Title: La Principessa
Author: Jarro
Release date: October 1, 2006 [eBook #19430]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)
Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the
Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1894.
Riservati tutti i diritti.
Tip. Fratelli Treves.
Al Comm. MATTEO SCHILIZZI
Questo romanzo fu pubblicato, per la prima volta, nelle appendici del suo diffusissimo giornale Il Corriere di Napoli. Ella stessa ebbe la bontà di scrivermi che il gran pubblico napoletano l'aveva accolto, capitolo per capitolo, con la più viva curiosità. Altri miei amici mi raccontarono del successo popolare che ebbe in Napoli questo lavoro. S'intitolava allora La Donna Nuda: ma, per varie ragioni, il titolo è stato oggi mutato.
Sono orgoglioso di scrivere in fronte al mio libro, come lietissimo auspicio, un nome illustre, caro all'universale, il nome di un gentiluomo, in cui sono pari la squisitezza dell'intelligenza e la grandezza dell'animo.
Accetti, nobilissimo amico, il tenue omaggio come espressione d'affetto, d'ammirazione, di simpatia vivissima.
Firenze, 30 giugno 1893.
Veniamo ai fatti:
Nel pomeriggio del 30 luglio 18…. un uomo correva trafelato verso il parco di Montrone, presso Napoli.
Aveva fiori e nastri rossi al cappello: i panni da festa: la faccia come infuocata.
—Domenico!… Domenico!…—Uomini, donne, ragazzi lo chiamavano, sghignazzando, facendosi beffe di lui, ma egli non si fermava.
—È tardi!… è tardi!…—aveva risposto due o tre volte a' più importuni.
E aveva continuato nella sua corsa.
Domenico era ben noto per diecine di miglia intorno a Napoli.
Avea servito molti signori, in un anno mutava cinque, sei padroni; era stato cocchiere, cuoco, valletto; aveva pur servito in conventi, in locande, in osterie, sempre cacciato per la sua intemperanza.
Ora egli era giardiniere del duca di Montrone.
Il duca, ufficiale nell'esercito austriaco, aveva testè preso parte a una delle guerre d'Oriente, ed era tornato la sera innanzi, dopo oltre un anno di assenza, con l'uniforme di generale.
Quel giorno i suoi amici, i suoi contadini, lo festeggiavano.
Il parco di Montrone era tutto imbandierato, vi erano stati eretti archi di fiori.
Domenico, a una cert'ora, contando che nessuno s'accorgesse della mancanza di lui, se ne era andato a mangiar e bere con alcuni compagni all'osteria del Falcone, tenuta dalla grossa Elisabetta, di cui egli spasimava.
E fra il bere, il corteggiare, il ridere, si era trattenuto più che non disegnava.
Ecco perchè correva a quel modo.
In fatti, già tutti si erano accorti della sua sparizione.
Egli doveva presentare al duca i contadini, e, siccome aveva lo scilinguagnolo pronto, parlare, in nome di tutti, al gentiluomo.
—E Domenico?… e Domenico?…—s'interrogavano gli uni e gli altri.
—Domenico, a quest'ora,—rispondeva uno,—sarà addormentato sotto un albero, o in un granaio, o all'ombra di qualche muro…. chi sa…. dopo aver tracannato molto….
Con maggiore insistenza degli altri avea cercato di Domenico, Cristina
Braco, cameriera della figlia del duca.
Costei avea domandato più volte del giardiniere, e chi avesse potuto leggerle nell'animo vi avrebbe scoperto una grande inquietudine.
Cristina, piuttosto alta di statura, nerboruta, di viso scialbo, con profonde occhiaie, di modi bruschi, taciturna, era un personaggio assai misterioso; e sembrava, ad alcuni non privi d'acume, messa accanto alla giovane duchessa come il suo cattivo genio.
Enrica, o che i malvagi istinti la traessero a prediligere una donna come Cristina, o qual altro ne fosse il motivo, avea sempre dato sembiante di tenerla in grande affetto.
E durante l'assenza del duca, si può dire che le due donne, la padrona e la cameriera, avevano vissuto sempre sole, e senza staccarsi mai l'una dall'altra.
Un tempo andavano la domenica alla chiesa, senza far motto ad alcuno: tutte e due rigide e pallide: senza mai dar al sagrestano, che andava attorno per la questua, l'elemosina che non gli rifiutavano i più tapini.
Non pochi avevano notato in Enrica un ghigno feroce come se la travagliassero cattive, irresistibili passioni: come se ella covasse in sè una forte inclinazione a odiare e distruggere.
In breve, le due donne non comparvero più nella chiesa: un prete andava a dir la messa la domenica nella cappella entro il parco di Montrone…. Ed Enrica e la cameriera l'ascoltavano dietro la grata d'un coretto, in alto.
Non erano più uscite dal parco per varii mesi, allorchè il duca tornò all'improvviso, inaspettato.
Il duca adorava la sua unica figlia; era partito, affidandola ad una sua sorella, poichè egli era vedovo da molti anni. La gentildonna era stata colta da una grave malattia: per consiglio dei medici avea dovuto recarsi in altro clima. Enrica era rimasta con Cristina e aveva persuaso, il che non le riesciva mai difficile, il duca che così stava benissimo, senza pericoli.
Il duca non potea aver inquietudini: era di carattere leggero, spensierato, confidava molto nella serietà di Enrica, nella stretta solitudine in cui viveva, nel vigile amore di coloro che la circondavano.
Cristina, poi, ispirava al duca una fiducia senza limiti.
—Ecco…. ecco Domenico!—gridò un contadino che era andato molto innanzi sulla strada, fuori del parco, quasi subodorando che il giardiniere dovesse venire di là.
Subito la lieta notizia andò di bocca in bocca.
Domenico entrò correndo, ansando, nel parco: ruppe ogni domanda inopportuna sulle labbra degli indiscreti.
—Qua…. qua…. venite…. è tardi…. riuniamoci…. per andare tutti insieme al palazzo…. Dove sono gli stendardi di fiori?… Le ragazze sono arrivate?… Qua…. qua….—e accennava con la mano verso un viale ove si vedevano aggruppate parecchie diecine di ragazze vestite di bianco.
—E la musica? la musica?…—gridava Domenico, che non voleva dar tempo agli altri d'interrogarlo.
Ma il suo viso acceso, i suoi occhi stralunati, l'eccitazione de' suoi gesti rivelavano, senz'altro, come e dove egli aveva passato quelle ore.
—Cristina vi cercava!—gli susurrò all'orecchio il vecchio intendente del duca.
—Ah! Ah!
Malgrado il piglio di leggerezza con cui rispondeva, la fisonomia di Domenico diventò contraffatta, come se le parole dettegli dall'intendente gli avessero sgradevolmente ricordato qualche brutta cosa, ch'egli dovea compiere, e che il vino, propizio o no, gli avea fatto dimenticare.
—E il duca?…—chiese Domenico, sopra pensiero.
—Il duca non è ancora uscito dalla villa,—replicò l'intendente.
Domenico respirò.
—La duchessina è molto debole…. Sta sempre assai male…. E il duca voleva persuaderla a uscire con lui, e venir a ballare sul prato le prime quadriglie con le nostre ragazze.
—Sarà impossibile!—scappò detto a Domenico. E subito si guardava attorno, sospettoso.
Vide che erano arrivati molti signori, amici e parenti del duca.
C'erano fra gli altri il conte di Squirace, il marchese di Trapani, e parlavano in quel punto con l'avvocato del duca, fra i più reputati di Napoli, Maurizio Cotella.
—Marchese,—diceva il conte di Squirace,—siete molto inquieto….
—E come no?—rispondeva il marchese, cugino del duca,—ho lasciato a casa mia moglie in gravissimo stato…. Da un momento all'altro può arrivare qui un messo ad anunziarmi che ho avuto un figlio, o pure…. Essa soffre tanto…. Ci voleva proprio questo ritorno improvviso di mio cugino perchè la lasciassi, anche per poco….
Il marchese era veramente concitato.
Aveva l'aspetto sconvolto, lo sguardo incerto, un tremito in tutta la persona.
Era come un uomo, la cui vita è affidata a una suprema risoluzione, d'esito incerto, e magari all'esito d'un delitto.
—Se mio cugino non viene l'andrò a cercare,—osservò a un tratto, con certa impazienza, il marchese….—Mi dicono che è nella camera di sua figlia, ammalazzata… forse per la sorpresa di rivederlo, dopo tanto tempo!
Il marchese si allontanò.
—Ci prende per semplici,—disse il conte all'avvocato.—Non è l'amore per suo cugino che lo ha fatto accorrere qui così presto…. Egli vuole ottenere un ufficio molto lucroso e spera ottenerlo con la sempre maggior influenza che il duca, dopo le sue ultime gesta, ha acquistato sull'animo del Re.
—Il marchese è rovinato,—riprese l'avvocato Cotella.—Vi rammentate che, anni or sono, corse voce che egli era morto in Egitto…. Poi tornò in Napoli…. Suo padre dette fondo al patrimonio di famiglia con le più bizzarre dissipazioni. Ma ebbe una virtù: benchè nobile, si consacrò al più umile lavoro. Fu in America: si fece commerciante in pianoforti, quindi agricoltore, impresario: fu proprietario di uno dei più grandi alberghi di New-York, ove tutti i servizi erano fatti da negri e da negre: fondò un giornale, l'Evening Standard. Morì, e lasciò al figlio circa tre milioni di franchi.
—E il figlio?
—Si è divorato tutto in pochi anni a Parigi, ove tenne una scuderia di cavalli da corsa, ove il suo sfarzo attirò l'attenzione della Corte, degli ambasciatori, de' principi che si trovavano di passaggio. Egli si ridusse… diceva almeno il duca di Lari… a vivere cogr imprestiti fattigli danna famosa avventuriera italiana: la Barrucci…. Ebbe l'eredità di due zii, e sfumarono l'una accanto all'altra…. Sposò la principessa di Morella, cugina dei Montrone; gobba, malsana, la sposò per la dote… che ha già mangiato….
—Non ho mai visto la principessa….
—Essa sta quasi sempre a Parigi, per far la corte a sua nonna, ricchissima: e che lascerà al Papa, o agli Orléans, i suoi milioni, se si disgusta con la sua unica nipote…. È una vecchia mezzo fanatica, mezzo demente… di una sordida avarizia. Si ricuce le calze da sè: non accende il fuoco d'inverno: fa rattoppare i vestiti: mangia soltanto pochi legumi: e ciò in un palazzo splendido, fra lo scintillio degli ori, gli arazzi, gli oggetti d'arte, il lusso d'ogni maniera, profuso dagli antenati di suo marito. La principessa ha pure una zia, anch'essa millionaria, a Genova: e così passa la sua vita fra Genova e Parigi, o viceversa…. Intanto, ottiene cospicui assegni, che il marchese ghermisce, mentre la tiene di sentinella alle due eredità…. che sono ormai la sua sola speranza. È con questa speranza ch'egli paga i suoi numerosi creditori…. Il marchese è in una di quelle condizioni, che rendono l'uomo capace di tutto….
—Intendo; la nonna, la zia resistono, ed egli deve prendere un partito estremo….
—Siamo ora ad una catastrofe,—soggiunse il primo avvocato di Napoli.—Io ho in mano protesti di cambiali firmate dal marchese; altri gravi documenti…. So che la rovina irreparabile, palese, e il disonore possono da lui esser protratti, con sforzi titanici, soltanto di pochi giorni…. Gli rimane però un'altra debole speranza: e in questo momento egli ha raccolto su di essa tutte le sue energie, come il naufrago le sue forze sull'unica tavola di salvezza che gli si presenta…. La principessa, dopo il suo matrimonio col marchese, ha avuto due parti molto laboriosi e molto infelici…. Essa sta ora di nuovo per divenir madre…. Hanno fatto venir da Vienna un celebre specialista. Egli mi ha detto, poichè avevo interesse a saperlo, che la marchesa questa volta ben difficilmente sopravviverà al suo parto: e ben difficilmente anche questa volta il frutto di lei sarà vitale…. Se ciò accade, il marchese è perduto: nè la nonna di Parigi, nè la zia di Genova lasceranno a lui un picciolo, poichè lo aborrono…. Ecco in quali speranze e in quali terrori si dibatte in questo momento il marchese…. E forse, temendo il peggio, vorrà propiziarsi, in questo stesso momento, suo cugino. Ma, domani, il duca non potrà aiutarlo, senza partecipare al disonore di lui, senza esser trascinato nella stessa rovina…. So quello che io dico…. Nel corso della notte sarà decisa l'esistenza del marchese.
—Non mi meraviglierei,—osservò il conte,—che la decisione fosse propizia. Vi sono uomini che calpestano la fortuna, la insultano, e a cui essa, appunto come femmina, corre dietro.
—Non me ne meraviglierei neppur'io!—soggiunse l'avvocato.—Pietro ha avuto sempre una fortuna uguale, per lo meno, alla sua mancanza di coscienza. Gli errori cagionati da questa li potè sempre riparare, sin ora, coi favori dell'altra….
—Oh, il duca!—
Il duca di Montrone scendeva la fastosa scala, che era dinanzi alla porta principale della sua villa da sovrano, dando il braccio a sua figlia.
Enrica, pallidissima, scendeva lentamente e come se dovesse ad ogni tratto cadere.
Subito i gentiluomini andarono incontro al duca per festeggiarlo.
Erano pochi amici, arrivati innanzi tempo, per essere tra i primi a stringere la mano al valoroso, all'antico compagno di eleganti dissipazioni.
Il marchese già doveva avergli parlato, poichè usciva dalla villa dopo il duca ed Enrica.
—Viva il duca!
I contadini, scortati da Domenico, che pronunziò poche parole, si stringevano attorno al gentiluomo, urlando a tutta possa, agitando rami fioriti. Incominciò la danza della tarantella; la dolce musica napoletana risuonava sotto il bel cielo di opale e di azzurro.
Una delle ragazze offrì alla figlia del duca un magnifico mazzo di fiori.
Essa rispose con un sorriso, tra sarcastico e altero, senza gentilezza di sorta.
Tutte guardavano Enrica, rigida, benchè in preda a una sofferenza che le traspariva dal volto; seducente ma d'una di quelle bellezze che fanno paura.
Il duca stringeva la mano a' suoi contadini; e specialmente coi vecchi, i quali l'avean tante volte, bambino, gratificato ne' suoi desiderii, e aveano tanto amato i suoi genitori, si mostrava espansivo.
Uomini, donne, si trovavano col duca a loro agio; la sua gaia affabilità li confortava, ispirava in essi riconoscenza; ma l'aspetto di Enrica li turbava, li agghiacciava sempre.
Essa era sì indifferente, sì sdegnosa e, sembrava loro, sì cattiva, che lasciava in quelle povere anime un vero sgomento.
Enrica avea sentito più volte questo effetto che ella destava, e ne avea gioito, come se le andasse a versi di esser tenuta una creatura malefica: come se godesse del maligno influsso che esercitava.
Non sì tosto il duca era comparso con Enrica sulla soglia della porta della villa, si erano sparati da un'altura del parco mortaretti e per tutto il parco rimbombavano colpi di fucile in segno di gioia.
Il duca, nel rivedersi in mezzo a' suoi, era commosso, ravvivato da vera allegrezza.
A un tratto, in mezzo alla folla, Cristina si avvicinò al giardiniere
Domenico.
—Ubriacone!—gli mormorò.
—Sono io!…
—Nella casetta… in fondo al parco… tutto è in ordine…. Questo è il momento!
Domenico si turbò un poco.
—Ho capito!—rispose in un tuono che l'altra fu soddisfatta….
Di lì a pochi minuti, Domenico fu alla casetta.
La strada, che corre in fondo al parco, era deserta.
In quell'ora tutte le persone dei dintorni si trovavavano a festeggiare il duca: e, per ordine suo, in un attimo s'erano imbandite le mense per rifocillare, dopo le danze, la gente accorsa; qualche centinaio di persone.
Domenico avea attaccato una delle carrozze di cui si serviva Enrica: e dentro vi avea accomodato un oggetto recato con pena e con ogni cura fra le sue braccia: oggetto che dovea essere molto prezioso, poichè, innanzi di deporlo nella carrozza, avea guardato più volte a destra e a sinistra: e avea chiuso la carrozza ermeticamente da tutti i lati, dopo aver tirato giù le tendine azzurre sui vetri.
Incominciava a cadere il crepuscolo, allorchè Domenico, salito a cassetta, con piglio assai vivace, aveva sferzato i cavalli, che s'impennavano.
Subito uscì, di dietro a un gruppo d'alberi, Cristina, sempre più pallida e più contraffatta.
—Guarda,—gli disse,—beone, di non fermarti a nessuna osteria…. E attento a non parlare a nessuno…. È il segreto di una povera donna…. Se tu cianciassi… sarebbe licenziata….
Aprì una cassetta, ben salda, che era sul dinanzi della carrozza, e mostrò a Domenico un sacchetto pieno di ducati.
—Questo per la donna….
—Ho capito!—ribattè Domenico con sufficienza. E i cavalli partirono.
—Il segreto di una persona di servizio!—pensava Domenico,—come se io non sapessi i segreti de' gran signori….
E continuava, con le guide in mano, a stringer le labbra, ad alzar le spalle, a far gesti, come per assicurarsi che il segreto sarebbe morto con lui!
Il duca, intanto, parlava col conte di Squirace.
Il conte non cavava gli occhi di dosso ad Enrica. Essa gli piaceva: aveva cercato più volte vederla durante l'assenza del padre, ma indarno.
Le aveva scritto: ne avea ricevuto ripulse: le si era mostrato, quando frequentava la casa di lei, appassionatissimo: ella gli aveva risposto con indifferenza e quasi con oltraggio.
Gli sembrava che ora, invece, l'incoraggiasse.
Le parole da lei indirizzategli non erano improntate della solita asprezza.
Il conte si permise far rilevare al duca che la bellezza della sua figliuola andava sempre crescendo: che, anche in quel punto, benchè malazzata, non perdea della sua gran venustà.
—Essa ha un fascino strano,—diceva il conte al suo provetto amico.—Non credo ci sia oggi in Napoli un'altra bellezza più singolare, e che commuova, al primo riguardarla, più della bellezza di lei…. Qual trionfo l'aspetta nel nostro gran mondo… alla Corte….
—Oh, io non mi curo,—rispose il duca,—di queste frivolezze…. E non credo neppure che Enrica se ne curi…. Essa è un po' altera, ma non ambiziosa: almeno se io ben la conosco…. Or è un anno, il giovane principe m'ha parlato di lei…. La lodava quasi con entusiasmo dinanzi alla regina madre: ma ciò era un semplice pretesto—per far arrabbiare la nuova favorita di allora, che assisteva al colloquio, la principessa di Sarno….
—La mia, tutt'altro che venerata cugina….
—Ma resterete qui con noi almeno fino a domani,—interruppe il duca, distratto dalle persone, che ogni tanto gli s'avvicinavano, gli facevano festa con gli sguardi, coi sorrisi, o aspettavano da lui una parola.—Restate: stasera a cena dobbiamo essere una ventina…. Ho fatto apprestare tutte le camere nelle due villette, che servono per gli ospiti, affinchè essi possano avere la massima libertà. Vedete, in fondo al giardino… là….
Vi si arrivava dalla via principale per una serra, piena di palme, di orchidee, di nepenti….
Il conte accettò l'invito.
Sapeva benissimo che Enrica non avrebbe assistito alla cena: ma pensava che la mattina appresso gli sarebbe venuto l'atto d'incontrarla nel parco: avrebbe potuto parlare.
A ogni modo era lieto di esserle vicino.
Dopo la cena, che durò sino a ora inoltrata della notte, si coricò molto allegro: il suo ultimo pensiero, prima di addormentarsi, fu per la bizzarra donzella.
Il conte di Squirace aveva appena trent'anni: era stato sempre ordinato nella sua vita, ma lo tacciavano di carattere doppio, di avarizia, di meschini appetiti.
Il duca, lasciati, a tarda ora, dopo cena, i suoi convitati, era entrato nelle sue stanze.
Provò il bisogno di riconcentrarsi, dopo tutte le commozioni, i rumori della giornata.
Aveva, sin dalla sera innanzi, una spina fitta nel cuore.
Non gli era sembrato che sua figlia lo avesse accolto con sufficiente espansione: sopra tutto era inquieto di averla ritrovata così cagionevole di salute, così pensosa… così abbattuta.
Aprì la finestra del suo salotto e mise il piede in una ampia terrazza, che dava sulle serre dello splendido giardino.
In un gruppo d'alberi vide il riflesso di un lume.
Alzò il capo: e s'accorse che il lume veniva dalle finestre della camera d'Enrica.
Scorse un'ombra, poi un'altr'ombra di donna disegnarsi sugli arbusti illuminati.
Enrica e Cristina vegliavano.
—Come mai,—pensò il duca,—a quest'ora ella, tanto sofferente, non si è coricata?
Il duca ebbe l'idea di salire da sua figlia.
Ma a un tratto le imposte delle finestre della camera furono chiuse.
Chi avesse in quel punto visto Enrica si sarebbe sbigottito.
I capelli disciolti le ricadevano sin quasi al ginocchio, le vesti in disordine; la fisonomia piena di terrore, le labbra schiumanti, le guancie, di pallidissime, divenute livide, le occhiaie infossate, gli occhi iniettati di sangue.
Di tratto in tratto le sfuggiva un gesto di collera.
Quando furono chiuse le imposte, ella sedette, il gomito nudo appoggiato sul velluto celeste di una piccola scrivania d'ebano.
—Dunque ti ha parlato?—disse con angoscia suprema, guardando negli occhi Cristina che stava ritta innanzi a lei.
La cameriera rispose di sì con un cenno.
—Ed è risoluto vedermi ad ogni modo?…
—Ad ogni modo!—replicò Cristina.
Tutt'e due parlavano sotto voce, agitate, come in preda a un grande spavento.
—E quando e tornato?…
—Stamani….
—Il suo bastimento non faceva rotta per le Indie?
—Il bastimento si è incendiato in mezzo a una tempesta….. Egli ha salvato, dopo morto il comandante, alcuni dell'equipaggio: non mi ha detto in particolare ciò che ha fatto, ma mi ha mostrato, sul suo uniforme, i galloni. È già graduato….
—Ha, dunque, mantenuto la sua promessa!…
—E domani sarà qui!—osservò Cristina.
—Ecco ciò che mi dispera…. Io non avrò mai il coraggio di confessar tutto a mio padre…..
—Il giovinotto,—esclamò a un tratto risoluta e cupa Cristina,—non deve saper nulla della creatura….
—Costei non sa,—pensava Enrica, infiggendosi le ugne nelle carni, che le spicciavano sangue,—ch'io già sono la sposa… la sposa del figlio di Francesco Jannacone!…
Offriamo qualche spiegazione al lettore.
Come abbiam detto, Enrica aveva sempre goduto d'una grande libertà.
Era cresciuta forte, prosperosa, in mezzo ai campi; di sangue ardente, dispotica e sensuale, non tollerando opposizione a' suoi capricci, e nessuno pensava a stornarli, anzi tutti vi si piegavano.
La compagnia della perfida Cristina aveva fatto il resto.
Il duca aveva un quattrocento persone e più nella sua famiglia colonica: Enrica andava a ogni ora per i vasti possessi.
La ragazza entrava nelle case, all'improvviso; appariva non desiderata, maligna, ne' luoghi più remoti ove gl'innamorati si davano convegno; i discorsi e gli esempi di Cristina, che essa avea trovato un giorno senza vesti in una delle stanze più sfarzose del castello, con la guardia del parco; un vero gigante, ammirato da tutte le belle de' dintorni; i trastulli de' garzoni, delle forosette, che avea spesso sorpresi, le intimità, sulle quali aveva voluto mettere l'occhio nelle case, ne avevano infiammato l'immaginazione, e l'avevano resa precocemente desiderosa di piacere.
Essa era già sviluppata di forme; il seno mostrava appetitosi turgori: il fianco rilevato, la gamba straordinariamente massiccia, che tutti vedevano, poichè passeggiava allora per la campagna in guarnellino corto: le braccia erano rotonde, bianche, marmoree.
Un bellissimo giovinetto, biondo, robusto, di aspetto gentile, figlio di un contadino del duca, veniva spesso al castello per servigi, o a recar doni.
Era alto della persona, di larghe spalle, occhi vivi, naso aquilino, e mirabile nella proporzione delle sue forme. Aveva poi una certa grazia innata: spirava la tranquillità, la gioia, la forza.
Il collo nudo, il petto nudo, le gambe quasi nude, era bello a vedersi come una statua: come un Apollo o un Antinoo.
Cristina, non sappiamo con quale pretesto, lo aveva tratto nelle stanze della padrona, mentre essa un giorno correva i campi, e s'era trattenuta con lui.
Più tardi Roberto Jannacone riusciva a confabulare con Enrica. Essa incominciò a vederlo volentieri, a scherzarci, a incrudelire verso di lui: il suo modo di dimostrare affetto agli esseri che prediligeva.
Talvolta, selvaggia com'era, gli dava uno schiaffo sonoro; con una frustata gli aveva fatto un grosso sberleffo sul viso: un giorno gli aveva fatto di toccare un ferro, che ella aveva tenuto al fuoco lungo tempo, e Roberto ne fu per varii giorni ammalato.
Egli sopportava; aveva un suo disegno: quella ragazza appariscente gli metteva addosso ben altro fuoco che i ferri arroventati.
Cristina non vedeva di mal occhio che la padrona si dilettasse della compagnia di Jannacone, per farlo disperare, tormentarlo in ogni modo.
Ella aveva così più il destro di veder il bel giovane, che, sottile politico, sebben altri avesse potuto averlo in concetto di rozzo, la secondava nel suo talento, e lasciava soddisfatta quella donna provetta, sapiente in certe arti.
Cristina sapeva che Enrica, orgogliosa, fastosa, disprezzava il giovane.
Enrica aveva preso con esso una insolita familiarità. Aveva inventato per lui una nuova maniera di torture.
Si faceva or vedere da Roberto negli atteggiamenti più provocanti; se gli mostrava discinta, le sue forme robuste in parte scoperte; bene inteso, sempre quando v'erano persone vicino, che potessero accorrere in suo aiuto; gli mostrava di trattarlo come un bruto, come un uomo senza considerazione.
L'altro s'invasava di tutta quella bellezza; accanto a Enrica si sentiva in un'atmosfera di grandi ardori.
Pensava, nella sua astuzia di contadino, che un giorno la sua forza avrebbe vittoria: e sarebbe si grato un trionfo, dopo tanti oltraggi, tante ripulse, tante ignominie.
Il giorno venne.
Enrica correva sola, una domenica, poco innanzi il crepuscolo, fra le alte erbe…. Non s'era accorta che qualcuno la seguiva da un pezzo. Due braccia di ferro l'avvinghiarono. Vi fu una lotta disperata. Enrica si difendeva con morsi, coi pugni, con le unghie, con uno stile, che aveva fra i capelli, infliggendo ferite nel braccio di Jannacone, che spargeva sangue. Ma costui sapeva quel che voleva, e lo voleva. Teneva una mano sulle labbra di Enrica e quasi la soffocava perchè non gridasse: fiero, risoluto, cercava di vincere ogni ostacolo.
Uscivano a sera di là.
Nel separarsi, Enrica, si gettava al collo del giovane, e gli dava due baci sulla fronte.
Quella passione ruggì per oltre un mese.
Enrica era delirante.
I suoi sensi eccitati, la triste educazione, la malvagità precoce non davan luogo alla riflessione.
Un bel giorno con Roberto Jannacone si recarono dal parroco, un vecchissimo prete, stretto da' bisogni, sempre perplesso su ciò che dovea fare, timido, anzi pauroso, infermo, e gli dichiararono voler essere marito e moglie. Enrica presentava, come dono alla chiesa, molti ducati d'oro.
Il parroco, secondo l'uso de' tempi, previe certe formalità, univa in matrimonio segreto la duchessa Enrica e il figlio del contadino Ciccillo Jannacone.
Roberto fece subito a Enrica una promessa: rendersi degno di lei, prima che il loro matrimonio fosse palese; prima che essa ne parlasse al duca.
A Enrica tutto allora sembrava facile, anche il parlare a suo padre, appena fosse tornato.
Già apparivano le conseguenze della funesta passione, ch'ella non palesava ad alcuno, ma l'atterrivano.
Roberto si arruolava nella marina e partiva, tre settimane dopo il loro segreto matrimonio, per lunghi viaggi.
Cristina nulla seppe di questo matrimonio; combinato con ogni cautela, fra un prete debole e due giovani esaltati, e il cui atto rimase iscritto solennemente nell'archivio della parrocchia.
Enrica, per un pezzo, ricordò, con profonda commozione, la semplice scena di questo matrimonio: la chiesetta disadorna, il prete, tutto conturbato e pur compiacente, che mormorava con un peculiare accento le parole del rito; essa che stringeva convulsa la mano di Roberto.
E Roberto le metteva in dito un anello che ella stessa gli aveva dato.
Pochi giorni dopo la partenza del giovane, Enrica era tornata alla sua fierezza, al suo più schietto egoismo.
Provava un immenso, invincibil disgusto di ciò che avea fatto: inorridiva del legame, onde s'era unita a un uomo sì basso: arrivava persino, nell'orrore che le ispirava quanto era accaduto, ad augurarsi che a Roberto incontrasse qualche mala ventura: non tornasse più.
Nel giovane, invece, l'assenza raddoppiava, ingagliardiva l'amore.
Egli si faceva istruire da' suoi superiori: cercava prender in esempio i migliori: ne imitava i modi: affinava il suo parlare: imparava, in pochi mesi, a leggere e scrivere: il comandante della nave lo faceva suo segretario, lo prediligeva molto.
Nelle lunghe giornate di bonaccia, nelle notti tranquille, o fra lo scatenarsi delle tempeste, egli pensava sempre ad Enrica: a lei soleva riportare ogni sua azione: s'ispirava all'affezione per lei: sapea ripetersi quasi ogni parola che essa gli avea detto nella lunga loro dimestichezza: la rivedeva in tutti i suoi atteggiamenti capricciosi, in tutta la sua florida bellezza: l'amava, l'adorava, la vezzeggiava: la fantasia, come accade, gliela metteva innanzi più perfetta ch'ella non fosse.
Non potendo parlare ad altri, sempre pensava, sognava di Enrica. Aguzzava, affuocava ogni giorno la sua passione. Se un dubbio lo pungeva che altri potesse torgli la donna ch'egli amava, insidiargli il possesso di lei, quell'uomo robusto, indomito, di sbrigliate passioni, si sentiva rimescolare il sangue, gli pareva che una nube rossastra gli oscillasse dinanzi agli occhi, il cuore gli dava che sarebbe stato capace di tutto, anche di un delitto e di più che un delitto.
Ma quanta era la veemenza dell'amore da un lato, tanta era dall'altro la forza del disgusto.
Enrica ormai odiava Roberto: aveva paura del giorno in cui egli sarebbe tornato a rammemorarle la sua promessa: e cercava persuadersi che un tal giorno non sarebbe venuto mai.
Aveva dovuto confidarsi con Cristina dell'amore pel giovane, delle conseguenze della passione.
Cristina s'era detta in modo preciso:
—Un segreto come questo mi gioverà, mi arricchirà di sicuro!
Ella si preparava a sfruttar Enrica in tutte le condizioni della sua vita.
La sapeva generosa, prodiga del denaro pe' suoi fini: in piaceri, se non in opere buone: stava sicura di poterla liberare dal figliuolo del contadino, ch'ella stessa ormai, con singolare ingratitudine (o donne!), non avrebbe più voluto vedere: la immaginava sposa di un gran signore, riputata, stimata, invidiata da tutti: ma ella sempre sarebbe comparsa a turbar le sue gioie, a esigere da lei nuovi sagrifici, a spogliarla di ciò che avesse di più caro, de' suoi diamanti, de' ricordi della sua famiglia, sinchè la sua sordida cupidità non fosse paga.
Dopo, l'avrebbe torturata, ma soltanto per suo diletto.
Enrica, in certi momenti, era stata con lei assai altera e cattiva: e quell'animo triste dovea pensare a vendicarsene raffinatamente.
Per ora, si faceva umile; si era impadronita del grande segreto: la sventurata maternità di Enrica; avea accettato a ricettar la bambina, che dovea servire d'oggetto alle sue future minaccie, a' suoi lunghi ricatti, e che considerava già strumento della sua fortuna.
L'aveva affidata a Domenico e mandata per lui in luogo sicuro, fidando nella lealtà, nella onestà di esso, nelle prove di simpatia, in ardui servigi che ne avea avuto.
Ma la sorte, come vedremo, disponeva altrimenti.
—Sì,—continuava Cristina, parlando, stravolta come una furia, alla sua padrona, nella camera di lei,—bisogna tener celato a Roberto ch'egli è padre…. altrimenti sarebbe impossibile il dissuaderlo, l'allontanarlo….
Ma, per le ragioni che sa il lettore, ciò non quietava le angoscie di
Enrica.
—Sei ben certa,—domandò languidamente,—che la bambina sarà stata condotta con ogni cura e sarà trattata con vero amore?
—Oh, per questo!—rispose ipocritamente Cristina, il cui pensiero volava sempre a' futuri guadagni, alla potenza che avrebbe acquistato sull'animo della padrona, giovandosi di tal segreto, e non contava punto sul forte carattere di lei.
Enrica piangeva, di quel pianto spasmodico, proprio de' malvagi, degli altezzosi, stretti dalla disperazione….
Il pianto la scoteva tutta: e, ad un tratto, come concludendo una serie di pensieri che la crucciavano, sospirò:
—È impossibile…. impossibile…. confessar tutto a mio padre!
E, alzandosi, divenuta ormai, per le smanie, i delirii, le sofferenze, quasi simile a uno spettro nella fisonomia, guardandosi tutta in un grande specchio, disse con uno de' suoi ghigni feroci:
—E, poi, per un istante di oblio… per la violenza di un mascalzone… io non voglio rinunziare al mio bell'avvenire…. Se la vita di costui è d'ostacolo alla mia, può essere annientata….
E si gettò fra le braccia di Cristina, ben degna di comprendere un tale pensiero.
Udirono un rumore alla finestra: un colpo secco, come se vi fosse stata lanciata una pietruzza.
La pietruzza, infatti, era ricaduta sulla terrazza nella quale si trovava il duca.
Il lume si era spento nel salotto e il duca che, sin allora, era rimasto meditabondo, si scosse, fece alcuni passi: e subito udì un fruscìo di foglie.
—Chi va là?…—gridò il duca.
Qualcuno correva nel parco.
I cani latravano.
E di lì a poco si udì uno sparo.
Il duca continuava a gridare;
—Chi va là?… Chi va là?…
Comparve sotto la terrazza una guardia con la lanterna.
—Eccellenza,—disse costui,—un uomo è entrato nel parco… l'ho inseguito… gli ho fatto fuoco contro… ma egli, per gli alberi, si è arrampicato, non so come, in vetta al muro in fondo al parco, e si è gettato di là com'uno scoiattolo…. Dev'essere certo un uomo del paese… La porticina è chiusa a chiave… non ho potuto inseguirlo. Ho raccolto a piè del muro, donde s'è gettato, un bottone nuovo che luccicava: un bottone di uniforme di marina…. E l'ha perduto, senza dubbio, l'uomo che fuggiva… poichè vi è un segno di sangue tuttora fresco…. Nel fuggire, egli si è forse squarciato le mani, a un vetro, a un arbusto.
—Vegliate, Emilio,—disse il duca,—non parlate con nessuno dell'accaduto, e domattina di buon'ora visiteremo insieme il parco: sapremo chi è il malandrino entrato qui, e con quale scopo….
Il duca richiuse, molto pensoso, la finestra.
Il colpo di fucile, sparato dalla guardia in fondo al parco, non aveva svegliato nessuno degli invitati. I servitori forse l'avevano udito, ma senza farvi caso. Emilio sparava a volte il suo schioppo, di notte, per semplice precauzione, perchè si capisse da' malvagi che egli vigilava.
Le due donne, Enrica e Cristina, dopo la pietruzza gettata sulla finestra, avevano udito tutto: le parole della guardia e quelle del duca.
—È lui,—aveva detto Enrica a Cristina, tremando, mentre se ne stavano con l'orecchio teso, accostate alle imposte della finestra.
—Quale ardire… tentare di venir qui… a questa ora… e a che scopo…. E a costo di essere ucciso come un ladro….
—È un gran male che il fucile di Emilio non lo abbia colto,—mormorò
Enrica a denti stretti, sconvolta,—sarei stata libera….
Ci fu un breve silenzio: come se Cristina, la quale non peccava per eccesso di tenerezza, avesse avuto orrore di quella proposta.
—Se è stato trovato il bottone di uniforme… domani vi saranno ricerche…. Si scoprirà subito che è lui…. Che angoscia! Si crede egli, dunque, proprio molto desiderato?… Dovrò annunziare a mio padre,—continuava fra sè,—che sono la sposa del figliuolo di uno de' suoi contadini… del figliuolo di Berto Jannacone?… Ah!… mai!
Ed Enrica spasimava, si contorceva: era sopraffatta da una forte, acutissima convulsione.
Il marchese Piero non aveva voluto trattenersi dal duca: e, allegando che gli urgeva tornar a casa a rivedere la moglie, e saper notizie sul grave stato di lei, si accomiatava dal cugino.
—Sono sicuro che avrete…. se già a quest'ora non l'avete…. un bel figliuolo maschio!—gli disse il duca.
Il marchese partì fra i lietissimi augurii di tutti gli invitati.
La sera era già molto innanzi, e il gentiluomo in una carrozzella, che guidava da sè, o, a meglio dire, il cui cavallo si guidava da sè, lasciavasi andare alla foga de' suoi pensieri.
Rifletteva al grande avvenimento, che dovea compiersi per lui in quella notte, se non s'era compiuto: lo turbavano la certezza del disonore, della rovina, s'egli non fosse già padre, o non lo doventasse fra poche ore.
Allo svolto di una strada, sentì chiamarsi nel buio.
Trepidò.
Poi riconobbe la voce di un uomo molto destro, molto temuto in que' luoghi: Marco Alboni, sul quale correvano tristi leggende; venuto dalla Marca, non si sapeva perchè, come non si sapeva di che vivesse, che arte esercitasse.
Era arrischiatissimo, soverchiatore; avea nervi d'acciaio.
Lo conoscevano tutti per un fido del marchese; mezzano delle dissipazioni di lui: adoprato dal gentiluomo in bassi servigi, di cui era sempre riuscito a ottenere la più larga rimunerazione.
Il marchese l'odiava e lo ricercava: lo fuggiva e gli era necessario: non l'avrebbe voluto vedere, ma gli era forza comportarlo: poichè tale è la lega che si forma di solito fra i tristi.
Marco, uscendo di dietro a un cespuglio, fermò il cavallo del marchese.
—Che c'è di nuovo?—domandò il gentiluomo che s'aspettava qualche importuna richiesta, e non era il momento in cui potesse soddisfarla. Poi gli balenò un'altra idea e domandò:
—Mia moglie?…
—Signor marchese, ho da dare a V. S. serie notizie,—disse con sicumèra Marco,—ci fermeremo qui in un casolare diroccato, che appartiene al duca, ed è a pochi passi, e parleremo a nostro agio.
Il marchese scese dalla carrozzella; Marco prese la briglia, e legava qualche minuto appresso il cavallo ad un albero.
Entrarono poi fra le rovine.
Nè l'uno nè l'altro si accorsero di un uomo, che vi stava appiattato, e che s'era tutto rannicchiato in sè, curvato, per sfuggire a ogni sguardo.
—La principessa ha partorito,—disse Marco,—ed è morta qualche minuto appresso.
—Ah!—esclamò il marchese, sinceramente addolorato.
Ma l'ansia de' suoi interessi vinceva il dolore.
—E la creatura?…—domandò.
—Una bambina…. morta anch'essa.
—Marco!—dimmi il vero,—esclamò il marchese—e se questo è il vero, io sono risoluto a bruciarmi le cervelli fra queste rovine…. Un gentiluomo non può affrontar la miseria, il disonore.
Il colpo era doppio: morta la moglie, la figliuola, era pur morta per lui ogni speranza di eredità, di aiuti dalle ricche parenti della principessa.
—V'assicuro,—insistè Marco nel tuono più fermo,—che v'ho detto il vero…. assolutamente.
Il marchese raccapricciva e cadde accasciato su un mucchio di macerie.
Marco lo lasciò alcuni istanti alle sue sofferenze.
—Ma,—soggiunse, toccandolo in un braccio e mutando l'intonazione della voce,—la fortuna anche questa volta vi ha aiutato; voi siete il suo beniamino!
—Come?—rispose il marchese che singhiozzava.
—Ero in un'osteriuola, aperta da poco, ad alcune miglia di qui…. Entra un uomo, che nell'oscurità non ho riconosciuto e che ora sceso alla porta da una carrozza…. Si trattiene…. Beve, ribeve: comincia a parlare. Ne racconta di ogni sorta…. Poi dice che ha una bambina da condurre a balia e che gli è stata affidata con tante raccomandazioni. Un mistero! Io non aspetto altro: mi slancio fuori o, mentre l'ubriaco continua a bere, prendo la bambina…. Monto nella mia carrozzella e mi dirigo verso la casa di V. S…. N'ero venuto via poco innanzi con l'incarico di portarle avviso della catastrofe accaduta…. E pure, io non sapevo risolvermi. Una voce mi diceva che, indugiando, qualche cosa di propizio mi sarebbe occorso…. Se vedesse la sua casa…. I servitori sono tutti nel maggiore sbigottimento, spaventati; non osano far nulla, senza l'ordine di V. S. Superstiziosi verso i cadaveri, non sono più entrati nella camera della principessa, dopo che il medico forestiere è partito…. A proposito, egli mi ha consegnato una lettera per lei…. Ma, tornando alla principessa; essa è stata abbandonata, subito, dai servi impauriti…. Essi hanno gettato una gran quantità di fiori sul letto e hanno acceso attorno alcuni lumi. Io sono passato dalla porta del giardino, che ho trovata socchiusa. Ho potuto appoggiare una scala al balcone della camera della principessa…. Sono entrato…. Ho posto la bambina viva ov'era il cadavere dell'altra: o ho preso il cadavere con me…. Sono ridisceso con ogni cautela… in un attimo… poi sono salito nella carrozzella e ho fatto una corsa, che si sarebbe detto proprio il diavolo tenesse le guide.
La voce di Marco era divenuta sinistra.
—Sono arrivato, di nuovo all'osteriuola: c'era sempre fuori la gran carrozza nera: l'ho aperta; vi ho riposto il cadaverino della bambina: l'ubriaco dormiva steso su una panca dell'osteria e russava… russava. Ne deve aver bevuto molto nella giornata….
—Oh,—disse il marchese,—tu mi salvi…. Quanto ti dovrò… e tu sarai ricco….
—Sarò davvero!—pensava Marco,—nè tu potrai impedirmelo!
—Io ti dimostrerò in ogni modo la mia riconoscenza…. Ti debbo la vita: ti debbo di più: un nuovo avvenire.
—V. S. è proprio fortunato!
—Sì, nell'esser servito con tanta devozione e tanta intelligenza!—soggiunse il marchese che sentiva una schietta, sincera ammirazione per il fatto compiuto da Marco.
—Chi altri, non secondato come V. S. da una buona vena,—insisteva il finto servitore,—avrebbe potuto uscire in tal modo da una condizione sì terribile?
—La tua prudenza, la tua prontezza….
—Ma bisogna tener conto anche della accortezza di V. S.—questo diceva Marco ironicamente,—nel metter a parte di tutti i suoi segreti un uomo onesto come me… e affezionato! S'io non avessi saputo nulla delle speranze di V. S., dei pericoli che la minacciavano….
—Oh,—.disse il marchese,—lasciami mi po' di raccoglimento. La morte della principessa mi contrista… essa fa sempre buona per me… una martire….
E concedeva un vero rimpianto alla memoria della gentildonna.
—Ma ch'io possa far credere al mondo che ho una figlia… ecco l'idea da cui sono tutto ravvivato, ecco il punto da cui muove per me una vita, la quale avevo spesso sognato. Tutte le mie speranze risorgono col fatto da te compiuto. Ma chi sarà quella bambina: e quali saranno, fra poco, le sue avventure nel mondo?… Non ci diamo, per ora, pensiero di nulla,—disse il marchese cui tornava la sua solita spensieratezza,—per ora il meglio è assicurato…. Non mi resta che a rendere l'ultimo tributo di onore alla mia cara moglie.
Si alzò, assai soddisfatto, dal mucchio di macerie sul quale era caduto sì sconsolato.
Ora gli pareva esser altr'uomo.
—Mi hai detto,—esclamò, rivolto a Marco,—che il dottore Krag ti aveva dato per me una lettera…. Egli è partito?
—Un telegramma l'aveva richiamato sin da ieri a Vienna per una cura importante…. Di più, il dottore deve prender parte a una spedizione scientifica, che si reca in Asia e vi si tratterrà varii anni.
Mia moglie volle questo medico ad ogni costo…. Egli ha già ricevuto, prima di muoversi da Vienna, una somma cospicua: farà intendere che vuole dell'altro…. Dammi la lettera…. La leggerò con comodo.
—Eccoci a un altro punto serio,—disse con piglio solenne Marco e, nel tempo stesso, toccava familiarmente in un braccio il marchese, anzi glielo stringeva in modo da rinnovargli l'idea della sua forza erculea.—Io dirò a V. S. una cosa, che non le parrà strana…. Noi siamo associati in un'impresa commerciale!… Il capitale vivo è rappresentato da una bambina…. Chi lo ha fornito? E che dobbiamo sfruttare con questo capitale?… I milioni delle parenti della defunta principessa….
E Marco si tolse il cappello in segno di rispetto.
—Ora, io sono particolarmente interessato in questo affare; non posso permettere che il signor marchese…. che V. S… dissipi la mia parte; o possa negarmela. Io ho usato, dunque, di un mio diritto di socio in affari: la ditta è; marchese Piero di Trapani e Marco Alboni. Non se n'esce!
E le sue dita stringevano come tanaglie il braccio del marchese.
L'uomo nascosto tra le rovine non udiva queste ultime parole perchè, nel pronunziarle; i due si erano spinti un po' innanzi nel casolare.
—Ho usato, dunque,—proseguiva Marco,—del mio diritto. Ho aperto la lettera del dottore….
—Eh!—sfuggì detto al marchese.
—Sì, sì; e la lessi accuratamente…. Il dottore Krag vi annunzia la morte della principessa e della vostra bambina. Di quest'ultima descrive alcuni segni particolari: nota alcune gravi imperfezioni con cui era nata: indica le ragioni irrefragabili della sua morte…. Vi è poi qualche altra cosa…. Questa lettera è, insomma, la garanzia che, negli affari della ditta, marchese di Trapani e Marco Alboni, la parte di questo ultimo sarà rispettata.
Io voglio esser ricco, fra pochi anni,—disse in tono reciso
Marco,—al pari di voi: se occorre, più di voi!
—Ebbene, tu potrai far nascere i sospetti di una sostituzione di creatura: potrai nuocere a' miei interessi: potrai far sì che coloro, a cui la bambina fu rapita, e che l'ebbero sostituita con un piccolo cadavere, si risveglino, e vengano contro di me….
L'uomo nascosto strisciava fra le rovine come un rettile e facea sforzi incredibili per poter avvicinarsi a' due, senza che essi s'avvedessero della sua presenza.
E udì benissimo queste parole proferite dal marchese:
—Ma io ho sempre saputo custodire un altro segreto…. Io ti ho molto perdonato…. Non ho propalato che tu non ti chiami Marco Alboni, bensì Jacopo Scovatto e che sei stato condannato in Ancona a undici anni di casa di forza per una grassazione contro due operai, padri di famiglia…. Non ho mai propalato che tu sei fuggito; e ti rimangono a scontare alcuni anni della tua pena.
—Anche di questo bisogna tener conto,—interruppe, pensoso, Marco.—Però la lettera io non la restituisco…. I rischi della associazione così sono eguali. Tutt'e due abbiamo interesse a stare uniti….
E, a poco a poco, chiacchierando, si allontanarono.
L'uomo, sino allora nascosto, uscì dalle rovine. Aveva saputo abbastanza.
Il giorno appresso continuarono le feste nel parco del duca.
Enrica, mentre la mattina era nella serra, avea ricevuto una lettera, gettata nel grembo di lei da un fanciullo, che s'era poi dato a correre come un capriolo.
Sulle prime Enrica fu tentata di buttar via quella lettera senza aprirla: ma un forte presentimento la vinse.
La lettera era di Roberto Jannacone; egli le annunziava il suo ritorno; le dava convegno nel luogo più inaccesso del parco.
In quel luogo eravi un altissimo precipizio formato da due pareti rocciose, o in fondo di esse gorgogliava il mare.
Era stato gettato un ponte da una parete all'altra; un piccolo ponte di ferro leggero con bassa spalliera.
Molti e molti, a non dir presso che tutti, aveano paura di passar da quel ponte e preferivano di pigliar i viottoli più lunghi per arrivar dove voleano, anzi che andar da un luogo sul quale v'erano tante superstizioni.
Come luogo di convegno era scelto benissimo; nessuno avrebbe disturbato i due nel loro colloquio.
A Enrica, nel legger quella lettera, che conteneva espressioni di tanto amore, ed era nel tempo stesso sì imperiosa, avvampò il volto di sdegno.
Costui la credea proprio cosa sua; non nutriva ormai il menomo dubbio su' suoi diritti.
Ciò irritava la superbia di lei.
Parlò con Cristina e deliberò di andare al convegno; risoluta a ingannarlo, a perderlo, se occorresse, a far tutto, pur ch'egli rinunziasse a lei. L'altro vi si recava invece con l'animo che, magari il mondo dovesse perire, egli non avrebbe rinunziato ad essa.
Mentre le feste continuavano nel parco, Enrica e Roberto si trovarono presso il ponte, che era chiamato dell'Inferno: attorno a loro erano boschetti di alberi.
Si rivedevano dopo molti mesi.
Roberto era cresciuto di forza e di bellezza: aveva acquistato una certa eleganza.
Appena scorse Enrica, le mosse incontro tutto baldanzoso e soddisfatto.
Ma fu sorpreso di trovar Enrica in tale stato di abbattimento, d'aspetto sì cagionevole: sì fredda e altera.
Le parole d'entusiasmo gli si gelarono sul labbro.
Enrica si reggeva appena in piedi.
Senza quel convegno, ella si sarebbe già coricata.
—È questa l'accoglienza che mi fai,—disse il figlio di Cicillo Jannacone,—dopo una separazione sì lunga…. Non ti ricordi ciò che mi dicesti nel momento della mia partenza?…
—Mi resta poco da vivere, Roberto,—incominciò, dissimulando, Enrica.—Io non posso più esser la moglie d'alcuno: sono gravemente ammalata. Mi ami tu?
—E me lo domandi? non v'è amore più forte, più tenero, più appassionato del mio. In tutti questi mesi non ho cessato di pensare a te un solo istante: il mio cuore ha sempre palpitato a' ricordi della nostra affezione.
—E bene: io ti domando una gran prova di amore.
—E io sarò felice di dartela, io che non voglio ormai più separarmi da te, o che spero ottenere tu mi segua ne' miei viaggi…. Fra poco io sarò ricco, già sono stimato, e ho un grado di cui ognuno può tenersi onorato…. Non sono più soltanto il misero figliuolo d'un contadino del duca…. Ma hai parlato al duca, a tuo padre, del nostro matrimonio?
Enrica si mordeva le labbra.
—Ho detto che aspetto da te una gran prova d'amore.
—Potevi rispondermi se hai parlato al duca del nostro matrimonio…. Tu comprendi la mia impazienza…. Quanto a darti prove d'amore, allorchè tu sii mia moglie in faccia al mondo, tu sai già non ve n'ha alcuna che mi potesse sembrar troppo grande…. Hai parlato, dunque, a tuo padre?
—Mio padre è tornato soltanto ieri….
—E tu avresti già dovuto parlargliene.
Enrica tremava, non sappiamo se di rabbia, di commozione, di sofferenza.
—Stanotte io ero entrato nel parco per l'impazienza di riveder questi luoghi, di farmi udire da te, di mostrarti ch'io non poteva occuparmi, se non di te…. Ho corso rischio di essere ucciso come un ladro… e tu sei così indifferente…. Ma non hai coraggio di parlare a tuo padre? Gli parlerò io stesso….
—Oh, impossibile!—esclamò Enrica inorridita.—Vi sarebbe fra te e lui una scena tremenda: come potrebbe egli perdonare a te suo servitore….—Enrica fece spiccare la parola,—-di aver abusato d'ogni sua generosità verso la tua famiglia, di aver osato ciò che hai osato?…
Roberto si sentiva, come schiaffeggiato da quelle parole.
Ma era anch'egli d'animo altero.
—Bisognava pensarci prima!—rispose risoluto.—Che tu non credessi io fossi uno di questi vagheggini imbecilli, che voialtre donne del bel mondo burlate a piacer vostro e cuoprite di ridicolo…. Enrica, io sono pronto a dare per te tutto il mio sangue, a goccia a goccia; sono pronto, se occorre, a seppellirmi vivo, a entrare in una tomba con te, per sfuggire ogni contrarietà… ma cederti ad altri, rinunziare al mio diritto… mai. Sai ch'io t'ho conquistata…. Tu mi costi umiliazioni, oltraggi, ingiurie d'ogni maniera, prima del nostro amore; dopo, ansie crudeli, notti insonni, il sacrificio di tutto me stesso a un solo scopo…. Tu sei la mia idea fissa… sei la sola cosa che desidero, che amo, che voglio possedere; ogni ostacolo che mi si opponga, se non potrò sormontarlo, lo spezzerò….
La sua veemenza faceva paura.
Protese un braccio per stringer la vita di Enrica….
Essa schivò quella carezza.
—Non ti riconosco!—mormorò Roberto pallidissimo.—A bordo, nelle mie notti insonni, vedevo spesso uno spettro, un cadavere, con una gran ferita, tutto sangue… Enrica,—disse Roberto angosciato e come fuori di sè,—tu vuoi la mia rovina: sento che qualche cosa di terribile si prepara.
Enrica provava un'interna soddisfazione di quelle parole; sembrava che esse corrispondessero a certi suoi perfidi disegni.
—No; essa riprese, simulando molta mansuetudine,—non bisogna andar a questi eccessi. Dobbiamo ragionar più freddamente. Che amore è il tuo, se non può sopportar un piccolo indugio? Parlando a mio padre, in momento inopportuno, io posso guastar tutto e in modo irrimediabile…. Che ne parli tu, non v'è, ripeto, neppur da pensarci. Egli potrebbe chiuder me in un convento: e chi sa in qual parte d'Europa seppellirmi per tutta la mia vita, chi sa dove, senza che tu sapessi più nulla di me: e contro di te che non potrebbe fare? Il duca non ti concederebbe mai l'onore di un duello: ti vorrebbe trattar di certo come un malfattore… e, se ben pensi, la tua condotta giustificherebbe… forse… a sua severità.
Roberto sentiva la febbre: le tempie gli martellavano: il sangue gli bolliva come lava nelle vene.
Pure egli ebbe ancora la forza di contenersi.
—Enrica,—disse, rattenendo la sua indignazione,—io ti trovo molto cambiata…. Io mi aspettavo un'accoglienza entusiastica, da innamorati: io avevo avuto la debolezza—la parola gli sfuggì—di credere alle tue promesse: ora mi vedo dinanzi una donna che pare si vergogni di me, arrossisca della nostra passione, abbia distrutto nel cuor suo le memorie del nostro amore….
—T'inganni,—riprese la giovane.—Già vedi come io soffro: e tu con queste violenze accresci il mio martirio.
—Violenze?—interruppe Roberto, che credeva esser riuscito, con sforzo sovrumano, a serbare la calma.—No, io non sono violento: no, io sono innamorato, appassionato, io ti adoro sino alla frenesia: io non posso più separarmi, più staccarmi da te: io debbo passar tutta tutta la mia vita a' tuoi piedi, obbedendoti come uno schiavo, indovinando ogni tuo cenno, ogni tuo desiderio, ogni tuo ordine; io posso, se vuoi, inalzarmi nell'onore, ne' gradi, migliorarmi con lo studio: sento che avrò la volontà, la forza, per piacer a te, di giungere molto in alto: ma se tu credi altrimenti, se la mia vita dev'esser tutta assorta in un amore sensuale, in un amore di fuoco per te, se io debbo essere il docile strumento d'ogni tuo capriccio, il tuo ludibrio; il trastullo d'ogni tua fantasia, io son pronto anche a questa esistenza, che ad altri potrà parer vile: io ti sacrificherò, se occorra, l'onore, la dignità: io lascerò si dicano di me i maggiori vilipendii: che tu mi hai comprato, che mi satolli come una bestia che ti dà piacere: tutto sopporterò: rinunzierò a' beni maggiori, all'amicizia, alla stima: solo il mio istinto, il mio cuore, i miei sensi, non consentiranno mai… ch'io ti ceda ad altri, che mi separi da te… No, no! Maledizione! guai a chi s'interponesse fra noi!
E Roberto singhiozzava come un fanciullo.
Avrebbe destato commozione in chiunque veder piangere in tal modo quell'uomo sì forte, sì prestante, sì altero.
Enrica stropicciava le foglie rosee, che cadevano da' fiori di un albero sul suo abito bianco.
Essa le distruggeva indifferente, come distruggeva le rosee illusioni di Roberto.
—Ritorno—continuava Roberto—dopo un lungo viaggio: cerco parlarti: tu ti presenti come una padrona, come una signora dinanzi al suo servo, non come una sposa innanzi all'uomo che ha davanti a Dio su di lei il massimo tra i diritti…. Poichè il padrone qui sono io!—disse Roberto in uno de' suoi impeti selvaggi,—e accerchiandole il collo, la accostò a sè, con una stretta di ferro, di quelle che Enrica già conosceva, e la baciò lungamente, da vero padrone di lei, sulle labbra.
Essa tremava: era divenuta in volto bianca come il suo abito: quel bacio di fuoco l'avea subito richiamata ad altre sensazioni e altre idee: ma incontanente il suo orgoglio le attuti.
—Dianzi ho cercato abbracciarti…—insisteva Roberto,—, e tu mi hai sfuggito, e vuoi ch'io sia calmo!
La scena andava troppo in lungo.
Enrica cominciava ad esser inquieta: non sapea più come tener a bada quell'innamorato sì pieno di foga.
Giungevano fino a loro i suoni e le grida di coloro che pigliavan parte alla festa nel parco: ma verso quel punto, com'abbiamo detto, nessuno mai si avvicinava.
A' loro piedi s'inabissava il precipizio, mugghiava il mare.
Enrica avea preparato un tranello, degno del suo animo raffinatamente perverso, e ora trepidava un poco sulla riuscita di esso.
Ella avea detto, con diabolica perfidia, al suo corteggiatore, il conte di Squirace, che, a una cert'ora, ella sarebbe stata presso il ponte che traversava il precipizio.
—Oh!—avea esclamato il bellimbusto, e avea fatto intendere che ve l'avrebbe presto raggiunta.
Il vanaglorioso credeva ad un convegno d'amore. Enrica gli aveva insinuato:
—Se, per caso, io parlassi con altra persona, non vi mostrate: nascondetevi in uno de' boschetti: però, se vi accorgeste che io avessi bisogno di aiuto, accorrete a difendermi….
Vedrà il lettore qual era il terribile disegno di Enrica e di quali risoluzioni ella avesse l'animo capace.
In fatti, il conte si avvicinava, tutto baldanzoso: uno scudiscio in mano: una gardenia all'occhiello.
Udì la voce di Roberto, e si nascose, com'Enrica gli aveva indicato.
Roberto si era inginocchiato dinanzi alla giovane e le diceva:
—Un'altra cosa mi ha colpito: il trovarti così accasciata, così disfatta. Qual è il motivo?… Che cosa ha logorato una parte della tua floridezza?
Enrica mostrava che quelle osservazioni la annoiassero.
—Ma tu sei sempre bella, anche così,—aggiunse l'innamorato, che l'attirava a sè, le premea la vita, i ginocchi: e lo invadeva un fremito al sentire, sotto l'abito leggerissimo indossato da Enrica, non ostante il pallore e la stanchezza del volto, molto più della sua floridezza ch'egli non avrebbe pensato.
—Però vorrei sapere il motivo perchè sei sì affranta e sì debole…—continuava.
Enrica cercava allontanarlo da sè: e finalmente gli disse, tanto per guadagnar tempo, e perchè realmente ciò voleva, in estremo, alla disperata, se altro partito non riuscisse:
—Ecco qual è il mio pensiero. Tu devi ripartir subito… e per un lungo viaggio. Fa di star lontano ancora da questi luoghi tre, quattro anni, di crescere in grado, in fortuna…. Io aspetterò…. Lascia che si parli di te, di ciò che farai: mio padre ne avrà certo compiacenza. Egli, se può esser rigoroso, intrattabile su certi punti, è poi abituato a considerare tutti i suoi servitori come della sua famiglia…—aggiunse con qualche sprezzo.—E chi sa non perdoni, quando la sua collera abbia anni per raffreddarsi.
Non stiamo a dire se Roberto fosse turbato.
—Io sono già tua sposa dinanzi a Dio,—continuò la dissimulatrice,—lo sarò un giorno dinanzi a tutti…. In questi anni saprò trovar un momento propizio per parlar a mio padre; mi getterò a' suoi piedi: gli racconterò ciò che fu: ch'io ti scelsi, non già che tu mi prendesti a forza….
—Basta, Enrica,—esclamò Roberto con voce concitata, vibrante di rabbia, di passione, di disgusto.—Ho tutto capito in un istante…. Tu sei una traditrice….
E i suoi occhi corruscavano: e le sue mani or si accostavan verso
Enrica, or egli le ritraeva come inorridito.
—Tu vuoi perdermi: tu speri che in tre, quattro anni, io, che esco ora per miracolo da un naufragio, possa lasciar la vita…. Oh!…
E, scorgendo che Enrica non faceva alcun energico segno di diniego:
—Creatura perversa,—continuò,—sento che tu farai la rovina di me e de' miei…. E l'ho più volte sentito nella mia solitudine…. Già, fin dal principio, fin da' giorni delle nostre ebbrezze, la tua bellezza, la tua avidità del piacere, la crudeltà che avevi spiegato contro di me, mi facevan paura….
Avea i capelli irti, il sudore gli grondava dalla fronte, si muoveva com'un uomo che non sa più dominarsi.
—Senti,—disse, prendendo Enrica per le mani e costringendola ad alzarsi,—io potrei farti cadere in ginocchio: poichè tu sei qui davanti al tuo vero signore: all'uomo che ti ha posseduta e che ti vuole possedere per sempre…. Ciò è irrevocabile!… Non ho più la mia ragione: tu me l'hai tolta: sono in preda a una vertigine tremenda…. Nella mia famiglia abbiamo nelle vene le fiamme del vulcano: e, in questo punto, vedi, mi salgono al cervello…. Io ti faccio ormai due proposte: le uniche ch'io possa e voglia farti nell'estremo cui siamo giunti: o tu ti risolvi a partir subito con me… so una strada che ci menerà in un attimo fuori del parco… ti alzerò io sulle mie braccia sopra un muro… e fuggiremo senza che nessuno ci veda…. Usciremo dai possessi del duca: ti porterò subito palesemente a Napoli… come mia moglie… e vi saremo in poche ore. Tu entrerai in una casa, ove è preparata la camera nuziale…. E il duca verrà là, se vuole e se crede, a strapparti dalle mie braccia…. Vedremo!… Acconsenti?…
Enrica non avea più parole; cercava con occhi furenti l'aiuto, aspettato: dentro di sè scherniva quell'uomo forte, entusiasta, che pur, ella confidava, dovesse esser vittima degl'intrighi preparati da una debole donna. E Roberto lesse ne' suoi sguardi quel furore e quella fredda malignità.
—Non acconsenti?—esclamò con voce cupa, e scuotendola con una stretta vigorosa.—E bene… ci getteremo tutt'e due in quell'abisso,—e la trascinava verso il ponte,—il mare c'inghiottirà: inghiottirà la mia immensa passione, la tua ferocia, il tuo tradimento…. Ti concedo soltanto due minuti di tempo per dir la tua scelta!… Creatura sleale…. Io ti punirò del male che avresti potuto fare a tanti….
—E chi vi dà questo diritto di punire?—gridò il conte di Squirace, facendosi innanzi, e agitando lo scudiscio che aveva in mano.—Con qual diritto avete osato alzar gli occhi sino alla duchessa, voi, il figlio d'un suo villano?… Ho tutto udito, Roberto Jannacone!
—Signor conte, voi arrivate in mal punto,—rispose Roberto concitatissimo.—Non curo le vostre ingiurie: sono quelle d'un uomo indegno di stima, d'un gentiluomo che si disonora, appiattandosi per ascoltare un colloquio. Vi disprezzo tanto che non saprei come addimostrarvelo…. Ma prendete un buon consiglio: tornate per la vostra strada….
—No, villano!… Io rimarrò qui per tutelare la purezza, l'onore, la vita della duchessa: per ricondurla a suo padre e salvarla dalle mani di un assassino….
—Signor conte,—ribattè Roberto, pestando un piede,—non abusate della mia pazienza! Essa non è molto grande!
—Venite con me, signorina,—aggiunse il conte di Squirace, porgendo il braccio ad Enrica, che subito vi si appoggiò.—E continuò:
—Io ardo di raccontare al duca, a tutti, le prodezze di questo ladro, che dopo aver tentato, costringendovi a un matrimonio infame, profittando della vostra inesperienza, impadronirsi d'una parte delle ricchezze del duca, ora vi minacciava di morte. Il villano non è agitato dal delirio di posseder voi; come tutti i pari suoi, cupidi, avari, insidiatori dell'altrui, egli mira al vostro scrigno…. Diciamo tutto al duca: e a voi, signorina,—esclamò il nobile rifinito,—offro io il mio nome per riparare un passato, in cui non avete nessuna colpa….
Roberto rivolgeva per la mente i pensieri più truci. Gli era sembrato a un tratto che lottava col conte di Squirace e che le sue mani erano lorde di sangue.
Enrica vedea ben avviati i suoi disegni: voleva spingere quella scena più oltre, inasprire il conflitto; e con arte infernale, soggiunse:
—No, signor conte, voi non direte nulla a mio padre… ve ne supplico… morirei di dolore e di vergogna….
—No: il duca, almeno, deve saper tutto: e insieme concerteremo il modo di schiacciare questo… rettile velenoso!
E, senza sapere ciò che faceva, il conte alzò il suo scudiscio su
Roberto.
Il vaso, già pieno sino all'orlo, traboccava.
—Signor conte,—disse con voce rauca Roberto,—trovate modo di darmi una soddisfazione pronta, immediata anzi: domandatemi scusa del vostro affronto: umiliatevi dinanzi a me e a Enrica: placatemi,—seguitò con spaventosa freddezza,—io ho già la febbre d'avervi tra le mie mani…. Ho sete del vostro sangue….
—Sì,—interruppe pronta Enrica,—egli può parer vile d'aver sopportato da voi sin ora tanta insolenza! Roberto non può esser vile: nè forse potete, voi, gentiluomo di nascita, domandargli scusa.
—E che scusa,—rispose il conte,—che soddisfazione volete io conceda al figlio di Ciccillo, il quale ingannava mio padre, vendendogli, come buona, pessima biada per i nostri cavalli? Il duca penserà a esercitar giustizia su questo villano…. Con la sua influenza può farlo intisichire nel fondo di un carcere: può farlo ammazzare, come si ammazza una bestia nociva: e accomodar tutto senza che nessuno si disturbi…. È gente si vile che la loro carne val meno di quella d'un quadrupede…. Va', canaglia, va'….
E alzò di nuovo il suo frustino.
Roberto si contorceva, si divincolava.
Allorchè il conte ebbe finito, fece un gesto per trascinar con sè Enrica. Ella dette a Roberto uno sguardo indescrivibile, uno sguardo esprimente voluttà, ferocia, provocazione: uno sguardo che diceva:—ti lasci annientare così, mi ti lasci rapire!
Poi essa si staccò dal conte, corse, con atto finto, a gettarsi al collo di Roberto: si strinse a lui sì forte che sentisse tutto il rigoglio di quelle forme, che egli, nella sua sensualità, adorava; gli si accostò alle labbra, spirandogli un alito di fuoco.
La trista sirena lo inebriava al delitto.
Enrica trovò modo di volgere un altro sguardo al conte di Squirace.
Egli, già imbaldanzito, non avea bisogno di quell'eccitamento.
Si fece innanzi per togliere Enrica dalle braccia di Roberto: e di nuovo con male parole.
—Ah!—esclamò Roberto, che era fuori del senno e a cui Enrica avea abilmente eccitato i sensi e la mente.—Tu aggiungi ingiuria ad ingiuria: tu vuoi correre a far uno scandalo: tu vuoi rapirmi questa donna, che è mia… mia: ch'io ho posseduta e possederò: te lo dico col massimo orgoglio: tu non vuoi rispettare il mio uniforme, il mio grado: tu insisti nel chiamarmi villano: e bene abbiti il villano…. Io torno figlio di Ciccillo; poichè tu hai insultato anche mio padre, torno bifolco…. Eccomi a te….
E, gettato da sè l'uniforme, si slanciò sul conte. Egli si difendeva e, irritato, percosse con lo scudiscio Roberto nella faccia.
L'onta, il furore inferocirono il giovane sì gagliardo.
Il conte l'avea ferito in un occhio.
