contessa Cunegonda, la quale aveva una autorità più grande, e però a lei tornava più incresciosa, era quella di cui la superiora del Ritiro sopportasse il giogo con maggiore dispetto. E la contessa ben sel sapeva; comechè si fosse accorta dal silenzio ostinato della vecchia, che per certo avrebbe fatto anche allora (come quasi sempre faceva) ogni prova per rifiutarsi all'accettazione della giovine, e perciò appunto volesse a ogni costo trionfare, e contasse più che altro sull'appoggio del pauroso prete. Il quale dal canto suo, in mezzo a quella lotta di poteri, pensava che non s'era mai trovato al mondo in un ginepraio così spinoso.
Egli dunque, messosi allo scrittojo, alzava e abbassava macchinalmente il capo sui libracci che aveva dinanzi, continuando a tenere la penna nel calamajo di peltro, senza saper come incominciare l'interrogatorio. Pur conveniva adempirla questa formalità, ch'era voluta dal regolamento della casa prima dell'ammissione di ciascuna zitella.
Bisogna che la superiora godesse di quel suo impaccio, poichè sguardando la dama con due occhi fulvi e maligni, e facendo scorrere colle dita convulse le avemmarie del rosario che le pendeva dalla cintura, sogghignava tra sè, pensando che, se il volesse, poteva col più lieve pretesto rimandar quella giovine; tanto più facilmente, che la vedeva colà condotta con certo mistero, del quale le sarebbe piaciuto aver la chiave. Ma la contessa, prevedendolo, andò incontro all'ostacolo; e come don Aquilino non voleva, o non sapeva fare il dover suo, levossi con mal celato dispetto, e venuta alla scrittojo:—Poichè vedo, disse, che qui si medita di stornare un'opera di carità, non so nè cerco per qual fine, bisognerà, ch'io medesima n'assuma tutta la responsabilità. In quel punto, la Stella si fece animo, e senza levare il capo cominciò a dire:—Mi perdonino, se mai son io causa di dispiaceri; ma, quand'abbiano sentito a dir qualcosa di me, oh! non lo credano, no, per carità!… Io sono povera, sono abbandonata; ma non ho fatto del male. La mia povera mamma ha avuto molte disgrazie; mio padre l'ho perduto da più di tre anni; un mio fratello non istava più in casa con noi; l'altro…. l'hanno condotto in prigione. E noi… siam restate senza nessuno. Oh! se qui posso lavorare e guadagnar qualche cosa per la mia mamma…. io sarò contenta. Ma non credano, per amor del cielo, che io abbia fatto del male; è una cosa che io non posso sentirla dire, perchè non è vera.
Don Aquilino scosse il capo, un po' stupito che la fanciulla si sentisse il cuor di parlare come aveva fatto, un po' malcontento di vedere come la povera ingannata lasciavasi bellamente incogliere da quella sorte. Ma le parole di lei forse toccarono la ruvida scorza della superiora; la quale, smesso per allora il proposito di tener forte contro ciò ch'essa chiamava un'intrusione, si fece alquanto più serena in viso, e rispose:—Poichè siete voi che mi pregate, figliuola, io non metterò innanzi certe difficoltà, che pure avrei diritto d'opporre… Prego solamente la signora contessa che si degni, per lo innanzi, di sentire in anticipazione anche il mio voto speciale; il regolamento me ne dà facoltà, e responsabile del buon andamento della casa, son io. Intanto, attesa l'ottima volontà di questa giovine, e per nessun altro rispetto, noti bene! per nessun altro rispetto… passo per questa volta la mancanza dei requisiti e carte…. come sarebbe dell'assenso scritto della madre e del contutore; e inoltre….
—Si calmi, madre Eleuteria: rispose, punta sul vivo, la contessa: tutto sarà fatto, come vuole; non mancherà nulla, lo dico io, perchè la giovine che le si presenta sia accolta senza nessun aggravio della sua coscienza. Perdoni…. per altro; ma ragioni gravi, e che mi è impossibile comunicarle, richiedono che questa fanciulla sia, senza perdere un'ora, ricoverata qui….
—Or bene, riprese la superiora, mi rimetto: solo, dove io non abbia a saper come stieno le cose, dichiaro di lavarmene le mani, e non rispondo di nessuna conseguenza.
—Sì, sì, lasci pensare a chi tocca. E lei, signor abate, non perda tempo, metta sul registro nome, condizione della giovine, giorno, eccetera: tutto poi sarà ratificato e posto in piena regola quanto prima, con quegli attestati, documenti e ricapiti che la madre superiora, o anche lei, don Aquilino, potessero desiderare.
—Obbedisco a chi può comandarmi: balbettò tutto umile il prete. E con mano tremante, quasi che scrivesse la propria condanna, si pose a sgorbiar d'uncini e graffi quel grosso libro su cui figuravano i nomi di tutte le ricoverate. E tirava in lungo, sperando che qualche incidente sorvenisse: ma fu inutile. Le donne lo lasciarono finire; e prima che avesse finito, la Stella, con licenza della dama protettrice, era stata condotta nell'interno della casa dall'altra vecchia, ch'era la maestra anziana.
Le fanciulle del Ritiro uscivano del piccolo refettorio, al momento che la lor nuova sorella venne a rincontrarle. Ella si trovò in mezzo a forse venti giovinette, poveramente vestite, delle quali la maggior parte, senza por mente a lei, si sbandarono di subito per la cameraccia terrena, ove solevano spassarsi per un'ora, dopo il desinare, prima di tornarne alla scuola o a' lavori. Due o tre di quelle cominciarono a fissarla curiose, a bisbigliar tra loro; ella restava in un angolo tutta sola e vergognosa. Credeva di trovarsi fra tante buone sorelle, che le facessero animo, che le domandassero della sua mamma, delle sue disgrazie; e nessuna la salutò, nessuna le disse una parola. Avrebbe pianto così volentieri; ma la soggezione e il batticuore le soffogavano anche le lagrime.
La stessa sera, nel gabinetto della contessa Cunegonda, si scambiarono le più calde congratulazioni per quella vittoria riportata sul secolo. Il Padre Apollinare, l'incipriato consigliere, e il conte Alberigo moralizzarono sulla necessità di raddoppiar di zelo per il miglioramento de' costumi del basso popolo; e la dama e due nobili amiche, fautrici anch'esse del Ritiro, si facevan tra loro le apologie per aver saputo, con tal rispetto delle apparenze, condurre a buon fine quella pratica. Tutti convennero che importava di tener segreta la cosa; poichè poteva da taluno credersi diretta ad attraversar certe mire perverse e a combattere lo scandalo col buon esempio.
E quella medesima sera, forse all'ora medesima, l'Illustrissimo, tornato a casa dal teatro prima del consueto, scese di carrozza e, senza nulla chiedere nè della padrona, nè d'altri, si ritirò subito nel proprio appartamento. Mentre il Rosso lo precedeva con gran premura, per tenersi pronto a' suoi cenni, se mai avesse voluto mettersi a letto; egli, contro il costume, si lasciò andare, come in distrazione, a far certe domande al suo fedel cameriere; le quali, a chiunque altro, fuor che a colui, potevano far nascere strane induzioni. Ma il Rosso, per sistema, non badava che a' fatti: cosicchè, quella sera, d'altro non s'accorse fuor che della cattiva luna del padrone.
—Ditemi un po'…. gli è un pezzo che non vedete l'Omobono?
—Non saprei…. quindici giorni.
—Pare impossibile! Non son io, se non vengo a capir bene che storia è questa…. Maledetti tutti!
—Si quieti, Illustrissimo, si quieti; badi che non sentendosi troppo bene….
—Taci tu.
Intanto egli s'era messo a sedere; e il Rosso, stirate le cortine, apparecchiavagli il letto. Dopo qualche silenzio, il signore ridomandò, ma sbadatamente:—Non avete sentito a raccontar nulla di nuovo?….
—No, Illustrissimo.
—Dite, conoscete voi la famiglia di una certa vedova…. della vedova d'un soldato di Napoleone?
—Aspetti! fosse quella che stava di casa là verso la piazza Fontana?
—Credo bene…. Non sai nulla dunque?
—No, perchè?
—M'era impegnato d'ajutarla quella famiglia; e mi si dice che altre persone…. di conto precisamente per farla a me, si sieno adoperate…. Ne hai notizia?
—Che io possa morire, Illustrissimo, se ne so qualche cosa.
—Eh! vedo che anche voi perdete il buon senso, non vi conosco più.
—Perdoni….
—Non importa. Posso farla vedere alle canonichesse e a tutto il partito…. Io, me la rido, ah! ah!…
—Mi sento consolare, vedendola a ridere.
—Basta così. Andate pure. Domani, di buon'ora, passerete dal signor Omobono; venga qui nella mattina, e non manchi, e non parli con nessuno. Al signor Consigliere, farete l'imbasciata che già v'ho dato…. avete capito bene?
—Non dubiti.
Intanto l'Illustrissimo s'era coricato. Ma, levandosi sul gomito:—Versatemi nella tazza la solita pozione…. È un altro impostore anche lui il dottore!
—Vorrei vederlo un po' quieto: disse il Rosso, con una smorfia che voleva parere un sorriso.
—Sì, sì… andate via, che sarà meglio…. Tirate le cortine, chiudete bene le porte…. tenete a mente quel che v'ho detto…. Così.
—Felice notte, Illustrissimo.
E il cameriere andandosene, almanaccava qual cosa mai al padrone avesse fatto montar la muffa, che lo sentiva dir parole così piene di bile.
—Comunque sia, egli ha bisogno di me: borbottò: e se stasera mi fa torto, domani avrà di grazia a sgaglioffare qualche bel sovrano, per tirarmi dalla sua.
E serrata a chiave la porta dell'appartamento, andò a dormir sopra al malumore dell'Illustrissimo.
Capitolo Undecimo
La prigione, ove Damiano stava intanto aspettando la fine del processo, che l'aveva incolto così in mal punto, era un camerotto umido, basso che rispondeva nel cortile delle carceri, di fronte a una muraglia bruna, altissima. In quella s'aprivano alcune rade finestre quadrate, munite di doppia inferriata, e mezzo nascoste da un assito inclinato, ond'era tolta ogni luce, ogni vista, fuorchè d'un lembo del cielo che da codesta specie di spiraglio potevasi contemplare. Erano le carceri comuni; e, per mancanza di luogo, chiunque venisse condotto in quelle triste mura vedeva passar non pochi dì fra la compagnia de' ribaldi d'ogni stampo, che quasi senza tregua sottentravano l'uno all'altro. Damiano, chiuso dapprima nella carcere comune, aveva di là veduto più d'una volta sorgere e cadere il sole; e ciò che che in que' dì sofferse, io nol dirò. Sul suo capo pesava una grave accusa; era indiziato come principale istigatore della rissa accaduta alla festa di san Cristoforo; non avendo solamente resistito alla forza pubblica, ma essendosi lasciato sorprendere sul fatto, con un'arma alla mano. Convenne che l'autorità inquirente spendesse alcun tempo, per verificare circostanze, esaminar prevenuti e testimonii, spacciar requisitorie, passare a confronti, prima di determinare se dovesse o no aprirsi contro i detenuti il processo criminale. Per buona ventura, il fermo contegno del giovine artigiano, la semplicità con cui espose l'accaduto e la concorde testimonianza di parecchie persone che, senza prendervi parte, furono presenti al fatto, sventaron di subito le intricate e maligne deposizioni fatte da coloro che speravano d'uscire al fine di perder Damiano. Il giudice, a cui toccò di sbrigare quel processo, che sebben fosse poca cosa, aveva nondimeno stuzzicato un gran vespaio, sospettò che il giovine accusato potesse esser vittima di qualche complotto; e nel sospetto lo tennero poi certe parole; dettegli a fior di labbra e con ostentata indifferenza da persona che molto poteva per il suo avvenire. Ma egli che, per ingegno e coscienza, aveva saputo meritarsi, quantunque in giovine età, l'onorevole carico del magistrato, raccapricciò di quella prevenzione che credeva si volesse istillargli: e adoperando tutta l'accortezza e il buon volere d'uno spirito saggio e onesto, seppe in poco tempo, se non dedur legalmente, conoscere almeno come stesse la cosa. Ma, di tutti gli accusati, non restava in carcere che Damiano: come che gli altri, mancando legali motivi per tenerli in cattura, fossero stati in quel mezzo rimandati, con ammonimento di presentarsi allorchè dovessero venir citati per la regolare inquisizione. E tal determinazione fu presa dopo che una persona di molta autorità seppe che in quella trista bisogna era implicato il Martigny, uomo indispensabile nel gran mondo.
Appena il giudice ebbe a scorgere l'onestà di Damiano, ingiunse fosse collocato a parte dagli altri prigionieri, gli si usasse tutto il possibile riguardo: fece anzi quant'era in lui, per metter fine al processo; ma non prevedute circostanze parevan sorgere in mezzo, ogni volta ch'egli s'accingesse a ripigliarne il protocollo.
Eran due mesi che quel giovine oppresso aspettava che fosse conosciuta la sua innocenza. Gli parevan due anni; e nel suo cuore, al rammarico de' primi dì, al pensiero dell'abbandono e dello squallore in cui s'imaginava di veder la famiglia, era succeduta un'ira soffocata, un fremere della volontà costretta a consumarsi nell'aspettativa; talvolta un delirar confuso, una maledizione della vita e della virtù. Solo, sempre solo, in faccia al bujo dell'avvenire; minacciato dall'infamia; oppresso dalle memorie di que' tre anni passati; consapevole della propria innocenza, e costretto a sopportar la vendetta di nemici troppo potenti, e l'indugio della giustizia; Damiano vedeva tornare il dì, tornar la notte, ma non udiva nessuna voce che gli dicesse di sperare. Così, dentro di sè, sentiva morire il coraggio, ultimo compagno dell'innocente.
Talora, ripensando a quelle illusioni, già da lui vagheggiate per tanto tempo, prorompeva a maledir gli uomini, sè stesso, la Provvidenza: e, abbrancando le grosse inferriate, domandava al cielo perchè l'avesse condannato a vivere; e provava un'orrenda tentazione di finirla, spezzandosi il cranio contro quelle barre. Talvolta poi si raffigurava alla mente il padre moribondo, la madre sua, l'abbandonata Stella, e sentivasi bagnato di lagrime il volto; pensava che forse l'anima di suo padre in cielo, e quelle due anime innocenti sulla terra, pregavano per lui che non poteva pregare; che forse il Signore non l'avrebbe dimenticato. Ma, per lo più, un invincibile abbattimento, una calma cupa gli prostravano l'anima e le forze; passava ore e giorni, immobile sur uno sgabello, presso all'aperta finestrella, con le gambe a cavalcioni e un gomito sul ginocchio, appoggiando alla mano la faccia, e guardando fuori, senza pensar più dove fosse, senza ricordarsi di nulla. E invidiava, con fanciullesca voglia, la rondine che attraversava quel poco cielo aperto, fin dove gli fosse dato giunger coll'occhio, il passero svolazzante sul tetto di fronte: e diceva di sè più felici il moscerino ronzante, e il ragno che tesseva la sua tela fra le spranghe di quel pertugio.
Un dì, vennegli all'orecchio il canto lontano e malinconico d'un altro prigioniere; non potè distinguerne le parole; ma, ingannato, credè di conoscere la voce di Giovanni, del suo compagno in quella trista scampagnata del san Cristoforo. Pensando che anche quel povero Giovanni avesse perduto, per cagion sua, e chi sa per quanto tempo, pane e libertà, sentì crescer l'angoscia che portava nel cuore. Per la prima volta, da che si trovava colà, cadde ginocchione, levò la mente a Dio, e pregò.—Nel pregare, sentì una consolazione così pura, così soave che si fe' a pensare come colui che ha fede nella verità non deve maledir, nè disperarsi, nè lasciarsi vincere dall'oppressione; perchè la giustizia è una sola, e la verità non può mancare.
Ma qui, domandava perchè mai in quel tempo nessuno v'era stato che, ricordandosi di lui, gli avesse fatto almeno saper novelle della sua famiglia: parevagli impossibile che nessuno spendesse qualche passo per ottenergli, se non altro, una pronta decisione del processo; ovvero sia, per cercar di vederlo, di mandargli una parola, un saluto. Gli repugnava di farsi amico del secondino, il solo che avrebbe forse potuto servirlo, più ch'egli non pensasse: pure, un dì, si rassegnò ad umiliarsi a quell'uomo; e lo pregò, esitante, se mai volesse incaricarsi di portare una parola, ch'egli avrebbe scritto, alla sua famiglia.
Il secondino negò sulle prime, dicendo ch'era un impiegato incorruttibile, e che mai non avrebbe tradito il proprio dovere per tutto l'oro del mondo; poi, venendo a patti colla coscienza, tornò verso il prigioniero; e senz'altro dire lo guardò, soffregando lievemente il polpastrello del pollice su quel dell'indice, con significanza. Il giovine non seppe rispondere, guardò via, però che non aveva nulla a dargli; e colui con uno sdegnoso:—Uf! e un'alzata di spalle, girando sulle calcagna, se n'andò, e rinchiavossi dietro con ira i catenacci.
Damiano si rassegnò, confidando che da un dì all'altro, chiamato alla presenza del giudice, e chiuso il processo, potesse finalmente esser conosciuto non colpevole di nessun delitto. Ma egli non sospettava le imputazioni che, sotto mano, per opera di testimonj venduti, erano state soffiate; non sapeva trattarsi, nientemeno, che di farlo apparir reo di sollevazione e di resistenza armata alla forza pubblica. Ma le accuse di persone diffamate, e le circostanze perfidamente inventate non valsero contro la parola precisa della legge, e contro la fermezza d'un giudice saggio. Il quale sempre più comprese l'accusato essere stato per forza tirato in quel garbuglio, per qualche intrigo di cui non riusciva a sviluppar le fila; contento però, nello svolgere il processo, di veder dissiparsi un pericolo da principio temuto, che l'inquisito dovesse consegnarsi al criminale. Il buon magistrato se ne consolava sinceramente; poichè egli non era un di coloro, i quali, dov'è appena un rimendo, fan di tutto per trovare uno schianto.
Era una notte d'agosto. Muta l'aria, e il cielo ingombro di nuvole nere, che passavano lentamente sulla luna; un'afa, una quiete nell'atmosfera, come quando s'avvicina un temporale; le muraglie della carcere, che, percosse tutto il dì dall'infocato sole, parevano mandar fuori tuttora una vampa; e d'ogni intorno, nel cortile delle prigioni, silenzio e oscurità. Damiano s'era gittato in un angolo, sul duro stramazzo; ma non trovava requie, nè sonno; i suoi pensieri non erano mai stati così mesti e dolorosi come in quella notte: e vedeva fargli cerchio strani fantasmi, e mano mano che lo stringevano più da vicino parevagli che diventassero giganti: sentiva come voci misteriose lontane, e risa di scherno; e un'ansia non mai provata gli toglieva quasi il respiro.
Indi a poco, romoreggiò il tuono in lontananza; e spessi e rapidi baleni, a schiarar sinistramente il bujo spazio del cortile; e agitarsi l'aria, e goccioloni di pioggia a flagellar la muraglia, a penetrar per la spalancata finestra nella stanza del prigioniero. Egli balzò dal giaciglio, corse all'inferrato pertugio, per respirar l'aria commossa; e fu come se la guerra degli elementi scatenati nell'alta notte lo rallegrasse, gli rendesse la vita. Seguiva coll'occhio ardente il crescere e l'infuriar del temporale; gioiva che la natura rispondesse colla sua voce alla tempesta ch'egli pure aveva in cuore; imaginando che ogni fulmine fosse quasi una maledizione del cielo alla terra, pensava allo sgomento che forse in quell'ora provavan ne' loro letti, sotto padiglioni di seta, coloro che lo avevano perseguitato; mentr'esso, tranquillo e sorridente, affacciavasi a quella scena, e ne ringraziava il cielo.
A poco a poco, il vento si racchetò, la luna, che s'era nascosta, si svolse dalle nubi diradate; il cielo tornò spazzato, e l'aria racconsolata e fresca. Le imagini dell'amore, le meste e sempre care rimembranze vennero nell'anima di Damiano al luogo de' pensieri d'ira e di vendetta. Egli s'era tolto dalla finestrella; e postosi a sedere sulla sponda del saccone che gli serviva di giaciglio, s'abbandonò a malinconiche fantasie.
—Oh! cos'è mai la vita?….. diceva fra sè: È come il dì ch'è passato…. come questa notte, prima di tempesta, e poi di pace. Tocca a noi a scegliere una delle due strade: può esser quella del bene, o quella del male…. Oh! perchè io, che ho domandato così poco al mondo, io, che non voglio altro che fede e amore, non ho saputo trovar fuori una sorte onesta, quieta sulla terra?…. Eppure, capisco che ho torto, quando maledico quelli che m'han fatto del male. E anche adesso…. anche qui, non vorrei mutare, per la lor vita, la mia. Com'è dunque che, mentr'essi mi tolgono la libertà, e mi costringono a starmi nella miseria, nel fango, a meno ch'io non voglia essere un birbante o un vile…. com'è, ch'io mi senta più sicuro, più forte di loro?…. com'è ch'io mi pento d'aver loro augurata la disgrazia, e vorrei compiangerli…. e quasi anche perdonare?
E dopo qualche silenzio del cuore, i suoi pensieri facevansi più distinti: non avrebbe saputo spiegarli così quali erano, ma li sentiva fortemente.
—Ah! è vero!—pensava—Bisogna bene che quelli che non vendon la vita, che passano per il mondo onesti e sinceri, e portano con sè all'ultimo giorno lo stesso cuore che loro ha dato il Signore; bisogna bene che questi, se non trovan altro compenso, abbian quello almeno di poter dire, e sentire in sè stessi: Siam contenti d'aver fatto il nostro dovere… E io, potrei dire così?… Ora, conosco che in questi anni che mi son passati così presto, forse ho tradito la mia sorte, forse ho confidato troppo in me e negli altri! Ma almeno, se fui temerario e imprudente, se mi mancò l'esperienza delle cose, nulla ho fatto mai per cattiva intenzione, nè per avvilire gli altri uomini. Solo ho creduto aver diritto a farli stare, i prepotenti che incontrai sul mio sentiero…. e dissi la verità, perchè sentiva che la verità vien fuori da' cuori onesti. E allora, cos'ho trovato? Gente che m'è venuta addosso come a un furioso!… Dio del cielo! se sapessero quel ch'io sento, se potessi dirlo a loro quel che spero e che patisco!… Quando io aveva perduta la mia prima speranza…. forse è stata fatalità, fors'anche giustizia…. io non ho accusato nessuno; contento del primo pane onesto che m'aveva dato la fatica, ho contato anch'io qualche dì felice!… Ma ora, cosa sarà della povera mamma e della povera Stella? Chi penserà a loro, chi le difenderà, se que' tali che credono di poter comperare coll'oro l'onestà della povera gente, tornassero a farsi vicini a loro, nella solitudine? Penso che il signor Lorenzo, quell'uomo che non ha paura di nessuno, non le avrà abbandonate… E il Signore, poi che mi dà questa forza di aspettare il giorno fissato da Lui, non c'è forse per tutti?
E qui, si raccoglieva alcun poco nella persuasione che, malgrado la sua prigionia, i suoi cari vivessero come prima in pace modesta e oscura, senz'altra angoscia che quella d'attendere il momento che egli tornasse fra le loro braccia.
—O sogni, o mie speranze d'una volta!—tornava a dir nel suo cuore—dove siete adesso? Quand'io non contava più di dieci anni, aveva trovato un compagno, e lo amava tanto, e credeva di poter passare con lui tutta la vita. Il mio cuore, fin d'allora, cominciò a battere per le cose che mi somigliavan grandi e belle!…. Mi ricordo ancora di quelle sere che, raggruppato fra le ginocchia di mio padre, io pendeva dalla sua bocca; nè osava respirare, al sentirlo raccontare i tempi della repubblica, le prime battaglie dei Cisalpini, e ripetere il nome di Bonaparte! La Stella, ch'era ancora ben piccola, mi guardava e nascondeva il viso nel vestito della mamma; ma io sguizzava di consolazione, superbo che mio padre si fosse trovato in quelle guerre di giganti. Povero padre! è morto ignoto, dimenticato, nè altro a noi lasciava che il suo antico onore!… Poi quando, ancora in quegli anni, io fuggiva di casa, e là nel silenzio del Duomo deserto, che mi pareva così vasto, così misterioso, io andava girando, come perduto, fra quelle colonne, fra quegli altari, o sedeva al piede d'un monumento, e qualche volta mi sentiva inquieto, nè sapeva perchè!…. Fu là che un giorno, sul tramonto, io m'era fermato poco lontano dall'altare di santa Tecla, a contemplar quel quadro antico dell'Annunciazione, quel quadro che allora, nella sua religiosa semplicità d'espressione, ho trovato così bello, così vero! In quel momento, un lungo raggio di mille colori, penetrando dalle storiate vetriere d'uno de' finestroni, cadeva sul quadro e lo rischiarava d'una tal magía di luce che mi figurai di vedere un'apparizione. Fu in quel punto che mi venne in mente, per la prima volta, che se una felicità doveva esserci anche per me su questa terra, sarebbe stata di potere un dì o l'altro far un quadro come quello.—Non fu che un sogno, lo vedo bene; ma, al ricordarmene, mi vien da piangere…. Pazienza! Non sarà tutto perduto!…
In siffatti pensieri, Damiano passò gran parte di quella estiva notte. Dall'ira allo sconforto, dall'amore e dalle incancellabili memorie del passato alla persuasione che bisogna accettare la vita qual ce la diede il Signore, per aver pace e speranza di bene, egli riprovò, in quelle poche ore, tutti gli affetti che avevano fino allora agitato l'oscura sua vita.
Ma una coscienza libera e forte, che sa patire e tacere, è la medicina più vera, più santa nelle sciagure. Dopo tutta quella interna battaglia, l'anima di Damiano s'era fatta serena. Si pose a giacere sul saccone di paglia, dormì tranquillo il restante della notte; e al suo ridestarsi, il sole era già alto.
Capitolo Duodecimo
Lungo il basso androne che metteva alle diverse prigioni, e fra l'altre a quella di Damiano, passeggiava da quasi un'ora il soldato che, sul mezzodì, vi avevano posto in sentinella. O che fosse già ristucco della fazione, o che altra cosa non andasse per il verso al soldato, l'avresti veduto fermarsi a ogni poco, e origliare alla porta or di questa, or di quella prigione; poi, come impaziente di tornare all'aperto, avvicinarsi ad una finestrina ingraticolata di ferro, che mandava nell'androne appena un fil di luce; e sguardar giù nel cortile, ove si scorgevan passare guardie, secondini e prigionieri che andavano e venivano. Ritornando poi indietro, sostava a capo della scala interna, e poneva l'occhio al basso con cert'aria di sospetto, come se colà stesse in aspettazione d'alcuno. Alla fine, si lasciò scappare a mezza voce:—È vero che, per un camerata, bisogna, come si dice, chiudere un occhio… perchè una mano lava l'altra…. questo si sa; ma se colui tarda a capitare, non so come l'andrà a finire…
In quella che così diceva il soldato, s'udì un passo su per le scale; e un giovinotto, soldato anche lui, fu lestamente in cima; guardò se non fosse spiato, poi venne franco al compagno.
—Sei tu?
—Non mi vedi?
—Va là…. non perdere un minuto…. t'ho dato parola, e ti lascio fare; ma quasi, quasi son pentito….
—Eh, tu sei galantuomo, Maldura; sei un buon camerata…. e l'abbiam fatta insieme la maladetta vita. Ma dì…. hai potuto scavare quel che mi preme?
—L'ho fatto cantare quel dannato secondino; e, se non fallo, la porta è quella là.
—Bene.
—Ma fa presto, sangue di me!…. ch'io non vo' stare alla catena corta, per amor tuo.
—Oh! tu hai fatto anche troppo…. è una parola che io voglio dire a un amico; e tu, credilo pure, fai un'opera di buon cristiano.
Non avevano scambiate fra loro, a sommessa voce, queste poche parole, che di già l'ultimo venuto, s'era messo accosto all'uscio ferrato che il compagno gli additava; si chinò a terra, e fece strisciar sotto l'imposta una cartolina ripiegata che tolse fuori dalla manica del suo guarnaccotto di grossa tela.
Damiano che, avvezzo già abbastanza al monotono alternar del passo d'una sentinella, nulla aveva udito di quanto s'eran detto i due soldati, stette un poco senza pur guardare verso la porta, preoccupato com'era dal pensare a ciò che sarebbe stato, se tanto si aspettava a far giustizia anche a lui. Ma un tocco leggiero che intese nella porta, gli fece volgere il capo; e senza poter nemmanco immaginar che fosse, corse a raccoglier quella carta, e l'aperse. Non erano che due linee sgorbiate a fatica su rozza cartaccia, sgrafii neri che somigliavan più uncini da stadera che parole. Ma Damiano comprese tutto; appena le tenne in mano, e riuscì a dicifrare una di quelle parole, tremò, divenne pallido, fissò gli occhi alla porta; pur non intese più nulla. Rilesse da capo: quella carta, dirizzate un po' l'aste, e messe a luogo non so che lettere rimaste nella penna, si poteva capire così:
"Ricordati, Damiano, che non sei solo; il povero Rocco è tornato; e, dovesse morire, farà qualche cosa per te".
Non aveva finito di leggere, che quel tocco alla porta fu ripetuto; e una voce, che da tanto tempo non aveva udita, sommessa pronunziò:
—Damiano!
—Dio del cielo! sei tu, Rocco?….
E corse, quasi fuor di sè, contro all'uscio sprangato, come se volesse gettarsi nelle braccia dell'amico suo. Il buon Rocco stava dall'altra parte, contentone d'esser riuscito a farsi conoscere, e cercando se mai, per qualche fessura, gli venisse fatto di vedere la faccia del suo Damiano.
—Damiano! diceva intanto: chi m'avesse detto che t'avrei trovato qui?…. È una gran birbonata che t'han fatto, lo so bene!… Oh, se potessi!… Intanto, è stata la Provvidenza che mi fa capitar qui adesso… Io ho del cuore…. sai? E per te…
Il giovine prigioniero si sentiva troppo commosso per poter rispondere: i pensieri gli si confondevano, gli pesavan sul cuore; non sapeva trovar nulla da dire a quell'uomo ch'eragli stato più che amico, più che fratello, che s'era sagrificato per lui. Sentiva che altro non avrebbe potuto se non istringerlo sopra il suo cuore…. E gli era impossibile.
—Damiano! tornò Rocco a dire: posto che questa maledetta porta non vuole che io t'abbia, per adesso, a vedere…. oh parlami! dimmi che sei contento di me… che mi vuoi bene ancora…. Ho tante cose a raccontarti anch'io….
—Rocco, mio Rocco!…. cominciò Damiano quasi piangendo: tu sei cento volte migliore di me…. Il Signore ti vuol bene, perchè t'ha dato un cuore, come nessuno l'ha al mondo…. Ma io, cosa potrò mai far io, per tutto quello che hai fatto per me?….
—Lascia andar questi discorsi adesso; c'è ben altro a pensare…. Io non ho che un quarto d'ora, o poco più, da poterti star vicino… È stato il Maldura, un mio camerata che, messo qui di guardia, m'ha lasciato fare il tiro…. Oh ti conterò tutto: ma prima, dimmi: dov'è la mamma Teresa? lo sai…. E lei? il mio angelo custode?….
—Rocco! non le hai vedute? non ne sai niente tu?…. Io sto qui a morire, da più di due mesi; non so più nulla di nessuno…. E non ho fatto del male, vedi, è stato un tristo accidente…. Ci ha da voler tanto a conoscere la verità?
—Dunque non sai niente anche tu?….
—Ma perchè parli così?… Non hai cercato di loro? Non le hai vedute? non sei stato in casa?
—In casa? no.
—Ma perchè non ci sei stato?
—Ci son tornato tre volte su quelle scale, ne' due dì passati; perchè, devi sapere che sono arrivato qui al principio della settimana, insieme a una compagnia de' nostri che mandano al paese… Come ti diceva dunque, ho parlato con la Margherita, quella vostra vicina; e fu lei che mi disse che…. la mamma Teresa aveva cambiato di casa; e che, quanto a te, un pezzo fa, una domenica… t'avevan messo qui dentro, e buona notte!
—Oh Rocco! in che momento ci troviamo!
—Cosa dici?…. Non crucciarti, sai, non pensar male…. E poi, c'è rimedio a tutto, quando si ha del cuore e la coscienza netta….
—Mi pare impossibile! È un miracolo del cielo…. Ma tu, Rocco, com'è che sei qui? Non sono venti mesi, da quel dì che la tua anima così grande t'ha fatto partir soldato per me…. e hai potuto tornare?….