Si rotolarono per terra: Roberto, forte come un leone, premeva sempre sotto di sè il conte, che pur faceva sforzi grandissimi per liberarsi. Si rialzarono, si riazzuffarono: Roberto era ubriaco di rabbia: tutti e due inveleniti dall'odio; a poco a poco si accostarono al ponte: a un urto di Roberto il conte di Squirace cadeva nell'immenso precipizio, gettando un grido straziante: all'assassino! che risuonò in tutto il parco.
Enrica era scomparsa.
Ella avea attirato il conte in quell'insidia: si era servita di lui per eccitare Roberto: la vita di due uomini le sembrava ben poco per sbarazzarsi di un solo fra essi, per assicurare la libertà de' suoi piaceri, il fasto, la pompa del suo avvenire.
Al grido del conte di Squirace, librato nello spazio, succedette un altro grido, proferito da Enrica, che ebbe pur la forza di urlare contro il suo antico amante, contro l'uomo cui era unita da un vincolo segreto: all'assassino, all'assassino!
Roberto era rimasto stordito per l'accaduto: egli avrebbe voluto gravemente offendere, castigare il conte: non pensava ad ucciderlo, almeno a quel modo: avrebbe voluto indurlo a un duello leale e lì, poichè era sicuro della vittoria, sbramarsi del suo sangue, di cui, come gli era uscito dal labbro, avea sete.
La gente incominciò ad accorrere da ogni banda. Un delitto, un delitto nel parco!—ripetevano tutti inorriditi.
Fu trovato presso il ponte Roberto, che rimetteva indosso il suo uniforme: fu trovato in terra il cappello del conte di Squirace; un cappello verdastro, facilmente riconoscibile, e che avea, nel di dentro, le cifre del frivolo e sfortunato gentiluomo.
Il duca era a capo della sua gente: e, accanto a lui, Emilio, la guardia del parco.
Al vedere l'uniforme, che Roberto avea indosso, il duca ed Emilie scambiarono uno sguardo.
—Che fate voi qui, Roberto?—disse il duca, severamente.
Roberto si confuse.
Avea il volto graffiato, le mani lacere in varii punti, i pantaloni tutti cosparsi di polvere, la cravatta stracciata.
—Roberto!—esclamavano molti e molte,—lui l'assassino!
—Voi siete entrato qui nel parco anche stanotte… per compiervi qualche azione trista… poichè, alle intimazioni di Emilio, siete fuggito come un ladro e avete lasciato questo bottone, che manca al vostro uniforme…. Perchè stanotte siete entrato nel mio parco?
Roberto taceva. Così i sospetti, anzi le ragioni di accusa si accumulavano su lui: così si chiudea da sè in una rete, dalla quale non avrebbe potuto uscire.
—Dov'è il conte di Squirace?—domandò il duca, guardando con orrore il vicino precipizio, il mare gorgogliante nell'imo di esso e gettando poi gli occhi sul cappello, che teneva in mano.
Anche a questa domanda Roberto non fiatò.
La gente gli si stringeva attorno, un po' minacciosa, un po' incredula ch'egli fosse stato capace di commettere tale delitto.
—Vi ripeto: perchè vi trovato qui, perchè anch'oggi siete entrato nel parco di nascosto?
Roberto ebbe un'idea: invocare la testimonianza di Enrica, sicuro che essa l'avrebbe salvato.
Enrica si era fatta trovare presso al ponte, allorchè era giunto suo padre insieme con gli altri: come per chiarir tutti ch'ella era stata testimone dell'accaduto. Ora s'era posta accanto al duca e s'appoggiava al braccio di lui.
—Signor duca,—disse Roberto, rompendo ogni esitanza,—c'è una persona che può esser testimone autorevole, raccontare ciò che qui avvenne, e perchè io sono entrato nel parco stanotte, e perchè mi ci trovo adesso….
—E chi è questa persona?
—Vostra figlia!
—Enrica—esclamò il duca.—Tu hai veduto tutto, e puoi parlare?…
—Non avrei voluto parlare: non so perchè s'invochi la mia testimonianza….
—Enrica!…—interruppe Roberto con una familiarità, che urtò il duca, e spiacque a tutti gli astanti.
—E bene: già che debbo parlare, io parlerò,—disse Enrica, che si teneva immobile e rigida, mentre due lacrime artatamente provocate le rigavan le guancie.—Roberto Jannacone ha assassinato il conte di Squirace….
Si alzò un grido d'indignazione e di orrore.
Roberto, accasciato da quel tradimento infame, rimase come un uomo senza volontà, senza sentimenti, senza più che un sembiante di vita. Avrebbe tutto creduto possibile, fuorchè una tale scelleratezza.
I servi del duca lo arrestarono.
Egli lasciò fare: non oppose resistenza di sorta. Enrica lo vide allontanarsi, e un'espressione di trionfo illuminava la sua ammaliante fisonomia.
Un dubbio la crucciava.
Se Roberto parlasse del loro matrimonio, durante il processo? Se ella dovesse comparire in pubblico a giustificarsi?
Ma Roberto era generosissimo; e poi egli era annientato, sbigottito dall'atto di lei, dal sangue freddo con cui ella lo avea compiuto.
Il suo amore, la sua passione eran rimasti troncati in un attimo: essa non gl'ispirava più nè affetto, nè odio, nè disgusto, nè desiderio di rappresaglie: gli sembrava fosse morta la giovane da lui amata e che fosse sorto un mostro dalla sua spoglia. Sulle prime, non si rese conto della condizione in cui egli era piombato. Poi, a poco a poco, si svegliò in lui la coscienza della miseria, dell'abiezione, dell'immenso cordoglio a cui l'aveano spinto.
Gli era stato tolto il suo grado. Chi e che era egli nel mondo e pel mondo? Un assassino, un omicida, che aspettava la sua condanna—e quale condanna?—dovea esser certo di morte.
Non v'era caso che trionfasse la sua innocenza: gli pareva ben arduo.
E il suo vecchio padre?
Vi pensava, smaniando. Avea saputo che s'era presentato alle carceri, ma non gli era stato concesso di vederlo.
Roberto entrava nella convinzione che la morte del conto di Squirace sarebbe stata vendicata col supplizio di due uomini: quello a cui i giudici l'avrebbero condannato e quello, tutto morale, che suo padre avrebbe risentito e che lo avrebbe, in breve, trascinato alla tomba.
E tale mutamento di eventi si compieva un giorno dopo che Roberto era tornato dal suo viaggio, ben fornito di denaro, onusto di onori, e il vecchio avea pianto per l'allegrezza, ed era corso alla chiesa, pregando con quel cuore con cui pregano i padri pe' loro figliuoli, e ringraziando la Provvidenza, in cui avea tanta fede, dell'altezza insperata alla quale il giovane era arrivato.
Il pensiero del padre straziava Roberto.
Ma il vecchio non s'era invece lasciato punto abbattere.
Allorchè, con molta cautela, gli fu riferito da un frate, venerando per anni e per pietà, inviatogli dal duca, ciò che suo figlio avea fatto e gli furon palesate le conseguenze del suo delitto, il vecchio, sereno, si cavò la sua berretta, s'inginocchiò innanzi al sacerdote, dicendo con voce ferma:
—Il Signore vuole provarmi in questa mia tarda età…. Che la sua volontà, la quale mi castiga così, sia ben accetta dal mio animo di cristiano!
Poi, alzandosi, più fiero, disse, al frate:
—Dite al duca che lo hanno ingannato…. È impossibile che mio figlio abbia commesso un tale delitto…. Siate sicuro, come sono io, che mio figlio è innocente…. Qui sotto c'è un tranello, che scuopriremo…. Tutti sono stati ingannati…. E che? mio figlio assassino?
Il vecchio non seppe più contenersi e proruppe in singhiozzi, che avrebbero straziato i cuori men disposti alla pietà.
Poi riprese tutta la sua gagliardia:
—Sento,—disse al padre,—che la fede mi dà una gran forza… e in Dio attingo la convinzione che il mio povero figliuolo innocente è vittima di un agguato.
Allo stesso frate, uomo dotto e pio, esperto; da tempo, in tutti i dolori, parve grandiosa questa figura di umile cristiano; e riferì tutto al duca.
Nella voce, con cui il duca gli rispose, si sentiva il pianto. Si parlava molto del delitto, di cui era accusato Roberto. Alla indignazione verso di lui succedeva un sentimento di pietà, di simpatia. Questa simpatia gli era pur cattivata dal rispetto, dall'affezione universale di cui godeva suo padre.
La domenica dopo il fatto accaduto nel parco, egli era andato alla chiesa: e verso lui si volgevano gli sguardi di tutti: tutti l'aveano veduto entrare eretto, sereno, ma tutti ne indovinavano il dolore.
Al punto più solenne della messa, in mezzo al silenzio più profondo, si erano uditi i singhiozzi del vecchio, che, unendo la sua veemente preghiera alla preghiera del sacerdote, invocava dall'alto fosse chiarita l'innocenza del suo figliuolo.
Si udirono poi altri singhiozzi, più sommessi; molte anime semplici si turbavano a quell'immenso dolore, che già aveano indovinato: partecipavano a quella grande preghiera.
Anche il sacerdote avea gli occhi inumiditi di pianto: e portò a Dio, nella pienezza del sacrifizio che consumava, nel ricordo del santo martirio, fatto con parole divine, il dolore di quel padre, di quel cristiano. Dopo l'elevazione, Andrea Marrato, il più ricco contadino dei dintorni, e che si sapea, da diecine di anni, nemico acerrimo di Ciccillo Jannacone, corse ad abbracciarlo. Quindi i due vecchi rimasero inginocchiati l'uno accanto all'altro. La commozione era in tutti gli animi.
Ma anche a Napoli tutti si occupavano dello strano, atroce delitto. La morte del conte di Squirace avea indignato e fatto inorridire l'aristocrazia napoletana.
L'odio contro il presunto assassino era, nella popolazione, fomentato dall'alto.
Però, nella stessa aristocrazia, alcuni, più spregiudicati, o più intelligenti, faceano osservare il delitto essere stato commesso in circostanze ben strane.
Il duca, venuto in città, accendeva gli animi di tutti contro Roberto:
Enrica aveva voluto restare nel castello.
Sola, con Cristina, la sera stessa in cui Roberto era tratto in prigione per la denunzia di lei, essa se ne stava, tutta nuda, dinanzi al grande specchio della sua camera, vanagloriosa di contemplarsi.
Le punte rosee del suo turgido seno si ergeano come due bottoni di fiori.
Cristina, l'infernale Cristina, le si accostava sempre di più: le facea carezze, che si dava sembiante di farle con piglio materno.
Enrica s'infatuava in quella corruzione e sorridea di piacere, mentre
Roberto, nella, sua prigione, era dilaniato da tutti gli spasimi.
Ed esclamava, a ragione, pensando a lei:
—Donna crudele, infame, maledetta!
Il processo di Roberto era aspettato a Napoli con acutissima ansietà.
Si sapeva che Enrica avrebbe dovuto deporre come unica testimone.
Rendea più trepidante l'aspettativa il sentimento che dalla deposizione di una ragazza dipendeva la vita di un infelice.
Ciccillo Jannacone avea voluto lasciar subito il servizio del duca: e molti aveano fatto offerte al vecchio, ma egli se n'era tornato con un suo parente, e attendeva ne' campi a' suoi soliti lavori.
Aveva un tacito risentimento contro la figlia del duca. Per lui, convinto dell'innocenza di Roberto, e cui niuna sentenza umana avrebbe potuto strappar tale convinzione, essa aveva mentito. Ma si torturava il cervello: passava le notti insonni, poichè tra sè ricercava: a quale scopo?
Gli era venuta l'idea di trovar modo di parlare ad Enrica. E un giorno, poichè l'idea non lo lasciava, si recò nel parco.
Enrica passeggiava e scherzava col principe di Gorreso, giovane ministro del Re di Napoli presso una Corte straniera, e che era il nuovo innamorato della duchessa.
Si diceva, anzi, ch'egli avesse domandato già al duca la mano della figliuola.
Al solo vedere il padre di Jannacone, Enrica svenne.
Il vecchio fu scacciato dal parco come un malvivente. E, mentre lo scacciavano, Enrica si era fatta sentire da' servi esclamare:
—Il padre dell'assassino! il padre dell'assassino!
Così, fingendo di parlare fra gli spasimi, nel delirio, coloriva viepiù la sua accusa contro Roberto.
Ormai era lieta: viveva sicura, sulla nobiltà d'animo del giovane: aspettava di giorno in giorno apprendere ch'egli si fosse nella sua prigione tolta in qualche modo la vita.
Roberto le avea fatto pervenire, chi sa con qual mezzo, e valendosi certo di denaro ch'era riuscito a portare con sè, una breve lettera.
Le diceva, dopo un gravissimo insulto, in cui qualificava il carattere di Enrica, che egli non l'accusava, non le perdonava, la disprezzava. Aggiungeva, co' suoi consueti impeti di selvatichezza: "ti potessi aver sola con me per pochi istanti, ti farei a brani, ti punirei della tua protervia, vendicherei il mio onore… ma ora non voglio contristare tuo padre, che è già sì afflitto per causa tua. Egli è costernato che sia stato ucciso un amico suo, sì vicino a lui, senza ch'egli abbia potuto difenderlo. Tu hai voluto straziare, a un tempo, il cuore del tuo sposo e di tuo padre. Ti ripeto che tu m'avevi sempre fatto paura…. Io non parlerò nel processo. Sono generoso e non voglio competere di arti tristi con una femmina vile; poi, appunto per la mia generosità, quali prove avrei contro di te? Possedevo un tuo biglietto: lo portavo sempre indosso: l'ho ingoiato prima che mi perquisissero!"
Ecco le parole che Enrica lesse e rilesse.
Roberto continuava, scrivendo:
"Sono certo che tu, conoscendo la mia indole, aspetti ch'io m'uccida per non sopravvivere a una condanna…. Tu non hai, da tempo, altra bramosia che quella del mio annientamento, della mia morte. Ma io vivrò!… sì, vivrò. E il cuore mi dice che un giorno avremo ad incontrarci. Te lo immagini quel momento di gioia… per me? Fremo al pensarci. Gli anni di miseria che devon passare non mi spaventano… se mi sarà concesso di vendicarmi…. Ma già, di che io vaneggio? Il delitto di cui sono accusato, ha, secondo la legge, a pena la morte…. Tu aneleresti ch'io morissi anche prima del processo per risparmiarti qualche ansietà…."
In un poscritto, queste parole, sulle quali eran cadute alcune lacrime:
"Non ti odio, ti amo sempre: la memoria di certi momenti, de' piaceri ch'io ebbi da te mi agita anche in questa prigione…. Che fai? Pensa che, malgrado tutto, io ti adoro: e vorrei stringerti di nuovo tra le mie braccia…. Ti salverò ad ogni costo: anche a costo della mia vita."
Enrica ripiegò la lettera e la mise nel suo seno per rileggerla più a suo agio. La lettera le piaceva: essa voleva destare grandi passioni: godeva irretire, far vittime con la sua bellezza, con la sua frenesia di piaceri; l'averla amata, desiderata, già costava la vita a due uomini, ad uno di essi anche l'onore: il solo ricordo di ciò sarebbe bastato ad aumentare l'acutezza de' suoi godimenti in avvenire.
Vi hanno esseri sì pervertiti cui lo stesso pensiero del male serve di pungolo, di stimolo alle gioie materiali, le ravvalora, le rende più vive.
Nell'istruttoria del processo, Roberto, sottoposto a ogni molestia da un giudice ignorante e crudele, non volle dir verbo.
Non negò, non confessò di esser autore del delitto: tacque sempre: gli ripugnava, mal suo grado, fino il dichiarare ch'egli era innocente, per una tenera deferenza per Enrica.
Qualche volta era stato tentato di parlare, allorchè il pensiero gli correva a suo padre; ma rifletteva subito: A che prò? Quali testimonianze egli aveva? Chi avrebbe prestato fede più a lui che alla figlia del duca? E poi tutte le apparenze non erano contro di esso?
Dobbiamo pur dire ch'egli si apponeva assai male: e appunto nel suo contegno, nobilissimo, ma improvvido, avrebbe trovato la maggior causa della sua rovina.
Ed ecco perchè.
Già in Napoli, come fra gli stessi coloni tra' quali era nato e che aveano assistito in sì gran numero alla denunzia del suo delitto, molti se gli manifestavano favorevoli, propensi a credere alla innocenza di lui. E ne vedremo la causa.
Vi fu il processo.
Roberto, dopo aver risposto alle domande generali, disse non aver altro da aggiungere.
Il vecchio magistrato, che presiedeva la Corte Criminale, lo trattò con molto affetto e tentò invano persuaderlo a discolparsi.
Quasi l'esimio giureconsulto, sulle prime, mostrava troppo palesemente la sua convinzione circa l'innocenza di Roberto.
Ma la convinzione fu subito distrutta dal contegno dell'accusato e il giudice divenne più rigido, e forse implacabile.
Roberto si presentò a' giudici tutto vestito di nero. Era pallidissimo: ma la sua fisonomia onesta, aperta, la gentilezza del suo tratto, il suono della sua voce, l'espressione del suo sguardo contrastavano di troppo con l'accusa.
La sua tranquillità pareva a' malevoli cinismo; ma gl'intelligenti, che lo vedevano senz'ombra di spavalderia, si sentivano inclinati a scernervi un indizio di sicura coscienza.
Fra i testimoni comparve naturalmente Enrica, attesa e ascoltata con un'impazienza febbrile.
Più di tutti, siccome il lettore può comprendere, era impaziente di rivederla Roberto.
Anch'essa comparve tutta vestita di nero: quasi tutta coperta di un velo.
Alle domande fattele studiò di mostrare che non potea rispondere: finse le mancasse la forza: dette in un pianto dirotto.
Alla fine, non riuscendo a ottenere ch'essa parlasse, il presidente lesse la deposizione scritta, e le domandò se ella la confermasse.
Col capo fece cenno di sì, e molto risoluta.
Lasciamo immaginare al lettore qual fosse l'animo di Roberto, che non la perdeva di veduta e ne seguiva l'interrogatorio con ineffabile perplessità.
—Non basta,—disse il presidente, con molta affabilità, alla duchessa,—accennare con gesti: la sola prova per la Corte risulta dalla affermazione orale esplicita. Debbo, dunque, domandare a V. S. dichiarazioni precise.
La giovane duchessa non si smarriva.
C'era, tra i giudici, un sapiente: il conte Guicciardi. Di nobilissima famiglia, le cui sostanze si erano molto assottigliate, il conte avea seguito con grande ardore lo studio delle leggi. Era un degno discepolo, a non dir un degno continuatore di quegli esimii giureconsulti della illustre scuola napoletana, alcuni dei quali alla sapienza accoppiarono l'amor di patria, e ne morirono martiri.
Il conte osservava con molta attenzione la duchessa. Egli non avea mai veduto chiaro in questo processo; sulle prime avea gridato che si faceva ingiustizia a un popolano, a un uomo di umil condizione per adulare la grande aristocrazia napoletana.
Ma il conte era tanto pusillanime quanto era dotto: e un gentiluomo, ben accetto al Principe, gli susurrò all'orecchio: cessasse dal turbare i colleghi con dubbi che acquistavano autorità perchè da lui mossi: esser giunta al Sovrano la voce della sua discrepanza coi colleghi: e averla S. M. in un colloquio familiare energicamente riprovata: non si compromettesse più oltre.
Il conte non avea la forza, la virtù di que' giureconsulti napoletani che avean saputo, per la libera parola, per obbedire alla coscienza, sfidar il patibolo, e salirvi con animo intrepido: e fermò in sè di aver prudenza: in certe congiunture consigliera vilissima.
Pure, egli ch'avea molti generosi istinti non seppe in tutto acconciar l'animo a quella parte muta, devota, che facea di lui, in fondo, un carnefice.
Il contegno della duchessa avea ribadito i dubbi del giovane e acuto magistrato.
Non la perdeva d'occhio un solo istante.
La smania di scoprire la verità, nient'altro che la verità, in quel punto lo dominava e gli facea dimenticar tutto il resto.
Avrebbe voluto interloquire; lo riteneva per allora, un leggero riguardo verso il presidente.
Una o due abili domande avrebber modificato l'esito del processo: Enrica si sarebbe imbarazzata: sarebbe stato facile cogliere in mendacio la giovane duchessa.
Essa guardava con terrore que' magistrati, temendo che la sottoponessero alla tortura di un interrogatorio minuto: ma sempre padrona di sè, anche ne' più spinosi frangenti, si volse con un'occhiata molto significativa all'avvocato della famiglia Squirace, costituitasi parte civile.
L'avvocato era un vecchio vagheggino, musicista, poeta, e a cui l'occhiata di una donna bastava per incitarlo alle maggiori follie.
Egli vide scintillare traverso il velo, assai rado, i begli occhi di
Enrica: e venne subito in soccorso di lei.
—Faccio osservare all'onoratissimo presidente,—egli disse,—che la signora duchessa è in uno stato di salute molto precario.
Enrica era floridissima, dacchè credeva essersi sbarazzata di Roberto e avea accettato il corteggiare del principe di Gorreso, suo fidanzato.
—Io domando alla Eccellentissima Corte che voglia tener conto trattarsi di una gentildonna giovanissima, vissuta sinora in abitudini verginali, nella castità, nella purezza degli affetti domestici: d'una giovane gentildonna, che ha veduto dar morte, atrocemente, sotto gli stessi suoi occhi, a un amico della sua famiglia: e, credo, a un suo probabile fidanzato…. Essa non è ancor guarita dal colpo che allora riceveva…. L'Eccellentissima Corte insistendo potrebbe cagionare un deliquio, peggiorare le condizioni già gravi della gentildonna: essa è venuta qui accompagnata da suo padre e dal medico della famiglia….
—La signora duchessa,—tornò a dire il presidente,—conferma, dunque, la sua deposizione scritta?
—Sì,—rispose nettamente questa volta Enrica che vedeva necessario l'uscir presto da tali angustie, e voleva profittare dell'aiuto portole sì destramente.
—Ha ella veduto il nominato Roberto Jannacone gettare dal ponticello, detto dell'Inferno, nel parco di Mondrone, il conte di Squirace?
—Sì…. l'ho veduto!—rispose audacemente Enrica. Roberto teneva il volto nascosto fra le mani; il suo cuore si spezzava negli sforzi ch'egli faceva per contenersi.
Il conte Guicciardi non potè tacere più a lungo e mormorò al presidente:
—Nella deposizione scritta manca una parte essenzialissima: la narrazione ragguagliata del modo con cui è avvenuto l'assassinio del conte di Squirace!
L'avvocato di Roberto si alzava e faceva la medesima domanda.
Enrica si sentì perder d'animo: que' momenti erano per lei troppo crudeli.
Le sembrava che l'espiazione fosse infinitamente più acerba del delitto, anzi de' delitti, ch'ella aveva commesso per il suo egoismo.
Sentiva che in quel tribunale essa era, in tal momento, la sola delinquente: e che, se fosse stato saputo tutto il vero, i giudici non l'avrebbero lasciata uscire.
Enrica, quasi tramortita, teneva gli occhi fissi sul presidente.
Già, a un cortese cenno di lui, ella si era alzato il velo.
—La domanda è importante,—insisteva l'avvocato di Roberto.—Ci preme sapere qual era la posizione de' due uomini: chi era fra loro che attaccava con energia: chi offendeva, e chi soltanto si difendeva.
Ma già si alzava il vecchio avvocato della parte civile, irruentissimo.
Era inutile per lui domandare chi attaccasse con maggior energia….—Tutti abbiamo conosciuto il conte di Squirace: poteva esser coraggioso, ma era debolissimo: guardiamo l'accusato….
Nacque un battibecco fra' due avvocati.
—Si vuol gettare lo scompiglio nella causa—dicea il vecchio avvocato della parte civile,—intimidendo il più importante e autorevole testimone che abbiamo. Si vogliono gettare insinuazioni, dubbii sulla parola di una gentildonna, e di una giovane gentildonna piissima, che ha prestato innanzi ai magistrati il suo giuramento….
—Perdono, avvocato….—interruppe il collega.
—Mi lasci parlare…. Si domandano i particolari di un assassinio a una giovinetta, accorsa al rumore di una zuffa, impaurita, commossa, e che ha veduto, come è naturale, nel suo sbigottimento, un solo fatto, che è innegabile per tutti: quello di un uomo gettato nel mare…. dall'alto di un precipizio!
L'avvocato di Roberto non era molto avveduto, e dovea portargli egli stesso, non volendo, il colpo forse più funesto.
—Si parla di chi provocò: di chi attaccò con maggior energia,—disse il precipitoso avvocato,—ma non si è tenuto conto abbastanza di un ragguaglio in questo processo…. Il giovane, che si trova dinanzi a voi come accusato, era stato gravemente percosso nella faccia dal signor di Squirace con uno scudiscio…. Lo scudiscio fu ritrovato presso il ponte: e tutti attestarono aver appartenuto al compianto signore…. L'accusato, che io credo innocente, aveva, nel momento in cui fu arrestato, una ferita nell'occhio destro…. Vedete che il conte provocava, attaccava con energia….
—E allora,—ripigliò l'altro avvocato,—se ammette tanta provocazione, tanta energia nel conte, in che modo il mio avversario può persistere a credere l'assoluta innocenza del suo cliente! Sì, concediamo la più dura provocazione, per parte del conte; è chiaro che l'accusato, volendo reagire, ha assassinato il gentiluomo nel modo che tutti sanno…. È inutile, dunque, cercar di torturare l'unica testimone che abbiamo, di confonderla, di atterrirla per gettar l'equivoco in un processo che, per noi, è sì limpido…. Questa insistenza dimostra che si vuol davvero scusare, cuoprire un delitto….
L'avvocato di Roberto fece un gesto, come se fosse offeso dalle parole del suo avversario, che continuava con voce tonante:
—E sottrarre un reo alla sua legittima pena! L'altro avvocato ribattè.
Il presidente li lasciava fare: il tempo che costoro impiegavano a bisticciarsi, dava a lui agio di riflettere come uscire dalle sue perplessità e por termine all'interrogatorio della duchessa.
Enrica, che avea ascoltato avidamente ciò ch'avea detto il vecchio avvocato della parte civile, si accorse che egli le porgeva modo di finire il suo interrogatorio, con una dichiarazione, corroborante le prove della reità di Roberto, e atta a toglier lei d'imbarazzo.
Ella, dunque, a nuove domande del presidente, rispose che, dopo aver udito parlare dello scudiscio, che il conte di Squirace teneva in mano nel giorno in cui fu ucciso, rammentava una circostanza, dimenticata sin allora nella sua profonda agitazione.
Aveva veduto,—soggiunse,—a una certa distanza, il conte di Squirace che alzava lo scudiscio sulla persona che aveva di fronte (non nominò Roberto) e la percoteva.
L'avvocato della parte civile, il presidente sospirarono.
Uno dei giudici era indifferentissimo a tutto: pensava sempre alle sue ristrettezze domestiche: alla moglie troppo spendereccia e ambiziosa, a' figliuoli che logoravano troppo i vestiti, e il cui appetito non era proporzionato al suo gramo stipendio.
Egli condannava, condannava sempre: gli pareva che l'ergastolo fosse una prigione assai più dolce di quella in cui egli viveva, fra i garriti, le esigenze domestiche, le privazioni e nell'ufficio le tirannie dei superiori.
Avrebbe assoluto Roberto, se avesse avuto la certezza di far dispetto al presidente, che, secondo lui, col dar cattive informazioni sul suo conto, gli aveva impedito d'esser promosso.
Il più giovane e il più dotto magistrato, di cui già abbiamo discorso al lettore, il conte Guicciardi, non era ancor convinto della reità di Roberto: vedeva sempre in questo processo molti e molti punti dubbiosi.
La prudenza, o, diremo meglio, la pusillanimità, gli impediva di studiarsi a chiarirli con una certa franchezza, durante il giudizio.
Prima di licenziare Enrica, il presidente chiese a Roberto se nulla avesse a domandare alla testimone.
Enrica aveva il batticuore.
—Nulla!—rispose Roberto con un tuono di voce, che Enrica non doveva più dimenticare, e che forse doveva riudire in un momento per lei terribile.
Enrica fu licenziata.
Non avea mai rivolto lo sguardo a Roberto: nè si volse punto a lui, nell'istante in cui essa usciva dalla sala, singhiozzando altamente col fazzoletto in sugli occhi, attrice perfetta, come tutte le donne viziose, cui l'inganno è potenza, ragione di vita.
Non ebbe un pensiero della magnanimità del giovane: non uno slancio d'ammirazione pel suo contegno nobilissimo: al contrario: ella titubava sempre ch'egli aggiungesse qualche parola compromettente: aspettava ansiosa la condanna.
Fin che questa non fosse venuta, ella temeva nuovi richiami, temeva nascessero viluppi insidiosi per lei. Non si curava d'altro. La falsa accusa, la calunnia contro Roberto?
Per lei non era nè calunnia, nè falsa accusa.
Che il conte di Squirace fosse caduto nel precipizio, per un movimento da lui fatto nella mischia, poco significava: Roberto l'avea sospinto a quel movimento; dunque Roberto era l'assassino del conte di Squirace. E poi egli non avea minacciato di morte anche lei?
Se il conte non fosse sopraggiunto, o ella avrebbe dovuto fuggir con Roberto, o sarebbe stata inabissata, com'egli le avea proposto, fra i gorghi del mare, ov'era stato gettato il conte.
Ella doveva la vita, l'onore alla cautela (la chiamava così) spiegata nell'invitar il conte a trarre in suo aiuto.
Di tal guisa, acquietava la triste sua coscienza; poichè anche i perversi hanno una coscienza, foggiata a lor modo.
E non le bastavano tutte le scuse, che già abbiamo addotte; un'altra ne allegava a sè stessa.
Roberto avea indegnamente abusato di lei: avea mancato al suo dovere di soggezione verso il duca: a forza l'avea voluta a sè, probabilmente, anzi sicuramente, ella arrivava a persuadersi, con lo scopo di rendersi padrone delle sue ricchezze: diventar l'erede del duca. Ardito e scellerato pensiero!
Quindi, si diceva, egli avea commesso, non uno ma più delitti, e il suo contegno assegnava non a nobiltà d'animo, ma a un tardo rimorso.
Costui dovea aver compreso che il sacrificio della vita era poco alla espiazione che gli spettava.
Nell'animo di Enrica, Roberto era ormai un gran delinquente, ed essa avea reso a tutti un segnalato servizio, sbarazzandoli da un uomo sì violento!
Chiuso il processo, i giudici si erano stretti in Camera di Consiglio per deliberare sulla sentenza.
E la discussione riuscì assai vivace.
Lì, fra' suoi colleghi, il conte Guicciardi volle parlare aperto.
Non sosteneva l'assoluta innocenza di Roberto, ma quante lacune—disse—in questo processo!…
—Ammettiamo pure,—osservava,—il giovane marinaio sia stato provocato dal conte di Squirace. Sa la Corte il motivo di tale provocazione?… Che rapporti potevano esservi fra il gentiluomo e il figlio di Cicillo Jannacone?…
Come mai la duchessa, sì debole, sì ammalazzata, che avea appena partecipato alle feste in onore del padre, si era di tanto allontanata dalla sua villa e, sola, si trovava nel punto più remoto del parco? In che modo si erano incontrati proprio lì l'accusato ed il conte? Certo non casualmente….
L'accusato, mi direte,—aggiungeva a' colleghi,—non ha voluto dare spiegazione alcuna, si è chiuso in un assoluto silenzio: non ha neppur consentito di parlare col suo avvocato, ha rifiutato di scegliersi altro avvocato che quello designatogli, per ufficio, dalla Corte…. Vedete voi in ciò un indizio di reità?… Io, egregi colleghi, sarei allora di parere diverso dal vostro.
Un reo, nega, attenua, si difende: qui abbiamo un uomo che, dinanzi al patibolo, nella probabilità di una condanna a morte, non cerca alcun espediente per sfuggir a tal fine; anzi vi va incontro quasi volenteroso. E voi non scorgete nulla d'insolito in questo uomo che tace? Ricordate ch'egli è un valoroso: ricordate che la sua condotta fu sino ad oggi esemplare, anzi fu, in certe occasioni, eroica: rammentate le testimonianze de' suoi camerati che ci vennero a fare il suo elogio, commossi, piangenti. Ah, miei cari, non ci troviamo innanzi un volgare assassino! Dobbiamo piuttosto giudicare un fatto molto misterioso. Mancano le prove dell'innocenza: non abbondano quelle della reità, se si scrutina bene. Non è la prima volta che un soldato, un uomo d'onore e cavalleresco, tace, accetta la responsabilità di un delitto, infama il suo nome per salvar l'onore di una donna, per un motivo di suprema delicatezza….
—Il silenzio può essere il ripiego di un uomo abilissimo, appunto per indurre in questa credenza,—disse il presidente.
—Ma non quando si corre il rischio di una sentenza di morte!—esclamò l'altro magistrato, che condannava quasi sempre, lieto di contraddire al presidente.
Vi fu un breve silenzio.
Il conte Guicciardi si era alzato, e si era avvicinato alla finestra della stanza.
Tornò indietro, dopo aver guardato un po' nella strada, distrattamente, mentre seguiva le sue meditazioni; si fermò dinanzi al presidente, e gli disse con piglio benevolo, ma assai risoluto:
—Io non ho il coraggio di firmare una sentenza di morte…. E non la firmerò!
—E neppur io!—aggiunse l'altro magistrato.
—Io aderisco,—disse affabilmente il presidente,—alle proposte de' miei colleghi.
Roberto avea seguito con gli sguardi Enrica, fin che non si era richiusa dopo di lei la porta della sala d'udienza: era rimasto qualche tempo con gli occhi fissi su quella porta, come se attendesse che ella tornasse ancora addietro: poi l'angoscia più acuta gli avea di nuovo stretto il cuore ed era ricaduto nel suo solito torpore.
La sentenza fu molto ponderata: Roberto fu condannato all'ergastolo.
Tutta Napoli comprese il dubbio che avea assalito i giudici.
Il vecchio Jannacone, venuto a Napoli, volea recarsi al cospetto del Re: chieder grazia: potè finalmente presentar la sua domanda, ma fu respinta.
Nella popolazione napoletana il processo destò una certa effervescenza, che poi subito quetò. Altre cure, altri dolori, e la tendenza all'oblìo, forse, la sola cosa che renda la vita tollerabile, fecero scordare il delitto del parco di Mondrone.
In breve non si parlò più nè di Roberto, nè del conte di Squirace.
Ciccillo Jannacone tornò al suo lavoro: stette mesi senza dir parola, sempre convinto della innocenza del figlio. Domandò di vederlo: gli fu negato. Egli non malediceva: non imprecava. Lo ritroveremo, a suo tempo.
Roberto era entrato nella prigione con un solo pensiero:—che ne sarebbe presto o tardi uscito, malgrado la condanna a vita, malgrado tutte le sentinelle, destinate a vegliar su di lui, malgrado tutti i rigori—e sarebbe tornato in Napoli, e magari a Mondrone, a esercitare le sue vendette.
Il desiderio di fuga dovea esser acresciuto in lui da un caso che esporremo nella seconda parte del nostro racconto: del quale questa prima parte forma come chi dicesse l'antefatto.
————
Circa sei mesi eran corsi dalla condanna di Roberto, ed Enrica una sera, parlando con la sua fida Cristina, le rivolgeva una domanda che le aveva già ripetuto in altre occasioni:
—Come sta la bambina?
Cristina avea saputo da Domenico che egli avea ritrovato la bambina morta nella carrozza.
Subito gli avea fatto giurare di non dir verbo: e avea cercato modo di allontanarlo dal castello. Gli fornì, di tratto in tratto, molti denari, che servirono a Domenico, com'ella prevedeva, per ingolfarsi nel suo vizio prediletto.
Vi furono scenate, scandali al castello: e finalmente Domenico fa pregato di trovarsi altro servizio: egli vi si adattò a malincuore, poichè a Mondrone i servitori stavano bene, ma dovè prendere commiato, non ostante che Cristina facesse sembiante di difenderlo a tutta possa; ed egli le professava la maggior gratitudine.
Ma Cristina, invece, avea soffiato nel fuoco: era stata la causa ch'egli dovesse abbandonare il buon servizio.
Essa avea più volte spinto Domenico ubriaco nelle stanze di Enrica, col pretesto ch'egli portasse i fiori degli splendidi giardini, a lui affidati: e quindi Enrica stessa avea sollecitato il duca perchè lo allontanasse.
Cristina l'avea poi consigliato a lasciar Napoli, ove godea sì mal nome: e Domenico che le obbediva, credendo ella volesse soltanto il suo bene, si allogò con una famiglia d'inglesi che partiva per la Calabria.
Anche Roberto, d'ordine superiore, forse per riguardo alla famiglia degli Squirace, forse per zelo di qualche assiduo cortigiano e commensale del duca, era stato inviato in Calabria: e in una delle più dure prigioni: nella prigione di ***.
Enrica, dunque, domandava di tanto in tanto notizie della bambina. L'astuta cameriera le rispondeva che la bambina prosperava: le parlava sempre delle ingentissime spese che occorrevano a mantenere il segreto: e poi la creatura era sì malaticcia…. la gente, che l'avea in cura, ingordissima…. Essa l'avrebbe adottata come le avea promesso: stesse tranquilla.
Già Enrica era in vere angustie per procurarsi tutto il denaro che Cristina le domandava. Non poteva chiedere forti somme al duca senza eccitarne i sospetti. Cristina diveniva esigente, imperiosa.
Ah, se Enrica avesse potuto sapere in quali mani si trovava davvero la sua bambina!
Una sola persona era a parte del terribile segreto: Roberto Jannacone, poichè egli era l'uomo nascosto fra le rovine del casolare, allorchè vi erano andati a tenere il loro conciliabolo il marchese di Trapani e Marco Alboni.
Ma a Roberto Jannacone mancava allora un punto: sapere chi fossero il padre e la madre della bambina, che i due bricconi aveano trafugato.
In uno de' più bei palazzi della via di Toledo abitava la principessa
Enrica Gorreso di Caprenne.
La figlia del duca di Mondrone avea sposato da circa undici anni il principe, che le facea la corte nel periodo di tempo in cui ella accusava Roberto e compariva dinanzi a' giudici per deporre contro di lui.
Il duca era morto da alcuni mesi, e la principessa non avea ancora dismesso il più stretto lutto.
Nominata fra le elegantissime e bellissime dame di Napoli, essa era desiderata indarno ne' ricevimenti più signorili, agli spettacoli, cui era assidua per lo innanzi, e ne' quali la sua bellezza riceveva tante e sì ardenti ammirazioni, che a lei piacevano.
Quella mattina, benchè appena fosser suonate le sette, la principessa era nel suo salotto e il principe con lei.
Sedevano a un tavolino, coperto da uno sfarzoso tappeto della Cina, e sul quale erano, un po' in disordine, i varii pezzi di un servizio da tè, in argento.
Le fiammelle azzurre si alzavano sotto il gran vaso, nel quale il tè bolliva, gorgogliando.
—Siete molto gentile,—disse la principessa al marito.—Non posso dirvi quanto vi sono riconoscente d'esser venuto così di buon'ora, a farmi una visita nel mio appartamento…. Mi sono levata stamani, prestissimo: e mi annoiavo…. Avevo leggiucchiato qualche libro (sulla tavola erano sparsi varii volumi): ma sapete che la lettura mi stanca presto….
—Mi sembra che tutto vi stanchi, cara Enrica: tutto ciò che è veramente bello, che inalza l'animo e consola, o rallegra agli altri la vita…. Siete una donna molto originale…. Noi stiamo insieme da undici anni, o per dir meglio da undici anni siamo marito e moglie, perchè siamo stati ben poco insieme…. Ma ci fu in voi molto, che io non son riuscito mai ancora ad intendere: c'è una parte del vostro carattere, che per me rimane misteriosa…. In un punto voi siete infaticabile, nel soddisfar a' vostri capricci….
Il principe diceva ciò in tuono leggero, sorridente, e anche la principessa, guardandolo, sorrideva e gli mostrava i suoi denti nitidissimi.
Il principe era un uomo gaio, simpatico, dissipatissimo, ma che avea, tra le dissipazioni, serbato fortissimo il coraggio, il sentimento dell'onore, la dirittura de' criteri.
Era egli stesso il primo a condannare in sè il genere di vita nel quale s'ingolfava: ma, pur troppo, ogni giorno, vi si sentiva più attirato.
Nel suo matrimonio non avea trovato la felicità che egli cercava. Studioso, appassionato della letteratura, coltissimo nelle arti, non avea trovato nella moglie alcuna rispondenza a questi sentimenti. Enrica capiva ben poco di tutto: appena quanto si richiedeva a non parer grossolana: la tediava ogni conversazione, in cui si toccasse d'argomento artistico o letterario. Per quella donna bella e robusta non avea attrattive se non la vita prettamente sensuale.
La bellezza di Enrica era ormai nel suo massimo vigore, senza ch'ella avesse perduto della sua freschezza. I giovani di Napoli, e anche i vecchi, accorrevano a uno spettacolo, a una festa sol per vedere le sue spalle, le sue braccia, il suo seno meraviglioso. Ella non era punto avara di mostrarsi: avea inventato, di concerto con il suo sarto parigino, una scollatura, che facea inorridire, tutte le donne: in ispecie le brutte. Alcune di quelle che più la biasimavano, aveano cercato imitarla, ma scopriva troppo i difetti: a usarla, senza eccitar il riso o la compassione, ci volevano le perfezioni scultorie della principessa.
Il principe, al contrario, era snello, delicato.
La principessa, come sa il lettore, era collerica, impetuosa, poichè in nulla tralignava dalla sua prima giovinezza; il principe, fine, ponderato anche ne' suoi risentimenti.
Come si fossero amati, poichè offrivano fra loro sì spiccato contrasto, non si sapeva: o troppo si sapeva dall'alta società napoletana, nella quale si buccinava che Enrica avesse sposato il Caprenne per vanità: e il principe, Enrica per rimpinguare il suo patrimonio, nel quale aveva fatto grandi breccie.
Ma il principe, nell'ammogliarsi, era, ripetiamo, di buona fede. Le gioie della famiglia aveano per lui una vera attrattiva: vagheggiava, dopo tante dissolutezze, dopo tante rischiose avventure, tutte cause d'inquietudini, una vita tranquilla, volta a nobile scopo: per esempio all'affetto, all'educazione dei figli. Ma la principessa non gli avea dato figli: era stata sempre fredda con lui, salvo i suoi impeti di sensualità selvaggia: non gli avea reso possibile la vita intima: aveva empito la sua casa di rumore, di distrazioni, di frivolezze, sino allo stordimento. Intorno a Enrica, o nel palazzo in città, o nella villa nel parco di Mondrone, ove si recavano qualche volta, v'era sempre un che di vertiginoso. Il principe viveva assai più quieto, e lo pensava, allorchè era scapolo.
Bisognava ch'egli trattasse Enrica com'una sovrana; il carattere impetuoso di lei non piegava: essa non concedeva nulla di sè, benevolenza, favori, se non domandati a ginocchio, con umiltà, quasi con umiliazione di schiavo.
Il principe non comportava molto di buon animo il vivere in tal soggezione: ma avea una cortesia raffinata: amava Enrica: e ad irritarlo sarebbe occorso qualche serio oltraggio, la convinzione profonda che Enrica non rispettasse il nome di lui.
Allora egli, sì elegante, indolente, affabilissimo, motteggiatore, sarebbe stato capace di tutto.
Suo padre gli avea fatto fare studii per la diplomazia: e il principe era stato, per due anni, nella Ambasciata di Parigi, come segretario. Poi era tornato a Napoli: e l'Europa avea avuto un diplomatico di meno.
A questo proposito, dobbiamo raccontar al lettore…. Ci si stia bene a udire.
Enrica e il principe erano stati una notte ad una festa da ballo, alla Corte; sul far del mattino si trovavano insieme nel loro palazzo. Il principe avea accompagnato Enrica fin nella sua camera. Dalle finestre, le cui imposte eran socchiuse, entravano i primi albori: le candele ardevano sui candelabri d'argento. Un bel fuoco crepitava nel caminetto.
La principessa, dinanzi al principe, si tolse il diadema di brillanti, la collana di perle, tutti i gioielli: poi l'abito da ballo, aiutata da due cameriere. Rimasta in semplice guarnelletto di trine, il petto, le braccia a dirittura scoperti, si gettò addosso una pelliccia, e quindi prese a braccetto il marito, dicendogli con tuono indescrivibile:
—Stamani vi concedo ospitalità nelle mie stanze…. Passiamo nel salotto!…
Lì pure scoppiettava un buon fuoco.
Le cameriere erano state licenziate.
—Avete cenato al ballo?…
—No, cara,—rispose il principe.—Chi può mai accostarsi a una di quelle tavole? Si direbbe che la Corte inviti un'orda di affamati…. o di parassiti!
—Neppur io ho cenato….—disse la principessa, ed ho fame…. —V'invito a far con me una piccola colazione qui, accanto al —fuoco…. La servirò io stessa.
E la principessa andò a un armadio d'ebano, con borchiette d'argento, e ne cavò alcuni piccoli piatti dorati in porcellana della Cina….
Il principe fu subito accanto a lei e l'aiutò.
Le loro mani spesso si toccavano; urtavano insieme gli oggetti che portavano: allora sorridevano; la principessa, mezzo nuda, sotto la pelliccia, ch'ogni tanto si apriva, era seducentissima.
Il principe di Caprenne avea pensato più volte, in certi momenti, ch'ella avesse della cortigiana, e non s'ingannava.
Sedettero dinanzi al fuoco: la colazione era preparata sopra un piccolo tavolino di lacca, che appena li separava.
La principessa mangiava sempre con un vero appetito da marinaro.
Il principe soleva appena toccare le vivande.
—Ma qui non si beve?—esclamò a un tratto la principessa, ilare come una giovinetta che un giorno di vacanze va a fare un picnic con le sue piccole compagne.
E anche il principe era dell'umore più giocondo, e, diremo quasi, più infantile.
La principessa si alzò: egli la seguiva: scambiarono un bacio, poichè le loro teste s'incontrarono, mentre la principessa si chinava per trarre da un piccolo stipo giapponese, tutto rabeschi d'oro, con un grande ibis bianco, dal becco roseo, dipinto nel mezzo, una bottiglia di rarissimo Château-Yquem.
Il bel liquido dorato, bevanda degna dei numi e degl'innamorati, fu versato dal principe nei bicchieretti verdi di Baccarat; ma il principe vi accostò appena una o due volte le labbra: la principessa bevve, a poco a poco, tutta la bottiglia.
Gli sguardi più vivaci del solito, le guancie rosee, le labbra d'un vivo corallo, le belle braccia nude, che accostavano ogni tanto alla bocca la posata o il bicchiere, la principessa spirava la forza, il rigoglio della vita, il pieno sviluppo e il pieno godimento di tutte le facoltà sensuali.
Il tavolino fu presto rimosso: la principessa colmò il principe di carezze: sembrava frenetica, una baccante.
Egli l'adorava, senza limiti, e la stringeva fra le sue braccia come una divinità.
Poeta, metteva in quell'amplesso tutta la poesia di cui era capace.
L'altra, di tratto in tratto, con la voce un po' rauca, che avea acquistato per gli eccessi della tavola, e forse per gli altri eccessi, frammezzava a quel delirio parole, che smorzavano ogni poesia.
Erano andati a sedere, o eran caduti su un sofà: la principessa tenea in mano la bionda e delicata testa del principe, la cui fisonomia era un po' sparuta per la notte passata al ballo e la veglia prolungata…
—Io voglio da te….—disse la principessa col suo solito tono imperioso.
—Di' pure,—mormorò il principe, che le ricingeva i fianchi robusti.
Ella avea fatto cadere artificiosamente a' suoi piedi i guarnelletti di trine: tutto ciò che le era d'impedimento al piacere.
—Voglio,—gli sospirò in un alito caldissimo di passione, che lo facea fremere,—voglio tu non viva più ozioso…. Io sono ambiziosa per te…. per me…. Non siamo abbastanza in alto: non abbiamo ancora abbastanza gli occhi di tutti su di noi.
Così parlava la donna più ammirata che avesse Napoli.
—Mi sembra,—rispose il principe drizzandosi,—che la nostra condizione sia tutt'altro che umile: sia piuttosto invidiabile…. Forse noi non conosciamo ancora dov'è propriamente la felicità, non sappiamo gustarla…. Se potessimo far un po' di solitudine intorno a noi, vivere l'uno per l'altro…. Tu mi parli d'ambizione?—io ne avrei una sola,—continuò il principe,—quella di avere dei figli, di educarli con te: di vivere insomma per la famiglia e nella famiglia….
Enrica alzò le spalle in atto di disdegno, anzi di sprezzo.
La luce del giorno entrava ormai nel salotto assai piena e si confondeva con quella che mandavano i lucignoli delle candele. Fra quelle due luci la fisonomia del principe appariva più disfatta; la sua gracilità, per la stanchezza, sembrava maggiore.
Invece la principessa, col suo roseo incarnato, con la forza delle sue linee, resisteva agli sbattimenti di quelle luci; la sua fisonomia, anzi che scomposta, era serena, riposata, come quella di un animale potente che ha soddisfatto una parte de' suoi appetiti.
—Non era questo l'uomo che ci voleva per me!—essa agitava in quel punto nella mente, guardando il principe.
E pensava ad un uomo, press'a poco come il guardacaccia, con cui avea un giorno sorpreso Cristina, senza vesti, nella stanza del castello sfarzosissima, ove i due si erano riparati.
Quella scena le tornava spesso alla mente.
—Ma parla pure…. ti ripeto,—bisbigliava il principe, baciandole la spalla, bianchissima, rimasta nuda, e appoggiandovi la testa….—parla delle tue ambizioni….
—Il mio desiderio,—replicò la principessa, pronunziando spiccatamente ogni parola,—sarebbe che tu ripigliassi la tua carriera: tornassi nella diplomazia…
—Sei stanca di Napoli?—domandò il principe, sorridendo.—Vuoi viaggiare, lasciar la tua bella casa?
—Oh, no,—aggiunse freddamente la moglie.—Io rimarrò a Napoli: tu partirai solo….
Il principe fu scosso da tale proposta.
Ella, dunque, benchè fossero sì giovani, e da sì poco tempo uniti in matrimonio, voleva già una separazione!
La libertà ch'egli le lasciava, non le sembrava sufficiente: voleva sciogliere anche quel leggerissimo freno, che per una donna civetta e sensuale può esser la presenza di un marito buono, confidente, molto cortese, ma non stupido.
Le parole della moglie dettero al principe nel cuore: non si poteva esprimere, con maggior indifferenza, la più assoluta disaffezione, la bramosia di sbarazzarsi di lui.
Tutta quella scena di amore, di frenetica passione, ella l'aveva simulata per indurlo a' suoi intenti.
E tale era stato il disegno di lei: nella ebbrezza, nello snervamento dei piaceri, strappargli una promessa.
Il principe era, come abbiamo detto, raffinatamente dissoluto. Guardò la moglie, e gli parve più bella, o più desiderabile, nella sua perfidia. Ella, con occhiate di fuoco, lo dardeggiava, accostava le labbra a quelle di lui, come se volesse dargli il premio della sua sottomissione, che già si aspettava. Nel protender le braccia, scoprì viepiù il suo seno eretto, marmoreo, e pur tutto palpitante, roseo, vivo nei suoi floridissimi turgori. Benchè sopraffatto da una certa languidezza, stanco, e benchè il consiglio impreveduto e crudele della moglie lo avesse moralmente abbattuto, ebbe un'idea da uomo dissipatissimo.
Enrica aspettava egli rispondesse alla sua proposta, e si aspettava una vittoria: a lui balenò un'idea di piacere, di vendetta. Ella voleva burlarsi di lui: egli si sarebbe burlato di lei, l'avrebbe spinta a un'altra delle sue scene di cortigiana, di finta, folle passione: l'avrebbe assaporata, goduta a tratti a tratti, poi le avrebbe riso in faccia: l'avrebbe forse schiaffeggiata, costretta a domandargli perdono in ginocchio, trascinata pe' capelli sul tappeto della stanza, se gliene fosse venuto talento.
Malgrado la sua delicatezza, la sua cortesia di gentiluomo, egli, eccitato dalla voluttà, dallo sdegno, avea compiuto con donne, di una specie differente, per tenore di vita, dalla principessa, simili atti brutali.
Ella ne dovea esser sorpresa.
Infatti, all'invito di lui, ella ricominciò il suo folleggiare: ricominciò il delirare, il fremere del suo bel corpo. Egli la premeva a sè: ebbe la forza di darle un ultimo bacio, e con esso le lanciò una parola di amaro vilipendio.
Essa lo guardò sorridente, come se quella bruttura non l'avesse offesa: al contrario, fosse per lei un acuimento di gaudio, uno stimolo nuovo.
Egli non sapeva comprendere. La perversità, la corruzione morale della moglie, da lui qualche volta appena subodorata, non gli s'era mai svelata come agli incerti albori di quel mattino.
La principessa, quando si furono ricomposti, tornò a dirgli, col suo tuono di voce più carezzevole:
—Dunque, mi esaudirai…. Tornerai a riprendere il tuo posto nella diplomazia…. E otterrai certo, subito, un'ambasciata…. Il Re è sempre così ben disposto verso di noi….
—Sicchè, io dovrei partire… separarmi da te….
—Io non potrei allontanarmi da Napoli… almeno per ora… forse in seguito…. Ma del mio sagrifizio nulla m'importa,—aggiungeva ipocritamente.—Il dolore del distacco mi sarà mitigato dal pensiero di veder appagato il mio sentimento più caro: l'ambizione ch'io nutro per te: il desiderio mio più forte, che è quello di vederti seguire la carriera a cui tuo padre ti avea sì amorevolmente avviato.
Il principe l'ascoltava, le scrutava in volto la sua doppiezza.
Ella, poco avveduta, volle tentare, vedendo che non rispondeva, un altro colpo.
—E poi,—soggiunse,—tu ti piegherai al mio consiglio, perchè nessuno più di me cerca il tuo bene e voglio almeno,—tornava al suo fare imperioso,—tu esperimenti di uscire dalla vita d'ozio che meni…. Tu mi dirai che vivi per me; ma ti par degno d'un uomo intelligente, che ha l'attitudine ad essere operoso nello cose più serie, più utili, il viver soltanto per l'amore?… Io sono felice, ma la mia felicità sarà certo più durevole, se non più grande, quando saprò d'esser la moglie di un uomo, il cui nome sia pronunziato da tutti con stima, benemerito del suo paese, e ogni cui atto sia osservato, discusso…. L'ozio può esser tollerabile in noi donne… che abbiamo tanto spinto di frivolezza per sostenerlo, e pur ci è causa spesso di tanto abbattimento, di prostrazione nell'animo, di confusione nell'intelletto; ma—proseguì un po' rudemente, e come se facesse la lezione a un fanciullo, a lei subordinato—non è tollerabile in un uomo d'onore.
E si ravviluppava nella pelliccia, e si appoggiava al dorso del canapè, stando quasi riversa, e guardando di sottecchi il principe, da cui attendeva ansiosa una risposta.
—Onore?… avete detto,—esclamò il principe, senza scomporsi.—Voi parlate d'onore?… Mi consigliate di partire: separarmi da voi, lasciarvi libera a' vostri capricci; e non vi basta quelli che ho sopportato fin ora? Io mi devo sottoporre come un fanciullo… lasciare la mia casa, esiliarmi da Napoli, perchè a voi piace così: perchè avete bisogno di sfogare, più che forse non fate, i vostri appetiti?… Tu hai un amante!…—aggiunse il principe furibondo,—per questo vuoi allontanarmi.
E la percosse nel volto molto forte.
Con la proposta di separazione l'avea irritato, ferito nel suo amor proprio, lasciato in balìa di tutte le più tristi, angoscianti supposizioni.
Enrica non era avvezza a vedersi così dominata da uomo di tal qualità.
Cominciò, secondo l'indole di certe donne, ad ammirare colui che mostrava di saperla soggiogare; che la superava nella forza del carattere e della volontà. Pure, siccome l'indole di certe donne è pur sempre la provocazione, mormorò, mentre si portava una mano al volto e facendo un gesto di sprezzo verso il marito:
—Facchino!
Quasi nel medesimo istante gli gettava in una guancia due grossi anelli, che si era in fretta cavati di dito: due forti proiettili.
Egli che era già vergognoso, quasi pentito dell'atto violento, e sentiva, come gli era avvenuto in altri simili casi, senza però correggersi, che poco si addiceva ad un gentiluomo, fu di nuovo punto, irritato.
Si slanciò sulla principessa; non volea darle più pace: ella resistette: fino a che egli, gettatala a terra, la trascinò pei capelli quasi per tutta la stanza.
L'energia, la fierezza da lui dimostrata gli cattivarono l'animo della moglie. Bellissima, supremamente elegante in ogni ragguaglio de' pochi abiti che avea ritenuto, si trascinava a' piedi di lui, implorava perdono, gli confessava perversamente di aver un amante, e che le era stato carissimo: che avea vagheggiato una separazione, cercato mezzo per avere la sua libertà: ma d'ora innanzi non avrebbe adorato che lui: lui, suo signore, suo sovrano, suo dominatore….
—Io non voglio sapere,—disse il principe, rialzandola e spingendola lontano da sè,—se abbiate o no un amante… siete così sciagurata che me ne direste anche il nome… perchè io lo cercassi, lo sfidassi… perchè un duello, forse, potrebbe rassicurarvi meglio che una separazione…. Ma io non voglio oggi scandali…. È un momento in cui Napoli non è occupata di alcun fatto serio, o frivolo, che dia buon alimento alle ciarle… Uno scandalo nella famiglia del principe di Caprenne sarebbe un boccone troppo ghiotto…. Io prenderò la vita del vostro amante e… la vostra… quando crederò opportuno…. Voi siete di quelle donne, le peggiori di tutte, che nulla può correggere…. Ricordate quanto io vi aveva saputo perdonare nel punto del nostro matrimonio…. Vi ho amato: forse, meglio, vi ho desiderato con furore. E voi, che ve n'eravate accorta, dopo avermi stillato fiamme, a poco a poco, nel cervello, nei sensi, n'avete approfittato per farmi una confessione, già sicura che io, invasato dalla mia passione, e ingannato dalle vostre lacrime, dal vostro pentimento, che pareva sincero, vi avrei assoluta….
Ella si era appoggiata col gomito a una delle estremità della mensola, in malachita, del caminetto, e agitava una gamba, il cui movimento, quasi febbrile, si vedeva sotto l'ampia pelliccia di martora, in cui si stringeva.
—D'ora innanzi,—riprese il principe,—noi vivremo assolutamente separati…. Cesserà fra noi ogni intimo rapporto…. Lascio a voi tutto il primo piano del palazzo: io abiterò al pian terreno…. Pranzeremo insieme: riceveremo insieme, qui al primo piano, le sere in cui diamo i nostri balli: vi accompagnerò io alle feste, a' teatri, alle passeggiate…. Vi lascerò qui tutta la massima libertà: e guai a voi, se ne abusate…. Così avrete la separazione invocata…. E questi miei ordini sono irrevocabili!—disse il principe con la più cupa risolutezza.
Enrica singhiozzava: questa volta sinceramente.
Volle accostarsi al principe: egli la respinse, e le disse:—Siete una donna molto triste e molto pericolosa…. Farete o avrete fatto molto male: ma ricordatevi che nel mondo vi sono compensazioni inevitabili: troverete chi saprà darvi il vostro castigo: non sempre s'incontrano vittime rassegnate.
Parve a Enrica, in quell'istante, veder affacciarsi dalla porta la pallida fisonomia di Roberto: e dette un grido.
Ma la porta era stata aperta e rinchiusa dal principe, ch'era uscito per andar a conferire col suo maggiordomo circa la nuova disposizione degli appartamenti, a cui cercava un pretesto.
Enrica, rimasta sola, si gettò sul sofà, la testa sprofondata in uno dei morbidi cuscini, e pianse. Non aveva mai pianto lacrime sì vere e sì abbondanti. Il cuore le diceva che quel distacco dal principe le sarebbe fatale: che lasciata padrona di sè avrebbe scivolato chi sa in quali abissi: e poi, ora che il principe l'abbandonava, essa, volubile, bizzarrissima, s'accendeva d'una folle passione per lui.
Morto il padre, abbandonata dal principe, si sentiva sola nel mondo: sola, se non co' suoi rimorsi, co' pensieri non lieti delle cose malvagie da lei poste in atto.
Col tempo, il ricordo di Roberto ch'ella credeva aver cancellato per sempre dal cuore, vi si ravvivava.
Provava spesso una inquietudine, una smania inesplicabili: non pigliava sonno, non trovava in nulla diletto: avea da opporre a tutto, da censurar tutto, profanava ciò ch'è più sacro, bruttava ciò ch'è più bello: la vita amarissima di chi ha trasgredito le grandi leggi morali, inviolabili della coscienza.
S'era fitta in capo un'idea sin da quella memorabil mattina: riconquistar la grazia del principe.
E, nel corso di anni, vi era riuscita. Il principe ormai la trattava con benevolenza paterna: con una affabilità indulgente e un po' motteggiatrice.
S'era formata fra loro come una certa tregua: vivevano abbastanza in pace: la principessa, tutta intesa al riconquistare; il principe sempre attento, perchè temeva d'insidie, e per provvedere, senza por tempo in mezzo, nel caso di pericoli.
In tale condizione noi li abbiamo trovati, insieme col nostro lettore, una mattina seduti a un tavolino, prendendo il tè, nel salotto della principessa.
Qual differenza tra questa mattina e l'altra da noi dianzi descritta! Allora il principe amava, stimava a bastanza la moglie: or non avea più per lei nè affetto, nè fiducia.
Anche il salotto non era lo stesso: quello ove si era svolta la disgustosissima scena era un salotto verde, con grandi fiori rossastri, nelle pareti, tappezzate di seta: questo era un salotto, in cui le pareti, i mobili, erano coperti di seta azzurra, splendente, con fiorellini bianchi, di mughetto, a rari intervalli.
La principessa, il principe si può dire vivessero ormai in ottimi rapporti, e quasi cordiali, siccome abbiamo avuto modo di rilevare dal dialogo riferito nel principio di questo capitolo.
Il principe scherzava volentieri nelle domande che faceva alla principessa sulle sue speciali occupazioni, sull'impiego della sua giornata, sulle persone, uomini e donne, che vedea più di frequente.
Anche la principessa scherzava nelle sue risposte, e talvolta nelle sue domande.
Ma, l'uno e l'altra, sempre in tuono assai dolce.
Dopo lo screzio con la moglie, il principe si era mostrato molto assiduo in casa della duchessa Rignatelli, giovane vedova, e dama della Regina.
Nell'alta società napoletana si raccontava che il principe avea un tempo fatto molto la corte a una zia della duchessa, bellissima donna, sebbene un po' matura, e che ora avea rivolto alla nipote i suoi omaggi.
Il carattere della giovane vedova era molto confacente a quello del principe.
Anch'essa era delicata, poetica, studiosa, musicista, innamorata d'ogni arte: e, malgrado la sua delicatezza, coraggiosa, anzi intrepida.
La relazione fra il principe e la gentildonna non era più un mistero per tutta Napoli; e naturalmente anche la principessa ne avea udito parlare, e sovente, e magari con esagerazioni, da' suoi corteggiatori.
Ella avea ben capito fin dalle prime che fra quei due, sì affini nella bontà della indole, nella elevatezza degli ideali, vi dovea essere una corrispondenza di animi, profonda, esaltata.
Siccome era fierissima, non avea mai voluto mostrarsene gelosa.
Ricevea la duchessa, le rendea puntualmente le sue visite, l'abbracciava, la baciava al cospetto delle amiche; con ciò intendeva gratuirsi il principe.
Egli non avrebbe tollerato, con la singolar buona fede la quale è in ogni uomo, che la moglie facesse ciò che egli pur faceva senza molto ritegno: ed era pronto a punire ogni scandalo, anche col più grave rischio della sua vita.
La principessa lo sapeva: e adoperava molta prudenza.
In casa della duchessa il principe passava la miglior parte delle sue giornate, o delle sue serate. Leggevano insieme: insieme parlavano, discutevano, si eccitavano, a proposito d'un quadro, di una statua, dello spettacolo del San Carlo, della commedia nuova, udita la sera innanzi: insieme entravano nei comitati di carità: e tutti dicevano ch'era un peccato non si fossero conosciuti prima, e non si fossero sposati: perchè avrebbero formato una coppia davvero felice. Erano fatti l'uno per l'altro: questo pensavano tutti.
—Come sta Luisa?—domandò placidamente quella mattina la principessa al marito: e alludeva alla duchessa.—È un pezzo che non la vedete?—aggiunse con sguardi molto maliziosi.
—L'ho veduta iersera,—disse con molta franchezza il principe,—e la rivedrò oggi, per un affare assai importante…. Essa sta benissimo…. E anche ieri mi ha domandato di voi….
—È una cara creatura!…—interruppe Enrica con piglio distratto.
—Vi ricordate, Enrica,—osservò il principe,—di una brutta scena, avvenuta fra noi, anni or sono, in quel salotto… là….—E il principe si rannuvolò un poco.
—Mi ricordo benissimo della vostra ferocia!…—Ed Enrica si era alzata per accostarsi al principe, che le fece cenno tornasse al suo posto.
—E bene… voi volevate allora ch'io tornassi nella diplomazia…. Io vidi in questa proposta un sentimento di slealtà… scusate…. Oggi sono risoluto di far ciò che voi mi consigliavate allora… dopo tanti anni, ho ricevuto di nuovo questo consiglio….
—Chi ve l'ha dato?… la duchessa, eh?…
—Appunto,—ribattè freddamente il principe,—la vostra amica Luisa…. Ho accettato dopo tanti anni il consiglio, poichè oggi le condizioni del mondo sono assolutamente mutate…. E che cambiamenti ancora avverranno!
Enrica gongolava: era essa, che aveva sobillato con abilità la duchessa per mezzo di un'altra sua amica a indurre il principe a partire.
—Poveri uomini!—pensava, guardando il principe di Caprenne:—come siete fanciulli, e che docili strumenti siete nelle nostre mani!
—Partirete presto?—chiese Enrica, la quale facea ogni sforzo per rattenere un accento d'ironia.
—Assai presto….
—Anche questa duchessa,—diceva fra sè Enrica, m'ha servito a qualche —cosa…. Uomini, donne, sono tutti, almeno furono sin ad ora, —strumenti della mia volontà!
Enrica andava ben lungi dal vero, attribuendo alla sua scaltrezza la nuova determinazione presa dal marito. La sua influenza su di esso era stata ben debole. Ma ne spiegheremo la cagione. In casa della duchessa si raccogliea il fiore de' liberali napoletani. I più arditi erano nell'esilio o nelle prigioni: restavano uomini temperati, prudenti, se non eroici, a tener vive certe idee.
La duchessa avea avuto nella sua famiglia due parenti malvisi al governo dispotico per la generosità dei loro sentimenti di patrioti: e, benchè dama della Regina, non sdegnava che si discutessero al suo cospetto certe idee: anzi, del suo grado si era valsa più volte a mitigare le persecuzioni contro alcuni.
L'idea che si discuteva spesso tra' più fidi, nelle conversazioni della duchessa, era quella di un'Italia unita, o sotto un re, o a repubblica: e c'era perfino fra quei gentiluomini, e fra' non meno sapienti, chi vagheggiava una gran repubblica federale.
Il principe partecipava sempre a que' colloqui.
Una sera il gruppo degli amici della duchessa, formato da una ventina degli uomini più geniali di Napoli, era quasi tutto riunito nel salotto di lei.
Il discorso era caduto sui soliti argomenti.
—Noi abbiamo un torto,—disse uno fra loro, uno tra' più gran signori napoletani,—quello di tenerci troppo in disparte…. Perchè non cerchiamo d'aver mano negli affari del nostro paese?… Noi tutti ci sentiamo italiani e vogliamo che il concetto della nazione unita, forte, agguerrita contro tutti i suoi nemici, trionfi…. Credete che non si possa servire alla nostra causa, negli uffici della Corte, nelle alte cariche del Governo, nella diplomazia, quanto negli esilii e nelle prigioni?… I nostri cari martiri debbono esserci veneratissimi: dobbiamo ripensar sempre a coloro che soffrono per ciò che noi vogliamo: questo servirà sempre a temprarci il carattere…. ma, se noi non abbiamo la virtù d'incontrar il martirio, abbiamo almeno l'avvedutezza di operare secondo le nostre forze…. Non gioveremo meno….
Concordarono dunque di operare.
La duchessa li incoraggiava col suo dolcissimo sorriso.
Si spartirono gli uffici che aveano a cercar d'occupare.
Il principe affermò che sarebbe tornato di buon animo alla diplomazia.
Ripugnante dal tornarvi per sodisfar un capriccio della moglie, si esiliava, quasi lieto, da Napoli per compier un dovere.
La poetica affezione, ch'egli nutriva per la duchessa, lo avvalorava ne' suoi proponimenti. Sapeva quanto il sagrifizio lo avrebbe nobilitato agli occhi di lei.
Ed Enrica? Essa, dopo un'affannosa ammirazione per il marito, era tornata alla sua vita indolente, bizzarra, irrequieta.
Di lei già si mormorava molto alla Corte: si buccinava tentasse la conquista del Re. Tutta Napoli ripetea questa voce, giustificata da qualche favore regale.
Superfluo dire che nessuno ne avea mai parlato al principe di Caprenne. Egli, alcuni mesi dopo la deliberazione presa in casa della duchessa, fu inviato ambasciatore presso una grande potenza.
Il posto era atto ai meriti del principe, ma importantissimo, desiderato quindi da molti: e si levò gran clamore, per questa nomina, che suscitò tutte le insidie. Subito fu ripetuto nei circoli dei salotti di Napoli: ne' crocchi de' maligni:
—Il Re si è voluto sbarazzar del marito…. L'ambasciata è un discreto compenso all'esilio da Napoli.
Invece il principe partiva col più alto concetto.
—Fra quaranta, cinquant'anni,—egli avea detto a' suoi amici,—il concetto che c'ispira sarà attuato: per quello che io intendo nella storia, nella ragione di Stato, e che posso inferirne, fra quaranta, cinquant'anni, l'Italia sarà unita dalle alpi al mare…. Dedichiamo la vita a uno scopo tanto sublime…. Noi non lo vedremo effettuato…. forse: ma l'incessante pensiero di esso ci avrà sostenuto, ci avrà nobilitato la vita, consolato di molte afflizioni, sollevato su molte frivolezze….
Con tali concetti egli partiva, ma non veniva a svelarli alla moglie, che sapea non avrebbe potuto intenderli, nè forse li avrebbe tenuti segreti.
Egli si accingeva a un'opera molto ardua: compiere una missione liberale, nella qualità di rappresentante di un despota, e d'uno di que' despoti che, nel nostro secolo, un uomo illustre per ingegno e scienza di Stato chiamò: negazione di Dio!
Il principe era venuto a dar alla moglie l'annunzio della sua vicina partenza, a darle le sue istruzioni, contenute in poche e fredde parole.
La principessa non riuscì del tutto a nasconder la sua gioia.
Essa veramente aspirava a avere alla Corte un posto più ragguardevole, una maggior considerazione; glielo assicurava ora il suo grado d'ambasciatrice. Le piaceva mostrarsi vicina al Re: tendeva a impadronirsi del cuore di lui, e si vedrà quanto ciò dovea costarle. Nel parlare col principe, già s'inebriava della sua appagata ambizione. Nè al principe sfuggiva l'esaltamento di lei. Egli le avea ripetuto le istruzioni datele qualche anno innanzi, allorchè, appunto a causa del suo ritorno nella diplomazia, era sorto fra loro sì vivo dissapore.
Ma il colloquio tra marito e moglie, che procedeva affabile, in forma molto cortese, tutti e due ritenendo ciascuno in sè la parte più viva de' loro sentimenti, fu interrotto.
Un servo bussava alla porta.
—Entrate!—disse la principessa.
Il servo annunzio che una donna domandava di S. E. la principessa.
Enrica subito impallidì.
—Fatela passare nella sala dove ricevo,—rispose la principessa molto turbata.
Poi, come pentendosi, aggiunse:
—No: no: che aspetti nell'anticamera.
Il principe capì che c'era qualche cosa di tenebroso: qualche cosa, per lo meno, che a lui si voleva tener celato.
Si alzò, un po' rigido, dicendo alla moglie:
—Se me lo permettete, tornerò a farvi una visita stasera—e si accomiatò molto cerimonioso.
Nell'anticamera si abbattè in una donna alta, magrissima, che portava un fitto velo sul volto, e che era vestita molto dimessa e di panni molto scuri: a guardarla, potea sembrare una di quelle squallide beghine, che frequentano sempre le chiese per domandarvi elemosine: e potea pur sembrare qualche cosa di peggio.
—Che può aver che fare mia moglie con donne di tal genere,—pensò il principe,—e a quest'ora?
Non volle però spinger oltre le sue investigazioni.
Enrica, uscito il principe, avea preso un albo, e mostrava di gettarvi gli occhi, di sfogliarlo, tanto perchè il servitore, che dovea lì accompagnare la donna, la trovasse, in apparenza, indifferente.
Quando il servitore ebbe richiuso l'uscio, la donna, sopravvenuta, senza mettersi a sedere, e senza che la principessa ve l'invitasse, alzò il velo, e apparve la sua faccia scialba, giallastra, ossuta com'era tutta la sua persona.
La principessa, senza neppur guardarla, poichè, al solo annunzio e alla fisonomia del servitore, avea indovinato chi era, gettando l'albo lontano da sè, in modo che infranse una graziosa statuetta di Sassonia, cominciò ad inveire in tuono di voce sommesso, ma terribile:
—Da quando sei arrivata a Napoli?… Ti avevo detto di non metter mai più qui il piede…. Non sono venuta io in tutti i tuguri, in tutte le straducole ove t'è piaciuto darmi appuntamenti?
—Mi era impossibile d'aspettare, però son venuta a vedervi…. Un tempo non eravate così sdegnosa verso di me…. Ora mi scaccereste volentieri…. se poteste: un tempo non sapevate stare senza di me. A chi avete confidato tutti i vostri segreti? E chi ve li ha custoditi con più gelosia?… Riflettete bene: quanto siete ingrata!
E la donna sedette con molta familiarità su una poltrona di raso, color crema. E la stoffa nitida, splendidissima, facea singolar contrasto con quella sì misera e frusta dell'abito di lei.
In questa donna, che parlava con tal burbanza alla principessa, il lettore avrà facilmente riconosciuto Cristina Braco.
Enrica avea creduto operar con avvedutezza, licenziandola dal suo servizio non sì tosto furon fissate le nozze fra il principe Gorreso di Caprenne e lei. Le dette una ragguardevolissima somma, e le raccomandò di nuovo la bambina, ch'ella credeva avesse sempre in custodia.
Per un pezzo, Enrica non vide più Cristina: un giorno la incontrò di nuovo nel parco di Mondrone.
—Che fai tu qui?—le domandò altezzosa la principessa.
—Sono al servizio dell'abate Perricone,—rispose l'altra con protervia.
L'abate Perricone era il prete che officiava nella cappella del parco, e che reggea la parrocchia di Mondrone con virtù esemplare.
Cristina avea facilmente acquistato molto dominio sull'animo del vecchio, quasi decrepito sacerdote, staccato da ogni interesse mondano: lieto che altri, di volontà risoluta, assumesse per lui tutte le cure materiali della sua casa.
Un altro motivo avea spinto Cristina a tornare in que' dintorni: il desiderio di star vicino al bel guardacaccia ch'ella amava sempre, con tarda, ma pur ostinata e infuocata passione.
Cristina sfaccendava, comandava, disponeva tutto a suo talento nel presbitero. Un giorno d'estate, nel pomeriggio, per distrarsi dal gran caldo che l'opprimeva, era salita nell'archivio della parrocchia, una stanzetta che dava in una corticella quasi scura, e sempre riparata dal sole.
S'era messa a spolverar le filze di carte, poi a leggiucchiare qua e là certi documenti: battesimi, matrimoni, atti di morte di persone da lei conosciute.
A un tratto il suo volto s'illuminò di un sorriso sinistro; torse la sua larga bocca, dalle labbra pendenti, ad un ghigno: avea letto i nomi di Enrica e di Roberto…. la ragguagliata dichiarazione del loro matrimonio.
Ah, essi gliene aveano fatto un mistero!
E Cristina rimise al posto la filza, sicura che avrebbe sempre potuto prendere quel documento, allorchè le fosse occorso.
Pensò poi aggiungerne un altro che sarebbe stato prezioso: l'atto di nascita della bambina, appartenente a Enrica e a Roberto.
Una sera, dopo che il vecchio prete ebbe finito la sua parca cena, gettò un'occhiata su Cristina, cosa che facea ben di vado.
Gli parve un po' turbata, e si accorse che cercava ogni pretesto, raccogliendo or un oggetto, or un altro, sulla tavola per non allontanarsi da lui.
—Che avete stasera?—le domandò il brav'uomo.
Ella rispose con uno scoppio di pianto.
Avea imparato da Enrica il segreto del piangere a suo grado.
Si buttò in ginocchio a' piedi del prete: gli disse, singhiozzando, che ella avea sull'animo un gran peso.
Il buon prete si lasciava commuovere.
—Sei tu dunque caduta in un fallo molto grave?—la richiese quasi paternamente.
—Oh, io credo aver partecipato a un delitto!…
Il vecchio rimase esterrefatto. Avea nella sua casa, una delinquente!
Si alzò come se volesse evitarne il contatto.
Ella si trascinava carponi dietro a lui, supplicandolo ad ascoltarla: il rimorso la divorava,—così diceva,—le urgeva da lui un consiglio.
E gli raccontò il fatto della bambina. Ella vi sosteneva un'ottima parte; non già di suggeritrice, di complice, ma di vittima: i signori comandano, bisogna obbedire,—essa diceva,—o altrimenti restar senza pane. Avea pagato con sì lungo pentimento e con sì forti rimorsi questa sua cieca obbedienza! E la persona, per la quale avea rischiato la salute dell'anima, come l'avea compensata? Cacciandola dal suo servizio!
Tacque della fine che avea fatto la bambina: aggiungendo, con arte, che a lei era stato tolto di poter investigare ciò che ne fosse avvenuto.
Il parroco la racconsolò; ella non avea fatto ciò per lucro….
—Questo no, davvero!…—interrompeva Cristina.
Era stata spinta a operar in quel modo dalla volontà de' suoi padroni; essi ne sarebbero dinanzi a Dio mallevadori…. La sincerità del pentimento che vedea in lei essergli garanzia che il cielo già le avea perdonato….
Poi Cristina si accorse che il prete, com'ella aveva voluto, stendeva dichiarazione della nascita della bambina, notando il giorno e l'ora, e affermandola nata dalla duchessa Enrica, e da Roberto Jannacone.
Il prete avea gran soggezione d'Enrica e ricavava da lei vistoso utile, in proporzione de' suoi desiderii: però ammonì Cristina di tener in sè ormai questo segreto: di non ne far motto sin che vivesse. Nella divulgazione dello scandalo sarebbe stato il massimo peccato.
E il vecchio sacerdote si assorse in preghiera, nel riflettere a' guai del mondo, a' castighi, che, presto o tardi, trae con sè la sfrenatezza delle passioni.
Pensava a Roberto, in fondo a un durissimo carcere; a Enrica, tutt'altro che felice, poichè egli le leggeva bene nell'animo, e immaginava i tormenti a cui dovea essere in preda pel timore che qualche cosa del suo passato trapelasse.
Roberto era morto civilmente per la sua condanna a vita, ed egli pensava che la duchessa, giovanissima, avesse avuto bene il diritto di contrarre un regolare matrimonio.
Del resto l'abate si rimetteva a ciò che avean fatto i suoi predecessori.
Si era pur chiesto in cuor suo, che sarà avvenuto della bambina?
Non nutriva risentimento contro Enrica: dovea ammettere ch'avesse confessato tutto al principe e ch'egli le avesse perdonato.
E, infatti, come abbiamo rilevato da un dialogo fra il principe e Enrica, essa gli avea tocco di un certo trascorso della sua prima giovinezza, ed egli, nel bollore del suo farnetico per lei, l'avea assoluta…. Ma la confessione consisteva in una storiella romantica, quasi anodina, ch'ogni uomo di cuore, innamorato, o meglio appassionato, e senza pregiudizi, avrebbe perdonato di leggeri.
Cristina Braco era ormai l'arbitra del segreto: la sola persona che pensasse a sfruttarlo, e arditamente. I due documenti, che si serbavano nel presbitero, caduti in sua mano, erano armi terribili.
Enrica non respirava più. Le esigenze di questa donna abietta andavano sempre aumentando.
Essa era nata d'una famiglia di contadini, molto numerosa e povera, sebbene un tempo avessero avuto terre del loro e menato vita prospera.
Volea, prima di tutto, che la sua famiglia rifiorisse nell'antico stato: poi ella stessa, serbando apparenze di umiltà, volea vivere in lusso; non basta: essa provvedeva al bel guardacaccia, alla famiglia di lui, che profittava, senza rammarico, di quelle lautezze offertele solo perchè un de' suoi sapea tener vivo, inattutito un amor di donna assai attempata.
Nel vedersi comparir dinanzi Cristina un'altra volta, e con quella improntitudine, dopo che l'avea largamente sovvenuta due giorni innanzi, Enrica perdette la pazienza.
—Sta bene—disse—ch'io ho ordinato a' miei servitori di non scacciarti, quando ti presenti; ma tu abusi…. Vieni qui in ore insolite; non ti dai neppur la pena di vestir un abito che possa illudere sulla tua condizione: non hai neppure il pensiero di fingerti una sarta, una pettinatrice, una maestra di ballo, o di musica, che venga a darmi lezioni…. No: entri qui: vieni, vai, come se tu fossi in casa tua: come se tu studiassi ogni mezzo per compromettermi….
—La bambina è malata….—interruppe Cristina con la sua solita menzogna, poichè non avea ancor scoperto il vero ad Enrica, ma si preparava a svelarglielo,—e di una malattia che sembra mortale…. Ci vogliono molte spese: la gente che l'ha in custodia, sono gente poverissima, come vi ho detto altre volte, sono tutti occupati ad assisterla, trascurano le proprie faccende, non hanno pane…. E io? io ho bisogno da voi del massimo favore…. Mi è capitato di ricomprare alcuni campicelli, già appartenuti al mio povero babbo, morto pazzo pel dolore, dacchè glieli tolsero…. Mi occorrono quindicimila lire….
—E ne hai avute già, entro due settimane, ottomila.
—Sono le ultime, che vi domando…. salvo urgenti bisogni.
—È impossibile!—esclamò Enrica.—Non ho tutto questo danaro a mia disposizione: ti ho dato in undici anni vesti, denari, oggetti d'ogni specie per un immenso valore…. E tu abusi, abusi sempre di me…. sei sempre più povera…. a ascoltarti! Che hai fatto per gettar via tutto questo denaro?
—Non ho bisogno di rendervene conto!—rispose asciutta Cristina.
Così la principessa si vedeva trattata dalla sua antica cameriera.
Volea darle uno schiaffo, gettarle in viso il bicchier d'argento, ch'avea vicino, ma si ritenne. Cristina, la sua antica compagna e consigliera di dissolutezze, la sua maestra e complice di piaceri, serbava sempre un grande imperio su di essa.
Costei e il marito, dopo la scena di collera avvenuta tra loro ne' primordii del matrimonio, eran le sole persone a cui non osasse apertamente ribellarsi.
—Non ti darò un picciolo!—le disse, digrignando i denti e battendo i pugni sul tavolino.
Non osò fare, o proferire di più.
—Non tollero d'essere insultata!—riprese Cristina; e si alzò dignitosa, stecchita, avviandosi verso la porta.
La principessa volea richiamarla, ma il suo orgoglio la vinse: erano due caparbietà, due cupidigie, l'una di piaceri, l'altra di denaro e di dissolutezza, che si urtavano insieme.
Enrica sapeva ch'ella doveva soccombere anche in quel frangente: dovea cedere come v'era stata costretta altre volte.
Cristina era scomparsa: e, per varie ore, la principessa stette ad aspettare qual nuovo, crudele espediente avrebbe posto in opera per astringerla a sottomettersi al suo nuovo ricatto.
Verso le quattro del pomeriggio, mentre la principessa scendeva le scale del suo palazzo, tutta sfarzosamente abbigliata, per andare alla riviera di Chiaia s'accorse che un groom le presentava una lettera su un vassoio d'argento.
Essa prese la lettera, senza guardarla, entrò in carrozza e, allorchè i cavalli si furono mossi, ruppe la busta.
Subito fu colta da una grande indignazione, da un indicibile terrore.
Era una lettera scritta da Cristina, ma essa avea del tutto contrafatto la sua calligrafia in modo che non fosse da alcuno riconoscibile.
Ed ecco la lettera:
"La persona, che ha avuto l'onore d'invitare stamani V. S. a incominciar la giornata con un'opera buona, e che n'ebbe una ripulsa sì dura, vuol tentare ancora la generosità d'animo, che altre volte ha sperimentato in V. S. C'è in Napoli una gran dama, la quale si trova in un bruttissimo caso: un caso di bigamia. Essa avrebbe due mariti: uno nell'ergastolo, condannato per assassinio: l'altro…. ambasciatore. V'è una creatura, bisognosa di denaro, ridotta alla disperazione, che vorrebbe sfruttare questo segreto. Ci sarebbe da far un bel chiasso nella stampa europea, se la gran dama fosse citata in giudizio: e se il fatto soltanto si propalasse. Compiendo l'opera buona, consigliata stamani a V. S. dalla persona che accoglieste sì duramente, lo scandalo sarebbe evitato, e la gran dama, vostra intima amica, sarebbe salva.
"La infelice creatura, per la quale supplico V. E. è in possesso di due documenti: uno de' quali prova il matrimonio della gran dama con l'assassino: e l'altro che la gran dama avea avuto da esso, prima di sposare l'ambasciatore, una bambina, che ha sempre nascosto a tutti, anche al povero padre, facendola trafugare…."
E mentre nel suo coupé, foderato di velluto nero, circondato di limpidi cristalli, tutti chiusi in quel punto, da' tre lati, la principessa leggeva quell'immondo pezzo di carta, passavano in altri coupés le sue amiche, tutte elegantissime, raggianti, e avveniva un vivace scambio di saluti con le dita inguantate, e di sorrisi.
Che distanza dal mondo in cui viveva a quello in cui avrebbe potuto precipitare!
Da un lato, essa era legata con le più nobili famiglie, con la più pura aristocrazia napoletana: avea aderenze e splendeva alla Corte: dall'altro lato erano i suoi vincoli con un uomo condannato per assassinio, eran le sue calunnie, le sue false delazioni, le sue perfidie, le sue intime relazioni con una donna di basso affare, la quale poteva a sua posta disporre dell'avvenire di lei. In tale stato pieno di angustie l'avea gettata la assoluta mancanza di coscienza.
Il contrasto, che era fra le due parti della sua vita, la turbava, mentre, tenendo in mano quella lettera, passava per le più belle strade di Napoli, e ogni tanto alzava il capo, sorrideva, per rispondere ai sorrisi che le inviavano le gentildonne sue amiche da' loro equipaggi, a saluti ossequiosi fattile da' molti signori, ch'ella man mano veniva incontrando.
Nella lettera v'era anche un poscritto e il poscritto diceva:
"Si vuoi risparmiare a S. E. la fatica d'una lunga risposta. Oggi stesso V. E. giungendo a Mergellina vedrà una mendicante avvicinarsi alla sua carrozza. V. E. potrà scambiar due parole con questa mendicante: e dirle come la persona, la quale ora scrive, potrà ottenere quanto domanda, a evitare scandali, che sarebbero per tutti spiacevolissimi."
In questa lettera c'erano intere la crudele ipocrisia, la maligna ironia di Cristina: le qualità in cui essa era stata maestra ad Enrica.
La principessa fremeva di sdegno: le sue belle labbra eran tremanti.
Riflettè un poco: quindi dette un ordine al cocchiere e si raccolse, tutta pensosa, in un canto del coupé, tenendo sempre in mano la lettera.
Il coupé si fermava a Mergellina. La principessa si scosse: fin allora era rimasta talmente assorta nei suoi pensieri da non veder nulla intorno a sè: da non aver più neppure la sensazione del movimento che facea la carrozza.
Una mendicante si accostò subito alla portiera sinistra: la principessa si tolse dalla cintura un borsello di seta rossa, con ghiande d'oro, ne cavò alcune piccole monete e ponendole nella mano della mendicante, le bisbigliò:
—Tra quattro giorni, la mattina, alle sette, in questo punto: io sarò a piedi: la carrozza mi seguiterà a una certa distanza: tu mostrerai offrirmi de' fiori.
La principessa avea pronunziato tali parole, con gesti, con sguardi, con un'intonazione come se la donna che le era dinanzi avesse dovuto, da un istante all'altro, esser annichilita dalla sua collera.
La mendicante si allontanò, con la rapidità d'un trar di sasso: forse anch'ella era aspettata da una carrozza ove entrava in gran fretta.
Superfluo dire al lettore che colei, la quale avea preso abiti e fisonomia di mendicante, non era altri che Cristina.
Mentre risaliva nella carrozza, un riso diabolico scontorceva la sua larga bocca.
Ma ora ad un altro personaggio.
Si era, da poco, stabilito in Napoli un banchiere americano. Egli vi faceva grandissimi affari: si occupava del commercio marittimo: imprendeva esportazioni, a quel tempo, da nessun altro tentate. L'oro riempiva i suoi forzieri: gli si attribuivano ricchezze favolose. L'aristocrazia napoletana lo avea accolto benissimo: e, a poco a poco, egli n'era divenuto quasi il beniamino. Avea saputo render abilmente grandi servizi a tre o quattro persone, che l'aveano pagato col fargli strada nel bel mondo.
L'avventuriere americano si chiamava Gustavo Weill-Myot. Era di grande ingegno, di molta versatilità, d'una eleganza irreprensibile, era piacevole e bell'uomo.
La principessa lo conobbe subito: lo invitò, lo attirò a sè: egli se ne invaghì: fece a causa di essa qualche follia; ma per un capriccio inesplicabile in lei, trattandosi d'uomo sì appariscente, e che tanto piaceva alle altre femmine, ella non volle mai corrispondergli. Espansiva, festosa, gaissima con lui, nella conversazione ordinaria, egli la trovava di ghiaccio, impenetrabile, allorchè volea entrare in più intimo argomento.
L'americano meravigliava Napoli con la bellezza de' suoi cavalli, de' suoi equipaggi, con la prodigalità delle sue munificenze. Avea pensato dar una festa a tutta l'aristocrazia napoletana nello splendido palazzo, che abitava in Bisignano.
Avea avuto promessa che tutti vi sarebbero accorsi: era certo di accogliere nelle sue sale il fiore della bella società di Napoli.
Molti gentiluomini, molte signore l'aveano anzi pregato di scegliere una tale occasione per far vedere lo sfarzo, la ricchezza, squisitamente artistica, de' suoi appartamenti.
Ma egli era scapolo: come invitare tante signore?
Gli aveano suggerito: desse un ballo di beneficenza: un comitato di signore avrebbe fatto gl'inviti. Ciò non appagava la sua vanità.
Gli ripugnava che la gente potesse entrare nelle sue stanze, pagando quindici, venti, trenta lire: che la sua casa doventasse come una locanda, un café-chantant: o quasi uno di que' locali, che si prestano, o si affittano ad ogni occorrenza di feste, di ricreazioni.
Ciò era buono per gli arricchiti di seconda mano, per gli avari fastosi, che, ad ogni costo, voglion vedere un gran signore, una gran signora varcar la soglia delle loro porte.
Le sue ambizioni eran più alte: egli non era uomo da contentarsi di piccoli espedienti.
Se il ballo di beneficenza, dato nelle sue sale, avesse potuto fruttare, poniamo, diecimila lire, egli era pronto a darne anche trentamila per quello scopo che gli fosse designato. Ma non voleva che altri venissero a far l'elemosina in casa sua.
Fu trovato un altro mezzo. Enrica avrebbe diramato gl'inviti.
E, pochi giorni appresso, tutti i conoscenti di Enrica e del
Weill-Myot ricevettero un cartoncino litografato. La principessa
Gorreso di Caprenne e il signor Weill-Myot invitavano, ecc., ecc., a
far loro l'onore di passar la serata…. (e qui la data) nel palazzo
Weill-Myot.
Ci fu un po' di rumore, vi furono ciarle, pettegolezzi per questa specie d'invito: ma la sera del ballo può dirsi non mancasse uno de' cinquecento invitati.
Enrica, in abito bianco semplicissimo, senza un gioiello, facea gli onori della festa.
Le magnificenze della festa furono indescrivibili. Una ventina di sale, tutte aperte agl'invitati: da una sala turca essi passavano a una sala pompeiana, da una sala egiziana a una sala nel più puro stile del XV secolo, fiorentino: e per tutto quadri, statue, oro; forse troppo oro. Tutto un appartamento era alla foggia russa, con i suoi iconi, la abbondanza di fiori da serra: un altro rappresentava una casa romana, sotto l'Impero; statuette, idoli, gioielli, utensili domestici, tutto era autentico: un tesoro.
La sala da ballo, alle pareti e nel soffitto, era tutta ricoperta di camelie, tramezzate dalle loro foglie: un'idea vaghissima e dell'effetto più delicato.
Le lautezze del buffet nulla lasciarono da desiderare a' più esigenti.
Nella vastissima sala, si vedevano grandi piante, come banani, ananassi, palme, cariche dei loro bei frutti: portate e accomodate lì col più grande dispendio.
A un gruppo di signore, riparate sotto una specie di chiosco, tutto formato di rarissimi fiori scarlatti, nel fondo d'una splendida galleria, in mezzo al qual gruppo sedea la principessa, fu servito un fagiano su un piatto d'oro, cesellato, di cui due servitori appena poteano sostenere il peso.
Il bel mondo napoletano avea un po' mormorato della stranezza di Enrica nel farsi patrona di questa festa; nell'entrare ella sì giovane, sì bella, e in assenza del marito, qual signora assoluta in casa d'uno scapolo; ma Enrica sapea farsi tutto perdonare con la sua sottile ipocrisia.
E, allorchè, due giorni dopo il ballo, si seppe che il signor Weill-Myot avea elargito trentamila lire: e il modo ingegnoso ond'erano state largite, venendo in aiuto a vere, profonde sventure, cessarono tutte le mormorazioni: ed anzi Enrica fa lodata.
Non si creda che tutto fosse disinteresse, o vi fosse soltanto stranezza, nella condotta di Enrica verso il banchiere.
Dacchè Enrica avea sposato il principe di Caprenne, egli, dopo la morte del duca di Mondrone, padre di lei, le avea lasciato la libera amministrazione di tutti i suoi beni.
Al principe il duca avea fatto un lascito tutto speciale, e come un ricordo personale gli avea legato la stupenda tenuta di Battifolli, computata a lire seicentomila.
L'avvocato del duca, Francesco Costella, che abbiamo già conosciuto, affermava che il duca avea lasciato al genero circa la quarta parte del suo patrimonio, ch'era quasi tutto in terre, avendo già scorto le tendenze di Enrica al dissipare, e non volendola contristare col toglierle una maggior parte de' beni.
Enrica, non cupida, pianto il padre, che amava sinceramente, fu lieta del lascito ch'egli avea fatto al marito, stimandolo un nuovo legame fra loro: un eccitamento al principe di essere benevolo verso di lei.
Ma il principe indulgente, un po' indolente, gaio, era pur capace di grande severità, serbava intatti i suoi sentimenti d'uomo d'onore.
Da quattro anni, cioè dacchè il principe, diventato ambasciatore, stava lontano da Napoli, Enrica avea più che raddoppiato le spese della sua casa. Essa spendeva oltre le sue rendite: la gente, mal sicura, o non pratica, di cui si serviva per amministrare, era già costretta a mettere in opera ripieghi.
Il principe, sulle prime, avea chiesto qualche congedo: ma, da due anni, non era più tornato a Napoli.
Enrica si faceva vedere spesso alla Corte: il Re le parlava molto familiarmente: un ufficiale delle guardie reali, appartenente all'aristocrazia napoletana, pranzando un giorno in campagna, nella villa di sua sorella, maritata al conte di L…., eccitato un po' dal vino, dal buon pranzo, avea confidato alla contessa d'aver veduto uscire una mattina di buon ora la principessa di Caprenne dagli appartamenti del Re, vestita come una semplice modista, e il Re stesso le avea aperto la porta di una scaletta segreta.
L'ufficiale si pentì presto di ciò ch'avea detto, tanto più che la donna da lui vista fosse la principessa non era ben sicuro: tornò alla sorella, la supplicò non ne parlasse ad alcuno: essa gli giurò di tenere il silenzio, ma disse il fatto soltanto a una sua cognata, che lo riferì soltanto a sua suocera: la duchessa d'I., che non potè stare senz'informarne alcune delle sue vecchie conoscenze.
La notizia corse dai salotti nelle anticamere, dalle anticamere nelle botteghe: in breve, volò sul labbro di tutti.
Si dipingeva il principe per un marito compiacente: un uomo nullo, ma ambizioso, assetato di onori: che abbandonava la propria moglie perchè ella potesse dar prova di devozione al Sovrano: ed egli avvantaggiarsene.
Così, per leggerezza della moglie, una taccia d'infamia si apponeva al nome del principe.
Egli avea i suoi difensori, ma più, com'abbiamo già detto, i suoi denigratori: gli emuli, gl'invidiosi: coloro, che son sempre avidi, magari per ozio, di sfruttare, propalare una calunnia.
Enrica diveniva così sempre più oggetto di curiosità. Per tutto ove andava, raddoppiava l'attenzione verso di lei: i suoi ricevimenti erano sempre più frequentati.
Ella sfoggiava un lusso, da anni, si diceva, non veduto in Napoli: gareggiava con la Sovrana. Avea attorno un nugolo di parassiti. La sua casa pareva una seconda Corte.
Senza attitudine ad amministrare, senza discernimento a scegliere chi dovea per lei curar i suoi affari, assottigliava il suo patrimonio in modo vistoso. Tra le rapine e le spese favolose, si trovava già, ripetiamo, molto imbarazzata.
A chi ricorrere?
Ella avea un giorno visitato la Banca del Weill-Myot: costui le avea fatto una mostra studiata e abbagliante delle sue ricchezze, della sua potenza commerciale.
Le avea fatto vedere in una cassaforte due milioni in oro, un milione in titoli.
Ciò indicava davvero la sua forza, il suo credito.
—Domani,—le avea detto,—questi denari non saranno più qui; fra otto giorni avranno fruttato una somma, da empir d'oro tutta questa cassetta….
E tirava a sè febbrilmente una gran cassetta, di ferro, profonda. Essa si richiuse con un cigolìo stridente.
Il Weill-Myot avea guidato la principessa ne' suoi uffici ove fervea tanto lavoro: le avea spiegato minutamente qualcuna delle sue grandi combinazioni.
La principessa era uscita da quella visita inebriata: infatuata di quel desiderio dell'oro, che diventa, a poco a poco, irresistibile.
Enrica pensò, nella rovina da cui si sentiva incalzata, ricorrere al
Weill-Myot.
Ella non lo amava: non avrebbe ceduto a' suoi capricci: per questo avrebbe osato domandargli qualche cosa.
Gli parlò un giorno molto destramente de' suoi imbarazzi.
L'allusione era velata, discreta, fatta con molto garbo e molta finezza, in mezzo a' segni della più grande opulenza, poichè il banchiere era in visita dalla principessa e, girando gli occhi attorno a sè, vedea per tutto oggetti di molto prezzo e acquistati solo per mera fantasia: cinquantamila lire un quadro del Grenze: diciottomila una statuetta di bronzo, di cui era proibita la riproduzione.
Il banchiere capì subito l'allusione, benchè molto velata; e capì il profitto che potea trarne, in ispecie dopo ch'ebbe incoraggiato la principessa a parlargli aperto. Egli—le diceva—era suo servitore: felice di poter obbedir a un cenno di lei; metteva tutta la sua immensa fortuna a' suoi piedi: ella ne disponesse come voleva.
La principessa, che non nutriva per quell'uomo se non una sincera amicizia, senz'alcuna mischianza di passione, si fece a parlargli liberamente come a un uomo d'affari.
Egli ascoltava attentissimo; intendeva tutto; vedeva dov'era il bene ed il male: cercava e trovava fra una parola e l'altra i provvedimenti: in pochi minuti comprendeva, scopriva ciò che la principessa non avea, e non avrebbe mai potuto capire.
E, intanto, egli tendeva le sue reti.
Avrebbe persuaso la principessa a entrare in speculazioni: le avrebbe fornito egli stesso tutto il denaro che le occorreva; le avrebbe fatto firmare obbligazioni: un bel giorno, per uscir dal viluppo in cui egli l'avrebbe destramente intricata (pur dandosi aria d'esserle d'aiuto), ella sarebbe stata costretta a gettarsi nelle sue braccia.
Così nulla sarebbe mancato al suo successo nel mondo,—si diceva l'uomo, senz'altra nobiltà che quella del denaro,—se avesse potuto avere per amante una principessa e giovane e bellissima.
La sera stessa uno de'segretari della Banca Weill-Myot si presentava alla principessa, e le rimetteva, contro regolare ricevuta, una somma enorme.
Nella sua spensieratezza, ella si vide liberata per lungo tempo da ogni molestia e in condizione da proseguire la sua solita allegrezza.
Intanto, da quella sera, a insaputa del principe, cui avrebbe potuto rivolgersi, ella diveniva debitrice della Banca Weill-Myot.
Dobbiamo tornare a occuparci di uno de' nostri personaggi: il marchese Piero di Trapani; non abbiamo più parlato di lui, dacchè egli ebbe finito il suo colloquio con Marco, fra le rovine del casolare presso il parco di Mondrone, dopo il ratto della bambina.
Marco era entrato al servizio del marchese di Trapani: sempre tutto abbigliato di nero, in cravatta bianca, calzoni corti, era irriconoscibile per chi lo vedeva nel palazzo. Solenne, severo, impartiva ordini a tutti gli altri servitori e anche al padrone, su cui aveva un'assoluta autorità: poichè egli possedeva sempre la lettera del dottor Krag.
Quest'uomo misterioso e sinistro era il vero marchese di Trapani.
Non parlava mai con gli altri servitori, se non per dar loro comandi: mangiava solo: nelle ore di riposo lo vedevano seduto nel giardino, nei vestiboli, o nelle anticamere, sempre dove era facile qualcuno passasse, con un libro di preghiere in mano.
Andava con molta assiduità alla chiesa: usava larghezza nel far elemosine: i giorni di vigilia l'ex-galeotto si facea servir un pranzo, tutto magro, e ne rimandava in cucina più della metà; non bevea vino, per non rompere, egli dicea, l'astinenza: tanto era scrupoloso. I preti della parrocchia lo salutavano con un certo riguardo: si tenevano quasi di parlare con un uomo sì grave e di tanta virtù.
Il vecchio uomo riappariva soltanto ne' colloqui che Marco avea col padrone.
Quando il marchese Piero meno se l'aspettava, lo vedeva comparir nella sua camera, nel suo salotto, pian piano, come se, in apparenza, temesse disturbarlo; e subito faceva domanda di grosse somme.
Costui operava verso il marchese Piero come Cristina verso la principessa.
Le due ricchissime parenti della defunta marchesa non si mostravan disposte a morire: passavano al marchese cospicui assegni, in riguardo della figliuola: assegni, che non erano sufficienti a quell'uomo vizioso: e che avea già sperperato tesori. Le eredità si faceano troppo aspettare.
Come la principessa, il marchese s'impazientiva dei continui ricatti; volea irritarsi contro sì forti estorsioni.
L'altro ripicchiava:
—Non rammentate ciò che mi diceste la sera in cui rapivo la fanciulla, e la ponevo nel letto, accanto al cadavere di vostra moglie?… Non mi avete voi… detto ch'io vi salvavo l'onore, la vita?… E oggi, da che traete i lauti assegni, che vi danno modo di menar sì buona vita? se non dall'atto che io ebbi l'intelligenza, l'audacia, la premura di compiere in vostro favore?… Sono io, e non altri che io, l'autore di tutta questa prosperità che vi circonda…. E oggi, se voi pensate a innalzarvi, a chi lo dovete? Alla fanciulla, che io vi ho procurato…. Voi…. parliamoci franchi…. poichè le reticenze sono tra noi inutili…. e ci leggiamo l'un l'altro nell'animo, e siamo sì degni di comprenderci, voi vi preparate a speculare sulla grande bellezza della figliuola…. Alla Corte, lo so, si parla già molto di lei: si racconta sommesso ch'ella possa succedere all'attuale favorita…. bellissima sempre, ma un po' matura…. Il Re ha inviato alla vostra figliuola un vezzo di perle per l'onomastico di lei. E il fatto è un po' insolito…. Tutta Napoli conosce l'avarizia del Re…. Voi non m'avete detto nulla: avreste voluto che un tal fatto rimanesse un mistero per me….
Tali cose aggiungeva un giorno a' soliti rabbuffi ond'era avvezzo a torturare il marchese. E in quel giorno, appunto, proseguiva:
—Siete stato ispirato male…. Vi ricordate che io sono vostro associato: rammentate la nostra ditta: Marchese Piero di Trapani e Marco Alboni…. Voi non potete, non dovete stipulare nessun affare senza di me…. Non solo io debbo partecipare agli utili, ma voglio esser informato dei rischi…. E qui vi sono….
—Che rischi?—domandò il marchese, che poi, in fondo, riconoscea
Marco un'autorità nel saper condurre a bene una bricconata.
—Che rischi?… Vero o no che sia, si dice in tutta Napoli che la ben accetta al Re è la principessa di Caprenne…. E quella donna deve aver un'arte somma per incatenare a sè chi l'ama: deve aver segreti, tutti suoi, per piacere…. Io non voglio dire che ella sia la favorita: non bisogna basar un affare sull'incertezza…. Ma, senza dubbio, ella ha nell'animo del Re predominanza…. Che si presenti una rivale, più giovane, e bella, la principessa, che è focosissima, si porrà subito contro di lei e contro di voi…. La principessa è capace d'ogni vendetta: anche di percuoter la giovane in pubblico, se fosse eccitata all'estremo…. il Re, disgustato, si ritirerebbe allora da un'avventura, che potrebbe arrecargli troppe molestie….
La porta della stanza fu aperta, senza che alcuno avesse bussato, e comparve una giovane di alta statura, di una incantevole grazia, una figura veramente ideale.
—Diana!—disse il marchese, alzandosi e andandole incontro.
E le dette un freddo bacio sulla fronte.
L'altra corrispose con un bacio anche più freddo.
Diana era in abito da passeggio.
—Babbo,—gli disse, senza l'affetto che i buoni figliuoli sanno metter di solito in tale parola,—vado a far visita alla principessa di Caprenne…. È oggi il suo giorno.
Diana era accompagnata da una signora di oltre quarant'anni, parente del marchese, sprovveduta d'ogni mezzo e d'ogni scrupolo: allegra. S'imbellettava, si azzimava con la massima cura: avea sempre studio di allettare: era pretenziosa.
Tal donna avea dato il marchese per compagna e maestra alla giovane, che chiamava sua figliuola.
—Va', va' dalla principessa,—rispose il marchese alla ragazza,—va', e, fra non molto, io stesso verrò a riprenderti…. Saluta intanto la principessa….
Enrica in quel giorno riceveva: una sessantina di signore, e altrettanti gentiluomini, e forse più, l'aveano per varie ore costretta a quella tensione, a cui una padrona di casa deve sottoporsi per saper interrogare tutti, rispondere a tutti, ascoltar tutti, per andare dall'uno all'altro: per dir a tutti la cosa più grata, o più pungente, secondo l'intenzione. Molte donne non resistono a questa fatica, più grave che non si pensi. E, alla fine di certe giornate, si sentono spossate come un capitano la sera dopo una grande battaglia.
All'obbligo di parlare, di muoversi, di indovinare, di confutare le malizie delle amiche, di impedire che esse vi strappino dal labbro più di quello che vi piace far sapere su certi vostri atti, è da aggiungere il dovere di star stecchite, impettite, a disagio, in un abbigliamento di cerimonia.
Ma la principessa avea una salute di ferro: e resisteva felicemente a ben altre fatiche.
Diana arrivò al palazzo Gorreso, che era già tardi: verso le sei della sera. Le visitatrici, i visitatori aveano lasciato in pace la principessa.
Il cicaleccio era cessato in que' salotti, ove aveano echeggiato, poco prima, le voci più armoniose, più melodiose, nel conversare, che avesse Napoli.
Diana fu lasciata sola alla porta del palazzo dalla signora che l'accompagnava e che le allegò di dover fare molte piccole commissioni: sarebbe tornata a prenderla fra un'ora. Un giovinottino di vent'anni, del quale ella faceva l'educazione, l'aspettava in un luogo convenuto. Essa era tutta palpitante, impaziente d'arrivare. Anche senza il belletto, l'impazienza avrebbe colorito di rosso le sue guancie paffutelle.
Diana entrò nel salotto della principessa: la trovò sola con un giovane elegantissimo: Adolfo Venosa, di famiglia molto agiata e che avea impreso per amor della scienza lunghi, difficoltosi viaggi in regioni inesplorate, facendo, in sì fresca età, noto il suo nome a tutti gli scienziati.
Nella società napoletana il Venosa era ben veduto e apprezzato per il suo ingegno, il suo amore della coltura, per la serietà, la modestia, la vigoria del carattere.
D'impeti generosi, era quasi un fanciullo nelle cose del mondo, poichè toccava i vent'anni e gli aveva trascorsi, dalla prima età, nello studio e nelle imprese arrischiate.
Avea conosciuto Diana mentr'ella era nel convento di Santa Chiara, ove era pure la sorella di lui.
Quando Diana uscì dal convento, e Adolfo la rivide, i due giovani parlarono insieme d'amore: Adolfo, con tale gentilezza d'animo, Diana, con un sentimento sì squisito e sì casto, che tutt'e due si trovarono affini a segno, da non dubitar più, come si dice in tali congiunture, che Dio li avesse destinati l'una all'altro.
Diana avea capito che il marchese di Trapani non vedea di buon occhio questo amore; nella onestà, nel carattere franco, leale di Adolfo, egli scorgea tante accuse a sè stesso: sentiva per lui una repulsione: mentre Diana e Adolfo si sentiano attirati l'un verso l'altra, appunto in forza della loro virtù, il marchese si sentiva ripugnante, alieno da Adolfo, inclinato ad allontanarsene: tutt'e due erano, ciascuno, all'opposto polo nel mondo morale.
Adolfo si era accorto della antipatia che ispirava al marchese, nè a Diana era sfuggita la ripugnanza di colui, che ella chiamava padre, verso il giovane che essa amava con tutte le forze dell'anima sua.
Però tenevano nascosto più che poteano il loro amore, ma già molti e molte se ne occupavano.
Quando entrò nel salotto della principessa e vide Adolfo in intimo colloquio con essa: le poltrone su cui eran seduti quasi si toccavano: Diana impallidì.
La principessa era di quelle donne che ispirano sempre alle altre una forte gelosia. Le donne, che sanno sì ben giudicare quali sieno i più irresistibili mezzi di seduzione, li riconoscono subito in chi li possiede.
Al rumore che fece Diana entrando, poichè il servitore L'avea accompagnata fin nell'attiguo salotto, aprendo l'uscio, e ciò avrebbe dovuto assicurarla sull'indole del colloquio fra Adolfo e la principessa, Enrica si voltò; e veduta Diana, dette in una risata argentina.
S'alzò di scatto per correrle incontro. Voleva dirle, come sempre, alcune di quelle parole con cui solea vezzeggiarla: angiolo mio; mia bellezza, figliuolina cara…. arrivava sino a chiamarla così, inconsapevole; ma si ritrasse subito al veder Diana sì pallida e sì vacillante.
Anche Adolfo si era subito alzato.
Diana, ritta in mezzo alla stanza, li guardava: un po' come si guardan due esseri di cui si ha paura, mentre pur si amano e se ne vogliono scrutare i veri intendimenti: un po' come un giudice, che esamina due, reputati colpevoli.
La principessa non sapea spiegarsi il terrore che si andava dipingendo sul volto di Diana: vedeva che ella era in preda a una grande sofferenza.
—Ma che hai?… che hai?…—le domandò correndole incontro, e cuoprendola di baci.
Diana avea scorto su un tavolino una lettera, il cui indirizzo alla principessa era scritto da Adolfo.
Essi erano, dunque, in corrispondenza fra loro?
Nella sua passione, quasi infantile, poichè Diana varcava di poco i sedici anni, essa, appoggiando la testa al seno della principessa, dette in uno scoppio di pianto.
Cercava, a studio, sfuggire gli sguardi del giovane.
La principessa si sentì veramente commossa.
Ella nutriva per quella fanciulla un affetto insolito, che non avea mai provato per alcuno: un affetto di una nuova specie.
Era tanto lieta, quando potea stringerla al suo seno: quando la guardava, la udiva parlare, si sentiva come scender nell'animo un influsso buono, che la consolava.
Da qualche tempo, conduceva spesso con sè Diana nella sua carrozza, al teatro, l'invitava talora a passare da lei intere giornate: giornate che alla principessa trascorrevano in una placidezza, in una contentezza indicibile.
Anche Diana voleva bene alla principessa: la credeva perfetta: le sembrava che tutti la dovessero amare, tanto era bella, affabile, seducente: un uomo solo non avrebbe ella voluto che la amasse.
Il marchese di Trapani, assiduo fra i parassiti che circondavano la principessa, avea voluto, o agevolato quella intimità.
Enrica avea presentato la figlia del marchese alla Corte, ove era stata benissimo accolta. I sovrani la trattavano familiarmente.
E la principessa le dava spesso consigli sul modo di diportarsi: ma tutto andava perduto: Diana era candidissima, non ostante che vivesse fra gente sì trista, era di quelle nature a cui sembra che il male morale, tanto son di buona tempra, non possa appiccarsi.
La principessa avea fatto seder la ragazza su un sofà, e chinandosi su di lei, carezzandole la fronte, tutta premurosa, e tutta ansiosa, ripeteva:
—Che hai, angioletto mio? Vuoi venire nella mia camera?… Ti coricherò: ti assisterò io.
A quelle parole Diana parve rasserenarsi.
Un'altra volta essa, trovandosi un po' sofferente, era stata coricata per qualche ora nella camera della principessa. Ed è inesplicabile la felicità che ne avea risentito.
Ella nutriva per la principessa una simpatia vivissima: verso di lei la spingeva un'attrazione invincibile; rinchiusa nella camera di essa, si era data a toccare tutti gli oggetti, di cui la gentildonna si serviva; i pettini di tartaruga, le scatole d'argento, le fialette, a borchie d'oro, ov'erano le polveri, i profumi: avea fin baciato un accappatoio, che la principessa indossava allora, sovente, la mattina.
Un affetto misterioso, che non avea nulla di volgare, eccitava Diana ad amare la bella, elegante gentildonna.
—È così,—avea detto un giorno,—ch'io mi sono spesso figurata mia madre, che non ho mai conosciuto….
Il Venosa, mentre la principessa soccorreva Diana, era rimasto inoperoso. Che cosa egli poteva fare? Ritirarsi. E aspettava il momento opportuno.
Gli dispiaceva molto del malessere di Diana e non sapea spiegarsene il motivo. Al cospetto della principessa credea di cattivo gusto mostrare la intimità che univa l'animo suo a quello della giovane.
Non potea staccar gli occhi dal gruppo che avea dinanzi: le due bellissime donne, una sofferente, la testa appoggiata, gli stupendi capelli biondi sparsi sul cuscino d'un sofà in raso nero; l'altra curvata, tutta amorosa, su colei che soffriva.
Qual artista avrebbe potuto rendere un tal quadro, con tanta venustà di linee, con tanta vivacità di seduzione?
Per la prima volta, il Venosa, guardando le due teste di Enrica e di Diana, l'una sì presso all'altra, fu colpito dalla grande somiglianza di tratti eh'era in esse.
—Si direbbero due sorelle!—pensava fra sè: poichè la principessa si manteneva sì giovane, per la naturale freschezza, per l'arte che certe donne belle hanno di conservar que' tesori che le rendon sì care.
A poco a poco, Diana si rinfrancò.
Era in lei nato un disegno: non volea che i due, lì presenti, e che ella tanto amava, subodorassero il motivo del suo conturbamento: era meglio si porgesse loro con volto sereno: così avrebbe il destro di sorvegliarli tranquillamente.
—Non so,—rispose a una domanda della principessa,—mi ha colto a un tratto questo malessere: nè riesco a spiegarmene neppur io la cagione…. ma ora sto bene.
E si gettò al collo della principessa per darle i due baci, che le dava, e ne riceveva, di solito, ogni volta che s'incontravano.
Era la prima simulazione, che essa commetteva, la prima volta che fingeva, dacchè era nata. Ma nelle donne anche più candide è sempre latente, sempre facile a prorompere il potere di simulare.
È la grandissima forza del sesso, che non accadrebbe di chiamar debole, secondo alcuni, eziandio se pur non avesse altra arma a nuocere, che questa terribile del mentire, ond'è formidabile.
Dopo ch'ebber fatto altri commenti sull'accaduto, intavolarono una briosa conversazione.
La principessa si rallegrava tutte le volte che vedea la sua giovane amica.
Diana non perdea d'occhio nè Enrica, nè il Venosa. Vide che questi avea all'occhiello alcuni fiori: gli stessi fiori che erano in un magnifico vaso, smaltato d'azzurro, su uno stipo nel salotto. Era facile argomentare che la principessa gli avesse donati a Adolfo. Le parve che un momento, alzatisi, per guardare un non so che da una finestra, si stringessero le mani, in mezzo alle pesanti tende di stoffa color granato.
Ella soffriva e si mostrava ilare.
Si faceva buio nel salotto: la conversazione fra i tre durava sempre: Diana studiava Adolfo e la principessa: cercava dar un significato, non solo alle parole da lor pronunziate, ma alla inflessione onde erano pronunziate.
A un tratto, udirono un gran rumore nell'anticamera: servi che parlavano insieme: alzavano la voce: qualche cosa di molto grave dovea esser accaduto.
Fu aperto l'uscio del salotto attiguo: e un servitore, con un passo accelerato, rosso in volto, ansante, venne ad annunziare alla principessa che era arrivato l'intendente della tenuta di Mondrone e domandava di parlarle.
Dall'aspetto del servitore, dal rumore che avea udito, la principessa indovinò trattarsi di qualche sinistro: rimase impassibile, e disse che avrebbe subito ricevuto l'intendente.
Entrò un uomo di alta statura, asciutto, la pelle abbronzata, gli occhi neri, i capelli e la barba neri, foltissimi.
Fece una specie di genuflessione dinanzi alla principessa: e le baciò una mano.
Poi, con rozza familiarità, esclamò:
—Eccellenza, abbiamo cattive nuove!
—E a quale proposito?—domandò la principessa con l'alterezza che usava con i suoi e onde solea sfidare i colpi della fortuna.
—Si prepari Vostra Eccellenza a udire una brutta notizia.
—Parlate!—disse la principessa già in collera.
L'uomo cercava in una tasca del suo abito.
La mezza oscurità in cui eran rimasti sin allora e che era sì propizia allo stato di animo, alla disposizione al fantasticare in cui tutti e tre si trovavano, prima che giungesse il campagnuolo, conferiva ora solennità alla scena.
—Stamani,—continuò l'intendente con accento fiero e scolpito,—abbiamo trovato un uomo impiccato a una inferriata del castello…. È provato che egli s'è impiccato, durante la notte, mentre imperversava l'uragano tra le raffiche del vento e una pioggia fortissima…. Aveva posto sotto una pietra su la soglia della gran porta di mezzo questa lettera….
E porse alla principessa un gran plico, che teneva in mano già da qualche istante.
La principessa esitava.
—La lettera è indirizzata a V. E.,—proseguì l'intendente.
—E chi è l'impiccato?—disse negligentemente la principessa, prendendo il plico.
—Ciccillo Jannacone!
La principessa si alzò. Niuno potè veder in quell'istante la fisonomia di lei.
Con un tono di voce, che si sforzava render sicuro, disse:
—Non voglio che tu ti spaventi, Diana, coi ragguagli di questa storia…. Poco fa eri già tanto abbattuta!… Vado a finir di parlare con l'intendente in un altro salotto…. Voi, Venosa, tenete a Diana un po' di compagnia….
Mentre la principessa si alzava, era giunto nel salotto attiguo il marchese di Trapani, che veniva a riprendere la figliuola.
S'incontrò con Enrica e la salutò appena, inchinandosi: già avea saputo dal maggiordomo che la principessa in quel momento dovea aver ricevuto una tristissima notizia: ed egli mostrava non volerla disturbare.
La principessa rispose al saluto cerimonioso con un cenno che significava quanto ella fosse angustiata.
—Povera principessa!—esclamò il marchese, entrato nel salotto ove
Diana e il Venosa eran rimasti soli appena un secondo.
—Sì, povera Enrica! ella deve aver ricevuto un bel colpo da questo fatto…. L'ho capito al tono della sua voce,—rispose Diana.
I servitori entravano coi lumi.
La principessa, nella sua concitazione, aveva veduto illuminata la sala da pranzo e vi era entrata, facendo segno all'intendente, che la seguiva, di richiuder la porta. Un'altra porta, di rimpetto, era chiusa.
Enrica si accasciò su una sedia e disse all'intendente:
—Continuate!
—Poco ho da aggiungere a V. E. Il nominato Ciccillo Jannacone, da qualche tempo, era pazzo. Avea, da molto, lasciato il suo lavoro, e girava sempre intorno al parco: si recava spesso, sopra tutto di notte, alla casetta ove avea passato tanti anni: e vi è stato visto più volte, seduto sugli scalini della porta…. Un contadino l'ha veduto arrampicarsi al muro e baciar più volte il davanzale della finestra della camera, già abitata dal suo figliuolo. In breve, Ciccillo Jannacone tre settimane or sono entrò nel parco e vi è rimasto, nutrendosi non si sa come…. Non si sa ove passasse le notti…. si vedea talvolta sgattaiolare fra gli alberi, nella foresta, come un animale inseguito, si perdeva d'occhio….
Era lacero, scarmigliato, e avea varie ferite…. I cani del castello l'aveano un giorno addentato. Stamani, io, per il primo, ho esaminato il corpo del vecchio per accertarmi s'egli era morto; assicuro V. E. che quel corpo era sì straziato dai denti degli animali, dalle punture degl'insetti nocivi, forse dai rovi che il vecchio nella sua demenza non sapeva scansare, dalle stesse intemperie, ch'io ho detto, se non si fosse impiccato, avremmo trovato uno di questi giorni Ciccillo morto lungo la strada della foresta…. E debbo aggiungere un particolare a V. E. Sembra che il povero Ciccillo non avesse idea di uccidersi…. Il casiere del castello dice che stanotte ha udito dare varii colpi sull'uscio, ma ha creduto fosse il vento che smuoveva i battenti. Certo il fragore, lo scrosciare dell'uragano ne attuavano i colpi…. Si crede fosse l'infelice Ciccillo, il quale, non potendo più sostenere la crudezza della tempesta, fosse venuto a chieder asilo, soccorso…. Chi sa…. può darsi…. Tutti piangono la morte del vecchio: tutti maledicono al figliuolo assassino, causa di tanta desolazione.
L'intendente, come ligio alla casa del duca, e fino allora anima dannata, cieco schiavo della duchessa, non era fra quelli che credevano all'innocenza di Roberto.
Egli singhiozzava.
La principessa era rimasta imperterrita.
Uscì alfine dalla sua gola come un ruggito: un che di terribile e di indistinto: crollò la testa, e i suoi belli e lunghi capelli si arruffarono un istante: non altrimenti un leone tien irta la criniera nel procinto di avventarsi ad alcuno.
—Siete licenziato dal mio servizio!—mormorò, per tutta risposta.—Dite qual rimunerazione volete, qual compenso vi spetta, ma desidero lasciate fra due giorni e, se si può, domani, il vostro posto.
L'intendente era trasecolato.
—E che,—continuò la principessa, alzandosi,—dovrò io tollerare quello che il principe, mio marito, non tollererebbe, se fosse qui?… Si abusa troppo di me, della mia bontà, lo so,—e fingea accento commosso.—Il parco di Mondrone è doventato un nido di scandali: scandali, che sono per noi spiacevolissimi! Vi avvenne un assassinio, anni or sono,—qui la voce della principessa tremava, e non per istudio.—Sarebbe accaduto, se una delle nostre guardie si fosse trovata lì? Non debbono esse vigilare nella foresta? E ora si lascia che, per settimane, un uomo erri, fuor di sè, nel parco: si lascia che i miei cani l'addentino, non si pensa…. non dico a scacciarlo…. ma a nutrirlo, a soccorrerlo, a persuaderlo di far meglio…. no…. no…. si aspetta che quest'uomo…. già pazzo…. commetta la più grande delle follie. E voi sapevate chi era quest'uomo. Il padre di uno che avea contaminato il nostro parco con un altro delitto!
La principessa era tutta impetuosa di collera, sublime: commediante perfetta, sapea valersi della passione, della forza che naturalmente erano in lei.
L'intendente allibiva: non sapea trovar parola da rispondere.
Egli aveva già contribuito a rovinare la principessa, con una mala amministrazione e con rapine: ma non gli pareva d'avere ancor fatto abbastanza.
Devoto alla principessa sino ad arrischiare per lei la vita, non le era stato mai devoto sino all'onestà. Bizzarrie che si danno: facile è trovar uomini che si affezionino altrui soltanto in proporzione dell'utile che ne ritraggono, e ciò non è poco, o da dispregiare: assai più sovente trovate chi vi spoglia e vi odia, vi vitupera, pel bene onde gli siete origine.
L'intendente facea atto d'inginocchiarsi dinanzi alla principessa, per supplicarla: ella, con un gesto rabbioso, gl'impedì di fornire quel movimento e gli accennò che uscisse.
Mentre l'intendente si ritirava, la principessa suonava il campanello, e accorse il maggiordomo.
—Ho licenziato l'intendente,—gli disse;—entro due giorni egli non deve esser più al castello. Gli sieno date tutte le indennità che chiede…. Accomodate voi tutto col mio procuratore…. Farete attaccare una carrozza e andrete a portar un mio biglietto al conte Guicciardi.
—Ma il pranzo, Eccellenza?
La principessa guardò la tavola apparecchiata per diciotto persone; e, fra tre quarti d'ora, gl'invitati doveano arrivare.
Ella avea tutto dimenticato, e non si era ancora abbigliata.
Quale contrasto fra la tavola, tutta splendente di fiori, di argenterie; i ricchi menus accomodati sul dorso di graziosissimi nani d'argento, dalla schiena ricurva: le piramidi di frutti canditi: la varietà dei bicchieri posti dinanzi a ogni convitato, e la tristissima sorte di Ciccillo Jannacone, freddo cadavere, penzolante alle intemperie nel bel parco di Mondrone!
La principessa avea posato sulla tovaglia, tutta tessuta di corone e d'iniziali, il plico, quasi lurido, lasciato da Ciccillo.
—Va bene,—aggiunse, rispondendo al maggiordomo,—mandate un altro…. Intanto, io vado a scrivere il biglietto che deve essere recapitato al conte….
Ella volea sapere qualche cosa sul suicidio del povero contadino; volea sapere che ne pensasse il giudice inquirente.
Si era rivolta, non senza un perchè, al conte Guicciardi.
Sapeva che, nel giudizio contro Roberto, egli le era stato un po' avverso: volea conciliarselo: e col cercar sempre mezzo di vederlo, mostrare che ella non aveva alcuna ragione per temere di lui.
Non lasciava nulla d'intentato nel lottare a pro della sua salvezza.
In tutto il palazzo, dalle cucine, sotto il pianterreno, ove eran raccolti i servitori sino all'ultimo piano ove erano le cameriere, occupate a riordinare la guardaroba, si parlava del suicidio di Ciccillo Jannacone: e si rammentava il delitto commesso dal figliuolo di lui.
E su tali argomenti si parlava anche nel salotto, ove il marchese Piero, Diana e il Venosa aspettavano la principessa, nè si accorgeano del tempo che passava.
Diana stava attentissima: non perdeva una sillaba.
Il marchese Piero insisteva nel dire che la famiglia degli Jannacone avea voluto tribolare in ogni modo i duchi di Mondrone e la loro gente.
—Tutti noi,—continuava il marchese,—rammentiamo lo spavento che ebbero il duca ed Enrica, allora non maritata, e tutte le persone al loro servizio, quando il figlio di colui che la notte scorsa s'è impiccato, uccise il vostro cugino: il conte di Squirace!
Il Venosa sospirò.
—Mi duole—ripigliò il marchese—aver forse commesso un'indiscrezione, nel tornare su tali memorie.
—Oh, potete immaginare—replicò il Venosa—ch'appena quell'uomo pronunziò il casato Jannacone, già subito il mio pensiero corse al delitto, commesso nel parco sedici anni or sono, e al delinquente…. Volete vi dica tutto l'animo mio?… e anche a voi, Diana….—seguitò il Venosa, con la sua voce simpatica, e strinse, nella sua eccitazione, la mano della fanciulla,—mio padre non credette mai che Roberto Jannacone avesse ucciso mio cugino…. Era sicuro che egli, incauto, avesse incontrato a caso la morte: e fosse caduto da sè nel precipizio, se pure non ve l'avesser gittato altri che quel Roberto…. E non per dire: voleva bene al suo nipote, al conte di Squirace, come ad un figliuolo…. Ne sapeva i difetti, ma li scusava,—secondo ripeteva,—perchè erano conseguenza più della sua educazione che d'un'indole cattiva…. La sua morte, così repentina, così tragica, lo colpì tanto ch'ebbe una lunga malattia…. Egli volle parlare col supposto assassino….
—Supposto?—interruppe il marchese.
—Vi dirò….
—Ma io non so nulla del fatto,—esclamò Diana.—Datemi qualche ragguaglio.
Il Venosa le raccontò con molta commozione l'assassinio del conte di Squirace nel modo si credeva, generalmente, fosse avvenuto e ch'egli stesso, cresciuto in età, avea udito raccontare più volte nella sua famiglia.
—Mio cugino, figuratevi,—aggiungeva Adolfo,—era un bel giovane, elegante, uno di quei giovani che non si curano d'altro, se non di far una vita allegra… almeno essi la chiaman così… era conosciuto da tutta Napoli….
—E l'assassino?—chiese Diana, ben lungi dall'immaginare in quale stretta, sin allora ignota relazione, ella fosse con lui.
—L'assassino, anch'egli un bellissimo giovane, e di più… un valoroso. Avea compiuto atti eroici; avea salvato la vita, e le ricchezze a molti; uscito da una condizione oscura, si era inalzato, si era fatto amare per la sua virtù….
Diana piangeva.
—O come mai,—ella disse,—questo giovane sì bravo, sì buono, potè assassinare vostro cugino?
—Ecco il gran punto… cara Diana,—esclamò il Venosa, e la voce gli tremava.—Mio padre, ripeto, nutriva l'assoluta convinzione che costui non avesse assassinato il conte.
—È strano che Giacinto Venosa… vostro padre… ch'io ho ben conosciuto, potesse pensare che un uomo, senz'alcuna colpa, sia per anni e anni sottoposto alle più atroci sofferenze, chiuso in una prigione.
—Fu questo un segreto martirio della sua vita… ed è per ciò appunto che or ora io ho sospirato…. Chiamatomi a sè, durante la sua lunga malattia, un giorno ch'egli avea potuto alzarsi e la poltrona su cui si adagiava era stata spinta nel giardino, fra quelle piante, che gli piaceva tanto di rivedere, mi disse:—Ti ho già parlato più volte di quel giovinetto che deve esser ormai un uomo maturo… forse un vecchio per i patimenti del carcere…. Egli non è un assassino: è una vittima…. Sono sicuro che il conte di Squirace non avea mai avuto alcun rapporto con lui…. Sento impossibile una causa di rancore fra loro. Quando la nostra famiglia volle costituirsi parte civile, io mi opposi, come potevo, senza urtare certi legittimi sentimenti, poichè non avea nulla, se non la mia opinione, da metter a contrasto con certi gravi indizi…. L'animo mi diceva che un avvocato accusatore sarebbe stato una nuova e valida forza a intorbidare quella causa, a impedire, contro un infelice che si scoprisse il vero!
E prendendomi per mano,—continuava il Venosa,—il mio vecchio padre mi affermò ch'egli avea lavorato molto, pensato molto, dacchè il giovane era in prigione, allo scopo di porne in luce l'innocenza…. Che era già su una traccia… che non volea confidarmi nulla, poichè si trattava di meri sospetti; e, sentendosi vicino alla sua fine, non voleva lasciar la vita, accusando e forse calunniando taluno. Ma,—mi disse,—tu, figliuolo mio, promettimi che ti adopererai allo stesso scopo, in cui mi sono io adoperato indarno; al trionfo di un innocente….
—Ma che contegno tenne il giovane accusato durante il processo?—domandò Diana trepidante e che, nel suo carattere, si commovea, come sempre, per ogni motivo generoso.
—Un contegno nobilissimo,—rispose l'amante di Diana,—a quanto diceva mio padre: evitò di scolparsi: cercò ogni modo di aggravare la sua posizione: pareva dicesse: sbrigatevi a condannarmi, ho fretta di uscire dalla tortura delle vostre domande per timore che mi sfugga una parola compromettente…. Compromettente per chi? Questo, diceva mio padre, era il segreto del suo riserbo; e mio padre aggiungeva che tutto il mistero di tal affare dovea essere in mano d'una donna.
—Ma la testimonianza della principessa?—osservò il marchese.
—Oh…—rispose il Venosa, agitando in aria un braccio,—mio padre si meravigliò sempre, e lo disse nei crocchi, che i giudici annettessero tanta importanza a una tale deposizione… si tratta, egli diceva, di una fanciulla, paurosa, che ha veduto un uomo cadere nel precipizio… I ragguagli, da lei dati, sono molto incompiuti…. Nella età, nella condizione di salute in cui era, può darsi ella abbia asserito di aver veduto ciò che non ha mai veduto, ciò che forse le è apparso, come un'illusione destata dall'eccitamento de' suoi nervi…. Mio padre avea studiato legge, e profondamente, nella sua gioventù: che questo Jannacone fosse innocente, era una sua idea fissa.
Poco prima di morire mi disse di nuovo:
—Quel giovinetto era soldato, e valoroso…. Egli ha taciuto, si è immolato per una donna…. Tu devi cercare questa donna, che è forse fra le tue conoscenze: impadronirti del suo segreto: costringerla a far rendere la libertà, l'onore a un innocente. Ah fossi stato io giovane come te: sarei riuscito: e già sento che ero vicino a riuscirvi…. Però non posso dirti altro….
Tale fu l'ultimo colloquio che ebbi con mio padre su questo argomento.
Cercare la donna—ecco il punto ove dovea volger le mire—la donna che avea spinto quel giovane innocente nel carcere per tutta la vita.
—Non avrei creduto mai che Giacinto potesse nutrir tali fantasie!—esclamò il marchese, in tono di compassione.
—Io,—rispose Adolfo,—che ebbi per mio padre l'affetto più sviscerato, e ne venero la memoria, non potei partecipar mai sinceramente a queste sue convinzioni…. Mi mancò sin ora l'animo, e forse il tempo, per i miei studii, di farmi nella società l'avvocato dell'assassino di mio cugino….
—Del supposto assassino, come diceva vostro padre,—interruppe Diana.
—Ecco Diana… testolina esaltata,—esclamò il marchese,—ella ormai simpatizza col prigioniero….
—Sicuro,—rispose Diana.—Chi soffre ha sempre la mia simpatia… E quell'infelice non avea una moglie, una figlia?…
—No, egli non avea se non il padre: uomo rispettabilissimo, cattolico fervente, il cui suicidio, appunto per le idee religiose da lui professate con tanto zelo, deve aver molto turbato i suoi amici e compagni…. Mio padre dicea sempre di lui: è una grand'anima….
Diana rifletteva a questo vecchio cristiano, spinto dalla follìa, cagionata dal dolore, al suicidio: rifletteva a quel giovane valoroso, stimato, condannato a un tratto come assassino, per un fatto inesplicabile.
Le sue simpatie crescevano per questa famiglia di sventurati: uno de' quali sceso con violenza nel sepolcro: l'altro chiuso vivo in una tomba d'altra specie.
—C'è qualche cosa d'incomprensibile,—disse,—di straziante nella sorte che perseguita questa famiglia. Il padre è lasciato solo, senza cure, senza conforti, a errare nei boschi, non trova pace altro che nel suicidio; ed è un uomo che tutti dicono virtuoso, esemplare: il figlio è condannato, senza che si difenda… e da uomini ragguardevoli, com'era vostro padre, è creduto innocente…. L'opinione di vostro padre ha per me maggior peso della vostra,—disse Diana, bellissima nella sua indignazione, volgendosi al Venosa.—S'io avessi conosciuto quel vecchio, che s'è tolta la vita in modo sì strano, lo avrei aiutato a vivere, soccorso, consolato; accetto io l'incarico, che a voi affidava vostro padre…. Una donna vi darà l'esempio che certe debolezze sono intempestive…. Bisogna, mio caro amico, saper lottare per chi soffre: bisogna saper inchinarsi verso gl'infelici: bisogna, sopra tutto, saper vincere con energia certi pregiudizi, certi egoismi, che ci rendon cattivi….
Il marchese sorrideva di quell'entusiasmo: egli non era uomo che potesse comprenderlo.
Diana, in un istante, credeva esser guarita dalle sue gelosie verso la principessa e il Venosa: paragonava grandi dolori, de' quali avea udito parlare, con certi suoi risentimenti; e questi ultimi le parevano inezie.
Dopo un breve silenzio, ella disse a Adolfo:
—Non voglio esser sola nel far un'opera buona: voi mi aiuterete a compiere ciò che vostro padre desiderava: a provare, se è possibile, l'innocenza di Roberto Jannacone…. Mi sembra quasi appartenere alla sua famiglia, aver un dovere di amarlo, di proteggerlo, dopo ciò che ho udito di lui….
—Diana! Diana!—interruppe il marchese,—tu non conosci misura: ti esalti per il più strano motivo…. Il nostro modo di sentire è sempre così diverso!
La fanciulla, senza badare a quella interruzione, e come seguendo sempre un suo pensiero, continuò:
—E troveremo la donna, se c'è, che ha cagionato la rovina di questi disgraziati….
In quel punto entrò la principessa.
Il Venosa si alzò per andarle incontro, e metter fine alla importuna conversazione.
Egli aveva per la principessa una devozione senza pari, e tutto avrebbe fatto pur di risparmiarle un disturbo.