—Se te l'ho detto, la è una storia lunga…. vorrei bene che tu la sapessi; e hai ragione di dire ch'è un miracolo, se son qui. Malann'aggia quest'uscio che sta fra noi due! Verrei così di gusto ad abbracciarti, a stare un po' con te, a dirti la mia storia.
—Non andar via, no; conta su, parla di te; è la prima voce che sento da due mesi, la prima che sento nell'anima…. ed è la tua, Rocco!
—Tu sei ancora quello, Damiano! che sia ringraziato il cielo. Starò qui presso, finchè il camerata non mi strapperà via…. È un buon cuore anche lui, il Maldura…. e se tutto quello che sentiamo dentro di noi, lo potessimo fare…. Basta, non è questo che importa adesso. Senti, Damiano, non son più quel Rocco d'una volta, a cui n'han fatto d'ogni stampa; ho messo giudizio anch'io, cioè ho cominciato a fidarmi poco degli uomini: ma non li ho pagati della stessa moneta ch'è toccata a me! Ho fatto una vita dannata abbastanza, là, in que' paesi luterani: eravamo sul confin de' Turchi, e non c'era poco da fare a tenerli indietro que' maledetti del turbante. Il loro mestiere è di nettar le stalle di que' patacconi del paese, portando via e bestie, e fieno, e tutto…. E noi mandati là, poveri diavoli, a far penitenza de' nostri peccati! Una notte, d'inverno…. è sempre inverno là… io, con altri sette de' nostri, facevamo la ronda a una terra di confine; non c'era strada, e s'andava giù, fino alle costole, nel fango e nella neve; alcuni, per conforto, avevano accese le loro pipe…. quando, all'improvviso… pin, pan, pan, pan… una ventina di que' cani rinnegati, ci serrano addosso…. e noi saldi là! Era il buon momento di pigliar caldo; ci siam fatti insieme, e giù una furia di schioppettate alla fortuna…. Li vediam voltare i cavalli, e in mezzo alla notte sparir come il vento…. Ma un di loro, scappando via, si butta indietro, tira…. e l'è toccata proprio a me! Son restato là per terra, come un asino; e quando il Maldura mi levò su, e lui e un camerata m'han portato via, e poi lasciato giù al nostro ospedale, io non ho saputo più altro. Dopo un mese, quando Dio ha voluto, son tornato in piedi; ma la palla di quel Turco dell'inferno m'era entrata in un braccio…. e il tuo Rocco aveva finito di far l'esercizio. Io però ho ringraziato il cielo, pensando subito che guadagnava cinque anni, e che forse sarei tornato a casa.
—Rocco, Rocco!
Così, con tuono basso ma focoso, scrollandolo forte per un braccio, lo chiamò il camerata. Ma egli non sapeva staccarsi da quel fianco dell'uscio, a cui s'era appoggiato.
—Rocco! e tutto questo, tu l'hai fatto per me! dicevagli Damiano.
—Sì, sì…. ma adesso bisogna ch'io ti lasci qui e dia la volta.
—Non andartene così!
—È il Maldura, vedi, è lui che mi strappa dal muro; è finita la guardia, e anche lui ha ragione…. Ma, lascia fare a me; tornerò…. ti darò conto di tutto….
—Ah sì; voglio saperlo, dove sono mia madre e mia sorella… Va, va, buon Rocco, non perder tempo. Che il Signore t'accompagni!
—Damiano! Non la darei quest'ora, per niente al mondo.
I due soldati s'allontanarono. Damiano tese l'orecchio finchè potè udire il suono de' loro passi: poi, quando non intese più nulla, strinse le mani, guardò in cielo, e il suo pensiero si levò con fede al Signore.
I giorni, e le settimane passarono, E Damiano altro non seppe nè di Rocco, nè de' suoi: questo dubbio era per lui un'angoscia mortale; e ricaduto nella disperazione e nelle cupe fantasie di prima, ammalò. Il medico delle prigioni, la seconda volta che lo vide, provò per lui simpatia; e persuaso che il male provenisse, più che d'altro, dall'incertezza che l'aveva oppresso, s'arrischiò di farne parola al giudice inquirente. Il quale, uomo giusto e di cuore, ottenne che in due giorni fosse spacciato quello a cui non erano bastati due mesi.
E Damiano, appena si riebbe, fu levato dal carcere e condotto alla presenza dall'autorità; e dopo serie ammonizioni per lo avvenire, gli fu detto ch'era in libertà, essendo stato sospeso il processo, per difetto di prove legali.
Capitolo Decimoterzo
L'abate Teodoro, uno de' cappellani dell'Ospital Maggiore, tornava, sul cadere d'un bel dì d'ottobre, lungo la strada che fiancheggia il canale interno della città, fra il ponte di porta Tosa e quello di porta Romana; dove appunto si chiama il Naviglio dell'Ospitale. Tornava solo da un breve passeggio, per ricondursi alle malinconiche stanzette che gli servivano d'abitazione in quel vasto edificio, nel quale a migliaja vanno a morire ogni anno i poveri di Milano e del contado. Egli non era vecchio: alto della persona, ma alquanto incurvato, avea lineamenti fortemente scolpiti e pallidi, lo sguardo pensoso e quasi sempre mezzo velato dalle palpebre: il suo passo rapido, come di persona sollecita d'arrivare al termine della sua via, e qualche involontario gesto con cui l'avresti veduto risponder talora all'interna agitazione, mostravano in esso l'uomo che conosce la vita e il dolore, e che animoso e forte vuol compiere quaggiù la vece che gli fu posta.
Era un giusto e sapiente prete, che amava l'oscurità, e l'umile coraggio d'una vita tutta di sagrificio e d'amore. Egli che, uscito appena del Seminario, e annoverato già fra i più eletti novelli sacerdoti, per dottrina teologica, congiunta a un assiduo studio d'erudizione civile, avrebbe potuto a buon diritto pretendere a qualche invidiata ecclesiastica dignità, o aspirare alla celebrità di sacro oratore, aveva chiesto invece un posto pericoloso, poco ambíto, ignoto quasi del tutto, quello di coadjutore spirituale al servizio de' poveri infermi dell'Ospitale maggiore. E colà, dove sapeva maggiore il bisogno di portar la parola di consolazione e di verità, egli viveva da sedici anni, modesto, non conosciuto dal mondo, come il primo dì che v'era entrato; ma benedetto più che padre, più che amico, da tutti gl'infelici che aveva confortato a patire, a rassegnarsi, a morire; da tutti i suoi fratelli che sortirono quaggiù l'eredità della disgrazia, e ne' quali volle imparare a conoscere, ad amare la gran famiglia umana. Amico di pochi altri preti, e di qualche giovine saggio e onesto, che per venirlo a ritrovare volentieri attraversava il malinconico ponte che mette al gran cortile dell'Ospitale, l'abate Teodoro passava i suoi giorni nella spontanea e sublime annegazione di sè medesimo, adoperandosi al bene, contento se gli rimanesse un'ora da consacrare alla vedova inferma, circondata dalla sua corona di figliuoli, o al vecchio povero e vergognoso languente sulla paglia nella buja soffitta, o all'artigiano che la febbre aveva strappato dal lavoro: e tra questi egli soleva spartire il frutto del suo piccol beneficio, del quale gli avanzava la maggior parte, comechè di ben poco gli facesse bisogno per vivere. Era, in una parola, uno di quegli uomini, de' quali così scarso è il mondo; che non sono nati per sè stessi, e che, non curando le spine del sentiero, insegnano a' proprii fratelli la vera virtù, la vera filosofia della vita, camminando sempre animosi e sicuri, colla coscienza che Dio, come disse il poeta:
Fece l'uom buono a bene….
Quel dì, l'abate Teodoro, più mesto e preoccupato del solito, s'incamminava a casa con passo lento e ineguale, pensando al tristo caso d'una povera madre ch'egli aveva poche ore prima assistita nell'agonia. Essa era morta di lenta e penosa consunzione, lasciando quaggiù dieci figliuoli: tre maschietti, il maggiore de' quali su' quattordici anni, e sette fanciulle, tapine creature, pressochè tutte rachitiche o scrofolose, a cui poco o nulla valeva d'avere il padre, lavoratore di seggiole di paglia, già logoro anch'esso dallo stento e dagli anni. Il pensare, che nel giro della superba e splendida Milano, languivano, come quella, tant'altre famiglie alle quali non poteva bastare la larghezza della pietà cittadina; il ricordarsi ch'egli stesso era l'ultimo d'una numerosa famiglia venuta in basso, e che aveva veduto morire in breve tempo padre e madre, e andarne disseminati fratelli e sorelle alla ventura nel mondo, moltiplicando il numero degl'infelici; queste e altre più amare considerazioni avevan raccolta una tetra nube sull'anima del buon coadjutore. V'ha di tali uomini che hanno bisogno di vivere nel sentimento del dolore; che in esso ritemprano, per dir così, le loro forze contro le ingiustizie terrene e la legge de' violenti; uomini che nacquero colla coscienza della sventura, accettarono severi e tranquilli le più difficili prove della vita, e che, giunti al fine della loro carriera, potranno dire come il forte antico: Il Signore mi coperse collo scudo della sua buona volontà. Essi vivono combattendo e sperando; essi sperano, perchè sanno che la sventura stessa è utile, quando s'afforza colla ragione; e che senza fede non c'è libertà.
Nel momento che l'abate Teodoro, giunto all'angolo d'un antico murello, prima di svoltar nella via di San Barnaba, che riesce dalle mura al ponte dell'Ospitale, levava gli occhi, raccogliendo alla persona la cappa, s'accorse d'un uomo che veniva innanzi a onde, tentennando a ogni passo, e facendo prova, ma invano, di tenersi alla muraglia. Quantunque si fosse fatto sera, potè vedere, al lume della lanterna della via, che quell'uomo col pesto cappello calcato in testa, e coperto di luridi panni, lottava a fatica contro i fumi del vino, e falciava l'aria gesticolando colla destra, in atto d'ira e di maledizione. Scorse poi che, sotto l'altro braccio, egli si teneva ravvolto qualche cosa entro una vecchia coltre, della quale i lembi cadenti scopavano il terreno; e l'udiva bestemmiar con rotte voci, che gli vennero un poco distinte quando colui si fe' più vicino, senza pensare d'esser tenuto di vista.
—Malann'aggia! diceva esso.—L'uomo e la ragione…. sono due cose!…. Io sono un povero diavolo, non sono un uomo io….—E qui dava in uno scroscio di risa.—La fame…. cosa importa mai? è una brutta strega…. la fame! bisogna farla affogare in un tino di vin nuovo…. Anch'io fo così! quando ho fame, bevo…. Evviva la ragione!…
Queste parole mettevano un brivido al coadjutore, il quale avrebbe voluto pur sapere che cosa quel disgraziato portasse con sè; e fece per accostarsegli; ma lo teneva indietro il raccapriccio di veder l'anima, soffio di Dio, fatta così vile e imbrutita in una delle sue creature.
—Ah! ah! ah! ripigliava l'ubbriaco.—E la mia donna?… Io per me la lascio piangolare a conto e dir le litanie…. E men vo a berci sopra…. Senti, signor oste! tu sei il solo a cui do del signore…. senti bene! La mia donna mi fa un'altra creatura; bisogna cercarle un padrino…. non sarebbe buono quel barlotto che tu sai?… No? pazienza. C'è ancora la Cà grande…. A' figliuoli di nessuno ci pensa la Provvidenza!… È una gran bella invenzione la Provvidenza!… Allegria in casa!… Presto dunque, oste del buco d'inferno…. un'altra gocciolina! Prendi questa povera stroppiatella…. e porta di quel da tredici!…
Il prete s'accorse, mentre il cencioso ubbriaco gli passava a fianco, che quella lacera coltre da lui trascinata dietro involgeva una creaturina appena nata; la quale, soffogata forse dal paterno braccio che forte la serrava, mise allora un vagito.
—Taci là, figlia della miseria!—gridava, sbarrando gli occhi e levando la destra sulla testina dell'innocente, quel miserabile—Taci! hai già imparato da tua madre a guaire?… Quella grama me n'ha già dati cinque della tua stampa, e se non ci fosse la santa che protegge i colombini…. lo so io quel che farei…. Taci, che non ti sentano, chè non vo' portarti indietro, io!—
E la bambinella a vagire di nuovo. Quel padre snaturato ruppe allora in altri accenti più pazzi che feroci; e il prete inorridito volle correre per istrappargli quella innocente, paventando forse un gran male. Ma colui, credendosi inseguito, precipitò i passi, giunse allo sportello di quella ruota, la quale nell'ore buje s'apre ad accogliere il deposito sacro di tante infelicissime, a cui la povertà o la colpa negò di portare in faccia al mondo il più bel nome che suoni in ogni idioma. Colà fermossi, girò gli occhi intorno, come fa la fiera che sente il cacciatore, svolse dalla coperta la bambinella, e fattosi innanzi barcollando, a stento riuscì a deporla entro l'oscuro pertugio; fece rigirar l'assito; poi, non potendo tenersi di metter fuori un urlo di gioia, s'avviò difilato verso il ponte, e cominciò a cantare non so che ribalda canzone da taverna, frammezzata di rochi strilli.
Addolorato da quella funesta scena, ma sollevato in una dal terrore che provò per la disgraziata creaturina, l'abate Teodoro, come la vide in sicuro, fatto più malinconico di prima, studiò il passo e rientrò nell'Ospitale, per quell'andito che fa capo al ponte.
Il buon prete che, al finir d'ogni sua giornata, benediceva al Signore, perchè gli avesse dato di rasciugar qualche lagrima, di versare in un'anima immortale il balsamo d'una pia speranza, con alcuna di quelle parole che fanno ritornar l'uomo a sè stesso; il buon prete aveva in quell'ora così pieno d'amarezza il cuore, che sentiva più doloroso il vuoto delle cose umane; e, dubitando quasi di sè, provava un ineffabile bisogno di raccogliersi nella pace dal santuario. Entrato nella piccola chiesa dell'Ospitale, s'inginocchiò. E pregando per quel miserabile e per la sua creatura, il pensiero di lui levossi alla sorgente d'ogni puro sentimento e d'ogni verità, a Dio; e contemplando coll'animo i grandi beneficj della Provvidenza, sentì rimorso della sua tristezza, e pianse d'aver dubitato un istante.
Uscito della chiesa, svoltò alla manca, e per il portico del cortile maggiore passò nella più antica parte del fabbricato, che è quella fatta innalzare da Francesco Sforza; e salita una scaletta riservata, si trovò nelle due stanze ch'erano a lui destinate in quell'abitazione del dolore e della morte.
La povera bambinella, che aveva veduto poc'anzi abbandonata nel primo dì della vita, forse a morire prima del tempo, forse a cercare invano il seno di mercenaria nutrice, gli richiamò alla mente, per una di quelle non rade corrispondenze de' pensieri, una memoria lontana, infelice; la memoria d'un fatto, che gli stava da un pezzo nel cuore, e del quale, con molto suo dolore, e per quanto gliene premesse, non aveva mai saputo riunire le rotte fila.
Appena giunto nella sua nuda cameretta, l'abate accese il lume, e frugò in un cassettino dello scrittojo, che ingombro di libri e fogli era situato sotto la finestra; di là tolse fuori un piccol fascio di carte. Il suggello della sopracoperta appariva rotto, ma il piego era annodato da una cordicella, di cui suggellati erano i capi. Si pose a sedere allo scrittojo, e con mano inquieta, aperto ch'ebbe il piego, fece scorrere parecchie carte, e si pose a leggerne alcune.
La prima di quelle carte, ch'egli andò a scegliere fra l'altre, come quella che fosse la più importante o la più preziosa, era la copia d'un antico atto d'esposizione cavato da' registri della Pia Casa di santa Caterina alla Ruota: v'erano descritti, insieme al nome e cognome che a caso vien posto al trovatello, gli altri contrassegni più precisi che potessero valere a constatarne l'identità personale.
Quell'atto portava in fronte la colomba col ramicello d'ulivo in bocca, emblema pietoso della pace del Signore, e, assicurata al disotto con suggello, come contrassegno di riconoscimento, una mezza immagine di sant'Anna, trovata sul bambino:
Il giorno 16 N. 183
Ottobre 1811 1811
_Dalla P. C. degli Esposti a S. Caterina alla Ruota
Nome Rocco R***
Età: anni — mesi — giorni due
trovato nel torno nella scorsa notte
alle ore 8-3/4 pomeridiane
involto in
Pannilini num. 3 di tela fina orlati di merletto.
Copertine, num. 2, imbottite di percallo cilestro
Fascie num. 1 fine.
Cuscini num. 1 con. fodera bianca di tela battista ricamata.
Cuffini num. 1 di mussolino ricamato, foderato di seta azzurra.
Camicietta num. 1 di tela grossolana, marcata in cotone rosso colla lettera E. Un piccolo Agnusdei di panno bianco e nero, trapunto in seta bianca con un
Si è fatto battezzare il giorno 16 ottobre 1811_
Oltre a codesta carta, che il prete trascorse rapidamente coll'occhio, eranvi alcune lettere di diversa data e senza alcuna sottoscrizione. Fra quelle, a studio ne tolse fuori una, meno lacera e senza soprascritta, della quale vedevansi qua e là cancellate le parole: la scrittura appariva stentata, confusa; ma il contenuto era veramente l'espressione d'un'anima sventuratissima: e il buon prete, rileggendola, lasciava cadere a quando a quando fra le palme la testa, e gli venivano le lagrime.
«Signore!
«Se merita compassione una povera infelice, che ha perduto tutto a questo mondo, virtù, salute, onore, e quasi anche la vita, oh! non rifiuti almeno di ascoltare forse le ultime mie parole. Lei sa quello ch'io era, e a che sono ridotta; io non accuso nessuno della mia disgrazia, fuori di me stessa: ho tanto pianto, ho tanto pregato, che spero il Signore vorrà perdonare a me, e a lei pure. Sono tre anni, posso ben dirlo, che ho cominciato a morire; e in tutto questo tempo, lei non volle più vedermi, nè sentir più a parlare di me: eppure, se sapesse ciò che io ho patito, non mi lascierebbe finire così colla disperazione nell'anima. Una povera donna, che non ebbe altro conforto, altra speranza nella sua colpa, fuorchè una parola, un nome, che non potè mai sentir pronunziar dalla sua creatura, vive in miseria, nell'angolo d'un solaio, nascosta agli occhi di tutti, e oramai senza forza di levarsi dal letto del suo dolore. Questa donna merita lo stato a cui è venuta, perchè si lasciò ingannare, tradire, perche tradì i proprj doveri; ma le han tolto il suo figliuolo, gliel'hanno levato dalle braccia appena nato, dandole a credere che ben presto le sarebbe restituito; essa tacque, chinò la testa e pianse. La meschina non aveva più madre nè padre, nè nessuno al mondo; era stata per un mese invidiata, felice, circondata d'illusioni, vestita di fiori e di veli, come una povera vittima; poi discacciata, sola, nella vergogna e nell'infamia, collo spavento della vita e della morte. Cosa mai le restava a fare, se non che gettarsi, senza pensar più altro, nell'abisso che le era aperto dinanzi? Pure, trovò un po' di forza in sè medesima; e il pensiero di un innocente, frutto del suo peccato e maledetto per lei, questo pensiero l'ha salvata. Allora, ebbe la fede di vivere per lui soltanto, d'inginocchiarsi dinanzi a lui, di trovare nell'amor suo quel perdono che non ardisce domandar al Signore. Aspettò tre anni, e aspetta ancora…. Ma, adesso non è più tempo; il dì tremendo s'avvicina; e Dio avrà presto finito di contar le mie lagrime. Oh! che almeno Egli non le trovi poche al paragone della mia colpa!
«Se le resta qualche memoria del passato, o signore, non disprezzi la preghiera d'una povera moribonda: io non prego per me, ma prego per il mio figliuolo; ch'esso almeno non abbia a portare su questa terra la pena del suo nascimento, che non abbia a maledire il nome di sua madre!… Dopo tanto cercar di lui, ho saputo che vive ancora, ma lontano di qui, ma in tal luogo, dove a me sarebbe adesso impossibile ritrovarlo. In questo momento terribile, rinunzio volentieri alla speranza di vederlo una sola volta: così Dio mi tenga conto del sacrificio! Ma un pensiero, un rimorso che non mi lascia mai, è lo spavento ch'egli, nato nell'obbrobrio, cresciuto nella povertà, possa forse un giorno mettersi per la strada del vizio e del delitto…. Oh! fate, mio Dio, ch'egli almeno viva e muoja innocente, ch'egli sia salvo, s'io debbo morire disperata! Perdonatemi, o Signore, perdonatemi in lui!
«La forza di scrivere questa lunga lettera ha esausta la poca lena che mi restava: ora non ho più nulla a fare quaggiù. Chi sa se il buon sacerdote, che venne a confortarmi il cuore coi pensieri della religione, che mi parlò della infinita misericordia di Dio, e mi sostenne in quest'ultima giornata, vorrà incaricarsi di portarle queste parole d'una poveretta, che lei forse ha da tanto tempo dimenticata? Ascolti quell'uomo del Signore, che verrà a ricordarle il mio nome, il nome di una, che fra poche ore sarà morta. Egli le raccomanderà il mio figliuolo; gli provveda almanco di che vivere una vita sconosciuta e onesta; io la scongiuro, per tutto quanto lei ha di più sacro!… Si ricordi, che tutti abbiamo a morire, e che ogni nostra buona azione è scritta in cielo. Non lo sanno gli uomini, ma Dio lo sa chi sia il padre del mio povero figliuolo!… Oh se avessi la consolazione di finire nella certezza che quell'innocente non sarà abbandonato del tutto, benedirei il Signore di morire così presto, a venticinque anni, senza aver gustato una sola ora di felicità! Ma così…. Egli m'assista, e non mi tolga la fede e la speranza!»
«Marianna».
Letto ch'ebbe, l'abate Teodoro si rasciugò gli occhi, e sospirando disse:—Parmi ancora di vederla quella disgraziata, là sur uno stramazzo disteso a terra, tutta tremante, e senza pur la forza di piangere…. Era una giornata piovosa del marzo…. Povera donna! e morì rassegnata…. Ma quel potente signore, che volle come ridere allorchè io gli parlai, che rifiutò d'ascoltarmi quand'io m'arrischiava di mettergli dinanzi agli occhi quella scena…. Mi pare ieri!—Signor abate: mi disse: ella mi piglia un tuono che non s'usa più con certe persone…. In verità, non capisco di chi voglia parlare…. E poi, a che pigliarsi fastidio di cose che succedono tutti i giorni?… Il mondo è fatto così!—Queste erano le sue risposte. Buono ch'io non son solito a darmi vinto così presto! quando tornai all'assalto, quel signore alzò la voce, ma io parlai più forte di lui; allora il vidi venir giù a poco a poco, raumiliarsi, promettere di far qualche cosa. Che uomo!
Qui prese un altro di que' fogli; e come per tener dietro al filo de' pensieri che l'occupavano, vi corse sopra cogli occhi. Quel foglio, a lui medesimo indirizzato, era questo:
«Reverendo Signore!»
«Ho l'ordine di passare nelle sue pregiatissime mani la somma di milanesi lire seimila (dico L. 6000) da investirsi per la causa e ne' modi a lei noti; della quale somma ella potrà disporre, come e quando crederà meglio, a beneficio della persona per cui ebbe già ad interessare l'illustrissimo signor ****. Lo stesso illustrissimo signore dichiara però, secondo anche le precorse intelligenze, che non intende assumere nessun obbligo verso la detta persona, considerando questo assegno quale semplice e graziosa donazione.»
«Ciò mi onoro parteciparle, per espressa commissione, e starò attendendo il piacere di Lei, reverendo signore, per disporre il pagamento della somma sovraindicata; mentre mi protesto con tutta la stima,
Di Lei,
«dev. obbl. umil. servitore.
«M.*** procuratore.»
In seno a questa lettera c'era copia della ricevuta delle seimila lire che l'abate Teodoro aveva trasmessa a quel signore; comechè fosse persuaso che nulla di più sarebbegli fatto d'ottenere a pro dell'orfano d'una madre più disgraziata che colpevole, della quale, come ministro del Signore che perdona, volentieri aveva accettato la misera eredità. V'era pure una cartella del Monte dello Stato, portante l'annuo reddito di fiorini ottanta; poichè il prete, null'altro sapendo se non che il fanciullo era tuttora vivente, senza averne mai potuto scoprire alcuna traccia, volle serbar intatto e sicuro quel tenue peculio, ch'egli considerava come proprietà d'un suo pupillo. Anzi, per trovar modo a togliere dalle strette il giovinetto, ove la sorte favorisse le sue ricerche, aveva dato a frutto, d'anno in anno, presso un buon notajo di sua confidenza, gl'interessi di quella rendita a lui intestata; e così mano mano, sendo corsi quasi vent'anni, egli era giunto a raddoppiare il piccolo capitale. In ogni caso poi, pensava che, alla sua morte, quel danaro sarebbe stato de' poverelli. Le ricevute di que' frutti e le quietanze del notajo presso il quale avevali dati a mutuo, con uno specchietto delle somme relative al credito, erano fra quelle carte, unite tutte, dalla prima all'ultima, con un ordine scrupoloso.
Bisogna dire che l'abate Teodoro non avesse perduta ogni speranza di sdebitarsi del sacro dovere assunto; giacchè, dopo ch'ebbe ripassate le carte, le quali non credemmo inutile di por sott'occhio al lettore, pigliò, con non so quale convulsiva agitazione, un fascetto di lettere ch'era entro lo stesso cassettino dello scrittojo donde levò prima il piego.
—Ecco qui—diceva, trascorrendole e tornando a leggerne qualche brano, costretto quasi dall'intima forza del pensiero che quella sera lo signoreggiava—ecco qui l'attestato, come il Luogo Pio consegnasse a una balia in campagna il fanciullo; ecco le fedi di sopravvivenza di lui, firmate dal parroco, colle quali i contadini che l'avevano ricoverato venivano a ricever due volte l'anno quel poco di roba e danaro, che suol dare la Casa. Dopo il diecinove, quando il fanciullo poteva avere poco più di sett'anni, non ne trovai più indizio.—Tacque, e stette alquanto sopra pensiero.—Oh! se non fosse morto quel buon parroco di ***, ch'era proprio il padre della sua greggia, uom di senno e di cuore, come ne abbisognano alle nostre campagne, forse ne saprei di più…. Quell'ottimo amico era pur riuscito a seguir la traccia del povero giovinetto…. Era ben lui che allora mi scriveva: «Questo povero fanciullo pareva scemo dell'intelletto; la famiglia che il teneva in casa, lasciavalo tutto il dì solo nella campagna…. più d'una volta io stesso, ne' miei passeggi, lo trovai seduto su qualche rialto di terra, a guardar il sole, e mi faceva una gran compassione…. Un bel dì, non fu più visto nel paese: seppi però, da un curato amico, come fosse ricoverato qualche notte in un casale della sua parrocchia: ho scritto alla Deputazione di quel paese, e n'attendo risposta….»
—E in quest'altra:—«Non credo ch'egli sia morto, come voi dubitate; però, credo che non torni facile seguirlo nel suo misero pellegrinaggio. Ho saputo, or fa qualche mese, che un fanciullo perduto, di quattordici anni all'incirca, che potrebbe anche esser lui, fu visto a****, piccola terra a un venti miglia di qui. Se il Signore non ha avuto pietà di lui, se non lo tolse ancora di mezzo alle miserie di questo mondo, si dovrebbe pure, una volta o l'altra, averne contezza: potrebbe, fors'anche, essere stato chiuso in qualche pio ricovero come derelitto…»
—E un mese di poi, era ancora lui che, venuto a Milano, e passato apposta a ritrovarmi, mi diceva, ben me 'l ricordo: Ho speranza di farvi saper qualche cosa del vostro infelice orfanello; ho raccolte le più piccole circostanze, che mi danno non so quale conghiettura più fondata di ciò che avvenne di lui; ve ne scriverò al più presto.—Furono le stesse sue parole…. Ma!… dopo alcune settimane, quel brav'uomo non era più! Ed io non seppi far più nulla; e queste carte sono ancora qui, e tutto mi sta, come un rimorso, sulla coscienza….
Capitolo Decimoquarto
In quel punto, don Teodoro intese alcuni colpi leggieri e ripetuti all'uscio della scaletta; presumendo già chi potess'essere, si volse appena dallo scrittojo, e domandò:—Che c'è di nuovo?
—Don Teodoro, venga presto…. al numero trent'uno, crociera dell'Annunziata: una grama creatura, che, può darsi, ma non arriva a vedere il domani….
Così rispondevagli, entrando nella stanzuccia, un vecchio infermiere, colla cadente sopravvesta di tela verde e un goffo berrettino di felpa dello stesso colore, che appena proteggeva il suo calvo cucuzzolo. Era il capo infermiere delle crociere delle donne, un poveraccio che aveva consunto sessant'anni di vita fra le mura dell'Ospedale e quelle del vicino asilo de' trovatelli: dove, come tant'altri figli di nessuno, ebbe egli pure la sua culla e una capra per balia, e dipoi un tozzo di pane, fino a quando gli riuscì, per buona sorte, di farsi impiegare prima come portantino, poi come infermiere dello spedale: tutto il suo mondo era là. Vedeva entrare malati, feriti, agonizzanti; uscir pochi vivi, a furia i morti; sentiva passeggiando, colle mani intrecciate dietro le schiene, per le crociere affidate alla sua vigilanza, i lamenti d'uomini, di donne, di fanciulli e di vecchi, che finivano d'ogni guisa di morte: e per lui era lo stesso, una cosa naturale; vi poneva mente quanto il capo dell'orchestra, prima che s'alzi il sipario, agli stentati accordi de' suonatori. Egli soleva riconsegnare al povero, che partiva sano e allegro, i pochi panni con cui era venuto, con la medesima indifferenza che mostrava nel tirare il lenzuolo sulla faccia di quello che aveva appena reso l'anima a Dio. E con tutto questo, il Ghezzo, che così lo chiamavano tutti, perchè vestito, com'era sempre, di color verde, somigliava al ramarro a cui il lombardo dà siffatto nome, era forse il più galantuomo fra tutti gl'inservienti dell'Ospedale. E quantunque un po' brontolone, dove appena potesse far cosa alcuna per secondare il desiderio de' suoi ammalati o de' parenti, allorchè capitavano a visitarli, senza però transigere col proprio dovere, lo faceva volentieri; nè v'era pericolo che volesse il compenso nemmen della croce d'un quattrino. Il Ghezzo era una particolarità del suo genere: in quella casa del dolore, in mezzo alle tribolazioni, egli era dappertutto, egli dava orecchio a tutti i guaj; tirava innanzi con una buona scrollatina di spalle; ma poi faceva, come si dice, l'impossibile per ajutare chi ricorresse a lui; nè gli mancavano le occasioni.—Se i poveri diavoli non s'ajutano un po' per uno, diceva, chi volete che faccia per loro?…
—Don Teodoro! ripetè egli, vedendo che l'abate, contro il solito, era distratto: Faccia presto, le dico, se vuole arrivare in tempo.
—Andate innanzi: secco rispose: io vengo subito.
—Aspetto per farle lume, don Teodoro….
—Or bene, eccomi.
Il Ghezzo, pigliato il moccolo dallo scrittojo, precedeva il prete: e discesi così dalla scaletta, attraversarono lo spazioso cortile, e salirono al portico del piano superiore, rischiarato in quel punto dagli obbliqui raggi della luna, la quale cominciava a spuntare tersa e lucente, di sopra la lunga linea bruna formata dall'opposto lato dell'edificio. In quel vasto asilo delle miserie, in mezzo all'alto silenzio della notte, ai passi del vecchio infermiere e dell'abate rispondeva, sotto le vôlte de' portici, un'eco tanto malinconica, che don Teodoro, già prima addolorato nell'anima, diventava ancor più cupo e pensoso. Spirava un vento sottile, che faceva dondolar cigolando le lanterne appese qua e là, all'entrata d'ogni crociera; nè altro romore interrompeva quella mesta quiete notturna, fuorchè lo strepito di qualche catenaccio dischiuso con una strappata, o di qualche porta sbattuta dal vento, o il monotono rintocco dell'ore da tutti i campanili della città.
Ma, nel momento che don Teodoro, svoltata l'ala del portico, stava per entrare nella crociera dell'Annunziata in compagnia del Ghezzo, occupato, giusta il suo costume, a brontolar fra sè, vide all'altro capo del portico, in mezzo al bujo, comparir due lumi e alcune persone; e ben comprese che da quel lato un'altra infelice creatura moriva, e che un altro ministro del Signore le recava nel punto stesso il pane dell'ultimo viaggio. Quella vista lo richiamò al santo dovere del suo ministero; e facendo forza per cacciar dalla mente l'estranea sollecitudine che l'avea dominata, alzò l'anima a Dio; e, raccolti i pensieri, s'accinse più commosso che mai all'opera di consolazione e di perdono per la quale era chiamato.