Ma Diana, che non conosceva malizie, avvicinandosi alla principessa:—Qui si parlava,—le disse,—del caso di quel pover uomo che s'è impiccato la notte scorsa, e della prigionia del suo figliuolo…. Non te l'avrai per male? Io mi voglio accingere a provare, se è possibile, l'innocenza di quel prigioniero; a metter in chiaro che tutti i guai avvenuti, e di cui tu pur soffri stasera, si debbono all'influsso di una creatura malvagia, che scopriremo…. Vuoi anche tu aiutarmi a scoprirla?
—Ben volentieri!—rispose la principessa; col suo più maligno sorriso.
—C'è chi crede,—insistè Diana con la crudeltà della inesperienza,—che tu stessa nelle tue testimonianze ti sia lasciata ispirare da allucinazioni, e tu abbia detto quello che la paura ti faceva vedere anzi che quello che tu avevi veduto; se pure eri in condizione di poter ben vedere i ragguagli d'una tale scena.
La principessa avea un grande dominio sopra di sè; pure riuscì a stento a simulare l'acuto dolore che le procuravano le parole di Diana.
Per la prima volta, qualcuno, al suo cospetto, osava metter in dubbio, discutere la sua deposizione nel famoso processo.
—Ah… tu sei una bambina,—le disse amorevolmente la principessa,—e spieghi molto zelo in cose, che spesso non lo meritano… probabilmente, tu non fai se non ripetere ciò che ti fu detto da qualche malvagio, e credi sia vero nella tua semplicità….
Il marchese redarguì Diana aspramente: si dolse di non aver alcun impero sull'animo della figliuola. Non voleva, per nulla al mondo, la principessa sospettasse ch'egli l'avesse sobillata.
Il Venosa rimase male; non ebbe il coraggio di fiatare. La principessa non volea ferir lui, ma il colpo lo investiva.
Enrica raccontò che avea licenziato l'intendente: e prese una sfuriata, parlando della negligenza della sua gente cui si doveva la morte del vecchio; gente barbara, essa diceva, idiota, senza costume.
—Avevo conosciuto, da bambina, quel povero vecchio!
E le lacrime, le sue solite lacrime, la soccorsero. Vi aggiunse un po' di tremito; il preludio d'una convulsione.
Diana le cinse la vita con un braccio per soccorrerla; le loro labbra s'incontrarono: e si baciarono.
Poco dopo, la principessa era sola nella sua camera e finiva di abbigliarsi per il pranzo. Ravviava le pieghe del suo abito color di rosa, dinanzi allo specchio. Ma, a un tratto, uscì dalla camera quasi di corsa. Le pareva di veder, a ogni istante, dinanzi a sè il gramo corpo di Ciccillo, pendente dall'inferriata, e la faccia pallida di Roberto, esprimente la disperazione.
Arrivarono gl'invitati; nessuno di loro sapeva nulla del tristissimo fatto avvenuto a Mondrone. La principessa li accolse tutti con la solita affabilità.
Finito il pranzo, addusse in iscusa che era indisposta e si ritirò subito nelle sue stanze.
Il conte Guicciardi, il giovane magistrato, a cui aveva scritto, le veniva a far visita, in ora assai tarda.
Egli la studiava!
L'allegra parente del marchese di Trapani, che, di solito, accompagnava Diana, giunse a prenderla a casa della principessa nel punto in cui la fanciulla ne usciva, insieme col Venosa e col marchese Piero.
—Arrivate sempre tardi!—le disse il marchese.
—Oh se sapeste,—rispose,—quante cose ho fatto in questo tempo.—E ne avea fatte davvero.
Il marchese sorrideva: si compiaceva di quella corruzione, poichè immaginava qualche galante scappatella della cugina.
—La vostra pettinatura,—le disse,—è molto disfatta!
E, a un'indicazione del marchese; gli protendeva il suo collo grasso e bianco, e che era stato in altri tempi bellissimo, affinchè egli vi accomodasse alcuni riccioli.
Dall'altro lato della strada era il giovinottino di vent'anni. La donna matura l'avea condotto con sè nella carrozza del marchese, dopo il loro convegno, ed egli la guardava, beandosi.
Avea alla cravatta uno spillo, che essa gli avea poco prima donato, in segno della sua alta soddisfazione pel profitto nelle lezioni che da lei gli erano date.
Fra tali pericoli cresceva immacolato il candidissimo fiore della innocenza di Diana: il Venosa stesso però non si spaventava; conoscendone l'illibato, forte carattere, della corruttela ond'era attorniata e dalla quale sperava toglierla presto.
Ma il marchese non voleva, come sa il lettore, tale unione: e Diana stessa avea provato verso il Venosa le punture della gelosia, della diffidenza.
L'acerbo sentimento, per un poco attutito, dovea presto risvegliarsi.
La principessa, col suo furore di vanità, era destinata a contristare anche il cuore di Diana: a disputare ad essa come avea fatto ad altre il suo unico amore.
Chi le avrebbe detto ch'ogni legge di natura vi si opponeva?
In casa del marchese quella sera, durante il pranzo, fu parlato del fatto di Ciccillo Jannacone.
La signora Teodora, così si chiamava la parente del marchese, si commosse tutta.
Furon ricordate, con ogni ragguaglio, le due tragedie avvenute nel parco di Mondrone.
—Povero conte di Squirace!—esclamava la signora Teodora,—era un discreto giovinetto…. Ma l'altro: quello che fu condannato come assassino, che bell'uomo: un uomo come oggi se ne vedono pochi!… E che spalle!… Per me era innocente!
Il marchese crollava la testa.
—Oh, allora lo dicevano molti,—soggiunse la signora Teodora.—Anche mio zio, che era un avvocato di molto grido….
Diana facea sempre qualche domanda intorno a Roberto Jannacone.
La sera ne riparlò con la signora Teodora, accompagnandola nella sua camera.
—Per me,—le diceva costei,—quel giovane non era colpevole…. Ho sempre desiderato che scappasse dalla sua prigione. Venisse qui, lo accoglierei a braccia aperte. Povero giovinetto! Eh che bel giovinetto! A tempo della condanna, pensai molto a lui, a tutti i ragguagli di quel processo…. Ora me n'ero, da anni e anni, dimenticata…. Però, un innocente, dover stare tanto tempo in prigione, dovervi morire… poichè il suo processo, fu detto, non ammettea revisione…. Ma che condizione terribile! Sentirsi senz'alcuna colpa, e dirsi: nessuno mi giustificherà mai, non potrò uscir mai di qui…. Speriamo che riesca a fuggire!
—Oh, vorrei poterlo aiutare io nella sua fuga!—esclamò Diana.—Povero prigioniero! non lo scorderò mai, d'ora in avanti, nelle mie preghiere!
Ella sentiva verso di lui una simpatia inesplicabile.
Già le pareva, per quella corrispondenza misteriosa che è tra certi cuori amanti, eziandio senza si conoscano, ch'egli aspettasse da lei il suo massimo conforto, e le tributasse un culto, nel quale il rispetto arrivava all'adorazione.
In quella notte ella pensò molto a Roberto, e i discorsi da lei uditi, poche ore prima, pinsero i suoi sogni di strane immagini.
Da lungo tempo, il lettore non vede in scena l'eroe del nostro racconto: Roberto Jannacone.
Chiuso nel carcere di *** in Calabria, a poco a poco egli si assuefece a quella solitudine.
Sapea che atti impetuosi sarebbero tornati vani: una condotta savia, regolare gli avrebbe conciliati gli animi: potea render men dura la sua prigionia.
Soprintendente del carcere era un uomo ruvido e buono: Filippo Cardella, nato a Ischia. Egli era stato marinaro come Roberto: ma a causa d'una ferita assai grave, riportata alla gamba destra, in una manovra durante una burrasca, avea dovuto lasciar il servizio.
Filippo, salvo che zoppicava un po' dalla gamba, la cui ferita spesso gl'iterava il martoro, si conservava robusto e sapea farsi rispettare da chi si sia.
Per due o tre anni, Roberto restò nella sua prigione in un silenzio quasi assoluto. Egli stesso, per mesi, non udì il suono della sua voce.
Una sola idea ormai l'agitava: fuggire: ritrovarsi con la donna che l'avea sì vilmente, sì atrocemente tradito: vendicarsi in modo proporzionato all'ingiuria.
Che cosa era accaduto di lei? Avrebbe ella osato contrarre un nuovo matrimonio?
E immaginava di trovarsi libero, di scuoprir il domicilio di lei, rapirla a forza, e recatasela in luogo sicuro, sottoporla poi alle torture che egli, uomo sì mite, le andava preparando nella sua mente.
Accettava nella prigione volentieri ogni lavoro che gli era commesso: e, a poco a poco, vedendone l'indole tranquilla, il carceriere lo aveva unito a sè in certi umili servizi.
Dopo tre anni dacchè Roberto era nella prigione, venne a morire un vecchio settantenne, che avea passato circa quarant'anni in quello speco. Egli avea commesso un delitto orribile; giovane, ingolfato nei vizi, si era di notte recato alla casa di una sua zia, quasi ottuagenaria, che viveva sola, per sordidezza e per diffidenza che in altri destasse cupidigia il denaro da lei accumulato, e che tenea in calze sotto il letto in sacchi, in buche fatte studiosamente nel pavimento…. Il giovane si era fatto aprire la porta e avea ucciso la vecchia, dandole ripetuti colpi sul cranio con una leva di ferro…. Il delitto esecrando avea sollevato nel pubblico un orrore indescrivibile. Il giovane frequentava l'università, ed era per laurearsi: i professori lo avean sempre lodato come molto sveglio d'ingegno: avea scritto versi, novelle: sapea far benissimo distici latini, anche all'improvviso: era dissipato, ma colto, si credea capace di sentimenti gentili. Quel delitto stupì addirittura.
Nel carcere si condusse a meraviglia. Tutti ne erano contenti. O fosse il pentimento, o che realmente la sua indole buona fosse stata soverchiata in un periodo d'irresistibile frenesia, egli non cadde mai nel più piccolo trascorso: nè con parole, nè con atti mancò, sia pur lievemente, alla disciplina.
Dopo alcuni anni di prigionia, era stato chiamato dal soprintendente nel suo ufficio per tener la scrittura e per trentacinque anni ogni mattina, senza aver mancato una volta sola, poichè la sua salute si mantenne sempre floridissima, si recò in quella stanza, al far del giorno, e vi durava nel lavoro sino a ora inoltrata della notte; dolce, affabile, senza alcun rammarico; quasi non avesse avuto coscienza di un tenore di vita migliore di quella; e ogni impressione del passato fosse in lui spenta.
Una mattina indugiò dieci minuti a recarsi al suo lavoro. Ciò parve enorme. Si mandò per lui: era steso, immobile nel letto. Era morto nel sonno. La fisonomia placida, veneranda, le mani conserte sul petto, lo avresti detto un santo, piuttosto che un vecchio assassino.
Il giorno stesso della morte di lui fu chiamato a sostituirlo, nella stanza del soprintendente, Roberto.
Dopo tre anni, egli respirava; con quella prova di fiducia, acquistava una libertà relativa: ad ogni modo, assai maggiore di quella che avea potuto aver sin allora.
Fermo nel pensiero di tentar ad ogni costo una fuga, egli sperava aver miglior agio di esaminar bene l'edificio in cui era rinchiuso; farsi capace di tutte le difficoltà, che si opponevano al suo disegno. Ma più che esaminava, più che potea vedere, più queste difficoltà gli apparivano immense, e forse insormontabili.
Ad ogni modo, la fuga dovea esser preparata da molti anni di lavoro, di osservazione.
Di questo si persuase Roberto, senza scorarsi: ciò che a lui stava nell'animo era di arrivar al suo scopo, quello di vedere Enrica, prima di morire.
Si hanno molti esempii della tenacia che prendono certe idee nella mente di un prigioniero.
Trascorsero gli anni monotoni: a ogni suo nuovo tentativo di osservazione, Roberto vedea nuovi ostacoli. Per tutto mura altissime, porte di ferro, raddoppiate da grossi cancelli, e per tutto a ogni porta, a ogni scala, quasi sotto ogni finestra, sentinelle.
La fuga non era da tentarsi, se non di notte, e Roberto avea un giorno avuto in mano il ruolo delle sentinelle, che la notte circondavano l'edificio: avea veduto su la pianta, annessa, come eran disposte:—una sentinella, a ogni quindici passi.
Come tentare una fuga?
E pure, egli si diceva, deve esser possibile, e sarà.
Gli avevano impedito qualsiasi corrispondenza: un arbitrio, che i nemici di Roberto avean saputo giustificare. Da anni, egli non avea più notizia neppure del suo vecchio padre.
Eravi nel mezzo all'edificio della prigione uno stupendo cortile, di architettura antichissima: e spesso, di sera, in estate vi si raccoglieva la famigliuola del soprintendente: cioè la moglie di lui, e due bambini.
Da un lato del cortile, sotto un bell'arco, con la fronte ricoperta di marmi, v'era un pozzo, stretto, ma di una straordinaria profondità.
Non se ne adoperavano le acque perchè, fatto o leggenda che fosse, anni prima vi s'era gettato un prigioniero e riusciva vano ogni sforzo per ripescarlo.
Si diceva, e vi credevano tutti, che il cadavere si fosse lì decomposto.
Vi era sovra il pozzo una gran carrucola e intorno ad essa scorreva una fune, all'un de' capi della quale era legata una grossa pietra, che serviva di sonda: e la gettavan nel pozzo per misurarne la profondità e sostenevano che, fosse pur lunga la fune, non si poteva trovare: che, calata la pietra alcuni metri nell'acqua, era respinta in su (si diceva) chi sa da qual forza: e, a proposito di quel pozzo, si spargevano terrori, superstizioni, che si radicavano sempre più tra i prigionieri e i loro custodi. Roberto, affacciatosi un giorno a questo pozzo, si era accorto come a un certo punto, si apriva in esso uno spiraglio, che mandava alcuni bagliori di luce.
Donde quella misteriosa luce veniva?
Roberto pensò che forse lo spiraglio dava in una grotta, verso i campi, sull'aperta campagna; o immettesse in una di quelle capricciose anfrattuosità, specie di corridoi, che si trovan talvolta ai piedi di certi monti.
Non ebbe più requie. Poteva esser quella la via della sua salvezza.
Un giorno d'estate, mentre tutti dormivano, salvo le guardie poste a' lor luoghi, e non era probabile che altri passasse dal cortile, egli preparato, come se dovesse fuggire, si avvicinò al pozzo, tutto palpitante.
Scavalcò l'orlo: guardò con la sua vista acuta, dopo che si fu un po' calato, per abituarsi all'oscurità, e vide che le mura del pozzo eran tutte a bozze, e quasi a scaglioni, a qualche braccio dall'orlo.
Avea preso in mano l'estremità della fune, dal lato opposto a quello ove era legata la pietra e scese giù, con molta cautela, tenendosi sempre alle mura.
Arrivò, a, poco, a poco, e assai facilmente, allo spiraglio di luce, che avea scorto le tante volte, dall'orlo. La luce veniva da una buca, che dall'alto parea uno spiraglio ma larga a segno che Roberto capì di potervi passare.
In fatti, v'entrò: e vide subito di là da essa una grande estensione di macerie.
Andò carponi per uno stretto, lungo corridore e arrivò finalmente ad una inferriata, formata da quattro file di grossissime sbarre.
Roberto vi si arrampicò: da' piccoli interstizii, che esse lasciavano, si scorgea il verde della campagna.
Ma subito Roberto udì il passo cadenzato di una sentinella: la sentinella, anzi, si fermò dinanzi alla inferriata e mise a terra il fucile.
Di lì a poco sopravvenne un'altra sentinella. E, per un pezzo, Roberto stette in ascolto: e si convinse che due sentinelle andavano e venivano l'una da un lato, l'altra dall'altro lato della inferriata, facendo una ventina di passi in distanza e poi tornando sul loro cammino.
Tentare una fuga da quella parte era, dunque, impossibile.
Roberto risalì il pozzo, lentamente, ma ormai ne conosceva tutte le anfrattuosità, le buche, le pietre in rilievo sulle quali si poteva mettere il piede con sicurezza.
E tornò subito al suo ufficio, temendo qualcuno cercasse di lui.
La sua gita sotterranea era durata ben due ore.
Da secoli, nessuno era entrato in quel pozzo: ed egli era forse il primo che avesse avuto il coraggio di calarvisi, coraggio che rendevano in lui più ammirevole le tante leggende e superstizioni, di cui avea rintronate le orecchie, dacchè era nella prigione.
Se i suoi compagni di cattività avesser saputo del suo ardire, egli sarebbe per essi diventato oggetto di stupore.
E vedremo quanto i pregiudizi circa quel pozzo fossero radicati:—come il nostro eroe dovea ritrar giovamento dalla misteriosa sua visita.
A forza di una continua, ansiosa osservazione su tutte le probabilità d'uscita, che offria l'edificio ad un prigioniero, sottoposto alla più dura vigilanza, ebbe a persuadersi che un solo modo gli rimaneva a effettuare una fuga: quello di limare, a poco a poco, l'inferriata della sua prigione: e procurarsi una lunga scala di corda.
Ciò era facile a pensare: ma il solo procacciarsi gli oggetti necessari a tentare la fuga, sentiva esser impresa superiore alle sue forze.
Non volle però disperare: aspettar per anni non lo spaventava: avea imparato la rassegnazione, e lo tenea vivo la speranza di tornare nel mondo a vendicarsi di chi l'avea offeso sì amaramente.
Passarono alcuni mesi.
Una sera, il soprintendente e la sua famiglia erano nel cortile della prigione; vi si trovavano pure alcuni prigionieri, occupati in certi servizi, e vari impiegati.
A un tratto fu udito un grido straziantissimo: la moglie del soprintendente si slanciava verso il pozzo, e dopo il suo grido di spavento, si mise a urlare:
—Salvatelo! salvatelo!
Tutti le furono appresso: poi si guardarono attorno: e si accorsero che era scomparso il bambino del soprintendente.
Pochi momenti prima, tutti l'aveano veduto baloccarsi intorno al pozzo: la madre lo avea leggermente sgridato.
—Chi lo salva? chi lo salva?—-domandò il padre atterrito.
La ferita della gamba gl'impediva di tentar egli l'ardua discesa.
Nessuno si mosse: eran tutti impietriti dallo spavento, sgomenti per la paura, che davan loro le malnate superstizioni.
Immaginavano alcuni, e si leggeva ne' loro sguardi, e il concetto si era così comunicato ad altri, che il bambino non fosse caduto, ma una potenza malefica e formidabile, nascosta in quel pozzo, l'avesse attirato a sè.
Tutti stavano muti, impensieriti; alcuni si rimanevano dall'accostarsi al pozzo più che tanto, sconvolti da' loro strani timori.
La madre, spenzolandosi all'orlo, guardando quella cupa voragine, tutta sonante dell'eco della caduta, chiamava con voce, dimezzata dal pianto, il figliuolo.
Ciò accadeva nello spazio di pochi secondi.
Roberto si trovava in una stanza attigua al cortile, e sorvegliata da un secondino, stanza ove si custodivano varii attrezzi.
Egli udì tutto. Uscì fuori, tenendo in mano una torcia accesa, si fece largo tra' compagni, gl'impiegati, e, in un attimo, si calò nel pozzo. Guardò bene verso il fondo: poi dette la torcia al soprintendente, dicendogli come dovea tenerla appoggiata all'orlo.
Egli scese pian piano; nessuno si accostava al pozzo, dal soprintendente all'infuori, e aspettavano, tremando, che, da un istante all'altro, Roberto vi perdesse la vita.
A un tratto si staccarono alcune pietre e caddero giù, sbattendo per le pareti con molto fragore, e facendo nell'acqua un gran tonfo.
Roberto gridò disperato: temeva quelle pietre potessero uccidere il bambino.
Credettero, udendo il grido e lo scroscio delle pietre, che Roberto fosse caduto; e si alzarono urla da tutti que' petti, ripercosse insieme nel vasto edificio come un sinistro ululato.
Alcuni de' prigionieri fuggirono, cedendo a un solo sentimento: la paura; ma gl'impiegati, benchè quasi non fossero più in condizione di provvedere a checchessia, ebber la forza di ricuperare la coscienza del loro dovere e d'impedire a' prigionieri d'allontanarsi.
Allora, tornati indietro, si accorsero che Roberto tirava sempre la fune, un'estremità della quale si era legata alla vita.
Il soprintendente e la moglie di lui erano al supremo dell'agonia.
Per essi, ognuna di quelle pietre staccatesi dovea aver ferito il loro figliuoletto, ne dovea aver colpito il gramo corpicello.
—Sciagurato,—pensava il soprintendente, che non avea più fiato da proferir parola,—me l'ha ucciso: e forse il bambino poteva salvarsi….
Mentre s'imprecava a lui, che tentava un'impresa quasi sovrumana, tanti n'erano i pericoli che sarebbero a ogni altro sembrati insuperabili, Roberto continuava la sua discesa.
Scorsero dieci minuti, un quarto d'ora d'aspettativa mortale. Nel pozzo non si udiva più alcun rumore. Il soprintendente ebbe il coraggio di toccar la corda: gli parve fosse lenta: tirò su: essa non resisteva: non v'era più attaccato alcun peso.
Sempre più il terrore occupava gli animi de' circostanti, lo stesso soprintendente avea il sangue agghiacciato in ogni vena. La moglie di lui era caduta in deliquio da un lato del pozzo, senza che alcuno le badasse, tanto eran tutti sossopra, in preda a un turbamento sempre eguale.
Il soprintendente riuscì alla fine a trovare un filo di voce e si irrise a chiamare, protendendosi innanzi: Trentanove!… Trentanove!…
Con questo numero Roberto era conosciuto nell'ergastolo. Un secondino ripetè lo stesso numero più volte, e a voce più alta.
Non si ebbe alcuna risposta. Roberto era morto.
Convintisi di questo, si allontanarono tutti: il soprintendente si chiuse nei suo appartamento, assistendo la moglie il cui stato pareva grave; ma, a un certo punto, anch'egli fa colto dal delirio.
Le ore passavano: la costernazione s'accresceva in tutti.
Alcuni, risensati, si rimproveravano di non esser discesi insieme con Roberto: di non aver almeno tentato d'aiutarlo: poi si dicevano: che se ciò avesser fatto, forse a quell'ora sarebber cadaveri.
La notte passò per molti fra angoscie.
La prigione fa visitata dai magistrati, che vennero a prender atto delle due morti. Accorsero medici, militari, altri ufficiali. Tutti s'accostavano al pozzo: vi si affacciavano: e se ne allontanavano inorriditi.
Sul far della mattina le due sentinelle, che erano di guardia nel cortile, gettarono il grido d'allarme!
Aveano udito un certo rumore verso l'orlo del pozzo: poi un uomo, che sembrava tenere con un braccio un pesante fardello, avea fatto l'atto di scavalcare.
Le sentinelle avean creduto a uno spettro.
Avean chiamato i loro compagni, per raccapriccio di trovarsi sole.
Ma accorsi tutti, e coi lumi, videro davvero un uomo che scavalcava l'orlo del pozzo e poneva in terra un bambino.
—Il numero Trentanove!—esclamò il graduato, che comandava il picchetto.—Sei tu?
Non era ancora ben persuaso della realtà: e non osava avvicinarsi.
La superstizione, tra quei popoli, era allora fortissima: e non v'era cosa, in fatto di spettri, apparizioni, che non fosse agevole il dar loro ad intendere. E anch'oggi, l'istruzione o lo scetticismo, non hanno ancor potuto spegnere nelle menti questa vaghezza di correr sì di leggieri al soprannaturale.
—Sono io, sono io!—rispose Roberto.
Io breve, accorsero tutti.
Roberto era riguardato come un oggetto di meraviglia; lo palpavano, lo interrogavano per accertarsi che fosse lui: circondavano il fanciullo, che li guardava esterrefatto.
I medici non vollero che il fanciullo fosse subito mostrato a' genitori. Una gioia sì improvvisa, nello stato d'animo in cui si trovavano, poteva ucciderli.
Quando il soprintendente ebbe ricuperato il figlio, chiamò a sè Roberto nella sua stanza, e gittandosegli al collo, piangendo, gli disse:
—D'ora innanzi, tu avrai in me un amico, anzi un fratello: e un uomo sempre pronto a renderti, magari con ogni suo rischio, il beneficio!
Ecco quello che voleva Roberto.
Nessuno sapea spiegarsi in che modo egli avea potuto rimanere tante ore nel pozzo.
Era questo il suo segreto, nè volea palesarlo.
Cominciarono a riguardarlo come un po' fattucchiero e negromante: era pur ciò ch'egli voleva e che dovea agevolar la sua fuga. Sentiva quanto doveva approdargli che si supponesse, o si credesse, fosse in lui qualche forza misteriosa.
Protetto ora dalla famiglia del soprintendente, amato e venerato in essa com'egli era, cioè un salvatore; riguardato da tutti gli altri com'un uomo che avesse commercio con potenze occulte, egli esercitava su quanti lo circondavano, nell'ergastolo, un vero dominio.
Chi lo amava: chi lo temeva: tutti lo rispettavano.
Inutile dire che Roberto, volendo appunto ammaliar quella gente col meraviglioso, dopo aver salvato con rara felicità il bambino, era entrato con esso nel sotterraneo, ove già l'abbiamo veduto, e ivi si tratteneva varie ore, cercando ripigliar forze per la salita, e assistendo il suo piccolo compagno, che di ben poca assistenza ebbe bisogno, poichè cadde subito in un profondo letargo.
Roberto godeva ormai la massima libertà, che può esser goduta da un prigioniero.
Andava, veniva per la prigione: alcune sentinelle, anzi, lo salutavano familiarmente.
Il soprintendente s'intratteneva spesso con lui: lo avrebbe voluto far entrare nella sua casa, ma i regolamenti vi si opponevano. La moglie del soprintendente procurava, di soppiatto, a Roberto, cibi delicati, affinchè egli potesse nutrirsi meglio che stando all'ordinario della prigione: gli forniva vino, liquori.
Filippo Cardella, il soprintendente, antico marinaro, siccome abbiam detto, discorreva volentieri con Roberto, sulla professione da lui un tempo esercitata, su le peripezie sofferte, su le avventure, sui paesi veduti. Anche Roberto potea dir molto in tale argomento e non se ne rimaneva; sapeva così di cattivarsi l'animo di quell'uomo; e, benchè molto modesto, egli volle raccontar un giorno al soprintendente gli atti d'eroismo, ch'avea compiuti in occasione del naufragio.
Il Cardella lo ascoltava commosso, e, battendosi la fronte, esclamava, come avea fatto in altre congiunture:
—Non so spiegarmi in che modo voi vi troviate qui…. e per un sì grave delitto…. Debbo confessarvelo?… Invece di temervi, vi rispetto: invece di disprezzarvi, o compatirvi, sento che voi siete uomo di virtù molto superiori alle mie, e di pochi, che passano per onesti nel mondo, mi fiderei come di voi, che siete qui con nome d'assassino.
Roberto provava un po' di rimorso.
Egli mal corrispondeva a tanta fiducia; così pensava nella sua squisitezza di carattere; poichè cercava, con lo studio che poneva nel preparar la sua fuga, di compromettere un tale amico, di dar alla bontà di lui ben tristo guiderdone.
Ma egli ardeva di riveder Enrica, di domandarle conto della sua perfidia: per gioire di quell'istante tremendo gli sarebbe sembrato un nulla fin la sua vita.
Corsero anni, prima ch'egli potesse possedere gli oggetti necessari al suo scampo: una scala formata di corde, una lima.
Raccoglieva pazientemente per la sua scala tutte le cordicelle, tutti i piccoli stracci che trovava: e lavorava, di notte, nel formarla a pezzo a pezzo; nè gli rincresceva il lavorar cinque o sei mesi a farne pochi centimetri.
La pena maggiore era il tenerla nascosta; or la portava con sè; e avresti udito i battiti del suo cuore: ogni secondino, ogni guardia in cui s'avveniva temea lo frugassero. Ne avea nascosti alcuni pezzi nell'ufficio del soprintendente. Il luogo non potea esser più propizio: chi avrebbe pensato di andar a frugarvi? Ma passava le notti insonni. Gli parea che di certo qualcuno andasse a smuovere il mobile, per imprevista circostanza, e avrebbe voluto poter passare a traverso le mura della sua prigione per impedire che gli fosse tolto il frutto di un sì lungo, penoso lavoro.
La mattina, all'alba, appena gli aprivano la sua prigione correva nella stanza d'ufficio del soprintendente; e toccava le sue funi con la stessa ansietà con cui un avaro avrebbe tocco il suo tesoro, dopo essere stato in tra due d'averlo perduto.
E ancora non era a nulla del suo terribile lavoro.
Come procurarsi una lima?
Spesso il soprintendente gli domandava particolari di ciò che avea potuto fare nelle lunghe ore, durante le quali era rimasto tra le cupe mura del pozzo.
Egli rispondeva sempre, ad arte, di non esser in grado di fornire alcuna spiegazione; avea molto sofferto in quelle ore, specie dopo essersi impadronito del bambino: credeva di esser caduto in deliquio; non sapea per qual forza avesse potuto sostenersi; certo non per forza umana…. Gli era sembrato…. forse, aggiungeva a causa della stanchezza, della eccitazione, udir strani rumori, voci….
Così teneva accese le fantasie di costoro e si preparava la via al suo intento.
Un giorno disse, con molta gravità, al soprintendente:
—Occorrerebbe chiuder quel pozzo: qualcuno potrebbe cadervi di nuovo: non serve a nulla: offre un pericolo continuo.
Il soprintendente disse che era pur quella la sua idea. Fu deliberato chiuderlo con un grosso sportello di ferro. Ma Roberto dava, sempre più, maggior divulgazione alle sue storielle.
Nessuno volle calarsi nel pozzo, anche a mezza vita, per prender certe misure, infiggere certi ferri. Si offrì Roberto; e per due giorni lavorò con febbrile attività e con successo.
S'era fatto come una gabbia di legno e di funi e in quella, che avea raccomandato alle grosse campanelle dell'arco sovrastante al pozzo, lavorava.
Teneva la scatola degli arnesi sull'orlo del pozzo e ogni tanto allungava il braccio per prender ciò che gli occorresse.
Il secondo giorno, mentre rimaneva ormai poco da fare, ed erano presenti il soprintendente e altri impiegati, Roberto si mise a raccontare che vedeva, circa il punto ove cominciava l'acqua del pozzo, uscir dal muro alcune fiammelle, e che parea salissero, andando qua e là, verso di lui.
Urtò quindi, come avea disposto, nella scatola degli arnesi, che precipitò nel pozzo con tutto ciò che conteneva.
Roberto saltava fuori, dopo essersi accertato che tutti, non ostante che fossero assai turbati, avean veduto cader la scatola.
La mattina appresso, Roberto, levatosi di buonissima ora, con altri sei prigionieri, ch'egli incuorava, e a' quali rimaneva garante nulla sarebbe accaduto, accomodarono sul pozzo il pesantissimo copertoio di ferro e fu saldato, alle parti, perchè niuno lo smovesse.
Allora tutti que' prigionieri parvero più contenti.
La notte Roberto dormì più tranquillo e felice!
Egli avea cavato due buone lime d'acciaio dalla cassetta, innanzi di precipitarla nel pozzo.
Il suo stratagemma era ben riuscito!
Non volle subito mettersi all'opera: volle aspettare la notte appresso: gli pareva aver davvero meritato un po' di riposo.
E la notte dopo, cominciò il suo lento lavoro: ma ebbe subito a giudicare che, nel silenzio di tal ora, troppo si udisse quel rumore.
Non udiva egli, benchè a grande altezza, il passo delle sentinelle?
Più che vedeva vicino, sicuro, il giorno della sua fuga, più egli si addimostrava rassegnato a rimanere nella prigione, quasi contento della sua sorte, già sì mitigata, e addolcita di molti rigori, per la gratitudine, l'affetto del Cardella.
Questi solea spesso dire:
—Il Trentanove è un santo: ci edifica tutti per la virtù con cui sopporta la sua condizione!
Peccato, osservava un giorno, non si possa ottenere la grazia di lui!
E a Roberto ripeteva sempre:
—Io vi sono tanto e tanto debitore: e vorrei poter offrirvi un compenso del vostro beneficio!
Già ormai tutto era a buon punto per la fuga: e Roberto ringraziava il cielo d'averlo recato sì presso alla meta de' suoi desiderii.
Dopo sedici anni di prigionia, l'idea di trovarsi libero gli rendea tenui le difficoltà che doveva ancor superare: le ultime e le maggiori: quella di calarsi a salvamento da una sì grande altezza:- quella di passare senza intoppi, potersi allontanare inosservato fra le sentinelle.
Un colpo di fucile potea fermarlo nel momento in cui avrebbe creduto cogliere il frutto di tante, sì lunghe fatiche, sostenute per anni, con tenacia incrollabile, con la fede ardente verso uno scopo.
Il giorno che forse dovea esser per lui l'ultimo ch'egli trascorresse nella prigione pensò:
—Stanotte, allorchè scoccheranno le tre all'orologio del castello, effettuerò la mia fuga!
Si sentì un empito di affetti verso la gente che gli era stata sì benevola, nella sua prigionia: quel giorno volle accarezzare di più il bambino del soprintendente, ch'egli avea salvato, e, nel baciargli i biondi capelli inanellati, gli spuntava dagli occhi una lacrima.
Baciò la mano alla moglie del soprintendente, rammentando quanto era stata buona con lui.
—Mi auguro,—essa gli rispose,—che mio marito sia sempre lasciato qui, affinchè possiamo continuare ad esservi utili!
Fra i terrori provati da Roberto nel corso di vari anni, e che aveano sì scosso la sua fibra, uno dei più pungenti era stato quello che il Cardella fosse traslocato, e venisse un altro soprintendente, che gli toglierebbe i piccoli privilegi di cui godeva.
In tal guisa la sua fuga, preparata da anni, diverrebbe impossibile.
Gli era duro il pensare che tanto lavoro potesse andar perduto.
Tenne quel giorno un lungo discorso con il soprintendente: l'uno e l'altro non erano mai stati più espansivi.
Poi Roberto, sul tardi, si ritirò nella sua prigione.
Il cielo si era rannuvolato: si udiva fragoreggiar il tuono in lontananza: e il vento avea cominciato a fiottare impetuosissimo.
—Ecco la notte propizia per la mia fuga,—pensava Roberto.—Caderà certo la pioggia: le sentinelle si raccoglieranno nelle loro guerite: e potrò discendere, allontanarmi più facilmente, senz'essere scorto….
Tra i boati del vento e del tuono, salì alla finestra, per dar con le lime il colpo maestro: l'ultimo colpo di cui niuno avrebbe udito in quel momento il rumore….
Ma, mentre era tutto intento all'opera, sentì che qualcuno raschiava la parete della prigione a destra.
Interruppe il lavoro: si pose in ascolto: ogni suono era cessato. Credette ad una illusione. Intanto, egli era disceso. Il rumorio ricominciò, lento, lento, sordo, si avvicinava sempre. Egli, carponi, aveva accostato un orecchio alla parete. E ormai sentiva fino il grave ansare d'un uomo, oppresso da un'immensa fatica.
Si alzò, esterrefatto, gli era sembrato che un punto della parete si smovesse. Caddero alcune pietre, e dall'apertura, ch'esse lasciavano, si affacciò una testa calva, sparuta, si alzò una mano scarna.
—Non mi denunziate!—disse subito, con piglio di spavento, fissando i grandi occhi su Roberto, l'uomo comparso sì all'improvviso.
—Fratello!—rispose Roberto, con l'usata sua dolcezza,—sono anch'io un prigioniero come voi….
—Non più infelice di me!—riprese l'altro, cui appena restava un filo di voce.
E, strisciando sul pavimento, entrò affannoso nella prigione di
Roberto.
Egli lo raccolse: lo aiutò a sedersi sul letto. Si accorse di avere dinanzi a sè un uomo esausto, febbricitante.
—Ah,—egli disse, appena ebbe ripreso un po' di fiato,—non ho fortuna io!—E le lacrime rigavano le sue guancie smunte, rugose, anzi tempo.—La mia prigione è distante dalla vostra per quasi un centinaio di passi…. Nelle passeggiate, che un tempo mi eran concesse, avevo osservato che attiguo alla mia prigione era un terrapieno: e a' piè di esso un fosso largo, profondo: di là dal fosso rocce, alberi…. Già avrete veduto voi pure que' terreni.
Si tacque: la disperazione gli toglieva ogni forza; scoppiò in un pianto dirotto: un pianto da fanciullo.
—Ho lavorato undici anni per far questo scavo: ho passato intere notti sotto la terra, fra miasmi d'ogni maniera…. Vedete come sono ridotto…. io che era uno degli uomini più robusti…. Per cinque o sei anni, mi portavo addosso, quando andavo alla passeggiata, una certa quantità di terra, e la seminavo qua e là: la gettavo, a poco a poco, dalle finestre ne' giorni in cui soffiava il vento: ne ho buttata molta fra le immondizie, nel cantuccio più orrido della prigione….
Quante volte sono risalito nella mia stanzaccia, e mi sono posto a letto con la febbre e quasi con la certezza di non svegliarmi più il giorno appresso…. E, dopo tanti stenti, tanti atroci dolori, tanti palpiti, nel momento in cui credevo toccare la meta, mi trovo in un'altra prigione….. Ah, il mio figliuolo…. il mio povero figliuolo!…
Avea un gran coltello in mano.
—Tale quale voi mi vedete, se una fuga mi fosse possibile, sentirei l'energia di lottare, a mano armata con due, tre sentinelle, e di ucciderle!
Roberto, guardandolo, sospirava.
Andò a vedere il pertugio pel quale era entrato lo sconosciuto; perchè egli non sapea ancora chi fosse.
E chi potea essere quel misterioso personaggio?
Le tre pietre, che eran cadute, parean non divelte, ma tagliate con un'abile incisione.
—È il mio segreto di lavorare…. In tal guisa, per tanti anni, ho potuto tener occulto ciò che facevo. Quelle pietre possono esser rimesse al posto, senza che niuno si avvegga che sono state smosse,—disse lo sconosciuto, che avea sorpreso un'occhiata di Roberto.
—Tornate alla vostra prigione,—disse Roberto, dopo breve riflessione.—Più tardi, dopo la cena, ci rivedremo… Di notte non si fanno visite da questo lato del castello…. voi apparite loro tanto malato, che non vi suppongono capace di tentar una fuga: in me hanno piena fiducia e….
A un tratto Roberto s'interruppe. Gli cadde in animo d'aver detto troppo. Se costui fosse una spia?
Ma lo scrutò; nel suo volto si leggeva ben altro che la perfidia, o qualsiasi sentimento insidioso.
—Andate! andate!—e richiudeva ermeticamente, dietro al prigioniero, il pertugio.
Quasi subito udì un rumore di passi nel corridoio.
La prigione fu aperta. Entrò il soprintendente. Gli si leggea nell'aspetto una grande, sincera costernazione.
Roberto gli mosse incontro.
Il soprintendente allargava le braccia verso di lui; e Roberto, per un movimento instintivo, vi si gettò.
—Devi esser uomo!—gli disse il soprintendente con voce rotta dal pianto.—Ho da darti una triste notizia….
—Morto?—esclamò subito Roberto con un accento, che rintronò per le vôlte dei corridoi.
E, appoggiato il capo alla spalla del soprintendente, si dette a singhiozzare.
Ogni singulto parea dovesse fracassare quel petto robusto.
Il soprintendente non disse di più; volle tenergli, per impulso di pietà, celata la tragica fine del padre.
Nel lasciarlo, gli bisbigliò:
—Il mio dovere, come impiegato, era di tacerti tale notizia…. Sono questi gli ordini che abbiamo…. Tu devi esser trattato come se non avessi un'anima, un cuore…. Ma il mio ufficio d'amico era di non tacere…. Che avresti detto tu un giorno, se ti fosse venuto a notizia ch'io t'avevo ingannato, facendoti creder sempre che tuo padre vivesse?… Il tuo dolore non deve aver qui testimoni, o si comprenderebbe che qualcuno ha parlato….
Si abbracciarono di nuovo.
Senza dir motto, Roberto avea trovato modo d'assicurare con quell'abbraccio il Cardella della sua discrezione.
Il soprintendente uscì.
Roberto si gettò sul suo lettuccio, soffocando il pianto nel rozzo origliere, che gli forniva l'amministrazione dell'ergastolo.
Di lì a un'ora, Roberto si sovvenne che l'altro prigioniero lo aspettava.
Già udiva un piccolo rumore verso il punto ove le pietre erano state smosse.
Si levò: tolse le pietre, con ogni precauzione, apparve di nuovo la scarna figura dello sconosciuto.
Nella sua generosità, Roberto pensò tener ad esso nascosto il suo grande dolore e occuparsi piuttosto delle sofferenze di lui.
Il sopravvenuto si accasciò di nuovo sul misero letticello della prigione, e lì seduto, disse a Roberto:
—Vi racconterò la mia storia…. Io sono meccanico e incisore: e sono stato condannato col nome di ingegnere Amoretti. Pochi mi conoscevano in Napoli, avendo quasi sempre lavorato in Roma per ricchi forestieri, co' quali sopra tutto avevo contatto. Tornai a Napoli, mia patria; e fui pregato incidere alcuni emblemi…. Si trattava degli emblemi d'una setta: e credo si chiamasse de' carbonari…. Mi si fece pur incidere una specie di proclama contro il Re…. Un mio alunno mi tradì; egli era innamorato della mia moglie, donna virtuosissima, e che avea resistito a tutte le sue importunità…. Credette in tal modo sbarazzarsi di me, riuscire nel suo intento, e mi denunziò…. Fui arrestato, condannato…. Mia moglie cadde colpita da sincope, vedendomi passare, mentre mi riconducevano alla prigione, il giorno stesso della condanna. Essa mi avea dato un figlio, un anno prima; un figlio che era tutta la mia gioia, tutta la mia speranza per l'avvenire….
Fece una breve pausa, quindi riprese:
—Perchè mi condannavano?… Io era innocente. Alieno dalle cospirazioni, assorto nell'arte mia, per mera compiacenza avea fatto que' piccoli lavori…. La incisione degli emblemi era riuscita un capolavoro. Ci sono nelle mani di ricchi signori d'Europa e d'America incisioni mie, di cui si offrivano fin d'allora centinaia di sterline: e che a me pure erano state ottimamente pagate.
Feci professione di fedeltà al Re: chiesi la mia grazia e non ho ancor nulla ottenuto…. E notate che offrivo di tornarmene subito a Roma, ove avea passato quasi tutta la mia vita.
Che è divenuto mio figlio, rimasto solo, abbandonato nel mondo?… Vive egli sempre?… Lo scarso peculio da me lasciato, ha servito alla sua educazione? Ama egli suo padre; la gente che lo circonda gl'ispira la reverenza filiale, o l'orrore verso di me? Dov'è? Vive? Si trova in grandi pericoli, in grandi necessità, posso io salvarlo, soccorrerlo?
Ecco i dubbii che m'angustiano, ecco la mia tortura, una tortura indescrivibile, che ho sopportato per anni ed anni, che mi ha avvelenato i giorni e le notti, mi ha tolto la pace, il sonno, mi ha dato ogni strazio, mi ha ridotto come voi mi vedete. Mio figlio!… Siete voi padre?
Roberto rispose di no.
—Ah, allora non potete intendere ciò ch'io ho sofferto…. Ed è inutile ve lo spieghi…. Mio figlio, il mio unico figlio!…. Tante volte, nelle notti, mi è parso veder un'ombra bianca, l'ombra della mia diletta sposa; mi è parso di udir susurrare al mio orecchio: va', non lasciar solo quel fanciullo, che ha bisogno di te; trova nel tuo affetto di padre le forze, il segreto, per fuggire.
Se sapeste che cosa sono queste memorie della famiglia per un uomo che si trova solo, in una squallida prigione!
Così pensai, tentai la mia fuga: la mia cara sposa sembrava m'aiutasse nel lavoro…. Aspettavo la grazia, e cercavo il mio scampo. Due speranze! Una di più che non occorra a consolar la vita del prigioniero…. E ora, ora le ho perdute tutt'e due…. Nel mio lavoro sotterraneo ho scambiato direzione…. La provvidenza non ha voluto potessi rivedere mio figlio…. E, dopo un lavoro prodigioso, che sembra sfidare le forze umane, e che ho superato per virtù d'amore di padre, rinunziar alla propria idea…. Se sapeste che immensa amarezza! Io non vi resisterò. Fatte sparire le traccie del mio tentativo di fuga, perchè non si raddoppino rigori, e non nuocere ad altri, m'impiccherò all'inferriata della mia prigione….
—Oh,—esclamò Roberto inorridito da quella risoluzione, esaltato dal dolore cui era in preda, per la notizia avuta.
Gli si offriva alla mente ch'egli poteva compiere un'azione generosissima: una di quelle azioni, cui suo padre l'avea educato, e ch'egli, nella sua semplicità, avea saputo compier sì spesso: sarebbe stato il miglior omaggio alla memoria di lui.
Il dolore, sì recente e sì forte, aveva purificato l'animo di Roberto: l'avea inalzato a Dio, staccandolo da tutte le miserie della terra.
Sentì vergogna di sè. A che egli avea preparato con tanto studio, una fuga? Per soddisfare una vendetta. E alla sua fuga tutto sembrava promettere un esito felice.
Invece quel prigioniero avea lavorato, e indarno, mosso dal più nobile, dal più puro de' sentimenti: l'amore paterno.
S'egli avesse avuto un figlio, una figlia, la prigionia gli sarebbe riuscita mille volte più dura, incomportabile: no, non avrebbe potuto sostenerla!
Poi,—rifletteva,—quel prigioniero era davvero innocente. La tirannide che non si placava mai, la diffidenza politica, che ingigantiva la colpa, paurosa di pericoli, lo aveano gettato in quel carcere: a terrore, esempio d'altri, anzi che ad equa espiazione di un suo fallo.
Ma egli, egli, che avea tanto imprecato, la sorte, era davvero innocente quanto si credeva?
Nella sua passione focosa per Enrica, nel modo con cui l'avea dominata, conquistata, nella forza brutale ch'avea spiegato contro di lei, non v'era già una trasgressione delle leggi morali?
La sua espiazione era eccessiva, ma era sempre più meritata di quella dell'altro.
Egli non aveva più alcuno al mondo che lo amasse; non potea indovinare ciò che Diana, la gentile fanciulla, facea, perchè trionfasse la innocenza di lui; e sapeva che, morto il padre, non gli restavano altro che nemici.
A che pro una lotta con essi?
Il sacro dolore che l'opprimea gli dava a sentir più forte la vanità della vita.
—No, no,—ripetè al prigioniero,—non dovete disperarvi di più…. rivedrete il vostro figliuolo!
—Che dite?…—esclamò l'altro, scendendo dal letto, e rimanendo in piedi. La sicurezza con cui Roberto parlava lo aveva scosso. Splendeva a lui di nuovo un raggio di speranza. E, sia pur debole, gli uomini infelici sono sempre sì pronti ad accoglierlo.—Che dite?…
—Anch'io ho preparato la mia fuga.
E gli spiegò della scala di corda, e della sbarra limata, che dovea lasciarlo passare.
—Ho osservato—soggiunse—che allo scocco delle tre si mutan le guardie. Arriva qui dinanzi un picchetto di soldati. La sentinella che è sotto l'inferriata va a parlare, alla distanza d'un cinquanta passi, col picchetto…. Fa il suo rapporto, scambia alcune parole di consegna…. In otto o dieci minuti, la sentinella torna al posto…. Preparata la scala, rimossa la sbarra, in una notte buia, tempestosa, come questa, ecco lo spazio di tempo che deve servire alla mia fuga….
—Ma allora potremo fuggire insieme.
—No, poichè la distanza da percorrere, per arrivare dalla inferriata sul suolo sottoposto, è assai lunga, e non si può scendere se non con molta cautela: e, quando la sentinella ritorna, bisogna essere già lontani dalla muraglia della torre.
—O dunque?—disse l'altro, di nuovo piombato nella costernazione.
—Fuggirete voi solo!… io non ho motivi serii come voi per desiderare sì pronta la libertà.
—E quando potrò fuggire?—rispose l'Amoretti, senza pensar ad altro, baciando le mani del suo benefattore.
—Io aveva stabilito di fuggire stanotte…. Fra poche ore, potete esser fuori…. Ma guardiamo.
Si fece all'alta finestra: la pioggia era cessata: le nubi erano spulezzate dal vento: si rasserenava.
—Il cielo è contro di noi,—disse Roberto.—Torna il bel tempo; stanotte si vedrà chiaro: sarebbe imprudente, dannoso tentare una fuga…. Ma la stagione è instabile; una di queste notti, forse nella notte di domani, potrete mettervi in salvo….
—Grazie, grazie: e Dio vi rimuneri con le sue benedizioni!
—Oh, se anch'io fossi stato padre, sento che il mio cuore sarebbe scoppiato fra le mura di un carcere…. Vi sarei soffocato!
Roberto non uscì il giorno appresso dalla sua prigione.
Il soprintendente non lo cercò; capiva com'egli dovesse desiderare di rimaner solo, immerso nel suo dolore.
I prigionieri lavoravano; e poteano disporre d'una piccola parte de' loro guadagni.
Un secondino avea facoltà di vender loro vino e acquavite: ma soltanto in una certa misura.
Verso sera, mentre Roberto era disteso sul letto, accasciato nella sua afflizione, sentì cigolare la chiave nella porta della prigione; entrò il secondino che vendeva l'acquavite.
Non era il solito secondino.
Era un uomo più attempato e di aspetto più gaio.
—Numero…. numero….—egli cominciò a cincischiare, appena entrato—numero Trentanove!
A quella voce Roberto si scosse.
Il secondino s'avvicinava al letto e avea posato la candela sul tavolino, che v'era accanto: s'inchinava verso il prigioniero.
—Ah!—esclamò.—Si stropicciò gli occhi e tornò a guardare; temeva che forse il vino, o l'acquavite, tracannati nella calda giornata, gli facessero un brutto scherzo.
—Domenico: il giardiniere di Mondrone!—mormorò Roberto.
L'altro rabbrividì.
Teneva da una mano un paniere con bicchieri e bottiglie. Senza deporre il paniere, disse:
—Chi sei?… Sei qualcuno che ho molto conosciuto…. I tuoi occhi…. Ma il resto della fisonomia non corrisponde…. Chi, fra le persone da me conosciute, può trovarsi in un ergastolo?…
Pensò e ripensò: stette un po'titubante: quindi, facendosi molto vicino a Roberto, e posando sulla tavola il paniere:
—Dagli occhi,—mormorò,—e da quello che io mi ricordo direi tu fossi
Roberto….
—Sono io…. Roberto…. Jannacone!
—Roberto… l'assassino!—come ti chiamano nel paese.
—Ah, sì!—rispose Roberto, tremando. Egli avea avuto un gran colpo, le parole di Domenico gli aveano ricordato troppo bruscamente quanto egli fosse caduto nel concetto universale.
—Ma come ti sei cambiato!—aggiungeva Domenico.—È impossibile di riconoscerti…. Appena, appena ne' tuoi occhi…
Roberto mise subito da parte questa idea; che, nel caso di una fuga, avrebbe dovuto procurarsi un paio d'occhiali per non essere ravvisato.
—Beviamo, già che ci siamo incontrati…. Mi hai dato tu tante volte da bere…. Beviamo e ricordiamo i tempi passati.
—Ma tu mi credi reo?… Vuoi bere con un assassino?
—Io credo che sia un'ingiustizia l'aver condannato a una pena sì lunga un uomo ammodo, che avea fatto fare un tuffo a uno zerbinotto insolente….
Roberto capì che anche Domenico lo teneva per reo.
Gli sembrò inutile confutarlo: il tempo stringeva: e voleva muovergli qualche altra domanda.
Fece sembiante di bere il bicchierino d'acquavite, offertogli da Domenico, ma, veramente, costui tracannò, un dopo l'altro, i due bicchierini, che avea posto sulla tavola.
—Come mai ti trovi, qui, in Calabria?
—Licenziato dal servizio del duca di Mondrone, venni qui per consiglio di Cristina, la cameriera della duchessa Enrica…. Aveva mutato tanti padroni: si sparlava di me…. gl'invidiosi, per screditarmi, han sempre mormorato ch'io sono un bevitore…. e Cristina mi diceva: è meglio che tu ti allontani. Aveva ragione. Qui in Calabria mi accadde il solito. Mutai, in varii anni, parecchi padroni; e, a poco a poco, sono arrivato qui….
Si versò un altro bicchierino.
—Come si stava bene a Mondrone, ve ne ricordate?
A Roberto batteva il cuore con veemenza.
—Quanti cambiamenti sono avvenuti…. Il duca è morto…. La sua figlia Enrica ha sposato il principe Gorreso di Caprenne…. E abita Napoli…. Si parla molto di lei….
—In qual modo?
—Anche qui in Calabria è voce popolare che essa sia l'amica del Re…. Si discorre continuamente del suo lusso, de' suoi sfoggi, delle sue feste…. È certo la donna più famosa di Napoli…. e si può dir la più bella….
—E il marito?
—Uno de' primi signori di Napoli: ma…. uomo poco scrupoloso…. Perchè la moglie fosse più libera alla Corte, ha accettato un'ambasciata, altri favori dal Sovrano…. Si fa pagare la bellezza della moglie, dicono, e se ne sta per anni lontano da casa sua. In Napoli tutti si beffano di lui…. specialmente i suoi antichi amici della nobiltà: alcuni lo giudicano un uomo a dirittura infame…. La principessa mena vita da sovrana: si sa che il suo patrimonio è rovinato: è facile indovinare donde attinga i mezzi per condur quella vita…. Si tratta di splendidezze inarrivabili….
Roberto non potea starsi dal far un confronto tra le sorti, sì differenti, toccate a lui e ad Enrica; dal paragonare alle splendidezze in cui essa viveva, le squallide mura, il duro letticello della sua prigione, ov'era ormai rassegnato a trascorrer tutta la vita.
—Ed Enrica ha avuto figli?—chiese Roberto, movendo tale domanda per semplice curiosità.
L'altro, che ogni tanto si accostava alle labbra il suo liquore prediletto, non rilevò la familiarità con cui Roberto avea pronunziato il nome della principessa. E, tutto acceso in volto, gli occhi lustri, continuò:
—Se ha avuto…. figli?…
Poi rimase a mezz'aria, come se il resto della frase gli facesse groppo alla gola e non gli volesse ad ogni costo uscir fuori.
—Perchè cotesto mistero?…—domandò Roberto un po' imbarazzato.
—Oh, un mistero, sì, un segreto: ma un segreto, che si confidi a me, non mi sfugge e non mi sfuggirà mai!
—Non t'intendo,—proseguì Roberto che si faceva sempre più attento.
Egli sapeva che Domenico era stato licenziato dal servizio del duca, da molti anni; qual poteva essere il segreto a lui confidato?
Una viva inquietudine s'impadronì di lui, gli entrò in cuore uno strano presentimento.
—Basta: io ti lascio!—disse Domenico,—mi sento cascare dal sonno: e ho da far visita ancora ad altri due prigionieri….
—No, no, beviamo insieme un po' di questa bottiglia, prima che tu mi lasci.
E Roberto, affannato da un pensiero, sebbene in vista ilare e distratto, toccava una bottiglia, sin allora rimasta in disparte.
—Beviamo pure!—rispose Domenico.
E i due amici propinarono.
Roberto però avea gittato soltanto una goccia del liquore nel suo bicchiere.
—Oh, davvero,—ripigliò Domenico, mentre Roberto si torturava per cercar con quale astuto espediente l'avrebbe potuto indurre a scioglier di nuovo la sua parlantina.—S'io volessi, potrei ora, con un mio segreto, compromettere una gran signora….
Non si rammentava più d'aver pronunziato il nome di Enrica.
—Potrei far minaccia, ricavar danaro…. ma…. sono stato sempre onesto, onesto…. e quest'uomo sarà sempre onesto—proseguì, con la persistenza degli ubriachi, battendosi le palme aperte sul petto.
—Sì, tu fosti sempre la perla dei galantuomini, Domenico; sei il vero tipo del popolano meridionale: buono, gaio, servizievole, espansivo…. sebbene con me oggi tu abbia voluto dimostrare una diffidenza, che mi ha offeso…. Ti ho sempre stimato molto; e mi sono assicurato, nel tempo in cui vivevamo insieme, che coloro stessi, i quali t'accusavano d'intemperanza, d'essere un po' focoso, erano invidiosi, che non vedean di buon occhio il tuo disinteresse, la tua onestà, la tua capacità a fare, e bene, tutto ciò che volevi.
Il vanaglorioso andava in solluchero: Roberto l'aveva proprio toccato dove gli doleva.
—Hai ragione…. sono stato diffidente, e a torto…. Ma si tratta di un segreto, che avevo giurato a Cristina di non rivelare: e di cui non ho fatto motto a persona viva…. Con te perchè dovrei riguardarmi?… Pur troppo, rimarrai sempre chiuso in questa prigione: e il segreto, che io ti posso rivelare, morirà qui con te…. Nella tua condizione, lo capisco, tutto eccita la curiosità…. il non soddisfarla è spesso un tormento: e non voglio io aver aggiunto un tormento alle tante tue sofferenze….
—Dunque, la principessa ha avuto figli?…
—Sì, una figlia…. sedici anni fa!
—Che dici?—esclamò Roberto, stringendo convulsivamente un braccio a
Domenico.
Egli ebbe paura, e fu per gridare.
Ma Roberto si rimise subito: e Domenico, imbroncito, senza proferir sillaba, si dette a raccoglier le bottiglie, i bicchieri nel suo paniere, risoluto a partire.
—Te ne supplico,—continuò Roberto, inginocchiandosi dinanzi a lui.—Tu vedi ch'io soffro; non mi lasciare così!
Roberto era pallidissimo; grosse goccie di sudore gli cadeano dalle tempie; le sue labbra, divenute sbiancate, tremavano in una contrazione, suscitata da vivo spasimo.
L'altro, ubriaco, s'inteneriva; e, vanarello com'era, s'inorgogliva di vedersi supplicato.
E poi credeva Roberto fosse l'unico essere, a cui egli potesse dir tutto, senza alcuna conseguenza.
—Sedici anni or sono—egli disse, alzando Roberto fra le sue braccia e spingendolo di nuovo verso il letto ov'egli si era subito appoggiato—proprio il giorno in cui si dovea festeggiare il ritorno del duca di Mondrone, Cristina mi disse…. Io adoravo Cristina…. Mi aveva concesso i suoi favori…. e non era donna facile….
Nella sua ansietà, Roberto non potè trattenere un impercettibile sorriso.
—Tu devi rendermi stasera un grande servizio…. ecco ciò che Cristina mi disse…. dovrai prendere una creaturina, nata da due giorni, e condurla in una casetta di montagna, ch'io t'indicherò…. Là troverai gente pronta a riceverla, appena avran letto una mia lettera: e vi avrà tutta l'assistenza…. Ma, bada, è un gran segreto: il segreto di una povera donna….
Quanto al segreto, ero sicuro di custodirlo! Ma quanto al resto…. Che povera donna! Non ci credeva davvero!… Una povera donna non ha i mezzi di ravviluppare un bambino in tele finissimo, in drappi di seta. Non può mandare un sacchetto di ducati alle persone, che raccolgono la creatura…. Indovinai subito di che si trattava…. La duchessina…. E, in quei giorni, era accasciata, malatissima; si alzò soltanto per poche ore, il giorno in cui tornò suo padre; poi si richiudeva nelle sue stanze!
Di tratto in tratto, un ruggito uscia dal petto di Roberto.
—Non so come si trovasse sì lontano nel parco il giorno in cui tu fosti arrestato….
—Ah…. ah!—disse Roberto in tuono spaventevole.
Credeva che Enrica lo avesse vilipeso, ingannato, tradito, con perfidia, che sembrava superar le forze di una fanciulla: non si sarebbe mai indotto a credere che gli restasse ad apprendere di peggio: un inganno maggiore di tutti: e pure ne aveva la prova.
Ora sì che si pentiva della promessa fatta all'ingegnere Amoretti di lasciarlo fuggire. Non ne aveva egli lo stesso diritto? Non era anch'egli un padre, che non sapea quel che fosse della sua unica creatura? E un padre, più infelice dell'altro, poichè non avea mai conosciuto questa creatura, che gli era stata rubata?
Ora sì che il desiderio di vendetta riavvampava in lui: ora sì che il suo animo era spinto verso l'idea della fuga da due sentimenti gagliardissimi: odio e amore.
—Domenico, raccontami, per pietà, ciò che facesti…. Non so, da anni ed anni, non ho udito cosa che attirasse tanto il mio cuore. Non ti meravigliare della mia curiosità….
—La sera io partii in una carrozza, mentre nel parco andava innanzi la festa. Io guidavo…. Entro la carrozza era, in una specie di culla, accomodata la bambina….
—Era una bambina?—domandò Roberto, con accento di tenerezza ineffabile.
—Debbo dire che Cristina mi aveva raccomandato di non fermarmi ad osterie…. Mi fermai ad alcune osterie: ciò non potea far alcun male alla bambina. La carrozza era ben chiusa…. Quando la riaprii, per veder come stesse, la trovai morta!
—Oh, tu sia ringraziato!—esclamò Roberto, gettando le braccia al collo di Domenico.
—Ringraziato di che?—pensò Domenico.—È costui pazzo? Mi ringrazia perchè gli dico che è morta una bambina?
—E tu, naturalmente, raccontasti a Cristina che la bambina era morta?—domandò lentamente Roberto.
—Sicuro!—riprese l'altro senza esitare.
E, ripreso in mano il suo paniere:
—Fra due o tre giorni—disse—tornerò a farvi visita…. Il regolamento non permette l'acquavite ai prigionieri, se non due volte la settimana e in certa misura…. Voi,—soggiuse ridendo, e guardava le bottiglie,—oggi l'avete sorpassata!
—Addio, buon Domenico!—rispose Roberto, sorridendo forzatamente. E, rimasto solo nella stanza, si dette a saltare, a batter le mani, a divincolarsi come un ossesso. Dacchè era al mondo, non avea mai provato simile gioia. Sapeva di aver una figlia, sapeva ove essa era, chi gliel'aveva rubata: ne sapeva ben più di Cristina, di Domenico, della principessa.
Il lettore rammenterà che un uomo stava nascosto tra le rovine del casolare ove Marco Alboni, altrimenti detto Jacopo Scovatto, si era fermato a parlare col marchese di Trapani del ratto d'una bambina.
Quell'uomo, rannicchiato fra le rovine, era Roberto Jannacone!
Egli sapea chi avea rubato la bambina e perchè era stata rubata.
Ma un timore acuto, un vero spavento lo colse:
—La bambina vivrà sempre?… E, vivendo, che sarà divenuta tra le mani di que' manigoldi?
E pensava al marchese di Trapani e a Marco Alboni. Guardò le sbarre della prigione, fissandosi sulla sbarra che avea sì ben limato e che si dovea staccare col muover di un dito.
Ah, che sorpresa per tutti il rivederlo, quando egli, dopo aver gioito dell'incognito, si fosse dato a conoscere!
Enrica credeva lui seppellito per sempre nella tomba di una prigione: dovea aver saputo da Cristina che la sua bambina era morta.
Qual effetto, allorchè egli le sarebbe tornato dinanzi, tenendo per mano la sua figliuola!
Egli ricordava quasi parola per parola il dialogo fra il marchese e Marco Alboni, la sera in cui egli si era nascosto tra le rovine presso il parco di Mondrone.
Non poteva desiderare d'aver indizi maggiori.
Già avea conosciuto a Mondrone il marchese: sapea dove abitava: sarebbe andato dritto in Napoli alla sua dimora.
Ma come farsi riconoscere a sua figlia?
E le avrebbe disvelato chi era sua madre?
Ah, se Roberto avesse saputo l'intimità che correva fra Diana e la principessa, senza che nè l'una nè l'altra potessero immaginare come le unisse un vincolo più stretto di quella loro profonda, scambievole simpatia che, secondo vedremo, per parte della principessa dovea mutarsi in odio furibondo!
Roberto tornava sempre più fervido al pensiero della fuga. Comprendea d'avervi troppo facilmente rinunziato. Ma la promessa da lui fatta all'altro prigioniero? Dovea esser mantenuta: Roberto non era uomo da mancar alla parola data a un infelice.
Bisognava compor le cose in modo che la fuga fosse possibile ad entrambi. In tal guisa, nè ciò cadeva dall'animo di Roberto, aumentavano i pericoli dell'impresa, si facevano quasi insormontabili; e ciò nel punto in cui la fuga era divenuta più necessaria, più ardentemente desiderabile.
S'illudeva che tutto sarebbe ben riuscito; che la buona azione da lui compiuta avrebbe avuta la sua ricompensa.
Con l'altro prigioniero eran rimasti d'accordo che egli tornasse da lui la prima notte in cui facesse molto scuro e vi fosse almeno un po' di burrasca.
Per ben due notti aspettarono, ansiosamente.
Il cielo era minaccioso, ma non scoppiava il temporale.
Roberto era tornato al suo ufficio: il soprintendente gli volea maggior bene, dopo aver ricevuto la notizia del modo ond'era morto il padre di lui.
S'era sempre più convinto che Roberto fosse nato in mal punto, ingiustamente perseguitato dalla fortuna.
In que' giorni gli avea ripetuto:
—Caro Roberto, io e la mia famiglia vi siamo affezionati, come se voi foste uno de' nostri; il mio desiderio più vivo è sempre lo stesso; poter rendervi il contraccambio dell'immenso beneficio da voi ricevuto.
L'indugio al fuggire dava a Roberto molta impazienza, ma comprendeva che non sarebbero state mai troppe le cautele nell'effettuale il suo atto.
La terza notte imperversò la burrasca.
Roberto fece tutti i suoi preparativi: ogni tanto gli sgorgavano dagli occhi lacrime di commozione.
Era giunto il momento, che, per sì lunghi anni, aveva agognato.
Sentì un rumore nel punto della muraglia ove le pietre erano già smosse, e pochi istanti appresso comparve lo scarno, scarmigliato prigioniero.
—Vi dovrò la vita!—disse, appena entrato inginocchioni nella prigione. E protendeva le braccia verso Roberto.
—Alzatevi!—egli disse.—Vi sentite abbastanza forte?
—Oh, sento un'energia, che mi renderebbe capace delle più grandi azioni.
Il momento era solenne. Roberto non proferì più parola e stette in ascolto. La pioggia scrosciava al di fuori. Di tratto in tratto un baleno rischiarava la prigione ove Roberto avea spento il lumicino abbacinato di cui s'era servito fin allora.
—Devono mancare pochi secondi allo scocco dell'ora!—mormorò Roberto al compagno.
Aveva già staccato la sbarra dall'inferriata.
L'orologio suonò, a un tratto, i suoi rintocchi.
—Presto, tocca a voi…. La sentinella a quest'ora si deve essere allontanata.
L'ingegnere Amoretti avea già scavalcato la finestra e afferrata la scala.
—E ora a me!—disse Roberto.
E già i due prigionieri in cuor loro si vedean liberi, salvi.
Il bagliore di un lampo rischiarò in quell'attimo tutta la campagna.
Roberto, dall'alto, vide il gruppo delle sentinelle, che parlavano fra loro, a breve distanza.
—All'armi!—gridò una sentinella.
—All'armi!—gridò un'altra sentinella.
Furono immantinente sparati quattro colpi di fucile.
Subito tutti si svegliarono.
Il primo ad accorrere fu il soprintendente, che udì il rumore degli spari, mentre recavasi a portar una buona notizia al prigioniero che stava vicino a Roberto, all'ingegnere Amoretti, il quale avea ottenuto la grazia, che gli riconcedeva la sua libertà!
Vediamo un contrasto ad una notte sì burrascosa.
Era una bellissima giornata. Due nostri personaggi, Diana e Adolfo Venosa, parlavano insieme nel giardino che si stendeva dietro al palazzo del marchese di Trapani.
I due innamorati erano nel massimo accordo. Diana sembrava avesse del tutto dimenticato i suoi sospetti di un'intima relazione fra Adolfo e la principessa; o si fosse convinta che avea sospettato a torto.
Parlavano, parlavano l'uno all'altra, e con molta espansione.
Il bel cielo fulgido, i fiori, che mandavano i più soavi e svariati profumi, il canto di due usignuoli, il mormorare di una cascatella, il cui getto argentino scorreva nel mezzo d'un boschetto, eran propizii nel disporre alle confidenze due cuori innamorati.
Giungevano in quel punto a una estremità del giardino.
—Non comprendo,—disse Adolfo,—la tua incurabile tristezza; mi sembra che tu dovresti esser felice…. Sei ricca, circondata da tutto il lusso che si può desiderare, puoi ottenere qualunque cosa tu domandi: appartiene a te l'eredità delle ricchissime parenti di tua madre….
—Ah, appunto, e credi tu possa esser felice una fanciulla, che non ha mai conosciuto sua madre?… Se tu sapessi che cosa vuol dire il veder le altre fanciulle accarezzate, protette dalle loro mamme; il vederle sempre circondate dalle cure di esse, dal loro continuo amore…. Giorni sono ero da alcune mie amiche. Era la festa della loro mamma. Aveano disposto su un tavolino, nel salotto di lei, bellissimi regali consistenti in lavori da loro fatti di soppiatto, per procurar ad essa una sorpresa…. Eran tutte fresche, bene abbigliate. La mamma è entrata all'improvviso, anch'essa rosea e fresca; abbigliata come una fanciulla e sempre bella. Tutto in quella casa spirava contento…. La bella mammina ha visto i regali: ha gettato un grido; poi ha abbracciato e ha baciato a una a una le ragazze. E ridevano tutte insieme; e si facevano domande, si rispondevano fra la mammina e le figliuole…. E la mammina le accarezzava sempre…. Io ho pianto, come piango ora, perchè non ho mai conosciuto tali gioie…. e non le conoscerò mai…. Povera mamma mia…. Dicono che è morta, dandomi alla luce…. in una villa…. Oh!