Entrarono nella lunga, silenziosa crociera. Settanta povere donne, madri, fanciulle, vedove, spose, languivano colà l'una a fianco dell'altra, vittime dell'infinito numero delle febbri tifiche e acute, che sotto forme così mutabili e diverse mietono ogni anno tanta parte del popolo. Que' letti, distanti fra loro non più d'un braccio, coperti di una coltre a liste azzurre e bianche, con un piccolo crocifisso a capo di ciascuno; quella negra tabella, portante l'iscrizione della malattia e il numero del letto dell'inferma; quel numero dato a ciascuna, fin dal primo entrare, invece del suo nome, che nessuno forse pronunzierà più sulla terra; tutta questa trista scena, sebben fosse quella che di continuo aveva sotto gli occhi, non eragli sembrata mai così trista, mai non avevagli stretto il cuore come in quell'ora.
Attraversando per lo lungo la crociera, guardava di tanto in tanto, con pietosa apprensione, le povere ammalate, le quali, non potendo trovar requie, arse o abbrividite dalla febbre, sembravano come implorare da lui, con una lunga occhiata, una parola di conforto, una benedizione: avanzavasi, e ne scorgeva più d'una stendere fuor delle coltri lo scarno braccio, e bere a stento un po' d'acqua per mitigare il fuoco che le consumava; udiva qualche bisbigliata prece, qualche gemito sommesso e trattenuto di chi soffriva di più, e il respirar tardo, affannoso d'alcune da cui forse sarebbe stato chiamato fra poco. E tutte quelle creature del Signore, aspettando ciascuna l'ora sua, pativano e tacevano.
Abbenchè non passasse ora, senza che questa vista compassionevole gli rinnovasse i pensieri misteriosi e tremendi; nondimeno don Teodoro, che continuava volonteroso quel sagrifizio della sua vita, appunto perchè era per lui il sagrifizio di tutti i giorni, nè mai aveva perduto lo spirito del pietoso amore che, purificandosi in mezzo a miserie e a patimenti, diventa la virtù d'un santo, sollevava a quella vista, dal profondo dell'anima, una preghiera all'Eterno. In quell'istante, pensando a tante disavventure, a tanti dolori che sono sulla terra, egli domandava, per tutti i suoi fratelli, la rassegnazione e la fede.
Giunse allora al letto che portava il numero 31; e maravigliò vedendo che, a un'ora così tarda, contro il costume e le rigorose discipline del luogo, si trovassero ancora vicine a quel letto due persone sconosciute, silenziose, raccolte in sè stesse, nell'atteggiamento del più profondo cordoglio. Sostenuta da alcuni cuscini, se ne stava mezzo sollevata sul letto una donna già grave d'anni, dimagrita così che non si sarebbe detto giacersi un corpo umano tra quelle coltri, se i ginocchi rattratti, e le braccia stecchite e stese fuor delle lenzuola lungo l'accosciata persona non avessero indicato che su quel giaciglio una poveretta poteva ancora patire e lottar colla morte. Nel momento stesso l'ammalata stava come sotto l'oppressura di una sincope improvvisa; la sua testa era inclinata sul petto, le pupille chiuse, contornate da un lividore di morte, la bocca mezzo aperta, e senza respiro: il solo indizio che durasse la vita in lei era un convulsivo tremito delle mani, con le quali pareva far di continuo uno sforzo come se volesse premere qualche cosa che non trovava.
Era la vecchia e povera Teresa: vicina al gran passo, andava cercando con la sua mano quella del figliuolo che aveva almeno potuto rivedere prima di morire, del suo Damiano.
Il giovine, vestito di poveri panni, che stavasi vicino a quel letto, pallido, ritto, cogli occhi fissi, colle braccia in croce sul petto, era lui.
Il giorno innanzi, all'uscir della prigione, Damiano s'era incamminato, debole ancora e con non so qual turbamento nell'animo, verso casa sua. Credendo impossibile che tutti l'avessero così dimenticato, non sapeva che pensare di Rocco e del signor Lorenzo. Camminava incerto e vergognoso per le vie, quasi che tutti lo guardassero in faccia, e al pallor della sua fronte, agli abiti sdrusciti, al tremito di tutta la persona, avessero a indovinare ch'egli usciva del carcere. Ma il pensare che fra pochi momenti sarebbe stato nelle braccia della madre, ch'essa e la buona Stella lo sapevano innocente, lo confortò, gli diè lena, fecegli scordar tutto quello che aveva passato.
Per giungere alla piazza Fontana, egli aveva prese le vie poco frequentate; allorchè, tutto a un tratto, sentì chiamarsi per nome: a quella voce si guardò indietro…. e Damiamo vide Rocco che correva a lui.
I due amici si fermarono. Dopo quel lungo colloquio, dopo quello scambio di ricordanze e di forti affetti a cui s'erano invano frapposte le porte del carcere, rivedevansi finalmente. Nè l'uno, nè l'altro in sulle prime seppe trovar parola; si riguardarono muti, tenendosi strette le destre; ciò che sentivano in quel momento non avrebbero saputo dirselo.
—Ascolta, mio Rocco!… Tu lo vedi il mio cuore, non è vero?
—Oh! Damiano….. lasciam tutto il resto adesso; e parliamo di te…. di loro.
—Da tre settimane io ti stava aspettando. Dopo quel dì….
—Cosa avrai pensato di me?… Oh se tu sapessi!… Io era là tutti i giorni…. due o tre ore di fazione, là nel cortile… sotto a quella tua finestrina; e guardava in su, per niente. Non ho trovato più nessuno, dopo il Maldura, che mi desse mente a me…. Anche stamattina, vedi, ci son tornato. Oh! l'avessi pensata che l'era venuta l'ora della giustizia, tu m'avresti trovato, all'uscire, là sotto a quella porta.
—Buon Rocco! e io ti feci torto!…
—L'han capita dunque la birbonata che t'avevan fatta?…
—Non parliamo adesso: vieni, Rocco, dammi il tuo braccio…. Son fiacco, mezzo disfatto ancora; ma io voglio veder la mamma.
—Aspetta un poco…. dammi ascolto….
—Come? mi tiri indietro?… Non si va per di là…
—Capisco; ma sai bene che t'ho detto….
—Cosa?… Io non so nulla.
—Ma non t'ho contato, quando son venuto a trovarti, là in quel maladetto sito, non t'ho contato che la mamma Teresa…. aveva dovuto cambiar casa?
—Sì; ma non t'ho creduto io. E perchè avrebbe dovuto andar via così presto?…
—Senti, Damiano…. la tua povera mamma ha patito tanto dell'ingiustizia che t'han fatto. Pensa tu dunque….
—Che pensare? io voglio vederla, Rocco! Tu sai dov'è…. andiamo insieme da lei.
E così dicendo, gli tremava la voce, e con gli occhi smarriti fissava
Rocco, che del pari mal sapeva mentire a quel che aveva in cuore.
—Tu non stai bene adesso, Damiano. Vieni con me…. andiamo prima….
—No! no! no!…. Tu non dici la verità, tu vuoi darmi a intendere quello che non è…. Rocco, di' su, di' su! la mia mamma…. la mia mamma… Dio benedetto!
L'amico, vedendo sulla faccia di Damiano il terribile pensiero che gli era balenato alla mente, e che non aveva avuto cuor di significare, comprese come non tornasse bene fargli mistero della verità. Ma gli mancava l'animo, gli mancava la parola.
—Io lo so…. ripigliò, senza tremare, Damiano: la mamma è…. malata?
—Sì, un poco, ma….
—Malata, dunque? malata, non è vero?…. Torna a dirlo.
—Sì, malata.
—Quand'è così, andiamo!
—Ma, lei forse non è nemmanco avvisata che sei in libertà…. e vederti, così all'improvviso….
—Non importa! andiamo, ti dico.
—Ma io, vedi, in coscienza, non posso….
—Come? non puoi?… In nome di Dio, ov'è la mamma?
—Povero Damiano!… Intanto che tu eri là, tra quattro muri, ci sono riusciti a condur via la Stella… Dicono che l'è andata a star bene, che non ha bisogno di nulla; ho cercato io del luogo, ma fin adesso son capitato male, non n'ho cavato nessun costrutto. La mamma Teresa, quando che fu sola, senza te, senza lei, ha cominciato a dar giù, a sentirsi male…. e un dì, non potendo più stare in piedi, non avendo anima che facesse per lei, si è rassegnata…. e si è fatta portare all'ospedale.
—All'Ospedale!…
A questo grido, pieno di dolore, Rocco ebbe tempo appena di sostener Damiano tra le braccia; giacchè al povero giovine non bastò la forza di sostenere il colpo; e venne manco nel mezzo della via.
Rocco lo trascinò nella vicina botteguccia d'un falegname: ajutato dal buon operaio, lo mise a sedere sur uno sgabellaccio; e fra loro due, bagnandogli la fronte con un po' d'acqua, vennero a capo di farlo rinvenire. Rimessosi in piedi, Damiano raccolse tutto il suo coraggio; usando una gran forza a sè medesimo, rese grazie a quel falegname della sua carità, e volle uscir con Rocco, pregandolo che l'accompagnasse fino all'Ospedale. Andarono insieme; ma, essendo vicina la sera, trovaron chiuse le porte, nè, per quanto pregassero, fu loro concesso di entrare. Rocco non sapeva ove condurre il suo disgraziato amico a passar la notte: dal dì ch'egli era tornato, aveva dormito sulla paglia, in una rimessa abbandonata, dove per compassione gli davan ricovero; ond'è che vergognavasi di dire all'amico che avrebbero spartito quel letto. Teneva però ancora in serbo un dieci lire, l'ultima sua ricchezza; e pensò che l'ora di farle esser buone a qualche cosa era quella. Entrò coll'amico in un'umile osteria; volle che mangiasse un boccone; poi, scorgendolo così oppresso, così rifinito, lo persuase di porsi a letto. Damiano l'obbedì; e quasi tutta la notte, mentre Rocco s'era seduto accanto a lui, continuarono a contraccambiarsi confidenze di dolore e parole di conforto.
Fu allora che Rocco narrò in che modo avesse saputo il caso della buona mamma Teresa, e quanto gli era noto e non ebbe cuore di palesargli la prima volta che si parlarono, là nella prigione; com'egli, appena venuto a Milano, dichiarato invalido, e messo in libertà dal militare, fosse corso alla piazza Fontana, a quella casa, a quel quarto piano a cui aveva sempre pensato, in tutto il tempo ch'era stato di là dalle care montagne del nostro paese; come, arrivato col batticuore a quella porta, si fosse trovato al tu per tu con la vecchia pegnataria, della quale non ricordava più il nome; e come costei, appena udì menzionar la mamma Teresa gli serrasse la porta in faccia, dicendogli nient'altro che:—Questa è casa mia; qui non c'è nè mamma, nè Teresa; andate all'ospedale, che se la c'è ancora, la troverete!…
Damiano sostenne, impassibile e muto, quella prova, la più difficile che il cielo gli avesse mandata. Egli non maledisse, non pianse; e concentrò tutto il suo dolore in un solo pensiero, nel pensiero di riveder sua madre, d'inginocchiarsi appiedi di quel letto abbandonato. Un solo lamento, in tutta quella notte, gli fuggì dal cuore: fu quando disse all'amico:—O Rocco! avresti fatto ben meglio a lasciarmi partire allora!….. Forse io non avrei condotto così, come ho fatto, la mia povera madre a morire all'ospedale.
Quando venne la mattina, stretti al braccio l'un dell'altro, s'incamminarono, senza far parole verso l'Ospedale maggiore.
Colà non trovarono chi sapesse loro indicare dove fosse stata portata la povera signora Teresa: ma, incontrato per caso il Ghezzo infermiere, a lui si raccomandarono: egli poi, sentendosi un poco frugar nel cuore, al veder quel giovine così sparuto e quel soldato, i quali con le lagrime agli occhi eran venuti a parlargli, li condusse al letto, dove languiva da due mesi colei ch'essi cercavano. Il Ghezzo aveva pigliato sopra di sè la responsabilità dell'infrazione alla regola; e consentì che rimanessero colà, per lungo tempo dopo l'ore consuete in cui sono permesse le visite agli ammalati: quella povera inferma, era la sola forse di tutta la crociera che da tante settimane stava in quel letto, senza aver mai veduto nessuno de' suoi; e scorgendola vicina al passo che dobbiamo far tutti, pensava che l'avrebbe forse benedetto anche lui.
L'inferma s'era sollevata un poco sulla persona; e, tenendo chiusi gli occhi, pregava, rassegnavasi a tutto quello che avrebbe di lei fatto il Signore, anche a non veder più i suoi figliuoli: pensava che Stella e Celso eran ricoverati in luogo sicuro, e offeriva al cielo anche l'angoscia provata per Damiano, la cui prigionia era forse stata per lei un colpo mortale.
Quando, aperti gli occhi, vide appiè del letto quel giovine, che la guardava pietosamente, senza osar di profferire il suo nome, sorrise un poco, scosse il capo, pensando che fosse un sogno, e ricominciò una preghiera. Ma la voce del Ghezzo, che si fe' sentire in quel punto:—Ehi! non conoscete più il vostro figliuolo?…. la richiamò alla verità.
—O santi del paradiso!… Sei proprio tu, Damiano?
—Sì, mamma.
—Dunque il Signore non me l'ha voluta negare questa consolazione?
—Non io, vedi, ma quelli che volevano farci del bene a modo loro, furono la causa di tutto: adesso m'hanno conosciuto innocente, e sono quì, sono quì con te, mamma…. Oh perdona al tuo figliuolo!
E chinandosi su quel letto, strinse amorosamente colle sue la scarna mano materna.
—E anch'io, mamma Teresa: si fe' animo a dire il buon Rocco, che, venuto innanzi in punta de' piedi, s'era posto dietro l'amico, anch'io ringrazio il cielo che ho potuto tornare a vedervi! Questo mio braccio non è più che un mozzicone; ma darei l'altro, per vedervi fuor del letto.
—E la Stella, dite, mamma, dov'è?…. Perchè, lei almeno, non la trovo vicina a questo letto?….
—Oh! lei è in miglior luogo: rispose con rassegnazione l'ammalata: è in una casa del Signore.
—Come? e vi ha abbandonata così, in questo momento?… non potè starsi dal dire il giovine.
—L'ho voluto io, Damiano; se non potrò più vederla, sarà un sagrifizio di più al Signore!
—No, mamma, non dite, non dite così; Stella non ve la strapperanno dal fianco que' tali, che han fatto già anche troppo per noi…. Ma verrà il momento… perchè un po' di giustizia la faremo anche noi! Sì, coloro che v'han ridotta su questo letto, ne hanno da scontare…. E una le paga tutte.
Ma s'avvide il giovine che l'infelice donna, atterrita per le violenti parole che gli prorompevano dell'animo esacerbato, volgendo il capo dall'altra parte, sentivasi oppressa da troppo forte passione, e sfuggiva il suo sguardo. Allora, supplicando chinò il capo dinanzi a lei; e colle più tenere e soavi espressioni che seppe trovare raddolcì l'amarezza che involontariamente le aveva versata in cuore; e così egli vide dissiparsi ogni nube da quella fronte venerata e cara. Le sedettero vicino i due giovani; e quando venne l'ora di staccarsi da lei, bisognò che l'onesto infermiere promettesse loro che li avrebbe lasciati tornare prima di sera. E tornarono, nè il Ghezzo seppe tener duro; cosicchè i due rimasero colà fino a notte fatta, discorrendo colla malata di tante cose che avevano nel cuore. Allora venne a sapere Damiano come e quando la Stella fosse stata collocata nel Ritiro; e sentendo come anche Celso da parecchie settimane avesse dovuto partire col suo superiore, senza che gli fosse nota la malattia della madre, comprese quel viluppo di sgraziate circostanze che in un punto avevan dispersa tutta la sua famiglia. Poi Rocco, per tenere un po' allegra la mamma Teresa, si fece a raccontarle la sua storia di que' due anni: e Damiano era caduto in profondi pensieri.
Ma la contentezza d'aver riveduto il figliuolo, e l'impeto di tanti e così diversi affetti risvegliati da quel lungo colloquio avevano prostrata del tutto la povera sofferente. A un'ora di notte, quando il Ghezzo venne per mandar in pace i due intrusi, trovò l'inferma svenuta, bagnata di freddo sudore, e i due giovani affaccendati inutilmente per richiamarla alla vita. Lo svenimento durava da quasi mezz'ora; e l'infermiere, il quale ben sapeva che la disgraziata era a mal punto, credè opportuno di correre a far avvisati, nello stesso momento, medico e confessore.
Don Teodoro giunse per il primo al letto della Teresa; e veduti appena i due giovani, imaginò di subito che non potevano essere se non i figliuoli di quella donna. Si avvicinò a lei, e toccandole il polso, s'accorse che la vita tornava a poco a poco, e che la sincope non poteva essere che conseguenza d'una forte e subitanea commozione. Racconsolati i figliuoli, i quali tremavano che quel deliquio fosse un presagio terribile, raccomandò ben bene all'infermiere ciò che avesse a fare per riaver l'ammalata; e quand'essa cominciò a risensare, volle che la lasciassero sola e quieta, dichiarando assolutamente impossibile che s'intrattenessero più a lungo. Ma li rassicurò, vedendoli levarsi di là come insensati per dolore, ch'essa non correva pericolo alcuno, e che il dì seguente, tornando a vederla all'ora permessa, avrebbero avuto ragione di ringraziare il Signore.
A Damiano toccarono il cuore le gravi e pietose parole del prete. Pigliò la mano della madre, la baciò, senza ch'ella se ne fosse accorta; e i due amici, tacitamente attraversando la crociera, uscirono dell'Ospedale.
Capitolo Decimoquinto
Quando, la mattina appresso, Damiano e Rocco vennero alla porta della crociera dell'Annunziata, aspettando l'ora che fosse riaperta, il Ghezzo, che aveva scorti salire, fece le viste di non por mente a loro, e tirò dritto. Gli era stata fatta, poco prima, una seria ripassata da uno de' medici ispettori, appunto per la licenza che il dì innanzi aveva pigliata; e come Damiano gli corse incontro, parve non lo conoscesse più. Ma, veduta una lagrima negli occhi del giovine, non potè proprio fare l'indiano, e prevenendo la sua domanda:—State di buon cuore: gli disse: la vostra mamma vuol guarire; l'avervi veduto è stata una medicina che le ha fatto un gran bene.—Con tutto ciò, non si lasciò smuovere da scongiuri, perchè potessero entrare innanzi l'ora.
I due giovani, trovandolo irremovibile, domandarono d'andar frattanto a riverire quel buon sacerdote col quale s'erano già incontrati; e l'infermiere indicò loro la via per salire alle sue stanze.
Entrarono timidamente; don Teodoro, che se ne stava leggendo, li riconobbe subito, e volle che sedessero: poi, date loro più consolanti nuove dell'inferma ch'era stato a rivedere la stessa mattina, li animò a metterlo a parte di quel poco che credessero potergli raccontare delle loro disgrazie.
—La famiglia de' poveri è la mia famiglia: diceva: apritemi il vostro cuore, e se non mi sarà concesso di giovarvi, potrò almeno dirvi qualche buona parola, in nome di Colui che mitiga tutti i dolori.
A Damiano quasi non pareva vero di trovare un uomo che loro parlasse come a fratelli suoi; e fu vinto da quell'espressione di serietà mista d'affetto, ch'era in ogni accento del prete. Si fece animo e gli raccontò, come seppe, la breve storia della sua vita, e le disgrazie che avevan condotto a quell'estremo la sua famiglia.
Quando don Teodoro intese che quel giovine, vestito ancora della grama casacca del soldato, non era fratello di Damiano, ma l'unico amico suo; quando udì il generoso sacrificio che il buon figliuolo fece della propria libertà, per non togliere a una famiglia non sua il solo sostegno che avesse, gli si volse maravigliato e commosso, tutto consolato di trovare un'anima così rara e onesta sotto a quella ruvida scorza, così piena d'amore e di virtù. Allora, volle sapere de' fatti loro qualcosa di più; come si fossero conosciuti, e dove, e quando: e Rocco, che in vita sua, fuor di Damiano, non aveva trovato mai nessuno che volesse dar mente a lui e alle sue fantasie, si mise a parlare, come il cuor gli diceva, de' suoi prim'anni, de' quali ben poco si ricordava; comechè quel tempo fosse stato per lui quasi un sogno di cui non aveva potuto mai trovare la spiegazione. Ma ricordavasi ancora che, da fanciullo, sentendo gli altri fanciulli domandar la mamma, egli si metteva a piangere, e fuggiva, fuggiva per le campagne, come il capriuolo selvaggio, non fermandosi che per guardar nel cielo lontano e infinito, se una voce domandasse lui pure, in quel modo che sentiva chiamar per nome i figliuoli degli altri.
Questa strana rivelazione colpì fortemente don Teodoro; e la certezza che il giovine doveva appartenere all'ampia famiglia di que' poveretti, i quali portano, vagando sulla terra, la pena della miseria, o d'una colpa da loro non commessa; la corrispondenza dell'età, del tempo, perfino la circostanza che l'aver perdute quasi del tutto le memorie della fanciullezza induceva il dubbio che veramente in allora la sua ragione fosse vacillante e scema; ogni cosa insomma veniva come a dar forma a un vago presentimento del prete, che Rocco potesse mai essere quel fanciullo da lui per tanto tempo e inutilmente cercato. E si rifece a interrogarlo più attento, notando le sue risposte, il menomo cenno che valesse a dargli qualche filo di verità: ma non mostrò al di fuori la grave preoccupazione del suo pensiero; chè non voleva turbare così la serena e semplice anima del povero soldato.
Anzi, appena s'avvide che le sue interrogazioni lo ponevano in non so quale impaccio, destando anche qualche ombra di sospetto in Damiano, tagliò a mezzo ogni discorso, e li congedò; ma non senza farsi promettere che sarebbero tornati al domani. Damiano passò tutto quel giorno a canto del letto di sua madre; la quale, riavutasi un poco dall'abbattimento del dì passato, cominciava a racquistar la buona speranza e non rifiniva di ringraziare il cielo che le avesse restituito il figliuolo.
Damiano non volle però, in quel giorno, metterla a parte de' pensieri che intanto avevano ricominciato a travagliarlo.
Egli si sentiva, come per lo addietro, animoso e onesto; il suo cuore, l'onor suo eran quelli di prima; e due mesi di carcere ingiustamente patito non dovevano averlo mutato in faccia a coloro che in passato gli avevan voluto bene. Così, poneva allora tutta la sua speranza nel signor Natale, quel negoziante di mobili, presso il quale s'era allogato prima del suo processo; lo stimava il re degli uomini, tenevasi persuaso che non gli avrebbe fatto il torto di licenziarlo. Voleva, senz'altro, presentarsegli franco e sincero al domani; e una volta che si fosse con lui racconciato, sperava di riuscire a trovarsi ancora un tetto, di farvi trasportar la mamma, appena si potesse; certo che allora anche la Stella sarebbe ritornata a star con loro; al modo, ci avrebbe pensato poi. A un giovine, come lui, non poteva mancar la forza di combattere contro la povertà, contro la oppressione della vita; capiva d'aver bisogno di tutta la serietà della sua mente, di tutta l'energia del suo cuore; e sperava ancora. Qualche cosa d'ignoto e di grande gli suscitava ancora la vita nell'anima; non avrebbe saputo spiegarlo, ma lo sentiva, che l'uomo è grande, solo perchè quello che ha dentro di sè non lo appaga, e perchè aspira sempre a qualche cosa, che non sa dire, ma che dev'essere il bene.
Intanto che Damiano usciva dal portone dell'Ospedale, seguendo queste confortatrici ispirazioni; intanto che apriva i suoi pensieri all'amico, il quale dal canto suo non davasi pace di non saper far altro che venirgli dietro come il cane del santo di cui portava il nome; poco lontano di là, tre persone, che da un pezzo non s'erano trovate e stupivan forse di trovarsi insieme, entravano in compagnia nell'antica osteria del Biscione. Due di loro, a prima vista l'avresti detto, s'eran messi d'accordo, e se la intendevano, anche senza spiegarsi; il terzo veniva innanzi a rilento, con non so qual titubanza e paura, quasi capisse e volesse anche significare colla sua ritrosia quello non essere luogo per lui. Ma i due l'avevan, per così dire, serrato in mezzo; e a furia di gentilezze e complimenti, se lo cacciavano innanzi. Si fecero aprire un'appartata stanzuccia a terreno, s'allogarono a una tavola, costringendo a sedere fra loro due il renitente convitato; e l'uno poi, che pareva il più autorevole, alla prima, comandò che fosse servito un buon cappone co' tartufi, e una bottiglia di Barbéra. L'altro allora cominciò a rassegnarsi, a farsi un po' sereno in ciera; pure sbirciava di qua e di là i compagni, poi la porta, come se ancora non si tenesse del tutto in sicuro.
—Oggi tratto io!—esclamò quel primo; e all'aria e al contegno l'avresti detto un signore, anche senza il bel diamante che gli spiccava sullo sparato della camicia. Egli faceva ogni studio per tener desto il buon umore colle cortesie e facezie, che non morivangli in bocca, ma più col non lasciar mai che vuoti riposasero sulla tavola i bicchieri de' due commensali. L'un d'essi, uom dozzinale, benchè insaccato in abiti nuovi con certa signoril pretensione, teneva sodo senza esser pregato: l'altro all'incontro stringevasi nelle spalle, cercando farsi piccino nel vecchio soprabito nero dentro il quale pareva ballare; e mentre con una mano pigliava il bicchiere, nascondeva coll'altra sotto la seggiola il suo cappello a tre venti.
—Le son proprio obbligato, cominciò colui che aveva comandata la cena, della sua condiscendenza, don Aquilino.
—Eh! eh! non dica tanto, mio caro signore.
Il prete che, sospinto un po' dalla paura, un po' dalla gola, non aveva saputo resistere all'invito del signor Omobono e del Rosso, cameriere dell'Illustrissimo, era veramente quel disgraziato di don Aquilino.
—Mi dica dunque lei, ripigliò colui, nel quale non è difficile conoscere lo stesso signor Omobono: mi dica lei, che gode il favore di tali che lo posson sapere…. Si racconta che, sotto apparenza di bene, alcun tempo fa, certa persona, che non voglio nominare…. siasi intrusa in certa famiglia…. per dar mano a certo intrigo…. non so se mi spieghi; pare che si trattasse nientemeno che di tirar per forza una giovine in convento.
—Oh, oh, oh! scrollando il capo, l'interruppe il prete; e fra sè pensava: Ohimè! dove sono incappato!
—Lei si maraviglia; ma, se io le dicessi che c'è chi fruga dentro in quella storia…. e ci si potrebbe trovare, gliene do parola io, abbastanza da metter lì un buon processo in regola.
—Ohibò! ohibò! tornò a dire il cappellano: e poi… scommetterei ch'è male informato, anzi…. son certo che falla.
—E se facessi il nome alla persona?…
—Il nome?… Io non ne so niente.
—Oh bella! chi dice che debba saperne qualcosa lei?
—Io non c'entro, dico.
Il povero cappellano era caduto nel tranello, per la paura; l'altro con un risolino muto, maligno, a fior di labbra, guardava di sottecchi il compare; il quale pareva dar mente più alla bottiglia che a tutto il resto, ma intanto non perdeva nè una parola nè un gesto de' due vicini.
—Davvero, che se io non avessi la fortuna di conoscerla da un bel pezzo, don Aquilino, crederei giusto di sospettar male….
—Come? come?
—Lei si scusa, con tale anticipata premura che si direbbe….
—Che?… Che?…
—Che le preme troppo di nasconder la parte da lei forse presa in quell'opera…. non del tutto caritatevole….
—Io non c'entro, le ripeto; e se qualcuno le avesse mai detto….
—Non le dò colpa di niente, io. Anzi, son di là da persuaso che, se appena ella avesse potuto metter bene, la cosa non sarebbe successa…. nè si vedrebbero per aria certi nugoli….
—Canzona, o dice davvero, signor mio?—E il povero don Aquilino, tremandogli la mano, non poteva infilzar colla forchetta il ghiotto boccone fumante sul suo piattello.
—Mi pare, seguitò l'altro, che non le sieno cose da ridere. Io ho della premura per lei; e però le parlo col cuore in mano, come a un amico. C'è una persona, m'ascolti bene, c'è una persona…. e anche questa non la voglio nominare… che si pigliò a male quella combriccola da sagrestia, tenendola come un'offesa fatta espressamente a lui. Non basta; le dirò che a quella persona, lei mi può capire benissimo, han messo in capo che la cosa fosse preparata da un pezzo, che si sien messe fuori certe imposture, certe invenzioni maligne, e che, in una parola, lei pure, lei don Aquilino, avesse tenuto mano a que' tali che s'eran messi in puntiglio di farlo star lui.
—Ma lei, signor mio, mi confonde la testa; io non so cosa voglia dire con tutti questi supposti. Io non ho mai fatto male a nessuno; quel poco che ho fatto a questo mondo, l'ho fatto per bene…. e se ho fallato, non è proprio stato per colpa mia.
—Ma lei non vuol capire: insisteva l'altro: non si tratta di lei adesso; solo si vorrebbe sapere, se veramente la giovine facesse quel passo di buona voglia, o se gliel'abbiano fatto fare….
—Cioè… cioè!… disse il cappellano, guardando in viso con sospetto colui, e come sfinito da quel penoso interrogatorio.
—Non si vuol già trappolarlo, caro don Aquilino; l'ha pur detto anche lei che aveva fallato. Si tratta dunque di rimediare…. e lei potrebbe….
—Cosa posso far io? per carità non mi tirino per i piedi…. e se c'è qualcuno che abbia i suoi fini….
—Già, si sa, sono i soliti garbugli di confraternita…. Ma, la vedremo!
Così si mise dentro anche il Rosso, col sordo sghignare di chi volge tutto in baja: nè altro disse; ma, abbrancando la terza bottiglia, ne spiccò di botto il collo colla lama del coltello, e mescendo nel bicchier del prete e nel proprio:—Viva il sciroppo di cantina, disse, che bacia e che morde! allegri! mandi a spasso gli scrupoli, don Aquilino.
—Zitto per carità! gli diè sulla voce, con basso, corruciato tuono il cappellano, a cui il poco che aveva bevuto non bastava a cacciar di corpo la paura: mi vogliono far giuocare una brutta carta…
—Eh! stia pure di buona coscienza: ripigliò il signor Omobono: chè i monsignori della Curia, benchè a due passi di qui, non la sentono. E poi, cosa fa di male? Sta piluccando un po' di grazia di Dio, in compagnia di due buoni cristiani, e vuota un bicchiero alla salute del prossimo…. Cosa ci avrebbero a ridire?…
—È vero che io…. ma….
—Ma, ma…. lo sa pure cosa dicevano i frati, se ben mi ricordo: Manducate quae apponuntur vobis; e l'avevano scritto a lettere di scatola sull'entrata del refettorio…. Eh! vada là, mi sarei fatto anch'io alla regola. Ma non perdiamo il tempo. Lei dunque potrebbe, al caso, attestare che la giovine, di cui si parlava, non entrò nel ritiro per assoluta e dichiarata vocazione?….
—Se debbo dire quel che a me pare…. veramente…
—Ma sì che l'ha detto. Non ci scambi le carte in mano….
—Lo confesso, n'ho avuto un po' di compassione.
—Ehi! ehi! signor cappellano, intendiamoci: uscì fuori brusco il
Rosso, senza finir di vuotare il bicchiere.
—Ah! vi faceva compassione?… domandò ironicamente il signor
Omobono.
—Oh finiamola! venne allora in mezzo il Rosso, per tagliar netto a quelle pappolate: Badi un po' anche a me, don Aquilino.
—Dica, dica pure, signor Rosso.—E pensava: A quest'altro adesso.
—Ecco qui; in due parole mi spiccio…. Qualunque cosa ella sentisse dire, in quanto alla giovine del ritiro, si guardi bene dall'immischiarsene, come ha fatto…. Non apra bocca con nessuno, per qualunque cosa che avesse a succedere…. E se mai, se lo metta in mente, se mai, fosse chiamato dall'autorità…. dico per un supposto…. lei farà bene a dichiarare che la giovine era stata condotta per forza in quella casa.
—Ma questo….
—Questo è quello che le consiglio di dire; per suo bene, per sua quiete.
—Che? c'è qualcosa per aria?….
—Sì, per dinci! Tutti i giorni ne succede una!….
S'intese un romore nella stanza attigua, come d'una seggiola rovesciata sul pavimento, e d'alcuni passi che s'avvicinavano.
Il signor Omobono balzò di subito in piedi; al Rosso morì in gola il discorso, e tutti e due volsero il capo a quella parte, onde lo strepito s'era udito. Don Aquilino, che nulla intese, ma vide l'improvviso sgomento de' due compagni, non sapendo più che pensare, tanto aveva la mente intronata e confusa, crede quasi d'esser caduto in un agguato, imaginò che la minaccia di cui parlavan coloro fosse già per compirsi. Non osava neppure girar gli occhi verso la porta, e si teneva aggrappato al desco, come il naufrago all'ultima tavola della nave.
—Eh via! che c'è? disse il signor Omobono, con un'alzata di spalle; ma egli pure, mutato in ciera, non avrebbe potuto rimettersi cheto a sedere, e teneva gli occhi inchiodati all'uscio.—Quel ladro dell'oste, continuò a voce più sommessa, m'aveva dato parola di lasciarci in santa libertà…. Andate a vedere, Rosso, ma pian pianino, per il buco della chiave, se mai ci fosse qualcuno di là.
—Cosa serve? disse colui.
—Andate là, fatemi questo piacere: so cosa dico.
—Sì, sì! per amor del cielo, che nessuno mi trovi qui…. barbugliò don Aquilino, perdendo quasi il fiato.
Il Rosso andò alla porta, sbirciò nell'altra stanza; tornando subito indietro, si rimise al suo posto, e cominciò a ridere sgangheratamente; poi, annaffiato il gorgozzule con un'altra sorsata, si volse al signor Omobono:
—Non c'è nessuno, ve lo dico io…. Vorrei vedere che a qualche bell'umore venisse in capo di fiutare i fatti nostri.
—Ma ho sentito io una pedata poco fa; e giurerei che han toccato la porta….
—È un sogno che fate: tornò a dir bruscamente il Rosso: e poi, chi volete…?
—Ma se mai…. soggiunse il cappellano, che aveva un cuor di grillo.
—Sarà stato qualche gatto che saltò giù da una tavola, o anche uno de' garzoni che passando avrà urtato in una seggiola: il signor Omobono disse alla sua volta, per rassicurare sè stesso e il compagno: E poi, fosse chiunque, non facciam combriccole noi, non diciam niente di male.
—Sì, ma un uomo come me, che non si vede mai all'osteria…. balbettava il pretoccolo.
—Eh! corpo del diavolo, lei è impastato di paura, caro signor cappellano. Cosa siamo noi? galantuomini meglio di lei, e manco impostori… gridò stizzito il Rosso.
—Siete un gran matto! disse il prete, che non vedeva l'ora d'uscire.
Si levarono dalla tavola; don Aquilino fece un sospirone, pensando fra sè che quella cena non gli avrebbe certamente fatto il buon pro; gli altri due scambiarono un'altra occhiata significativa, e s'incamminarono. Il prete veniva loro alle spalle.
Passando per la stanza, nella quale pochi istanti prima sembrò loro d'aver udito romore, s'accorsero d'una seggiola rovesciata dietro la tavola; e su questa eran due tondi, il resto d'un pane e una mezzina di terra. Il che li fece tornar sul pensiero che alcuno si fosse trattenuto in quella stanza e che potessero anche i loro discorsi essere stati uditi. Ma, supponendo amendue che colui al quale fosse nato il ghiribizzo di far loro la spia, non ne saprebbe cavar nessun costrutto, si tennero sicuri; e dopo che il signor Omobono ebbe pagato l'oste, uscirono all'aperto.
Don Aquilino, poco desideroso ch'altri il vedesse in compagnia di coloro, cavossi il cappello, balbettò uno scucito complimento; e cominciò a trottar lungo il muro della piazza Fontana, ringraziando il cielo di poter finalmente respirare un'aria più libera; abbenchè, nel camminare, ogni passeggiero, ogni lampada gli facesse come un barbaglio e a ogni poco gli sembrasse quasi sentirsi mancar la terra sotto i piedi.
Il signor Omobono e il Rosso, attraversata la piazza, si discostarono dall'opposto lato, ricominciando fra loro a parlar più chiaro, e con maggior gelosia.
Capitolo Decimosesto
Scantonava appena il malavventurato cappellano nella via delle Tanaglie, quando all'improvviso sentì una mano posarglisi sovra una spalla; e prima che si fosse vôlto per guardar chi fosse, quel leggier colpo era bastato a fargli gelare il sangue nelle vene. Si fermò, guardò, ma non riconobbe colui che gli s'era piantato al fianco. Era un giovinotto di volgare aspetto, con un giubbetto bigio e un berrettino di panno bianco orlato di rosso, somigliante a quello che portano i soldati. Mille pensieri a un punto s'urtarono nel cervello di don Aquilino: al vedere colui, s'imaginò che veramente fosse un soldato; avrebbe giurato che gli luccicasse in mano un pajo di manette.
—L'ho capita io, pensò in furia, che que' due birbaccioni m'han tirato in ballo, e che stan mulinando qualcosa di maledetto…. Forse i segugi eran già sulla loro pesta…. Sta a vedere che tocca a me, a me, che non ne so nulla….
Poteva pensare, ma non parlare; le sue labbra aride, convulse, non sapevano articolare un accento. Ma, fatto un eroico sforzo, riuscì alla fine a mandar fuori un fioco:—Cosa vuole, signor soldato?
—Niente, signor canonico, o quel che è; ovvero sia, per dir la verità, una cosa di niente…. Faccia la grazia di dirmi s'era lei che si trovava poco fa al Biscione, in compagnia di que' due che svoltano in questo momento l'angolo dell'Arcivescovado….?
—Io…. io…. non vedo nessuno; non so di chi voglia parlare, signor soldato; rispondeva, con tuono patetico, il prete.
—Via, non serve; già l'ho veduto io; torno a dir dunque che abbia la bontà di venire con me….
—Ma…. ma…. ma…. e dove?
—Oh! non c'è da aver paura; non sono già uno sbirro io: sono un buon figliuolo che vuol far piacere a un amico. E questo tale amico, che ha bisogno di dirle due parole… è, a due passi di qui in quella botteghina di caffè, là dirimpetto.
—Non conosco nè voi, nè il vostro amico: rispose don Aquilino, pigliando un po' di fiato; e sperava di trarsi d'impaccio col prendere un tuono serio.
—Non è niente di male, signor canonico: venga con me, non mi dica di no, veda; sarà contento poi.
—Se non posso… se non ho tempo! ho altro per il capo io…. E non son di que' preti che si lascian vedere ne' pubblici caffè….
—Che? non viene forse in questo momento dall'osteria….?
—Cosa sapete voi….? E poi… così, insieme a un soldato…!
—A un galantuomo, dica meglio; mentre, poco fa, s'era messo a tavola con due infami e dannati.
—Ohe! ohe! come parlate?
—Alle corte, vuol venire sì o no?… Se mi dà ascolto colle buone, meglio per lei: se no, troverò facilmente chi saprà farla parlare, a pochi passi di qui.
—Che? che? come?… È una minaccia questa?
—È un consiglio, signor canonico: venga con me, le dico, per pochi minuti; e le do parola che non si vuol farle niente, ma darle mezzo di riparare a un gran male.
—Non capisco, non capisco. Oh povero me, in che sorte di matassa mi sono imbrogliato!….. E dire che non so capirne niente….
—Lei capisce tutto, e verrà con me.—Ciò detto, pigliando forte don
Aquilino per un braccio, se lo trasse dietro a forza.
Era già notte, di modo che pochi passeggieri s'avvidero del colloquio rapido, concitato di quelle due persone; e se alcuno vi pose mente, non trovò poi nulla a dire quando li vide allontanarsi a braccio l'uno dell'altro, come due oneste conoscenze. Il prete, che tremava come fosse di gennajo, mal potendosi reggere sulle gambe sottili e fiacche, lasciavasi condurre da quel giovine ignoto; e la paura rinata più forte snebbiavagli in un momento l'intelletto. Egli malediceva in cuor suo l'ora che incontrò il signor Omobono col degno compagno suo, e la gola d'un ghiotto boccone e d'una bottiglia che l'avevano tirato in quell'antro; gli venne perfino in mente che fosse il castigo del cielo per la tentazione ch'egli ebbe di transigere colla coscienza.
Entrarono in quella botteguccia, che il soldato aveva poco prima additata. Era deserta; ma da un attiguo stanzino uscì con furia un giovine, il quale, veduti appena i due che venivano, si fece loro incontro e fulminò con un'occhiata lo sbaldanzito cappellano.
Costui era ancora troppo confuso, aveva il sangue troppo rimescolato, per riuscire a capir qualcosa di netto in tutta questa diavoleria, della quale si credeva la vittima. Quel giovine, con un gesto minaccioso, volle spiegarsi; ma il compagno, per distornar la gragnuola dal capo del tapino prete, gli tagliò le parole in bocca.
—Ecco il nostro signor canonico: disse Rocco (poich'era lui): con tutta la buona voglia è venuto qui, pronto a metterci a parte di tutto quel che a noi preme di sapere. S'accomodi, signor canonico…. Comanda qualcosa? rosolio, caffè, che so io?… Siamo anche noi di buon cuore, veda: s'accomodi, prenda fiato un momento; e c'intenderemo in due parole.
Damiano, che li aveva colà aspettati, pareva oppresso da interno prepotente affanno. Lo sguardo incerto e cupo; pallide, infossate le guancie per il patimento durato lungo tempo, e per il nuovo dolore; chi lo avesse veduto in quel giorno, più non avrebbe riconosciuto in lui l'ardito e sincero giovine di tre mesi addietro, che s'era fatto il maestro e l'amico d'una schiera di bravi artigiani, che cominciava a confidare in sè stesso e nella vita, e in qualche cosa di vero e di grande a cui sentiva di poter con loro aspirare.
Egli era là, commosso più dal cordoglio che dall'ira: quantunque nel volto gli si leggessero i cupi pensieri d'ira rinascenti al vedersi dinanzi quella sparuta figura, più dolorosa era la punta che gli aveva passato il cuore. Per sapere come così di subito fosse avvelenata quella prima contentezza da lui sentita al riveder la madre, ci bisogna tornare un poco addietro, al momento che Damiano e Rocco, la medesima mattina, si partivano dall'Ospedale.
Staccatosi appena, coll'animo un po' consolato, dal letto di sua madre, la quale dopo la crisi del dì innanzi s'era riavuta in modo quasi miracoloso, Damiano pensò, prima d'ogni altra cosa, d'andarne a cercar novella dal signor Lorenzo, ch'egli teneva pur sempre come suo amico e compare: gli stavano sul cuore tante cose da dirgli, e sperava da lui, se non ajuto, almeno qualche consiglio sincero e forte. Giunto nella lontana parte della città ove dimorava l'antico cisalpino, entrò in una vecchia casa, da cima a fondo tutta abitata da poveri; salì quelle scale a lui note, tirò il cordone che pendeva fuor della porta: aspettò, nessuno venne ad aprirgli. Sonò la seconda volta, pensando che poteva esser l'ora della consueta camminata del buon veterano; ma vide schiuder la porta d'un pigionale vicino: un vecchio calzolajo, a cui s'aggrappavano sulle gambe tre marmocchi, mise fuori il capo; e:—Quel giovinotto! disse: cercate del signor cavaliere?…. Potreste sonare fino al dì del giudizio; otto dì fa, l'han portato a star di casa al Gentilino.
Damiano guardò in faccia quell'uomo, e restò come dissennato; non domandò più nulla; ma, chinato il capo, stette un poco sopra pensiero:
—Egli è là con mio padre!… mormorò poi: Come farò io, senza di lui?…. Oh! almeno egli ha finito di portar la sua catena!
Il calzolajo nulla comprese; o, più che a lui, badava a far tacere i figliuoletti, che strillavano a coro. E Damiano, coll'anima piena di dolore, ma senza poter dire una parola, scendeva lentamente da quelle scale; allorchè una donnicciuola che saliva incontro a lui, passandogli accosto, lo guardò bene, quasi le fosse paruto di conoscerlo: poi, da mezza scala, si volse come persuasa che veramente quel giovine era colui ch'ella si pensava: tornò indietro con furia, lo raggiunse al momento che usciva sulla via, e senza complimenti, trattenendolo per un braccio, cominciò a dirgli ch'ella era la Caterina lavandaja; che stava da sette anni porta a porta con quello ch'egli veniva a cercare; che sapeva chi era lui, e che l'aveva veduto le tante volte venire a quella casa, in compagnia del povero signor cavaliere; e:—Già lei è giovine: seguitava con la pettegola sua ansia: e non doveva guardarmi a me che son vecchia; ma pazienza!…. Cosa ha detto di questa brutta storia?… In manco d'otto dì, buona notte, è andato via… Ma io l'ho indovinato, alla bella prima, subito che l'ho visto mettersi giù… Non c'è stato nessuno fuor di me, vede, che abbia fatto quel poco che si poteva per lui; ho a dire, che la settimana passata non ho dormito due notti…. era là a ogni momento, per veder se gli bisognasse qualcosa. Ma già quel benedett'uomo non parlava mai… Figurarsi! non m'ha nemmeno ringraziato una poca volta… E poi duro, ostinato, non ha voluto proprio mai sentir nominare ne' medici, nè preti; capitò lì, una mattina, uno de' coadjutori di san Lorenzo… un bravo prete, ch'è come un santo, e a sentirlo in pulpito, non c'è che dire, bisogna piangere… e nemanco di lui, non ha voluto saperne…. Ma il prete, duro anche lui; e scommetto che, all'ultimo, avrà avuto di grazia a recitarlo un atto di pentimento… Oh! le vicine han bel dire ch'è morto come un cane, proprio da dannato giacobino com'era stato sempre. Io, vede, la sera appresso, colle figliuole del Giovann'Antonio sellajo, gli ho detta su la sua brava terza parte del rosario…. che, se non sarà buona per lui, sarà buona per me…. Ma tutto questo non è quello ch'io voleva contarle…. Ecco qui: negli ultimi tre giorni, egli ripeteva a ogni poco il nome di Damiano… che è il suo, non è vero? io lo so bene… e si vedeva che quel povero cristiano pensava a qualche cosa che non voleva o non poteva dire… E poi: l'ultima sera, poco prima che andasse in agonia, m'ha fatta venire vicina… E perchè mo?… per farmi vedere un certo sacchettino di pelle che teneva al collo, raccomandandomi d'usargli la carità di stare attenta che i becchini, quando fossero venuti a portarlo via, non mettessero le unghie su quella reliquia. E io, a dirla proprio tal quale, quando che per lui la fu bella e finita, non poteva quietare, se non avessi saputo cosa mo ci fosse dentro in quel sacchetto…. Pensi, in cambio di qualche manata di zecchini, com'io pensava, ci trovai un po' di cenere…. Chi sa che diavoleria era quella!… Per far bene, l'ho portato al prete.
Damiano, a quelle parole, si ricordò dell'ultima notte del suo povero padre.
Tornato, sul far della sera, al luogo ove Rocco l'aspettava, gli narrò questa nuova sciagura; gli confidò com'egli non sapesse più che far di sè stesso, come si sentisse sconfortato, avvilito, perduto. Ma Rocco, con la virtuosa franchezza d'un cuore che le disgrazie fanno più saldo, gli rammentò la madre, la sorella, ciò ch'egli dovesse fare, ciò che aveva promesso. Gli ripetè di volere spartir con lui l'ultimo pane, che, quanto a lui, anche storpio d'un braccio, avrebbe saputo guadagnarsi. Gli disse ch'era necessario e giusto parlare a ogni modo con quel prete che aveva veduto negli ultimi momenti il povero signor Lorenzo; e Damiano promise di farlo.
Di là eransi incamminati alla piazza Fontana; e Rocco, scorgendo l'amico così spossato, così malinconico, l'aveva condotto a fatica nell'osteria del Biscione, per offerirgli un boccone, un po' di brodo o, meglio, un buon bicchier di vino. Colà volle il caso che, dalla stanza in cui s'eran messi, i due giovani udissero in confuso qualcosa del dialogo di sopra narrato. Ecco perchè Rocco, che aveva la sua parte di malizia, ricorse allo spediente di sottoporre quel tristo di don Aquilino a un interrogatorio nelle forme.
—Scusi, cominciò serio Damiano, del modo forse sconveniente, con che noi….
Manco male, pensò don Aquilino, costui pare un po' più umano dall'altro compare; e rispose, pigliando fiato:—Veramente il modo è per lo meno… strano; e, davvero, non so come…
—Via, non si tratta di questo: gli tagliò l'altro le parole a mezzo: lei, signor canonico, desinò poco fa allegramente all'osteria, insieme a due birboni impostori, che, in poche parole, avevano la mente di tirarla dalla loro, d'impegnarla bel bello a dar mano a un'azione da galera.
—Oh! oh! miei signori, mi meraviglio di loro; vedo che m'han preso in iscambio, non c'è che dire. Mi lascino un pò andare, chè sarà ben per loro e per me.—E si volse a cercar la porta.
—Si fermi: gli disse Damiano.
—Si fermi! aggiunse Rocco con voce sorda e minaccevole; si fermi, signor canonico, e sieda lì.
Il prete ricominciò a smarrirsi, ma obbedì; e docile si pose a sedere sull'angolo dello scanno; un garzoncello portò il rosolio che avevano comandato; e Rocco, con aria di complimento, ne presentò un bicchierino al prete, il quale non seppe dir di no, e bevve, quantunque gli somigliasse veleno.
—Animo, signor canonico, gliel'ho pur detto; noi le vogliamo bene, e ci lasceremo amiconi.
—Non perdiamoci in discorsi inutili: ripigliò Damiano, corrugando le ciglia. Mi guardi bene in faccia; lei non mi riconosce più, lo so bene; ma io mi ricordo di lei, io che ho fatto la mia parte d'esperienza a questo mondo, io ho imparato a legger sul volto degli uomini il loro cuore. Oh se fosse vero quello ch'io temo pur troppo che sia!… Ma, a ogni modo… e per ciò appunto, ho voluto indirizzarmi a lei, sentire la verità. Que' due ch'erano con lei, l'uno lo conosco pur troppo, parlavano come ribaldi che sono…. parlavano d'una giovine cacciata per forza in un ritiro… d'un testimonio falso del quale si ha bisogno…. E perchè?
Don Aquilino era come seduto su' carboni ardenti; tentennava sullo scannetto, voleva e non voleva confessare; e poi, a dir vero, non aveva forse saputo capir giusto ciò che mulinassero que' due scellerati, come lo seppe Damiano. Cominciò a batter le palpebre, a torcer la bocca, con un sibilìo confuso; cosicchè Damiano perdè la poca pazienza a stento serbata fino allora.
—Parli, le ripeto, o ch'io…. Dica, chi è la giovine di cui parlavano?
—Ma se non so niente…. ma se, all'incontro, son coloro che voglion rovinarmi!—rispose, strascinando le parole, il prete.
—Oh sì, lo vedo: con amaro sorriso di sdegno seguiva Damiano: io la credeva un dappoco, uno scempio ingannato da uomini peggiori di lei; ho pensato che una parola di dolore, un sentimento di verità le avrebbero toccato il cuore, e che alla fine non si sarebbe sentito capace di dar mano a un delitto. Ma no! lei sa l'infamia che sta per esser tentata; potrebbe forse con una sua parola impedirla, e questa parola non ha cuore di pronunziarla…. Non capisce cosa sia lei?… Non capisce chi son io che le parlo?….
Damiano tremava parlando così: il prete lo riguardava senza fiatare; ma, per quanto si studiasse, non sapeva dire a sè medesimo chi mai potesse essere quel giovine.
—E se mai non lo sapesse ciò che pensan di fare coloro, io glielo dirò! Un di que' signori, che si crede buono a qualcosa, perchè si tira dietro una frotta di mangiapani e di leccazampe, un di que' tali che paga il male che fa fare, e colle cartapecore de' suoi vecchi si copre dalle mani della giustizia di questo mondo, s'è messo in capo di riuscire a qualunque costo a perdere una povera giovine…. Ce n'è tante che, senza cercar altro, si vendono per un po' d'oro, tante che invidiano forse questa fortuna!… Or bene, quel tale, io lo so! non s'è dimenticato di questa che, tra di loro, usan chiamare… una fantasia! Intanto che il fratello di quella poveretta è là, che marcisce in una prigione, innocente anche lui!…. e intanto ch'essi han la madre che muore all'ospedale…. egli avrà detto: Il momento buono è questo!…. Così si costuma di fare; quel che vogliono, vogliono; e poi tutto s'accomoda con mille, duemila lire…. è una bella dote, e bastante perchè si trovi chi le dia un nome, nome di galantuomo, e non cerchi conto del passato!…. Non è così?… E lei, senza scrupoli, vestito come è di que' panni, sarebbe capace di tener mano a un negozio di questa sorte?….
—Oh Signore! cosa mi tocca mai di sentire? mormorò don Aquilino, giungendo le mani, e turbato in cuore, un po' per la compassione sincera che cominciava a provare, un po' per non so qual razzolìo nella coscienza.
—Mi conosce adesso?…. Sa chi son io?….. Io sono il fratello di quella giovine, e so quel che si vuol fare della mia povera sorella. In questo momento, essa è là in un ritiro, e ve l'han trascinata per forza, nell'ora ch'essa doveva stare al letto di sua madre…. Anche questo lo so! dica dunque, forse non è vero?
Don Aquilino non tremava più: nel suo gramo cuore, egli era già vinto.
—Ma i muri di quella casa, ripigliò Damiano, non sono quelli che la salvano, lo vede anche lei! Or bene, io son quì… e ci penso io.
—E lei, signor canonico, si mise dentro Rocco, che fino allora aveva creduto bene di lasciar parlare l'amico, lei, deve fare tutto all'opposto di quanto le è stato detto; e ajutarci a dare il contrappelo a que' due galeotti, che son carne e ugna tra loro.
—Bontà del cielo! ora ho capito!… disse finalmente don Aquilino, che al suo solito finiva a darsi sempre, mani e piedi legato, all'ultimo che gli parlasse. Pensino un po', se io avrei voluto nemmen saperla cento miglia lontano una iniquità di questa fatta!.. L'ho ben sempre detto io: Anima ejus in bonis demorabitur, come c'è sul breviario… Loro, forse, non sanno il latino; e vuol dire che io ho bisogno di star sempre colle brave persone… come son loro due, per esempio.
Fatti dunque dentro di sè, in fretta, i suoi conti, il cappellano si decise, prima di tutto, di salvar sè medesimo, e poi di far servigio anche a due giovani, raccontando, non tutto quel che volevan sapere, ma quel poco ch'egli sapeva o aveva potuto argomentare. Damiano e Rocco, come volle, gli promisero di tener segreto il tutto, per non esporre a nessun risico, qualunque cosa avesse a succedere, il suo carattere e la sua convenienza. Così, poichè ebbe scarico il cuore di quel gran peso, a don Aquilino parve di tornare in vita; e nel suo segreto fece voto di non lasciarsi tirar mai più in nessuna briga, nemmeno colla più santa delle intenzioni; perchè—pensava—io non posso far mai niente di bene; e non ho mai da trovarlo il santo che mi aiuti.
Damiano, innanzi lasciarlo partire, gli prescrisse appuntino ciò che dovesse fare il giorno appresso: e Rocco, al momento di separarsi da don Aquilino, facendo crocchiar le dita, si volse a lui e:—Non le ho detto io, signor canonico, che saremmo andati via di qui buoni amici?…
Il cappellano sorrise, come meglio seppe. Ma, uscito appena della botteguccia, vedendo che i due giovani volgevano a dritta, egli prese subito la via a manca; e, camminando senza pur lasciar fuggire indietro un'occhiata, andò a rintanarsi prestamente in casa, intanto che Damiano e Rocco tornavano al misero bugigattolo, ove s'eran ricoverati la notte innanzi.
Capitolo Decimosettimo
Era passato un altro giorno. In una piccola sala, tappezzata di un bel damasco verde, ornata all'ingiro di ricchissima suppellettile forestiera e di quegli ampii e diversi seggioloni inventati così a proposito dalla moda per i lunghi ozj degli annojati del nostro tempo, un vecchio servitore in livrea s'affaccendava a ravvivare il fuoco sul camminetto, quantunque non fosse ancor finito l'autunno, e il bel sole d'ottobre cercasse di penetrare da due balconi, attraverso le doppie tende cadenti fino al suolo. Appena si destò la fiamma sul camminetto, dalla porta opposta a quella, per la quale usciva il servitore, videsi entrar la contessa Cunegonda.
Andò a sedere a una tavola di legno nero sottilmente intarsiata d'avorio, ov'ella soleva occuparsi della sua epistolare corrispondenza. E di fatto, su quella tavola vedevansi alcune cartelle di marocchino scuro, diverse lettere messe a fascio e annodate da fettuccie di seta, e parecchi libriccini divoti che soleva tener sempre alla mano, come piccioli doni alle pie persone che venissero per raccomandarsi a lei.
Pigliata allora la penna, con molta attenzione scrisse, l'una dopo l'altra, tre lettere: e bisogna supporre che trattassero di segreti alti e stringenti, comechè si fosse degnata di scriverle e suggellarle di sua propria mano. Que' tre fogli le stavano là sott'occhio, quand'ella trasse fuori dalla sopracoperta improntata d'un ampio stemma una lettera più grande, in forma tutta diplomatica, e la rilesse cogli occhi pieni di gioja e col superbo sorriso del generale che ha in pugno la vittoria.
Alla vecchia orgogliosa dama quella commozione pareva cancellar le grinze di almen dieci anni; un leggier vermiglio erale salito alle guancie avvizzite, si teneva alta e diritta sul busto, e coll'indice appuntato al foglio seguiva, parola per parola, tutto quel che v'era scritto.
—Sì, non c'è più dubbio: disse poi tra sè: abbiamo vinto anche questa volta! Le cose, si può dirlo, cominciano a camminar bene. Orsù, corran pure le mie lettere al loro destino.—E suonò un campanello che teneva sullo scrittojo. Poi, senza volgersi indietro:—Siete il Venanzio?… domandò al servo ch'entrava.
—Eccellenza sì.
—Portate subito queste lettere alle persone a cui sono indirizzate. Ma badate di non pigliar l'una per l'altra; andateci voi stesso, nè datevi il comodo di qualch'altra volta, quando, a fuggir la fatica, vi siete fatto servire da un altro servitore.
—Non dubiti, Eccellenza; farò il mio dovere.
—Sì, e aspetterete le risposte, se ve ne sono; andate lesto, e sopratutto non ciarlate, come so che vi piace di fare, e non fermatevi per via a…. capite cosa intendo dire?…
Il servo si mise una mano al petto, e con una profonda riverenza indietreggiando fino alla porta della sala, s'affrettò di compiere il cenno della contessa sua padrona.
La quale, rimasta sola, chinò il capo in atto di meditare; e sulla sua fronte una patetica serietà prese il luogo di quel baleno di gioja che avevale sgomberato poco innanzi da ogni nebbia il viso. Non potè più star cheta a sedere; e levatasi dallo scrittojo, cominciò a passeggiare per la sala, con principesco incesso; poi, fattasi vicino a uno dei balconi, gittò un'occhiata distratta nella via, sulla gente che passava; tornò indietro verso l'ampia specchiera del cammino, e fermandosi a guardare un quadro che, nella ricca cornice indorata tutta a fogliami e cartocci, sormontava la specchiera, incrocicchiò le braccia, e disse:—Ho regnato, e regno ancora!
Quel quadro figurava una bella e giovine donna dall'alta fronte, dal nero sopracciglio, dagli occhi di fuoco, vestita d'un sottil busto di raso cilestrino, scollato in guisa che l'occhio discopriva il ben tornito collo, e i molli ignudi avorii, come forse un dì aveva cantato alla bella dama qualche cicisbeo frugoniano. Sulla bionda parrucca, architettata a molteplici ricci, posava a sghembo un leggier cappellino di velluto nero ornato di una ghirlanda di rose e d'un bel mazzo di pioventi nastri d'ogni colore; le braccia, nude anch'esse fino al gomito, spiccavano fra un'onda di trine; e l'uno s'appoggiava vezzosamente al fianco, ripiegato l'altro sul seno reggeva colla piccola mano un prezioso ventaglio, dietro al quale non sapevi dir se volesse nascondere o svelare la sua bellezza.
Era questo il ritratto della contessa Cunegonda, quando non contava che ventidue primavere. Fissandovi gli occhi in quella mattina, essa dimenticò per un momento quasi cinquant'anni. E tornò a pensare alla sua gloria d'una volta, alle fiamme accese un dì per lei, agli omaggi del fior della nobiltà di quel tempo; pensò a qualche famoso duello di cui fu bella cagione, a que' buoni cavalieri serventi che le facevan codazzo, che aspettavano, spasimando per lunghi mesi, il permesso di baciar la sua mano, il saluto del ventaglio, un'occhiata, un sorriso.
Ma quella memoria, que' pensieri fuggivano; e chinati gli occhi, gettava quasi involontariamente un rapido sguardo nello specchio:—Non è più quel tempo!… diceva tra sè: Eppure, io sono ancor quella: amore è il sogno d'una primavera; ma l'opinione governa il mondo.—Così diceva, senza spiegar bene a sè stessa ciò che dentro sentiva in quel punto: intendeva forse che, se un giorno tenne la chiave de' cuori, or teneva quella de' cervelli degli uomini. E in vero, nella sua umiltà, essa non aveva creduto mai d'esser tanto necessaria nel mondo, come in quel giorno.
S'udì il romore d'una carrozza nel cortile; indi a poco si spalancarono le porte dell'appartamento; un cameriere annunziò ad alta voce:—La signora contessa Cleofe. La vecchia dama fece tre passi incontro all'amica; la quale, da questa inusata dimostrazione di premura, comprese che ci dovevano esser in aria delle importanti novità. Si baciarono sulle due gote, con quella problematica tenerezza che usan sovente fra loro le dame; e poi che furono sedute, la contessa Cleofe cominciò:—Mia buona amica, sa ella qualche cosa del grande affare che ci tiene sospese nell'aspettativa da tanto tempo…?
—L'ha proprio indovinata, contessa mia; la cosa è finalmente decisa: e nel dir questo divenne radiante e solenne.
—Dice da vero? dunque….
—La vittoria è nostra. Ho ricevuto stamane il decreto formale, che ne annunzia il pieno riconoscimento tanto desiderato da noi. Le dirò di più, che anche le lettere di Lione, di Modena e di Roma recano le nuove più certe, le più consolanti; di qui innanzi vedremo i nostri poveri sforzi coronati di migliore riuscita. Io ho già scritto questa mane al consigliere Alberico, al reverendo Padre, e a qualcun altro de' zelanti nostri promotori. Quanto al Padre, non so capir veramente come in questi ultimi mesi siasi mostrato, se m'è permessa l'espressione, un tantino accidioso; partire per le provincie, senza lasciar ricapito alcuno, e frattanto metter sulle nostre braccia tutta la matassa, che non è facile a strigarsi!
—In tutto ciò che posso, le offro, buona amica, la debole opera mia. Solo voglio dirle che bisogna adesso più che mai usare con somma prudenza, e non cantare tant'alto i recenti trionfi; perchè non poco giova alla nostra causa che la si creda perseguitata e oppressa. I nemici son molti, e l'erbe maligne pur troppo soffocano ancora i germogli del buon grano.
—Sì, contessa, ha ragione da un lato: disse, con tuono magnifico, la contessa Cunegonda: ma dall'altro, bisogna pure combattere all'aperto, a visiera alzata, come dicevasi al tempo de' Paladini; noi possiamo operare, possiam farci temere; e quando si tratta de' nostri principii assoluti, inconcussi, inespugnabili…. noi, noi dobbiamo, mi lasci continuar nella comparazione, gettare il guanto al secolo.
—E crede ella?…
—Così nelle grandi, come nelle piccole cose, io credo, non si deve mai transigere.
—Ma…. se…. poi…. calcando le parole ripigliò l'altra contessa: se poi ne dovesse venire, per un'ipotesi, qualche danno al credito, all'opinione, alle persone; se c'entrassero mai certe pubblicità scandalose….
—Che mi viene a far di tali meschini dubbj adesso? ho altri pensieri per il capo io….—Poi stette a guardar un poco la sua potente alleata, e soggiunse:—Ma ella, non m'inganno, parla con seconda intenzione; sì, ella deve saper qualche cosa che stima di dovermi tacere.—E a tal sospetto, si fece torbida nello sguardo e corrugò la fronte.
—Ella ha qualche riservata notizia, ripeto; e senza timor di fallare, dico che si tratta di cosa la quale può in qualche modo ferirmi: se non fosse, non mi guarderebbe come fa adesso. Ci conosciamo da un pezzo; e se per me ha dell'amicizia, deve parlare, dire quel ch'è vero, senza reticenze, senza riguardi.
—Ella mi scongiura in un modo, contessa…. Basta…. non vorrei dar corpo alle ombre. Si tratta d'una cosa che mi fu partecipata con gran riserbo; che non voglio credere, che non credo anzi.
—Or via, dica, contessa; ella mi fa morire d'impazienza.