Diana singhiozzava. E Adolfo, che era buono, sebben leggero, e l'amava, si lasciava andare anch'egli a quella commozione.
—E poi…. sono infelicissima per tanti altri motivi!—disse Diana, rompendo il silenzio, che era durato fra loro alcuni istanti e battendo in terra un piede, in segno d'impazienza.
—Motivi che tu mi tieni segreti!—soggiunse subito Adolfo con un certo piglio di risentimento.
—Non te li ho mai palesati fin ora perchè io stesso pensava che certi miei preconcetti, certe mie antipatie fossero un'ingiustizia…. Ma sento che non posso vincer nè gli uni, nè le altre, e che anzi il tempo rafforza in me certi sentimenti, certe idee….
—Ma, dunque, non potrò io saper nulla?
—Oh, sì: tu devi saper tutto: e confortarmi, consigliarmi,—rispose
Diana, abbandonando una delle sue mani fra quelle di Adolfo.
—Parla….
—In questa casa io ho paura!… La sera mi chiudo nelle mie stanze, come se fossi, invece che nella casa paterna, tra' miei peggiori nemici…. Il marchese, specialmente in certi istanti, m'ispira un certo raccapriccio…. Le sue carezze, i suoi baci mi sono un tormento…. Non sento in lui nulla di quello che una figlia dovrebbe sentire in un padre…. Egli finge alle volte di amarmi, di esser premuroso per me; si vede però l'ostentazione, lo sforzo…. Quando ho sofferto, sin da piccina, non l'ho mai veduto piangere, commuoversi come quando si vede soffrire una persona a cui si vuol bene…. Credi, oh, ho trovato assai più affetto nella principessa…. Ti rammenti il giorno in cui ebbi un po' di male in uno de' suoi salotti?… Fu la prima volta che vidi e sentii qualche cosa di veramente affettuoso intorno a me…. Così si deve stare accanto a quelli che soffrono e che si amano!
—Tu, Diana, sei una creatura perfetta….
—E per questo mi si danno tante afflizioni!—ella disse, guardando
Adolfo con una certa intenzione.
—Non credevo d'avertene mai date io,—riprese Adolfo,—ma se tu pensi altrimenti, vorrei sapere….
—Oh, tu vuoi saper troppo!
E Diana gli sorrideva: ma tornò presto a rannuvolarsi.
—Dunque, che hai, angioletto?
—Non posso più stare in questa casa…. sento che qualche cosa si macchina contro di me…. Ho sorpreso certi sguardi fra mio padre e l'intendente: quel signor Marco Alboni, che ha l'apparenza di un prete: devoto, bigotto, ma che io credo tristissimo…. Non so come costui sia entrato nella nostra casa e vi abbia tanta preponderanza…. Egli comanda a mio padre….
—Che?
—Un giorno, aprendo all'improvviso la porta di un salotto, ove credevo di ritrovarmi sola, vidi mio padre presso una finestra, che parlava con Marco Alboni, il quale lo minacciava, tenendogli un pugno su una tempia…. E udii pronunziare il mio nome.
Adolfo era diventato pensoso.
—Ti assicuro,—ripigliava Diana, tremando,—c'è qui un'infernale congrega contro di me.
Il Venosa provava un gran turbamento alle parole che Diana gli venia dicendo con sì forte commozione.
Era essa una fanciulla esaltata, che immaginava pericoli ove non erano, con l'animo disposto a soavi tenerezze, che solo l'affetto di una madre avrebbe potuto soddisfare? Oppure, ella davvero si trovava fra gente trista, o spensierata, che non nutriva per lei alcun affetto?
—Credimi,—aggiungeva Diana, vedendo Adolfo sì pensoso,—in questa casa c'è di certo un mistero: e un brutto mistero!
Adolfo era coraggioso, intrepido e l'avea dimostrato ne' suoi viaggi; dinanzi a un nemico, dinanzi a un pericolo non avrebbe saputo indietreggiare un istante. Il coraggio era stato sempre in lui grande quanto il raccoglimento negli studii.
Ma era senza esperienza della vita: non atto a sbrogliar le fila di un intrigo sociale; lento nel conoscere gli uomini: difficile a supporre il male. Non avea ancora sofferto: non avea mai amato, salvo Diana: e forse l'affetto che nutriva per lei non avea tutto l'ardore, tutto lo slancio di una prima passione.
Per esempio, egli non se n'era mai domandato la ragione: ma al cospetto della principessa tremava, e poteva vedere Diana più volte il giorno, senza sentirsi men tranquillo dell'usato.
Invece l'incontrarsi con la principessa all'improvviso, lo scorgerla avvicinarsi a lui ove non pensava si potesse trovare, l'udirne proferire il nome, bastava a farlo arrossire, ad affrettare i palpiti del suo cuore.
E alla principessa non avea mai fatto, come a Diana, dichiarazioni di amore; essa, senza ch'egli il sapesse, lo avvinghiava ne' suoi lacci, lo tenea schiavo della sua bellezza sovrana, infiammava i suoi sensi, come a cent'altri, senza ch'egli ne avesse coscienza.
La principessa lo giudicava per un inesperto: e si pigliava giuoco di lui, si divertiva a inebriarlo de' suoi filtri, a esercitare anche su lui quella tirannia della carne, a cui sapeva dover soggiacere ogni uomo che la vedesse, o ch'ella volesse torturare.
Però, sempre, avea quella vaghezza di mostrare in pubblico ora il suo seno, ora le sue spalle, ora le sue braccia, ora perfino, con studiato pretesto, una parte della sua gamba. Una sera, per recarsi col principe ad un ballo, dato in Napoli dall'ambasciatore inglese, ella si era acconciata da Ninfa. Molti fiori su la testa: una ghirlanda di fiori, a tracolla, che le ricingeva per sghimbescio tutto il suo bel corpo: alcuni tralci di edera soltanto le coprivano il seno, la cui robusta bellezza attirava ogni sguardo: e quel seno procace, palpitante, era toccato da una morbidissima pelle di tigre, che parea carezzarlo e ne facea risaltare la bianchezza. Questa pelle di tigre era cinta alla vita: e su la spalla destra era fermata da tralci di bellissime rose artificiali. La pelle della tigre scendeva poi sin oltre il ginocchio e copriva la gamba destra fin quasi al coturno che essa calzava; la gamba sinistra rimaneva quasi scoperta e si vedea la maglia, che ne disegnava le linee schiette e vigorose. Il principe, quando la vide in tale acconciatura, rimase estatico: essa era una stupenda baccante: poi si dette a gridare ch'egli non l'avrebbe accompagnata alla festa, in tal modo. Il dissidio domestico durò circa un'ora: la principessa usò di tutte le arti, di tutte le sue blandizie: il principe ora le facea una carezza, la baciava, ora la rimproverava: un istante si gettava a' suoi piedi, poi subito tornava di malumore: ci fu un punto in cui la principessa gli mormorò una parola: lo trasse a sè: e parve che egli, ad una condizione, le promettesse sottoporsi alla sua volontà. Cessarono di parlarsi: si udì nella stanza qualche sospiro: una cameriera, nella stanza vicina, non osava muoversi, ben accorta di quello che accadeva. Essa avea già udito la scena fra il principe e la moglie. E il principe ora, alzatosi, non volea più mantenere la sua parola. Ora non avea più dolcezze, neppure a intervalli; parlava reciso, imperioso.
—Ma non è bene,—gli replicava la principessa col suo piglio da cortigiana,—che tutti vedano come tu hai una moglie, la quale supera le mille e mille donne di Napoli nella bellezza delle forme?… Non ti piace d'essere invidiato?… Non accresce in te il desiderio di avermi, l'orgoglio ch'io sia tua, il vedere, l'udire uno spasimo, un mormorio d'ammirazione intorno a me?… Ah, per un uomo, il poter mostrare a tutti una donna come sono io!—ella diceva con la maggior sicumèra,—e potersi dire di certo: essa mi appartiene…. io sono il suo signore, il suo dominatore, posso farne, a mio grado, la serva, la schiava de' miei piaceri!… Poichè sono tua, tutta tua, senza resistenza, senza ch'io ti tolga una parte sola della mia bellezza…. Qui, nel silenzio delle nostre stanze, non ti dovrebbe essere una triplice voluttà il ritrovar libere, per te solo, le gioie che tutti t'invidiano?
E parlava, gesticolava com'una vera baccante.
—Non c'è uomo,—gli ripeteva,—che mi piaccia al pari di te…. Non ti potrò esser mai infedele! E poi il marito è il solo a cui una bella donna appartenga veramente…. Gli altri vivono di piccoli furti e hanno tutto a disagio.
—Cortigiana! cortigiana!—ripeteva il principe, e sorrideva, chè in quel tempo, dopo la loro terribile scena, da noi raccontata molti capitoli innanzi, pigliava tutto alla leggera, secondo il suo carattere.
Questa scena, metà ilare, metà seria, fra il principe e la principessa, si svolgeva nell'abbigliatolo di lei, al riflesso di diecine e diecine di candele rosee infisse nei candelabri d'argento, in lumierette di Murano, fra i profumi delle polveri, de' minii, di essenze inebrianti.
—L'ora è tarda!—disse a un tratto il principe,—decidiamoci.
Fu convenuto che la pelle sarebbe chiusa anche su la gamba sinistra con una stringa d'argento e così fu fatto.
Una cameriera si mise al lavoro; la principessa la occhieggiava maliziosamente. L'altra subito capì.
Per le scale del palazzo dell'ambasciatore, la principessa, con un lieve gesto della mano, avea tolto la stringa.
Entrò nelle sale, mostrando la sua bella gamba. Ella sapea che quella sera il Re dovea essere alla festa: e cominciava allora a cercar di attirarlo a sè. Quel modo di acconciarsi le era sembrato irresistibile. E non s'ingannò.
Pochi giorni appresso, l'ufficiale delle guardie reali, come abbiamo a suo tempo accennato, riferiva a sua sorella, la contessa L…, di aver veduto una mattina, mentr'egli era di servizio, la principessa uscire dagli appartamenti reali, vestita come una piccola modista.
Ma non era soltanto pel sovrano, che voleva esercitar questo fascino; le piaceva esser una maliarda per tutti.
Quando usciva a piedi, andava talora per via Lanzieri e per la strada della Pignasecca: e le esclamazioni d'ammirazione, a volte grossolane, di quella gente, che non sta a pesar le parole, e che a vederla, mostrava di sentir i fumi al cervello, la solleticavano.
Andava a posta per quelle strade, affine di sentirsi esaltare, magari in quel linguaggio; e sino una tale specie di corteggiamento, le sapea buono.
In Adolfo Venosa ella avea pure, senza mettervi troppo studio, e a solo diletto, eccitato questa fiamma dei sensi. Non gli avea permesso alcuna intimità; si era accorta che, allorchè egli le dava la mano, tremava; e ne sorrideva. Tuttavia il Venosa serbava intatto, o almeno credea serbare intatto il suo amore per Diana.
Ora, stava in gran titubanza per ciò che essa gli avea detto.
Possibile che il padre di lei non l'amasse!… Possibile che vivesse sotto l'arbitrio di un servitore!
Questo e altro, com'abbiamo notato, egli andava rivolgendo nella mente da alcuni secondi.
Ma Diana incalzava:
—È questo tutto l'aiuto che mi viene da te?…
—Tu mi parli di timori vaghi, di paure, senza soggetto…. Tu mi hai detto ben poco di determinato…. Forse il tuo carattere, a volte molto eccitato, ti fa travedere, o esagerare…. E poi: come vuoi che io possa contrappormi? Con quale autorità? Sono io tuo parente, ho io fin ora qualche ragione, almeno in apparenza, di tutelarti?
—E ciò appunto prova che tu mi ami poco,—rispose Diana con una certa veemenza.—Se tu mi amassi, avresti a quest'ora chiesto a mio padre di sposarmi… E lo farai, senza molto indugio!—disse la fanciulla, con una di quelle attitudini di sovrano comando, che eran proprie alla principessa: tanto che essa e Diana le avresti dette d'una medesima razza, e in quel punto anche Adolfo credette di vedere innanzi a sè Enrica, di udire lo stesso suo tono di voce.—Lo farai e presto: se non vuoi che ogni tuo legame con me sia sciolto…. Non credere io sia una di quelle fanciulle, che si compiacciono di aver un bell'amante e non gli domandano mai di effettuare il fine d'ogni relazione onesta, fra un giovane e una fanciulla: il matrimonio….
Il Venosa voleva parlare.
—Io non m'impongo a te,—disse Diana, che sempre più in quel punto assomigliava alla principessa.—Tu mi hai perseguitato un tempo con le tue occhiate, le tue proteste d'amore, le tue promesse…. Io ti ho dato il mio cuore, ma son pronta a ritogliertelo. Se, in breve, tu non hai fatto questa domanda di matrimonio, cesserà ogni rapporto fra noi…. Io uscirò dalla casa di mio padre e tornerò in convento….
—Ma Diana!…
—È una risoluzione irrevocabile…. Io ti amo, sai,—continuò, addolcendo il tuono della sua voce,—voglio però che mi si spezzi il cuore prima di ridurmi a esser soltanto tua vittima, o il tuo trastullo….
—Se—ripreso Adolfo—io non ti ho chiesta a tuo padre, sai il perchè: perchè egli, più volte, con discorsi assai espliciti, si mostrò, per ora, contrario a qualsiasi tuo matrimonio.
—Ecco appunto dov'è il pericolo!—rispose ardita, animosa la fanciulla.—E tu non devi essere un pusillanime!
Il Venosa era spaventato dall'energia di Diana.
Dubitava fosse accaduto qualche cosa di ben più grave che ella non avesse detto, poichè mai gli era apparsa così risoluta, così smaniosa ed inquieta.
Che potea aver ella sofferto nella sua casa?
Tornava a attribuire certe insistenze al carattere esaltato di lei: ma ciò non lo lasciava in tutto tranquillo.
—Parlerai a mio padre?—riprese Diana, con voce dolcissima; mentre egli le carezzava una mano, la guardava con tenerezza, senza risponderle.—Io ti amo e sento che, nel mondo, posso fidarmi in te solo: che non mi rimane altro aiuto, altro affetto sincero….
Egli si sentiva vincere, ammaliare da quella dolcezza: sentiva la gioia, l'orgoglio d'ispirare una passione sì pura: presagiva la felicità immensa, che gli sarebbe da essa derivata.
Era la prima donna, cui egli avesse parlato d'amore; ed egli era il primo che Diana avesse amato, il solo che ella avrebbe amato.
Erano tutt'e due inesperti nella grande arte dell'amore: quindi facili ai crucci, facili a procurarsi scambievolmente motivi di tortura e di disperazione, secondo il loro carattere; poichè Diana era tutta piena di fervori, di delicate fantasie appassionatissime, il Venosa più riconcentrato e più freddo.
—Ti amerò sempre,—egli disse,—e ti domanderò a tuo padre quando venga il momento opportuno… cioè presto!—disse, ripigliandosi, poichè avea visto il movimento d'impazienza di Diana.
Egli era un po' irresoluto: la principessa tentatrice, voluttuosa, adescatrice, nella sua scultoria bellezza, gli tornava sempre innanzi.
—Il mio unico desiderio, ti ripeto,—diceva Diana,—è di uscire, in breve tempo, da questa casa…. Mi sembra che non sono in casa mia, ma in una casa d'estranei, dove tutto può capitarmi: ove sono esposta a tutte le offese…. Se tu indugi, io tornerò nel convento ove sono stata educata… ne uscirò non so quando… ma per non rivederti mai più…. È già troppo ch'io ti prego…. È vero che io ti amo, e il fingere, le ipocrisie, le simulazioni volgari, mi parrebbero un'umiliazione…. Ho l'orgoglio della mia passione e della mia virtù….
—Saremo uniti… fra poco,—disse il Venosa, dopo breve riflessione.—Ma se il marchese si opponesse?
Le guancie di Diana diventarono rosse. Sentiva in sè nascere il sentimento della ribellione. Le vennero alle labbra certe parole di sdegno, ma non osò proferirle.
In quel punto Adolfo e Diana svoltavano da un viale; il marchese e Marco Alboni, che erano dinanzi a una finestra, confabulando insieme, scorgevano i due innamorati.
—E quel giovinastro è sempre qui!—esclamò Marco.
—Come vuoi ch'io lo scacci di casa mia! Egli è d'una famiglia di miei antichi amici. E poi, con qual titolo dovrei proibirgli di farmi una visita?… Egli è uno de' giovani più stimati che sieno in Napoli; alla sua età, ha riputazione fra i dotti, autorità fra i gentiluomini…. E poi: non vedi che, se io gli vietassi di venir qui, susciterei la resistenza di Diana?… Tu credi Diana una fanciulla docile, pronta a essere strumento di tutti i nostri capricci?… Non ti accorgi che ella tollera, ma comprende, che essa non dà in escandescenze, ma rattiene spesso una osservazione, una protesta?… Io leggo nel suo volto lo sforzo che ella fa…. È fina, come tutte le donne, per istinto, non è ancora abbastanza maliziosa per sorridere ove si sentisse disposta a piangere, e viceversa.
—Ma quel giovinetto sarà di ostacolo a' nostri disegni…. E, se il
Re sapesse….
—Oh, il maggior ostacolo sarebbe nel contrariare Diana…. Allora sì che ella si ostinerebbe…. La sua inclinazione verso quel giovane è, fino ad oggi, una fanciullaggine…. Se io mi vi opponessi recisamente, diventerebbe una passione ostinata, una di quelle passioni, che si alimentano dalla caparbietà, dal puntiglio….
—Come ragioni,—Marco era arrivato a dar del tu al suo complice, nella intimità,—quando vuoi che le cose vadano a seconda de' tuoi desideri!…
—Il giovane, poi, è buonissimo,—continuava il marchese, quasi non avesse udito l'interruzione,—incapace di abusare della innocenza di Diana…. Sono due anime virtuose…. Non altra unione avrebbe potuto esser migliore della loro…. Noi non crediamo se non alla passione volgare: la virtù ha gioie, beatitudini che noi non conosciamo: essa cerca ben lontano, donde noi li cerchiamo, i suoi piaceri ineffabili!…
—Eh, eh, datti anche a far il Tartufo adesso,—disse Marco, battendo su una spalla il marchese,—non venirmi a rubare il mestiere!… Sai ch'io ho regalato ieri al nostro parroco due immagini, due belle statue di stucco…. Il parroco avea aperto una colletta perchè a due altari mancavano le immagini: io le ho comprate: gliele ho offerte…. E la colletta?—mi ha detto.—Spartitela in tanti soccorsi a' poveri più bisognosi della vostra cura, e tutti ne saremo contenti…. Così fu fatto…. Quando vo in chiesa, la gente mi accenna a dito….
—Che matricolato briccone!
—Non facciamo però digressioni…. Pensa che una sola cosa manca alla tua suprema fortuna… e alla mia: che il Re e quella giovane siano in perfetto accordo: che quella giovane, sì bella e sì poetica,—aggiungeva Marco con un ghigno,—prenda, per autorità, per influenza, alla Corte, il posto della principessa….
—È una delle ragioni, per le quali lascio che il giovane si mostri sì assiduo con Diana…. La principessa così non avrà sospetti….
—E credi tu che la principessa pensi a Diana, che sospetti di poter essere surrogata da una fanciulla sì inesperta, che si dia briga di sapere se alcuno la corteggia?… Quando il fatto sarà un po' palese tra' suoi amici, e che qualcuno di essi, uno zelante, glielo riferirà, desterà la sua gelosia… oh… allora vedrai; ma noi saremo là per vegliare!
—Credi tu poter qualche cosa alla Corte?
—Io posso da per tutto!—rispose Marco con una certa sicumèra.—Chi avrebbe creduto che potessi tanto quanto ho provato di potere? Avreste voi creduto che un uomo misero, stracciato, al quale gettavate, di quando in quando, pochi ducati, avrebbe potuto salvarvi dalla miseria, dall'obbrobrio, dal disonore?… Farvi ricco?… Mi sembra talvolta che sono io il padrone di tutta questa ricchezza,—disse Marco, guardando attorno a sè con una certa baldanza.
—Tu sei sempre a rinfacciare….
—No: no: ma quello che io ho compito, con tanto rischio e pericolo, non va a dirittura dimenticato,—prosegui insolente ed ironico.—Quando io penso,—e tendeva l'indice della mano destra verso Diana, che passeggiava tuttora nel giardino con Adolfo,—ch'io portando via quella ragazza all'ubriaco, cui era stata data in custodia, vi ho procurato tanta fortuna, e sto per procurarvene una tanto maggiore…. Ah, me la ricordo quella sera!… Mi par di vedere l'osteria: di sentire lo scalpitìo de' cavalli: una carrozza si ferma davanti alla porta: entra nell'osteria un uomo: un buon uomo: beve, ribeve: offre vino a tutti: parla, riparla: racconta che gli hanno affidato una bambina, che è nella carrozza….
—Ma tu mi hai già ripetuta, se non sbaglio, questa storia, punto per punto, mille volte….
—È una storia, che, in tutto il suo seguito, empie di ammirazione me stesso, che pur ne sono il modesto eroe,—ribattè, appoggiando su la parola: modesto!
Il marchese sorrideva con una certa amarezza.
—Modesto, dico,—proseguì l'altro,—perchè non ho cercato grandi ricompense… fin ora: e non mi son vantato con altri di quello che ho fatto… fin ad oggi!
—Ah, non hai avuto grandi ricompense?—esclamò il marchese, che s'irritava ogni volta che Marco tentava su lui un ricatto più forte dell'usato: e si accorgeva ch'ora n'era in procinto.—Non hai avuto grandi, anzi grandissime ricompense?… Ma, ammettiamo pure ch'io ti debba qualche cosa; e che saresti tu, a quest'ora, divenuto senza di me?… Probabilmente saresti tornato ad essere il galeotto Jacopo Scovazzo! Ora qui, ben vestito, ben pasciuto, onorato, rispettato dai galantuomini, ricco già di parecchie diecine di migliaia di lire, non sei contento: vuoi sempre di più, mentre hai quello che non avresti mai sognato di possedere o che ti sarebbe sembrato, sognandolo, il colmo della felicità….
—Dovresti sapere che l'appetito viene mangiando,—rispose Marco Alboni, o Jacopo Scovazzo, protervo,—qui sono inutili le parole sonanti, le belle parole con cui i pari nostri la danno ad intendere alla gente dabbene…. Noi siamo due furfanti…. qui possiamo dirlo già che nessuno ci sente… su cui i discorsi melliflui, gli appelli alla discrezione, alla temperanza, all'esser morigerati, fan l'effetto della carezza di una piuma su una massa di bronzo…. Noi non ci commoviamo, se non pel nostro utile: e questa è la nostra religione: tutto il resto c'è indifferente…. Sicuro, questi cavalieri, coperti di ferro,—e accennava a' quadri degli antenati del marchese, appiccati alle quattro pareti della gran sala,—non mi avrebbero forse veduto qui di buon occhio…. Ma la colpa è mia, se ci è voluto un furfante… come me… per salvare, almeno in apparenza, l'onore del loro rampollo: per salvarlo dalla vergogna d'aver un nome infamato, e dalla abiezione di una miseria, inasprita dal disdoro?
—Sono stanco!—mormorò il marchese, cui la collera toglieva quasi il respiro.
—E perchè, dunque, tu mi rimproveri?… Tu dici ch'io sto qui bene e dovrei esser contento della mia condizione?… E tu non stai meglio di me? E non sei ambizioso di farti maggior largo nel mondo, d'inalzarti, anche a prezzo dell'onore di una fanciulla, forse a prezzo della sua felicità, della sua vita?… È vero che di ciò non mi adonto, non penso a commovermi. L'utile, l'utile è la nostra sovrana legge!… La nostra regola è semplice: per star bene noi, non importa se dobbiamo calpestare qualcun altro…. Non è vero?
Il marchese non potea oppugnar certe teorie. Eran le sue, e Marco le avea apprese da lui.
Qualche volta, a tarda ora, o sul far del mattino, tornando dal Club, o da cene con donne e uomini di dubbia fama, egli, che s'era insozzato in tutte le tristi compagnie, ubriaco, mezzo fuori di sè, sciorinava dinanzi a Marco le sue ciniche, fetide dottrine. L'altro, senza faticarsi a formulare certi perversi concetti, li avea sempre messi in pratica.
—Dunque,—concludeva Marco,—anch'io son ambizioso…. Per quanto tempo credi tu voglia io continuare a far il servitore?… Sento anch'io il bisogno di comandare, non ristrettamente com'ora, ma assolutamente… sento il bisogno di non inchinar più la testa dinanzi a nessuno, neppure per semplice apparenza, come faccio a te…. quando gli altri son presenti. È necessario, urge che tu raccolga tutta questa fortuna, che ti è promessa, e a cui tu speri arrivare, perchè io ti presenterò le mie ultime condizioni!
Il marchese sedette su una poltrona, sbuffando e voltando le spalle a
Marco.
Questi, che si burlava sempre di lui, oltre al tormentarlo, fece una giravolta per andargli a sedere dirimpetto: e, cercando di fissarlo negli occhi, e avvicinandosegli, bisbigliava:
—Rammentatevi ch'io possiedo un importantissimo documento contro di voi; la letterina del dottor Krag: essa è in luogo ben sicuro e può uscir fuori ad ogni istante. So che voi pure avete un mio segreto… ma vi sfido a palesarlo: io, forse, potrò tornare ciò che fui sempre: il vostro disonore, la vostra rovina sono sicuri. Scegliete!… Potreste stare tanto bene, andar innanzi sì prosperamente per la via che vi piacerebbe di percorrere. Siete un briccone tra i più felici: non avete se non un ostacolo…. in me! E io non domando meglio che trarmi in disparte, lasciare sgombra la vostra via: solo dovete esser con me generoso…. Conoscete la contessina Ippolita Gavini? La madre è vedova: sono ridotte povere… e io voglio sposare quella ragazza grassa, paffuta…. Ci vogliono però molti quattrini…. Ecco una delle cose che voglio fare co' quattrini, che aspetto da voi…. La mamma è tutta ben disposta per me: le accompagno in chiesa: vo in casa a dir con loro le devozioni. Mi tengono per un santo…. Sino ad ora la ragazza dice d'aver in me un padre: così la stringo al mio seno, l'accarezzo…. Ieri era vestita di semplice mussolina…. Se sentiste che floridezza?… Mi sono promesso ormai godermi quella ragazza…. Una contessina!… Vi assicuro sarà, per parte mia, un matrimonio d'amore!… Ho forse troppa esigenza?
Si tacque per un poco: poi domandò languidamente, e con perfida malizia:
—Non ho diritto anch'io a un po' di felicità nel mondo?… E poi qui si tratta d'aver cura di una povera vedova e di un'orfanella….
—E bene,—disse il marchese, alzandosi, e volendo liberarsi da quell'incubo,—che le parenti milionarie di mia moglie muoiano presto e io abbia in mano i loro milioni: che Diana sia presto sotto la protezione del Re… e allora tu avrai tutto il denaro che vuoi: potrai prender moglie: e io sarò felice… che tu mi ti levi dinanzi!—queste ultime parole pronunziò a bassa voce.
Diana e Adolfo erano ora ben più vicini al punto donde li osservavano il marchese e il suo degno compagno.
Contradizioni della vita! Quale disparità fra le due coppie!
In alto il marchese e Marco, tristi, cinici, ipocriti, raggiratori, senza coscienza, crudeli, rotti a ogni vizio: e, in mezzo alle aiuole di fiori, tra i boschetti verdeggianti, Adolfo e Diana: cioè la bontà, la innocenza, la inesperienza, la poesia, l'amore!
Due giorni appresso, la mattina, di buonissim'ora, il marchese scriveva nella sua biblioteca.
Egli scriveva, come faceva una o due volte per settimana, alle sue ricche parenti.
In queste lettere menzognere parlava loro sempre del suo smisurato amore per Diana, delle nuove cure che sempre si dava per l'educazione di lei, dell'incontro che essa avea avuto, per la sua grazia, la sua bellezza, condotta da lui alla Corte e nel gran mondo.
Aggiungeva ch'egli vegliava su di lei a ogni istante: che la tenea lontana da ogni pericolo: tornava sempre a ripetere che la morte della moglie lo avea guarito da' suoi eccessi: ch'egli s'era ormai abituato a un tenore di vita serio, anzi austero, e se ne trovava sì lieto da provar rammarico di non averlo sempre seguito.
Le vecchie un po' credevano, un po' facean sembiante di credere: egoiste, non voleano da lui troppa molestia: amavano Diana, ch'egli avea recato loro più volte: e passavano lauti assegni.
Se Diana si maritasse, e posto che il marito andasse loro a genio, avean promesso dare ciascuna di esse un mezzo milione: ma ciò non garbava al marchese, poichè in tal guisa Diana gli sarebbe sfuggita, le sue rendite si sarebbero assottigliate.
Tenuta in casa, Diana dovea essere strumento della sua ambizione.
Mentre il marchese scriveva, Marco Alboni aprì l'uscio, al solito senza prima battere, e fece capolino tra la porta socchiusa.
—Si può?—disse, sogghignando.
Entrò in punta di piedi, con le mani incrociate sul petto, come quando assisteva, in apparenza tutto compunto, alle funzioni nelle chiese.
—È dunque vero—domandò—che tu dai, tra alcune settimane, una festa da ballo?
—Sì.
—E non mi dicevi nulla?
—Se tu mi avessi dato tempo, l'avresti saputo.
—Chi inviti?
—Tutta Napoli…. Gl'inviti saranno fatti a nome di Diana e mio: avremo qui tutte le amiche di Diana: il fiore della nostra aristocrazia.
—E che ci sarà di particolare nel tuo ballo?
—Sarà un ballo in maschera….
—Oh!
—Il Re ha voluto così…. Ma silenzio! Il Re passerà dalla scala segreta, entrerà ne' miei appartamenti e in quelli di Diana…. In quelli di Diana, sopra una tavola, si deve trovare un gran domino di raso nero con due grandi fiocchi cilestri e due maschere, pure di raso….
—E la principessa?
—Sarà qui necessariamente…. Non si può evitare d'invitarla…. Non verrà, se è malata: altrimenti la vedremo qui, in uno dei soliti abiti scollatissimi, a far pompa delle sue carni…. Se viene, assisterà al trionfo della rivale…. senza saperlo, poichè il Re non sarà riconosciuto. Egli confida ammaliare Diana in quella sera…. Essa cenerà con lui, in luogo riservato, appartato dalla festa, e l'avvertiremo che è col Re…. La fanciulla vede il sovrano di buonissimo grado, e se ne tiene quando egli le parla da solo a sola….
In fatti Diana avea nell'alto personaggio molta fiducia: si proponeva anzi aprirgli il suo animo perchè egli vincesse le resistenze del padre al matrimonio di lei col Venosa.
E il personaggio avrebbe non pur agevolato, ma voluto tal matrimonio: domandava per sè alcuni dolci preliminari.
—Sapete—osservava Marco, che or trattava con cerimonia, or con la più rozza familiarità il marchese—ciò che si dice della principessa in un cerchio molto intimo…. in quello della mia polizia segreta?
—Parla, parla, Marco.
—Quella Messalina è rovinata!
—Come?
—Il suo lusso, che ecclissa quello della sovrana, non è in relazione con la sua fortuna. Le sue prodigalità sono pazze…. la gente che la circonda e amministra i suoi beni, non ha idee pratiche, è nata per sterminar tutto; tale e quale come la signora, a cui serve…. V'ha di più: essa ha arrischiato somme fortissime in speculazioni…. Le ha dato credito l'influenza, che si supponeva ella esercitasse sul Re…. La magnifica tenuta di Mondrone è già tutta ipotecata…. e non basta a pagare i debiti della principessa. È sempre elegantissima, sempre allegra, continuano i suoi pranzi sfarzosissimi, le sue cene, i suoi splendidi ricevimenti, ma essa lotta fra immense strettezze. E pure è bello vedere una donna, nata per il piacere, una gran dama, combattere una sì gigantesca lotta finanziaria!… Ciò dà un'idea della fibra, della indomitezza di quella donna straordinaria…. Ma ci debbon esser momenti, allorchè nella solitudine si cava la maschera della socievolezza, di gran dama, in cui deve sentirsi ben stanca e sola! Mi fa meraviglia il pensare che una donna abbia potuto affrontare tutto ciò che essa ha affrontato…. Oh, se, invece d'averla nemica, l'avessimo avuta con noi! A che non saremmo arrivati?
—Io ho provato sempre un certo terrore dinanzi a quella donna,—disse il marchese.—Me la ricordo giovinetta: e già avea qualche cosa d'insolito, che colpiva: teneva in soggezione noi uomini già avanti in tutte le depravazioni, in tutti i segreti della vita!
Era vero: la principessa ormai si avvicinava alla più assoluta rovina: l'autore principale di questa catastrofe era il Weill-Myot. Egli aveva un disegno: vendicarsi dello sprezzo onde Enrica lo aveva umiliato, servendosi di lui come un semplice uomo d'affari, respingendo tutte le sue proteste d'amore.
Il banchiere era milionario. Avrebbe pagato a qualsiasi prezzo il gaudio di vendicarsi.
Già sappiamo delle somme vistose, che egli avea anticipato alla principessa per eccitarla allo spendere. Un impiegato della banca, che avea l'aspetto d'un diplomatico, avea rimesso, come ci è noto, tutto quell'oro alla principessa contro alcune cambiali, a breve scadenza, da lei firmate. Ella poteva firmare, poichè il marito le avea lasciato facoltà assoluta di amministrare, come credeva, il patrimonio lasciatole dal padre.
Lo stesso impiegato del Weill-Myot avea avuto incarico di allettare la principessa a certe speculazioni. Sulle prime il Weill-Myot facea rimettere alla principessa grossi lucri, qual frutto di certe operazioni; ma quando essa vi ebbe arrischiati grossi capitali si propalò che le speculazioni, in cui s'era avventurata, andavano fallite.
Grandissima potenza, il Weill-Myot cagionava quei disquilibri. Voleva che la principessa, ad ogni modo, rimanesse in sua balìa, per possederla forse, di sicuro per umiliarla e dispregiarla.
Intanto, mellifluamente, le veniva dicendo:
—Io vi ho sconsigliato più volte di gettarvi, a chius'occhi, in certi affari….—Ed era vero. Egli la sconsigliava. Ma il suo impiegato elegantissimo l'eccitava e le portava i vistosi guadagni, ch'egli stesso gli forniva per un certo tempo.
—Sembrava tutto andasse sì bene!…—osservava la principessa.
—Ma perchè—instava l'ipocrito Weill-Myot—invece di dar retta a me, che vi amo sinceramente, e che ho ormai la pratica degli affari, vi siete lasciata condurre da un giovane, intelligente, di carattere ottimo, che vede però spesso gli affari della finanza come un poeta?… Ah, mia cara, non v'è nulla che sia tanto contagioso quanto l'illusione del far denaro con molta facilità…. Tenete a mente: è difficile il far denaro e più difficile il conservarlo….
La principessa sorrideva: sperava in un modo o nell'altro si sarebbe cavata d'imbarazzo.
Un giorno, per distrarsi un poco da certe idee, per sete di nuove commozioni, si mise a pensare a sua figlia, alla figlia, che ella avea avuto da Roberto. Il suo matrimonio col principe era rimasto sterile di prole.
—Oh…. se io cercassi di rivederla?—pensò.
Ormai osava tutto: e poi, fra le tante passioni sfrenate, si svegliava in lei l'amore materno. Quando si era posta in cuore una cosa nessuno avea potere per dissuaderla. Quel puro affetto, un bacio della sua bambina, la voce, il sorriso di lei, le sembrava avrebbero consolato, in tante angustie, il suo animo. Sarebbe stata la forte, la nuova distrazione, della quale sentiva il bisogno.
Da un pezzo non vedeva Cristina.
Essa avea lasciato, morto l'abate, il presbiterio; e se n'era andata a stare in campagna col suo guardacaccia, in un punto vicino a quello ove abitava la famiglia di lui.
Benchè Cristina l'avesse lasciata in pace da sì lungo tempo, la principessa non stava tranquilla: immaginava che costei le preparasse un nuovo tiro. Guardava sempre ogni mattina fra le lettere che riceveva per veder se ci fosse un indirizzo scritto da costei: si aspettava le domandasse, d'un tratto, qualche somma vistosa: venisse a crescere le difficoltà tra le quali si dibatteva.
Il silenzio di Cristina non le era certo di buon augurio. In che modo non le avea più chiesto neppur il denaro occorrente alle spese ordinarie per la bambina? Lo anticipava ella stessa per aver diritto di sostenere d'essersi sottoposta a perdite gravi: per accrescer le spese; chi sa: per acquistare sempre maggior preponderanza su di lei e sempre più tenerla avvinta ne' suoi artigli.
Nello stordimento, fra le continue commozioni della sua vita, non ci avea più, da tempo, messo il pensiero; non si era da tempo ricordata d'esser madre, d'aver una figliuola. Ora gliene veniva il furore. Aveva l'indirizzo di Cristina: era lontana un circa dieci miglia da Napoli: a Torre Annunziata.
Ritrovò subito l'indirizzo, ella non se ne ricordava: e deliberò andare da Cristina il giorno stesso.
—Ma, sola!—ripensò.—Non mi annoierò sola, in carrozza, per tutto quel tratto di strada?
Dopo breve esitanza, risolvette invitar Diana ad accompagnarla.
—Così nessuno,—si diceva,—potrà aver sospetti su la mia gita: una scampagnata, il cui principal motivo è di far fare una passeggiata alla mia giovane amica: e intanto vado a rivedere la donna che ha avuto per anni tanta cura di me…. alla quale, crederanno, io serbo molto affetto…. Una donna scellerata!… Poichè è lei che mi ha messo nelle vene questo fuoco, che m'abbrucia; è lei che, con le sue abili carezze, m'ha posto prima nella via de' più eccitanti piaceri…. Ma, infine,—disse la principessa guardandosi in uno specchio,—non debbo esserle poi tanto ingrata!… Da che vivo, anche per frutto delle sue lezioni, ho passato più d'un bel momento!
Il suo cinismo voluttuoso la coglieva sempre di bel nuovo.
Scrisse a Diana una lettera affettuosa. Circa un'ora dopo, per risposta, Diana entrava nella stanza ov'era la principessa: le si gettava al collo tutta lieta di passar con lei la giornata.
La principessa, al bacio di Diana, si sentì subito rasserenata. Accanto a lei non poteva aver più cattivi pensieri. Se qualcuno le avesse detto che, in breve, l'avrebbe molto odiata, essa gli avrebbe dato, col massimo calore, del menzognero.
La principessa s'abbigliò alla presenza di Diana che la idolatrava, e diceva non aver mai visto una donna più bella. La principessa le mostrava le sue belle braccia, il suo bel seno, Diana ne vedeva, sotto le finissime tele, i fianchi robusti. In breve, fu abbigliata; era magnifica, seducente, col suo abito chiaro, il suo gran cappello di paglia, adorno di violette, il cui colore spiccava su un gran nastro candidissimo. Salirono in carrozza e partirono. Erano tutt'e due contente, si teneano per mano e sorridevano. Strana situazione quella della principessa! ella andava a cercare notizie della sua figliuola: ardeva di vederla e già l'aveva al suo fianco!
Arrivarono alla villa, poichè ben potea chiamarsi così la dimora, assai signorile, di Cristina.
La principessa e Diana dovettero scendere dinanzi a un cancelletto e fare a piedi una stretta, ripida salita; che avea a' due lati siepi di rose e di melagrani, e che metteva alla villa.
Cristina fu subito avvisata dal bel guardacaccia dell'arrivo della principessa.
Andò a indossare un bell'abito di seta nera e tenne intanto la principessa ad aspettarla, come s'ella fosse un'altra signora.
Enrica avea riconosciuto il bel guardacaccia di Mondrone: e gli avea subito dato un'occhiata, che avea lasciato perplesso quell'uomo assai risoluto e assai vizioso. Ma la principessa avea posto nella sua occhiata, come sapeva, molte e varie espressioni: fra le altre avea saputo significarvi ch'ella ben si ricordava del modo ond'avea sorpreso Cristina e il guardacaccia in un salotto del castello. Perchè il guardacaccia si trovasse lì, dava ad intendere l'occhiata della principessa, non era un mistero per lei.
Intanto che la principessa aspettava, il guardacaccia le offriva di che refocillarsi.
La principessa era gaia: avea sempre il suo vigoroso appetito, e accettò. Le destava curiosità il veder come Cristina l'avrebbe trattata.
Cristina scese, dopo che il guardacaccia era già salito a concertarsi con lei, ed entrò, tutta sorridente, nella stanza ove erano Diana e la principessa.
Subito fu stupita, mettendo gli occhi su Diana, della grande somiglianza che era fra lei e la principessa. L'antica serva, dandosi tutte le arie e il sussiego di una gran dama, ringraziava le due signore dell'onore che le facevano: onore da lei immeritato: le pregava con ostentazione a scusare l'umiltà di quella povera casetta, ma ella avrebbe tutto messo in opera perchè rimanessero soddisfatte…. quanto si potea soddisfare da chi avea, come lei, sì pochi mezzi, a persone di sì alto affare. Sarebbe andata ella stessa a impartire gli ordini.
—Cristina dà ordini?—pensava la principessa.—Che trasmutazione ha operato il mio denaro…. Quanta gente io ho arricchito a questo modo!—pensava, guardando i mobili, gli oggetti di non piccol valore, ond'era ornato, arredato il salotto.—Gli ho arricchiti, sì,—continuava fra sè, pensando con la rapidità del baleno,—ma sono stati tutti schiavi de' miei piaceri!
Non rifletteva che, forse, erano stati un tempo schiavi dei piaceri di lei, ma essa avea sempre finito per essere la loro schiava, per fornire ad essi, come in esempio a Cristina, il modo di soddisfare a' loro propri piaceri.
C'erano in tutta la casa immagini di santi, un non so che, a ogni tratto, rivelava la pietà, la devozione di chi vi abitava.
Enrica si rammentava le lezioni di Cristina: ingannar tutti con le apparenze, burlarsi di tutto: e in segreto godersi le più strane fantasie.
Venivano a trovarla monache: le più giovani le baciavan la mano come a una grande benefattrice: ella pregava, s'inginocchiava a dire orazioni con esse: fra la gente di quel contado passava per un'anima austera, esemplare.
La sera, chiusi gli usci, chiuse ermeticamente le finestre, dopo cena, dopo aver fatto una lauta cena, gli abiti discinti, attirava a sè il bel guardacaccia: e con lui rideva, scherzava su tutto, gettava, con scoppii di risa fescennine, con motti salaci, procaci, il ridicolo su tutte le persone più rispettabili, su tutto ciò che v'ha di più alto e di più puro. E il giovinetto, gigante, fortissimo, si stupiva sempre d'una cosa, della sapienza, delle novità in amore, che aveva e sapea trovar quella megera. Poi, sul far del dì, Cristina usciva, e andava la prima di tutti a udir la messa nella chiesa della parrocchia: talvolta si vedeva con la fronte toccar terra, si udiva sospirare, si agitava, come se si pentisse di atroci peccati.
Burlarsi di tutto era il forte di questa perversa creatura: ed era lieta in tal giorno che la principessa fosse venuta a lei: non le avrebbe risparmiato beffe e umiliazioni. Ne voleva usare a suo diletto.
Sempre più osservava quanto Diana somigliasse alla principessa, anche parlando: la principessa, fanciulla, pensava Cristina, era proprio così.
La refezione fu pronta: per cerimonia la principessa invitava Cristina a porsi a tavola con loro. Non era apparecchiato per lei, ma Cristina aspettava l'invito: e non se lo fece ripeter due volte: sedette a tavola, e con gli ordini rumorosi che dava, con le preferenze che esprimeva, facea sentire alle altre due che essa era la padrona, e che le teneva sotto il suo imperio.
Qualche volta Diana fu irritata, ma la principessa la tratteneva con lo sguardo, con un cenno: Enrica si era poi pentita d'aver accettato l'invito. Vedea che Cristina abusava di lei: che godeva d'aver un'occasione di sfogare la sua malizia selvaggia. E già Enrica prevedeva la scena, che avrebbero insieme, fra non molto.
In fatti, finita la refezione, la principessa si alzò e disse a
Cristina che la seguisse per un istante.
—Emilio,—disse Cristina rivolta al guardacaccia,—accompagna la signorina nel giardino e coglile i più be' fiori!
Quando furono in un salotto sole, la principessa disse improvvisamente:
—La bambina è molto lontana di qui?… Non ho mai saputo dov'era….
—Non lo avete mai domandato…. è molto lontana….
—Senti, m'e venuto un desiderio irresistibile di vederla!
—Oh, è impossibile!—replicò Cristina.
—E perchè?…—domandò, con veemenza, la principessa.
—È morta!—rispose Cristina, grave, e senza indugio.
—Morta?
—Morta, sì, e nel giorno stesso in cui era condotta dalla balia.—Cristina credea d'aver aperto una ferita nel cuore della principessa e si divertiva ad irritarla.
—Dici tu il vero?…—e la principessa, furibonda, avea preso per un orecchio Cristina e la faceva inchinare.
Cristina, livida dalla collera, esclamava:
—Potrei chiamar gente: potrei farvi svergognare; è la prima volta che voi osate abusare della vostra forza con me, sottopormi a una vostra prepotenza…. Ma se io avessi gridato e fosse qui accorsa la signorina, che avete condotto con voi, e in faccia sua vi avessi mostrato i documenti, che posseggo: l'uno prova il vostro matrimonio con Roberto, l'altro la nascita della bambina…. Que' documenti sono ora nelle mie mani e non ne usciranno…. Vi odio tanto che voglio farvi soffrire lentamente, e voglio godere, a poco a poco, delle vostre sofferenze…. E vi assicuro saranno atroci…. Per ora, io ho tenuto in me tutto il mio segreto…. ma se ne palesassi ad altri anche una parte?…
—Hai detto di odiarmi: ma vorrei sapere perchè mi odii? Non t'ho io sempre beneficata?—disse la principessa, che ardeva di collera.
—Beneficata, sì, come beneficate, come fate tutto voi, con sprezzo, con alterigia…. Fin quando servivo da ministra a' vostri piaceri, fin quando eravate nelle gioie supreme, che sogliono accomunare i corpi e le anime, voi eravate sdegnosa, pungente, trovavate un maggior godimento a darmi prove di spregio…. E quante altre umiliazioni ho poi sofferto da voi…. Insomma vi odio per cento altri motivi, che sento e non so spiegarvi. Vi odio perchè voi siete una persona trista, e, benchè io non sia nulla di buono, ho orrore del male…. negli altri. E sappiate per sempre che la concordia, l'unione fra due anime tristi non può durare: si muta in odio, in persecuzioni. Io voglio vedervi alle mie ginocchia, supplicante; e respingervi, insultarvi nella vostra umiliazione. Voi dovete servir da mezzana anche ai miei amori col guardacaccia: troverò uno stratagemma, a scusa innanzi agli altri, perchè voi abbiate ragione d'invitarci nella vostra villa, mentre siete sola, e dovrete subirmi! E non potrete sottrarvi da me. Vi farò pagar cara la stessa prepotenza, che avete voluto ora usarmi. Intanto…. vi annunzio che nello spazio di otto giorni, dovrete pagarmi lire ventimila. Quindicimila serviranno ad arrotondare una somma, che ho in deposito: con le altre cinquemila voglio far un viaggio in Italia e in Inghilterra con lui…. Non voglio rimaner sempre qui…. Ed è giusto che voi…. voi, la signora che ha tanta alterezza, paghiate le spese dei miei piaceri!
Cristina era sempre livida, col suo malvagio sorriso sulla sua larga bocca.
—Come,—insistè,—posso riscuotere questi ventimila franchi?… Ho fretta di partire, ricordatevelo! Un viaggio deve darmi forze nuove per nuovi piaceri…. Il mio amante è giovane e voglio distrarlo…. Vorreste voi, anzi, esser tanto compiacente da indicarmi su questa carta l'itinerario che dovremmo seguire?
E le accennava un mappamondo disegnato su un'ampia carta e attaccato alla parete.
—Vi prometto che parleremo anche di voi nel nostro viaggio…. La sera, quando saremo tornati agli alberghi, dopo cena, fra una risata e l'altra….
—Non m'irritare!…—disse la principessa, pallidissima, digrignando i denti. Poi, mutando stile:
—Se tornassimo amiche?
Credeva invescar l'altra. Ma Cristina era forse più trista e certo più astuta di lei.
—Ecco una prima concessione!—le disse.—Non vi trovereste umiliata d'esser chiamata amica da una vostra antica serva?
Poi gettò là alcune parole impertinenti e atte a turbar sempre più l'animo di Enrica.
—Lo so…. lo so…. che voi non cercate gli amici fra gente sì umile…. Il migliore vostro amico,—e sottolineava con malizia queste parole:—è il Re….
—Bocca di demonio!—disse la principessa irritatissima.
—A quando le ventimila lire, signora?—domandò Cristina, con le mani su le anche, un piede innanzi, e guardandola di sotto in su con aria spavalda.
—Se io andassi dal Re, gli provassi che voi siete la moglie di Roberto, che avete fatto morire la vostra bambina per allontanarla troppo presto da voi…. che avete accusato, denunziato, fatto imprigionare vostro marito….
—E se io ti uccidessi?—rispose la principessa, pallidissima, con una calma spaventosa.—Sai ch'io so preparare un agguato, sbarazzarmi di chi mi nuoce….
—Sarebbe inutile, ve lo avverto; ho già preso tutte le mie precauzioni. Ho già denunziato in un foglio, che può esser trovato subito dopo la mia morte, come voi abbiate interesse a sopprimermi.
—Ma io ti farò uccidere da persona, che m'è devota; e a cui posso comandar tutto, sicura d'essere obbedita!—disse la principessa con una risolutezza che ispirava terrore.
Ci fu tra quelle due donne, ambedue scellerate, un terribil silenzio.
Il loro rapido dialogo era durato pochi istanti.
La principessa, cedendo alle gravi commozioni, che le parole di Cristina destavano in essa ad ogni istante, non avea potuto volgere a costei le domande che le cadevan dal labbro proprio nel momento nel quale Cristina s'era indignata per l'atto violento ch'avea dovuto sostenere.
—La mia bambina è morta?—riprese, a un tratto, con voce rauca, la principessa.
—Sì,—ribattè l'altra!
—E perchè allora tante menzogne, tanti raggiri, tante doppiezze?… Ma qual inferno ti ha vomitato sulla terra, demonio?… Qual è stato lo scopo di tutte le tue imposture?… Sfruttarmi?
—Sì, sfruttarvi,—rispose impavida Cristina.—Sfruttarvi, sino a che io non ebbi i documenti. Da ora in poi sarebbe inutile che mi dessi la pena di mentir tanto, d'ingannarvi; ho ben altri mezzi per tenervi obbediente; perchè siate mia schiava…. Vedete a che conducono i vizii…. La vostra vita sregolata vi ha posto in balìa di tutti, non vi appartenete più; e che sarebbe, se molti conoscessero i vostri segreti?… Voi siete la moglie di due mariti: uno lo tradite, lo disonorate per mera vanità: l'altro l'avete tradito, calunniato, disonorato, lo avete voi stessa fatto chiudere in una prigione…. Ma—disse Cristina dopo breve pausa—non avete mai pensato ciò che vi potrebbe avvenire, se quella prigione si aprisse, se quell'uomo tornasse fra noi…. Che direste di trovarvi al suo cospetto?…
Diana s'era a dirittura esaltata in mezzo a' fiori del giardino. Erano sì belli, sì ben tenuti, scelti con tanta cura!
Il guardacaccia pareva, per la sua bellezza, per la persona aitante e svelta, non ostante la colossale struttura, un nume antico; avea un dolce sorriso e cortesi maniere per uomo adusato a star sempre nella campagna, allevato fra costumi contadineschi.
A poco a poco Diana prese ad amarne la franchezza e la dolcezza di modi, poichè l'una, per natura, temperava l'altra.
Ed entrarono in ragionamenti su' più varii soggetti. Diana si prestava ben volentieri a quella familiarità.
—Ho conosciuto la principessa, quando era giovinetta,—disse a un certo punto Emilio.—Mio nonno stava col padre di lei: la mia famiglia ha servito quella del duca per ottant'anni. Che buoni signori…. fino a che non è venuta questa pazzerella!…—soggiunse fra ironico e severo.
—Parlate così della principessa?
—Oh, io darei la vita per lei!—Cristina non gli avea mai detto nulla de' suoi segreti, non avea creduto prudente ispirargli i suoi odii; al contrario gli avea sempre finto gran rispetto alla famiglia del duca.—Ma l'ho veduta crescere con me, sebbene io fossi un po' più giovane, e l'ho veduta far tante stravaganze…. Le corse, le caccie della duchessina nel parco, le sue cavalcate; poichè essa maneggiava lo schioppo e stava a cavallo come i migliori tra noi: le sue visite improvvise nelle case dei contadini, a' quali faceva sempre qualche paura, o qualche dispetto, son sempre ricordate…. Era molto cattiva: percoteva, a volte, i vecchi, i bambini: un giorno io l'ho veduta con un ferro, che avea arroventato, bruciar la mano, per divertirsi, a un giovinetto contadino, che le stava sempre d'attorno: Roberto Jannacone.
—Roberto Jannacone…. l'avete voi conosciuto?—chiese Diana, la quale da molto tempo, senza che sapesse il perchè, si appassionava tanto pel disgraziato prigioniero.
—Se l'ho conosciuto? era mio camerata: un tempo, il mio migliore amico…. Ci confidavamo tutti i nostri piccoli dispiaceri, passavamo insieme le domeniche, e, negli altri giorni, ogni ora in cui fossimo liberi. Ma, dacchè la duchessina principiò a trastullarsi con lui, a volerlo a sè, a perseguitarlo, Roberto non fu più quello….
—E perchè?
—Non so: diventò taciturno, schivò ogni compagnia….
—E poi….
—E poi….—replicò Emilio,—ma non voglio spaventarvi, raccontandovi cose, che forse non sapete, e potrebbero rattristarvi.
—No, no, dite, dite….—incalzò Diana.
—E poi… ammazzò un signore…. il conte di Squirace, che si dicea dovesse sposare la principessa, gettandolo da un ponte altissimo, il ponte che avrete veduto, passeggiando pel parco, nel mare….
—Ma voi lo credete un assassino?…
—Se lo credo!…—esclamò Emilio, battendo una mano contro l'altra.—C'è chi lo vuol difendere, lo so: ma le belle parole sono inutili…. Bastava conoscere il conte di Squirace! Che volete che possano certi farfallini con uomini come Roberto, o come me! Gli stritoliamo fra le nostre braccia, a ogni nostro desiderio…. Roberto abusò della sua forza: chi sa…. non dico…. come l'altro l'avea fatto salire in furia.
Diana era rimasta molto pensosa.
Il linguaggio semplice, rude di quell'uomo la persuadeva più di tanti cavilli, di tanti discorsi contorti, studiati, reticenti, che avesse udito sin allora.
L'uno e l'altra continuavano, chinati, a cogliere i fiori.
Diana ripensava molto a quelle parole: il conte di Squirace, che si dicea dovesse sposare la principessa. La principessa poteva aver avuto qualche influsso su quel delitto? Volle tornare a sobillar Emilio.
—Mi avete detto,—ripigliò, a un tratto, alzando la testa,—che il conte di Squirace dovea sposare la principessa?
—Sicuro, si diceva: egli, almeno, le avea fatto e le faceva, anche in tal momento, una corte molto assidua.
—Possibile! possibile!—pensava Diana.—Come tutto si spiegherebbe! La presenza de' due uomini e di Enrica vicino al ponte nello stesso tempo…. Una disputa fra' due rivali!…
La giovinetta innocente vedeva il vero meglio di tanti altri uomini serii, pratici, come da sè s'intitolavano, che aveano studiato, discusso, ragionato tanto questo affare.
—Enrica, Enrica!—proseguiva a dir Diana fra sè.—Potrebbe ella esser consapevole di un tal delitto: e viver così tranquilla, sicura?—Ciò le ripugnava.
Ma, ammessa tale ipotesi, come tutto si spiegherebbe!… Anche il babbo di Adolfo, anche altri avrebbero avuto ragione, credendo Roberto innocente; in una mischia, il signor di Squirace era forse caduto dal ponte, senza che niuno lo spingesse, o per un urto che non gli era stato dato certo con l'intendimento di ucciderlo.
—Però,—continuava, esterrefatta, Diana nel suo ragionamento,—Enrica è stata la sola testimone sulla cui fede fu condannato quell'innocente…. Avrebbe essa potuto usar tanta crudeltà contro un uomo, il cui solo delitto era di averla troppo amata?
Volle stornarsi, per allora, da que' pensieri. Si mostrò gaia, disinvolta: guardò rapita, o finse,—era già la seconda volta che fingeva nella sua vita,—tutti i fiori che aveano raccolti.
—Ora, basta!—disse al guardacaccia.—Perchè sciupare tanta bellezza?
—Oh, ma domani, o dopo domani, signorina, saranno tutti appassiti. Meglio è,—disse il guardacaccia con una certa poesia,—che muoiano vicino a voi.
Diana sorrise di quel complimento.
La principessa, col volto appoggiato tra le mani, singhiozzava dinanzi a Cristina. Non era il solito pianto, di cui, come sa il lettore, si valeva ad arte.
Ella singhiozzava pensando alla sua bambinetta; la improvvisa notizia della morte di quel piccolo essere l'avea sopraffatta, affranta.
Cristina la lasciava piangere, senza affannarsi a dirle una parola di conforto e come se ogni soffrire di lei le fosse indifferente.
Alla fine Enrica sollevò la sua bella testa. Le lacrime erano rasciutte; essa avea ripreso tutta la sua fierezza.
—Brutto sogno ho fatto in pochi minuti,—disse, poichè soltanto da pochi minuti erano insieme ella e Cristina,—e ho veduto nella mia mente tante cose, e mi hanno atterrito, spaventato…. Sono ben sola nel mondo; ho destato e desto in molti le più forti passioni, ma nessuno mi ama. È il mio castigo!… Quando penso che tu mi odii, non ostante tutto il bene che hai avuto da me, e dopo aver passato insieme con me tanti anni, ora per ora….
—Nessuno vi ama, perchè non sapete farvi amare….—rispose Cristina,—perchè nessuno ama gli orgogliosi: e l'orgoglio vi ha sempre dominato!… Il bene che avete fatto non fu apprezzato da alcuno perchè mescolato con troppo scherno, con troppo prepotente alterigia…. Ma, tali discorsi sono inutili…. Vi ho già detto ciò ch'io desidero…. ch'io voglio, anzi, signora principessa!
—Ah, sì, tu vuoi nuovi denari….
—Se non desiderate ch'io sveli tutto…. mostri i documenti….
La principessa si contorceva.
—Io non ho denaro in questo momento; non posso disporre della somma che tu domandi. Aspetta…. la troverò!
Pensava al Weill-Myot. Era sicura ch'egli le avrebbe anticipato ben volentieri quella somma. Non le pareva degno di affliggersi, di molestarsi per così poco; voleva vivere gaiamente il più che poteva, stordirsi nei piaceri.
Già in pochi istanti avea di nuovo dimenticato la bambina: era entrata in un altro ordine d'idee; tornava al suo amore della vita leggera, alla sua spensieratezza.
Cristina si lasciò supplicare dalla principessa, per un pezzo, poi acconsentì.
Come se nulla di terribile fosse accaduto tra loro, Cristina si studiava atteggiare il suo bieco volto al sorriso più ilare, più affabile che potea, cominciò a mostrare alla principessa le delizie della sua casa: poi la guidò nel giardino ov'erano Diana e il guardacaccia.
Anche la principessa, commediante perfetta, appariva tranquilla; serena, disposta al celiare.
Cristina volle a lei pure offrir un mazzo di fiori.
Mezz'ora dopo, la principessa e Diana risalivano in carrozza per tornare a Napoli.
Enrica era assai silenziosa: pensava alla visita che doveva fare al Weill-Myot, già che credeva necessario quest'atto a vieppiù persuaderlo: e di tratto in tratto il pensiero le correa al motivo di quella sua gita.
Perchè era venuta a domandar notizie di una bambina, della quale per tanti anni non s'era curata? I migliori sentimenti a lei costavan bea caro! Ora intanto era obbligata ad una bella umiliazione: andare da quel Weill-Myot: chiedergli un favore! Da molto tempo, egli non le parlava più della sua passione per lei: non pronunziava parola, non facea atto che gliela potesse menomamente ricordare: era con essa compassato; glaciale: avea un tono cerimonioso nel quale le pareva indovinare una certa lieve ironia. Non si sentiva punto inclinata a far del Weill-Myot un suo amante: sentiva, anzi, per lui ripulsione, benchè egli fosse uomo di molta prestanza, e ricercato dal comune delle femmine. Ma le doleva di veder ch'egli si alienava da lei, che usciva dal gruppo de' suoi adoratori. Certe donne sono vaghe d'imperare su un piccolo regno e tengono a non perder niuno de' loro sudditi.
—Che hai?—le domandò più d'una volta Diana, prima che arrivassero a
Napoli.
—Sono un po' stanca…. Ho dimenticato fare qualche cosa e temo ne possa nascere un inconveniente…. Stanotte non ho abbastanza dormito….—ecco le risposte date dalla principessa.
In verità, ella ora si rimproverava d'aver fatto una gita sì lunga, per parlar a Cristina, per informarsi della creatura.
Chi le avrebbe mai detto che la creatura, di cui avea un istante pianto la morte, e alla cui perdita si era subito rassegnata, la figliuola sua e di Roberto, le stava accanto, che ella ne stringeva le mani, ne udiva la voce, ne avea le carezze? Chi le avrebbe detto che fra breve si sarebbero ritrovati tutti e tre insieme, e in quali angosciose congiunture.
Tornata nel suo palazzo, Enrica ebbe una vera sorpresa. Trovò, fra le lettere, una lettera del principe, suo marito: non le aveva scritto da varii mesi e le annunziava che sarebbe arrivato in Napoli entro quindici giorni.
Enrica non mostrò alcuna gioia nel partecipare a Diana tale notizia. Mentre essa guardava le lettere, Diana ripensava a ciò che il guardacaccia le aveva detto della reità di Roberto. Costui le avea perfin raccontato come Roberto era entrato di notte nel parco, ed egli avea sparato contro di esso un colpo di fucile mentre si avvicinava alla villa ove dimorava Enrica e come, scoperto, si desse alla fuga.
La fanciulla innocente cominciava ad aver i più strani presentimenti.
Teneva i suoi occhi fissi sulla principessa: la studiava, la scrutava.
Enrica si volse, mentre Diana era appunto assorta in uno di questi attentissimi esami.
—Perchè mi guardi così?—le disse.
—È proibito guardarti?—rispose Diana, le cui parole non corrispondeano punto al pensiero.
—Tu rimani a pranzo con me stasera?
—Con piacere…. se vuoi!
—Sicuro che voglio: e scriveremo intanto per darne annunzio a casa tua.
—Ma, dimmi,—esclamò a un tratto Diana.—Ti ricordi che in questo stesso salotto io una sera t'invitai a unirti con me per scoprire la persona malvagia, che avea cagionato co' suoi intrighi la perdita del povero Roberto Jannacone?…
Enrica, colta così all'improvviso, vacillò; non ebbe la forza di rispondere subito: e Diana scorse che gli occhi di lei esprimevano lo spavento.
—Non è vero,—continuava con la sua innocente baldanza,—che tu potresti dir qualche cosa su tale persona?
Il turbamento di Enrica aumentava.
Ma Diana l'attribuiva a ben altro motivo di quello che aveva: immaginava che Enrica, giovanissima, avesse avuto per Roberto qualche simpatia, forse assai viva, e il ricordo di lui forse la amareggiasse.
Ma la principessa fu scossa da un gran tremito; si pose un fazzoletto alla bocca ed uscì dalla stanza, mormorando in fretta verso Diana:
—Aspettami, aspettami!
Andò nella sua camera, le ci volle del buono a rimettersi. Quella fanciulla innocente le avea dato un colpo fortissimo, di pessimo effetto, poichè essa non era preparata a riceverlo.
Niuno, da anni, le avea mai parlato con tanta franchezza, con più crudele giustezza dell'atrocissimo fatto. Che quella fanciulla candida, inesperta, stesse per riuscire a carpirle il suo gran segreto?
Un servitore entrò.
—Un uomo,—disse,—di aspetto molto grave, vestito di abiti che lo faceano somigliare ad un bandito, era stato due volte nella giornata a chiedere della principessa…. Non aveva voluto dire il suo nome…. La seconda volta avea affermato che non potea ritornare, poichè altri affari lo chiamavano altrove. Ma—avea concluso—mi rivedrete presto!
—E non rivelò quello che desiderava?
—Non volle dirlo ad ogni costo…. Era tutto avviluppato in un grande mantello…. avea la barba incolta…. una strana capigliatura…. il volto emaciato dalle sofferenze…. Desidera V. E.—proseguì il servitore, che dirigeva tutti gli altri servitori della casa,—io le dica ciò che ho pensato, riflettendo alla fisonomia di quell'uomo, alla premura ch'egli ha mostrato d'allontanarsi, al modo sospettoso onde si guardava attorno anche nella via?
—Ti sto a sentire!…
—Ho pensato che sia qualche prigioniero fuggito e che Roberto mandi a supplicare V. E. per lui….
Il servitore lasciò la porta della camera aperta come l'aveva trovata: e la principessa, che lo aveva incontrato quasi presso la porta, mentre stava per uscire, tornò nella camera e vi si trattenne ancora alcuni istanti.
—Possibile!—esclamava,—sia lui!… sia lui!…
Si rammentava in qual modo Cristina le aveva ricordato ch'egli potesse tornare a chiederle conto.
Ma, di nuovo, si fece animo, si riebbe: non voleva attristarsi per ombre, invano: aspettiamo,—ella si diceva,—e intanto godiamo.
Era sempre il solito stile!
Abbiamo interrotto il nostro racconto al punto, in cui i due prigionieri, avendo scavalcata la finestra, cominciando a effettuare la loro fuga, furono uditi quattro spari di fucile.
Il soprintendente del carcere accorreva, com'abbiam detto, a portar il decreto di grazia all'ingegnere Amoretti e avea tutto disposto per metterlo in libertà.
Gli spari de' fucili gli dettero un vero spavento: che era accaduto? Da anni non s'eran più uditi questi spari di notte; nessun prigioniero avea tentato di fuggire.
A un tratto, il soprintendente fu fermato da una guardia, che si precipitava verso di lui.
—Chi è morto?—domandò subito, vedendo la guardia esterrefatta.
—È morto il numero Trentanove!
Il soprintendente ricevette una tal ferita al cuore che poco mancò non stramazzasse in terra.
—Morto Roberto Jannacone!—pensava: il pianto non gli usciva, i singhiozzi gli facean groppo alla gola. In un attimo fu alla prigione di Roberto avanti che altri vi arrivasse: tenea sempre in mano il decreto, che rendeva la libertà all'Amoretti. Aprì la porta della prigione e che scorse? Roberto, in mezzo alla stanza, pallidissimo, agitato.
—Voi qui?—esclamò il soprintendente.—Si dice da tutti che il numero 39 è stato ammazzato…. Oh, l'inferriata è rotta!—disse, interrompendosi, con gli occhi fissi su la finestra.—Dunque?…
—Avevo preparato la fuga,—rispose Roberto,—un mio compagno, il mio vicino di cella, volle parteciparvi…. mentre scavalcavo la finestra, udii gli spari e lo vidi cadere dall'alto…. Ohimè!
E Roberto fece un atto di supremo dolore.
—Chi è morto…. l'ingegnere Amoretti?
—Così egli mi disse che si chiamava!
—Mio Dio, quale idea!… La provvidenza vuole che io ti renda il bene da te fatto a mio figlio, sciolga il mio voto, ti salvi!… Mancherò al mio dovere come direttore della prigione, ma adempio quello di padre riconoscente…. Tu sarai d'ora innanzi l'ingegnere Amoretti…. ecco il decreto che lo metteva in libertà…. Roberto Jannacone è morto!… Vieni con me….
Lo trascinò in fretta per alcuni corridoi: lo chiuse in una stanza ove erano abiti di varie foggie.
Tutti gl'impiegati del carcere, tutte le guardie, si accostavano alla prigione di Roberto. Già alcuni, i primi arrivati, aprivano la porta, che il soprintendente aveva poco innanzi richiuso. Tutti videro l'inferriata spezzata, la corda attaccata a quelle verghe dell'inferriata, che non erano state smosse; nessuno ebbe più dubbio che non fosse morto il numero Trentanove.
L'Amoretti, ferito da quattro colpi, due dei quali al capo, e piombato giù da una sì grande altezza, non era più riconoscibile. Il suo povero corpo, sfracellato in più parti, faceva ribrezzo. Furono subito raccolti gli avanzi per ordine del soprintendente, collocati in una specie di sacco per essere seppelliti, senza molte formalità, come allora costumava, fra poche ore.
Domenico fu il solo che non si svegliasse fra gli impiegati; finito il suo servizio, disteso sul pavimento di una stanza, dormiva un sonno, il sonno dell'ubriaco, da cui niun rumore avrebbe potuto svegliarlo.