—Pensandoci su, per altro, capisco anch'io che è affar da nulla; in un giorno di trionfo, com'è questo per noi, non val la pena di sturbarci per tali inezie. Ci sono interessi molto più gravi che ne tengono occupate.
—Se posso comandare, in nome dell'amicizia lo comando; parli, se non vuole che tutto sia finito tra noi, parli una volta.—E la vecchia impallidiva, commossa in ogni fibra da un tremito visibile, convulsivo.
—No, no; mi preme troppo la sua amicizia, perch'io vi rinunci per così piccola ragione. Via, si ricomponga, mi fa paura. Ecco la cosa qual'è. Si ricorda, contessa, di quella giovine, per nome Stella, la quale, saranno forse due mesi, abbiam fatto ricoverare, affinchè racquistasse colla pratica della pietà e della mortificazione una virtù, ch'è veramente, come esprimevasi quel nostro reverendo nel suo famoso panegirico di santa Filomena, la perla dell'innocenza nella conchiglia dell'onestà?
—Sì, sì, dice benissimo; ma non parliam del panegirico adesso….
—E bene, contessa, dico ch'ella non può essersi dimenticata di quella giovine; ne abbiam tenuto discorso più d'una volta; e deve pure aver presente che la superiora della casa ne aveva riferito come la figliuola, da principio rassegnata e ben disposta in ogni cosa, si fosse poi messe in testa certe idee ricalcitranti al bene, non facesse che piangere, e trascurata al lavoro, alle pratiche divote, cominciasse a mostrarsi restia, caparbia, non senza danno della disciplina e scandalo della comunità.
—Questo lo so; e fu per questo appunto che, non ha molto, facendo l'ordinaria visita al Ritiro, dissi alla madre Eleuteria che, in caso di recidiva, poteva aggravar la mano sulla sediziosa insolente, all'effetto di presto ravviarla al bene.
—Bisogna dire che ciò abbia fatto peggio; lo creda pure, mia buona amica; spesso il rigore non giova. O mal sofferente de' castighi, poca cosa del resto, un giorno a pane e acqua, qualche ora di silenzio; o fors'anche, come par più vero, soggiogata da maligne suggestioni, delle quali non si è potuto ancora trovare il filo, la giovine, jeri prima di sera, è sparita.
—Cosa sento?…. ma è proprio certo?
—Pensi! vengo io stessa dal Ritiro, ove la cosa produsse, pur troppo, un pessimo senso. E poi, è uno scandalo che, divulgato, potrebbe non poco pregiudicare la nostra appena fiorente istituzione…. E non è qui tutto….
—La cosa è grave e seria, contessa; e non voleva parlare?…
—Non voleva? mi fa torto. Ho le più sode ragioni, per non precipitare. In sè stessa, la sparizione di quella ricoverata non sarebbe tal cosa da temerne dispiacevoli conseguenze: ma ci sono de' sospetti…. delle circostanze… de' fatti che l'accompagnano, da' quali si deve argomentare….
—Ma ella parla in modo così incerto, così enigmatico, ch'io non so proprio entrare nelle circostanze che mi tace.
—Le assicuro che m'è difficile e doloroso al sommo il parlare…. Ma lo devo, e lo farò. Ecco dunque ciò che dalle prime indagini si può indovinare…. sospettare, dico. C'è nel Ritiro chi notò, da parecchi dì, una figura equivoca la quale pareva spiare intorno alla casa, dalla parte del giardino. Jeri mattina poi, una donna d'età, sconosciuta anche quella, si presentò per parlar colla figliuola, e si trattenne con essa lungamente; a tale che quando questa ritornò fra le compagne, fu veduta asciugarsi le lagrime, quantunque non dicesse parola. Di lì a tre ore, la fanciulla non c'era più.
—Ma che s'ha da inferirne?…
—Perdoni, buona amica. I primi sospetti mi posero facilmente in cammino. Ho interrogato, confrontato, pesato…. e alla fine, devo proprio dirlo?… Temo troppo che in questa trista avventura non entri una persona….
—Una persona?… Contessa!
—Desidero essermi ingannata. Ma, in confidenza, ella sa tutto quel ch'è successo, alcuni mesi sono, allorchè si è voluto salvar dal pericolo quella povera insidiata. Ella sa…. che una persona…. in una parola, il suo signor fratello….
A tal punto, la contessa Cleofe s'accorse che la nobile amica, sbalordita sulle prime da codesta rivelazione inaspettata, ripigliato, per così dire, l'equilibrio della sua difficile posizione, levando il capo in atto d'offesa dignità, s'accingeva a ribattere i suoi arditi supposti. E in effetto, prima di lasciarsi dir dall'amica ciò ch'ella sapeva, la contessa Cunegonda, l'interruppe:
—Io so, io vedo ciò che l'invidia e la calunnia osano farneticare, lavorando addosso ai grandi e ai potenti…. Conosco per prova che basta operar la beneficenza per vedersi sorgere in faccia, come un fantasma, l'ingratitudine. Cosa voglio dir con questo?… Nient'altro, contessa, se non che le cose da lei presunte, o rapportate…. sono perfidie…. invenzioni…. assurdi…..
—Cose rapportate?… perfidie?… È troppo, contessa, è troppo!
Le due vecchie dame si raddrizzarono accigliate, ombrose; dalle rughe de' loro volti appassiti pareva quasi trasparir l'odio, che covavano nel segreto; e per la prima volta dopo molt'anni, un'ira astiosa, sottile faceva traboccar da' loro cuori, muti ad ogni altro affetto, il veleno della gelosia e dell'orgoglio.
—Tant'è: riprese la contessa Cunegonda, non isgomentita dal torbido e sprezzante sguardo della rivale: da un pezzo io mi sono avvista come si tenti, per via di sotterfugi, d'intrighi, di calunnie, di provocazioni, suscitarmi intorno tanti raggruppi, tante difficoltà che mi sforzino ad abdicare quella primazia, la quale, indegnamente sì, ma pur tengo, nell'opinione e nel fatto. E ora, il dì che ho, posso dirlo, la vittoria in pugno, ora appunto mi si vorrebbe rapire il frutto delle infinite mie cure…. Ma sì, è ben chiaro; altri adesso agogna a far la parte mia…. e per questo, si creano mali esempi e scandali…. e si tira partito per sino dai vincoli del sangue….
—Basta così! io voleva lasciarla dire a suo talento; ma il decoro non regge a così incredibili assalti…. Io sospettata di menzogna, d'intrigo? io vogliosa d'autorità, di potenza?…. Io tacciata con ingiustizia così nera, e da chi?…. da quella che mi chiamava col nome d'amica, da quella a cui ho ceduto sempre e in tutto, colla massima condiscendenza, anzi con vero rispetto!…
—Peccato, se non altro, ch'io non me ne sia avvista mai!
—Ma già è finita… un'ombra, una parola, un niente può guastar l'amicizia la più salda, la più antica….
—Colpa del suo subdolo contegno….
—Dica del suo dispotismo!
—Oh! ripeta, se lo può!
—Sì… dispotismo, e il più assoluto. Non mi faccia parlare, non mi faccia recriminare; credo proprio che non sempre la divozione e la mansuetudine vanno di conserva….
—Anche questo!
—E forse possono aver ragione coloro i quali van dicendo che noi vogliam dominare, invadere, inquisire…. Ma di chi è la colpa?… chi è che adopera la religione per i fini mondani?
La più vecchia delle due contesse tremava per l'ira in ogni fibra visibilmente; ma i suoi occhi piccoli, acuti, parevano fulminar l'incauta rivale. Nondimeno fu abbastanza padrona di sè, per non trascorrere di più colle parole; e sorgendo dal seggiolone, con tutta la dignità del grado offeso:—Non rispondo a chi viene a insultarmi in casa mia… Sopporto l'ingiuria come una prova che mi viene di lassù; ma, offesa, compiango e perdono a chi m'offende…. a chi, offendendo, pensa d'aver ragione, crede di vincere!…
Ciò detto, a lei volse le spalle, e rientrò lentamente nelle più interne stanze.
—Ipocrita! ambiziosa!… le susurrò dietro l'altra contessa: Fa l'atto d'amor del prossimo, e vorrebbe vedermi sprofondare dinanzi a lei… ma io sì, l'ho fatta sprofondare!… Sono anni e anni che non gustai un quarto d'ora come questo!
Capitolo Decimottavo
Chi si mette sulla via del male, nè più si riguarda indietro, cammina senza memoria, senza speranza, senza rimorso; come Caino errante nel deserto, egli crede di poter fuggire la maledizione di Dio che gli sta sul capo. Nell'animo del cattivo stanno nascosti i più cupi, i più spaventosi misteri che l'Eterno impose all'umana natura; e la sua miseria maggiore, e la contraddizione più dolorosa è quel crearsi una fatale necessità del male, rinnegando del pari vizio e virtù, ridendo della fede e del sagrifizio, non credendo nè alla ragione nè all'amore.
Ma il vizio lasciasi dietro un solco che più non si cancella. Quante volte, se venga a stringerti la destra alcuno che in segreto ti odii, tu ne senti un ribrezzo involontario, un gelo nel cuore! Quante volte, senza sapere il perchè, cerchi di fuggire chi ostinato s'attacchi a' tuoi passi, o appena lasci cadere una volta sopra di te una gelida parola, un sarcasmo! Quel senso così mesto, benchè il più delle volte non paja più certo d'un'ombra che passa sulla muraglia, o più vivo del ricordo d'un tristo sogno, benchè non sia che lo stormir d'una foglia, il freddo che ti punga al toccar d'un verme, pure è come un sospetto di morte, è la parola segreta che ti fa cauto di colui che t'è vicino. Hai veduto la modesta pratolina, spuntata appena su breve zolla tra i rovi della siepe, languire ignota e senza colore là ove nacque, e al secondo mattino non mirar più il sole? Tal è dell'innocente, a cui nella primavera della vita s'accosti insidioso l'uomo abituato al male. Dov'è il balsamo che possa sanare la piaga d'un povero cuore tradito?
Il lettore conosce già l'oscuro e uggioso quartiere, ove abitava il signor Omobono: e sebbene quel ricovero fosse nelle parti più deserte e malinconiche della città, a nessuno conosciuto, come la tana del lupo, noi vi torneremo ancora una volta, per iscoprire, se ci torni possibile, i tortuosi avvolgimenti di quell'uomo malvagio che con sì coperti artificj continuava, per fredda crudeltà, la sua vendetta contro la sventurata famiglia della Teresa.
Egli era salito alle sue stanze, dopo che, incontratosi un'altra volta col Rosso, suo degno ajutante, concertò con lui il modo più sicuro per riuscire ne' loro scelerati disegni, de' quali abbiamo potuto intravedere una parte. Serrò, sprangò la porta; poi cavata una borsa fe' scorrer sulla tavola parecchie monete d'oro: erano il ricavato d'un'asta giudiziale, ch'egli aveva fatto tenere in quella stessa mattina per ricattarsi d'un suo credito. Un onesto e vedovo padre di famiglia, cacciato dall'ultimo ricetto della miseria, andava quel dì a limosinare il pane per i suoi figliuoli; ma il signor Omobono era stato, a lira e soldo, pagato di tutto il suo, capitale e interessi.
Passò dietro al paravento, e chiuso ch'ebbe il denaro in quel suo forziere incassato nel muro, si pose a tutto suo agio sul piccolo canapè, per riposarsi del molto correre che aveva fatto; e aggrottando le ciglia, cominciò a pensare.
Quand'egli, in compagnia del cameriere dell'Illustrissimo, aveva cercato di tirar dalla sua anche il malaccorto cappellano, non lo fece per altro fine, che per ravviluppare l'infamia da lui meditata in una tale matassa che non fosse più possibile, in qualunque caso, trovarne il bandolo. Servire al capriccio dell'Illustrissimo, non era il suo scopo. Superbo e vile nello stesso tempo, egli aveva sempre strisciato nel fango; ma in cuor suo disprezzava, abborriva coloro che stanno in alto. Entrato in grazia di non pochi signori, fra quelli che per inerzia o spensierataggine aman di trovare aperta a ogni lor cenno la borsa di qualche usuraio, egli aveva tesa intorno a sè una gran rete d'intrighi e di baratti; e vedendo crescer l'oro ne' suoi scrigni, agognava il momento di potere alla sua volta disprezzare, come s'era veduto per tanto tempo disprezzato e calcato nel suo niente. Così, egli s'era abituato a fare il male, colla sorda voluttà del tarlo che rode le fibre d'un bell'albero antico.
Dal primo dì che, in casa della pegnataria s'imbattè con Damiano, il signor Omobono, da lui ributtato, soffocò nel cuore la rabbia e la vergogna che n'aveva sentito. Non vide come quel giovine avesse già indovinato ciò ch'egli voleva, nel profferirgli amicizia; non pensò al male che egli ruminava nel suo segreto, ma al dispetto di trovarsi così disprezzato, o forse così ben conosciuto. Poi, quando venne in confidenza della vedova, quando conobbe la bella innocente figliuola, vi fu un momento in cui avrebbe voluto disfare ciò che fece prima, non per altro che per secondar la volontà di un ricco svogliato e potente. Ma in quel mezzo, le replicate minaccie di Damiano, e il livore che lo rodeva dal dì che gli convenne tranghiottire il più vituperoso degli insulti, lo acciccarono del tutto, e non pensò più che a vendicarsi. E la sua vendetta doveva essere la più certa, la più atroce; voleva veder rovinata per sempre la famiglia della povera Teresa. Se in allora, la paura più forte della rabbia non l'avesse trattenuto, un delitto sarebbe stato un'inezia per lui, purchè avesse potuto vedere infami fratello e sorella. Fu per non porre a rischio se medesimo, che persuase al Martigny quella trista impresa, della quale già sappiamo la mala riuscita. Però, sebbene il colpo uscisse a vuoto, egli non lasciava intanto di mungere molt'oro a' suoi illustri mandatarj; tanto più che seppe in faccia a loro esagerare il corso pericolo. Nè aveva dimenticato quanto gli costò il salvarsi dalle pericolose ricerche dell'autorità, quel giorno che, insieme al signor Lorenzo e a Damiano, era stato condotto dinanzi a un processante. Il nome dell'Illustrissimo e un volpino intreccio di bugie, spiattellate là in quel primo costituto, l'avevano fatto uscir netto per allora: ma non si tenne sicuro fino al momento che al Martigny, imbarcatosi in acque perigliose, udì imposto lo sfratto dal paese, comechè costui non potesse nemanco provare ove fosse nato, malgrado i certificati messi fuori, equivoci come i fatti suoi. Ma l'Omobono non sentì nè rimorsi, nè compassione; solo paura. Sapeva bene che, dopo tante cose, l'Illustrissimo poteva fors'anche essersi dimenticato di quel passatempo, ch'egli un dì volle offerirgli, per divagarlo dal tedio signorile dell'etichetta. Ma come, per il fine più occulto a cui lavorava sempre e agognava, l'Omobono, con diabolica insinuazione, aveva saputo a quando a quando ricordargli la giovine, ritoccandogli dello smacco che si volle fare a lui, col portargliela via proprio sotto il naso; l'Illustrissimo, un bel dì, in un accesso di stizza, uscì a dire che volentieri avrebbe dato una delle sue più belle cascine nuove per mandare a monte il piano della confraternita, la quale aveva stimato agevole dar la legge a lui.
Fu dopo aver veduta nell'Illustrissimo codesta disposizione d'animo che il signor Omobono, ormai sicuro di condurre a fine nello stesso tempo due negozj, accaparrarsi cioè di nuovo la benevolenza del nobile padrone, e venire a capo di quella vendetta alla quale parevagli d'aver lavorato fino allora inutilmente, credè giunto il momento di raccor le fila già disposte. Vide alla prima che il far rapire la giovine dal Ritiro sarebbe stata follia pericolosa; lo spediente poteva esser buono a' tempi antichi; ora il codice criminale parla troppo chiaro. Per mettersi al coperto d'ogni conseguenza, studiò il modo più acconcio d'indur la fanciulla a fuggire dal ricovero; e credè d'averlo trovato.
In quell'ora ch'egli passò, solo, seduto là nella sua muta e fredda stanza, ricorse col pensiero la tortuosa via tenuta fino a quel giorno; non tremò, non ebbe raccapriccio di sè stesso; solo una volta mormorò sordamente:—Se non fosse stato quel ch'è stato fra Damiano e me, non saremmo venuti a tal punto!…
Ma se in cuor suo egli non sentiva il delitto, la sinistra espressione del viso, l'inquietudine di certi moti involontarii che gli sfuggivano a quando a quando eran segno dell'impazienza e dell'odio che dentro lo rodevano, della maledizione che lo accompagnava.
Senza dubbio, egli stava colà in aspettazione; ma poi, non vedendo comparir nessuno, più non potè tenersi cheto; e levatosi in furia, si passò la mano sulla fronte, come per cacciar le idee che gli formicolavan nella mente: e di nuovo uscì.
Damiano aveva speso gran parte di quel dì per iscoprir le traccie di coloro, che insidiavano sua sorella: poichè, sebbene non gli fosse noto ancora il tristo viluppo della macchinazione, pur sospettava fortemente che le persone da lui spiate la sera innanzi fosser capaci d'un delitto. Gli premeva dunque più di tutto di ritrovar quel prete da cui aveva potuto già cavar non poco di quanto gli era mestieri di sapere. E comunque Rocco (chè ormai l'uno non poteva più far senza dell'altro) lo pressasse d'andarne difilato al Ritiro e di parlar fuor de' denti, tanto che gli lasciassero condur via la sorella, Damiano non ascoltò ragione, e volle prima stanar la persona che doveva, al caso, confermare colla propria testimonianza le sue parole.
Ma don Aquilino, con la troppa sua paura in corpo, era sparito: e a' due giovani, per quanti passi spendessero, nessuno seppe dar novella del dove fosse ito a finire. E anche di poi, per quante ricerche facesse tentare il suo illustrissimo padrone, non fu più udito parlare di quel pretoccolo, l'ultimo forse di coloro che saranno immortali ne' versi del buon Carlo Porta.
Al venir della sera, Damiano e Rocco, che speravano tuttavia poter giungere a tempo per mandare a vuoto l'infame tentativo, camminavano silenziosi sulle mura della città, poco discosto dalla porta Romana; poi svoltavano in una remota via che tra siepi e muricciuoli d'ortaglie e di verzieri, conduceva verso il Ritiro.
Sonava l'avemmaria da tutti i campanili della città; e i due n'andavan cauti e sospettosi, attenti a ogni pedata, a ogni romore vicino. Damiano aveva fisso di vegliar colà tutta notte, e al far giorno, presentarsi al Ritiro per domandare sua sorella, e ricondurla a qualunque costo presso la madre.
Rocco, che non aveva voluto abbandonare l'amico in quel frangente, gli veniva a lato più sereno di lui, per una speranza segreta di rivedere fra poco la buona Stella. Ma il cuore di Damiano batteva forte; e l'amico, strettagli una mano, la sentì fredda.
—Cos'hai, Damiano?
—Non lo so, Rocco. Un cattivo presentimento… Oh! cosa possiam far noi due contro la maledetta prepotenza di tutti costoro?
—Come! sei tu che parli, Damiano? tu, franco nelle disgrazie, come dev'essere un uomo?
—Sì, ho creduto di poter farlo il mio dovere. Ma quel ch'è successo, lo vedi!….
—Taci, siamo al punto di fare una giustizia anche noi!… Tu non puoi dire che, venuta l'ora, manchi Quello che ha detto: Ajutati, e ti ajuterò! Non è forse Lui che n'ha messo sulla via di questi traditori?…. E non è Lui, che anche stamattina, t'ha fatto trovare in mano dell'arciprete le trecento lire lasciate per te dal tuo vecchio compare?…. In questi momenti, sono….
—Una fortuna…. basteranno per vivere tre mesi; e poi….
—E poi, Dio vede….
—Hai ragione, Rocco; tu sei buono, e confidi nel cielo. Io, in cambio, sono avvilito, perduto…. e quasi, non credo più al bene.
Tacquero; indi, tutto sgomentito nella mente:—O mia sorella! disse
Damiano: ti vedrò ancora?….
—Cosa pensi adesso? riprese Rocco: è ben vero che sarebbe stato far meglio correr subito a tirarla fuori da questa mal'aria… Ma non hai dato ascolto a me; hai voluto ostinarti per trovar que' birbaccioni sul fatto…. e c'entrava forse il gusto della vendetta, lasciami dire! Basta solo che non arriviam tardi.
—E sei tu che mi vieni a parlar così? e in un momento come questo?
—Sì, hai ragione…. Non darmi ascolto, sai. L'è un resto di quella mia paturna d'una volta…. Tutto andrà bene; è giusto che voi siate contenti alla fine…. La mamma guarirà presto, tornerà a stare con voi due…. Voi sarete felici; e Rocco?…. Rocco sarà come prima, solo al mondo.
—Taci adesso! lo interruppe Damiano: non ti pare che qualcuno venga di là?
—No; è l'angolo del murello che getta l'ombra lunga.
—E se il cappellano ci avesse traditi?
—È impossibile, moriva di spavento; e poi ha giurato….
—Per uno come lui, cos'importa?… E se, in cambio, con que' tali che volevano fargli fare una così ladra figura, egli avesse vuotato il sacco?… Se la paura fosse stata più forte del rimorso?….
—No, no; dopo quel ch'è stato jeri, scommetto che ha creduto più sano di cambiar aria.
—Così, per causa sua, abbiam perduto un giorno! E chi sa….
—L'aveva detto io che bisognava lasciarlo a cuocer nel brodo colui; e alla bella prima venir qui a cercar di quella poveretta.
Damiano stava pensoso; e di lì a un momento, afferrando l'amico per mano:
—E se tentassimo adesso d'entrar là dentro?…. di vedere, di sapere almanco….
—A quest'ora? sei matto?…. se non pensiamo noi a gettar giù l'uscio, quelle streghe di là dentro non ci aprono sicuro. Bisogna aver pazienza, aspettar domani.
—Ma noi, cosa facciamo adesso? Allontanarci di qui?…. No, per qualunque cosa al mondo. E se questa notte appunto que' dannati?… No, Rocco; io non mi muovo.
—Ci stai tu, eh! ci sto anch'io. Delle notti, alla serena, n'ho passate parecchie…. e qui, con te, a far la guardia per quella povera e buona Stella, mi parrà una notte del paradiso.
Sedettero a' piedi del murello, e continuarono a parlare, a voce sommessa, di ciò che più stava loro nell'animo, porgendo l'orecchio e interrompendosi a ogni più lieve romore; ma in tutta la notte non passò per quel solitario cammino anima viva. E Damiano che, per essere pronto a qualunque evento, aveva saputo vincere anche quel sopore della stanchezza che l'opprimeva, si diede a pensare che forse i suoi sospetti erano stati soverchi, e che a' persecutori della sua famiglia forse non bastava l'animo di consumar quell'ultimo delitto.
Venuta la mattina, appena s'accorsero che s'era fatto qualche movimento nella casa, vennero difilati alla porta del Ritiro.
Sonarono. Una vecchia fantesca, la quale stava spazzando il portichetto e l'andito, aperse la porta e domandò chi fosse. Quando Damiano, detto il proprio nome, domandò di parlare a sua sorella, la donna, facendo due spiritati occhiacci, si trasse indietro almen tre passi, e scrollando i lembi di una vecchia cuffia nera e due piccoli ricci bigi, appuntò per terra la scopa, come per ischermirsi da que' due, e:—So ben che mi canzona: disse con flemma: dopo quel ch'è stato ieri…. venir qui, con quell'aria innocente… è una vergognaccia!
Ma, insistendo Damiano con far più severo, anzi angoscioso, e cominciando Rocco a levar la voce, per darle a capir la ragione, la vecchia tentennò il capo:—Sarà vero, replicò, tutto quel che dicono; ma io non so altro, se non che la figliuola che loro signori vengon qui a cercare ha fatto uno scandalo, un precipizio…. Non tocca a me a parlare, a giudicare…. Ma, tant'e tanto, mi pare che l'avesse il suo merito anche lei…. con quel suo far di santerella!—E parendole che i due giovani non volessero capacitarsi:—Ma, sissignori: finì: non è forse lei che jeri, dopo il desinare della comunità, da vedere e non vedere, è sparita di qui, dalla parte dell'orto?…. Chi sa poi cosa ci sia sotto!…. Se un di lor due è suo fratello, potrà saperne più di me…. Io non posso che pregare per i poveri peccatori.
E ciò detto, ricondusse i due, che stupidi e fuor di senso quasi, guardavansi senza parlare, fino all'entrata; e messili fuori, chiuse la porta, poi corse a riferire alla superiora il tentativo fatto da quegli sconosciuti per intrudersi nel Ritiro.
Damiano si fermò un momento dinanzi a quella casa, come trasognato; poi levando la destra, in atto di muta disperazione, trasse un profondo sospiro e guardò il cielo. I due amici nulla si dissero; ma togliendosi di là, confusi, annientati da quel colpo inaspettato, eran fissi nello stesso pensiero; nel pensiero di ciò che poteva succedere, in quell'ora, della povera Stella. Ricorrere all'autorità, in un simile frangente, pensavano tutti e due essere tardi, forse inutile, forse impossibile; Damiano non agognava che di trovar l'uno o l'altro de' due scellerati, non potendo dubitare che la cosa fosse accaduta senza di loro; voleva trovarli, strappar loro per forza la verità, sapere in quel dì stesso, a qualunque costo, a costo d'un delitto, dove fosse sua sorella.
Ma il freddo durato in una lunga notte d'ottobre, i concitati pensieri e l'ira stessa che gli stava nel cuore avavano oppresso Damiano sì fattamente che non potè più reggersi in piedi. Rocco lo sosteneva pietosamente, ma non sapeva dirgli nulla. Vide aperte le porte d'una chiesa, e vi condusse l'amico. Damiano lasciossi cadere su d'una panca; in quell'istante gli tornò al pensiero l'ultima volta che Stella, colla sua dolce persuasione, l'aveva con lei condotto nella casa del Signore; e parevagli che la passione dell'odio cominciasse a quietarsi un poco; raccolse l'interno vigore che ancor gli restava, diede un'affettuosa occhiata al fedele compagno, e sentendo come un bisogno di pregare, inginocchiavasi.
—O Dio! diceva intanto nel cuore, scaccia da me la tentazione del male, dammi coraggio in quest'altra prova; Tu che lo puoi, conduci i miei passi, salva mia madre e mia sorella!—
All'uscir di chiesa, aveva deliberato ciò che gli restasse a fare. Vedeva troppo pericoloso raccontare a sua madre, in quell'estremo, la nuova sciagura, la più terribile di quante eran cadute sopra di loro: e poi, innanzi di mettersi sulle traccie de' rapitori di sua sorella, credè necessario di aprirsi coll'abate Teodoro, nel quale aveva trovato veramente l'uom giusto e forte… Non essendo molto discosto dall'Ospedale, vi corse, data al Rocco la posta sul vicino ponte; e salito in fretta al piccolo quartiere, bussò leggermente.
Non udendo rispondersi, e trovata aperta la porta, s'inoltrò adagio; vide seduto nell'altra stanza, al tavolo di studio, una persona, che credè essere lo stesso don Teodoro. S'arrischiò di pronunziarne il nome, e non avendo ottenuta risposta, pensò che non fosse lui; fattosi animo allora, domandò più forte:—Dica in grazia, starà molto a tornare don Teodoro?
La persona che sedeva con le spalle rivolte alla porta, appoggiate le gomita sulla tavola e la testa fra la mani, si riscosse a quella interrogazione; e voltandosi rapidamente, riconobbe Damiano, e gli corse incontro. Era Celso, che gettavasi nelle braccia del fratello.
—Oh Damiano! sia ringraziato il Signore: disse l'abate.
—Tu qui? ma come?
—Ah se tu sapessi! è don Teodoro che mi ha chiamato presso nostra madre; essa gli ha raccontate le nostre disgrazie. Io era lontano di qui… non son arrivato che jersera da un lungo viaggio. Una lettera di don Teodoro al mio superiore, m'ha fatto sapere la verità; e son venuto qui, a cercare della povera mamma. Qui era il mio posto!….
Damiano, a dir vero, nutriva un resto di rancore verso il fratello, dubitando che le insinuazioni del Padre Apollinare gli avessero spento per sempre l'affetto de' suoi; pensava, che di cuor debole e timoroso com'era sempre stato, non avrebbe saputo strigarsi dalle reti sottili a lui tese da' suoi gelosi protettori. Ma don Teodoro, appena seppe in parte, e in parte indovinò come stessero le cose, era riuscito a metter soggezione al Padre Apollinare, che non trovò prudente d'opporsi, per il momento. Il prete aveva parlato in nome d'una madre che vuol rivedere un figliuolo prima di morire: la sua lettera seria e sincera bastò, se non altro, a guastare un disegno che da lungo aveva concepito quel rappresentante d'un occulto potere.
—Oh quante cose ho a dirti, Celso! E la mamma, l'hai tu veduta?….
—Aspettava qui don Teodoro che mi conducesse a lei. Dopo quel ch'è stato…. mi sentiva mancar il cuore; ma andiamo, andiamo insieme, Damiano. Io vorrei, vedi, poter mostrarti quel che sento nell'anima…. E adesso, dimmi: Stella…
—Taci, per carità!—Questo nome, richiamandolo all'angoscia, che per poco taceva nel suo cuore, fu per lui un'altra ferita.
Pochi momenti di poi, la signora Teresa rivedeva i suoi due figliuoli: essa non potè dir loro molte parole, ma pianse di consolazione. E i suoi occhi pieni di lagrime andavan cercando la Stella, che le mancava. Povera madre! Ella non sapeva che destino sovrastasse in quell'ora alla sua fanciulla.
Capitolo Decimonono
Il dì innanzi, verso l'ora consueta del desinare della comunità, Stella usciva non vista della scuola ove stava colle compagne a lavorare. Attraversato un corritojo oscuro, che trovò per caso aperto, scendeva nell'orto; e trattenendo il respiro, bianca come il fazzoletto ond'avea coperto il seno, guardavasi indietro a ogni passo, per terrore che alcuna delle maestre si fosse già avvista della sua sparizione.
In quella mattina era stata veduta trattenersi a lungo in gran segreto con una donna che venne a cercarla: era una vedova, la Barbara, loro vicina di casa. S'era costei pigliato il carico d'annunziarle come sua madre fosse malata e in pericolo di morire: ma veniva mandata da un tale che metteva la più grande importanza all'effetto di quella dolorosa notizia.
Stella, camminando leggera sull'erba, rasente il basso recinto del giardino, giunse presso la porticina che rispondeva in una viuzza perduta, e di là sulla mura. Levò gli occhi al cielo, come per chieder perdono di quel passo; pensando a sua madre, non sentiva che il rimorso d'averla abbandonata: il dubbio poi di non poter forse giungere a tempo per vederla viva, la tolse d'ogni incertezza, d'ogni sgomento.
Allora trasse fuori una grossa chiave che nascosamente avevale recata la Barbara, e con quella si provò a disserrare il rugginoso catenaccio. Le sue piccole mani non avevano forza bastante; atterrita al più leggero scricchiolìo della toppa, già stava per ritornare su' suoi passi, quando, rimessa la mano sul bolzone, credè d'udire una voce che sommessamente la chiamasse dal di fuori. Il catenaccio cedè, la porta s'aperse. La persona che l'aveva chiamata per nome, e che là stava ad aspettarla, era la Barbara.
Costei la pigliò subito per mano, dicendole:—Andiamo, la mia figliuola…. lo sapeva bene che saresti venuta…. andiamo insieme, dalla tua povera mamma.
La Stella tremava come una foglia; fu presa da un involontario ribrezzo, appena che quella donna le toccò la mano; voleva tornare indietro, e un sospetto confuso le traversò la mente, che tutto potesse essere un orribile inganno. Ma le sovvennero le amare parole a lei dette dalla superiora la mattina, quand'essa le chiese licenza d'andare presso la madre morente.—Volete voi? le aveva risposto: non voglio io.—
Il ricordarsene le ridiede il coraggio che aveva già perduto; e senza più saper che facesse, lasciossi condur via; nè s'avvide d'un uomo il quale, a poca distanza, stava in agguato, e che allontanossi lungo il recinto, guardingo e frettoloso.
Battevano le tre ore.
Ella pensò ch'era il momento in cui le sue compagne del Ritiro, finita la scuola de' lavori, andavano in fila nel refettorio terreno; pensò che la sua fuga doveva già essere scoperta, e con ansietà, giungendo le mani, si volse alla Barbara.
—Per amor del cielo, mi conduca subito a casa; ho bisogno d'esser vicina alla mamma; io muojo di vergogna e di paura.
—Non far di queste smorfie…. Non andiamo verso casa, forse? guarda che la gente non s'accorga. Non parlare, rasciuga gli occhi.