Entro un'ora tutto tornò in calma.
Nel corpo di guardia, alla porta principale della prigione, vi fu un po' di chiacchierio; poi il sonno li vinse. Dormivano tutti: i custodi che vegliavano agli ultimi cancelli e i soldati. Il soprintendente li aveva riuniti, dopo che ebber visitato la prigione di Roberto, avea finto di aver sete, e così coglieva il pretesto di offrir da bere alle cinque o sei persone che potevano attraversare un suo disegno: in tal guisa somministrava loro un sottile narcotico.
Allorchè tutto fu quieto, il soprintendente andò a ricercare Roberto.
Avea parlato a tutti del decreto arrivato per l'Amoretti; avea ripetuto che verso il mattino, tornato l'ordine nella prigione, lo avrebbe messo in libertà.
Entrato nella stanza, ov'era Roberto, gli disse:
—Ecco il momento di partire. Coraggio!…
I due uomini si gettarono uno nelle braccia dell'altro. Roberto si era già acconciato addosso nuovi panni: su di un tavolino v'era un cappello a larga tesa; uno di que' tabarri, che avvolgevano tutto il corpo fra le amplissime pieghe, e di cui si gettava un lembo su le spalle per chiuderli; allora molto in uso.
—Possa tu aver fortuna, fuori di qui!…—aggiunse il soprintendente.—Dopo sedici anni nessuno ti riconoscerà più, nè in Napoli, nè altrove. Ma dimmi,—continuò,—tu mi avevi nascosto il tuo desiderio di fuggire: desiderio che deve esserti costato anni di lavoro, per tentare di effettuarlo con speranza di successo. E pensa che sarebbe accaduto, se tu fossi fuggito il primo!… Sarebbe toccata a te la sorte che ha avuto l'infelice Amoretti. Ci dev'essere un motivo, e fortissimo, perchè tu abbia avuto un sì tenace proposito di fuggire…. Qualcuno che vuoi rivedere? Una donna…. un figlio? Forse hai da compiere qualche vendetta?—E il soprintendente a tal pensiero si turbava.
—Desidero rivedere i miei calunniatori!—disse Roberto con voce terribile.—E poi mi spinge un gran pensiero d'amore, ritrovare una figlia che non conosco!
—Ah! Hai provato anche tu l'amore paterno? Quali torture devi avere qui sofferto: e io non ho mai indovinato i tuoi patimenti!…
Gli orologi della prigione sonavano le ore: si udivano rintronare da varii punti i rintocchi.
—Va', non c'è tempo da perdere…. La luce del mattino deve coglierti ben lontano di qui. Addio, Roberto; chi sa se noi ci rivedremo mai più!…
—Prendi,—mormorò il soprintendente, da' cui occhi sgorgavano le lacrime,—questo ti sarà utile, indispensabile anzi, ed è poca cosa a quanto io ti debbo! Gli dette una borsa piena di denari.
—Dio vi ricompensi di tutto quello che fate per me!—esclamò Roberto.
Commossi entrambi, non si potevano staccare l'uno dall'altro. Il soprintendente prese per mano Roberto, come se lo guidasse, e uscirono dalla stanza. Andarono innanzi: di cancello in cancello il soprintendente pronunziava certa parola d'ordine e soggiungeva: l'ingegnere Amoretti!
I custodi assonnati, desti a quel rumore, si alzavano, aprivano i cancelli, li rinchiudevano in fretta, e tornavano a cacciarsi a dormire. Le guardie aprivano appena gli occhi un istante.
La carrozza della prigione aspettava Roberto alla porta. Dal soprintendente aveva ricevute tutte le debite istruzioni, mentre facevano insieme il cammino per uscire. Il brav'uomo gli aveva detto: che salisse nella carrozza, senza dir verbo, e che arrivato a un certo punto la licenziasse e prendesse una vettura a conto suo: prendesse poi altre vetture in modo che si perdessero le sue traccie: e non parlasse con alcuno, fin che non fosse molte miglia lontano dalla prigione.
Il soprintendente lo accompagnò sino alla carrozza ed ebbe il sangue freddo, mentre egli vi saliva, di rivolgergli uno scherzo, che gli premeva fosse udito dalle due guardie a lui vicine e dal cocchiere.
—Signor Amoretti,—gli disse,—sono sicuro sarete rimasto poco contento dell'alloggio e del vitto ch'io v'ho dato per tanti anni…. Non fu tutta mia colpa…. buona notte!
E richiuse lo sportello.
Roberto sentì una stretta al cuore. Gli parve soffocare; quella facezia acquistava un non so che di lugubre: e capiva che doveva esser costata al soprintendente un intimo dolore.
Vide subito quanto, non ostante il lento lavorìo di tanti anni, avesse mal preparato la sua fuga: quanti ostacoli gli sarebbero rimasti a superare, se si fosse soltanto affidato a sè stesso. Ora, ogni grave difficoltà era scomparsa.
Mentre i cavalli correvano, guardando la campagna, che gli passava dinanzi appena illuminata per un certo breve spazio dai fanaletti della carrozza, egli si lasciava sopraffare da' suoi pensieri.
Ove sarebbe stata in quell'ora la principessa? Dormiva ella forse? Non sospettava che qualcuno venisse a turbare la sua tranquillità? O facea qualche brutto sogno? Perchè Roberto credeva che Enrica dovesse vederlo qualche volta ne' sogni, e non s'ingannava. Spesso da qualche tempo l'immagine di lui veniva a darle raccapriccio, a impedirle, amareggiarle il sonno.
La principessa voleva denaro. Aspettava, da un momento all'altro, Cristina, e le occorreva di comporre affari urgentissimi. Pensò effettuar il suo disegno di recarsi dal Weill-Myot. Egli le avea detto che andava alla sua Banca molto di buon'ora ogni mattina: che alle otto era spesso già al lavoro.
Circa le otto e mezzo, la principessa scendeva una mattina dalla sua carrozza dinanzi alla Banca.
Indossava un abbigliamento studiato con arte. Avea le sue braccia stupende coperte solo di trina e di una trina larga, che lasciava vedere tutto il nitore della pelle. La stessa trina copriva appena il nascere del suo bel seno. La gonna leggera, succinta sui fianchi, ne rivelava la solidità, la potenza.
Ella era, come donna, meravigliosa: gli antichi romani ne avrebbero fatta una dea. Era più appariscente delle loro Minerve, delle loro Giunoni, come almeno ci sono raffigurate.
Scese dalla carrozza, dopo che il portinaio le ebbe detto che il signor Weill-Myot era arrivato.
Salì una scala; spinse un uscetto, tutto imbottito di stoffa verde, salvo che nel mezzo, ove, entro una cornice di cuoio lustro, nero, era un vetro opaco, ovale, e sul centro di esso era scritto a lettere d'oro: W.-MYOT.
Entrò in un corridoio, poi in una stanza e in un'altra; per tutto vetrate opache, fisse e incorniciate su basi di legno in noce, dietro alle quali avrebbero dovuto essere gl'impiegati. Ma non c'era nessuno. Leggeva sulle vetrate: CASSA: SCONTI: ESPORTAZIONI: SEGRETARII: altre parole, ma non udiva il più lieve rumore; non si accorgeva che vi fosse alcuno in quel vastissimo locale. O dunque?
Le parve sentir muovere una sedia in una stanza vicina. Traversò un'amplissima anticamera; aprì la porta della stanza donde le era sembrato venisse il rumore, sperando che almeno vi sarebbe stato qualcuno per rispondere alle sue domande, dargli notizie del Weill-Myot.
Appena ebbe spalancato la porta, vide l'americano seduto, anzi sprofondato in una gran poltrona di pelle grigia, mezzo ricoperto da que' grandi giornali, che si pubblicano a New-York, a Londra: uno ne leggeva, il Times: gli altri avea gettato a destra, a sinistra, su le ginocchia.
La sala era elegantissima, severa: alle due maggiori pareti erano appesi due grandi quadri ch'egli avea commesso a un giovane pittore napoletano, Edoardo Nisieli, da lui protetto: uno de' quadri rappresentava la "Congiura de' Baroni" con molte figure; l'altro, "Colombo, che parte per scuoprire l'America".
I due quadri erano di tinte cupe, molto serii, di uno stile castigato.
Per tutta la stanza, alle pareti, alti stipiti in ebano: quattro scaffali, pure in ebano, di un lavoro squisito, con intagli di graziose figure, di fiori, di frutta, di colonnette: alcuni divani in raso nero, con filettature, nappe e frangie d'oro: su i tavolini, bronzi: il Mercurio di Gian Bologna, che stava lì sì bene; la Venere Callipige; varie piccole terre cotte di molto e molto valore.
Subito il Weill-Myot, sentendo aprire la porta, aveva alzato gli occhi dal giornale che stava leggendo.
Riconosciuta la principessa, si alzò di scatto: non ebbe neppur un sorriso di trionfo; il suo sangue freddo era stato uno de' segreti della sua immensa fortuna.
—Caro Weill-Myot,—disse la principessa, che voleva cominciare con le parole:—Caro Gustavo,—ma pensò di non scoprir troppo il suo giuoco.
Mentre da casa sua andava alla Banca, essa avea interrotto più volte una serie di strani pensieri, dicendo fra sè:
—Come il mondo si muta: noi gran signori, della più antica nobiltà, siamo tutti, o quasi tutti, in balìa di questi grandi avventurieri…. In certi momenti, essi sono la nostra unica speranza: noi dobbiamo ricorrere a loro, inchinarci, sottoporci magari a' loro capricci…. È una nuova aristocrazia, che sorge. Forse non è peggiore della nostra, che è nata da guerrieri prepotenti, o da trafficatori rapaci, come il Weill-Myot, e si è sfiaccolata, impoverita con l'ignoranza e col vizio…. La nuova aristocrazia ha almeno le due più cospicue forze del mondo, le due virtù che muovono tutto: l'intelligenza e il lavoro.
—A quest'ora, principessa?…—esclamò il Weill-Myot.—Qual affare vi conduce?…
E pronunziò la parola affare con un tuono, che non lasciò alla principessa illusione di sorta.
Il banchiere, vista specialmente la studiata abbigliatura della principessa, le facea intendere che egli non era disposto a sostener una scena di seduzione.
Non già che verso la principessa non le attirasse la sua passione, ma egli oramai volea vendicarsi di lei, volea parlarle dignitoso, burlarsi dei suoi imbarazzi, ridurla suo trastullo. La principessa ha motteggiato, schernito tutti?—pensava.—Io sono americano, uomo di carattere, e glielo proverò!
La principessa era venuta per sedurlo, per divertirsi di lui, strappargli il denaro, che contava restituirgli con tutti i suoi frutti: ma, quando egli fosse divenuto incalzante come altra volta, respingerlo. Sentiva verso quel bell'uomo, forse troppo bello, un'antipatia, una repugnanza inesplicabile.
—L'affare, che mi conduce,—riprese la principessa, tutta sorridente e ostentando il piglio più leggero,—non è molto grave….
—Ho piacere!—interruppe il Weill-Myot,—Da un pezzo non mi parlate della vostra amministrazione, ma il giovane, che vi ha dato forse qualche consiglio non molto pratico, m'assicurava, giorni sono, e n'ebbi molta soddisfazione, che voi, con la vostra energia, avete riparato a tutto.
—Oh!—rispose disinvolta la principessa, che sapeva la sua rovina: e il Weill-Myot la sapeva meglio di lei.—Siete però su una falsa strada: non crediate ch'io non abbia più bisogno del vostro aiuto. Io debbo domandarvi un altro piccolo favore!
—Ahimè, principessa,—soggiunse l'ipocrita Weill-Myot,—speriamo sia tale che mi sia dato l'onore, il piacere di soddisfarvi…. sapete quanto sia vostro amico!
—Vi ripeto, il favore è piccolo…. per voi,—disse freddamente la principessa,—m'occorrono in giornata sessantamila franchi!
Il banchiere finse di aver ricevuto un gran colpo.
—E vi occorrono proprio?—volle domandarle lentamente. Si compiaceva a torturarla.
—Altrimenti non sarei qui!—rispondeva la principessa con piglio di sovrana, che sa non poterlesi negar nulla e non è abituata, neppur può pensare, a un rifiuto.
—Non potete dunque farne a meno?…—insistè il Weill-Myot che, col secondare in lei la fiducia di averli, si preparava a gioire del suo profondo turbamento.
—No, no!…—ella ribattè un po' sdegnosa e impaziente.
La principessa non sapea che tra' suoi beni non le rimaneva più da garantire una tal somma. Al Weill-Myot, causa della rovina di lei, era ben noto: ma egli non era ancora contento. Il male fattole non gli sembrava sufficiente.
Stette alquanto pensoso: si alzò, stropicciandosi la fronte con una mano; andò qua e là per la stanza, tutto assorto, senza dir verbo, come se cercasse un espediente difficile.
Poi tornò a mettersi in piedi dinanzi alla principessa, e dominandola, divorandola con gli sguardi per non perdere alcuna mutazione del suo volto, mentre egli parlava, le disse:
—Non mi sono mai sentito così umile, così sventurato come oggi… debbo farvi una confessione… pur che tutto rimanga fra noi….
La principessa assentì.
—Io sono alla vigilia di un fallimento!
—Eh!—esclamò la principessa, scattando in piedi.—Non è vero!
—Una gran Casa di New-York, d'accordo con la più gran Casa di Parigi, ha giurato la mia rovina…. Mi combattono su tutti i mercati, anche qui. Da due mesi io combatto una guerra atroce: una guerra di milioni, intendete….
Non è a descrivere come rimanesse Enrica. Le sue speranze, le sue illusioni cadevano a una a una. Lasciò che il banchiere parlasse: essa lo ascoltava, guardando le punte de' suoi stivalini, che uscivano di sotto alla fimbria del suo abito: e, mentre nel cuore si rodeva, voleva aver sempre sembiante di spensierata.
—Oh, ma sessantamila lire sono un nulla per voi…. sempre: e anche per me, forse,—aggiunse negligentemente,—ma non in questo momento! Voi dovete trovarle!—concluse, tornando al suo fare imperioso, e riguardando, in tal punto, perfino il Weill-Myot, quest'uomo potentissimo, per ciò che ella solea riguardar tutti: suoi soggetti, o strumenti de' suoi piaceri.
—M'è impossibile, principessa!—rispose il Weill-Myot, in tuono che non ammetteva replica.
I begli occhi di lei si gonfiaron di lacrime.
Il banchiere vedeva lo sforzo ch'ella faceva per frenar la commozione, e involontariamente gli sguardi dell'americano corsero al forziere ove era chiusa una somma, fra denari e titoli, più che dieci volte maggiore di quella domandata da Enrica.
Sentì una gioia profonda; forse in quel momento egli era padrone di quella donna, potea dominarla; aprendo quel forziere, mostrandole tutta quella ricchezza, l'alterigia di lei si sarebbe piegata…. Egli la respingeva. Nella lotta di amor proprio, a non dire di odio, che le avea dichiarato, egli usciva trionfante…. Così, almeno, si dava ad intendere!
Ma Enrica non avrebbe mai ceduto: ella era pronta ad ogni capriccio, non sarebbe però mai discesa a tal punto. Aveva per il banchiere un disgusto insormontabile; gli domandava un favore, come si domanda a un servo quel che ci occorre: senz'annettervi alcuna importanza, e sicura che avrebbe potuto restituire quello che da lui aspettava, magari procurando a lui un grosso guadagno.
A tal segno s'illudeva, non bastandole l'animo di credere a tutta la sua rovina.
Un'idea corse alla mente del Weill-Myot. E subito, egli volle rompere il silenzio imbarazzante, che già regnava fra loro.
—Mi duole,—-osservò il banchiere,—rispondere con un rifiuto. Ma,—e credeva così insinuare una idea,—io non posso più disporre neppure d'alcuni miei oggetti di gran valore…. Essi sono una garanzia, già acquisita, de' miei creditori…. Tenterò uno sforzo supremo: e, se riesco, principessa, fra poche ore sarò al vostro palazzo….
E la prese per mano, come a darle maggior sicurtà di ciò che le diceva, ma, infatti, per spingerla con un lieve moto ad alzarsi e liberarsene.
La principessa, che non era più in condizione di dirigere la sua volontà, cedette a quel moto, e si alzò: e, senza dir altro, s'accomiatava dal banchiere con il più scintillante sorriso sulle labbra.
Entrata nella carrozza, si mise a riflettere. Non volea darsi vinta così per nulla. Non era di quelle indoli che si spaventano a' primi ostacoli, e che sono sì numerose: era di quelle indoli rare che, fra gli ostacoli, si ritemprano, acquistan gagliardia, ne vivono, se non li spezzano, o ne sono esse stesse accasciate, infrante.
Di queste indoli si trovano specialmente nelle donne appassionate e negli uomini politici.
—Finalmente,—pensava,—l'americano non m'ha detto di no….—E si appigliava a tale speranza.—Se non riuscisse?—si diceva.—-Io non mi posso rivolgere ad altri!…
Non avrebbe mai domandato a un gentiluomo della sua classe ciò che avea domandato al Weill-Myot. Quell'americano poteva ben rendere un servizio a una gran dama: non era nato per altro! Essa l'avrebbe ringraziato, rimunerato: ecco tutto. Con un gentiluomo, sarebbe discesa, si sarebbe avvilita al cospetto di esso! E sentiva sempre questa specie di singolare fierezza.
—Se il Weill-Myot mi manca?…—e si torturava il cervello per sapere in che modo avrebbe trovato il denaro di cui aveva urgente bisogno. Non le veniva all'animo per allora di domandarlo al marito.
Se ne tornò a casa e aspettò per lunghe ore nelle sue stanze l'arrivo del Weill-Myot.
Era una giornata piovosa, malinconica. Ogni tanto ella sentiva brividi di freddo e si avviluppava nella sua gran veste di velluto color granato, con ampie rivolte di raso bianco.
Nessuno quel giorno venne a trovarla, ed essa aspettava una visita, palpitando.
Appena la principessa aveva lasciato l'americano, egli, chiamato un commesso, allora allora giunto alla Banca, gli avea ordinato di andar a chiamare, perchè venisse da lui, il gioielliere De Carlo, uno dei primi di Napoli.
Era un vecchietto molto furbo, di aspetto signorile, e legato d'affari con l'americano.
Il ricco gioielliere, un'ora dopo, si recava dal Weill-Myot. Parlarono un po' insieme.
—Ma, ditemi,—interruppe a un tratto il gioielliere,—quello che debbo fare, ditemelo con chiarezza, senza i vostri soliti viluppi….
—Avete in riparazione qualche gioiello della principessa, Gorreso; vi ha dato essa commissione di qualche lavoro?
—No.
—Ma allora non avreste un pretesto per andare da lei, per parlarle!
—Ne ho quanti volete…. Andar a mostrarle un bel diamante, una bella collana, un qualche lavoretto fino, originale…. Essa compra molto spesso oggetti, soltanto perchè io glieli offro…. È la miglior cliente che abbia in Napoli, migliore anche della Sovrana.
—E vi ha sempre pagato?…
—Sempre!
Il banchiere fece una breve pausa: pensò al denaro che quella donna dovea aver prodigato.
Chiedendo a lui sessantamila lire, essa dovea credere di domandargli a pena un servizio ed esser sicura che glieli avrebbe, in pochi giorni, restituiti. Che erano sessantamila lire per lei?
—Dovete,—riprese l'americano, parlando al gioielliere,—presentarvi oggi alla principessa.
—Se non fossi molto occupato!—rispose il De Carlo, i cui occhietti scintillavano di malizia.
—Trovate ad ogni modo il tempo di andarvi.
—Lo troverò…. E che desiderate ch'io faccia?
Il gioielliere fu meravigliato della proposta, che gli svelava il Weill-Myot. Egli s'aspettava che lo pregasse di offrire alla principessa un oggetto di gran valore: invece il banchiere gli avea detto:
—Anderete dalla principessa Gorreso e le addurrete in scusa che volete mostrarle un gioiello finissimo, testè da voi ricevuto…. Ne avrete?
—Oh,—rispose il gioielliere, alzando una mano, se ne ho…. Forse —troppi!
—Con bel modo,—continuò il banchiere, il quale tenea gli occhi socchiusi, come se si raccogliesse in una meditazione profonda—voi cercherete trarre la conversazione sul gran prezzo che hanno oggi i diamanti…. Citerete esempii…. di grandi dame, che si disfanno de' loro diamanti, per mezzo di persone oneste, fidate…. di voi, per esempio, alla cui segretezza, osserverete, si può stare…. e sostituiscono gioielli di sì alto valore con falsi diamanti, sì ben lavorati, che anche un intelligente…. direte…. vi può rimanere ingannato….
—E poi?…
—La principessa, vedrete, vi proporrà di vendere alcuni diamanti: i diamanti della sua famiglia ducale e di quella del principe….
—Ma io non ne ho bisogno….
—Voi ne accetterete quanti crediate possano avere un valore approssimativo di centomila franchi…. Siate piuttosto largo nel computare questo valore…. Vi consegnerò subito le centomila lire; e voi mi porterete i diamanti.
—Sta benissimo,—ripigliò il De Carlo,—si tratta di salvare una gran dama da un pericolo, da una condizione disastrosa, e voi, come gentiluomo dell'antico stampo, venite in suo soccorso e non volete farvi un merito della vostra liberalità; non volete trarne vantaggio.
—No, no, io non sono tanto generoso!… Ma non vi occupate di quello ch'io creda di fare…. Attenetevi a ciò che vi ho detto: seguite i miei ordini con puntualità; e che non vi esca mai dal labbro il mio nome…..
—Sia come volete!—concluse il De Carlo, dopo essere stato un po' perplesso. E, di lì ad alcuni minuti, era tornato nel suo sfarzoso magazzino.
La principessa, come sappiamo, aspettò per molte ore la visita del Weill-Myot. Già si faceva tardi, e ormai ella disperava che si recasse da lei. Si sentiva intorpidita, quasi sbalordita, non pensava più a nulla, aspettando il meglio da una congiuntura impreveduta, secondo è proprio delle persone di un certo carattere.
Il Weill-Myot contava su questa attesa, sulle trepidazioni che le avrebbe date, però si era appigliato al partito di lasciarle una speranza.
Ad un tratto, fu annunziata alla principessa la visita del famoso gioielliere.
—Quale ironia,—ella diceva fra sè,—costui verrà certo a propormi di spendere una grossa somma!
Lo fece passare: la conversazione con quell'uomo, che tenea commerci con lontani paesi, che le parlava sempre di oro, di diamanti, di zaffiri, della gran quantità di gemme, da lui vedute, l'ammaliava.
Il De Carlo mostrò alla principessa una statuettina d'argento: un lavoro mirabile: e le disse esser un'opera del secolo XV. La principessa non si saziava di guardarla.
—È un oggetto per V. E.,—insinuava il De Carlo.
—Inutili le vostre offerte,—rispose la principessa,—ho deliberato non comprar più gioielli: ne ho già troppi, e non so che farne….
—Tanto più,—disse il De Carlo,—che V. E. è di una bellezza sì grande che non ha bisogno d'adornamenti….
—E, in fatti, avrete veduto…. non porto mai gioielli….—disse la principessa, tutta sorridente.
Quell'elogio, così inatteso, dopo una giornata di torpore, di tristezza, l'avea scossa: avea stuzzicato il sentimento in lei più forte: la vanità, la supremazia dell'orgoglio. E, d'un tratto, come le accadeva, era tornata alla sua spensieratezza.
—Altre signore non portano più gioielli…. da qualche tempo, come V.
E…., sebbene non possano resistere al paragone di lei.
Abbiamo già visto, in altro punto del nostro racconto, che l'elogio alla sua bellezza, fosse pur grossolano, le venisse pur da persone umili, le riusciva gradito. S'inuzzoliva, quindi, sempre più.
—Vi sono, anzi, grandi dame…. anche a Napoli, le quali hanno venduto i loro gioielli, di nascosto alle famiglie, e li hanno sostituiti con pietre false, legate nel più puro oro….
La principessa ascoltava ansiosa.
—Ne conosco due che, a un tratto, si sono sbarazzate, di trecento, quattrocentomila franchi…. di diamanti….
—E chi sono?…
—Debbo custodire il segreto, Eccellenza: anche i gioiellieri hanno il segreto di professione, come gli avvocati, non si può costringerli a palesare tutto quello che sanno…. Posso però dire a V. E. che le persone da me citate, sono fra le più belle, le più eleganti, le più allegre di Napoli.
—Nessuno si accorse di queste sostituzioni di diamanti?—domandò la principessa mezzo febbricitante.
—Ripeto a V. E., che sembra trovar una distrazione, un divago ne' miei discorsi…. nessuno se ne accorse! Lo stesso intelligente, se non abbia molta pratica, può restarvi preso… Le imitazioni sono di una tale finezza!
La principessa si alzò: la sua larga vestaglia di velluto facea con lo strascico un gran rumore sul tappeto. Si sentiva il rumore delle sue gambe robuste, che battevano su le tele onde era cinta: il rumore che facea il peso della sua florida, prestante persona.
Entrò nella sua camera e tornò alcuni istanti appresso, tenendo fra le sue braccia varii astucci coperti di raso bianco, turchino, rosso, di pelle scura.
Li gettò sulla tavola alla rinfusa. Poi li aprì in fretta un dopo l'altro; e alzata la sua testa seducentissima da que' diamanti, che sfavillavano innanzi a lei, guardò il vecchio gioielliere con un sorriso ineffabile, uno di quei sorrisi che hanno i fanciulli, quando arrivano inopinatamente a possedere una cosa da essi agognata.
—Che valore dareste voi a tutti questi diamanti?…
Il vecchietto si tolse i suoi occhiali, cavò da un taschino un astuccetto di cuoio rosso, da cui levò fuori una grossa lente. Con una mano teneva la lente all'occhio destro, con l'altra alzava a uno a uno i gioielli verso l'occhio: esaminava attentamente i diamanti.
La principessa, un ginocchio appoggiato ad una poltrona, i gomiti su la tavola, gli occhi affissati nel gioielliere, aspettava, nella massima trepidanza, ch'egli parlasse.
—Sono tutti diamanti,—disse dopo aver frugato astuccio per astuccio,—d'un immenso valore, e per la loro grossezza e per la loro acqua…. Questa sola collana può valere duecentomila franchi…. oltre cinquantamila ducati….—E bene, De Carlo, voglio venderla…. e serberete il segreto a me, come alle altre,—interruppe la principessa con una familiarità, che non le era consueta.
—Venderla…. ma a chi, Eccellenza?—riprese asciutto asciutto il gioielliere.
Enrica ricevette un colpo; subito però si riebbe; immaginò che il mercante non volesse darle tutta quella somma e avesse già la mira a cavare dalla collana il più vistoso guadagno.
—Non vi chiedo mica la somma a cui l'avete stimata….—rispose.
—Oh, io non acconsentirei di comprarla ad una somma minore…. Tengo alla mia delicatezza, Eccellenza: e ci tengo con tutti, ma sopra tutto con la principessa Enrica, a cui debbo tanto…. Vostra Eccellenza ha contribuito alla mia prosperità…. Ho detto: a chi venderla? perchè è difficile trovar subito una persona, che possa disporre d'una tal somma…. Io sono ora abbastanza, anche troppo fornito…. Però, diamanti di questa qualità potrebbero servire a una gran dama forestiera ch'io conosco per completare una sua acconciatura…. Ma essa non vorrà spender tanto….
—Pigliateli per meno, vi ho detto,—ribattè la principessa, che si era di nuovo seduta nella poltrona, e facea atto di avvilupparsi la magnifica veste attorno il suo bel corpo.
—Ma, Eccellenza, io non voglio esser lo strumento di un'usura, o di un affare che ne abbia le apparenze…. Prendiamo questo piccolo diadema: questo braccialetto.
—Aspettate, vi dirò io quanto valgono: di cotesti ho trovato una quietanza!
Sì alzò di nuovo e corse nella sua camera.
Il De Carlo la sentiva frugar febbrilmente in certi cassetti: poi ella tornò, tenendo in mano un'antica fattura scritta su carta ingiallita dal tempo.
—Eccovi…. venti…. trentacinque…. quarantaseimila….
—Va bene; e oggi valgono qualche cosa di più…. V. E. vuole disfarsene?
—Vi ho detto di sì; però vorrei serbare la montatura e mettervi altri diamanti…. falsi.
—Sta bene…. E io posso dar subito a V. E. lire centomila….
—Ah?—domandò Enrica, che si sentiva tolto un gran peso.—Ma voi mi date troppo…. Io voglio che abbiate un guadagno, per parte mia, di cinque, sei mila lire….
Il gioielliere aveva già pronta la moneta francese, datagli dal Weill-Myot, e metteva su la tavola, a uno a uno, i fogli da mille lire che aveva in mano.
Enrica respinse la somma, che aveva accennato, verso il gioielliere; ma egli la raccolse, con molta dignità, e la pose di nuovo innanzi alla principessa.
—Io sono qui,—disse,—come un servitore devoto di V. E., ben lieto di mostrarle la mia servitù, e tanto soddisfatto di questo che e non potrei cercare un'altra rimunerazione…. Poi, il mio affare, da onest'uomo, è già compiuto, con il prezzo offerto….
—Ma, allora, vendetemi questa statuetta, che avevate portato a farmi vedere,—disse la principessa, che non potea rattenere la sua folle prodigalità, che volea pagare tutti coloro che la servivano, secondando i suoi piaceri, nè le sembrava averli pagati mai troppo, pur che rispondessero al fine.
Il gioielliere prese in mano la statuetta e la pose di nuovo sott'occhio alla principessa.
—E quanto costa?—-domandò Enrica.
—Seimila lire!—rispose impavido il gioielliere.
Essa gli spinse di nuovo innanzi tal somma.
Il gioielliere la pose accuratamente nel portafogli, e la principessa quindi lo accommiatò con la solita alterigia.
—Se V. E.—disse il furbo vecchietto con un sorriso maligno,—avesse qualche altra volta bisogno di me…. può contare su la mia discrezione, sul mio segreto.
E s'inchinava, salutava profondamente.
La principessa non gli rispose: innanzi ch'egli le avesse volto le spalle, essa era di già nella sua camera.
Con quel denaro in mano giubilava: le strettezze in cui si trovava da qualche tempo le riuscivano spinosissime, poichè non v'era abituata, nè avrebbe mai pensato di abituarvisi.
Toccando quel denaro, e guardandosi innanzi a uno specchio, come soleva, le venne pensato che essa ormai era ridotta una mendicante, una cortigiana, che ricorreva ad espedienti per soddisfarsi.
Su le prime fu urtata da tale idea: poi, siccome la corruzione la dominava, se non vi si compiacque, vi si adattò con un sorriso. Pensava:—domani verrà Cristina: e voglio mi si umilii come un tempo: qui ci ho denaro da comprarla: questo può appagare la sua avarizia!
La sera dopo, mentre la principessa aspettava il pranzo, giungeva
Cristina.
All'annunzio della sua visita, la principessa si ritirò nella sua camera.
—Vieni, vieni!—disse a Cristina.
Le contò, dopo alcuni istanti, la somma che essa aspettava.
—Ecco assicurato il viaggio col mio guardacaccia: e voi lo pagate!—disse Cristina con un sorriso tra fiero e sensuale e in atto di sfida.
La principessa accostò le sue labbra alla larga bocca di Cristina.
—Se fossimo amiche come un tempo!…—le mormorò perfidamente.—Oh,—esclamò la principessa, a un tratto, come se inciampasse: e abbassò gli occhi. Cristina vide sul tappeto una bella giarrettiera dorata.
—Mi è caduta ora,—disse la principessa, e si pose a sedere in un divano, alzando un po' la ricca veste rosea, come per intimare a Cristina che la servisse, secondo era un tempo suo dovere.
Cristina, quasi non sapesse ciò che faceva, o vinta da un'abitudine più forte di lei, raccolse la giarrettiera e si pose in ginocchio dinanzi alla principessa per ricingergliela.
O che la principessa facesse un moto, o che Cristina alzasse la veste più del dovere, scoprì una gamba bianca come il marmo, massiccia nella sua perfezione, caldissima.
Un quarto d'ora dopo, le due donne entravano nel salotto.
La principessa, con aria trionfante: le ridevano gli occhi, e diceva a
Cristina con piglio di beffa, e con una certa passione:
—Tu sarai sempre la mia serva…. Ti vorrei rivedere in ginocchio, come or ora, dinanzi a me!…
—E voi sarete sempre la più bella, la più cara delle donne: e io continuerò sempre a sfruttarvi, a perseguitarvi, a amareggiarvi…. Sarete sempre la mia vittima…. Può darsi che mi abbiate veduto più volte innanzi a voi, come un'umile ancella de' vostri sfrenati capricci, ma quanto vi costa?… Un patrimonio è passato dalle vostre nelle mie mani…. Per me son pagata e mi pagherò co' nuovi oltraggi, le nuove umiliazioni, che aspetto d'infliggervi…. Ma, per un altro istante, siate la mia padrona….
E le fece nuova scena, come a' tempi in cui gettava in lei i germi di quella infame corruttela, che, svegliando precocemente i sensi della principessa, dovea cagionarne la massima sventura.
Nell'accomiatarsi da Enrica, Cristina, mezza fuori di sè per un selvaggio fanatismo, le diceva:
—Ti odio! e pure, a volte desidererei star sempre con te…. È certo che una di noi due sarà causa della rovina dell'altra…. Addio, Enrica!
Così le parlava quando era giovinetta.
Enrica si rammentò subito di quella mostruosa familiarità. Aveva sentito presso la sua guancia il caldo alito di Cristina.
—Maledetta creatura!—mormorò.—E pure, se non l'avessi mai conosciuta, mi dorrebbe!
Pranzò sola; voleva andar presto al San Carlo, ove un grandissimo artista cantava il Don Giovanni.
Nel suo palco, durante la rappresentazione, fu visitata da molti. Sembrava a tutti più bella del solito, d'una bellezza diabolica. Aveva intorno a sè, a un certo punto, il Venosa, il marchese di Trapani, l'avvocato Costella, Hummanam pascià, arrivato, pochi giorni innanzi, da Tunisi: in abito nero, e col suo fez.
Sul palcoscenico si cantava il pezzo sublime, in cui rifulge tutta l'ispirazione del Mozart:
Giovinetti, che fate all'amore….
—Perchè,—finito il pezzo, disse la principessa,—non ci fu mai un poeta, un musicista, che pensasse a scrivere un lavoro, in cui fosse protagonista una donna, simile di carattere a Don Giovanni?… Ah, sarebbe stato delizioso!—e continuava col suo sorriso affascinante.—Che ne dite, Venosa? Non credete ci sia fra le donne un tipo come Don Giovanni, cioè una donna, assetata di piaceri, ardente, per cui la vita è nella varietà, nella leggerezza, nella mutabilità delle passioni; una donna che non conosca, o non voglia conoscere, se non il piacere, e per la quale esso divenga, con l'eleganza, col capriccio, l'unico scopo della vita?
Il Venosa tenea sempre gli occhi affissati su la scollatura amplissima, che facea l'abito della principessa. Guardava le spalle di lei, simili a quelle di un'antica Minerva, quel seno procace, che ella voleva tanto ammirato e discopriva sì facilmente, come se il credesse opera d'arte perfetta da non doversi tener celata. Ed era tale. Quando la principessa alzava gli occhi sul Venosa, egli, timido come un fanciullo, abbassava i suoi.
Essa sentiva sempre più l'ammirazione che gl'ispirava; sentiva che sarebbe bastato un suo cenno per attirarlo a sè, distrarlo da Diana, da Diana di lei più giovane, e di quanto!
Ecco i trionfi che la inorgoglivano, che ella cercava, e si appagava d'accertarsi di poterli sempre ottenere.
Voleva persuadersi ognora che la sua bellezza era una potenza, e che i più freddi, i più torpidi doveano subirne la seduzione, rimanerne soggiogati!
—Siamo dunque vicini alla vostra festa…. finalmente,—disse la principessa al marchese di Trapani.
Enrica era gaia quella sera; eccitatissima, parlava con una strana volubilità; si vedeva in lei la gioia che palesano tutti gli animali robusti, quando i loro appetiti sono soddisfatti.
—Una piccola festa,—rispose ipocritamente il marchese di Trapani,—ma non oso più contare sulla soddisfazione di vedervi in casa mia quella sera.
—E perchè?—domandò vivacemente la principessa.—Io ci voglio venire,—continuò con la sua solita impetuosità.
Infatti essa non si lasciava mai sfuggir la occasione, come quella di un ballo, per far vedere il più che poteva del suo corpo sfolgorante.
—No, no, non conto più di vedere in casa mia V. E.,—rispose il marchese di Trapani.—Ho avuto questa sera una notizia, che me ne fa disperare…. Or ora ero nel palco del ministro inglese, egli mi ha detto avere da' suoi dispacci ch'è imminente il ritorno del principe vostro marito….
—Lo so…. lo so…. io pure l'aspetto…. e dunque?…
—Due sposi, che non si vedono più da molto tempo…. Il principe vorrà la solitudine…. e avrà ben ragione!
—Sciocchezze!—disse sorridendo, tra ironica e sdegnosa, la principessa.—Ma chi sa…. forse avete ragione!—aggiunse maliziosa.—Mi dorrà molto di rinunciare al vostro ballo!
In quel momento il marchese di Trapani si volse verso un punto della platea donde due grandi occhi neri dardeggiavano sempre su lui. Era Marco Alboni, che vigilava su la sua vittima e indovinava dai moti del suo labbro, dalla espressione della sua fisonomia ciò che diceva. Vero è ch'egli stesso lo avea ammaestrato di quello che dovea dire: e aspettava ansioso un cenno che gli confermasse quello ch'egli desiderava.
S'era accorto che il marchese avea già cominciato a parlare con la principessa di ciò che a lui stava a cuore. Ad un tratto, il marchese fece un lievissimo cenno tra loro combinato. Marco Alboni gli rispose con uno sguaiato sorriso di compiacenza.
Con quel sorriso pareva dicesse al suo compare:
—Vedi, io sono più astuto di te!
Il marchese non potè dir altro, nè il desiderava, alla principessa, poichè entrava nel palco un nuovo visitatore ed egli colse il destro per ritirarsi.
Questo nuovo visitatore era il Weill-Myot.
—Buona sera, caro Weill-Myot,—gli disse la principessa in tuono di scherno,—ho aspettato oggi…. molto una vostra visita: ma voi vi fate desiderare…. Figuratevi mi fossi troppo annoiata a star sola, contando sulla vostra…. promessa, che colpa non avreste? Fortunatamente…. benchè siate tanto orgoglioso…. non siete indispensabile: mi sono accorta di poter far senza di voi e che è meglio non contare…. su la vostra parola!
Parlava con un garbo, con una finezza di accento, frametteva risa sì argentine a' suoi motteggi, solo intelligibili pel Weill-Myot, che il suo discorso, tutto epigrammi, alle altre due persone, che lo udivano, e che non sapeano nulla dell'incontro mattutino fra Enrica e il banchiere, sembrò che ella facesse all'americano complimenti più dolci dell'usato.
Ma chi rideva davvero in cuor suo di quella garrula arroganza era il
Weill-Myot.
Poche ore prima egli si abbigliava nella sua camera per andar a pranzo dal principe di San Toldo, che voleva consultarlo sull'acquisto di certi titoli.
Gli fu annunziata la visita del De Carlo.
Egli l'aspettava da un momento all'altro, e s'infuriava di non vederlo arrivare.
Lo fece entrar subito nella camera, con la massima familiarità mentr'era in maniche di camicia, dinanzi a uno specchio, e s'infilava nella cravatta nera uno spillo di brillanti.
—E così?—domandò, senza voltarsi, appena sentì il passo del De Carlo nella camera.
Il De Carlo, uomo rigido negli affari, silenzioso quando occorreva, amante de' colpi di scena, e che avea spesso qualche cosa di teatrale, si accostò al banchiere e gli pose sott'occhio gli astucci, aperti, ov'erano i gioielli.
Un sorriso diabolico illuminò la fisonomia del Weill-Myot.
—Centomila franchi!—riprese il gioielliere,—e state sicuro che non ci rimetterete nulla….
—E tu non parlare, e che non si sappia mai….
Il gioielliere fece un gesto come per esprimere che era superflua ogni raccomandazione.
Il Weill-Myot accomiatò il De Carlo, dopo averlo ringraziato del suo buon ufficio: e, rimasto solo, prendeva i gioielli, li guardava di nuovo e li gettava in un cassetto nel quale, per ben richiuderlo, girava due volte la chiave.
—Sono soddisfatto!—mormorò fra sè.
E, sul tardi, era andato al teatro per gioire della principessa, che immaginava trovar esaltata dal fatto accaduto; e che pur prevedeva lo avrebbe insultato, or che si dava ad intendere non aver più bisogno di lui.
—La principessa sa,—così rispose a' suoi sarcasmi, trafiggendola un poco, ma non volendo andar tropp'oltre, affinchè ella, sospettando di lui, non sfuggisse, almeno in parte, alle sue vendette,—sa che io tengo a esser il primo de' suoi servitori…. Se ho mancato ad una visita, la principessa deve essere convinta che ciò può attribuirsi soltanto a motivi superiori di molto alle mie forze…. Ma, pur troppo, io so che alla principessa è indifferente di veder o no un sì umile servitore come sono io: un pover uomo d'affari, che non può distrarla, perchè manca di brio, e non può esserle utile in nulla.
La principessa credeva alla storia della povertà del Weill-Myot, e gli rispose col sembiante di una sovrana verso uno schiavo:
—Povero Weill-Myot, so quanti sono i vostri affari; so che non tutti sempre vi possono andar bene: e m'immagino che dobbiate avere spesso molesti pensieri, e gravi occupazioni, che empiano il vostro tempo… Nessuno vi compatisce più di me!—terminava con affabile degnazione.
Egli se la godeva.
Si accorgeva che nel teatro tutti guardavano la bella donna.
E pensava, quando essa fu di nuovo tutta intenta allo spettacolo:
—E dire che io la tengo in mio potere, che la spingo ogni giorno più verso una rovina…. irreparabile. Non è certo molto lontano il giorno in cui la mia vendetta sarà compiuta!
La principessa avea dato in un gran tranello, per la stessa sua avventatezza.
Nel lasciar scegliere i gioielli al De Carlo, ella non avea badato ch'esso sceglieva appunto antichissimi gioielli, che avevano appartenuto alla madre del principe, ed egli li teneva in casa come un talismano.
Se il principe glieli avesse richiesti?
Enrica continuava a sorridere, di tanto in tanto, a rivolgere alle persone che le stavano attorno argute domande.
In quella sera si sentiva più del solito felice, sgombra da ogni pensiero.
Chi avrebbe detto in tal momento che la donna, sì gaia, sì contenta, in sembiante così tranquilla, era la stessa ch'avea cagionato la morte del conte di Squirace, avea spinto con un'atroce calunnia, sì ben combinata, un innocente in prigione, e per tutta la vita, s'egli non fosse riuscito a salvarsi?
Era un pezzo che da un palco di terz'ordine, un uomo, rimasto sempre avvolto in un largo mantello e che si teneva nell'ombra del palco, la guardava, fissando in lei con insistenza il cannocchiale.
La principessa, alzando gli occhi, avea notato quell'individuo e la sua insistenza. Ma oramai ella era abituata a ogni specie di adorazioni: e non le spiacevano neppure, appunto per l'ammirazione che avea di sè stessa, le più importune e volgari.
Però, ad un tratto, dette in un piccolo grido.
L'uomo, che l'avea affissata per tanto tempo, si alzava nel palco di terz'ordine e, alzandosi, inavvertitamente, avea lasciato cader un po' giù il mantello.
—Che ha V. E.?—domandò il Venosa.
—Oh…. niente,—rispose la principessa.—Ma figuratevi che, da varii giorni, accostandomi qualche volta a' vetri delle finestre, mi vien fatto di veder nella strada un uomo che si direbbe passi lì le sue giornate…. Lo vedo sempre…. Qualche volta, tornando a casa in carrozza da una passeggiata, l'ho incontrato vicino al palazzo…. Sembra non si stacchi mai da que' luoghi…. e mi guarda con un'espressione sì strana, allorchè io passo accanto a lui…. Lo trovo per tutto…. Dev'essere un caso, poichè non ha i modi, nè l'aspetto di un corteggiatore, o di un semplice curioso…. Il bello è che mi par averlo conosciuto…. non so dove…. nè quando…. Ma mi pare….
Tutti aveano levati gli occhi verso il palco, ov'era l'uomo di cui parlava la principessa.
Egli voltava loro le spalle in quel momento; si tirava su il bavero del mantello e si mettea in testa un cappello a larga tesa.
Nessuno di loro lo conosceva.
—Mi piacerebbe di sapere chi è!—disse la principessa.
—Procurerò di seguirlo e d'informarvene!—esclamò il Venosa uscendo dal palco precipitosamente.
Già il palco del terz'ordine era rimasto vuoto.
Una mezz'ora dopo, il Venosa giungeva trafelato.
—L'ho seguito il vostro originale,—disse, non appena fu tornato nel palco.—Egli è entrato nel Caffè d'Europa…. vi si è trattenuto un dieci minuti, bevendo birra…. Non si è mai tirato giù il mantello…. S'è alzato, ed è uscito…. Io avevo fatto l'osservazione che parlava con un cameriere assai familiarmente…. Insomma, nessuno sa chi sia…. Solamente hanno detto che è un ingegnere.
—Ma, a proposito,—disse l'avvocato Costella, mentre la principessa, in piedi nel palco, si lasciava infilare la sua cappa di velluto,—sapete chi è morto, Eccellenza?
La principessa si voltò bruscamente.
—Quel ragazzaccio…. ora uomo d'età…. che vi fece una volta tanto spavento nel parco di Mondrone, e che era stato sì giustamente condannato per le vostre deposizioni, Roberto Jannacone!
Vi lascio pensare il colpo che ricevette Enrica.
Il Venosa guardò il vecchio avvocato come per dirgli che la notizia da lui data era molto inopportuna.
—Com'è morto?—domandò Enrica, impassibile per chiunque l'avesse osservata.
—Di quattro fucilate,—riprese l'avvocato, senza riguardi,—mentre tentava una fuga, di notte, scavalcando la finestra del suo carcere.
—Pover uomo!—mormorò Enrica e si calò la veletta sul volto.
—Intanto—pensava—sono sbarazzata del mio primo marito!
Per tutti, ormai, in fatti, Roberto Jannacone era morto. Viveva un uomo, cui era stata fatta la grazia di parte della sua condanna, e si chiamava l'ingegnere Amoretti.
Anche Cristina, pochi giorni dopo, avea saputo la morte di Roberto.
Ma, una sera, mentre se ne stava tutta raccolta, occupata in un lavoro di ago, le venne annunciata la visita di un signore, che non voleva nominarsi e domandava di parlarle.
E la principessa, tornata a casa la notte, dopo lo spettacolo del San
Carlo, si dava a molte riflessioni.
—Alla fine sono libera di questo Roberto Jannacone…. Egli avea di sicuro cercato fuggire dal suo carcere per nuocermi…. Ed ora Cristina parli pure, se vuole…. Avrò sempre ragione!
La festa data dal marchese di Trapani riuscì splendidissima.
Inutile dire che la principessa fu tra le prime ad accorrervi. Si era mascherata stupendamente: la foggia, da lei vestita, rifioriva la sua bellezza.
Sul cominciar della festa nessuno la riconobbe. Poi tutti cominciarono a domandarsi qual gran dama poteva aver in Napoli sì belle braccia e sì altri belli accessorii, e compiacersi tanto di mostrarli: quale fra le grandi dame di Napoli avesse quel modo provocante di sedersi e di far veder sempre una gamba: poco, ma quanto bastasse ad attizzar desiderii.
Subito il nome della principessa venne sulle labbra di tutti. Ella credea rimanere incognita e pigliarsi spasso degli altri. Aggirandosi qua e là, si avvicinò alle stanze di Diana. In un salottino vide due persone, che sedevano l'una accanto all'altra: riconobbe alle voci, che erano Diana ed il Re: essi le voltavano le spalle e la principessa si nascose dietro un paravento, volendo ascoltarli.
Uscì di là tutta infuriata; avea inteso, o avea interpretato certe parole di Diana come assentimento alle stringenti dichiarazioni del Re. Era egli dunque vero ch'essa aveva alla Corte una rivale?
In tal punto tutte le sue idee eran più che mai riconcentrate nelle frivolezze, nel piacere.
Finiti i denari ottenuti dal De Carlo, aveva già rimandato a chiamar il vecchio gioielliere: si consultava ormai spesso con lui: s'era posta in cuore di far ridurre in denaro da quell'astuto tutti i suoi diamanti, tutte le sue gemme.
Il De Carlo si prestava a secondar i capricci di lei, a sperimentarne i rabbuffi con la sottigliezza di un diplomatico, con la pazienza di un uomo che sa di poter cavare buon frutto dal sopportare.
E, senza che ella il subodorasse, conferiva sempre col Weill-Myot; ma il banchiere americano gli avea ripetuto che non desiderava sborsar altro denaro; disponesse egli come credeva di quei gioielli; a lui bastavano gli antichi, che già aveva acquistato.
—E vorrei sapere,—gli diceva anzi a volte il De Carlo,—-l'uso che ne fate…. Non li avete regalati certo…. E tener lì morto un sì grosso capitale…. Comprendo che voi siete un ricco….
—Sono ricco, e sono solo!—ripigliava il Weill-Myot.—Centomila franchi!… Ne avrei gettati cinque volte il doppio…. un tempo…. per ottenere il contrario di ciò che ora voglio ottenere…. Con questi gioielli voglio riconciliare una moglie col suo marito…. Ma quante spiegazioni vi do!—avea detto un giorno interrompendosi e impazientandosi.
Ormai Enrica, da questo lato, stava tranquilla; non sentiva più le strette della penuria; vedeva un lungo avvenire in cui avrebbe avuto ogni mezzo d'ingolfarsi nelle sue dissolutezze.
Si sarebbe impoverita di tutto: ella, gentildonna, era ormai arrivata a truffare al principe suo marito i gioielli di famiglia, a lasciar nelle mani d'un mercante le gemme appartenute alla madre di lui, per cambiarle con gemme false. Ma ormai la sua coscienza non parlava più.
La notte stessa, in cui sorprese il colloquio tra Diana e il Re, divampò nel suo animo un vero odio per la giovinetta che, sin allora, avea tanto amato, e a solo vederla le parea sentirsi consolata.
Volle subito sfogare il suo odio.
S'imbattè nel Venosa che era anch'egli alla festa del marchese Piero. Gli parlò con volto ilare, preparando una delle sue scene di seduzione.
Ella dava il braccio al vecchio balì di Cantadera; non volea lasciarlo bruscamente per un giovinetto: ma fece capire al Venosa che la seguisse.
Ogni tanto si voltava verso di lui; sorrideva, gli parlava.
Il vecchio balì stanco, e non volendo poi servir di balocco, trovò un pretesto per allontanarsi.
—Voi sarete il mio cavaliere alla cena!—disse la principessa al
Venosa.
Il giovane non domandava di meglio.
Entrarono nella sala delle cene: vi erano molte tavole apparecchiate. Diana li raggiunse mentre favellavano sotto voce: la principessa aveva sulle labbra il suo sorriso diabolico e il Venosa tremava, socchiudeva gli occhi come se facesse un sogno di voluttà.
Anche Diana fu colpita da gelosia della principessa e questa volta nel modo più vivo: si persuadeva esser proprio vero che costei le disputasse il suo fidanzato.
Chiamò subito il Venosa con un certo piglio d'irritazione. Egli si scosse: le andò incontro un istante per dirle molto turbato che non potea lasciare la principessa: e la risposta fredda, insidiosa, a Diana dette nel cuore. Non volle perder più di veduta que' due in tutta la durata della festa. Presso il mattino si accorse che essi erano nel salotto ov'ella era stata poco prima col Re.
La principessa, con un piacere maligno, avea voluto sedersi nello stesso punto, con accanto il fidanzato di Diana.
A Enrica era venuta un'idea: costringere il Venosa a chieder la mano di Diana. Se la giovinetta consentiva a sposarlo, voleva significare che fra lei e il Re non correva alcuna relazione, se non amichevole. S'ella si opponeva alla domanda, ella, che un tempo amava il Venosa, potea tenerla per sua rivale, per sua nemica; e pensare a sbarazzarsene come avea fatto di altri suoi nemici.
Così le sue focose passioni la spingeano: e senza ch'ella il sapesse, fin contro la propria figlia. Si dette a raddoppiare di tenerezza con il Venosa: egli le stringeva furtivamente il polso del braccio destro: in sembiante, per aggiustarle un grosso braccialetto. Essa lasciava fare, e lo guardava ammaliandolo.
Diana s'era nascosta dietro il paravento ove era stata poco innanzi la principessa.
Sembra che Enrica avesse mossa al Venosa una domanda, poichè egli le rispondeva:
—Ma non ci è cosa al mondo, che non vorrei tentare per voi…. Mi chiedete, se amo Diana…. se voglio bene a quella creaturina inesperta, ma sento quanto l'amore per una giovanetta come Diana debba esser diverso dalla passione seria, profonda, esaltata che può ispirar una donna come voi….
—Voi dovete ubbidirmi: me l'avete promesso….
—E vi ubbidirò, principessa!
—Dovete chiedere, senza indugio, la mano di Diana.
—Ma….—il Venosa esitava.
—Lo voglio io!—aggiunse, imperiosa, la principessa e in tuono che lasciava a quell'uomo, ignaro della vita, molte speranze.
—Vi ripeto: io voglio bene a Diana, secondo si può voler bene ad una giovinetta come lei…. Però andavo sempre indugiando il mio matrimonio….
—Giovinetta…. Ma Diana potrebbe esser madre…. Vedete che essa ha già l'aspetto, la figura di una donna…. Promettetemi che domanderete subito la sua mano…. già voi l'amate….
—L'amo…. non quanto amo voi!—disse con foga il Venosa: e baciava le estremità delle dita alla principessa, di cui s'era portato alle labbra la mano destra morbida, bianca, profumata, sfavillante di anelli.—Per voi Diana sarà presto mia sposa: essa vi dovrà la sua felicità, poichè per voi avrò sormontato quelli scrupoli che mi spingevano a serbar tuttora la mia libertà…. Ma qual sarà la mia ricompensa?…
Diana sentì il rumore di un bacio, che il Venosa avea dato col massimo ardore su la spalla nuda di Enrica.
Enrica si alzò, passarono quasi accanto a Diana che si teneva tutta raccolta dietro il paravento. Essa vide benissimo il Venosa, che si accostava molto alla principessa, mentre le dava il braccio, come fanno certi innamorati smaniosi. La principessa voleva infiammarlo. Con la sua bella voce musicale, quando furono presso la porta, avvicinandosi a lui in modo ch'egli potesse riconoscere tutto il valore delle forme risentite della sua persona, gli mormorò, tra languida e carezzevole:
—Sapete qual sarà il vostro premio!… Ma occorre affrettare il matrimonio….
Essere l'amante di quell'uomo inesperto, per un istante, poco le caleva: ciò che le importava era riacquistare la sicurezza ch'ella non potea perdere della sua influenza sull'animo del Re, influenza da cui traeva una sì gran vanagloria.
Ma Diana avea colto anche quelle ultime parole: avea capito a qual prezzo il perfido Venosa la vendeva.
Si preparò a stornare i suoi disegni.
Allorchè quasi tutti gl'invitati ebbero lasciato il palazzo del marchese di Trapani, e soli rimanevano due o tre suoi parenti e la principessa, accadde una scena delle più strane.
La principessa avea notato che un uomo le si avvicinava spesso, come per udir ciò ch'ella diceva, e la guardava con una bizzarra espressione.
In quest'uomo ella avea riconosciuto Marco Alboni, l'intendente del marchese di Trapani, sì ben noto anche al nostro lettore.
Si trovavano tutti riuniti: il marchese, Diana, la principessa, il
Venosa.
—Avremmo da dirvi qualche cosa di molto confidenziale!—incominciò la principessa. E si voltava verso Marco come per far capire che colui era di troppo.
Ma il marchese le rispose con un altro gesto, e un ristringersi nelle spalle, che volea significare: è un vecchio servitore, fidato, che vuol magari ingerirsi troppo nelle mie faccende, ma non posso ora dispiacergli, irritarlo.
La principessa capì.
È proprio di noi italiani, de' meridionali in ispecie, compendiar in un gesto, in un'espressione della fisonomia un lungo discorso.
Subito Enrica si mosse e andarono tutti dal lato opposto della sala.
Marco Alboni si contentò di seguirli con lo sguardo.
—Caro marchese,—disse la principessa al marchese di Trapani,—-io debbo parlare in nome del nostro amico Venosa…. e la vostra risposta mi sta molto a cuore…. Il Venosa,—riprese dopo breve esitanza,—ama vostra figlia…. e vi chiede la sua mano!
Era impossibile parlare con più vellutata soavità di accento, con più grazia.
Il marchese s'aspettava così poco una tale domanda che non trovava parole per rispondere.
L'Alboni, il quale col suo orecchio sottile avea tutto udito, non potea più star nella pelle.
Temeva che il marchese cadesse in qualche errore.
Ma Diana venne a tor tutti d'imbarazzo.
—Mio padre,—disse al marchese, ch'ella non solea mai chiamare in tal modo,—io non ho mai sin ad oggi avuto alcuna idea di maritarmi, e non mi sono mai accorta di amare il signor Venosa!
Il giovane fu ferito, e nella schietta, ingenua affezione che nutriva per Diana, non ostante il momentaneo suo depravamento, e nell'orgoglio che ogni uomo reca con sè.
Diana si era presa giuoco di lui sin allora?
La principessa fu eccitata dalla collera.
Ella sapea che Diana amava il Venosa. La fanciulla erasi mutata soltanto per l'ambizione ch'ormai gonfiava il suo cuore: sapea di poter conquistare il Re e disprezzava l'umile giovane sin allora adorato: la giudicava alla sua stregua.
Non poteva ormai contenere il suo odio per lei.
Lasciò la casa del marchese, ultima fra le invitate, affettando la massima disinvoltura.
Salutò appena Diana nell'accomiatarsi: rivolse poche, sdegnose parole al Venosa, il cui amore per lei si era infiammato a cento doppii, dopo la improvvisa ripulsa della ragazza.
La principessa tornò a casa e ricevette una notizia, che avrebbe dovuto aspettarsi, ma alla quale ormai più non pensava.
—È tornato il principe!—le disse la sua cameriera.
—E dov'è?—domandò Enrica.
—Era stanco e si è coricato.
Ella era ben stanca, ma non potea coricarsi.
Si vedeva negli specchi, nella sua camera, nel suo abbigliatoio, con lo strano abito che indossava, tornando da una mascherata.
Licenziò la sua cameriera e si gettò su una poltrona.
Il Re la tradiva…. e per una giovinetta. Era ella, dunque, tanto invecchiata? Non poteva ormai più trattenere un amante?
S'imbizziva; e la sua collera avrebbe voluto sfogar tutta contro quella fanciulla.
—Una ragazza,—pensava,—cui ho voluto tanto bene sino a ieri!
Sentì bussare alla porta e una voce fievole che diceva:
—Enrica!
Riconobbe la voce del marito.
Fece subito un gesto di disgusto.
Poi, volendo fingere, o forse sembrandole che ciò potesse distrarla da' suoi neri pensieri, da' pensieri, che le erano in tal momento assai importuni, si alzò, andò ad aprire: e si gettò nelle braccia del principe. Incontanente, scostandosi da lui, volle guardarlo.
Il principe sembrava più giovane che mai: aveva acquistato molto di floridezza nella sua assenza.
Le parve più bello di prima.
E subito Enrica provò una nuova fiamma d'amore per lui.
Anche il principe, eziandio, volle rimirarla: non gli parve che ella avesse nulla perduto: anzi gli parve ch'ella avesse acquistato di venustà.
Si accorse subito che essa era vestita in maschera; e vestita in qual modo!
—Vi siete divertita molto, cara, durante la mia assenza?…—domandò con quel piglio leggero, che gli era proprio ne' suoi periodi, lunghi periodi, di affabilità.
Per irritarlo, per farlo divenire cattivo, come sa il nostro lettore, ci volevano le cose che al carattere suo eran più ripugnanti: una bassezza, un tradimento, una viltà. In tutto il resto si mostrava indulgentissimo: nessuno aveva meno pregiudizi di lui: solo non sapea transigere sulla pura questione dell'onore.
—Mi mancano precise notizie… di voi… da molto tempo,—continuò, celiando.—Cercherò informazioni…. Potrei domandarne a voi stessa… ma la fonte è un po' sospetta!…
—Oh!—rispose la principessa con un bel sorriso, che metteva in mostra i suoi denti bellissimi: e battè la mano sul tappeto del tavolino, che avea alla sua destra.—Ma ditemi,—riprese,—sareste forse geloso?
—Eh… chi sa?—soggiunse il principe, che carezzava con una mano i suoi lunghi baffi.
—Facciamoci le nostre confessioni,—continuò la principessa,—uno dopo l'altro….
—Sì… sì….
—Ma cominciate voi dal dire i vostri peccati.
—Avete paura che, cominciando voi, vi mancherebbe il tempo per finire?…
E anche il principe rideva….
—Siete tornato molto allegro….
—E anche voi vi trovo allegrissima… in maschera!
—Sono gli ultimi momenti della mia vita per divertirmi…. Mi sento, caro, già vecchia!
—No, no…. questo no…. voi siete sempre più bella…
—Si vede in voi il diplomatico, che non è mai abituato a dire la verità!
—Vi dico sinceramente che voi siete bellissima.
—Grazie, amico mio, grazie!
E la principessa si alzò, si accostò al principe, gli tese la mano e gli fece un inchino, con quel garbo di cui ella aveva il segreto.
—Dunque, sì,—proseguì egli, rimirandola e quasi compiacendosi della eleganza, della bellezza di lei,—chiederò informazioni…. Ma, ditemi, a chi devo evitare di domandar notizie…. perchè non vorrei andar a istruirmi da gente che potesse aver troppo interesse a mentire!…
—Siete molto cattivo.
—Mi piace di tormentarvi…. Ho viaggiato tanto, dacchè non ci siamo veduti, ho conosciuto alle Corti, nelle aristocrazie forestiere, donne bellissime… e pure… Enrica, vi dirò una cosa, che non dispiacerà al vostro orgoglio: non ho mai trovato una donna che avesse la vostra perfezione di forme, e che sapesse sorridere, parlare, sapesse muoversi, atteggiarsi come voi….
La principessa rideva e scrollava il capo.
—Siete una meravigliosa figura,—insisteva il principe,—Dio vi ha largito tutto. Un artista dee sentirsi beato nel riguardarvi. A voi è mancata una sola forza: l'educazione del cuore, che vostro padre avrebbe voluto darvi, ma non potè, per la sua spensieratezza, che vostra madre vi avrebbe dato, se non fosse morta sì precocemente.
—Sicchè mi credete una donna viziosa….
—Cara Enrica, vi dirò di più…. Io vi credo, pel vostro utile, capace di tutto….
—Anche di un delitto?—chiese Enrica per far l'indifferente, studiando un sorriso.
—Di uno, di due, di più….
—Avete una buona moglie, voi!
—Non ho mai riconosciuto d'averla buona: ho detto bella…. Sapete che voi mi avete ispirato forti passioni, ma che il sentimento più durevole da voi ispiratomi fu quello della diffidenza.
—E che temete da me?
—Lo sapete, Enrica,—disse il principe con tuono un po' più aspro.—Ma, tra voi e me, spero, non ci saranno più motivi di dissidio!
—Spero anch'io,—replicò arditamente la principessa. E, per sviare la conversazione, che non finisse io minaccie, domandò:
—O la duchessa sa che siete tornato?
—Sicuro.
—E l'avete forse riveduta prima di me?
—Sì, perchè è venuta a trovarmi dove io era: desiderio che voi non avete mai provato….
—Sapete che mi piace Napoli e che si potrebbe adattar a me, benissimo il proverbio: vedi Napoli, e poi mori,—il mio voto è vivere, morire in questa città. Se me ne assento, mi par di farle una infedeltà….
—E voi di infedeltà non siete capace!—interruppe il principe con fino dileggio.
—Crediate: ci sono molti che la pensano come me; Napoli è il paradiso della terra…. Non posso sentir cantar una volta quella canzone: o bella Napoli, senza che mi batta il cuore. O bella Napoli! Soltanto in queste parole è per me una melodia…. Ove si può trovar un soggiorno più incantevole che in questa regione beata? Dove meglio che tra il nostro mare, il nostro cielo, i nostri orizzonti si posson gustare i rapidissimi istanti di poesia che ha la vita?
—Dite benissimo: amo anch'io Napoli e appena, dopo lunghe assenze, ho riveduto il Vesuvio, Posilipo, le linee di Chiaia, di tutti que' luoghi dal nome armonioso, mi son sempre sentito occupar l'animo da tenerezze ineffabili…. Chi non ha fatto un bel sogno a questi dolci tramonti…. chi non ha sentito soave il fremito delle più trepide passioni fra tanta luce, tanto profumo di fiori, tanta allegrezza di natura? Sì, par che qui debbano vivere Numi e non vi si debba conoscere se non il sorriso della vita….
Tutti e due si erano affacciati, a poco a poco, al balcone: e non sentivano l'aria pungente del mattino, e si tenevano per mano.
Il principe si lasciava andar alle sue fantasticherie.
Egli era davvero poeta, come sa il lettore.
—Domani, dunque,—disse a un tratto la principessa, divenuta molto pensosa,—voi andrete a cercar notizie sul conto mio….
—È probabile!—rispose il principe asciutto, e tornando alla realtà.
—E a che fonte le attingerete, si può sapere?
—Cerco anch'io….
—Dalla duchessa?…—domandò all'improvviso Enrica, dopo breve pausa.
—Ella è troppo generosa: non potrebbe mai accusare nessuno… se pur vi fosse motivo ad accuse…. Ella, statene certa, non si occupa di voi.
—È una prudenza, che dovrebbe usare la… mia cara amica, in contraccambio di quella ch'io so usare verso di lei…. Non ho nulla a rimproverarmi: ve lo assicuro!
—Guardate: e io ve lo credo!… Sapete quanto io sono indulgente, ma vi hanno cose che non riuscirei mai a perdonarvi…. Possiate evitarle sempre, cara…. Poi, ho scherzato fin ora…. Se voi aveste commesso qualche atto grave, non avrei bisogno di andarne a cercar le notizie…. La malignità de' miei amici penserebbe ad informarmene…. C'è di più: le donne come voi, suscitano nel mondo invidie, ostilità…. Più volte mi son pervenute accuse contro di voi: e le ho disprezzate!
Si tacquero l'uno e l'altra.
Noi abbiamo appena riferito qualche parte della conversazione che aveano avuto tra loro in quelle ore.
—Abbiamo fatto di strani discorsi stasera,—disse il principe, come risvegliandosi.—E sopra tutto, dopo non esserci visti da tanto tempo…. Ma già con voi tutto è strano… Vi bacio la mano:—e il principe la baciò,—e vi lascio alle vostre preghiere. Non avete ancora pregato?
—La domanda che fa Otello a Desdemona….
E, sghignazzando, la principessa entrò nella sua camera.
Il principe richiuse pian piano la porta del salotto.
La principessa non potea rintuzzare l'avversione che s'era in lei destata verso Diana.
Da varii giorni avea cercato ogni pretesto per riveder il Re, ma non vi era riuscita. Aveva scritto, ma senza ricevere alcuna risposta: s'infiammava sempre più il suo sdegno. Il Venosa non riusciva a comprendere la ripulsa di Diana, dopo che ella lo avea sì fortemente incitato a chieder la mano di lei al marchese. L'atto avrebbe meravigliato ben altri che lui, a dirittura inesperto delle cose della passione, degl'inopinati mutamenti dell'animo femminile.
Gli entrava in cuore un rimorso. Si diceva ch'egli non era stato, almeno in tutto il suo sentimento, fedele a Diana; e, se non sapea spiegarsi lo sdegno di lei, dovea riconoscere d'averlo ben meritato.
Invano avea cercato di rivedere la giovinetta: essa lo sfuggiva. Non si era più recato dalla principessa: nella sua indole buona, tra gli ardori di una passione male ispirata, cominciava a sentir la indegnità dell'aver cercato di tradir Diana. Voleva ad ogni costo riacquistar la stima, la fiducia di lei.
Una notte, tornato a casa, le scrisse una lunga lettera: le prime due pagine le scrisse e riscrisse di nuovo due e tre volte; non era mai soddisfatto. Aveva coperto il tavolino di foglietti stracciati.
Quando fu contento, o almeno quasi contento della lettera da lui scritta, erano le cinque del mattino.
Avea passato più di cinque ore a intrattenersi con la giovinetta, di cui s'era potuto persuadere più volte fin allora di non essere innamorato. Sentiva quanto l'amava, ora che gli pareva averla perduta!
Il giorno, verso il tocco, se ne andò al palazzo del marchese di Trapani. Avea veduto, non visto da essi, il marchese Pietro e Marco Alboni, che confabulavano insieme in un Caffè della via Toledo. Egli, timido, non poteva ormai incontrar più il marchese senza un vivo imbarazzo: l'aspetto di Marco Alboni pure lo turbava: non potea dirsi il perchè, ma quell'uomo non gli piaceva e l'ispirava insieme un certo disgusto e una certa soggezione.
Dopo che Diana avea respinto la sua domanda di matrimonio, egli avea sorpreso un sorriso sarcastico nel volto di Marco. Gli era sembrato che, con l'atteggiamento della sua fisonomia, gli dicesse:—alla fine, siamo liberati di te!…
E già si era accorto, non ostante che l'Alboni gli si mostrasse molto cerimonioso, secondo il suo solito, ch'egli non vedea di buon occhio le sue visite sì frequenti.
Il Venosa avea molto pensato alla difficoltà di ripresentarsi nel palazzo del marchese. La principessa, egli credea con la sua avventatezza, gliene avea chiuse le porte. Gli era corso alla mente uno stratagemma: andar a domandare della signora Teodora: prenderla a confidente de' suoi crucci.
Quella donna pretenziosa, sempre innamorata, lo avrebbe lasciato ben volentieri discorrere della sua passione: essa era irritata che pochi le parlassero: le sembrava esser troppo abbandonata, non ostante le sue vivaci conversazioni col giovinetto, di cui abbiamo parlato. Il Venosa non aveva se non a presentarsi a lei, anch'egli come un'anima derelitta: la fibra patetica era in lei commovibilissima.
Così fece: la signora Teodora lo accolse, vorremmo dire, a braccia aperte.
—Così quel caro angioletto non vuol più sentir parlare di voi….
Davvero? E lo credete sul serio?
Il Venosa non rispose.
—Allora siete molto semplice!… Ma io non voglio farvi soffrire…. vi consolerò subito; vi dirò che ho sorpreso ieri sera Diana, sola nella sua camera, mentre piangeva dirottamente.—Che hai?—le ho domandato. Ella mi s'è gettata al collo: e mi ha detto ch'era tanto, ma tanto infelice…. povera creaturina!—Due grosse lacrime rigavano le guancie vegete e dipinte della signora Teodora.—Mi ha detto che voleva uccidersi…. non poteva più sostenere la vita…. Insomma, mi ha confessato che vi ama, e non amerà mai altri che voi; che è inconsolabile della vostra assenza: e non può tollerare di rivedervi, perchè ha scoperto che la tradite….—Ma la tradite davvero?…—domandò con una certa solennità la signora Teodora.
Al Venosa batteva il cuore.
Si spinse, senza saper che facesse, verso una finestra aperta, rispondente su un balcone. Affacciatosi vide Diana seduta sotto di esso, nel giardino; e certo avea riconosciuto la voce di lui, poichè stava in attitudine di chi ascolta.
Egli le gettò subito, con mano tremante, la lettera che aveva scritto.
La lettera cadde a' piedi di lei.
Diana la guardò, per un istante, esitando. Poi la raccolse: avea riconosciuto le sue cifre: si alzò e disparve. Il Venosa non capiva più in sè dall'allegrezza.
Quell'atto era più che una garanzia di riconciliazione.
Si trattenne, per qualche tempo, a parlar con la signora Teodora: ma i suoi discorsi erano ben slegati.
Egli non pensava ad altro, se non che in tal momento Diana dovea leggere la sua lettera.
Avrebbe dato tutto al mondo: pure tremava alla idea ch'ella potesse comparire in quella stanza.
Il principe di Gorreso il giorno stesso in cui il Venosa pativa tali trepidanze, d'umor allegro più del solito, con un vero riso di gioia nell'anima, era uscito: avea fatto una lunga passeggiata, poichè la temperatura era dolcissima: e quindi, per riposarsi, se n'era andato al suo Circolo, il più aristocratico Circolo di Napoli.
Lasciati nelle mani d'un servitore il suo cappello, il suo bastone, per una porticina laterale entrò nella biblioteca, ch'era deserta, e si buttò giù in una comoda poltrona. Una fra le porte della biblioteca era aperta e metteva nella sala di lettura. Però il principe non potea esser veduto dalla sala, poichè era coperto dal dorso dell'ampia poltrona.
A poco a poco, benchè avesse preso in mano le poesie del Savioli, allora molto lette, si addormentò; ma fu svegliato da un bisbiglio di voci, a lui molto vicino.
I suoi occhi si posarono sull'orologio della biblioteca, che aveva dinanzi, e si accorse che avea dormito un tre quarti d'ora.
Prima che facesse qualsiasi movimento, udì in quel bisbiglìo di voci, che già gli avea percosso l'orecchio, pronunziare il suo nome.
Involontariamente, per una curiosità più forte di lui, si mise in ascolto: e aguzzò l'orecchio per riconoscere le voci.
—Non credo, ripeto, che Gorreso ne sappia nulla,—diceva il vecchio duca della Pandura, un bellimbusto mezzo rimbambito, al principe di Latania, giuocatore, spensierato, di fama molto prodigata, ma ricevuto, accolto per tutto, grazie al suo nome: eroe di scandalose avventure: e che dovea finire con un suicidio, dopo tante stranezze, di cui i suoi più intimi, e anche qualche conoscente, avean subìto di pagare per anni le spese.
—State sicuro,—rispondeva il principe di Latania,—che il Gorreso sa tutto: e finge non sapere…. Ma gli torna molto utile….
—E di che ha egli bisogno?
—Di quello di cui ha bisogno un ambizioso.
—Ambizioso Gorreso?—ripigliava il duca.
Entrò un terzo nella sala di lettura.
Il principe pian piano si alzò: uscì dalla biblioteca per la porticina laterale; e, di lì a pochi istanti, entrò anch'egli nella sala di lettura dal corridoio.
Subito il duca della Pandura lo salutò con molta espansione. Il principe di Latania si alzò, gli andò incontro, gli strinse tutte e due le mani, gli sorrise, lo chiamò con tutti i vezzeggiativi.
—Come sono sinceri i veri amici!—pensava il principe Gorreso.
S'intrattenne un po' a parlare con essi: scherzò, si mostrò allegro: trasse il discorso destramente sui poveri mariti.
—Sempre ingannati,—osservava il principe,—sempre vittime della loro credulità…. Ma come possono saper mai il vero, se tutti si adoperano a tenerlo ad essi celato!
Si accorse che il principe Latania toccava col gomito il duca della Pandura, come per richiamare la sua attenzione su la grottesca semplicità di un uomo, che parlava in tal modo, mentre era egli stesso nella pietosa condizione a cui alludeva.
Il Gorreso seppe dissimulare, sebbene lo stimolasse un vivo desiderio di saltar al collo di quell'impronto e fargli pagar cara la sua imprudenza.
Ma non era quello il luogo, nè gli parea giunto il momento opportuno.
I suoi due amici se ne andarono insieme, dopo breve tratto; egli rimase solo: e pensava, guardando verso l'uscio sempre aperto della biblioteca:—In quella stanza potrò nascondermi quando voglio…. È sempre la meno frequentata del Circolo…. Ed ecco un punto da cui potrò, a poco a poco, udire ciò che i miei amici pensano di me, dopo una sì lunga assenza.
Vi tornò parecchie volte, in ore diverse, stette seduto, con un libro in mano, mezze giornate nella gran poltrona…. udì molti discorsi: ma non più nulla che a lui si riferisse. E quasi quasi era sul punto di rinunziare al suo disegno.
Dopo il suo ritorno, il principe osservava strettamente sua moglie. Gli sembrava che ella fosse inquietissima, molto agitata. Gli appariva sempre nuova, sempre ammaliantemente misteriosa. In lui stava per raccendersi l'antica passione.
Sovente Enrica lo vedea comparire nelle sue stanze, le si avvicinava, la carezzava: avevano passate insieme molte serate dopo pranzo: c'erano state fra loro scene appassionatissime.
Un giorno il principe, anche per provare Enrica, le suggerì di passare con lui qualche tempo a Mondrone, nella solitudine della campagna. Nessuno turberebbe i loro amori: potrebbero esser tanto felici!
Enrica accettò con entusiasmo: e ciò finì con l'aquetare, lì per lì, i sospetti del principe.
Una sera erano a Mondrone…. Il principe si trovava nella camera di Enrica. Aveano fatto un pranzo succulento, il principe aveva bevuto più dell'usato. S'erano dati a leggere poesie d'amore: aveano corso insieme tre pagine d'un romanzo, in cui si descriveva a vivi colori la felicità di due innamorati…. Erano eccitatissimi.
Enrica stava in mezzo alla stanza, quasi dinanzi al caminetto: e avea gettata una dopo l'altra le sue vesti, per cingersi un largo accappatoio.
Le rimaneva in dosso il suo busto di raso scarlatto, che dava un'insolita vivacità di tono al bianco delle sue braccia, al nascere delle sue spalle e del suo seno, e un guarnelletto di batista, con trine finissime, facea spiccare il suo fianco, e si fermava a un punto in cui lasciava scoperte le gambe robuste, coperte da una maglia di seta scarlatta, ben tirata.
Il principe voleva avvicinarsele.
—No, no,—ella rispondeva, provocandolo, attizzandolo, sfuggendogli, mentre gli rivolgeva il suo sorriso di sirena. Era splendida, irresistibile.
Egli la supplicava.
—Parliamo d'affari!—ella disse a un tratto.
—D'affari?—replicò il principe meravigliato.
—Sì, sì; io sono, caro amico, in penosi imbarazzi…. Ho fatto far nuovi lavori qui nella tenuta di Mondrone: ho anticipato somme…. mi sono rovinata. I miei creditori non mi lasciano pace…. E ho speso molto anche per prepararvi una sorpresa.
—E qual sorpresa?—sfuggì detto al principe.
—Una grandissima sorpresa….
—Ma, dunque?
—Mi occorre una somma…. e tu devi prestarmela.
—Volentieri!…—disse il principe, che era generosissimo.
Enrica fu lieta di quella sì subita profferta; e si pentì di non aver fatto prima simile domanda al marito. Ormai le sue dissipazioni la trascinavano alla rovina e non avea più ritegni di sorta.
—Sai quello ch'io voglia da te?
—Ma io ti do carta bianca,—disse il principe.
—Non sono certa però che domani tu sarai della stessa opinione,—esclamò la principessa con un vero sorriso da cortigiana.
—M'insulti, dubitando della mia parola: io non sono come te….
—Oh, oh: questo è peggio che un insulto!—e la principessa metteva un foglio di carta bianca su un tavolino sotto l'occhio del principe.
E gl'indicava il calamaio, una penna, con certi gesti quasi infantili: ma di fanciullo pervertito, e di una profonda corruzione.
Il principe firmò. Toccava a lei scriver la somma che voleva. Lì per lì, il principe credette, o quasi, si trattasse d'un giuoco e non vi pensò più, nel suo inebriamento. Ma, con fittissimi e variati espedienti, le scene si rinnovarono due, tre volte, anche quando furon tornati nel loro palazzo di Napoli.
Ella gli dimostrava un gran fervore: lo ingolfava in raffinate sensualità: a poco a poco, lo incatenava di nuovo a sè.
Un giorno, mentre tornavano da una colazione, cui li avea invitati l'ambasciatore inglese, il principe era rimasto nelle stanze di Enrica: non se ne andava: ed essa avea capito il perchè del suo indugiarsi.
Il principe la strinse fra le sue braccia.
—Non sono tranquilla oggi!—ella disse bruscamente.
E ricominciò, a poco a poco, una delle sue solite scene. Egli si ritrasse spaventato. Ciò si ripeteva troppo di sovente.
—Ma,—esclamò, allontanandosi da lei,—che modo è questo?…
E, dopo breve silenzio:—Tu mi vendi i tuoi sorrisi?
Enrica fu colpita. Capì ch'essa, accecata dalla mania del denaro, dalla urgenza di far fronte a certe necessità che la incalzavano, e che non potea confessare, era andata tropp'oltre.
Che l'avea sospinta alle nuove, pazze spese? Sempre la sua vanità, la sua sfrenata ambizione; e il desiderio, a cui non poteva resistere, di far sorvegliare il re, d'aver prove ch'egli trescava con una nuova privilegiata. Facea pur spiare Diana, e la volea far cadere in un orribile tranello. Si era formata una specie di polizia, composta di uomini e di donne. Le recavano molte notizie, e tutte inconcludenti. Ella le interpretava a suo modo, ne cavava le conseguenze, che soddisfacevano al suo odio per Diana, alla sua gelosia, e sempre più s'irritava, sempre più s'ingolfava, per stordirsi, in un modo di vita che dovea tornarle esiziale. Cristina era anch'essa ora fra le persone che Enrica credeva sue ausiliarie.
Il principe fu presto consapevole che nella sua casa accadeva qualche cosa d'insolito. A giorni voleva interrogar la moglie, minacciarla, indagare ciò che gli appariva molto misterioso: incontrava spesso per le scale del palazzo, nelle stanze, uomini, donne, che non sapea chi fossero; ma la sua spensieratezza, il suo umore allegro finivan sempre per dominarlo; egli era nato per la vita facile, briosa.
Come abbiam detto altre volte, era uomo terribile e potea esser capace di tutto in certi istanti di collera: ma la sua vera natura, la sua natura superficiale, che è quella che vince in tutti, poichè è fatta d'abitudini, lo portava alla eleganza, a un certo forbito libertinaggio, alla raffinatezza, alla sensualità.
Avea ricominciato le sue visite alla duchessa. Nella pace di quella casa trovava il riposo dell'animo, di cui aveva bisogno: e non pensava più che tanto al bailamme di casa sua. Lasciava spesso la principessa sola per intere giornate, e nelle serate: ella non se ne lamentava: talvolta neppure se ne accorgeva.
Una sera, entrando al suo Circolo, gli fu consegnata da un cameriere una lettera anonima.
Gli fu detto che l'avea recapitata una donna, assai ben vestita, assai bella, quantunque di età piuttosto matura, e che era stata altre volte a domandare di lui.
Il principe trovò subito un amico, e si dette a parlare con esso, riponendo in tasca la lettera. Tornato a casa la notte, ritrovò quella lettera: sedette su una poltrona, e aprì la busta.
La lettera non era firmata. Voleva stracciarla, come era suo costume in simili occasioni: ma il nome di Enrica attirò i suoi sguardi, e la lesse, quasi contro la sua volontà.
In quella lettera vi era una nerissima denunzia.
Vi si diceva che la principessa era la favorita del Re; e ch'egli, il principe, era un marito compiacente, di cui tutta Napoli si burlava: ma non tutti si contentavano di schernirlo: v'era chi lo dispregiava, chi lo accusava di viltà: poichè si diceva ch'egli s'avvantaggiasse del suo disonore. Si sapeva che l'ambasciata a lui conferita, e con palese ingiustizia verso di altri, era un pretesto per allontanarlo da Napoli. Provvedesse al suo nome, se davvero non aveva rinunziato ad ogni dignità. La persona che scriveva, lo avea sentito designare col nome di "marito infame": pesava già su lui una riputazione d'ignominia. Gli amici, che gli si porgevano tanto cortesi in sembiante, nel loro segreto lo condannavano. Nelle conversazioni si sparlava di lui, si proferivano sul conto suo le cose più nefande, sebbene i discorsi a lui contrarii cessassero al suo apparire.
Vi erano poi alcune allusioni alla famiglia del principe, alla sua infanzia: allusioni di cose intime e ignote a tutti, salvo a persone che avessero per anni frequentato la casa sua. Il principe dovette persuadersi che la lettera non era scritta da persona comune.
Lo dimostravano eziandio lo stile netto in cui era scritta, la fina calligrafia, la carta finissima e olente un profumo aristocratico.
Chi gli avea scritto, e qual'era la donna che avea spinto la temerarietà sino a lasciare ella stessa la lettera alla porta del Circolo?… Ma Napoli è sì grande! essa non temeva forse di essere riconosciuta: o molto probabilmente la donna che avea scritto la lettera non era quella stessa che l'avea recapitata.
Con la lettera in mano, il principe fantasticava.
Metteva certe espressioni contenute in quel foglio insieme con le altre da lui udite la mattina in cui gli era riuscito cogliere a volo certi tratti di un dialogo fra il duca della Pandura e il principe di Latania.
Ora capiva bene certe allusioni.—Ma un uomo come lui dovea lasciarsi torcere a sì tristi pensieri da una vilissima lettera anonima? Se fosse stata scritta da qualche nemica della principessa? Da qualche donna astiosa, invidiosa, e che ella avesse irritato?
Strappò la lettera: ma una grande inquietudine, maggiore di quelle da lui provate sin allora, gli era entrata nel cuore.
La mattina uscì per tempo: sperava la serenità del cielo, il moto gli avrebbero restituita la calma.
Per tre giorni fu cupo, pensieroso.
Passava molte ore nella biblioteca del Circolo, e, appena entrato, socchiudeva tutte le finestre per rimanere, più che gli fosse concesso, all'oscuro, affinchè altri non venisse a disturbarlo e non lo vedesse.
Il terzo giorno, circa il tocco, sentì entrar nella sala di lettura, accanto alla biblioteca, il principe Latania e un altro signore. Erano soli: il principe parlava a voce piuttosto alta.
—Non avete riconosciuto,—diceva il prìncipe,—quella dama velata, che camminava sì ratta a fianco del palazzo reale?
—Sì…. sì…. era la principessa di Gorreso: e perchè cotesto piglio d'ironia?
—Siete un briccone: ne sapete più di me…. e vorreste ch'io sciogliessi lo scilinguagnolo!
—Dite, dite quel che sapete: mi piacciono gli scandali aristocratici…. e qui ce ne dev'essere uno: lo capisco dalla vostra aria maligna….
—Non sapete che la principessa è l'amante del Re?
—Bella notizia…. benchè tornato da poco, l'ho subito ricevuta…. E non c'è altro?
—C'è che essa cerca ora di compromettere il Sovrano con la condotta più imprudente…. Si crederebbe che abbia smarrito la ragione…. Sapete che faceva così a piedi?…. Spiava se il re usciva: o se entrava nel palazzo qualcuna delle dame, che teme possano disputarle la sua influenza.
—Ma il Gorreso non è tornato?…
Il principe, seduto nella biblioteca, e che tutto appoggiato su uno de' bracciuoli della poltrona ascoltava con molta ansietà, riconobbe la voce del marchese d'Antella: uno de' suoi amici migliori, che non avea riveduto da qualche tempo.
—Oh, il Gorreso è tornato, ma non ha occhi per vedere…, nè orecchi per udire!… Se non è un marito…. immune da certe peripezie, è un ambizioso soddisfatto…. e l'ambizione è in lui più potente che l'affetto per la moglie…. Egli sposò la principessa…. per interesse. Sapete che il duca di Mondrone gli lasciò buona parte del suo patrimonio…. Dovea aver egli posto tal condizione…. Vendè allora il suo nome: oggi vende il suo onore….
—Ma che dite?—domandò don Silvio Antella.
Il principe, nella biblioteca, avea bisogno di tutte le sue forze per dominarsi; ma volea sostenere quello strazio, che lo ambasciava, sino all'estremo: non c'era per lui altro mezzo di saper intera la verità, di appurare schiettamente, compiutamente ciò che si dicea su di lui. Niuno di que' codardi avrebbe osato palesare al suo cospetto ciò che si ripeteano, a ogni istante, fra loro. Con lui tutti pigliavano il sembiante più dolce, magari più amichevole.
—Che dico?—riprese il Latania.—Parlate con tutti i nostri amici, vi diranno lo stesso…. il principe è designato fra noi, nella nostra società, col titolo di "marito infame"…. Per ora niuno osa affrontare apertamente la sua collera con un grave insulto…. Ma, dacchè è tornato, non ha trovato qui nel Circolo chi volesse giuocare una partita con lui….
—A questo punto è già reietto?
—Egli non se ne accorge….
"Marito infame!" si ripetea il principe: erano le stesse parole ch'avea trovato nella lettera.
Si ricordava poi esser vero ch'avea qualche volta richiesto i suoi amici di giuocare con lui, ed essi, con ben addotti pretesti, se n'erano schivati.
—Sicchè, l'ambasciata?…—disse il d'Antella.
—Un pretesto per tenerlo lontano dalla moglie…. Ora che il Re ne ha abbastanza, egli è tornato…. forse per riconciliarli…. forse per impetrar non gli sia tolto, anzi aumentato il favore di cui ha goduto sin ad oggi…. offrirà magari di portar via con sè la moglie…. affinchè non ecciti imbarazzi, scandali…. Chi sa…. il Re non l'abbia richiamato a tale scopo!
—Povero Gorreso…. non è mai stato uno stinco di santo, ma non mi pareva dovesse diventare uno scellerato…. Lo deve aver condotto a questo punto la soverchia ambizione….
—È proprio un uomo infamato!—continuava con la sua più ostentata prosopopea il Latania; egli, che non avrebbe davvero avuto alcun diritto di censurare.
Sopravvenne un nuovo personaggio: il conte di Primolo.
—Avete un gran colloquio?—disse a' due suoi amici,—già ov'è Latania è facile indovinare l'argomento della conversazione: sempre a carico di qualcuno.
Il conte, uomo savio, attempato, di reputazione illibata, godeva molte simpatie.
—Si discorreva,—rispose il Latania,—del Gorreso….
—Un vero sciagurato,—interruppe il conte….—Gorreso, mio amico, quasi mio fratello, chi avrebbe detto, anni or sono, potesse scender sì basso…. Mi rammento che si mormorava di lui fin da quando contrasse il matrimonio…. Quella ragazza, già da allora, dopo l'assassimo del conte di Squirace, dopo le sue ardite deposizioni, sembrava a molti una assai strana creatura….
—Ma è il Gorreso che l'ha rovinata, che l'ha peggiorata: è lui che se n'è servito come uno strumento per favorire la sua ambizione,—replicò il Latania.
—E anch'io comincio a esserne persuaso,—instava il duca della
Pandura.
Il principe Gorreso avea ormai udito abbastanza.
Nacque nella sua testa una vera confusione; a poco a poco, tanta era la commozione da lui provata, rimase privo de' sensi.
Gli ci volle molto tempo a riaversi: non chiamò nessuno a soccorrerlo: non potè quindi prender nulla che lo ristorasse: e non si alzò dalla poltrona fin verso sera.
Si sentiva febbricitante; scese le scale vacillando: salì in una carrozzella e si fece condurre fino a casa.
Per le scale incontrò la principessa, di cui aveva veduto dinanzi alla porta il coupé.
La principessa scendeva in fretta, ed era tutta sorridente.
—Vado a pranzo—gli disse—dalla duchessa della Pandura.
Costei era la cognata del duca, che avea confabulato, poche ore innanzi, nella sala del Circolo, col Latania.
La duchessa era una donna gaia, spensierata, elegantissima, ma di quelle donne che ricorrevano spesso al gioielliere De Carlo.
Nella sua casa si avviluppavano molti intrighi.
Il principe non disse verbo ad Enrica, poichè il suo male lo accasciava: solo rispose al suo saluto con un amaro sorriso.
Ma Enrica era stordita: sapea i piaceri che l'attendevano: era sicura di parecchie ore di svago, di eccitazione, di trionfo in mezzo a facili e simpatici cortigiani: non gli badò.
In casa della duchessa, Enrica incontrò quella sera anche il
Weill-Myot.
Il banchiere americano, da qualche tempo, la guardava con aria di compassione. Ella ne soffriva, un tale sprezzo la umiliava.
Era il solo uomo che si sottraesse al dominio di lei, che le si mostrasse sì freddo, sì altero, dopo averla desiderata.
La provocava in ogni modo, voleva ridurla a un atto disperato: voleva gioire della sua spietata, atroce vendetta.
Giorni innanzi, egli avea recato un altro colpo tremendo alle condizioni finanziarie della principessa.
Le speculazioni in cui l'aveva allettata per mezzo del suo giovane commesso, andate a male, essa dovea pagare di nuovo grosse somme e vi s'era regolarmente obbligata. Tutta la tenuta di Mondrone ormai non le apparteneva più.
Il principe trovò sul tavolino della sua camera varie lettere.
Una era scritta con lo stesso carattere della lettera anonima, in cui gli erano state palesate tante crude verità.
Ormai egli sapeva che la persona la quale gli scrivea tali lettere potea peccare di crudeltà, ma era sincera e bene informata.
Aprì la busta ansioso; e mentre il sudor freddo rendea madide le sue tempie.
Che gli diceva tal lettera?
Gli diceva che sua moglie era arrivata all'estremo della dissipazione: avea rovinato il suo patrimonio: e ridurrebbe ora lui alla miseria…. E da molti si credeva che egli divorasse il patrimonio di lei….
—Mi mancava anche questa,—pensò il principe.—Che ella si sia ridotta alla miseria? Ma come?… Non sarà….
Volle andare innanzi, sebbene quella lettera gli sembrasse oramai scritta in caratteri di fuoco e quasi gli bruciasse gli occhi. E lesse, tornò a leggere, poichè non gli parea vero, tali parole:
"Vostra moglie non ha neppure più gioielli…. Ha barattato i suoi veri brillanti con brillanti falsi: ha perfino venduto i brillanti antichi, già appartenenti a vostra madre!"
—Miserabile! ma sarà egli vero?—riprese il principe.
E corse alla camera di Enrica.
Rovistò fra i suoi gioielli…. Gli parve vi fossero tutti. Erano falsi? Questo egli non sapeva, nè potea giudicare.
Prese i due gioielli, tra gli antichi, ch'aveano appartenuto a sua madre, e li portò nella sua camera.
Il principe ebbe un'idea.
La mattina si era incontrato nel celebre israelita russo, Samuele Goldschmidt, negoziante di brillanti, e ch'egli avea conosciuto a Pietroburgo. Il Goldschmidt apparteneva a una di quelle antiche famiglie israelite tedesche, dimoranti in Russia da secoli: e che serbano forse più intatte le grandi tradizioni de' loro padri.
Samuele viveva come un principe: avea un palazzo a Vienna, uno a Pietroburgo: avea comprato a Posilipo una graziosissima villa. Aveva una bella moglie, due figliuole bellissime. E toccava appena i quarantacinque anni.
Il principe gli avea reso a Pietroburgo un segnalato servizio: e
Samuele gli era molto devoto.
Pensò di scrivergli subito: la principessa non sarebbe tornata se non molto innanzi nella notte: egli, in quello stato, non potea muoversi: Samuele sarebbe certo venuto da lui.
Dopo due ore, in fatti, Samuele arrivava dinanzi alla porta del palazzo: scendeva dal suo coupé e domandava del principe.
—Desidero da voi un piccolo favore,—gli disse subito il principe, scambiati con lui i primi convenevoli.—Si tratta di un affare un po' delicato…. Voglio mostrarvi alcuni miei gioielli, e voi mi direte…. schiettamente….—il principe proferì con peculiare accento questa parola,—ciò che ne pensate….
—A' vostri ordini,—riprese Samuele,—sono felice di poter far cosa grata a V. E.?
—Ecco i gioielli….
E il principe tolse da un cassetto, ove li avea riposti, varii astucci.
Il negoziante russo guardò i diamanti e impallidì…. Prese una lente, che portava sempre con sè, raccostò all'occhio destro, e guardò di nuovo. Poi riposò sul tavolino i gioielli e la lente. Ma non parlava.
—E dunque?—chiese il principe.
—V. E. tien molto a questi gioielli?—domandò Samuele.
—Moltissimo…. alcuni di questi diamanti sono antichi e appartennero a mia madre….
L'altro ammutolì di nuovo.
—Parlate…. parlate…. Samuele!…—incalzava il principe.
—Debbo dir cosa molto spiacevole.
—Non importa!…
—V. E. ha un ladro fra le sue pareti domestiche….
—Perchè?
—Questi gioielli non sono antichi, sono modernissimi…. e sono stati legati di recente…. Inoltre…. sono falsi….
—Tutti?—domandò il principe.
—Tutti.
—Ah!…—esclamò il principe, e con mano tremante raccolse tutti que' gioielli.
—Sapete che cosa è accaduto?… Qualcuno…. un frodatore di certo…. ha fatto togliere i veri diamanti e vi ha fatto porre i falsi…. Denunziate questo furto alla giustizia….
—Non posso….
—Facilmente si potrebbero trovare i diamanti tolti da certi gioielli: abbiamo già la loro misura….
—Oh, non voglio scandali…. Tanto peggio per me… dovevo essere più vigilante!—continuò il principe.—Mia moglie mette di rado questi gioielli…. e io non le dirò nulla….
—Oh, nè essa potrà accorgersene…. Questi diamanti falsi sono de' più belli: non li può conoscere se non uno intendentissimo.
Il principe, non volendo licenziare subito Samuele, lo intrattenne sul suo commercio, che in quegli anni avea avuto singolar prosperità.
—Da molto tempo,—diceva Samuele,—non si sono fatti affari come in questi anni…. Tre matrimoni di principi: e in tutti e tre i matrimoni la fidanzata ha ricevuto regali da ogni sovrano…. Ho venduto poi alla nostra Imperatrice una collana, composta di diamanti, cercati a uno a uno, in viaggi che hanno durato tre anni…. Credo non vi sia oggi più bel gioiello…. in Europa…. Da alcuni anni ho venduto milioni di diamanti a famiglie reali…. Oggi sono anch'io un po' milionario…. È una malattia non comune…. e a cui ci si abitua! Tra i pesi che bisogna subir nella vita, quello di qualche milione finisce per sembrare il più leggero…. Posso servire in altro V. E.?
E si accomiatò dal principe, dicendogli come s'accorgeva ch'egli era un po' sofferente, e non volea più a lungo tenerlo a disagio.
Il principe soffriva atrocemente: gli occorreva tutta la sua abitudine ad esser cortese, a dissimulare, per vincere lo sdegno, il disgusto, la commozione cui era in preda.
Riportò i gioielli nella camera della moglie: li rimise ove li aveva trovati.
—Sciagurata!—mormorava,—essa ha distrutto i più preziosi ricordi della mia famiglia: ha profanato i gioielli che aveano appartenuto alle mie ave, a mia madre; chi sa in quali mani sono caduti…. Forse i gioielli che mia madre avea al collo, agli orecchi, quando io la carezzava bambino, sono ora nelle mani di una cortigiana!
La principessa, in quel tempo, si svagava, si lasciava dir le più dolci parole in casa della duchessa della Pandura.
A un tratto una signora, arrivata da poco, mentre era incominciata una conversazione generale, interruppe tutti, dicendo a voce alta:
—Non sapete il caso successo oggi a Diana…. alla figliuola del marchese di Trapani?
A quel nome la principessa si fece accigliata.
—Che è stato? che è stato?—domandarono la duchessa e altre signore.
—Diana…. con la signora Teodora erano in carrozza oggi su la strada di Chiaia…. Faceano quella passeggiata da alcuni giorni…. Uno dei cavalli attaccati alla carrozza, ha preso la mano al cocchiere, ch'è stato gettato a terra…. e si è subito rialzato; benchè ferito correva a cercar di fermare i cavalli, ma questi si davano a fuga sempre più precipitosa…. Diana…. la signora Teodora, in ispecie, figuratevi…. gridavano come ossesse…. Non osavano buttarsi giù dalla carrozza in quella corsa vertiginosa…. Varii cittadini s'eran provati a fermar la carrozza, ma indarno. A un tratto non si sa di dove, esce fuori un uomo di alta statura, di forme erculee, di fisonomia molto severa: si pianta dinanzi a' cavalli: e, mentre tutti gli urlano:—Vi ucciderete!—li afferra per le due cavezze…. La gente, affollata qua e là, si aspettava una catastrofe, i cavalli si fermano…. L'uomo avea le mani insanguinate…. un filo di sangue gli traversava il volto…. Ma egli si slancia a aprir lo sportello della carrozza: prende in collo Diana, la mette in salvo, si china su di lei e le mormora queste parole: cara figliuola! Diana era come tramortita. A tali parole schiude gli occhi, muove le labbra? da cui esce questo fievole suono: Babbo!
Intanto, altri levavano di carrozza la signora Teodora, che sveniva nelle braccia di tre o quattro…. giovinotti. Tutti hanno applaudito il salvatore; egli avea compiuto un atto eroico; e si vede che l'avea compiuto per impulso d'un grandissimo affetto.
—E come si chiamava questo eroe?—domandò uno degli astanti.
—L'ingegnere Amoretti!—riprese la signora.—Un bellissimo uomo…. sebbene si veda sul suo volto che deve aver molto sofferto…. Io sono arrivata in quel momento nella mia carrozza…. Tornavo dalla mia villa….
Enrica non prese parte alla conversazione: non ebbe neppure il desiderio di domandar notizie di Diana.
Questa era stata accompagnata sino al palazzo del marchese dall'ingegnere Amoretti, che non era altri se non Roberto Jannacone, da tutti creduto morto, come sa il lettore.
L'ingegnere era salito poi sino al primo piano, sostenendo Diana nelle sue braccia. La ragazza dava appena segno di vita: essa era caduta in un abbattimento profondo, cagionatole dallo spavento.
La signora Teodora si era presto riavuta. Volgendosi all'Amoretti, gli disse:
—Ma, signore, voi siete sempre tutto insanguinato!
Egli non rispose: volle adagiar Diana sul letto. Il cuore gli batteva a guardar la camera di lei, a osservare dove ella vivea e tanti oggetti che gli rivelavano molti particolari della esistenza d'un essere a lui sì caro.
Il marchese era fuori di casa.
L'Amoretti si trattenne, pregato anche dalla signora Teodora.
Parlò molto con lei: le facea di continuo domande relative a Diana, con molta circospezione, per non scuoprirsi.
Alla fine salì Marco Alboni.
Subito l'Amoretti lo riconobbe alla voce: egli era Jacopo Scovazzo: l'uomo che avea udito confabulare, tra le rovine, la sera in cui Diana era stata rapita.
—Mi trovo proprio tra i miei amici,—pensava il finto Amoretti—tra coloro che mi hanno rubata la mia figliuola….
E tutto gli consigliava a tacere; dovea padroneggiarsi, aspettar momenti più opportuni. Riconosciuto, tradito, non sarebbe stato chiuso di nuovo nel carcere?
Si alzò per partire, sebbene lì lasciasse il suo cuore.
Diana in quel punto si mosse: stese una mano come se cercasse qualche cosa: poi sollevò adagio adagio il capo. Guardò intorno a sè e vide subito l'Amoretti.
—Ve ne andate, signore?—mormorò.—Mi fa tanto bene il vedervi….
Non potete restare?
—Tu vedi, Diana…. il signore è sempre tutto insanguinato e ha bisogno….
L'Amoretti fece segno alla signora Teodora che tacesse.
—Debbo, signorina, recarmi a casa mia….
—Ma…. promettetemi di ritornare….
—Ve lo prometto, signorina…. se il marchese vorrà concedere….
—Concederà, concederà;—ella rispose in fretta con voce languida, e facendo uno sforzo sopra di sè.—Mi promettete di tornare stasera?…
—Promettete…. promettete….—gli bisbigliò la signora Teodora.
Roberto non avrebbe mai voluto staccarsi da quel letto: ma temeva di darsi a conoscere: l'idea che sua figlia lo desiderava, che, fra due o tre ore, avrebbe avuto un pretesto per rivederla, esaltava il suo animo, ricompensava i suoi lunghi martirii.
Da che era uscito di prigione, avea sempre cercato un modo di avvicinarsele: l'avea sempre seguita per tutto, in lontananza.
Non voleva sorprenderla, spaventarla; temeva, sopra tutto, che il primo incontro con esso le riuscisse sgradito.
Il loro incontro, invece, benchè avvenuto in triste congiuntura, era stato tutto soavità. Sembrava fosse stato preparato dalla provvidenza, poichè qual braccio meglio di quello d'un padre avrebbe potuto sostenere una figlia in pericolo?
Roberto avea pur sempre seguitato e vigilato la principessa; ma non avea ardito avvicinarsele, temendo non poter vincere la sua collera.
Volea cominciare da Diana: essa gli avrebbe dato la forza, il coraggio per nuove sofferenze: gli avrebbe trasfuso buone ispirazioni.
Diana si era riconciliata col Venosa, ma, dopo pochi giorni, il loro accordo era di nuovo cessato.
Una mattina Diana, passando per via Toledo, avea veduto ferma la carrozza della principessa, e il Venosa che parlava, sorridente, con lei, appoggiato a una delle portiere.
Egli avea promesso a Diana di sfuggire Enrica; essa lo coglieva in fallo, in brevissimo tempo. La giovinetta fu accorata, tanto più che la principessa, da un pezzo, fingeva non vederla: e incontratasi con lei in varie case, l'avea trattata con palese dispregio, quasi non l'avesse mai conosciuta.
Come poteva il Venosa scherzar in tal modo con una donna che sapeva nemica di lei? E dopo le sue promesse?
Ma Enrica, mutabile, perversa, sapeva che, continuando a tener separati i due giovani, avrebbe cagionato la loro irreparabile infelicità: creatura malefica, sentiva il solito piacere nel distruggere, nel gettar lo sgomento, nel far soffrire intorno a sè.
Il principe, dopo la partenza di Samuele, s'era dato più volte nella camera della principessa.
Avea frugato ne' cassetti de' varii mobili: avea trovato le prove della rovina in cui era il già vistoso patrimonio della moglie: le prove delle sue sciagurate speculazioni, delle enormi sue spese. Da certi contratti, da certe ricevute, da certe lettere, si capiva che ella non possedeva più nulla.
Trovò alcuni biglietti scritti su carta molto greve, con gli orli dorati: contenevano ognuno poche parole sibilline: un linguaggio di convenzione; intelligibile soltanto a chi li scriveva e a chi doveva leggerli. Riconobbe il carattere del Re. Così avea le prove della povertà della principessa e del suo disonore; nè bastava: le sue atroci torture non erano ancora al loro fine.
Gli venne in mano una lettera, scritta grossolanamente, sperduta fra tante carte. Era una lettera di Cristina. Eranvi allusioni, un po' velate, ma facili a intendersi, alla maternità di Enrica: a un uomo, che avea su lei diritti….
Il principe, che avea trovato a caso una chiave, lasciata da Enrica, nella fretta, entro il cassettino di uno stipo, si doleva ora d'avere spinto sì oltre le sue ricerche.
—Come—pensava—questa donna ha potuto accumular tante infamie?… Ero ben più felice quando io ignorava tutto…. Non avrei creduto ciò mai possibile….
La lettera di Cristina non era firmata. A chi ricorrere per aver la spiegazione di un mistero, che già tanto l'affannava?
Ebbe orrore di cercar più oltre.
Forse ciò che gli rimaneva a sapere era ancora più terribile.
La sua testa non vi reggeva più. Chiuse in furia i cassetti e tornò nella sua camera.
A ora inoltrata nella notte, il principe sentì che sua moglie tornava a casa.
Udì il rumore della carrozza, le porte sbattute, gli ordini ch'ella impartiva ai servi ad alta voce.
Egli ascoltò un poco: poi rimase di nuovo assorto ne' suoi pensieri, tristissimi, tormentosi pensieri.
Qual sarebbe stata la sua condotta per l'avvenire? Com'egli avrebbe trattato la moglie? In che modo l'avrebbe castigata? Quando lo avrebbe parlato di ciò ch'era riuscito a scuoprire?
Il principe sì leggero, sì lieto per natura, di umore sì vivace, rifletteva alla parte di giudice che gli spettava, con una calma, una serietà, una pacatezza, una misura indescrivibili.
Le sue risoluzioni erano spaventose.
Enrica si facea servire da cena: mangiava con l'appetito robusto, che è noto al lettore, e che forse egli le invidia; si lasciava versare spesso un vecchio Allmanshauser e un altro vino: essa era grave, come sempre, quando sedeva alla sua tavola.
Mangiava sola, di frequente; cioè non era mai sola, il suo appetito le teneva buona compagnia. Domandò del principe; seppe che era nelle sue stanze; non ebbe alcun desiderio di farlo chiamare.
—Il principe non è uscito stasera,—le disse uno de' servitori, che vegliavano su la sua cena,—non ha pranzato, benchè sia tornato di buon'ora….
Ciò indicava che il marito di lei si dovea sentire assai male, aver qualche disturbo; ma Enrica non avea prestato molta attenzione a quelle parole, si era distratta in altri pensieri.
La mattina dopo, essa ricevette Cristina.
Cristina venne a ripeterle il caso occorso a Diana: ciò che, insomma, avea già saputo in casa della duchessa; vi aggiungeva, vero o no, un particolare che per Enrica avea il massimo peso: le raccontava che erano state vedute dinanzi alla porta del palazzo del marchese le livree di Corte.
Il Re avea, dunque, mandato a sentir le notizie della ragazza; e con molta pompa. Potea ella patire uno sfregio maggiore?
Cristina non sapea quel che faceva: ma attizzava Enrica all'odio contro Diana.
Essa, come il Weill-Myot, era il cattivo genio di quella donna voluttuosa, collerica, in tutto eccessiva; e si appagava di consigliarla sempre al peggio; come il Weill-Myot anch'essa aspettava di assistere ormai fra poco ad una catastrofe.
La principessa arse di sdegno alle parole di Cristina.
—Bisogna—ella disse—trovar modo di perdere quella ragazza… un tranello….
I suoi occhi schizzavano fuoco, le labbra le schiumavano, era livida, come Cristina l'avea già veduta, quando preparava le insidie che dovean condur Roberto alla rovina.
—Trattatela come trattaste Roberto, per esempio!—continuava l'antica serva di Enrica, insinuando il suo veleno viperino.—Voi siete abituata a distruggere chi v'è d'ostacolo….
—Oh, se l'avessi qui…—mormorò Enrica, e digrignava i denti.
—E che le fareste?
—Vorrei soffocarla con le mie mani!… E dire che io l'ho curata in queste stanze, che essa un giorno vi fu presa da un male passeggero, dire che cotesta ragazza fingea di adorarmi…. Perversa… scellerata… corrottissima creatura! E dire che io pure le ho voluto bene: ma ora… ti assicuro… tutto è finito… non più… non più… essa, non ha nemica peggiore di me….
—Anche a Roberto gli avevate voluto molto bene…—aggiunse la megera.
—Oh, sul conto suo, respiro…. Mi ha sbarazzato di sè… quel mostro. Pensava di certo a vendicarsi: avea tentato fuggire dalla prigione… fu ucciso dallo sentinelle… lo sai.
—Mi ha rammentato la sua storia,—riprese Cristina sul cui volto avresti letto l'espressione sinistra d'un maligno, infernale trionfo,—un prigioniero che è stato suo compagno, o che mi ha fatto diverse visite… l'ingegnere Amoretti….
La principessa rabbrividì.
—Come hai detto?…
—Ingegnere Amoretti….
—Ho udito pronunziar questo nome…. Ah, è l'uomo che ha salvato ieri
Diana a Chiaia…. Tu lo conosci?
—Sì, ed egli desidera di parlarvi… È stato molti anni vicino alla cella di Roberto… È un artista; fu condannato come sospetto in una congiura….
—Vuol parlarmi?…
Cristina era presso a una delle finestre del salotto.
—Ecco, guardate che combinazione…. L'ingegnere passa ora di qui….
La principessa si avvicinò alla finestra. Scorse un uomo che guardava in alto.
—Lo vedo sempre costui,—disse tra sè,—si direbbe che voglia spiarmi!…
Intanto l'ingegnere Amoretti si allontanava.
—È un brav'uomo,—rispose Cristina, che ponderava ogni sua frase.—Ha un vivissimo desiderio di parlarvi…. Ma non ha mai osato presentarsi a voi…. Egli si trovava nella prigione la sera in cui… l'altro fu ucciso.
—Bisogna che gli parli!—disse Enrica.
Cristina, che voleva condurla proprio a tal punto, le suggeriva:
—Potreste incontrarlo in casa mia….
E così rimaser d'accordo.
L'ingegnere Amoretti era tornato la sera innanzi al letto di Diana: essa stava meglio, e mostrò molta contentezza nel rivederlo.
La signora Teodora li lasciò soli: riceveva in quella sera due signore sue amiche, della stessa sua età, che seguivano lo stesso tenore di vita. Venivano da lei in quella sera per una combinazione fortunata: almeno essa la credeva tale.
La signora Teodora fu lieta dell'arrivo dell'ingegnere Amoretti. Essa poteva dedicarsi tutta alle sue amiche.
—Vi lasciano sola?—domandò l'Amoretti a Diana, e i suoi sguardi di fuoco le ricercavano il profondo dell'animo.
—Mio padre è stato qui… pochi momenti… ha dovuto poi uscir subito…. Alcuni signori e signore, venuti qui per veder il nostro paese, e a cui egli fa da due giorni gli onori di Napoli, l'hanno oggi invitato a pranzo….
—Ma egli non può esser vostro padre,—affermò l'Amoretti con tuono di voce molto severo.
—Che dite?—esclamò Diana.
—Un padre sarebbe accanto alla figlia che soffre…. non potrebbe staccarsene, come faccio io…. Egli è stato qui soltanto pochi minuti….
—Mio padre avrebbe voluto vedervi per ringraziarvi….
—È una fortuna per lui e per me, che non ci siamo veduti… Cara,—e l'Amoretti baciava le mani di Diana, e la sua voce era divenuta la più soave e la più affettuosa,—già che Dio ha voluto che potessimo aver soli un colloquio non breve…. profittiamone…. Lascia ch'io ti parli con espansione: ti parli con la familiarità gentile, con cui s'indirizzano l'uno all'altro coloro che si amano, che sentono forti i vincoli del sangue, e hanno comune la tenerezza degli affetti…. Dimmi, ami tu davvero come un padre il marchese? S'egli ti pone la mano su la fronte, se ti carezza, se ti consiglia, se ti circonda di premure, senti tu quella consolazione ineffabile, quel conforto supremo, quella felicità, che i figli buoni provano sempre nell'affezione di coloro da cui ebber la vita?… Ti ha mai parlato il marchese di tua madre?…. Ti ha mai bagnato la fronte delle sue lacrime?
Due grosse lacrime rigavano le guancie dell'ingegnere Amoretti.
—Chi siete voi?—domandò Diana, che non potea torcere i suoi sguardi da quelli di Roberto.—Nessuno mi ha mai parlato in tal modo…. Non ho mai sentito dinanzi a mio padre ciò ch'io sento innanzi a voi…. La vostra voce mi scende al cuore; mi sembra ch'io abbia trovato quello che ho cercato, desiderato sempre indarno nella mia vita: un vero padre….
Roberto le stringeva una mano e l'accostava di tratto in tratto alla sua fronte.
—Ma ti ho detto che il marchese non è tuo padre….
Diana stette un poco pensosa: non sapea se dovea fidarsi in tutto dell'uomo a cui parlava per la prima volta. Egli le aveva, poco innanzi, salvata la vita: le parlava con tanta affezione: la sua fisonomia esprimeva tanta sincerità, tanta bontà, vi si leggeva la traccia di sì grandi sofferenze!
Poi si sentiva attirata da una forza misteriosa verso di lui: le sembrava che fra le loro anime fosse stata un'antica rispondenza, rivelatasi a un tratto.
—Vi dirò….—essa rispose, piangente,—io stessa ho più volte pensato ch'egli non fosse mio padre. O egli non è mai riuscito a ispirarmi, o io non sono mai riuscita a provar per lui alcuna tenerezza…. Mi rimproveravo, ne' primi anni, d'essere una figlia ingrata, sleale: mi tormentava un vivo rimorso….
—Era la voce della natura, che non parlava nel tuo cuore, fanciulla…. L'amore di un padre soltanto ti avrebbe potuto svegliare certi sentimenti…. Tu, da piccina, appena venuta al mondo, fosti rubata….
—Che dite?
—La verità; e spero mostrartene i documenti….
—Dunque, io sono senza padre?… Mio padre mi ha abbandonata?
—No; tuo padre è stato chiuso per anni in una prigione.
—Colpevole?
—Ah…. Innocente!…
—Che mai mi raccontate?
—Non credi tu che un uomo buono, amante possa esser sopraffatto da una calunnia? Non sai tu, nella tua inesperienza, che vi sono circostanze nelle quali un uomo può sacrificare anche il suo onore alla sua delicatezza?… Tuo padre ha passato metà della sua vita in prigione, calunniato da una donna…. In prigione egli ha appreso che tu eri nata e caduta nelle mani di esseri perversi…. Ma puoi tu immaginare le lunghe, crudeli torture ch'egli ha sofferto?… Puoi tu pensare che quest'uomo, entrato nella prigione giovane, nel fiore degli anni, n'è uscito con tutti i segni di una grande vecchiezza…. Oh, vi sono patimenti, che logorano le fibre più robuste….
—E la donna che aveva accusato mio padre, è viva?
—Vive, ed egli vuol vendicarsene: solo per amor tuo ha differita la vendetta.
—Ma chi siete voi, che conoscete sì bene mio padre, e ne sapete i più segreti intendimenti?
Grosse e calde lacrime cadevano dagli occhi di Roberto su la mano della figliuola, ch'egli continuava a stringere febbrilmente.
—Hai tu,—egli riprese più pacato,—udito mai raccontare che un uomo, senza colpa, possa essere ingiustamente condannato; anche da giudici in buona fede, e possa soffrire, senza riparo, per anni ed anni, sino a che vive?
—Sì… sì… anzi vi dirò che ho udito parlare d'uno… un giovane… il quale molti credevano innocente e pel quale io stessa m'ero tanto appassionata che avevo promesso di far di tutto affine di scoprire la sua innocenza…. Ma egli è morto… è stato ucciso, mentre tentava fuggire dalla sua prigione.
—E ti rammenti il suo nome?…
—Oh, l'ho tante volte pronunziato…. Roberto….
L'uomo che le stava dinanzi mandò fuori un singhiozzo….
—Jannacone!—essa continuava.—Sventurato! ma qual delitto ha commesso la società, s'egli era davvero innocente?… Parlatemi però di mio padre….—ordinò la fanciulla con tuono imperioso….—Lo rivedrò io? quando? In questa casa, vedete, tutto mi fa paura…. è tanto che desidero uscirne…. Credevo acquistare la mia libertà, sposando un giovane che amavo…. Egli mi ha tradito: una donna perfida l'ha sviato da me….
—Questo giovane era il signor Adolfo Venosa, non è vero?
Roberto avea sempre vigilato da mesi su tutto ciò che Diana faceva: avea spiato chi essa riceveva: avea cercato su lei le più ragguagliate notizie.
—Chi siete voi? Il diavolo?—ripigliò Diana,—sapete tutto….
—No; vi voglio bene… perchè avea ricevuto da vostro padre l'incarico di amarvi, di vegliare su voi: di surrogarlo al vostro fianco… se mai ne aveste bisogno….
Le avea parlato in tuono più cerimonioso, e s'accorse che Diana era pronta a muovergli una domanda.
—Dimmi, prima di tutto,—egli aggiunse più affettuoso,—qual'è la donna tua rivale?
—La conoscerete di certo… e a voi lo confido… siete il primo a cui lo confido…. È la principessa Gorreso!
L'uomo si mise le mani ne' capelli: il suo volto contraffatto ebbe una tale espressione che Diana ne provò raccapriccio.
—M'incutete paura!—ella esclamò, e si volse da un'altra parte come se non potesse più a lungo comportare di guardarlo.
Ma subito Diana l'udì che piangeva a dirotto: e girò di nuovo gli occhi verso di lui.
Tutta la sua persona tremava: quell'uomo di struttura sì forte pareva più che mai ricurvato sopra di sè.
—Soffrite?
—Soffro che vi possa esser al mondo gente capace di far tanto male, pel loro piacere, per dissolutezza… Soffro nel veder com'una fanciulla inesperta può trovarsi circondata da' più grandi pericoli, dalle insidie più atroci. Ohimè, il mondo è ben tristo! Guai a' cuori, che si unirono di belle illusioni, che si aprono alla fiducia….
Vi fu una breve pausa.
—Non mi parlerete, dunque, di mio padre?—disse Diana, dopo essere stata immersa in meditazioni, appunto per aspettare che il suo salvatore si fosse un po' rimesso.
Roberto volle tentare un gran colpo.
Voleva mettere a prova l'amore della sua figliuola. L'esaltato affetto paterno lo rendeva spietato. Voleva innanzi di appalesare a sua figlia ch'egli era il prigioniero, per cui essa avea palpitato, innanzi di scuoprirle tutta l'ignominia, che avea dovuto subire, chiarirsi qual fosse l'animo di lei.
—È vivo mio padre?… ditemi il vero… saprò sopportarlo… qualunque esso sia….
—No,—rispose subito Roberto, che si sentiva l'animo dilaniato,—vostro padre non vive… egli era quell'infelice, morto nel fuggire dalla prigione….
—Ah, povero babbo!—disse Diana: e rimase seduta sul letto, gli occhi immoti, le labbra strette l'una all'altra, e stendendo le braccia innanzi a sè, come se cercasse indicar il cammino che avea dovuto seguire l'anima di suo padre,—sia benedetta la sua santa memoria… padre mio: ti avrei tanto amato!
Ed era sul punto di svenire.
Ma Roberto già le avea preso la bella testolina fra le braccia, già la inondava delle sue lacrime, e le ripeteva:
—Figlia mia, figlia mia! cara Diana…. Sono io tuo padre… sono io l'infelice Roberto Jannacone!
Stavano così abbracciati l'un l'altra e singhiozzavano insieme, allorchè a Roberto sembrò udir rumore dietro un paravento, e gli sembrò pure che il paravento si movesse. Subito gli venne l'idea di un'insidia, di un pericolo che minacciasse Diana. Vide muoversi il braccio d'un uomo, che cercava sostener il paravento.
Roberto corse là, atterrito, deliberato a sostenere una lotta.
Scostò il paravento e riconobbe Marco Alboni, che lì rannicchiato era stato a udire tutti i loro discorsi. Così credeva. Ma l'Alboni era arrivato in quel punto, entrando dall'abbigliatoio di Diana, per una porticina rispondente su un largo andito: porticina, a caso lasciata aperta.
—Oh, Jacopo Scovazzo!—disse Roberto che, per anni e anni, avea tenuto fitto in mente quel nome. E l'afferrò per il collo.
Marco Alboni smarrì subito tutta la sua baldanza, la sua intrepidezza.
Egli non si rammentava di aver mai veduto per l'innanzi la persona che gli parlava. Com'egli conosceva il suo passato?
Un uomo, amico di Diana, in casa del marchese, e in possesso del suo terribile segreto? Quanti guai da ciò gli potevano nascere! Andava a rischio di veder cadere tutto l'edificio da lui, nel corso di anni, architettato con tanta astuzia.
—Sarei venuto a cercarti!…—disse Roberto con aspra ironia.—Tu mi hai voluto risparmiare la fatica!… Ho bisogno di te!…
Intanto Roberto avea rialzato con una mano il paravento e l'avea drizzato tra essi e Diana.
—Io non ti farò alcuna violenza…. Spero,—soggiunse
Roberto,—ottener da te con le buone quel che desidero….
—Parlate….
—Tu—proseguì sommesso Roberto—hai una lettera del dottor Krag, una lettera che hai sempre serbata e che prova—qui Roberto alzò un po' la voce—che l'unica figliuola del marchese è morta, appena fu partorita, ed è morta insieme con sua madre…. Costui è l'uomo, Diana, che ti ha rubato piccina, mentre ti portavano a balia, mentre tuo padre era lontano e ignorava….
Fu preso da un nuovo sussulto di pianto.
—Oh, avevo ben ragione di guardarmi sempre attorno con paura, di sentirmi qui in un continuo spavento!…—disse Diana.
—Dammi quella lettera, Jacopo Scovazzo…. antico grassatore…. condannato a Ancona e che sfuggisti a una parte della tua pena….
—Tacete, tacete…. signor ingegnere!—implorava Marco Alboni, convinto di parlare con l'Amoretti; e timoroso di gravi danni.
Oramai ricco, poichè avea appropriato a sè da anni il meglio di ciò che avrebbe potuto spendere o risparmiare il marchese, stimato, egli vedea tutto a repentaglio, se l'Amoretti parlava.
—Tanto peggio per il marchese,—pensò in tali istanti Marco con quella prontezza ad abbandonare, per maggior utile proprio, il complice da cui fu più aiutato e beneficato, prontezza che arriva sempre a scompigliare le più inveterate e strette unioni tra furfanti.
—Non alzate la voce…. non fate alcun rumore…. vi darò la lettera….
—Ma ti accompagnerò io…. non voglio lasciarti solo….—disse
Roberto.
Andarono pel lungo corridoio, scesero le scale, entrarono in una stanza bassa: la camera di Marco.
Per tutto Roberto vide immagini di santi: libri di devozione: sui mobili, gettati qua e là, e bene in vista, alcuni inviti sacri.
Marco aprì uno scrigno di ferro che era nel muro e che Roberto vide nell'interno tutto luccicante di oro, poichè le grosse monete vi erano a mucchi: e da un segretissimo ripostiglio il briccone, che non poteva far altrimenti, cavò la lettera del dottor Krag.
Roberto lesse la lettera, che era scritta in un italiano assai goffo, ma molto intelligibile; apprese più di quel che voleva: e risalendo verso la camera di Diana lasciò libero Marco.
In un pianerottolo, a mezza scala, Roberto s'abbatteva nel marchese di Trapani. Era tornato a casa da pochi istanti, e usciva da una porta interna per recarsi a domandar notizie di Diana.
Il marchese si fermò a guardare lo sconosciuto.
—Io sono—disse Roberto con molto sangue freddo—l'ingegnere
Amoretti….
—Il salvatore di mia figlia….
—Di vostra figlia….—aggiunse il finto Amorelli con molta enfasi.
Al marchese facea già una certa impressione sgradevole veder quell'uomo andar sì liberamente per la sua casa.
—Ho lasciato ora la fanciulla,—seguitò a dir l'Amoretti.
—Ma spero che la signora Teodora sarà in sua compagnia….
Intanto il marchese spinse una porta per entrare negli appartamenti riservati a Diana o alla signora Teodora….
Udì un grande scroscio di risa. Era la signora Teodora che si divertiva con lo sue amiche.
L'ingegnere Amoretti indicò cortesemente al marchese la direzione della camera di Diana: e volle ad ogni costo ch'egli passasse il primo.
Poi richiuse subito la porta principale e andò a richiudere la porticina dietro al paravento, con non leggera sorpresa del marchese.
Che cosa si dicessero tra loro il marchese e Roberto non sappiamo.
Rimasero sino al mattino a vegliar Diana, che ogni tanto rivolgeva, or all'uno or all'altro, una parola, ma le cui tenerezze eran tutte per Roberto. Il marchese non si divertì molto, di sicuro, in quella notte.
La mattina Diana, perfettamente ristabilita, se ne tornava accompagnata da Roberto e dal marchese nel convento ov'era stata educata.
Roberto raccomandò caldamente a Diana che lo facesse avvisato d'ogni pericolo, e stesse sempre in su le intese: badasse fino alle compagne con cui parlava. Egli, poi, sarebbe venuto a visitarla ogni giorno.
Quella mattina stessa partivano da Napoli il marchese, la signora Teodora, Marco Alboni, e se ne andavano nella villa ove Marco, tanti anni prima, avea portato Diana, nata da pochi giorni.
Enrica non vedeva più il principe da circa una settimana.
Suo marito la schivava, poichè non avea ancora potuto risolvere qual contegno doveva seguire verso di essa.
Era pur martoriato da un'altra idea: far cessare le calunnie, tanto divulgate, sopra di lui. Chiese subito le sue dimissioni da ambasciatore: e cercò che un tal atto fosse propalato.
La pubblica voce ne portò notizia alla principessa, che fu colpita di questa subita determinazione, e, più, ch'egli l'avesse presa senza fargliene motto.
Ma un'altra cosa gli stava sul cuore: punire l'insolenza di alcuni fra i suoi amici: metter termine alle mormorazioni degli oziosi: uscire da quel riserbo, che vedea nuocere alla sua dignità di gentiluomo.
La principessa continuava a far impazzire il Venosa. Egli era stato veduto una mattina passeggiare a piedi con lei le strade più frequentate di Napoli, accompagnarla ne' magazzini: gli era stato visto all'occhiello uno de' fiori ch'essa portava in petto.
Due giorni dopo, in una sala del Circolo più aristocratico di Napoli, ove abbiam già condotto il lettore, scherzavano su queste frivolezze il d'Antella, il duca della Pandura, il Latania ed altri. In mezzo ad essi era Adolfo Venosa, bersaglio ai loro motteggi.
—Puoi pigliar un numero,—diceva il Latania,—chiamarti Adolfo decimo…. almeno, poichè succedi ad un re.
—Anche duodecimo…. forse!—borbottò, battendo gli occhi maliziosamente, il vecchio duca della Pandura.
—Il principe Gorreso ha servito il suo paese, e la moglie più di lui!—replicò un giovane signore, notissimo maligno.—Certo il principe è arrivato a un posto cui non si arriva agevolmente, ma la moglie gli ha risparmiato molta fatica, ha fatto lei metà del lavoro….
—Sebbene non le sien mancati i collaboratori!—aggiunse un altro.
—Si è data a tempo un gran movimento!
—Circe cambiava gli uomini in bestie…. essa li converte in ambasciatori.
—Qualche volta è la medesima cosa…..
—Si è data a molti?
—No, si è lasciata prendere….
—Ma il nostro Venosa vuol anch'egli destinarsi alla carriera diplomatica?
—Intanto, entra supplente…. il titolare c'è!
—Povero Gorreso!—esclamò il D'Antella.
Il principe in quell'istante arrivava nel corridoio e udì pronunziare fra le risa il suo nome.
—Fortunato, Venosa: egli è ora l'amante felice della principessa Enrica: una bella donna, Venosa, puoi vantartene…. e il marito partirà presto, lasciando la sede vacante….
—Credo che Gorreso sia stato, anche senza imporgli l'obbligo di partire, un marito sempre troppo buono….
Nessuno sapeva della vita intima fra il principe e la moglie; nessuno immaginava quanto egli fosse stato severo, spietato anzi, specialmente un tempo, verso di lei. Ma poteva egli prevedere, o immaginare certe infamie, di cui nessuno lo voleva avvertire? I suoi amici stessi non gli celavano a tutto potere ciò di cui lo proverbiavano amaramente, crudelmente quando si trovavano insieme, lontani da lui?
Il Venosa aveva detto le sue parole, senz'alcun intendimento ingiurioso, anzi volendo scusare il principe, senza troppo appassionarsi, ma tutti ridevano: e anch'egli fece coro.
Il principe avea udito benissimo e avea notato la voce del Venosa.
Entrò, mentre sghignazzavano: erano almeno una quindicina.
Andò diritto verso il Venosa, che guardava, insieme con gli altri, la tetra fisonomia del principe ed era rimasto un po' scosso dal suo improvviso arrivo.
—Voi siete un vile, signore!—disse il principe al Venosa con molta calma.—E vili tutti coloro…. e fra essi alcuni, che si mostrarono sin ad oggi tra i miei amici migliori….—posava gli occhi sul D'Antella, sul duca della Pandura, su altri,—i quali mi calunniano, mi colpiscono, nell'oscurità, alle spalle, mi fanno una reputazione d'infamia…. E non c'è uno tra voi,—continuò il principe con molta veemenza,—che m'abbia mai difeso! Vili, vili, vili!… Vilissimi anzi!… E siete voi la buona società, come vi chiamate: e avete scrupolo di ammettere in queste sale un onesto negoziante, un uomo glorioso per gli studi, o per l'ingegno, perchè avete paura di derogare, di venir meno a voi stessi, ricevendo nella vostra compagnia un semplice galantuomo. Ridicoli, grotteschi, che non comprendete come sia vicino un tempo in cui saranno calpestati, annientati tutti i vostri pregiudizi…. Qui, dove si riunisce la buona società,—sottolineava con sdegno le sue parole,—si condanna un uomo, o, meglio, si assassina, senza concedergli il diritto della più piccola difesa…. Che ragioni v'ho io dato per sospettare di me?… Tu, Latania,—il piccolo principe divenne pallidissimo,—uomo dissoluto, disonorato, senza dignità, parassita infetto, che vivi alle spese de' tuoi amici, fosti sempre de' più accaniti, lo so, nel vituperarmi…. Non ti posso chieder ragione: ti farei troppo onore inalzando un aristocratico mariuolo, par tuo, sino a me…. Il nome di principe ti starebbe meglio, con qualche giunta; se ti si chiamasse principe dei bari e degli sfrontati…. Tutti questi signori sanno chi tu sei e te lo dissimulano: ti tollerano…. non sanno il perchè…. per un'antica abitudine; un giorno ti allontaneranno da sè col piede, come si fa quando si incontra una cosa immonda…. Non impallidire di più: non hai nulla a temere da me.
E, voltosi al duca della Pandura, senza acquietarsi un istante:
—Voi,—-gli disse,—presidente del Circolo, non avete il dovere di tutelar l'onore de' soci? Che avete fatto per me? non avete prestato un orecchio compiacente alle più nefande calunnie? E che dovranno far gli uomini…. che voi dite grossolani… se i gentiluomini, di cui avete fatto sì meritamente una categoria a parte dal resto del genere umano…. si comportano così? Di dov'è nato quest'odio contro di me?
Alto della persona, tanto che soprastava a tutti con la testa, bello, di modi graziosi e veramente signorili, di una voce tonante, quando scoteva la sua languidezza, egli produceva in quanti gli stavano attorno il massimo effetto.
Già avea riacquistato tutte le simpatie.
Dopo l'atroce insulto che avea indirizzato, il Venosa lo guardava impavido, sereno.
—Voi siete giovane,—gli disse il principe con calma terribile,—siete valoroso; mi insultavate nel punto in cui sono entrato; mi renderete subito ragione….
—Due amici….—interruppe il duca.
—Ed egli è anche amico di mia moglie!—ribattè il principe con fiera ironia.
—Signore,—rispose con voce ferma, e mentre il suo cuore non dava neppur un palpito, il Venosa,—io sono agli ordini vostri!
Il principe tornò a casa e trovò un biglietto di visita su cui era scritto: Ingegnere Amoretti.
Egli ne aveva udito parlare come del salvatore di Diana. Quest'uomo coraggioso, pensò, vorrà essere mio padrino! Ma a che dovea egli attribuir l'onore d'una sua visita?
Non appena il principe Gorreso, tornato nel suo palazzo, ebbe ricevuto il biglietto da visita dell'Amoretti, un servitore venne ad annunziargli che una donna, la quale soleva essere spesso ricevuta dalla principessa, domandava di parlargli.
—Chi è questa donna?—domandò il principe distratto.
—È una antica serva della principessa: Cristina Braco.
Il principe impallidì. Si rammentava della lettera, che aveva letto la sera in cui era andato a frugare tra i gioielli di sua moglie. Quella donna gli avrebbe potuto dar molti schiarimenti. Fece un gesto d'impazienza, come se il ricever Cristina l'annoiasse, mentre egli ardeva di parlarle.
A tali espedienti si vedea giunto per cercar di salvare il suo onore; per aver tutte le prove di cui, nella integra sua coscienza, sentiva il bisogno, prima d'infliggere alla moglie il castigo, ch'essa avea meritato.
Cristina entrò tutta umile, strisciante, rasentando le mura, quasi avesse onta di avvicinarsi a un sì gran personaggio.
Il principe in piedi, e senza dir a lei che sedesse, le domandò freddamente:
—Che desiderate?…
—Desidero rendere un servizio a Vostra Eccellenza!
—Parlate.
Cristina avea avuto una delle solite idee, a lei ispirate dalla cupidità. Volea, senza badar a tradire la principessa, vender al marito il segreto, per custodir il quale già avea ricevuto tanto denaro dalla moglie. Era un bel segreto, e bisognava farselo pagar caro!
—Prima di parlare, debbo cominciar a esporre a V. E. lo stato penoso in cui mi trovo…. Ho bisogno di un aiuto, che non può darmi, se non un signore ricco e generoso, come….
—Basta, basta!—interruppe il principe,—Voi volete, insomma, vendermi una rivelazione….
—Non ho detto questo….
—Io l'indovino….
—E bene, V. E. ha indovinato con giustezza!—esclamò Cristina, a cui tornava il suo consueto ardimento, ma teneva gli occhi bassi e simulava.
—Che cosa chiedete?
—Questa piccola somma, ch'io devo.
E Cristina mise sotto gli occhi del principe l'obbligazione a pagare una grossa somma a Emilio, il guardacaccia: obbligazione, che aveano simulata fra loro.
—Di questa obbligazione ve ne sono due copie: una l'ha il mio creditore….
—Andate, andate,—disse il principe, sono già sdegnato di ascoltarvi,—io non voglio subire un tale ricatto….
—Ma io vi provo, Eccellenza, che vostra moglie la principessa Enrica ha avuto un marito prima di voi…. un marito, che essa ha sposato con tutte le formalità volute dalla Chiesa….
—Stupide menzogne!—disse il principe, che voleva irritarla per pungerla a parlare.
—Può darsi ch'io sia stupida e menzognera, Eccellenza…. ma ho i documenti, e i documenti autentici di quello che asserisco…. L'atto di matrimonio, scritto e registrato dal parroco di Mondrone….
—Non credo alle vostre affermazioni….
—Ed ho anche un altro documento…. L'atto di nascita della bambina….
—E questa bambina?…—sfuggì detto al principe, come se credesse a ciò che Cristina asseriva.
—Morì quasi appena nata…. mentre era condotta da una balia….
—E dove sono i documenti?…
—Oh, non li ho certo con me, Eccellenza…. S'invecchia e s'impara il viver del mondo. Io non mi fido di alcuno, neppure d'un gentiluomo come voi…. Quei documenti vi saranno restituiti, se degnate soccorrere una povera donna…. infelice, quando verrete a prenderli…. in casa mia…. e mi porterete la somma, che m'è necessaria per non trovarmi a mal partito.
—E, se io non so che farmi de' vostri documenti?—rispondeva il principe, che non si commoveva alle ingiurie di Cristina, poichè l'occupavano ben altri pensieri.
—Se voi non sapete che farne, io li porterò ad altri…. troverò chi può annetter loro qualche prezzo.