—E lei m'aspetta…. non è vero?…
—Ma sicuro, non te l'ho detto cento volte?
—Oh! se non era lei che mi domandava….
—Sì, sì, vien pure con me, sarai contenta poi….
Attraversavano il ponte di porta Tosa; e di là, per il corso e per quelle viuzze che mettono alla piazza Fontana, s'avvicinavano a' luoghi ben noti alla Stella. Ignorava tuttora, e la Barbara aveva troppa ragione di tacerglielo, che la madre sua non fosse più là; sospirava di salire a quell'umile quarto piano, ove per tanto tempo avevano nascosta la loro povertà; e col pensiero vedeva il letto di sua madre nell'alcova, sentiva nel cuore la voce benedetta di lei.
—Ma non si sa niente di Damiano, di quel mio fratello?… chiese poi Stella alla sua accompagnatrice. Cosa n'è successo mai? è poi vero che l'abbian messo in libertà?
—Ma taci adesso….
—E il mio fratello abate? di lui mi vorrà ben dire quel che sa.
—T'ho detto di non parlare…. Non bisogna figurarsi d'esser fuori di pericolo; non è cosa da niente scappar da un Ritiro; e chi sa mai….
—Oh Signore! ma non è stata lei?….
—Quel ch'è fatto, è fatto! adesso bisogna aver prudenza, e lasciarti regolare.
Saliva Stella, col cuor tremante di gioja, le anguste scale di quella che fu casa sua, e giunta sull'ultima balconata s'avviò quasi correndo: trovò aperta la porta, si precipitò dentro, volò nell'altra stanza, gridando:—O mamma! povera mamma!….
Ma l'alcova era deserta; una donna, che Stella sulle prime non riconobbe, le venne incontro; e:
—Vieni pure, Stella: le disse: io non ti voglio del male a te…. questa è adesso casa mia; e se vuoi star qui con me….
Era la signora Emerenziana. Il sorriso che costei aveva sulle labbra, nel dir così, fece rabbrividire la Stella.
—Oh Dio Signore! gridò la tradita fanciulla: ma dov'è la mamma? per amor del cielo, dov'è?….
Si volse indietro, e la Barbara non era più là.
—Tua madre?…. disse la vecchia pegnataria con flemma: tua madre, è un pezzo che se n'è andata.
—Non è vero!… Ma come? ma dove? io non so niente. Oh! dove sono mai? Oh! mamma, dove sei?…. io voglio la mia mamma!
—Sta quieta, la mamma s'è ammalata….
—Io voglio vederla,
—E non sai mica, continuò in tuono benevolo l'altra colla sua falsa flemma, che l'hanno portata all'Ospedale?
La giovinetta sentì al cuore uno schianto, e cadde come morta fra le braccia della perversa vecchia….
Ricomparve indi a poco la Barbara; fra lei e la Emerenziana portarono la svenuta fanciulla in certe stanzette attigue, dalla pegnataria prese a pigione insieme al piccolo quartiere ove prima abitava la nostra povera famiglia. La posero sovra un lettuccio, in un bugigattolo, avanzo di solaio, senza finestre, fuorchè un abbaìno, dal quale cadeva a stento un po' di luce.
Così l'insidia, tessuta con tanta sottigliezza, con tanto segreto, si compiva oltre quanto sperassero coloro che l'avevano macchinata. Il nemico di Damiano poteva cominciare a rallegrarsi con sè stesso: egli era riuscito a trascinare l'ingannata fanciulla in una casa infame.
Le due vecchie non si pigliarono fastidio ch'ella fosse svenuta: quel deliquio, dicevano, non poteva venir più a proposito, per liberarle dalla noja del primo piagnisteo della fanciulla. Acconciata che l'ebbero sul lettuccio, uscirono senza pur volgere uno sguardo sopra di lei; diedero di chiave all'uscio, nè s'accorsero d'un lungo gemito dell'infelice, che in quel momento cominciava a ritornare alla vita.
Due altre comari del vicinato, messo il capo dentro della porta, domandarono la signora Emerenziana: esse forse non erano al bujo dell'avvenuto. La pegnataria, persuasa della necessità di tenersele buone, andò loro incontro con gioviale premura, e le fece venire innanzi; poi disse loro che non voleva proprio lasciarle andar via, prima di fare, alla buona e tra amiche, un po' di merenda. Detto fatto, ne spacciò una dal vendarrosti, che di fresco aveva aperto bottega sull'angolo della via; essa intanto, coll'altre, si mise ad apparecchiare, a cavar fuori da uno stracantone posate e tondi e bicchieri; quelli fessi, scompagnati questi, e venuti d'ogni parte per trovarsi insieme nella credenza della pegnataria. In breve una fumante cavolata, in cui nuotavano resti di salsiccia e d'altro carname, poi uno spicchio di vitella col ripieno di noci e un fiasco di vin vecchio, furon pronti sul desco; e le quattro femmine a sedervi d'attorno. Cominciò un coro, da disgradarne quello delle streghe del Macbetto; voci acute e roche, insulso e disonesto parlare, risa villane, e sbatter di bocche sdentate; qualche strilli di quando in quando, somiglianti al guair del gatto selvatico; ma sopra l'altre la voce chioccia della pegnataria che, a fine di rallegrar le comari, pigliava a raccontare a suo modo l'avventura di Stella.
Questa intanto, nella sua prigione, risensando a poco a poco, s'era sollevata sul duro giaciglio; e come si trovò sola, disperata d'ogni soccorso, balzò in terra, e fuor di sè cominciò a girar per l'angusta cameretta, cercando intorno un'uscita. Tutto a un tratto sostava, tendeva l'orecchio, figurandosi che tutto fosse un orribile sogno e che fra poco si sarebbe trovata nelle braccia di sua madre….
Ecco che, dall'altre stanze, penetrano fino a lei le stridule voci delle quattro vecchiarde e lo strepito delle stoviglie percosse; e, fra il gridare e il ridere, udì chiaro il proprio nome.
Lasciò cader le braccia lungo l'affralita persona, e intrecciando le mani, levò al cielo i begli occhi gonfi di lagrime: chiunque l'avesse veduta in tal'atto si sarebbe impietosito. Un misterioso sgomento assalì in quell'istante l'anima della giovinetta: non era terrore, non era ribrezzo; ricordavasi del giorno in cui, per la prima volta, indovinò a che insidie, a che pericoli vada incontro una poveretta, la quale non abbia altro bene al mondo che la sua onestà e la sua bellezza. Pensava alla madre, a Damiano ch'essa credeva tuttavia in prigione: egli solo, se fosse stato libero, come la salvò un'altra volta, avrebbe potuto salvarla in quell'ora. Poi s'inginocchiava, per raccomandarsi alla Madonna; ma la sua anima era troppo agitata e confusa, e a stento potè dire le prime parole dell'Ave Maria.
Poco prima di mezzanotte, udì stridere il catenaccio; e la signora Emerenziana, in atto di studiata compassione, venne per domandarle come si sentisse, se avesse riposato, se volesse bere o mangiare; si tenesse proprio come in casa sua.
Ciò parve alla fanciulla ancora più atroce di ogni tormento: era lo scherno aggiunto alla vendetta. Disse che non voleva nulla, che non voleva nessuno, e che, venuta appena la mattina, sarebbe partita da quella casa.
—E dove vuoi andare, povera figliuola?… rispondeva la vecchia, fra sè ruminando intanto che le sarebbe tornato acconcio di non trovarsi così sulle braccia, quella piagnolosa martirella.
La fanciulla sarebbe morta nel durar di quella notte, se l'angoscia e il delirare della mente in mezzo alle larve che la circondavano non l'avessero prostrata così che le convenne gittarsi di nuovo sul letto; dove il sonno, breve conforto, scese a prepararla a nuovo dolore.
Ma Damiano, in questo mezzo, certo appena della sparizione di sua sorella, non aveva perduto un momento. Dopo ch'ebbe lasciato il fratello abate presso al letto di sua madre, facendosi promettere che avrebbe per allora taciuto a lei, comechè troppo debole e oppressa, la recente disgrazia la quale poteva troncarle d'un colpo gli ultimi giorni, egli corse quasi disperato verso il palazzo dell'Illustrissimo; sapeva che là soltanto sarebbegli stato possibile trovar qualche traccia di colui che aveva preparato, o forse consumato quel vituperio. Com'uom fuor di sè, egli si sentiva capace di tutto.
Ma, giunto a pochi passi dal palazzo, vide venire a quella parte don Teodoro. Il coadiutore, scorgendo il giovine così mutato, così travolto in viso, lo trattenne, con piglio severo domandando che avesse. Alle prime parole di lui, argomentò che trattavasi di grave cosa; nè volendo avere a testimonii gl'indifferenti passeggieri, don Teodoro s'appartò con esso in una deserta via a fianco del palazzo, e fecesi contar su minutamente ogni cosa. Non appena ebbe udito i dubbj che fremevano nel cuor di Damiano, l'assicurò, quanto a sè, non credere che quella persona d'alto affare di cui sospettava, volesse intrigarsi in una impresa così scellerata, così pericolosa; si quietasse, chè avrebb'egli medesimo cercato di fargli saper prima di sera il luogo ove fosse la giovine; lasciasse in somma fare a lui, chè non gli somigliava difficile veder dentro in quella trama: nè gli tacque come, appunto allora, dovesse recarsi a parlare all'Illustrissimo, per un'altra ragione di non piccol momento.
Ma Damiano non voleva chetarsi; onde il prete si fe' da capo a consigliar tanto lui, quanto Rocco che si dessero attorno senza perder tempo, per cercare in altro modo qualche traccia della fuggitiva; senza però destar romore, affine di non mettere a rischio il buon nome della fanciulla: disse poi a Damiano ove l'avrebbe trovato dopo mezzodì, e lasciollo con queste parole:—Fatevi cuore, figliuolo: c'è lassù Quello che veglia sempre.
Noi seguiremo i passi dell'abate Teodoro, che tornava pensieroso, ma sicuro di sè stesso, verso il palazzo, colla coscienza di chi cammina per fare una buona azione.
Capitolo Ventesimo
Don Teodoro conosceva quella superba dimora, e quel vecchio erede d'un gran nome. S'era trovato alla presenza di lui, in una circostanza che il lettore non avrà forse dimenticata: quando, appena morta l'infelice Marianna, madre di quel perduto fanciullo di cui non aveva saputo in tanti anni raccogliere alcun preciso indizio, egli s'era presentato al fastoso signore, per adempiere l'ultima volontà della moribonda donna. Ma era passato tanto tempo, e temeva non poco che mal sortisse la prova, per la quale s'era fatto animo a tentar di nuovo il cuore di quell'uomo. Il saggio prete usava più spesso nelle case de' poveri che in quelle de' ricchi; egli pensava d'esser chiamato a spender la vita per sollevare gli oppressi, per umiliare i superbi: ond'è che la sua parola riusciva, di solito, poco accetta all'orecchio de' grandi; ma, sebbene avesse per ciò appunto di molti nemici, non osavan dichiararsegli tali apertamente, colla tema fors'anche d'ajutar per questa via il maggiore suo trionfo.
Al suo entrare nell'anticamera del palazzo, i servitori si guardarono tra loro in faccia, con non so qual maraviglia: pensando forse che il modesto prete fosse qualche nuova premura della padrona, e che avesse preso in fallo lo scalone degli appartamenti dell'Illustrissimo, un d'essi, alzando il gomito con atto villano:—Ha fallato, signor abate; dall'altro scalone.
—Non ho fallato; ho bisogno di parlare al vostro signore.
—Non si hanno ancora gli ordini dell'Illustrissimo, questa mattina.
—Andate a domandarglieli.
—Non si usa, signor curato, o quel ch'ell'è: ripigliò quel zotico, senza pur muoversi dallo scanno su cui stava a cavalcione.
—Se non volete annunziarmi, bisognerà che mi faccia innanzi io stesso.—E ciò disse, con tale dignità seria e sdegnosa, che l'insolente servo, credendolo qualcosa di più che non pareva, e dubitando delle conseguenze d'un granchio che avesse pigliato, stimò bene di domandare a un de' compagni, che cercasse del Rosso, per sapere se il padrone desse udienza.
—Dite ch'è l'abate Teodoro, e che viene per cosa di certa importanza: soggiunse il prete.
Intanto che l'altro servitore lo precedette, don Teodoro, camminando innanzi e indietro per la vasta anticamera e per l'attigua galleria, pensava a tutto il male che aveva fatto un capriccio di quel grande a cui stava per parlare; e qualche sguardo inquieto, che a ogni poco gittava sulla porta dell'interno appartamento, palesava la sua incertezza e il tedio dell'aspettare.
Passata mezz'ora buona, ricomparve il servo a dire che, quantunque l'Illustrissimo fosse occupato e poco ben disposto, valeva però fare un'eccezione per lui. E, con un certo rispetto, lo invitò a venirgli appresso.
Il vecchio patrizio, ravvolto in una morbida zimarra di broccato, se ne stava a grand'agio nel suo seggiolone, appoggiando un braccio sopra lo scrittojo; prezioso arredo d'antica data, tutto intarsii e dorature, a cui sormontava una foggia di scansìa con agate e lapislazzuli incrostati: di questo capolavoro del tempo di Francesco di Francia, l'Illustrissimo soleva dire, in confidenza, ch'era dono d'un gran contestabile a una sua arcavola di bellezza famosa. La guantiera d'argento che gli era vicina, con una tazza di cristallo e due nane boccie contenenti una pozione torbida, biancastra, a dir vero, mal non s'accordava colla livida e annebbiata sua fisonomia. Quella mattina egli s'era levato più tardi del consueto, dopo una notte insonne; e per cacciar l'uggia che si sentiva ne' pensieri aveva legicchiato alcune pagine d'uno scandaloso romanzo francese del secolo passato, e un insipido articolo di politica d'una gazzetta ufficiale ch'eragli fuggita di mano: poi non trovò di meglio che sfogar la bile con alcuno de' servi o dipendenti che gli capitasse innanzi. Quando gli annunziarono l'abate Teodoro, stava l'Illustrissimo combattendo contro la noja e il dispetto che da qualche tempo l'assediavano più importuni, e pensava al viaggio degli anni che andavano innanzi anche per lui, a quegli acciacchi che lasciavansi dietro.
Rimase un poco in forse; poi, fosse gusto di trovare una vittima nuova o diversa, fosse un'improvvisa mutazion di pensieri, disse al servo che facesse entrare il prete.
Don Teodoro, fattosi innanzi contegnoso e tranquillo, chinò il capo senza parlare, mentre l'Illustrissimo accennavagli di sedere. Eran corsi vent'anni dal giorno che questi due uomini s'eran trovati a fronte un dell'altro, in quella camera stessa; don Teodoro veniva per tentare un'altra volta nel cuore del patrizio la stessa corda che allora aveva inutilmente tentata: ma l'Illustrissimo, nel turbine d'una vita logorata da' piaceri, inebbriata dal fumo delle ricchezze, aveva perduta la memoria di quel colloquio, e di quel nome di cui il prete sperava destare un'eco in fondo dell'anima sua. Forse egli lo credeva qualche nuovo accolito della corte di sua sorella, qualche occulto esploratore dell'accampamento nemico: e gli sarebbe piaciuto di pigliar l'inviato della dama in quella medesima rete ch'esso voleva tendere a lui.—E saprò capir ben io (pensava) se costoro mettano già in conto l'usufrutto del fatto mio.
L'Illustrissimo continuava a tacere; il prete credè allora di poter rompere il silenzio pel primo.
—Non so veramente, s'io abbia l'onore d'essere riconosciuto da lei, signore.
—La conosco, signor abate… di nome almeno: freddo freddo rispose il patrizio, pigliando da una scatolina d'avorio e ponendosi in bocca non so che pastiglie gommose.
—È gran tempo ch'ebbi occasione di parlarle; ma suppongo… confido che non m'avrà dimenticato…
—In coscienza, non mi ricordo affatto.
—Son vent'anni… Io era venuto qui, in nome… in nome d'una infelice, morta a quel tempo…
Tacque un istante, ma come vide offuscarsi la fronte del vecchio, che facendosi ritto sulla persona cominciava a guardarlo fiso, ripetè:—A nome d'una infelice, e per domandarle una riparazione… che…
—Che? che?… favorisca di spiegarsi più chiaro, se le piace. Non so davvero cosa ella venga quì a raccontarmi: già loro preti, n'han sempre pronte di simiglianti storie…—E ciò gli disse con voce un poco risentita, mentre lo squadrava da capo a piedi, come per mostrargli maraviglia di quel suo audace esordio.
—Non si sdegni, o signore, di qualche espressione che può parerle troppo viva forse. Io so bene che, dove appena le dicessi un nome, ella non sarebbe certo così poco giusto da fare strapazzo d'un uomo che le parla con verità e franchezza. È ben vero che gli anni ci han mutati entrambi; ma ciò di che io voleva intrattenerla, non è cosa che s'abbia facilmente a dimenticare… Perdoni, dunque, signore!… Questa lettera mi farà conoscere.
E traendo un foglio, glielo pose sott'occhio. Era la lettera, scritta per ordine dell'Illustrissimo dal suo procuratore; quella stessa, con cui era stato fatto all'abate Teodoro assegnamento di sei mila lire, a beneficio d'una persona a lui nota. L'Illustrissimo vi gettò gli occhi sopra; e mal suo grado un visibile ribrezzo lo colse; si ricordava benissimo del prete; e tutti quegli anni passati dalla prima volta che lo vide gli parvero un breve sogno. Il nome della Marianna, dimenticata, morta da tanto tempo, gli venne quasi involontariamente sulle labbra; e don Teodoro se n'accorse. Fece silenzio, e fissò il mesto e penetrante suo sguardo nel viso accigliato dell'Illustrissimo; il quale, contro il solito, e a causa fors'anche della indisposizione che lo faceva a sè stesso più increscioso, non seppe sostener quell'occhiata severa, benchè in cuore s'infastidisse di non trovar parole per frenare, come avrebbe saputo in altro momento, la tracotanza dell'importuno visitatore.
—Signore! il prete ripigliò pacatamente, in atto di chi parla persuaso d'aver ragione: Ella ha un gran nome, e a questo mondo cammina tra i primi; onori, fortuna, illustri attenenze, quanto fa per solito il sogno o l'invidia degli altri, a lei tutto ciò è come un diritto: ma, per un uomo che trionfa quaggiù, quanti non piangono e soffrono! La via larga le è aperta dinanzi; ogni sua parola è, per il piccolo mondo che la circonda, una legge; ogni desiderio cosa fatta. La ricchezza dà il potere, e gli uomini si prostrano volentieri a quell'idolo che non fu rovesciato ancora dal suo piedestallo, e forse nol sarà mai, al vitello d'oro… I pochi che stanno in alto, di rado abbassan gli sguardi per interrogare i patimenti della moltitudine, costretta a strisciare a' loro piedi; non sanno per che fine la ricchezza a loro fu data; non veggono, all'incontro, che frutto della loro ricchezza è bene spesso la miseria altrui. Scusi, o signore, se io parlo senza molti rigiri; ella sa quel che m'intendo dire.
—Nè vedo, nè so, il perchè mi voglia regalar questo squarcio di predica sulla vanità delle ricchezze.—E frenandosi a stento, sorrideva ironicamente; poi:—So bene che molti di lor signori usano disprezzare ciò che non ponno avere per sè.
—Io non disprezzo i ricchi, e non li invidio. La ricchezza può esser dono del cielo; può essere anticipata maledizione. Nessuna cosa al mondo bisogna stimarla oltre l'uso che l'uomo può farne; e ben di rado, o mai, l'oro potrà dargli l'amore, l'amicizia, il santo affetto della patria, la virtù modesta e tranquilla nell'esercizio del dovere. La ricchezza è un bene, ma è quel bene che più d'ogni altro corrompe sè stesso; e corrompe altrui. Lasciam queste cose, abbastanza viete, se vuole, ma non per questo men vere; poco importano a ciò che venni per dirle.
—Sì, mi risparmi i quaresimali, signor abate; ringrazii poi la fortuna che oggi io non ho voglia d'inquietarmi, poichè mi sento non troppo bene: se no, l'avrei già pregato a cangiar di stile.
—Io le debbo essere importuno, lo comprendo; ma il motivo che io le accennava, e che appunto mi chiama, sarà la mia scusa. Quando, molti anni fa, venni a raccontarle gli ultimi momenti d'una infortunata che, giovine ancora, moriva quasi nella disperazione, lasciando in terra una creatura più misera di lei, un bambino senza nome, senza asilo, condannato a portare il peso d'una vergogna e d'una colpa non sue…. ella, o signore, non volle ascoltarmi; mi fece poco meno che cacciar fuori delle sue anticamere; in quel momento le tornava nojoso parlar di miserie. Ma ella sapeva d'aver grave ragione per compiangere quella sciagurata; e si pentì poi di non avermi dato ascolto: fu allora ch'io ricevetti, per ordine suo, una piccola somma colla quale provvedere a quell'innocente, già adottato dalla carità pubblica. Nè a lei era ignoto, perch'io stesso adempiva al dovere di dargliene conoscenza, come quel bambino affidato a una famiglia di contadini, fosse di poi sparito; ella sa ancora che la povera sua madre era già morta, senza nemmeno la consolazione di conoscere se il poverino vivesse tuttavia. Intanto il piccolo capitale, da me tenuto in deposito, s'accrebbe, e a quest'ora si è raddoppiato…
—Potrà esser vero ciò ch'ella dice, ma è cosa che non mi tocca così da vicino, perchè ci sia necessità ch'io mi tenga in mente tutti questi particolari….
—Come?
—Se ho creduto mandarle qualche denaro per fare un po' di bene, non voglio averne merito, nè immischiarmi di più in questa faccenda: della somma, ella può farne ciò che vuole; non potrebb'essere in mani più sante.
Il prete scosse il capo, e seguitò:
—Quel fanciullo, o signore, vive. Dopo lunghe ricerche, dopo anni e anni d'incertezza, il caso mi poneva sulle sue traccie; io credo d'averlo ritrovato. Ora il fanciullo è un uomo; esso ignora del tutto la storia della sua prima età; perduto in mezzo alla campagna, non conobbe nè padre nè madre; nessuno gl'insegnò una parola d'amore, egli crebbe insensato, nudo, selvaggio; per mesi e per anni, non fece che piangere solitario e deriso da tutti, perchè la sua piccola mente a grado a grado svaniva; lo chiamavano per soprannome il povero pazzo. Ma c'è sopra di noi Chi si ricorda di tutti! Quel Dio che benedice il dolore degli oppressi fu la guida invisibile dell'errante fanciullo; e d'uno in altro villaggio, di casa in casa, il tapino si ridusse a vivere in questa città. Io non voglio stancare, o signore, la sua indulgenza, raccontando tutto ciò ch'esso fece e sofferse….
—Pare un romanzetto, caro signor abate, questa sua cantafera: lo interruppe con alterigia l'Illustrissimo. Sta poi che tutto sia vero, e più di tutto…. (questo il disse a voce più sommessa, e dopo una pausa) c'è qualche prova dell'identità del fanciullo?….
—Non mancan prove, illustre signore! rispose il prete. Ma io, quanto a me, non intendo farle valere; non intendo far parlare la legge, prima che parli la coscienza….
—Questa è una minaccia, cred'io. Se la piglia su questo tuono, non ne faremo nulla.—E sorrise, in modo da toglier quasi al prete quella pazienza, onde aveva sostenuto senza sdegno la noncuranza e il sarcasmo dell'Illustrissimo.
—Io son venuto, riprese don Teodoro con mite e tranquillo accento, a supplicarla nel nome di Chi tutto sa, e per la memoria di quello ch'è stato! Assecondi, ella n'ha tempo ancora, l'ultima preghiera d'una infelice ch'è morta: io per me non ho nè il dovere, nè l'intenzione, di propalare una trista avventura della quale conosco ogni particolare; anzi, da me, quel povero giovine non saprà altro se non che la Provvidenza l'ha destinato a espiare quaggiù il fallo di sua madre. Ma se, per altra via, egli venisse a conoscere il vero; se potesse mettere innanzi qualche ragione, qualche pretensione; se il mondo un dì o l'altro echeggiasse d'un processo lungo e scandaloso, d'un processo che non dovrebbe riuscire indifferente all'erede d'una gran casa….
—È cosa inaudita! nessuno ha osato mai parlarmi in cosiffatta maniera…. Buono, che per me ci vogliono altri spauracchi…. E io le giuro, per dio!
—Non giuri per nessuno, signore! si degni darmi orecchio, mi lasci finire. Il giovine di cui io parlo, nella sua semplicità e ignoranza, ha potuto conservare un'anima generosa e grande; poche di simili n'ha il mondo. Egli aveva trovata un'umile, onesta famiglia, che non gli rifiutò ciò che di più gli bisognava, affetto e compassione; aveva trovato un amico, e per quest'amico seppe fare il sagrificio della propria libertà, offrir la vita. Grandi e polenti persone condussero alla rovina quella buona gente; una vecchia madre all'ospedale, un figliuolo uscito a malapena innocente da un processo criminale, conseguenza d'un'insidia peggio che d'assassini; una fanciulla perseguitata, e a quest'ora forse…. perduta!
Così dicendo, il prete fissava gli occhi ardenti nel volto dell'Illustrissimo; il quale, compreso da un tremito che non poteva nascondere, impallidendo balbettò con infinta sbadataggine:
—Che storia è questa?
—È presso a poco la storia di tutti i giorni: seguì il prete, con voce mutata a un tratto in umile e dolorosa. Coloro che, al par di noi, di noi dico che portiam quest'abito, penetrano ne' nascondigli de' poveri, sanno quanto sia facile toglier loro l'unico, ultimo bene, la pace dell'onestà; sanno che lacrime costi a tante avvilite creature l'illusione d'un po' di fortuna; vedono nelle squallide case del popolo le traccie dell'oro de' ricchi, seminato dalla seduzione e dal capriccio. Così passa l'infamia d'una in altra generazione. Ben so che i buoni non mancano; che molti de' ricchi fanno il bene; e molti che il fanno, voglion che si sappia; le caritatevoli istituzioni, il danaro largito a sollievo dell'umanità sono un vanto giusto dell'età nostra, un pregio singolare di questa città; ma le beneficenze orgogliose non son quelle che migliorano il mondo; e la carità vera è nella giustizia, e nell'amore!…
L'Illustrissimo, piegata la testa sul petto, cupo nel pensiero, nulla rispose a queste gravi parole, che certamente non era uso a sentire. E gli pensava allo strano sviluppo di quest'avventura, dimenticata, soffocata da tanti anni, che gli faceva ritrovare un figlio in quella casa stessa ove, poco tempo prima, egli andò a cercare un'altra vittima. Il turbamento che stavagli in cuore era forse compassione, fors'anche rimorso; a questa voce interiore s'aggiunse un senso di mala disposizione in tutta la persona. Egli parve veramente sentirsi cader le forze, fluttuar più rapido il sangue, un freddo nelle membra, una nebbia ne' pensieri; insieme a tutto questo, l'incertezza del domani, e una paura; la paura della morte.
Ma il prete non aveva perduto nessun moto dell'uomo che gli stava dinanzi; e leggendogli in viso il terrore dell'anima, pensò che, forse per la prima volta, ciò che v'ha di più arcano nella natura percoteva l'opulento e corrotto patrizio. E satisfatto abbastanza ch'egli provasse quel terrore, anche senza confessarlo, ripigliò con voce più riverente:
—M'accorgo, signore, ch'io forse tratto con soverchio calore una giusta causa; ma ella mi perdonerà, se è vero ch'io leggo nel suo cuore una buona ispirazione. Ella può far del bene, e molto, alla famiglia per la quale io venni a parlarle; è pietà; è giustizia!…
—Oh! ascolti adesso anche me: disse l'Illustrissimo, rinfrancato dall'orgoglio. Io non so con che diritto ella sia qui venuto a farmi segno delle sue censure, a serrarmi i panni addosso con tante vane supposizioni. Rispetto lor signori; ma son avvezzo a pigliare il mondo com'è; ho fatto anch'io la mia parte di bene e di male, come tutti i figli d'Adamo; però non ne do conto a nessuno; e in quanto a lei, non la scelsi ancora per mio direttore di spirito….. Mi risparmi dunque altri consigli; e, in cambio de' suoi, io ne darò uno a lei; pensi bene un'altra volta a quello che fa, e a chi parla; l'abito che veste non le faccia creder lecito di trattare un par mio, come il primo mascalzone che si getti al piede del suo confessionale.
—Signore! ripigliò don Teodoro addolorato: non rinneghi la voce del cuore, non mi rimandi così. Ella deve sapere dove si trovi quella povera figliuola; deve sapere che un uomo perduto, malvagio, la sottrasse con un'insidia alla casa ov'era stata ricoverata; deve sapere che si mette innanzi il suo nome….
—Il mio nome? Per il cielo! io non ci entro per nulla in questi fatti. Ora capisco che l'hanno ingannata—E si sforzò di pigliare un tuono burlevole, e indifferente;—Se, per ajutare una giovine a fare un po' di fortuna…. per via lecita, mi spiego, per esempio, avviandola sul teatro, dove, se prometta bene, se sia bella, può far tesori al tempo che corre; se per far questo, dico, ho a tirarmi adosso le rappresaglie di tutta l'inquisizione, io posso anche riderne, mi pare…. Non s'adonti dunque, e mi compatisca! Ella mi vede inchiodato su questa seggiola; son castigato abbastanza, dacchè vennero a trovarmi, in una mattina, i due uccelli del malaugurio, il medico e il prete.
—Ella fa uno sforzo, o signore, per mentire a sè stesso, e scherzare. Ma non è questo il momento. A me bisogna ritrovar la giovine…. ritrovarla, prima di sera.
—Io non so nulla, le ripeto. Se c'è persona che abusi del mio nome, per qualche fine, per qualche vendetta….
—Come? ella dunque assente?…
—Che assentire? suppongo: e forse indovino.
—Cosa sento?… dunque è vero… E lei poteva?… Ma saremo a tempo?
—Le ripeto che non so nulla. Capisco che tutto questo è opera d'un cattivo soggetto, il quale, lo conosco abbastanza, si prese giuoco anche di me. In quanto all'essere a tempo, non so che dirle.
—Oh! sarebbe mai….—E levossi con impeto.
—Io me ne lavo le mani, io…. di tutto quel ch'è successo e che può succedere.
—Signore! proruppe don Teodoro; ella dovrà render conto di tutto a Colui che si ride delle violenze degli uomini! Le lagrime fatte spargere dall'umana prepotenza sono adesso quel che fu un tempo il sangue versato dai martiri…. Batterà l'ora della morte anche per lei; e in quel punto….
Ma l'Illustrissimo adirato levossi, e disse:
—Finite, tacete, e lasciatemi in pace una volta!
—Or bene, che vi giudichi il Signore!… Il mio dovere mi chiama altrove, e non ho un minuto da perdere. Ricordatevi che un'ora sola, in cui pensiamo seriamente a noi stessi può mutar tutta la vita!
Così detto, se n'andò, lasciando l'Illustrissimo in un mar d'incertezze e di terrori, sdegnato in una e confuso. E partito lui, il patrizio, sentendo crescersi il male, non ebbe coraggio di maledire il prete che osò parlargli come nessuno aveva osato mai, che non temè di minacciargli la giustizia del cielo.
Capitolo Ventesimoprimo
L'uomo cammina a gran passi sulla via del delitto. Nel dì stesso che accadevano le cose narrate nel precedente capitolo, il signor Omobono venne a sapere come la fuga della Stella dal Ritiro fosse già nota alle dame protettrici; le quali, scandolezzate dal mal esempio e piene di zelo, non avrebbero mancato di fare un subbisso, colle loro querele, in tutta la congregazione, e di portar fors'anche la cosa alla conoscenza delle autorità ecclesiastiche e secolari. Benchè la paura gli suggerisse in quel frangente un'estrema prudenza, nondimeno egli non seppe resistere all'ultima tentazione della vendetta. Ma volle compirla, mettendosi prima al sicuro d'ogni perigliosa conseguenza.
Al mattino, la fanciulla, dopo un'intera notte di pianto e di terrore, non aveva più sentito al di fuori della sua prigione nè voce, nè movimento. Si trascinò alla porta, e cominciò a battere, e domandare pietà. E la pegnataria, dalla quale il signor Omobono si partiva allor allora, dopo concertata ogni cosa, non fece la sorda a quelle preghiere. Ella aveva promesso di fare a modo dell'Omobono: con tutto che durasse un pezzo fra il sì e il no; e se non fosse stata la speranza di sbrigarsi al più presto della figliuola, e anche di quell'uomo, tutto viluppi e imbratti, che l'aveva tirata pe' capegli in quell'affaraccio, non avrebbe promesso.
Entrò nella cameretta, in aria premurosa e compassionevole, dicendo che non s'era già dimenticata di lei, e che veniva a portarle la colazione. E mise giù sulla tavola un tondo con una tazza di caffè e latte e un po' di pane.
La fanciulla, appena la vide, le corse incontro, le s'inginocchiò dinanzi piangendo e scongiurandola che la lasciasse partire. La vecchia, fingendosi impietosita, rispondevale ch'era ben giusto, e che fra poco sarebbe venuta a prenderla una brava persona sua conoscente, per accompagnarla presso alla sua mamma.
—Intanto, soggiunse, non lasciatevi andar così, la mia figliuola; dovete aver bisogno di pigliar qualche cosa; siete digiuna da forse ventiquattr'ore, chè nemmeno jer sera avete voluto mangiar nulla…. Datemi ascolto, bevete almeno quel po' di caffè col latte, ben caldo.
La fanciulla, aveva tanto bisogno di sperare che cominciò a credere a quelle bugiarde parole; e sentendosi veramente venir meno per tutto il patir che fece, prendeva dalle mani della vecchia la tazza: ma non potendo inghiottire un sol boccone di pane, s'accontentò di bere una parte di quel caffè col latte. Nè molto andò che, fosse effetto del lungo sfinimento della passata notte, fosse un'improvvisa stretta al cuore, la fanciulla sentì annebbiarsi gli occhi, le membra agghiadarsi; e cólta da vertigine, si lasciò cadere sulla seggiola più vicina e giacque come svenuta.
Allora la pegnataria non s'affrettò già per darle soccorso, ma fu d'un tratto nell'altra stanza, e fattasi alla finestra sulla via, l'aperse, e battè due o tre volte palma a palma. Un uomo inferraiolato se ne stava a pochi passi del portone: quantunque il segnale venisse così dall'alto, parve fosse là ad aspettarlo; poichè subito si mosse, e con un cenno fece avanzare una carrozza di nolo, appostata dietro l'angolo della via; poi, guardato ch'ebbe intorno con sospetto, svoltò nel portone.
Non passò un quarto d'ora, e l'uomo ricomparve: un altro venivagli dietro, reggendo sulle braccia una fanciulla, con uno scialle scuro in testa che le cadeva sul viso, e involto da una coltre il resto della persona. Una pigionale che, al passar di costoro, aveva fatto capolino dall'uscio, la credette una poveretta portata forse a morire all'ospedale; e usa anche troppo a così fatte scene, non vi fece poi sopra, colle vicine, nessuna ciancia.
I due, venuti al basso, s'accostarono al legno; l'uno n'aperse lo sportello, l'altro vi adagiò la fanciulla che sembrava piuttosto addormentata che svenuta; mentre il primo s'avanzò per dire una parola al vetturino. Costui, chinato il capo, frustò i cavalli, che malgrado il lor trotto ineguale, gareggiavano di non solita velocità.
Quando la Stella si risvegliò da quel grave sopore, il sole era alto. Guardossi intorno, tutta incerta e smemorata ancora, nè riconobbe dove fosse. Pensava d'aver sognato, di sognare ancora.
Era in una stanza vasta, quadrata, malinconica. Pochi mobili vecchi, tarlati, coperti di sbiadito damasco giallo la guernivano; da un lato una tavola, dall'altro un canapè massiccio e nano, sul quale ella s'era risvegliata in quel punto; nude le pareti, la vôlta fonda, sgretolata. Solo ornamento del tetro luogo, vedevasi pendere da una delle pareti, al di sopra dell'antico canapè, un gran quadro annerito, rappresentante un vecchio signore, in abito cavalieresco, ritto e severo, in attitudine di comando.
La fanciulla era corsa all'unico balcone, che lasciava entrare una pallida luce nella stanza: al basso, vide muraglie d'antico recinto, giardini abbandonati, grandi alberi da cui si staccavano, portate dal vento, le foglie ingiallite; vide, a qualche distanza, un gruppo di povere case, e fuggir da que' tetti qualche striscia di fumo biancastro; e campi all'ingiro e praterie attraversate da rigagnoli, divise da lunghissime file di salici e di pioppi sfrondati; e di lontano, sopra un cielo cenerognolo, uniforme, disegnarsi le bianche guglie del Duomo.
Quella finestra, alla quale smarrita, estatica affacciavasi la fanciulla, era altissima; e guardava il fianco d'un edificio antico, quadrato, ch'era stato altre volte la torre d'un castello. Il castello in gran parte più non esisteva, poichè la fronte dell'edifizio si vedeva restaurata colla pesante architettura di due secoli fa, e trasformata in un palazzotto; sola rimaneva tuttora in piedi la torre, con una tettoja sovrapposta allo spalto merlato; alcune delle vecchie finestre apparivano turate, altre erano munite di massiccie inferriate sporgenti; ma anche quella parte, fin allora la sola intatta dell'antico fabbricato, doveva essere in breve riattata, come lo indicava un impalcato di travi e d'assi costrutto da un fianco del terrazzo, poco al di sotto della finestra, donde stava a guardare la fanciulla.
In quel solitario e abbandonato palazzo, poche miglia lontano dalla città, e appartenente all'Illustrissimo, aveva il signor Omobono fatto condurre, giovandosi a tempo della protezione di quel potente signore, la povera Stella.
Quando, risensata del tutto, essa potè comprendere o piuttosto intravvedere la verità, quando ripensò a quel ch'era avvenuto e che parevale tuttora avvolto d'inesplicabile mistero, raccapricciò; e, coprendosi colle mani tremanti la faccia, ruppe in alto pianto. La solitudine, lo spavento, la certezza che, per piangere o gridar che facesse, nessuno poteva udirla, nessuno venire a salvarla; l'aspetto di quel luogo, il gelo che le correva per le membra, perfino il cupo sguardo che sembrava cader sopra di lei da quel ritratto del vecchio castellano; ogni cosa, ogni pensiero le aumentava l'angoscia dell'animo, la faceva disperare. Ripeteva il nome di sua madre, de' suoi fratelli; e poi piangeva, raccomandavasi alla Beata Vergine, e sperava ancora.
Passarono alcune ore. Quella gravezza di capo, quella specie di torpida nube che la opprimeva tuttora, in guisa che non riusciva a spiegare a sè stessa come nè quando, dall'angusta cameretta della pegnataria, fosse stata condotta in quel luogo deserto e sconosciuto, l'avevan resa di nuovo quasi insensibile; e non potendo più reggersi in piedi, gettossi di nuovo sugli scomposti cuscini del canapè. Cresceva a grado a grado nella stanza l'oscurità; e s'udivano poco lontano i rintocchi lenti d'una campana.
In quel punto, un romore confuso nelle stanze di sotto; un domandare e rispondere di due voci concitate e lo strepito d'un passo sulle scale, riscossero la Stella da quel letargo, che l'aveva tolta per poco alla conoscenza del suo pericolo, del suo spavento. Si levò a sedere, origliò; il cuore le batteva con rapidissimo sussulto; desiderava che alcuno venisse, fosse anche l'ignoto suo persecutore.
Non s'era ingannata; era il passo d'un uomo che saliva a quella stanza. La porta fu schiusa, e subitamente essa riconobbe, sebbene da lungo tempo non l'avesse più veduto, il signor Omobono. Costui s'avanzò col viso composto, colle mani serrate al petto, in atto di premurosa compassione. Ma la fanciulla non ardì levar la seconda volta gli occhi sopra di lui; essa tremava in ogni fibra; poco prima le aveva stretto il cuore il dubbio di trovarsi, senza difesa, in potere di quel vecchio signore che venne una volta nella sua povera casa per ingannarla coll'apparenza della protezione. Ora la vista del signor Omobono le mutava quel dubbio in certezza; essa trovavasi in faccia di colui ch'era stato l'artefice di tutte le sue disavventure.
L'Omobono fermossi con atto contegnoso, poco discosto dal canapè, dal quale la fanciulla non aveva avuto forza d'alzarsi.
—Mi conoscete, diss'egli? Oh dove mai vi trovo! Ma, io vi sono amico, non temete di nulla, povera giovine!
—No, no! è un inganno…. Non è vero! Io sono stata tradita! Oh
Signore, Signore, ajutatemi voi!
—Quietatevi, datemi ascolto; io son venuto per assistervi….
—No, non è vero…. È lei che ha fatto tutto questo male! Perchè son qui?…. Perchè viene lei?….
—Vi compatisco…. dopo uno spavento come quello che dovete aver provato…. Ma fatevi cuore…. sentite….
—No! no! Cosa ho fatto io di male per essere così trattata? Io non ho nessuno…. e m'han condotta qui per forza, m'han dato a bere qualche cosa…. ho perduta la mente…. Cos'è stato di me, lo sa il Signore.
—Ma chi vuol farvi del male? Siete qui in una casa sicura; nessuno vi toccherà un capello…
—Io voglio andar da mia madre, io!….
—È giusto.
—Lasciatemi andare, lasciatemi andare!… Oh! tutto questo mi toglie la mente.
—Datemi ascolto; e non vi spaventate così. Io ho sempre avuta della premura per vostra madre e per voi…. e posso far molto io….
—Impostore! impostore! Voi tutto il male che v'è stato possibile l'avete fatto… E non vi basta. Io so bene cosa pensate voi… lo so, lo so! E vi guardo in faccia, e ve lo dico!
—Passerà questa furia, e io potrò ancora farvi del bene….
—Dio santo, tu mi darai la forza di resistere!
Ma qui, invece, cominciò a piangere, e gettandosi in ginocchio a piè di quell'uomo, lo tentò affannosa colla preghiera.
—Oh! perchè mai le preme che una povera creatura, come me, sia perduta, sagrificata per sempre?…. Cosa le abbiam fatto noi?… Sono stata divisa dalla mia mamma…. quando mi cercava, quando non aveva più nessuno…. Ho voluto tornare a casa mia…. Oh! se lei non è cattivo, se è vero che, non per farmi del male, sia venuto qui…. m'usi adesso un po' di compassione, mi conduca dalla mia povera mamma…. Vede, che io piango…. Bacierò le sue mani, pregherò il Signore per lei!
—Sì, sì! ma state quieta, non piangete così forte…. Vostra madre la tornerete a vedere….
—Oh! torni a dirlo…. mi consoli, non mi lasci pensare che voglia prendersi spasso di me!—E sollevandosi dal terreno, la fanciulla fece per uscire.
—Aspettate un momento: dove pensate d'andare? Da vostra madre, adesso no! prima di domani mattina non sarà possibile…. Ora siete qui, siete in sicuro, nessuno vuol farvi del male, Vostra madre poi non sa ancora quel ch'è stato.
—Oh mio Dio!
—Fidatevi; ci penso io….
—No! no! voglio uscir di qui.
—Siate ragionevole…. Non m'obbligate….
Oh! lasciatemi andar via!…—E come disperata, di nuovo si precipitò verso la porta.
Ma il signor Omobono, che vegliava ogni movimento della fanciulla, fu pronto a impedirle il passo, e mutando tuono e volto:—Aspettate, disse con ira soffocata: non potete uscir di qui senza di me! se vi movete, siete morta!
Capitolo Ventesimosecondo
A queste parole, a questa cupa, frenetica minaccia, Stella non ebbe più nessun dubbio, nessuna speranza. Ella si vedeva sola, indifesa, perduta; per fuggir dalle mani di quel mostro, non le rimaneva più che morire, precipitandosi dall'alta finestra. Questo disperato pensiero le attraversò la mente; ma tornando a fissar nel suo persecutore gli occhi smarriti, e scorgendo il maledetto riso che stavagli sulle labbra, sentì a un tratto tornarsi in cuore forza e coraggio.
Non fuggì più, non si ritrasse; ma immobile, pallida, incrociando le braccia sul seno, gli stette dinanzi. Non parlò, ma il suo sguardo parve dire:—Io non ti temo, io ti disprezzo!
In quell'istante, s'udì l'abbaiar d'un cane da' cortili del palazzotto. Il signor Omobono si scosse, tese l'orecchio, e aggrottando le ciglia:—Chi può essere?… susurrò fra i denti. All'urlo del cane, s'aggiunse quasi subito un romor lontano, confuso, come di gente che facesse per entrare a forza. A poco a poco lo strepito aumentò, s'udirono voci minacciose, e porte sbattute con violenza e romor di persone accorrenti.
Un lampo d'ineffabile speranza tornò a brillar sul viso della fanciulla, ma tosto disparve; e uno spavento più grande, l'aspettazione di più terribili cose, invase l'angosciato suo cuore. Quell'uomo vendicativo era là che la riguardava, agitato nello stesso tempo dalla rabbia e dal terrore. Essa allora, non potendo più sostenere quello strazio, tornò a gittarsi ginocchione dinanzi a lui, tornò a piangere, a pregare; ma le sue parole si confondevano: e quando non potè più parlare, pareva tuttavia, colle mani giunte, e cogli occhi spalancati e vitrei, domandar pietà per la sua innocenza.
—Perchè preghi adesso?… disse colui, con beffarda ironia. Perchè ti metti in ginocchio? Non sai che, per causa tua, sono stato insultato, cacciato via come un cane, non sai che ho bisogno di farti vedere quel che posso far io? Tu avevi un fratello, tu avevi una madre…. E io, io ho voluto che tu non avessi più nè fratello, nè madre…. Questa muore all'ospedale, quello marcirà sulla paglia d'una prigione…. E tu sei qui, con me; e di qui, nessuno ti può strappare… Puoi pregar finchè vuoi nel nome di Dio, che sarà lo stesso!…
Non aveva finite queste parole, quando, dal pian di sotto, s'udì una voce gridare:—Stella! Stella!
Era la voce di Damiano.
La fanciulla fece un balzo, levò al cielo le braccia, e con un grido di gioia slanciossi con furia verso la porta, presso la quale restava, come impietrito, lo scellerato Omobono.
In quel momento terribile, costui vedendosi perduto, e pur non volendo rinunziare alla sua vendetta, trasse fuori un coltello e vibrò un colpo alla fanciulla, che fuor di mente s'era gittata sopra di lui. Ma la mano di Dio stornò il ferro; la Stella svenne a' piedi dell'assassino, e, cadendo a rovescio, percosse il capo contro l'angolo d'un basso armadio ch'era presso l'entrata. L'infame, pensando alla propria vita, fuggito dalla stanza, sparve nel momento che Damiano e Rocco, trovata la scala segreta al piano superiore, precipitavansi nell'andito che metteva allo stanzone della torre.
Mentre Rocco si fermò a custodia della scala, Damiano spalancò la porta, e vide stesa sul pavimento sua sorella, che non dava più segno di vita; il sangue le bagnava la fronte, le vesti, e rigava il terreno: la credè morta, assassinata. Al grido ch'egli mise, anche il Rocco era accorso; la sollevarono, la posero a sedere; e mentre Rocco andava a cercare un po' d'acqua, per istagnare il sangue stillante ancora dalla ferita fronte di Stella, Damiano appoggiando la destra sul cuore di lei, s'accorse che batteva ancora.
In questo mezzo, uno scalpiccìo sordo ma vicino gli giunge all'orecchio; ed ecco che, spinto dall'ira e sperando trovar le traccie dell'assassino, raccomanda con uno sguardo la sorella all'amico, e in un baleno corre fuori. Tentando con furia le pareti del buio andito prima attraversato, sente cedere un'imposta; cacciasi arditamente per que' luoghi sconosciuti, e trovatosi in un soppalco, basso, ingombro di macerie e di travi, vede nel buio fondo muoversi qualche cosa: sembragli un uomo che si strascini carpone. Fatto cieco dal suo furore, afferrando una pistola che teneva nascosta, balza minaccioso incontro a colui, ch'altri non poteva essere che l'assassino di Stella. Ma, fatti appena pochi passi in quel nascondiglio, ove solo penetrava un barlume dalla cadente tettoia, pensa d'essersi ingannato, poichè là sotto più non vede alcuno. Nondimeno si fa innanzi; le assi tarlate su cui camminava gli scricchiolavan sotto…. quando a un tratto gli viene all'orecchio un tonfo, un urlo disperato; poi non ode più nulla.
La giustizia di Dio aveva punito l'insidiatore dell'innocenza. Il signor Omobono, per sottrarsi alla pena che già lo ghermiva, era vilmente fuggito, come dicemmo. Quando si vide seguitato e scoperto nel suo nascondiglio, da una finestrella s'era calato giù per l'altezza di qualche braccia, lungo il muro esteriore, fino a un terrazzo del piano sottoposto; di qui, trovando murata l'apertura, nè scoprendo altro luogo ove appiattarsi, aveva arrischiato di passar nella parte nuova del palazzo, ove giunto poteva tenersi certo della fuga: ma, per arrivar fin là, gli convenne tentare il passaggio sull'assito sporgente dal fianco della torre. Non era giunto a mezzo che, posto in fallo un piede, sentì mancarsi sotto una delle tavole dell'impalcato, cadde rovescioni, cercò, cadendo, d'aggrapparsi colle dita uncinate alle abetelle e ai correnti del ponte, ma invano; la tavola che s'era staccata lo stravoltò a capo in giù, e precipitò con essa sino al piede del palazzotto, là sotto alla finestra di quella stanza ove stava per compire il suo delitto. Egli visse ancora alcune ore, visse abbastanza per essere trasportato sur un lettuccio fino alla città; dove morì all'Ospedale, dopo aver deposta in faccia a un attuaro del tribunale la verità di quel ch'era stato, la propria colpa, e l'innocenza di coloro che furono da lui perseguitati. Il sacerdote che ne ascoltò la confessione fu l'abate Teodoro; e in mezzo a' terrori della dolorosa agonia, la parola dell'espiazione risonò, come una voce celeste, al capezzale del traviato.
Dire a lungo come Damiano e Rocco, dopo che s'erano staccati l'ultima volta dall'abate Teodoro, fossero riusciti a scoprir le traccie della fuggitiva fanciulla e di colui che in appresso l'aveva rapita, non è adesso mestieri. A Rocco era dovuta la prima e la migliore ispirazione; poichè, mentre Damiano furibondo andava mulinando i più strani propositi, Rocco aveva saputo trovar la via più diritta e il mezzo più spiccio per far venire la verità a galla. Egli, con una brusca visita fatta alla vecchia pegnataria, la quale s'era, dal canto suo, già pentita d'aver dato mano a quella iniquità, venne in brev'ora a capo di saperne anche più che non gli bisognasse, almeno per il momento. Allora i due compagni, senza perdere un minuto, erano usciti della città, e corsi al palazzotto; ove Damiano, entrato a forza, potè salvare per la seconda volta l'innocenza di sua sorella.
Ma quand'egli conobbe il misero fine di colui che da tanto tempo era stato per loro come l'angelo del male, sentì morirsi in cuore l'odio che aveva contro di lui sempre nudrito, e al desiderio di vendetta successe la compassione. Ma nè la Stella, nè sua madre vennero così presto a sapere qual fosse stato veramente l'orrendo caso. Damiano volle condur la sorella lontano da' luoghi che furono testimonj di quel fatto: e tornata co' suoi, la fanciulla, come per miracolo salvata, non ebbe altra cura, altro pensiero che quello di assistere la madre già quasi convalescente, e di farle dimenticare i tristi giorni passati.
Ma coloro che avevano in parte tessuto, restando nell'ombra, quell'odioso intrigo, gli uomini del bel mondo che non s'eran vergognati di mischiarsi in uno di que' drammi tenebrosi del trivio, ne' quali non giunge a frugare la mano della legge, e ch'essi van passando all'orecchio l'un dell'altro, con certo stile frizzante e spregiudicato, quando
»Co' festivi racconti intorno gira
»L'elegante licenza……
costoro non si sognarono neppure di vedere il dito di Dio nella morte d'un uomo, a cui essi avevano stretta tante volte la mano, a cui avevan ripetuto di professare stima e amicizia. S'ha per altro a dire, che non parlarono più di lui.
Anche la povera famiglia, della quale abbiamo raccontata la storia, fu da essi in breve dimenticata. Altre e più infelici creature, nate dalla miseria, cresciute nelle umili officine, deserte nell'ignoranza, in mezzo al pericolo della giovinezza, e alle suggestioni dell'indigenza, furon vedute ingannar per corta stagione le noie del ricco scioperato, piangere e morire! Tradite, e poi derise, avranno creduto troppo facile la vita, sperato di poter dimenticare il tugurio in cui nacquero e il pane dell'onesta fatica…. poi, dopo un rapido sogno, desiderarono il pane di prima…. quel pane bagnato di lagrime innocenti! Anch'esse gustarono un'ora d'ebbrezza, e il capriccioso orgoglio della fortuna; ma le rose di cui tessevano ghirlanda, a' loro inanellati capegli, si sfogliarono; e allora si trovaron sole, finchè vennero la vergogna e il rimorso; venne il lurido bisogno, e poi tornò facile il delitto!—Intanto gli eroi de' fuggitivi amori continuarono allegre cene, e trionfi galanti; e parecchi n'andarono invidiati, e alcuna fra le regine della moda e della bellezza non isdegnò il corteggio de' più giovani e più fortunati di que' conquistatori.
Ma torniamo a' nostri buoni amici. Don Teodoro, quell'uom raro che aveva già fatto tanto per loro, persuase Damiano che, abbandonata la città il più presto possibile, andasse a stabilirsi colla famiglia nella pace di qualche lontano paesetto. A Rocco poi consegnò il capitale tenuto in serbo da tanto tempo, e cresciuto a dodicimila lire; di lì a poco altre seimila, che l'Illustrissimo avevagli fatte contare, dopo l'ultimo colloquio, col semplice avviso che fossero da lui adoperate secondo la sua intenzione. Rocco, al veder tant'oro, al pensar ch'era suo, da principio restò come trasognato; poi rifiutò, dicendo non voler toccare neppure un da venti soldi, senza saper da che mani gli venisse quella fortuna. Nè fu cosa da nulla per don Teodoro il capacitarlo, perchè avesse a ringraziar Dio, e a non cercare più in là. Il giovinotto s'impadronì d'una mano del buon prete, e baciandola disse:—Oh m'insegni lei quel che ho a fare, e mi metta il cuore in pace, con una parola di quelle che, fin adesso, non ho sentito dire che da lei.
Capitolo Ventesimoterzo
Albeggiava. Qua e là tremolavano, come smarrite nell'azzurro del cielo, le ultime stelle; non si vedeva un sol nuvoletto, e dietro a' monti più lontani andava dilatandosi a poco a poco quel casto lume del mattino che colora, mentre sorge a diradarli, i vapori dell'atmosfera: non è la gioja del sole, ma n'è il primo sorriso. L'aria tranquilla cominciava appena a sentire il freschissimo respiro delle montagne; e a grado a grado, quella parte di cielo, già candida e trasparente, tingevasi di vermiglio; lo splendido cerchio s'ingrandiva, trasmutandosi in oro i vapori che attraversavano l'oriente; di luce in luce il sereno, diventando più leggiero, pareva come allontanarsi; finchè un punto di fuoco uscì sull'orizzonte. Le opposte cime dell'Alpi, vestite ancora di neve, si fecero tutte di roseo colore, poi il verde de' vasti alberi sorgenti sull'alture più vicine ravvivavasi; l'allegra luce calava pei dossi erbosi; tutta la valle salutava la primavera.
Un giovine contemplava da un'alta riva, appoggiato a una rovere ancor brulla e quasi morta, quel bellissimo mattino. Da una parte, a poca distanza, vedeva spiccar tra il verde una cinquantina di case in lunga linea; un po' discosta la chiesa, e da quella dilungarsi le vie del monte e della valle: dall'altra parte, al piè dell'altura, era lo specchio d'un picciol lago, formato da' fiumicelli della montagna; dietro a quello, sopra la falda, verdeggiar per lungo tratto una bruna selva di pini, la cui malinconica tinta faceva campeggiar di più le ferrigne creste de' monti all'intorno, e le bianche casuccie del paesello. La valle s'allargava un poco verso levante, e il primo sole l'innondava con un torrente di luce: allora le acque del laghetto, prima nascoste da una striscia di nebbia, scintillavano de' vivi colori dell'iride; e da ponente spuntavano nell'ultima lontananza, ancora sotto un velo d'argento, le vette gigantesche del monte Rosa.
Quel villaggio è situato in un angolo remoto e tranquillo della nostra Lombardia, e quasi nel centro d'una delle più amene e pittoresche vallate che dal primo cerchio dell'Alpi s'aprono poco sopra di Varese, distendendosi fino alle solitarie rive del lago di Lugano. È una contrada poco conosciuta, poco visitata dai forestieri, usi a correre imperterriti l'infilzatura delle impressioni consacrate nelle loro Guide, cosicchè par quasi ne vengano a riscontrar se quel che c'è di bello nella povera Italia sia ancora a luogo. Il paese è consolato d'acque sorgenti e d'ombre antiche, sparso di poche e distanti terricciuole; poichè il terreno restìo e i comuni scarsi di censo conservano agli abitatori una povera indipendenza da' loro fratelli del piano.
In una di quelle terre, da circa sei mesi, erasi condotta a vivere la famiglia della Teresa. Alle buone intenzioni dell'abate Teodoro aveva sorriso la fortuna: egli era stato veramente un padre per i nostri amici. Per lui l'abate Celso finalmente potè togliersi di dosso la tremenda protezione del padre Apollinare, il quale, stimando venuto il momento, aveva cominciato a parlare aperto col giovine, esortandolo a rompere ogni legame del secolo, e ad entrare in una casa religiosa del suo ordine in altro paese. Don Teodoro seriamente interrogò l'abate sulla sua vocazione, e ben s'accorse che s'egli non aveva osato resistere fin allora a' consigli del padre Apollinare, fu solo per naturale timidità dell'animo. Pensò dunque sottrarlo alla sua influenza; e lo potè, malgrado le opposizioni incontrate sulle prime, dichiarando di portare la cosa dinanzi a persona a cui il Padre, quantunque potente, doveva nondimeno inchinarsi. Di qui, una guerricciuola sorda ma accanita, velenosa, di tutto il partito contro il buon prete. Un piccolo beneficio assegnato a Celso finì quella scaramuccia di politica da parlatorio: don Teodoro ottenne poi che l'abate potesse compire nel Seminario lo studio teologico, durante l'anno che ancor gli mancava, prima dì ricever l'ordine sacro. Intanto, per pochi dì, l'abate era venuto nel villaggio presso la sua famiglia.
In que' contorni, anche Rocco aveva potuto, comperando un bel poderetto, impiegare onestamente il capitale della ricchezza che don Teodoro avevagli procacciata. Governato con buona economia, quel piccolo tenimento doveva fruttare a tutta la famiglia di che vivere con agio bastante; comechè Rocco ormai si considerasse come uno de' figliuoli della Teresa, e volesse spartir con loro quel ben di Dio che gli era toccato. A stento però Damiano s'adattava al partito di far casa insieme: bisognò che prima don Teodoro gli confidasse con gran segretezza un suo pensiero, perchè egli si togliesse dalla sua ostinata ripulsa. In fine, non ebbe più ragioni da opporre, quando don Teodoro istesso, venuto apposta da Milano per fare una visita al vecchio curato del paese e a' suoi nuovi amici, lo chiamò a parte e gli mise in mano un foglio della Deputazione comunale che lo aveva nominato maestro di scuola, con duecentotrenta lire all'anno, provvisoriamente però, intanto che potesse avere la patente di maestro stabile. L'oscura ma più certa e onesta via che gli s'apriva, e il suo dovere di figlio gli facevano un dovere di accettare; e quantunque in cuor suo sentisse di non poter corrispondere come avrebbe voluto a quella prova di confidenza, accettò.
La famiglia dimorava in una casuccia attigua al fondo del beneficio. A breve tratto, un'altra piccola casa, più recente, più commoda, guardava dalla lenta costiera sovra una bella estensione di prati, e aveva a meriggio un vigneto ben soleggiato, a tramontana una falda di bosco; in tutto un sessanta pertiche di terreno, ove l'occhio riposavasi consolato dalla varia bellezza della campagna: era la modesta possessione di Rocco. Ma la casetta era chiusa, e nuda tuttavia d'ogni suppellettile; il nuovo padrone non aveva cuore di staccarsi da coloro ch'erano la sua famiglia, il suo mondo. Faceva vita con essi, mangiava all'umile loro desco, dormiva sopra un duro stramazzo nella stanza del suo amico.
Il giovine che, quella mattina, stava a contemplare il nascer del sole, era Damiano. Alcune stille di rugiada, cadendo sopra di lui dalle nodose braccia dell'albero a cui s'appoggiava, non lo riscotevano dalla sua muta contemplazione: la serenità del cielo, la rinverginata bellezza della natura non bastavano a dissipar dal suo volto la nube della malinconia. Da che egli si trovava in quel felice asilo de' campi, era mutato del tutto: i suoi cari lo vedevano dilungarsi solitario, camminar pensieroso in riva al piccol lago, talvolta sfuggire persino la compagnia del solo amico del suo cuore, del buon Rocco; il quale non sapeva imaginare donde nascesse in lui una così strana e dolorosa selvatichezza di vita. Levato quasi sempre un'ora prima dell'alba, saliva l'altipiano, donde poteva vedere per lo lungo quasi tutta la valle; e là s'intratteneva bene spesso per molte ore. Quando la campana del paesello sonava il segno della scuola, egli scendeva per rendersi all'umida stanzaccia, ov'erano raccolti da quindici a venti fanciulli, sparsi per le rozze panche, col sillabario e lo scartafaccio fra mano, che mettevansi in subita soggezione; comechè stessero più contegnosi dinanzi a lui che non al vecchio curato. Parlava poco, nè davasi gran pensiero di quel che potessero da lui imparare que' poveri figliuoli; poneva solo attenzione di non mancare al rigor del dovere. Talvolta i fanciulli lo vedevano colle gomita appoggiate sulla tavola star chino e pensoso lungo tempo, sempre sulla stessa pagina, e qualche muta lagrima cadergli sul lacero volume.
Quando, sul mezzodì, ricompariva a casa, la Stella era la prima che sollecita e serena veniva a incontrarlo; e Rocco dall'orto vicino, ove stava zappando o piantando, accorreva anch'esso a salutarlo con una gagliarda stretta di mano. Celso pure in que' dì cercava di fargli buona compagnia, e la mamma Teresa non badava a' fornelli della sua cucina, per raccontargli cento piccole cose, e tenerlo su allegro. Ma quelle testimonianze di tranquillo affetto, quella gioja schietta e sempre uguale che dapprima, anche ne' suoi dì più avversi, aveva sempre desiderate, ora non facevano che aumentargli la tristezza; e quantunque egli si studiasse di vincer sè stesso, o almeno di mostrarsi indifferente, capiva di non poter più provare in mezzo a' suoi quella che pur avrebbe dovuto essere la sua parte di felicità. Al rinnovarsi di tante affettuose dimostrazioni rispondeva con tenerezza e soavità come più sapeva; ma dentro di sè sentiva un vuoto, e mille diversi pensieri l'agitavano di continuo: era un tormento misterioso, più grande di tutto il dolore sostenuto fino a quel giorno. Udiva fratello e sorella, udiva la madre e l'amico discorrere con buona speranza del tempo avvenire, benedire il cielo per la sorte che aveva loro mandata, nè poteva dividere quella fiducia, quella contentezza; passeggiava verso sera insieme a Rocco e a Stella, mentre Celso veniva lor dietro sostenendo i passi della madre: essi, discorrendo delle passate disavventure, si consolavano colla quieta presente fortuna; egli invece sentiva quasi un'ira segreta, un'indicibile amarezza, la coscienza d'essere inutile a sè medesimo, grave agli altri. Nè ancora nessuno de' suoi aveva potuto leggergli nel profondo del cuore; e non sapevano che pensarne, tanto più che l'udivano dir qualche volta:—Io non ho più nulla a desiderare; la vostra felicità è la mia.
Così passava quasi tutti i giorni. Ma qual era la cagione di questo dolore, che fatto indivisibile compagno della sua vita, lo consumava segretamente?
Fino a quel dì non aveva egli stesso conosciuto il male segreto che già logorava la sua giovinezza. Perduto dietro alle ardenti fantasie, s'era abbandonato a quell'incerta aspettazione di un avvenire non conosciuto che appagasse l'immenso desiderio del suo cuore. Il voto della sua vita, non era più un sogno di gloria, era un sogno di libertà; e come nella sua anima malinconica ma forte, vedeva cosa naturale e giusta il sacrificio di sè stesso per ciò che sentiva dover esser vero e santo, nulla gli sarebbe costato il morire. Ma quella continua battaglia di pensieri contro ciò che vedeva succedere nel mondo, e i patiti disinganni, e la necessità di nascondere, di soffocare gl'impeti più generosi dell'animo, l'avevan prostrato in breve tempo nella muta inerzia di chi non ha più nulla ad amare.