—Miserabile!—esclamò il principe,—e voi avete servito mia moglie, e chi sa quanto essa vi ha beneficata?
—Non abbastanza, Eccellenza, poichè mi trovo in grande bisogno…. La principessa, anzi, mi scacciò, dopo un lungo servizio, quando credette io non le potessi esser più utile…. È forse questa la mia vendetta.
Il principe rifletteva.
—Io—continuò Cristina, mentre lo vedeva torturato dalle sue meditazioni—non intendo vender a V. E. un segreto: intendo darle occasione di far un'opera di carità…. V. E. non ha molti amici nel mondo…. tutti la scherniscono, nessuno le parla il vero…. Ci sarebbe ben altro da dire.
—E che altro?—chiese il principe in un momento di suprema angoscia.
—V. E. è stato non solo disonorato, ma reso ridicolo dalla principessa…. Tutta Napoli sa che la principessa di Gorreso è la favorita del Re: e il popolo crede che V. E. abbia uno stipendio come ambasciatore, altre larghezze in compenso….
Il principe non avea mai compreso come allora l'atroce strazio, che si dovea far del suo nome, e di quante infamie lo avessero sopraccaricato.
La sua reputazione era in balìa della gente ignobile, che è lieta d'insozzare tutto quello che, per un certo tempo, le ha ispirato rispetto: il rispetto per certe superiorità sociali e certe virtù è ad alcuni animi bassi il massimo tormento: è un giogo, a scuoter il quale è lor buono ogni pretesto.
Ma il principe, dopo alcuni istanti di silenzio, durante i quali Cristina s'era occupata a ravviar le pieghe del suo abito, sedette e fece cenno alla donna che sedesse innanzi a lui. Egli avea ripreso il suo sangue freddo; voleva ormai assumere la sua parte di giudice; giudice, non crudele ma inesorabile.
—Voi volete un soccorso?—disse a Cristina.—Siete povera, secondo affermate. Vi soccorrerò. Non intendo pagarvi un segreto: non voglio crediate che io vi abbia negato quella piccola somma…. come voi la chiamate…. per sordidezza…. Rispondetemi….
—Dirò a V. E. tutta la verità.
—Chi fu il primo marito di mia moglie?
—Sarei grata a V. E. se volesse darmi subito, almeno un terzo di quella somma…. debbo provvedere a bisogni urgenti….
Il principe aprì un cassetto: le gettò dinanzi una certa quantità di denaro.
—Dunque?—riprese.
—Il primo marito di vostra moglie fu Roberto Jannacone.
—Colui che fu condannato per l'assassinio del conte di Squirace?
—Appunto.
—Ma egli è morto, come è morta la figlia nata dal loro matrimonio!…
Il principe sembrò provasse un gran sollievo.
—E allora,—riprese,—verrò io stesso a cercar in casa vostra que' documenti.
—Aspetterò…. oggi stesso,—ripeteva Cristina.—Ma—ella aggiunse con molta malignità—mi ha lasciato parlar ben poco…. Le persone come Vostra Eccellenza hanno subito un certo modo di capire!…—Pareva che Cristina non sapesse trovar il verso d'andarsene. Camminava a piccoli passi verso la porta, e avresti detto che tornasse indietro anzi che avviarsi per uscire.—È—disse a un tratto senza voltarsi—in un grande errore, errore che le può cagionare molti pericoli…. C'è in Napoli una persona, in cui può incontrarsi da un istante all'altro, che può venir qui…. in questo palazzo…. e dalla quale è esposta ad avere le più sgradevoli sorprese….—E si avvicinava più frettolosa alla porta.
—Che intrigo è cotesto?—domandò il principe.
Cristina tornò indietro di scatto. Avea già adocchiato su la tavola un bell'anello. Lo prese in mano, e disse:
—Non potrebbe donarmi questo piccolo oggetto?… In cambio, le farei una rivelazione più preziosa, di quella che ho fatto sin ad ora…. Sin la vita sua in questo momento è gravemente minacciata….
Il principe pensò a tutt'altro che a ciò a cui Cristina mirava. Immaginò, nella commovibilità d'animo, di cui soffriva in quel punto, un pericolo molto immediato, e che gli venisse da persona a lui vicina. Cristina vedeva quanto egli era turbato. Si era intanto messa in tasca l'anello.
—Fuori la vostra rivelazione!—esclamava il principe.
Un sudore freddo inumidiva le sue tempie.
—Eccellenza,—replicò Cristina in tuono drammatico,—il primo marito di vostra moglie…. è vivo.
—Roberto Jannacone?
—Sì.
—E dove si trova?
—Difficile il trovarlo…. Ma credo verrà presto da voi!…
Cristina adocchiava il biglietto di visita, che era su la tavola.
—Vedete l'interesse di far sparire i documenti ch'io conservo….
—Ma non è stato egli ucciso a colpi di fucile, mentre tentava fuggir dall'ergastolo?
—Tutti credono egli sia stato ucciso….
—Fosse pur vivo, non è egli condannato a una pena, che non può cessare, se non con la sua morte?… Lo denunzieremo…. sarà arrestato.
—Oh, no, V. E. non lo denunzierà; egli potrebbe chiedere una revisione del suo processo, mostrare i documenti, ch'io posso rendergli, o cedergli magari in ventiquattr'ore…. se voi non li acquistate…. Vostra moglie lo ha calunniato, per sbarazzarsi d'un uomo, che era d'ostacolo alla sua ambizione…. Nei giorni d'ebbrezza in cui l'avete sposata, ella forse paragonava, nel suo segreto, i vostri abbracci a quelli dell'uomo che, per essere stato strumento de' suoi piaceri, ella avea condannato a espiare sì atroci torture…. Voi siete tanto umano, tanto cavalleresco, che non denunzierete mai un uomo, vittima già di sì profonda ingiustizia…. e che ha già per un tempo sì lungo sofferto, senz'altra colpa che quella di aver pazzamente amato una donna bellissima e sleale. Egli ha taciuto per salvar l'onore di vostra moglie; si è immolato perchè essa potesse diventar vostra sposa…. Vedete quanto una tal donna è corrotta….
—E chi vi dà il diritto di giudicarla? Voi siete, tutt'al più, degna di lei, una creatura senza pudore, senza cuore, ingolfata ne' vizi più immondi, infame…. Siete anzi peggiore di lei, poichè vi manca l'educazione….—Il principe s'interruppe; avea capito che l'educazione rendeva sempre più gravi i falli, i delitti di sua moglie: ella dovea aver più forte la percezione del bene: il suo traviamento era meno scusabile.—Dunque, ho bisogno di sapere dove è quest'uomo; come può trovarsi….
—Avevo detto a V. E. che la mia visita le sarebbe stata utile….
—Ditemi….
—Costui è in Napoli con finto nome….—E Cristina allungava le sue dita ossute, che parevano artigli, verso il biglietto di visita.
—Sotto qual nome?—insisteva il principe.
—Eccolo!—e Cristina pose il biglietto sotto gli occhi del principe.
—Roberto Jannacone è colui che si fa chiamare l'ingegnere
Amoretti?… Ma mi dite il vero?
—È stato da me….
—E che intende di fare?…
—Non so: egli è cupo, minaccioso: mi ha chiesto notizie della sua figliuola: sembrava incredulo, quando gli dissi ch'era morta….
—Ne siete però sicura?
—Oh, questo è positivo….
—E avete trattato anche con lui la vendita dei documenti?
—Non ho bisogno di dire qui tutti i miei affari….. Vi basti ch'io sono venuta a offrir a voi i documenti…. Li metto, naturalmente, all'incanto…. E pensate che io odio vostra moglie, e che, da un istante all'altro, potrei consentire anche a ceder gratuitamente quei documenti, potrei contribuire a far aprir un processo contro di essa, per sfogare un mio capriccio….—Il principe si era coperto il volto con le palme delle mani.—Pensi V. E. che poteva esser di lei, senza questo colloquio…. quante cose sin ora ignorava; che fitto mistero circondava tutta la sua vita…. non dava un passo senza rischiar di cadere in un'insidia e senza non abbattersi in un tradimento sicuro.
—E ora andate: vi sono grato di tutto, poichè a voi piace ch'io debba esservi anche riconoscente!—continuò.—Verrò a casa vostra a prender i documenti…. Serbateli per me!—Parlava con una calma spaventosa. Rimasto solo, soffrì orribilmente. Non avrebbe mai pensato sin allora che nella vita vi potessero essere sì acerbi, pungenti dolori.—Ma qui bisogna farsi cuore—pensò.—Mia moglie ha abusato di tutto: creatura simulatrice! È venuto il tempo della giustizia!—Sentì un rumore di passi. Era rimasto circa un'ora solo, fra le angoscie più strazianti, dacchè Cristina lo aveva lasciato. Un servitore venne ad annunziargli che era tornato quel signore, di cui gli avea rimesso il biglietto di visita.—L'ingegnere Amoretti?—disse il principe, che avea ripreso in mano il biglietto, quasi non ricordasse più il nome; nè il servitore si accorse che la mano di lui tremava, come se fosse colto da paralisi.—Fatelo entrare nel salottino rosso,—disse il principe.—E avvertitelo ch'io sarò subito da lui.—Voleva riconcentrarsi un istante, munirsi di tutta la forza di cui aveva bisogno. Due minuti dopo, il principe entrava nel salotto da una porta, di cui un servitore gli apriva i due battenti. Trovò l'Amoretti in piedi, estatico dinanzi a un gran quadro: il ritratto di Enrica a quindici anni. Non è a dire se il cuore di Roberto batteva dinanzi a quell'immagine, che richiamava alla sua mente tutto un passato. Per quel sorriso, per quegli sguardi, egli avea tutto perduto: l'onore, la libertà: ogni bene dell'esistenza: per quegli occhi suo padre era morto di crepacuore: egli avea subito sedici anni della più dura prigionia.
—Mi costa ben cara questa fanciulla!—pensava, allorchè si aprì la porta del salotto.
—Lei è l'ingegnere Amoretti?—disse il principe entrando, e studiava l'effetto di tali parole sulla fisonomia di Roberto, che si era volto verso di lui.
Roberto non sapea resistere al desiderio di osservar da vicino, con ogni attenzione, l'uomo che avea saputo, egli credeva, dominar il cuore di Enrica, farsi amare da lei: l'uomo nelle cui braccia ella si era gettata, proprio nel punto in cui avea condannato lui al più crudele e più lungo martirio.
—Sono io, Eccellenza,—ripetè Roberto,—l'ingegnere Amoretti!
Il principe volea valersi di ciò che già sapeva: confondere il suo visitatore.
—Io ho conosciuto un ingegnere Amoretti…. molti anni or sono…. prima che fosse condannato a una pena infamante…. Mi sembrava molto diverso da lei….
—C'intenderemo subito, Eccellenza,—disse Roberto cui stava a cuore finir pacificamente quella conversazione.—Io vengo qui per un affare molto grave….
Il principe, a sua volta, l'osservava con molta curiosità. I ritratti di Enrica pendevano alle pareti; per tutto ove i due posavano l'occhio incontravano la fisonomia di lei; provocatrice, sorridente, la vedevano in varie età e in vari atteggiamenti: sembrava ad essi che ella assistesse terza al loro colloquio; che ella aggiungesse nuovi strazi a quelli onde già li avea entrambi torturati.—Ho una sola speranza, una sola consolazione nel mondo,—riprese il finto Amoretti,—un solo affetto, che mi fa vivere…. l'affetto per un'unica figlia….
Il principe fu subito tutto turbato.
—Questa giovinetta è minacciata da una grande sventura…. Essa è ardentemente innamorata di un giovane bello, di altissimo cuore, ma inesperto…. Egli corrisponde all'amore della giovinetta: le avea promesso sposarla…. A un tratto fu sviato da una di quelle donne pericolose….—Gli occhi di Roberto brillavano e si fissavano, suo malgrado, sopra un ritratto di Enrica.
—Non so capire….—disse il principe.
—La felicità, la vita di quella giovinetta è nelle vostre mani, signore!
—Che dite?—esclamò il principe, come se fra i due si fosse stabilita di un subito una certa intimità: mentre egli non riusciva davvero a comprendere ove l'altro volesse andar a parare.
—Tocca a voi, signore,—continuò impavido Roberto,—a far allontanare, e per sempre, da Napoli la donna, che con le sue male arti mette in pericolo i giorni di una cara, innocente giovinetta….
—E chi mi può dar questo potere?
—La legge, signore: la legge, che concede al marito un assoluto dominio su la moglie….
—Si tratta, dunque, di mia moglie?
—Sì, Eccellenza, di…. vostra…. moglie;—e Roberto proferì quel vostra con accento molto peculiare.
—E voi…. ch'io non conosco…. che non so chi siate…. che vedo per la prima volta, osate farmi una tale intimazione…. e pensate ch'io la subisca?… Osate venir a parlarmi in tal modo, della principessa…. di mia…. moglie—e insistè anch'egli su quel mia—e vi figurate che io lo tolleri?
—Eccellenza, io sono un padre amantissimo, e che il desiderio di render sua figlia felice, di restituirle la vita, può far capace di tutto.
—Ma non sarete mai capace d'incutermi terrore!—disse il principe di rimando e con un certo ostentato piglio d'insolenza.
—Signore, esauditemi…. io non son venuto qui a perdermi in parole o a far mostra della mia forza…. sono venuto a supplicarvi…. Pigliate in buona parte ciò ch'io dico…. non m'irritate…. sarà forse meglio per voi…. per tutti!
Il principe era travagliato da un'idea. Forse la figlia, che Roberto
Jannacone avea avuto da Enrica, come gli era stato riferito da
Cristina, e ch'essa avea affermato esser morta, viveva sempre.
Gl'importava appurarlo; ciò potea cambiare, da un istante all'altro, i
disegni che già rivolgeva per l'animo.
—E dov'è questa vostra figliuola?—domandò il principe.—Che nome ella porta? perchè io vi credo uomo, che abbia a sua disposizione varii nomi!
—Permettete, signore, che, almeno per adesso, non risponda…. alla vostra insolenza!
—Mi direte almeno il nome del giovane che mia moglie, secondo voi dite, ha attirato a sè? È bene—seguitò il principe con amara ironia—ch'io sappia donde mi viene una sì grande offesa, poichè voi, un ex-galeotto, vi siete costituito tutore dell'onor mio.
Roberto non rispose. Il principe vedeva in quale imbarazzo lo ponevano le sue parole; pensava com'egli si sarebbe trovato inferiore a lui senza le rivelazioni di Cristina, e se avesse invece dovuto aspettar da esso, a grado a grado, tali rivelazioni.
—Vostra Eccellenza ha torto—riprese Roberto, che facea sforzi ben palesi per contenersi—d'abusare in tal modo della mia longanimità.—Si drizzò in piedi, come se volesse mostrarglisi in tutta la potenza della sua persona, e soggiunse:—Vi sembro uno di quegli uomini, con cui è facile e vantaggioso scherzare? Può V. E. credermi uno di quegli uomini, atti a servir ad altri di trastullo e di ludibrio?… Non sono venuto qui per scherzare!—E, ad un gesto del principe, continuò:—Sono venuto per domandare umilmente, come un favore, ciò che avrei il diritto di esigere…. ciò che potrei domandarvi come padrone…. Vi prego, signore, di nuovo…. ascoltatemi…. Promettetemi di partir da Napoli, e per sempre, allontanando di qui vostra moglie, stabilendovi in uno di que' paesi forestieri, ove dovete pur esercitare la vostra carica d'ambasciatore….
—Mia moglie non vuol partire, e non partirà mai da Napoli…. anche se volesse; cioè se voi riusciste a vederla, a indurla a questo.
—Chi glielo impedirà?
—Io.
—Voi siete un pazzo!—esclamò Roberto incollerito,—voi mi spingete a perdere ogni moderazione, a uscire da ogni ritegno.—E febbrilmente Roberto toccava un acuminato tagliacarte, con impugnatura d'oro e lama d'acciaio, che era sul tavolino. Gli sguardi coruscanti, la fisonomia stravolta, promettevano poco di buono.—Ho avuto torto di venir qui—esclamò con voce soffocata dalla collera—sono in casa vostra…. debbo, fin che sia possibile, contenermi…. Non mi eccitate ad estremi…. Voi avete il fare sprezzante, provocante di certi uomini della vostra razza…. razza odiata, che si crede tutto permesso, e non ha la virtù di riparare onestamente, nobilmente a un'ingiustizia, a mali che ha cagionato e che sarebbe in suo potere di terminare…. Avrei dovuto farvi venir altrove…. E mi sarebbe bastata una parola per costringervi a recarvi da me, a umiliarvi innanzi a me…. Ma io sono generoso, e volevo risparmiarvi molto dolore…. Voi non sapete comprendere la grande bontà umana ch'è in certi animi, e che vi resta, malgrado le atroci sofferenze subite senz'averle meritate, malgrado i tradimenti, le viltà da cui furono angosciati…. Come vostra moglie, voi appartenete alla perfida genia di coloro, che non intendono e non ascoltano se non il proprio orgoglio, la propria sensualità: e non possono esser persuasi, convinti da una parola di giustizia, dalla forza di un affetto, dal merito di una pura intenzione….
—A udirvi parlare, si supporrebbe voi foste il modello degli uomini….
—Non proseguite negli scherni; se non volete cedere a me, ordinate alla principessa di venir qui dinanzi a me; ella potrà darvi qualche spiegazione…. Potrò a lei rivelare il segreto, che voi mi domandate, circa mia figlia…. V'ordino che facciate venir qui Enrica, colei che chiamate da anni vostra moglie, ma io ho diritti su di essa al pari di voi…. più legittimamente di voi!
Il principe lo guardava, in atto di chi ode una cosa nuova, anzi meravigliosa, e ne domanda, nel suo muto stupore, la spiegazione. Credeva opportuno fingere a quel modo. Roberto, dopo la sua eccitazione, si era accasciato sopra una sedia e sembrava aver perduto ogni energia.
—Sicchè, se mia moglie venisse qui,—continuava il principe, con sarcasmo che gli faceva sanguinar il cuore,—si troverebbe innanzi a due mariti; uno di cui s'è creduta vedova, che non ha pianto per morto…. questo non può dirsi…. ma s'è rallegrata fosse morto ed è sempre vivo…. l'altro sposato anche prima ch'ella potesse credersi vedova; e solo perchè avea l'idea d'essere riuscita a allontanare da sè il primo per sempre, a porre fra sè e lui una barriera insormontabile. La nostra situazione è strana…. molto strana…. Se ci fosse qui un commediografo!… Due uomini, che hanno sposato legittimamente una bella donna, e se la disputano: uno contro l'altro i due mariti, vivi, di una delle donne più seducenti che il mondo abbia visto: un principe rivale d'un assassino fuggito dal carcere…. Ah! ah! ah!
E il principe rideva, d'un riso secco, stridente, nervoso.
Come abbiamo detto, il principe non vedea la moglie da oltre una settimana. Avea schivato ogni incontro con lei; e a ciò lo sospingeva quella incertezza di cui non poteva guarirsi. Anche ora, mentre parlava con l'Amoretti, lo confondeva la perplessità su quello che dovea fare; non riusciva a dirsi aperto, risoluto il contegno, che dovea seguire, e con la moglie e con lo Jannacone, sebbene già in poche ore si fosse appigliato alle più varie e alle più severe determinazioni.
La principessa era inquietissima: s'era accorta che il marito la sfuggiva, e non osava affrontarlo. Non sapea più come liberarsi da gravi impegni di denaro che aveva contratti; e sentiva un malessere continuo; si stordiva in ogni modo per sfuggir al pensiero, che tornava sempre a crucciarla: quello di una catastrofe immensa, irreparabile. La mattina di tal giorno era uscita a cavallo, e s'era avviata verso Castellamare. A un tratto udì lo scalpitìo di un altro cavallo, che correva dietro il suo; poi le parve udir mormorare il suo nome; si volse e riconobbe il bel giovane, che serviva di primo commesso al Weill-Myot.
—Principessa,—egli disse, accostando il suo cavallo a quello di lei e scoprendosi il capo in atto molto ossequioso,—era sicuro di trovarvi qui…. nella vostra solita passeggiata…. Ho da dirvi cose molto gravi e…. funeste.
Le guancie della principessa, già rosse per la corsa, per la pungente aria mattutina, si fecero d'un incarnato più vivo.
—Avete ricevuto un mio biglietto ieri l'altro?—domandò ipocritamente il giovane.
—No,—rispose la principessa.
—Ora comprendo perchè non abbiamo risposta…. Oggi sono in scadenza i pagamenti di qualche centinaio di migliaia di lire per conto vostro…. Le avete?
—No…. no…. io non sapeva nulla!—rispose la principessa con voce concitata.—Mi cogliete all'improvviso: io non ho più denari: ho appena cinque, sei mila lire….
—I vostri gioielli?
—Ah!—La principessa fece un ghigno di scherno….
—Tutti…. tutti?…—chiese il giovane, come se avesse già compreso l'espressione della fisonomia di lei.—A proposito, debbo dirvi che vostro marito sa dei gioielli falsi, che voi avete mutato coi veri…. Ma io credeva si trattasse soltanto di alcuni….
—Mio marito sa?…
Aveano fermato i cavalli in luogo remoto, e favellavano, senza scender di sella. Era strano il colloquio sì intimo di que' due a cavallo: colloquio, che dovea decidere della vita di Enrica.
—Vi assicuro che vostro marito sa tutto….
—Sta bene,—disse la principessa,—provvederò….
—Ma urge il provvedere: pensate che c'è una cambiale in cui voi, in un istante di sovraeccitazione, e credendo poterla ricuperare e stracciare qualche ora dopo, avete falsificato la firma del Re.
Enrica trasalì.
—Ho capito, ho capito….—Con la sua corruzione, con la sua perfidia già avea pensato una cosa orribile, e in un istante: darsi finalmente al Weill-Myot, contentar il suo orgoglio, soddisfare la sua passione: per possederla egli avrebbe certo tutto sagriticato: e per lui il darle un milione, e più, non era un sagrifizio. Accomiatò il giovane con uno de' suoi gesti imperiosi. Egli si accinse a voltare il suo cavallo, mentre le ripeteva:
—È oggi l'ultimo giorno: o pagare, o una rovina inevitabile…. Noi non possiamo trattener più i vostri creditori!
Ella tornò indietro pian piano, lasciando le briglie lente, e meditando. Poi si dette, a un tratto, a una corsa vertiginosa. Le premeva di tornare a casa, di cercare fra i suoi gioielli. Tornò: salì nella sua camera: aprì lo stipo: si accorse che gli astucci dei gioielli erano stati messi sossopra: vide che era stato frugato tra le sue carte: ritrovò la lettera di Cristina, che ella non credeva aver conservato, aperta, sopra un mucchio di altri fogli in un cassetto.
Si rammentava benissimo d'aver lasciato in casa una sera la chiave dello stipo, che portava sempre con sè: e che avea palpitato per la dimenticanza. In quella sera suo marito dovea essere entrato nella camera; si dovea esser accorto di tutto.
Ma chi gli avea fatto sospettare che i gioielli fossero falsi? Il De Carlo l'avesse tradita? Non le sembrava possibile. A che prò? Il destino dunque si sfogava contro di lei e le suscitava contro misteriosi delatori. Ricevette un gran plico. Lo aprì. Le sue arti erano riuscite a meraviglia. Il re la nominava a una carica onoraria di Corte: inebriando il Venosa, umiliando Diana, ella aveva trionfato: la sua bellezza, già l'assicurava di trionfar sempre, e di tutto. Si consolava un po' fra tante angustie: la sua vanità tornava a ingigantire. Si rivestì d'un abito nero, che modellava a perfezione le sue forme: prima di uscire di nuovo, si guardò allo specchio, e mormorò cinicamente, avventatamente:
—Facciamo anche questa!
Ella andava a vendersi al Weill-Myot, per un prezzo, che non le parea punto caro: oramai era fuori di sè, o quasi non sapea più ciò che operava: avea la coscienza offuscata, ottenebrata dagli strabocchevoli vizi, agitata dalla paura della condizione terribile in cui s'era ridotta. Il Weill-Myot l'avea stretta in buona rete.
Quel giorno il banchiere americano avea ricevuto due telegrammi da New-York, che gli assicuravano il buon esito di certe sue grosse speculazioni: egli guadagnava il 17 e il 19 per cento su un vistoso numero di azioni di nuove linee di strada ferrata: guadagnava seicentomila lire su un rialzo di fondi americani. Oh, se la principessa non l'avesse offeso, aizzato contro di lei in altri tempi, avrebbe potuto permettersi tutte le prodigalità, sicura che egli non avrebbe mai mancato col suo ingegno, con la sua potenza di farle trovar i mezzi per i suoi fastosi capricci.
La principessa arrivò alla Banca Weill-Myot e domandò dell'americano. Egli era ne' suoi appartamenti, facea colazione col celebre pittore spagnuolo Murcillo. Questo artista, allora ricercato in tutta Europa, giunto a una gloria, che pochi hanno eguagliato nel nostro tempo, avea un grande studio in Napoli, nel palazzo del Creso americano: uno studio sontuoso, composto di tre grandi sale, ch'egli stesso gli avea fatto addobbare con sfarzi orientali.
E il pittore stava eseguendo due quadri per il banchiere.
La principessa fu fatta entrare nel salotto del banchiere, ove già l'abbiamo una volta incontrata.
Poi, fu dato subito annunzio al Weill-Myot della visita di lei.
—Le avete detto che siamo a tavola?—domandò il banchiere al suo impiegato, poichè egli teneva alle più volgari ostentazioni e voleva mostrare dinanzi a un suo subalterno che anche la visita di una principessa non era per lui gran cosa, che anzi poteva riuscirgli importuna.
—Gliel'ho detto, e l'ho fatta entrare nel salotto….
—Oh…. ma che pensate…. ricevetela subito…. Che diavolo? Una donna e una gentildonna!—disse l'artista spagnuolo, con la cavalleria propria della sua nazione e de' veri artisti. Ma il Weill-Myot era il Weill-Myot.
Si alzarono subito da tavola: e si recarono nel salotto ov'era la principessa. Il banchiere immaginava ciò che essa avrebbe desiderato da lui; però avea tenuto a farsi trovare in compagnia. Era il modo migliore per avvilirla di maggiore spregio e per far sì ch'ella risentisse più cocentemente le umiliazioni, che le avrebbe inflitte. Benchè accigliato, malcontento, di pessimo umore, all'annunzio di quella visita, il banchiere si sforzò di sorridere. Finse subito, nel trovarsi al cospetto della principessa, una grossolana familiarità. Le mise una mano sopra un braccio, come avrebbe fatto in segno di cordialità ad un amico, e le disse:
—Siamo felicissimi della vostra visita!
Quel riceverla in due era già un'insolenza.
—Vi presento il famoso pittore….
—Oh, il signor Murcillo,—disse Enrica, con un sorriso divino,—chi non lo conosce!
Il pittore s'inchinò con molto rispetto, e con profonda ammirazione della squisita bellezza che aveva dinanzi.
—Voi siete artista, principessa,—continuò il Weill-Myot, che parlava sempre famillionariamente, secondo un notissimo avverbio, alla gentildonna.
—Volete entrar nello studio del nostro Murcillo…. veder i suoi capilavori?
Entrarono nelle stanze, che servivano di studio allo spagnuolo. La principessa gettò alcune piccole grida di stupore dinanzi alle varie tele, sparse qua e là con apparente negligenza, dinanzi a' due quadri, in parte abbozzati, in parte presso che terminati.
—La vostra fama è grandissima, e pure il vostro merito la supera!—disse la principessa al pittore. Egli eccelleva sopra tutto nel dipingere le nudità femminine.
Nacquero dispute sa la perfezione di certe linee, su la appropriatezza di certi scorci in questa o quella figura.
Il pittore, estatico dinanzi alla bellezza della principessa, ammaliato dall'incantevole suo sorriso, dalla dolcezza della sua voce, già subiva quel fascino, a cui nessun uomo, salvo il Weill-Myot, dopo il risentimento provato pe' disdegni di lei, avea saputo sottrarsi.
La principessa andava da un quadro all'altro, osservava, criticava con vero acume, specialmente lodava; rideva ella stessa delle sottili malizie, che metteva in certi giudizi, e che si riferivano a segreti della bellezza femminile.
Il pittore la divorava con gli sguardi; indovinava le forme elette, che ella non nascondeva molto, per la stessa foggia d'abiti, sempre da lei prediletti a tale scopo.
—So che facevate colazione,—disse la principessa al Weill-Myot, e gli rivolgeva uno sguardo di fuoco.
—Oh!—esclamò il Weill-Myot accompagnando la esclamazione con un gesto, che voleva significare:—Ma ciò poco importa….
—Mi dorrebbe molto, caro Weill-Myot, avervi disturbato,—replicò la principessa col tuono più vellutato della sua voce. Ella incominciava i primi attacchi, e con strategica finissima, per vincere la sua battaglia.—Tornate a mangiare… vi aspetterò qui se volete…. Non mi riguardate come un'intrusa, o come una importuna…. Trattatemi con la familiarità di una antica amica.—Tutto questo fu detto con disinvoltura adorabile, e con la massima grazia.
Un'idea infernale balenava nella mente del Weill-Myot.
—Già che voi… principessa… siete sì buona… e mentre venite a parlarmi de' vostri affari, degnate trattarmi, non come un servitore pronto a tutti i vostri cenni, ma come un amico… vi dirò che noi avevamo quasi finito di far colazione….
—E allora finite… andate, e subito!—-ella disse, agitando in aria un guanto, che s'era cavato.
—Eravamo sul punto di bere un vino spumante, leggerissimo, delicato, che mi è stato spedito dall'America, che i buongustai americani preferiscono allo stesso Champagne di miglior qualità… si chiama anzi Jolly—Champagne…. Lo farò recar qui: vorrete voi, principessa, degnar d'accettare che noi facciamo un brindisi alla vostra bellezza meravigliosa?… Non vorrei esser troppo ardito….
—Vi ho detto, caro Weill-Myot, che voglio mi trattiate come una vera amica: siamo nello studio di un grande artista; parliamoci d'arte, e trattiamoci da veri camerati…. Ve ne do l'esempio….—E la principessa si gettò su una larga ottomana, e vi cadde in modo che le sue tibie rimasero, in parte, scoperte. Volea dar al pittore un'idea delle sue perfezioni. Cedeva alla sua solita smania di far pompa di sè, di mostrare le sue bellezze.
Il Weill-Myot uscì per dar gli ordini opportuni, e stette un pezzetto a tornare.
Il pittore parlava con la principessa, che in quella posizione lo esaltava, gli mandava in fiamme il cervello.
—Felice l'artista,—egli mormorava,—che potesse condurre un'opera, studiandovi, avendovi a modello…. Egli lavorerebbe di certo per l'immortalità.
L'effetto, da lei prodotto sul pittore, le facea ben augurare dell'impresa, che era venuta a tentare sul Weill-Myot: sorrideva; ma, a dir vero, non avea mai dubitato seriamente che il Weill-Myot potesse resisterle.
Ammetteva gli uomini fossero sovente ingrati alla donna che li onora della sua predilezione; non ammetteva potessero esser ciechi, o non commovibili alla sua bellezza.
Arrivò un servitore maestoso, in ricchissima livrea: portava con sè un gran vassoio d'argento, con due bottiglie, e bicchieri infilati in custodiette d'argento.
Qualche istante appresso giunse il Weill-Myot. Egli facea versare alla principessa lo squisitissimo vino americano, di un nitido color d'ambra, vino riconfortante, di un gusto soave, di un delicato profumo. In una bottiglia il Weill-Myot avea gettato una sottilissima polvere, che dovea aver per effetto di suscitare nella principessa una sete inestinguibile, incitarla al bere, e darle un'ebbrezza assai forte, sebbene passeggera.
Il servitore, postosi dietro le ampie spalle della principessa, aprì le due bottiglie: versò il vino, secondo le istruzioni ricevute, ne' tre bicchieri.
Il Weill-Myot tolse dal vassoio un bicchiere e lo porse alla principessa: e tutti e tre in piedi fecero il brindisi.
—Il vino è davvero stupendo…. Si vede che il nuovo mondo, anche in questo genere, comincia a darci sublimi prodotti.
Il lettore sa già che la principessa beveva assai volentieri i vini molto generosi; non le occorrevano stimoli.
—Beviamo di nuovo!—ella disse tutta gaia. E il Weill-Myot fece un cenno al servitore, tenendo egli in mano il bicchiere della principessa. Ella bevve tre volte, in brevissimo tempo, di quel vino. Sentiva un benessere insolito, una vera letizia: e in quello studio, fra quelle forme di bellissimi corpi, carezzate dal pennello dell'artista, provava un fervore di sensualità, sempre in lei pronto a svegliarsi. Parlava un po' sconnessa, ma vivace, arguta, senza ritegni, con una libertà salace e raffinata. Si sarebbe detto che il suo scopo fosse l'eccitar que' due uomini alla più appassionata adorazione, alla più folle passione per lei.
Intanto, il principe smaniava nel suo palazzo e trascorreva le ore ne' dialoghi con Cristina e con Roberto.
—Vedete,—disse la principessa, accostandosi a un quadro,—l'anca di questa donna non è perfetta… in tale scorcio… in tal punto,—e l'indicava,—dovrebbe apparire più turgida….—Criticò il seno di un'altra figura di donna. Non v'era abbastanza colore: e l'epidermide d'una donna robusta, sia pur di finissima e bianchissima carnagione, ha un tessuto più vivo….—Qui,—continuava e indicava un altro punto,—c'è un errore….
Il pittore sorrideva: sorrideva la principessa. E si sforzava di sorridere il Weill-Myot.
Poi, risalendo col dito, la principessa indicava nel seno d'una figura di donna la fossetta in mezzo alle due collinette di rose e di neve, come le chiamavano un tempo i poeti.
—Qui, la linea,—disse al pittore, con il suo più furbesco sorriso,—è sbagliata.
—S'io potessi veder un modello, quale io lo sogno… mi accorgerei che tutto in questi quadri è sbagliato….
La principessa fece un piccolo gesto d'impazienza, come se volesse contradire il pittore.
—Sbagliato in questo senso: che non riproducono l'esemplare della vera, perfetta bellezza, sì raro a trovarsi…. Mi è permesso di parlar francamente?
Con un cenno Enrica gli dette ad intendere che a ciò l'invitava.
—La perfezione assoluta delle forme è propria soltanto di pochi, elettissimi esseri…. Si direbbe che la natura, nel produrre un corpo perfetto, faccia tali sforzi, che abbia bisogno di lunghi riposi…. La vita aristocratica, agiata, contribuisce alla perfezione delle forme…. Non è vero, ad esempio, che la ginnastica conferisca alla bellezza del corpo umano; essa dà lo sviluppo di alcune forme, a scapito di altre. Turba l'armonia…. Volete un modello assoluto di bellezza? Paolina Borghese: una dama aristocratica…. Felice il nostro Canova, che l'ha veduta…. Una donna bellissima, che cede allo scrupolo di non mostrar le sue forme, di tenerle velate anche all'occhio adoratore di un artista, sottrae al genere umano un vero tesoro…. Oh, se io potessi attuare un sogno, che ora m'agita la fantasia, un sogno forse troppo temerario… se potessi vedere la vostra bellezza divina….
La principessa era eccitata dalla spiritosa bevanda, dalla polvere inebriante, che il Weill-Myot vi avea gettato.
—Chi avrebbe scrupolo di mostrar ad un artista ciò che può dar ispirazione al suo ingegno, aumentare in lui l'idea della perfezione?…
—E poi la bellezza è passeggera…. l'anno, il giorno che corre, una malattia, possono sfiorarla, deteriorarla…. Un artista ha il potere di fissarla per sempre in una tela, nel marmo, nel bronzo, renderla immortale.
Vide un gesto della principessa; e pose su un cavalletto una gran tela.
Avea già in mano la tavolozza: tenea gli occhi fissi, estatici su la principessa, come se già scorgesse, o aspettasse di scorgere un'apparizione più che umana.
Ella guardava di sottecchi il Weill-Myot. Era per lui, che commetteva un tale ardimento.
Anche il banchiere avea gli occhi fissi su lei, ma i suoi sguardi non aveano la medesima espressione estatica di quelli del pittore. L'americano avea la febbre di vederla innanzi a sè, come si ammirano le statue, spoglia d'ogni indumento. Volea scrutare tutte le forme di lei: dirsi se avea desiderato veramente una donna nella sua struttura perfetta, e compiacersi nell'orgoglio di averla disprezzata.
Enrica era corsa dietro un magnifico paravento giapponese. I due udivano un fruscio di vesti.
Una mano frettolosa scioglieva nastri, strappava ciò che le era d'ostacolo.
Il pittore palpitava d'entusiasmo, poichè avea già indovinato la meravigliosa bellezza della principessa: il Weill-Myot era, per così dire, rovente di concupiscenza, e godeva nella coscienza della sua fierezza, nel pensiero della umiliazione a cui costei sarebbe fra poco discesa. Ella in quel mentre non pensava punto ad umiliarsi: la eccitavano due sentimenti: un sentimento di vaga poesia, che la consigliava a soddisfare l'artista, e la bramosia di veder riprodotti i suoi tratti, d'esser testimone dell'ammirazione, che avrebbero eccitato, dipinti maestrevolmente da un artista sì famoso. Poi, ripetiamo, la conquista del Weill-Myot, benchè tentata con tal mezzo, dovea provarle che, mercè la sua bellezza, ella poteva uscire facilmente da' passi più scabrosi.
—Oh, figuratevi,—diceva lo spagnuolo al Weill-Myot e la voce gli tremava,—se Tiziano non avesse trovato una vera patrizia, una gran dama, di forme sì squisite, che stesse dinanzi a lui perchè egli delineasse, colorisse quel quadro, cui danno il nome di Venere! Di rado un pennello di pittore ha reso con toni sì caldi e sì veri, la vita ch'è nel corpo umano, la vita dei pori, dei tessuti…. Non ostante certi lievi difetti, visibili solo a chi ha fatto dell'arte lo studio di tutta la vita, par che quel corpo si muova…. Tiziano avea goduto lo spettacolo della suprema bellezza poderosa, armonica, come è quella della principessa….
Già una gonna bianca, tutta trine, bene insaldata, era caduta fuori del paravento. Il bel fianco robusto vi avea lasciato il suo rilevato contorno.
A un tratto, la principessa uscì dal suo nascondiglio, seria, con un passo di Dea, e andò a porsi sopra una pedana, assai alta, e coperta di raso rosso.
I due uomini gettarono ciascuno una esclamazione.
Quella dell'artista dinotava un imparadisamento, una gioia fina, alta, estetica di tutto il suo essere: quella del Weill-Myot, un'ammirazione feroce e che si era espressa come un ruggito; era lo svegliarsi di tutti gl'istinti più brutali, che avviliscono l'uomo.
La bellezza luminosa, chè tale pareva, della principessa, sembrava irradiasse la stanza.
Il pittore non batteva palpebra: gettava linee: intrideva colori.
Volle, a un certo istante, inginocchiarsele innanzi.
—È la prima volta ch'io vedo, e che adoro la vera bellezza umana…. Comprendo ora meglio gli antichi e i loro capolavori…. La bellezza armonica, perfetta, dovea essere, in un tempo, men rara!—Ritraeva con foga tutti i contorni robusti, e insieme fini, di quel corpo fiorente, in su la tela. Lo meravigliavano certe proporzioni. Il seno così ricolmo, così vigoroso, così in avanti, avrebbe deformato, reso volgare un altro corpo.
Stava benissimo in quel corpo sì maestoso, sì scultorio, di linee sì forti e pur sì schiette, I due be' dischi d'avorio si ergeano con tal forza lor propria e tal ardimento, a così dire, di natura, che il pittore non avrebbe mai osato adeguar tali linee, prima di aver l'idea d'un corpo sì ammirevole. Lo stupiva la sovrana bellezza della gamba, pur sì massiccia tra il fianco e il ginocchio, come si vede in certe grandi statue antiche, persino sotto i panneggiamenti. Era un delirio di bellezza, secondo la frase, che tra sè formava il pittore. Le linee convergevano sì armoniche, il colorito della pelle, tra roseo e bianco era sì vivo, sì venuste le fossette qua e là, sì azzurre le vene, tra la carne copiosa, polita come l'agata, d'un biancore marmoreo. Ella gioiva della follìa d'ammirazione a cui vedea in preda que' due uomini, in ispecie l'artista: nè l'uno, nè l'altro, benchè ricercatori della bellezza, aveano mai visto modello che, pur da lontano, l'agguagliasse. Si compiaceva, provocante, lasciva, in un'ebbrezza che ormai l'avvicinava al delirio, di quell'atto, come una sfida a' pregiudizii, come di una tortura inflitta a que' due uomini, spasimanti, ma che non osavano, per rispetto umano, e per quella specie di terrore che ispira la grande, assoluta bellezza, avvicinarsele.
La assoluta bellezza assomiglia a un prodigio, e, come ogni prodigio, ha una subita virtù di gettare nell'animo ammirato un certo terrore; sentimento che soltanto alcuni fortunati hanno provato: che è profondo, ma non è naturale, durevole.
Il pittore lavorava, lavorava, già avea fissato su la tela tutte le linee principali. Avea qua e là colorito con la prestezza di un uomo di gusto, avvalorato da una foga impetuosa, irresistibile.
Si alzò, a un tratto, come di scatto: ma sembrava pensoso, assorto, fuori di sè. Toccò con ambedue le mani la principessa, affinchè ella mutasse di un poco il suo atteggiarsi. Essa sentì che le mani di lui erano fredde come il ghiaccio. Egli era atterrito da quella superba, smagliante, potentissima bellezza; si sentiva in estasi, come se si fosse trovato di repente fra gli astanti d'un improvviso prodigio naturale. Volle veder il dorso nella robustezza, nella risentita fierezza delle linee; a spiegarci, in una certa solida ampiezza, nella gagliardezza e soavità delle seduzioni, sopravanzava le più stupende fra le statue antiche. Alla fine si vide un quadro; un quadro mezzo abbozzato, ma che avea già un'impronta di nuovo, di originale; un quadro, che già, a guardarlo, facea pensare e palpitare.
Più in là altri segni, altre forme; gli appunti di un pittore; e tutti presi su la venustà di Enrica, in altro senso. Ma il primo quadro, con pochi tocchi, e pochi segni di colore, avea già del meraviglioso.
—Come intitolerete questo quadro?—domandò la principessa.
Il pittore esitò un poco: egli già avea nella mente il suo quadro compiuto; già lo scorgeva in tutti i suoi effetti e si esaltava; quello dovea essere il capolavoro de' suoi capolavori. Lo avrebbe mandato al prossimo salon di Parigi. La Francia intelligente, appassionata, egli n'era sicuro, sarebbe, attratta anche dal suo nome, passata tutta innanzi a tal quadro; avrebbe pensato, sospirato, palpitato innanzi ad esso. Allora la scuola naturalista era nel suo primo sboccio. Egli volea esser classico e naturalista insieme, e qualche cosa di più, come possono gli uomini di genio, che san percorrere i tempi. La bellezza della principessa, sì pura, sì grandiosa, e tanto singolare, era stato il vero alimento, di cui ancor bisognava la sua ispirazione.
—Come intitolerò il mio quadro?—egli domandò, poichè non rispondeva, ma interrogava sè stesso quasi avesse udito una voce nel mezzo di un sogno, tanto tutte le sue facoltà erano eccitate, tanto la sua commovibilità era esasperata. Parve star sopra pensiero un istante; affissò gli occhi di nuovo su la principessa: e pensò, esprimendo con le parole il pensier suo:—Intitolerò il mio quadro: "La Donna Nuda." Sarà la prima battaglia che dà la scuola realista, in mezzo a' pittori accademici…. I pochi realisti, che ora sono di là dall'Alpi,—pensava il Murcillo,—non valgono me: e poi non hanno veduto questa donna!
Accomodati i quadri nudi, postili in luogo sicuro, il pittore uscì: sentiva bisogno di aria: le sue tempia battevano, il sangue gli rifluiva al cuore: vedea la principessa come circonfusa da un nimbo di luce. Con le ultime linee tracciate su la tela, sembravano in lui ammorzati gli entusiasmi dell'artista: si riaccendevano gl'istinti dell'uomo. Temeva di apparire ridicolo innanzi al Weill-Myot, alla principessa. Non potea dimenticare ciò che avea veduto. Il Murcillo fece un cenno al Weill-Myot nell'uscire: voleva dire, tornerò fra un istante. Era uomo bizzarrissimo. Salì su la terrazza del palazzo: si mise a guardare i bellissimi orizzonti di Napoli: il mare, il Vulcano, le amene campagne: e subito il suo animo fu in quiete. Tanto splendore di bellezze volgeva i moti dell'animo suo tutti a una meta sublime. Egli era nato per l'ideale: la contemplazione del bello lo purificava sempre: la principessa, col suo sguaiato sorriso, con la voluttà che le sfavillava dagli occhi, lo aveva un istante affattucchierato.
Quando Io spagnuolo fu uscito, la principessa era già tornata dietro al paravento. L'ebbrezza in lei si dissipava a poco a poco. Ricopriva le sue belle forme, e l'agitava un pensiero maligno: la tentazione, che stava per esercitare sul Weill-Myot: non preparava una scena di seduzione, poichè gli sembrava inutile. Il Weill-Myot non avrebbe mai potuto resisterle. Il banchiere non toglieva lo sguardo dal paravento. A un tratto la principessa fece capolino: la sua testa di baccante si sporgea verso il Weill-Myot. I loro sguardi s'incontrarono: quelli di lei infiammati, tutti ardore, quelli di lui freddi, implacabili. Ella si fece innanzi: non già sì baldanzosa, come d'usato. Le entrava in cuore subitamente la consapevolezza del molto, o del troppo, che avea osato. Ma oramai non poteva ritrarsi. Tutto, la sua stessa disperazione, la spingeva a andar innanzi. Uscì, mezzo vestita, dal nascondiglio. Erano tuttora scoperte le sue braccia, scoperto quasi il seno palpitante. Si avvicinò al Weill-Myot. Egli era impassibile. Avea goduto della sua vista; non volea di più; l'umiliarla, il vendicarsi era, cioè, per lui il massimo piacere in quel momento. Si trovavano in faccia e a poca distanza l'uno dall'altro.
—Ho bisogno di voi,—disse la principessa, guardando di sotto in su.
—In che posso servirvi?—domandò con scherno mal velato l'americano.
—In che cosa potete servirmi? Ma non vedete che in questo istante,—ella replicò con l'abilità d'una astuta cortigiana,—voi siete il mio arbitro? Tocca a voi il far ciò che volete.
—Non v'intendo!
La principessa si sentì di nuovo molto angustiata.
—Sapete la mia rovina?—ella aggiunse con voce esitante.
—No, principessa; da un pezzo non mi occupo de' vostri affari.
—Voi mi avete tanto desiderata!
—È vero, principessa!—ribattè il Weill-Myot molto serio.
—E bene;—continuò, fra cinica e graziosa, la principessa,—io vengo a offrirvi un capitale, che fin ora non avete posseduto….
—E mi domandate in compenso?…—esclamò il Weill-Myot.—So che le donne come voi non s'inducono a tal passo per mera passione: o vi s'inducono in altro modo. S'io vi fossi piaciuto, non me lo avreste detto oggi…. L'avrei capito al primo istante in cui v'ho conosciuta…. Invece, non ebbi da voi, se non ripulse…. Ma parlate, può darsi,—la trattava come una vera cortigiana,—che io sostenga un piccolo sacrifizio…. per un capriccio.—Non poteva umiliarla di più.—Quanto mi domandate,—disse il Weill-Myot, che la teneva ora per una delle sue braccia bianche, morbide, robuste,—a rimediar la vostra rovina?
—Non tutto quello che io valgo,—rispose Enrica con una certa alterezza, poichè credeva averlo soggiogato.—Mi basta un milione!
—Un milione!—replicò il Weill-Myot.—È ben poco… è vero…. dato a una donna che si ama, e per un uomo, che può darlo, senza punto impoverirsi, senza che i suoi affari ne sieno menomamente impediti…. Voi avete già un'idea della mia ricchezza…. Sapete che potrei ben darvi il milione agognato…. Darei invece un milione per vedervi dinanzi a me più umiliata, più avvilita, se è possibile; che non siate adesso…. Sappiate che son io l'autore principale della vostra rovina….
—Voi?
—Io… A quest'ora vostro marito sa della vostra rovina, de' diamanti che gli avete rubato… poichè tale è la parola che conviene alla vostra azione…. Ah, credevate di venir qui, di ammaliarmi, di condurmi come uno dei tanti imbecilli di cui avete fatto le vostre vittime…. Credevate, voi, che una donna napoletana potesse riuscir a burlarsi d'un americano…. Pazza voi foste… non dirò altro….
"Ella è stata buona con me come Paolina Borghese col Canova", pensava in quel momento il gentil pittore spagnuolo, che si affrettava a tornar nello studio, non volendo la principessa partisse senza un suo comiato: e già avea fatto disegno d'offrirle un grazioso ricordo, che ella avrebbe ben potuto accettare.
Le risposte del Weill-Myot avean lasciato la principessa mezzo tramortita: tanto ciò che udiva era lontano da ogni suo pensiero.
—Voi mi avete troppo disprezzato…. E non avete capito, sempre ingenua nella vostra immensa malizia ch'io dovea ardere di uno sfrenato desiderio di vendetta…. Voi non siete abituata a trovar alcuna resistenza: e anch'io sono abituato a veder soddisfatto ogni mio desiderio…. In un urto fra voi e me, uno di noi dovea esser spezzato…. Io, se non avessi saputo attutire la fiamma di voluttà, che mi spingeva verso di voi…. Ma io ho trionfato di me stesso, e aspettava, ormai sicuro, dopo molte trepidanze, anzi paure di me, che voi sareste venuta a chieder mercè…. Noi siamo due creature al di sopra di molte…. Abbiamo doti rare, che ci poteano aiutare ad intenderci…. Ma eravamo entrambi troppo orgogliosi per amarci…. E l'orgoglio è la prima cagione d'ogni infelicità…. Il problema era questo: qual di noi due dovea esser più infelice. È toccato a voi… rassegnatevi. Eccovi l'unico rimedio, ch'io posso suggerirvi.—Le porse una fialettina di cristallo con cerniera d'oro; v'era dentro un liquido azzurrognolo.—Due goccie di questo liquido e tutto sarà finito!—Essa era pallida come una morta: digrignava i denti; non avea mai provato un tale invilimento, non s'era mai trovata tanto abbattuta.—Ripigliate le vostre vesti,—disse con tono altero e sprezzante il Weill-Myot,—fra pochi minuti il Murcillo sarà qui…. Mi meraviglio che già non sia tornato!
La principessa, senza dir verbo, corse a raccorre tutte le sue vesti; in pochi istanti finì d'acconciarsi. A un tratto il Weill-Myot se la vide dinanzi tutta minacciosa. Essa avea preso una pistola carica, dalla guaina in cui era infilata, in un angolo dello studio, e la puntava al petto del Weill-Myot. Questi raccapricciava d'orrore: domandava grazia.
—Vedete che una donna napoletana,—disse la principessa con piglio fra disperato e trionfante,—può ben vincere un…. americano! Ma non temete: io vi farò la grazia, che mi domandate: vi farò grazia della vita: essa dev'essere un giorno per voi il massimo de' tormenti….—E andò, con gran sangue freddo, a rimettere la pistola donde l'avea tolta.—Se con quell'arma alla gola, io vi avessi ora chiesto il milione, forse voi vi sareste trovato costretto a concedere alla violenza ciò che avete rifiutato alla mia irresistibil bellezza…. Irresistibile! Così un tempo io l'ho creduta!—e ruppe in singhiozzi.
Il Weill-Myot era già uscito dallo studio. Ella, inconscia di ciò che faceva, oppressa da un dolore che superava di gran lunga le sue forze, pur s'era fermata dinanzi al quadro di maggior dimensione, testè abbozzato dal pittore e vi contemplava la voluttuosa opulenza delle sue forme. Entrò di repente il Murcillo. Ella si scosse, come richiamata alla realtà. Il pittore le si volse subito con le parole del maggior rispetto, della più esaltata ammirazione.
La pregò di voler accettare un piccolissimo dono: meglio, un ricordo di lui. E le mostrava una testa di giovane greca: una testa ch'egli avea disegnato, colorito, studiando Diana, da lui conosciuta in casa del marchese di Trapani. Era provvidenza, o era un'insidia infernale che, proprio in quel punto supremo, fossero poste sotto gli occhi della principessa le sembianze di Diana, di sua figlia? Ella allontanò da sè con un gesto quella tela: con un gesto di ribrezzo, come se una sì soave, sì leggiadra immagine potesse ispirarle terrore. Nel vederla così nervosa, così confusa e trambasciata, il Murcillo immaginò che ella fosse pentita di ciò che avea fatto: temè volesse distruggere il quadro. Le domandò se provava rammarico di quello che avea compiuto poc'anzi, con termini molto cortesi e ritenuti. Essa si avviava per uscire.
—Ho fatto una cosa enorme!—disse al pittore, e gli passò dinanzi ratta, senza volgersi a salutarlo: uscì, prima ch'egli potesse accorrere ad accompagnarla.
—È pazza! è pazza!—ripeteva fra sè: e così spiegava la stranezza, che vi era stata nella condotta di lei.
Enrica era uscita, tenendo stretta in una mano la fialettina, offertale dal Weill-Myot. Gettatasi nella sua carrozza, dette ordine al cocchiere tornasse al palazzo. Per via incontrò Cristina, che facea cenni al cocchiere. Costui fermò i cavalli. Cristina si avvicinò alla portiera della carrozza. La principessa tirò giù il vetro e si sporse verso di lei per ascoltarla.
—Vostro marito—mormorò Cristina—sa tutto: sa che voi avevate sposato Roberto, che ne aveste una figliuola….
—Chi glielo ha detto?
—Gli ho venduto io il vostro segreto!
Enrica udì quelle parole come in un sogno. Le detter nel cuore soltanto pochi istanti dopo che Cristina l'ebbe pronunziate: quasi ne riudisse un'eco maligna. Cercò Cristina: essa si era dileguata. Non le mancava altro colpo: nulla in brevi ore le era stato risparmiato.
—A casa!—disse di nuovo al cocchiere con un tal tuono di voce ch'egli si domandò:
—Ma che può avere?… O sta per divenir pazza, o è malata!
Il cocchiere era poco rispettoso, ma imbroccava nel segno. Enrica era già pazza e malata. Salì in fretta le scale del palazzo, passò accanto ai servitori come un turbine, senza rispondere ai loro saluti: e entrò nelle sue stanze.
Sentì stringersele il cuore nel traversar que' salotti ove avea ricevuto tante adorazioni, ove avea sentito mormorare attorno a sè tante dichiarazioni d'amore, ove avea ricevuto tanti fiori, tanti omaggi. Erano tutti adorni di ricordi della sua vita: qua e là un oggetto brillava, mandava faville a' raggi del sole; le sembrava che ella rivedesse quelle mura, quei mobili, tutti que' ricordi per l'ultima volta. Gettò sopra un sofà il suo cappello, i suoi guanti: e sedette a una piccola scrivania di ebano: i gomiti su la scrivania, le mani su le guancie, gli occhi immoti, guardando dinanzi a sè, ma senza veder nulla…. Volea raccogliere, con uno sforzo supremo, il pensiero che fuggiva dalla sua mente; volea scrivere una lettera. Un servitore bussava alla porta del salotto attiguo a quello in cui ella si trovava.
—Entrate!—ella disse, sebbene ciò le recasse grave disturbo.—Un signore domanda di parlare a Vostra Eccellenza.
—Chi è?—Le presentò il vassoio d'argento su cui era un biglietto di visita. Ella lesse:—Ingegnere Amoretti.—Ah, appunto lui!—ella pensò.—In questo estremo momento giunge opportuno. Fatelo passare nella sala grande…. fra pochi minuti sarò da lui.—Volea restare un po' sola. Con le idee tumultuanti tornava su ciò che avea fatto. Il suo addio al mondo non era triste: ella avea lasciato un artista inebriato della sua bellezza: gli avea dato ispirazione per un capolavoro: il suo corpo vivrebbe all'ammirazione.
Sollevò la sua bella persona dalla sedia. Guardò contro luce la fialetta datale dal Weill-Myot; scosse il capo; pareva non le andasse a genio. Corse a uno stipo, prese un'altra fialetta, in cui era un liquido più chiaro, e la trangugiò senza riflettere un istante.
Andò nella sala ove avea fatto passar l'Amoretti. Egli era un po' all'oscuro. Lo salutò: si sedette; egli la vide, con gli occhi sfavillanti, il volto accesissimo; e sedutasi, avea posto una gamba accavallata su l'altra. Era la creatura provocante, sensuale, che Roberto avea sempre conosciuto: la creatura per lui irresistibile, dominatrice.
Entrando nella sala, la principessa non avea veduto un uomo nascosto dietro una portiera di raso paonazzo, con ricami d'oro, sebbene gli fosse passata d'accanto, lo avesse quasi toccato con la sua veste.
—Signora—le disse l'Amoretti, assai a bassa voce—io dovevo incontrarvi nella casa di una certa Cristina….
—Una canaglia!—interruppe la principessa.—Una bassissima canaglia!
Roberto si era trattenuto a lungo col principe: a poco a poco i loro animi s'erano acquietati; era sorta fra loro una mutua simpatia; l'uno e l'altro, animi nobilissimi, aveano avuto a comune una sventura: quella di amare una donna che li avea resi, l'uno e l'altro, sì profondamente infelici. Roberto avea raccontato al principe, a filo a filo, tutta la sua storia; gli avea detto sin della figliuola nata da Enrica: e come ella vivesse.
La notizia della nascita di costei, del modo onde ella era stata rapita, il saper che era Diana, diventata rivale della propria madre, che le disputava anche il fidanzato, commossero più volte il principe sino alle lacrime.
Aveano fissato tra loro che Roberto parlerebbe a Enrica, mentre il principe si sarebbe tenuto nascosto in modo da udir ogni loro dialogo. Egli voleva l'estrema prova: non era ancor vinta al tutto la sua incertezza. Roberto si assentava pure un istante e correva a prender Diana, che avean lasciato allora allora negli appartamenti del principe.
—Principessa,—disse l'Amoretti con tuono di voce più alto,—io ho conosciuto un uomo da voi molto amato.
—Lo so,—replicava la principessa.
Nulla vi era in lei di strano: sembrava calmissima: e soltanto a
Roberto pareva che lo guardasse come se volesse affascinarlo.
—Egli è morto molto rassegnato, e benedicendovi per quello che gli avevate fatto soffrire.
La principessa si era alzata, mormorando:
—La voce…. la voce….—Avea preso per mano l'Amoretti, l'avea condotto di slancio presso la finestra: lo guardava e lo riguardava:—Il volto—disse—non è quello…. ma…. tu…. Ti riconosco alla voce…. e l'avrei riconosciuta fra mille…. sei Roberto…. Roberto, Roberto!—E se gli gettava al collo, si avvinghiava a lui.—Non mi parlare…. non imprecare…. non mi rimproverare…. non mi accusare… so che fui un mostro…. so che ho meritato da te i più atroci tormenti…. so che fui infame, traditrice…. abiettissima…. ma non mi dir nulla…. vieni là, là su quel divano…. lascia ch'io ti dia una prova suprema del mio amore…. prima che il mio cuore abbia cessato di battere…. Ti dedico gli ultimi, i più preziosi istanti della mia vita…. Voglio morire con un tuo bacio su le labbra…. Infine, tu sei il primo, l'unico uomo ch'io ho veramente amato….. Tu mi hai fatto conoscere il piacere…. tu mi hai perduta…. Prendimi adesso… sono sacra…. nessun altro mi avrà dopo di te….
Figurarsi il principe, che non poteva e non voleva ancora uscir dal suo nascondiglio. Egli la teneva per pazza in tal punto, e pazza la credette anche Roberto a quel parlare sconnesso. Lo trascinava verso il divano, e lo baciava.
Roberto sentiva riavvampare l'antica passione: si doleva sinceramente in tal punto d'aver consentito a far assistere il principe al suo abboccamento. Ora Enrica gli si abbandonava tutta su un braccio, come già in altro tempo. Ma, fortunatamente, egli ebbe subito onta di sè: gli tornarono altri pensieri: il pensiero della figlia, che era lì, a pochi passi da lui.
—Oh? tu vorresti ancor sedurmi,—disse Roberto inorridito, respingendo da sè Enrica, che cadde, o piombò, a dir meglio, sul divano.—Creatura perfida slealissima: vero demonio, che hai saputo avvelenare, distruggere tutta un'esistenza…. Tu mi hai accusato, calunniato, disonorato, condannato all'infamia, alle pene più inesorabili: e mi avevi condannato per tutta la vita: non è tuo merito, se ho rivisto la luce…. Tu avevi già saputo la mia morte, e te n'eri rallegrata…. lo so, lo so da Cristina….
—Perdona…. perdona, mio Roberto!—sclamava Enrica, tutta smaniante, e tendea le braccia verso di lui.
—Tu mi nascondesti perfino che mi avevi reso padre…. E avevi affidato a mani mercenarie la nostra creatura…. E ti rallegrasti anche per lei, quando sapesti ch'era morta….
—Questo no…. questo poi no…. ti giuro di no….
—Ma t'ingannarono…. non era morta…. Cristina l'aveva venduta….
—Eh,—gridò la principessa, facendo uno sforzo per sollevare la sua bella persona, e credendo subito a un inganno di Cristina.
—O l'aveva venduta o altri l'aveva rapita all'ubriaco, cui ella l'affidava….
—Dov'è ora questa cara creatura?—chiese singhiozzando la principessa.—Fa' ch'io la veda…. ch'io la veda….
Ella rotolò sul tappeto; vi rimase irrigidita.
Il principe accorse al fianco di Roberto; la rialzarono; essa già perdeva ogni forza.
—Mia figlia…. mia figlia,—esclamava,—voglio vedere mia figlia…. Oh, il mio animo non mi aveva dunque ingannato…. Ho nutrito, un tempo, per lei sì grande affezione!—Parlava lenta, con frasi rotte da singhiozzi, la persona agitata da un tremito.—Mi sono avvelenata!—disse con terribile risolutezza.—Mi rimangono pochi istanti da vivere…. Ogni rimedio è inutile…. La vita sarebbe un supplizio….
Nè Roberto nè il principe credevano a ciò che diceva.
—È una delle sue solite menzogne,—mormorò il principe con durezza.—Ma questa volta preparatevi a morire…. tutti gli stratagemmi saranno vani…. morirete…. per mia mano!
—No!—gridò Roberto,—non morirà.
—E chi m'impedirà di attuare il mio pensiero?…
—Io…. io, che la difenderò!
I due uomini stavano per scagliarsi l'un contro l'altro, divenir di nuovo implacabili nemici.
Una schiuma sanguigna uscì dalla bocca di Enrica: ella stralunava gli occhi. Il suo pallore era cadaverico.
—Mia figlia…. mia figlia,—tornò a esclamare.—Oh, se avessi saputo che avevo una figlia, non mi sarebbe accaduto nulla di ciò che m'è accaduto…. e che ora espio!
—Vi farò veder Diana,—disse Roberto concitatissimo;—ma, ad un patto, che essa non debba sapere che voi siete sua madre….
Con un cenno del capo assentì.
Roberto volò a prender Diana e tornò in pochi istanti. Già l'avea avvisata che la principessa stava per morire, e voleva riconciliarsi con lei.
Diana entrò, si gettò in ginocchio dinanzi alla principessa e le baciò una mano. Essa era già tutta contraffatta.
—Caro angiolo!—mormorò, e volle far uno sforzo per baciarla in fronte.
Mentr'era rimasta sola col marito, non avea detto verbo. Al cospetto di Diana prese una mano di Roberto e una del principe con le sue e bisbigliò:—Perdonatemi!—E guardando negli occhi i due uomini, dette un grido straziante e ricadde, poichè niuno pensava a sorreggerla. La sua agonia durò alcuni minuti. Un raggio di sole era venuto a posarsi sulla sua testa; e rendea orrido il pallore, spaventosa la contrazione della fisonomia.
Il principe stava immobile, come una statua, quasi fosse privo d'ogni sentimento; Diana piangeva a dirotto; due grosse lacrime rigavano le guancie di Roberto. Egli era il solo al mondo nel cui cuore fosse rimasto un palpito d'affetto per quella creatura.
In tale ora il Weill-Myot, chiamato a sè il suo primo commesso, gli ordinava:
—Si facciano rimettere valori per due milioni a Hooker e Cocker in
Australia…. intendo partecipare alla loro impresa.
—Con due milioni?… Ma è un'impresa rischiosa….
—E che m'importa di rischi?… Se si perdono due milioni noi non moriremo. Non lo credete?
Il commesso s'inchinò: andò ad eseguir gli ordini.
Pochi mesi dopo, Diana sposava il Venosa. Furon felici ed ebbero molti figli, com'è scritto in fine a certe novelle.
Diana, ricevuta l'eredità delle ricche parenti del marchese, la donava a lui: sebbene, dopo la spiegazione ch'egli avea avuto con Roberto, ella non consentisse a veder più l'uomo che avea sì ignobilmente speculato su di essa.
Marco Alboni sposò la grassa contessina: si ritirò in Sicilia, in un piccolo Comune di campagna, ove è consultato, rispettato, ha in chiesa la sua panca con il suo nome: visse anni: poi morì, già che è destino che tutti moiano, anche i bricconi più fortunati.
Il principe, lasciato Napoli, si recò a Parigi, e invecchiò in una vita di dissolutezze.
Qualche anno dopo la morte della principessa, Cristina, stringendosi al suo cacciatore, che avea sposato, gli diceva, mentre parlavano della loro antica padrona:
—Gliel'avevo detto che doveva esser mia vittima, che volevo vendicarmi di lei…. Ti ricordi, quando le feci pagare il nostro viaggio, che fu quasi una luna di miele?… Ma essa meritava un castigo: avea troppo tradito: e noi ci amiamo, non è vero, e ci ameremo sempre, per esser più felici….
Roberto avea consentito di vivere con Diana e il Venosa. Ma passava il più del tempo, anche nel cuor dell'inverno, solitario in una villa del Venosa. Andava spesso nella cappella di Mondrone, di cui i campi e lo splendido parco erano stati venduti ad altri proprietari, e ripensava al giorno in cui v'era entrato per sposare Enrica innanzi al vecchio abate. E spesso se ne andava su la tomba di lei: e si dicea melanconico:
—Non sono stato avventurato, ma è l'unica donna ch'io abbia amata: l'unica, che abbia fatto battere il mio cuore…. Essa mi rammenta le più cocenti sofferenze, i più grandi martirii: ma mi rammenta altresì le sole giornate d'amore, che abbiano illuminato la mia vita!
E sino a che visse tenne fede a questo amore sciagurato, ma inestinguibile. Allorchè, nel supremo momento della sua dipartita dal mondo, la figlia lo assisteva, egli, riguardando or Diana, ora un ritratto della principessa, a lui vicino, memore della virtù dell'immenso sagrifizio da lui compiuto, mormorava, quasi in un'estasi ineffabile:
—Ho amato! ho amato!—E il suo gran cuore si spezzava in un ultimo impeto d'affetto, nella appassionata concitazione delle rimembranze.
Nuove Pubblicazioni.
=Bonghi= (R.) Questioni del giorno L. 2 —
=Castelnuovo= (E.). In balìa del vento, due racconti 3 50
=Cordelia=. Per vendetta, romanzo 3 50
=D'Annunzio= (Gabriele). Poema Paradisiaco e Odi Navali 4 —
=Ferrara= (Pasquale). Tra maghi e fate. Un volume in-8 con 42 illustrazioni di P. Scopetta 2 —
=Graf= (Arturo). Dopo il tramonto, poesie 4 —
La vita italiana nel Rinascimento. Conferenze di Ernesto Masi,
Giuseppe Giacosa, Guido Biagi, Isidoro Del Lungo, Guido Mazzoni,
Enrico Nencioni, Pio Rajna, Felice Tocco, Diego Martelli, Vernon Lee,
Enrico Panzacchi, Pompeo Molmenti 6 —
=Mantegazza= (P.). Fisiologia della Donna. Due volumi 8 —
=Mario= (Jessie White). Vita di Garibaldi. Due volumi 2 —
=Marradi= (Gio.). Ricordi Lirici, con proemio di E. Panzacchi 4 —
=Negri= (Ada). Fatalità, poesie. 4.^a edizione (edizione bijou) 4 —
=Perodi= (Emma). Suor Ludovica, racconto 3 50
=Petrocchi= (P.). In casa e fuori, libro d'istruzione e d'educazione.
Un volume in-8 di 210 pagine con 206 incisioni 2 —
=Reynaudi=. Paolo Mantegazza, note biografiche, con ritratto 2 —
=Serao= (Matilde). Il Romanzo della fanciulla. Nuova edizione economica.
Un volume in-16 di 344 pagine 2 —
=Tanfani= (Achille). Il paese delle sterline 3 50
=Verga= (G.). Storia di una Capinera (edizione bijou) 3 —
=Zola= (E). Vita d'Artista (L'oeuvre). 312 pag. in-8 con 28 inc. 4 —
1º MAGGIO
DI
EDMONDO DE AMICIS
Trionfo della Morte
ROMANZO
DI
Gabriele D'Annunzio
LA BARAONDA
romanzo di
GEROLAMO ROVETTA
DON CANDELORO e C.
DI
G. VERGA
RICORDI DI SPAGNA
E
dell'America Spagnuola
DI
Paolo Mantegazza
Le Pellegrine
DI
Remigio Zena
Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, in Milano.