—A che m'ha condotto tutto quello che ho tentato e sperato fin adesso?—pensava.—Quella magia della bellezza che m'aveva fatto animoso, per cercarmi un nome fra gli uomini, si è dissipata; ho scambiato la mia vanità per una sincera vocazione, ho creduto poter uscire della folla; e il primo tentativo m'ha rincacciato giù all'ultimo scalino. Pure, può essere stato per lo meglio. Adesso, mia madre potrà chiudere in pace i suoi giorni, mia sorella sarà felice lei pure, certo più felice di me…. Essa un giorno riusciva a leggermi nel cuore dubbj e speranze…. Ora, tutto è mutato. Quello che mi tormenta, essi non possono comprendere cosa sia; almeno vivano in pace; qui, la mia parte, io l'ho finita…. Ne ho veduti tanti con me patire e tacere! ho creduto poterli chiamar fratelli, almeno nella disgrazia!… E l'ardente sentimento che mi fa amare questo cielo così bello, questa terra dov'io son nato, dev'essere dunque inutile? Non è Dio che me l'ha dato questo affetto?… Ma perchè l'odio, l'ambizione, la vendetta potranno essere soddisfatte, e non lo può essere l'amore?…. La fatica, il bisogno di lavorare per vivere mi davano almeno di poter dimenticare questa speranza! Ora non è più così; ora è il pensare che mi tormenta. Eccomi qui solo, disoccupato, buono a nulla nè per me nè per gli altri; e ciò ch'io sento nell'anima, oggi mi pare una luce del cielo, domani mi parrà un delirio!…. Oh quando potrò dentro di me ritrovare la forza per vincere questa viltà che mi fa aver compassione di me stesso?…. No, io non voglio morir così.
Questi solitarii vaneggiamenti di Damiano eran fatti più affannosi, più amari dalle assidue letture d'alcuni libricciuoli che gli tenevano compagnia nelle lunghe passeggiate; in quella lettura egli soleva sprofondarsi sì fattamente, che le ore gli fuggivano come istanti, dimenticava la scuola e la casa, e qualche volta il suo dolore e sè stesso.
Un giorno, dopo aver divorato, nel suo favorito passeggio sull'altura, uno di que' piccoli volumi, s'era seduto sul muscoso terreno; e nuovi pensieri, ma più certi, più ardenti, gli stavano nell'animo. Eran due ore ch'egli leggeva e pensava; nè altre parole in quel suo meditare gli fuggivano di bocca, che queste:—Almeno non sarà inutile la mia morte, come la mia vita!—In quella, intese venire alcuno alla sua volta, Vedendo Rocco che saliva il sentiero del bosco, nascose il libro, s'alzò confuso, turbato, e gli mosse incontro.
—Damiano: gli disse l'amico giunto a pochi passi da lui: temeva non ti fossi perduto giù per la selva; come ti succede qualche volta, quando ci lasci senza dir nulla; ho voluto venire io stesso a cercarti…. perchè tu sei mio fratello…. e io, sai? ho qualcosa a dirti… qualcosa che non posso più tener nel cuore….
—So il tuo segreto, Rocco; lo so da un pezzo: rispose Damiano sorridendo con mestizia: tu vuoi bene alla Stella, e pensi che se la fosse tua….
—Come?… Tu dunque lo sai?
—Non solamente lo so; ma credo che la sia una benedizione del cielo per lei, e per tutti noi. Il tuo cuore è così buono, così generoso…. E mia sorella, vedi, conosce la tua virtù, sebbene io non le abbia mai detto nulla di te, nè della onesta tua speranza….
—Damiano! lo interruppe l'amico, con voce fatta tremante dalla commozione: so che quell'angiolo del cielo non avrà forse mai avuto un pensiero al mondo per un poveretto, come me. E io, forse, sarei morto piuttosto che parlare, vedi…. Ma una parola, una sola parola….
—Che io aveva già letta nel suo cuore prima di te, da un pezzo….
—Oh se tu sapessi!…. Pochi dì fa, lunedì passato, sedevamo laggiù sul ponte del mulino; tu non facevi attenzione a noi; e la mamma, come al solito, se la spassava a darmi un po' sulla voce, chè, tu sai, la mi tiene ancora uno strambo, e dice che voglio far sempre a mio modo, e ch'è quasi un peccato mi sia piovuto dal cielo un po' di fortuna: lo sai bene come è quella buona mamma! Io non trovava più cosa rispondere; e Celso lasciava dire. Allora la Stella si mise dalla mia, e disse così, proprio così:—Non lo sgridare, mamma; io gli voglio bene—e divenne un po' rossa, e poi subito—quasi come a mio fratello… Oh! non l'aveva mai detto, no, mai! E da quel momento mi par d'essere in sogno, non so più quel che faccia o dica, e ho quasi paura di diventar matto davvero. Ma, più ci penso e più sento che la è un'idea impossibile, e che in fine mi toccherà d'andar via….
—Andar via? ma perchè?
—Sì, sì, Damiano: potrei star qui ancora, dopo averla sentita dire….. che mi vuol bene…. quasi come a te?
—Ma non sei tu mio fratello?
—Sì, e non posso essere altro che tuo e suo fratello. Adesso, lo so quel che prima non ho avuto coraggio nemanco d'imaginare….
—Bene, adesso….
—Mi tocca d'andar via, perchè non ho più cuore di guardarla, senza pensare….
—Fatti animo, mio Rocco; ascolta pur l'inspirazione del tuo cuore.
Parlerò io alla Stella per te; e credi a me, ne ringrazierà il cielo.
—No, no, per carità, non dirle niente; o almeno, non adesso… Cosa vuoi che ne faccia del bene ch'io le voglio, io gramo e brutto, storpio d'una mano, senza famiglia, senza nome, solo al mondo?
—Come? rifiuti dunque casa nostra? Noi non siam più nulla per te?…. Oh Rocco! noi ti dobbiamo tutto; e per quanto avessimo a fare, sarebbe ancor poco, in confronto di quello che tu hai fatto; e….
—Non dico che questo sia vero…. Ma come tu sei il mio amico, ti voglio raccontar su tutto. Oh se tu li indovinassi i pensieri che mi bollono in capo!… Via, è inutile, tutto è già come finito…. No, no, non sono sincero con te; ho ancora un filo di speranza; e mi manca il cuore di dirtelo….
—Sii buono, Rocco; non mi nasconder nulla. Il tuo pensare, lo so, è giusto….
—Senti dunque; poi dammi un po' di ragione, o dimmi addirittura che son matto. Ecco, cosa ho pensato di fare…. e se tu, sentito che mi avrai, non mi dici di no…. Basta, sarà quel che sarà.
—Cosa vuoi fare? dillo….
—Andrò giù a Milano, oggi, di qui a poco; parlerò con don Teodoro, mi metterò inginocchione a scongiurarlo che mi dica il nome di mio padre, che mi faccia almeno conoscere quello di mia madre, perchè io non sia più come un figliuolo di nessuno… Forse, a questo mondo, un po' di giustizia e di compassione c'è ancora; e il povero abbandonato ritroverà il compenso di tutto quello che ha sofferto…. Sì, Damiano, dimmi anche tu se non è giusto ch'io conosca la mia famiglia, ch'io ritrovi il mio nome! Allora tornerò qui; e se tu crederai che il poco bene che posso spartir con voi sia bastante per metter su casa da buona e onesta gente, andrò a parlare colla nostra mamma: Contentatevi ch'io sia proprio il vostro figliuolo. E tu dirai alla Stella che io…. che nessuno le potrebbe volere quel bene che le voglio io.
Detto questo, fece un gran sospiro, come gli fosse caduto un peso dal cuore. Damiano che, nello strano ma pur dilicato intento dell'amico, di voler avere un nome prima d'unir il suo al destino di Stella, aveva veduto la grande e altera virtù del suo cuore, non potè stornarlo dall'idea di quel viaggio alla città. Convennero dunque che non si sarebbe fatto parola di nulla fino al suo ritorno: e Rocco, con la scusa d'aver a riscuotere certo avanzo di capitale rimasto in mano di don Teodoro, si mise in via, senza perder un'ora. Damiano lo lasciò partire, persuaso già che egli e la Stella sarebbero stati alla fine marito e moglie.
Capitolo Ventesimoquarto
Rocco stette lontano due giorni; al mattino del terzo tornò, rincantucciato in una sconnessa vettura fino a Varese; e di là a piedi s'incamminò per la solitaria valle. Andava lentamente, pensando fra sè che forse per l'ultima volta egli vedeva que' luoghi così belli, così cari. Ma perchè non gli parevano più i luoghi di prima? Una tristezza più profonda di quella che in altro tempo avevagli turbata la vita e tolto quasi il lume dell'intelletto, gli s'era fitta nel cuore: in tutto il viaggio non aveva cambiata una parola con alcuno; una volta gli avevano domandato di che sito fosse: egli levò il capo, e guardò fisso un po' colui che faceva l'innocente domanda, poi gli rise in faccia con un riso beffardo e amaro: lo credettero matto. Nel restante del cammino poi, sull'alpestre costiera, non s'arrestò mai a riprender lena, fuorchè un istante, per bere un po' d'acqua al zampillo d'un rivoletto, sul principio della valle.
Era basso il sole, quando giunse presso il mulino, e sedè sul ponte, là dov'ebbe veduta, l'ultima volta prima di partire, la Stella: non si sentiva capace di fare un passo di più.
Ma poco stante, vide venir Damiano, che certo l'aspettava. Corse incontro a lui, gli gettò al collo le braccia, ma non seppe fare una parola.
—Cosa c'è di nuovo, Rocco? cosa c'è?… rispondimi, fatti cuore. Non sei più tu?…. non sei il mio fratello?
—Oh Damiano! cominciò a dire, dopo un istante, con voce soffocata: ancora uno, due giorni, e poi non vi vedrò più!
E qui, con molta titubanza e con una espressione d'amarezza che non può dirsi, gli raccontò la mala riuscita del suo tentativo. Giunto appena a Milano, era corso a trovare il suo benefattore; il quale, avendogli letto nell'animo da' primi dì che il conobbe e sapendo già al pari di lui il suo segreto, sorrise all'ingenuo, impacciato racconto che Rocco venne a fargli del suo onesto amore. Ma, quand'ebbe inteso perchè venisse il buon giovine, quando lo vide sforzarsi per non piangere, e capì che a qualunque costo voleva sapere il nome de' suoi parenti; allora il prete cominciò a farsi serio, a pensare; e sulle prime non trovò risposta. Forse l'affetto, che da tanto tempo l'aveva legato al destino del povero giovine, gli fece argomentare che si potesse ancora sperar d'abbattere colla parola della giustizia e dell'espiazione il vile pregiudizio che tutto assolve, e l'infamia che si pone la maschera della convenienza. Uomo dabbene e ingannato! con tanta esperienza delle cose e degli uomini, stimava tuttavia che quel ricco indurato nel male potesse essere domani migliore di quel che jeri fosse stato. Pure—pensava—l'uomo non è destinato al male, e non può riposare che nella giustizia. E sentiva d'aver ragione, pensando così.
Congedato Rocco, e dettogli di tornar la mattina appresso, il prete raccolse di nuovo tutte le carte ch'erano in sua mano, relative alla misteriosa nascita del fanciullo, alla sua sparizione e alle ricerche per tant'anni non intralasciate. Però dovette toccar con mano, svolgendo tali scritture un'altra volta, come tornasse impossibile non solo di far valere que' diritti dal codice non rifiutati agl'infelici che, prima d'esser chiamati, vennero al mondo; ma perfino di stabilire l'identità del giovine nelle forme legali. Gli ripugnava poi grandemente lo scandalo d'un processo; e pensò che il Signore, forse per lo meglio, aveva voluto così.
Al vegnente mattino, Rocco si lasciò vedere: egli sel fece sedere accanto; e pigliandolo per mano amorevolmente, gli confidò che gravi, insormontabili ragioni si opponevano al suo giusto desiderio: che l'uomo al quale egli non poteva dare il nome di padre, l'aveva respinto per sempre, e che avrebbe saputo trovar armi anche troppo valide contro ogni pretensione civile: così, a poco a poco, venne a parlargli anche della madre sua; gli disse ch'era morta pregando e piangendo per lui; e come sacra cosa gli confidò il nome di quella infelice, un nome dimenticato da tutti sulla terra.
Non pianse, non fece motto, non battè palpebra il giovine al pietoso racconto. Pendeva dalla bocca del prete, e negli occhi lucidi e immobili gli si vedeva tutta l'anima: allorchè don Teodoro tacque, egli si mise in ginocchio, e levando al cielo la faccia, si raccolse in sè stesso, come in atto di fare un voto, che Dio solo doveva sapere; poi disse forte:—Sia benedetto il Signore perchè la mia povera madre mi ha amato!
Quel dì stesso, verso il tramonto, volle andare al campo santo, ove don Teodoro gli disse che l'avevano portata, quasi vent'anni prima. Ma non trovò la croce, non trovò la fossa; nè gli fu dato di poter piangere sulla terra che coperse le reliquie della sventurata da cui ebbe la vita e il dolore.
Tornato al villaggio, la sua determinazione era fissa: voleva salutar Damiano, donargli tutto l'aver suo, poi andar lontano lontano, ad aspettar che Dio lo chiamasse presso sua madre. Ma Damiano, appena seppe indovinare questo disegno, onde poteva disfarsi per sempre ciò ch'egli stesso andava in quel tempo fra sè maturando tanto disse e tanto fece, che il buon Rocco finì a promettergli di non abbandonar mai più la famiglia. Pure, nè quella sera, nè il dì appresso, nè l'altro ancora non si lasciò vedere nella casetta.
Damiano, in quel torno, aveva ricevuto una lettera di don Teodoro, che lo consigliava a far sì che Rocco potesse sposare sua sorella, s'ella n'era contenta, e non avesse il cuore occupato: dicevagli esser questo un compenso destinato dalla Provvidenza; gli ricordava, comechè sapesse non esservene bisogno, ciò che l'ottimo giovine aveva fatto per lui; non taceva che, quantunque Rocco non fosse un bel giovine, come la Stella poteva meritare, pure la sua buona e onesta figura non l'avrebbero fatto scomparire al fianco di lei; e finiva la lettera così: «Io ho contato di molti anni, e la mia esperienza è lunga; ricordatevi, figliuolo, di quel che dice il primo libro del mondo: Ci son tre cose secondo lo spirito del Signore, la concordia de' fratelli, l'amor del prossimo, e l'uomo e la donna bene sortiti fra loro.—Io vedo la mano di Dio in questa unione; è Lui, che conduce il figlio innocente a fare ammenda delle colpe del padre.»
Damiano non pose mente a quest'ultime parole, che bene non comprese, lieto com'era che il consiglio di quel saggio uomo rispondesse al voto del suo cuore.
Sul far della sera, quando la famiglia si trovò raccolta sotto il frondoso castagno che proteggeva l'umile dimora, e in uno di que' silenzii che svegliano le care memorie e fanno sentir più vivo l'incanto d'una bella natura, Damiano, che sedeva fra Stella e la madre:—Vi ricordate, mamma, cominciò a dire, di quella notte che morì nostro padre, e della promessa ch'io gli ho fatta, quando ci dava la sua benedizione? Io ho preso sopra di me di tener il suo luogo, di conservar il suo nome onesto, di far di tutto per voi… Allora ho fidato troppo in me; non ho saputo darvi che angustia e povertà. Ma almeno posso dire: Siamo stati onesti! Quello ch'io doveva, l'ha fatto per me il Rocco; e più di me, dev'essere lui il vostro figliuolo.
Il buon giovine, che tenevasi in disparte e mostrava di non fare attenzione, alle prime parole di Damiano, saltò giù in furia dal muricciuolo su cui sedeva, e sparì dietro la siepe di robinie che fiancheggiava il piccolo spianato. La Stella chinò a terra gli occhi modesti, aspettando che agli altri fosse noto quello che più non era un mistero per lei: ma il cuore le batteva più rapido; il suo viso, che non aveva ancor perduta una certa pallidezza, s'invermigliava; e tutta in sè raccolta, pareva temere che si vedesse il virtuoso sentimento ond'era commossa: le sue nere pupille, i capegli bruni che rinterzati in due trecciuole le contornavano il viso, e uno schietto vestito di percallo color di rosa, le davano una grazia indicibile; ma più di tutto la faceva bella un'espressione soave di verecondia, ch'è la gemma la più cara della giovinezza.
—Dunque, ripigliò Damiano rivolgendosi alla madre che non riusciva a capire, il nostro Rocco altro non domanda, per tutto quel che ha fatto per noi, che di diventar proprio un de' vostri figliuoli; egli vuol bene alla Stella, e Stella non può trovare un marito più onesto di lui.
—È proprio vero? dimandò la vecchia Teresa, la quale, cogli occhi deboli ancora, andava cercando intorno, se il giovine fosse là.
—Egli non ha voluto restar qui, disse Celso, forse perchè non vuole sperar troppo….
—E vuole, soggiunse Damiano, lasciar libera voi e Stella nella vostra decisione. Ma noi conosciamo com'egli pensa; noi sappiamo che un cuore compagno al suo non batte sotto panni più fini….. E tu, Stella mia, cosa dici? tu che da un pezzo hai imparato a stimarlo, a volergli bene….
—Oh sì! rispose timidamente la fanciulla: io non ho conosciuto nessuno migliore di lui.
—E poi, non è forse vero, tornò a dir Damiano, che adesso noi possiam dire che viviamo del suo pane?….
—Così, tu saresti contenta? domandò la Teresa alla figliuola.
—Presso di te, mamma, e con lui, sento che lo sarò.
E le si fece più vicina e le gettò le braccia al collo.
—Ma voi, riprese Damiano, non conoscete ancora tutta l'onestà di Rocco; la sua unica speranza era di poterti sposare, o Stella: ma non s'è mai sentito il coraggio di parlare; e voleva piuttosto andar via di qui per sempre, perchè non aveva un nome a darti, perchè si credeva indegno di noi e condannato a portar lui solo la sua disgrazia. E non basta ancora; in compenso di quel po' di bene che gli abbiam voluto noi fin adesso, era pronto a lasciar tutto il fatto suo per noi; voleva farlo a qualunque costo, e pensava che non fosse virtù la sua, ma una cosa la più semplice, la più giusta.
—Ecco, disse la mamma Teresa, che io potrò morire in pace: non c'è dolore senza la sua consolazione.
—Sei proprio contenta, o Stella? tornò a chiederle Damiano. Oh! egli, io spero, sarà l'uomo del tuo cuore. Ora lasciate a me il pensiero del rimanente. Vado a cercar di Rocco laggiù nel pineto, ove credo che m'aspetti: anch'io ho un dì felice, dopo tanto tempo, ed è questo!
Scese dalla stessa parte per cui si era discostato l'amico, con una gioja pura nel cuore, che non avrebbe pensato di poter gustare ancora. In quel punto la luna sorgeva limpida dietro il ciglio della montagna, in un cielo tutto seminato di stelle.
Convenne però lasciar passare ancora parecchi mesi, prima che i due giovani fossero marito e moglie. Bisognò che si domandasse il consenso del tribunale al matrimonio; e come il cambiamento di domicilio della Teresa e de' suoi non era ancora provato nel modo che ordina la legge, fu necessario aspettare fintanto che il tribunale, la pretura e la deputazione, dopo un andirivieni di carte, avessero poste le cose in regola: e per questo, Damiano e Rocco dovettero ancora, sebbene a malincuore, far più d'un viaggio a Milano, dove la protezione del buon cappellano dell'Ospedale venne a proposito per toglier di mezzo altre difficoltà non previste. Allora si concertò, poichè già s'era perduto del tempo, d'attendere fino a che don Celso potesse dir messa; e anche per ciò nuovi passi e nuove faccende, affine di ottenere le dispense canoniche dell'età. E così fu stabilito che la prima messa di don Celso e il matrimonio di Stella si facessero subito dopo la Pentecoste di quell'anno.
Alla fine, i voti della buona famiglia furono compiuti. I contadini del paesello e quei del contorno accorsero curiosi e festeggianti alla messa nuova del giovine prete che, con la dolcezza del costume e la semplicità della vita, aveva già saputo farsi amare da quella brava gente. L'altare fu ornato degli apparamenti i più belli, e la fronte della chiesa tappezzata, in luogo d'arazzi, di rami di mortella e d'alloro; il suono festivo dell'organo confondevasi alle cantilene sacre de' buoni montanari.
Il primo sole aveva indorato le alture; e il tempo era bello. Per la via che attraverso il villaggio conduceva al piccolo tempio, fu veduta salire una schiera di donne e di fanciulle, vestite quasi tutte del pari, in quella rozza ma pittoresca foggia delle nostre alpigiane, con un bustino di filaticcia color rancio serrato alla persona e una sottana di cotonina scura, che lasciava veder mezza la gamba, le calze turchine e gli alti zoccoli: ma ciò che più rapiva eran que' visi aperti, quegli occhi neri e inquieti, que' capegli bruni e lucidi, con la loro corona degli spilli d'argento. Accompagnavano alla chiesa la novella sposa, quella buona Stella che tutti amavano; e anch'essa ne veniva con un vestito nuovo all'usanza montanara, che la faceva essere cento volte più bella. La mamma Teresa, spesseggiando i passi, tenevale dietro; Damiano e Rocco le avevano precedute nella chiesa.
Don Celso, assistito dal vecchio curato, celebrò per la prima volta il santo sagrifizio; la religiosa cerimonia commosse molti, ma la madre dei prete ne pianse di contentezza. Finita che fu la messa, Rocco e Stella s'inginocchiarono sui gradini dell'altare; don Celso li benedisse, ricevette da loro la sacra promessa, e pronunziò le parole dette dal Signore.
Durante la funzione, Damiano si tenne in disparte, assorto nel pensiero di quella felicità, ch'era parte della sua; e quando vide l'amico e la sorella scendere dall'altare tenendosi per mano, sentì una voce nel cuore che gli diceva:—Essi saranno contenti, e tu ora puoi seguire il cammino che ancor ti resta a fare.
Gli sposi andarono ad abitar la casetta, dove, prima di quel giorno, Rocco non aveva mai voluto metter piede, e che nel frattempo fece rabbellire come meglio seppe, affinchè fosse degna della figliuola dell'antico soldato di Napoleone. La terra che possedeva era sufficiente a dar loro di che vivere la vita umile e sconosciuta della campagna; vita non povera e non ricca, ma abbastanza felice. La mamma Teresa non volle distaccarsi dal suo don Celso; e come le due case non eran lontane l'una dall'altra più d'un trar di pietra, così può dirsi che facessero ancora una famiglia sola.
Essi non avevano più nulla a desiderare; ma Damiano nutriva nell'anima altri voti, altre speranze, altro amore. Il lungo contrasto in quegli anni sostenuto avevagli rapito per sempre il candore del desiderio, la pace della fede: dopo ch'ebbe veduta la maggioranza de' prepotenti e degl'ingannatori; dopo che, nel mondo a cui chiedeva così poco, i tristi gli ebbero versato in cuore il veleno dell'odio, d'ardito ch'egli era, si fe' torbido, insofferente; aveva voluto vivere per i suoi più cari; e fu inutilmente; sentiva bisogno d'amare; e povero e oppresso, amò i poveri e gli oppressi come lui; l'idea di far per loro il sagrificio di sè stesso e di quel poco che gli restava, divenne l'assidua, unica inspiratrice d'ogni sua volontà, il fine d'ogni sua aspettazione.
Passò quell'inverno; e Damiano, più tranquillo del solito, stette quasi sempre a fianco della madre e della sorella, attendendo con una premura più viva e più intelligente di prima alle cure della scuola e della casa, avviando a bene quanto potesse dare a' suoi la certezza dell'avvenire. E la Stella, la sua prediletta, non l'aveva da un pezzo veduto così pronto e sereno come allora. Al tornar della primavera, andò lontano, senza dir dove; ritornò dopo una settimana o poco più.
Indi a poco tempo, domandò alla madre la permissione d'andare a nuovo viaggio; e, dopo molta esitanza, le disse che forse la sua assenza poteva durare un anno; ma che da ciò dipendeva il bene di tutta la sua vita. Al che la povera vecchia rispose colle lagrime; non seppe dirgli di no, e strettamente abbracciandolo, gli diede la sua benedizione. Il dì appresso, al levar del sole, egli ascese lentamente, in compagnia di Stella, l'alta montagna che guarda verso il lago di Lugano; ma quello che a lei confidò, nessuno lo seppe. Giunto alla sommità, schiantò due rami da un'antica rovere; e con un nodo di vimini li congiunse in forma di croce. Sedettero per alcun tempo su quella cima; poi egli piantò la croce nella fenditura d'un sasso. Strinse al cuore la sorella, e dopo averla, senza piangere, baciata in fronte, le disse:
—Addio! Se non ritorno più, verrai a pregare per me presso a questa croce. Fino a oggi, ho fatto il poco che ho potuto, per nostra madre e per te: ora ho un'altra madre, a cui devo il mio cuore e la mia vita…. Il mio segreto è tuo; addio.
Si tolse con forza dalle braccia di lei, e discese a passi rapidi dall'altra parte della montagna.
Gli anni passarono; ma la sua famiglia non lo rivide più.
———
Da quel giorno eran corsi tredici anni. Nell'umile campo santo del paesello, verso il cadere del dì de' morti, una donna pregava, inginocchiata sull'erboso terreno, in mezzo a due fanciulletti, l'uno di forse dieci anni, l'altro di sette al più; i quali, colle manine in orazione e gli occhi fissi a una rozza croce senza nome, parevano accompagnare in quell'atto innocente la sua preghiera.
Il sole tramontò: e la donna, adempito ch'ebbe quel pio dovere verso i suoi poveri morti, uscì del cimitero, tenendo per mano i due ragazzetti. Essa mostrava poco più di trent'anni; gentile il viso e bello ancora, di quella beltà matura che par significare una melanconica pace dell'anima e della vita; vestita d'un corto e modesto abito di rigatino alla foggia del contado, coperta il capo e mezzo la persona d'uno scialle nero; lento e composto l'andare. Il più piccolo de' fanciulli, appena furon essi fuor del recinto, stringendosi alla donna, le disse, con una vocina tra paurosa e compassionevole:—Vedi, mamma, quel soldato seduto per terra là, al piede del murello!
Essa guardò a quella parte, che il figliuolo additava; e scorse in fatti, a pochi passi di loro, e mezzo nascosto da una fratta, un uomo colle spalle appoggiate al murello, più abbandonato che seduto; il quale, come s'avvide d'essere scoperto, fece uno sforzo per levarsi in piede, aggrappandosi a' ciottoli scalcinati del recinto e agli stecchi de' cespugli; vi riuscì e mosse verso di loro.
Alla faccia solcata, livida, polverosa, al guardo tetro e pieno di sospetto, ch'egli vibrava di sotto la tesa d'un largo cappello di feltro ornato d'una penna di falco; al guarnacchino, del quale mal si capiva il colore, comechè tutto fosse lordo di sangue e di fango, ma che pareva rosso; al passo vacillante ch'egli a stento sosteneva, appuntando in terra il calcio d'una corta carabina, la donna comprese che quel soldato doveva essere un povero fuggitivo, il quale, ferito e perduto, si fosse trascinato a quella parte, e per mancanza di lena o per tema di farsi vedere, avesse fatto sosta colà ad aspettar la notte. Non molto tempo era passato dall'ultima battaglia, combattuta a qualche distanza di quella valle; per quasi due mesi i silenzii di quell'alpestre contrada erano stati turbati dallo strepito della guerra, dal passar di frotte armate, dal lontano interrotto rimbombo del cannone. Anche in quel villaggio sperarono e tremarono; anche di là eran corsi non pochi, per offrire il braccio e la vita. Ma fu invano; e a quell'ora, tutto era finito.
—Voi siete un soldato del nostro paese: disse la donna, appena lo sconosciuto le si avvicinò: Forse…. avete bisogno di qualche cosa…. Forse siete ferito, stanco…. Venite con me; qui, nella nostra terra, son buoni….
—Vi ringrazio, con tutto il cuore: rispose quell'infelice: Per più d'un mese sono restato tra la vita e la morte, nella casipola d'un povero carbonajo, là dall'altra parte della montagna…. Jeri mi sono messo in istrada; ma contavo troppo sull'esser guarito…. Se mi fate la carità d'un pezzo di pane…. se mi date ch'io possa dormire al coperto questa notte, per ripigliare un po' di forza e mettermi in istato di passar il confine domani…. vi benedirò, e Dio vi benedirà anche lui.
Da queste parole, dal cortese modo con cui le pronunziò, e più ancora da una certa dilicatezza de' lineamenti, che, sebben patiti e smunti, lo indicavano di condizione un tempo più avventurata, ella fu tocca profondamente nel cuore; e sentì per quell'uomo una compassione che non avrebbe potuto dire. Fattogli cenno di seguitarla, si mosse per la prima lentamente, e dietro a lei i due figliuoli, guardando lo sconosciuto, con curiosa e mesta attenzione: il maggiore faceva uno sforzo più grande dell'età sua, per sostenergli il passo e servirgli come di bastone; il piccino s'era impossessato dello schioppo, e lo reggeva con fanciullesca fierezza sur una spalla.
Giunti, per una rimota stradetta, alla casa ch'era fuor del paese, un robusto campagnuolo, che portava il giubbone alla montanara, venne loro incontro; e di subito comprese la profferta pietosa che aveva fatto la sua donna.
—Mia buona e brava Stella!…. diss'egli; poi stese la mano all'infelice fuggiasco, col cuore amorevole e franco che gli parlava dal viso.
—Dopo tutto quel ch'è stato, ripigliò, e che Rocco ha fatta anche lui la parte sua, l'unica consolazione che gli rimane è di stringer la destra d'un fratello. E tu, Stella, me la dai questa consolazione. La buon'anima della mamma Teresa, per la quale hai pregato, e che da tre anni ci manca, sarà contenta anche lei a vederci far del bene.—Tu poi, Damiano—e metteva la mano sul capo del maggior de' fanciulli—ricordati che dovrai avere un cuore come il cuor di quest'uomo; e a te, Vittorino, forse tuo padre potrà dare un giorno un trastullo, come quello che tieni adesso in ispalla.
Il fuggitivo soldato passò la notte sotto il tranquillo tetto de' nostri amici. Al primo barlume, levossi per partire. Innanzi di accommiatarsi dagli ospiti suoi, si volse timidamente alla Stella, e dicendole che la memoria della loro onesta accoglienza non sarebbe morta che con lui, si levò da un dito e le offerse un piccolo anellino d'oro. Essa non lo voleva ricevere; ma gittandovi sopra gli occhi, le parve di conoscere, a una crocetta che v'era incisa, l'ultimo dono da lei fatto, tredici anni prima, a Damiano, il dì ch'era partito. Impallidì l'affettuosa donna; ma raccogliendo tutto il suo coraggio, chiese all'ignoto onde mai avesse avuto quell'anello.
—È la più cara memoria, ch'io m'abbia: rispose: lo porto da dieci anni; un amico mio, giovine valoroso e sventurato, me lo donava il giorno stesso che morì per la libertà, sulla riva americana, là nel paese di Montevideo…. Egli aveva nome Damiano.
pag. 12 lin. 5 intuonate intonate » 67 » 11 ; e risoluto : risoluto » 87 » 13 buffandogli buttandogli » 103 » 8 sua si trovò si trovò » 117 » 20 guadagno un guadagno; un » 143 » 29 un eco infinito un'eco infinita » 191 » 13 buon tuono bon ton » 210 » 6 Provvidenza; Provvidenza:
» 13 » 24 per la la » 31 » 5 lecito lecito tampoco » 91 » 2 consesso, consesso » 157 » 9 dato da dato di » 168 » 6 crociare crociera » 174 » 19 forte affetto forti affetti » 179 » 23 ammalati; ammalati: » 203 » 11 e parve e restò » 204 » 22 prete duro prete, duro » 214 » 29 orse forse » 225 » 7 ma e » » » ma e » 228 » 15 svegliato svogliato » 229 » 16 tanto tempo tante cose » 239 » 11 questa la sua » 248 » 23 che chè » 254 » 28 colla franchezza del vero con verità e franchezza » 261 » 19 Egli E gli
NOTA DEL TRASCRITTORE: le correzioni sopra indicate sono state effettuate, e in aggiunta le seguenti (l'originale fra [parentesi]).
dall'altra [dall'all'altra] la spada, che da anni ed anni lasciava appesa —Povero padre! Esclamò [eslcamò] con ferma voce il giovine; noi. Essendosi Damiano[Damiamo] incontrato con lui, semplici falegnami si succedevano[succedeveno] in lungo ordine; Allora gli si[sì] piantò dinanzi; e levando il capo —Questo è il manco! disse il collega scrollando[scrollaudo] sui trent'anni, bellezza famosa, la quale sebben cominciasse[cocominciasse] solita pozione…. È un altro impostore anche lui[lu] che[che che] in que' dì sofferse, io nol dirò. Sul suo capo costoro[ooro] non si sognarono neppure di vedere il dito terzo tornò, rincantucciato in una sconnessa[scommessa] vettura