Title: Tempesta e bonaccia: Romanzo senza eroi
Author: marchesa Colombi
Release date: March 3, 2006 [eBook #17907]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano at http://www.braidense.it/dire.html)
Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the
Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano at http://www.braidense.it/dire.html)
MILANO
LIBRERIA EDITRICE G. BRIGOLA
Corso Vittorio Emanuele, 26
1877
Proprietà letteraria.
Tipografia Sociale—S. Radegonda 6.
+—————————————————————-+ | | | | | | | | | AVV. MASSICO GUISCARDI | | | | | | | | Milano, Piazza del Duomo, N. 10. | | | | | +—————————————————————-+
+—————————————————————-+ | | | | | | | | | I LETTORI | | | | | | | | In hac lacrymarum valle. | | | | | +—————————————————————-+
Ed ora, signori lettori, che ci siamo reciprocamente presentati scambiandoci le carte da visita, come si usa tra le persone ammodo quando non hanno la fortuna di potersi vedere, tiro via colla mia storia.
Non vanto illustri avi, nè sono figlio di paltonieri. Appartengo all'umile classe dei borghesi. Non sono nè ricco nè povero. Ho trent'anni.
Quattro anni sono mi accesi d'una grande passione; feci le debite pazzie, e poichè le donne sogliono misurare e compensare l'amore a seconda delle pazzie che fa fare, fui, come di ragione, riamato. E per quella volta la donna mia non prese abbaglio, dacchè io l'amassi davvero con un trasporto che non avevo mai conosciuto prima.
Napoleone III o non so chi altri, pronunciò una parola meritamente celebre: «Quanto dura l'eternità in Francia?» Se il plagio non deprezzasse la mia trovata, sono certo che diverrei altrettanto famoso dicendo: «Quanto dura l'eternità in amore?»
Rinuncio alla celebrità ma non al motto: «Quanto dura l'eternità in amore?»
Ahimè! In tutta buona fede avrei accettato allora di passare la vita senza un'altra gioia, nè un altro affetto, nè un altro interesse, nè un'altra ambizione, fuorchè l'amore di quella donna. Non mi credevo suscettibile di altro sentimento. Al confronto di quell'attrazione potente, irresistibile, gli altri sentimenti mi sembravano meschine convenzioni sociali.
Alcuni amici s'avventurarono a dirmi:
—Massimo, non pensi che è sleale corteggiare la moglie d'un altro, e, peggio, d'un amico? La tua coscienza non ripugna dallo stringere sorridendo la mano d'un uomo che tradisci?
È la frase consacrata. Ed io meravigliavo tra me, come le menti di quegli amici miei mancassero di elevatezza per non potersi scindere da meschini pregiudizî sociali, ed innalzarsi con me nelle sublimi regioni della passione. Sì; la mia donna era vincolata ad un altro. Ad un egoista che si era permesso di farla sua, senza prevedere che io l'avrei amata. Ad un tiranno, che persisteva ad essere suo marito malgrado il nostro reciproco amore. Animo volgare, incapace di eroismo, che non aveva nemmanco la generosità di sopprimersi per la felicità d'un amico.
E nondimeno mi si accusava. Non si comprendeva che la mia colpa, se pur colpa è possibile in una grande passione, era crudelmente espiata dal pensiero che quell'uomo si permetteva di chiamar sua la donna mia, di darle del tu, d'amarla, e forse financo di aspirare al di lei amore. Oh, quell'uomo! Io l'odiavo per le ore di tortura che m'imponeva; per le notti che mi faceva vegliare tra gli spasimi della gelosia; per il sacrifizio cui mi assoggettavo ogni giorno di frequentare la sua casa, di parlargli amichevolmente, di simulare colla donna amata una freddezza che non avevo nel cuore, di tollerare. che egli le parlasse con una famigliarità oltraggiosa. Oh! quando stringevo sorridendo la mano d'Ernesto, nonchè sleale, mi sentivo grande e generoso: perchè l'odiavo, perchè avrei voluto ucciderlo; e me gli mostravo amico, e rispettavo la sua esistenza, per non compromettere la donna mia.
Così pensavo allora, ed ero in buona fede, lo giuro.
Su quell'incendio passarono tre anni; e passarono le scene di gelosia, sempre più rade da parte mia, sempre più frequenti da parte di lei; e passarono i rimproveri che mi spesseggiavano sopra per ogni nonnulla.
Dopo tre anni e qualche mese cominciai ad accorgermi che
l'osservazione de' miei amici non era punto volgare, nè ingiusta.
Infatti come non ne avevo compreso prima la moralità incontestabile?
Come avevo potuto stringere sorridendo la mano d'un uomo che tradivo?
Ma certo il mio cuore doveva aver ripugnato all'atto sleale. Certo doveva aver fatto pressione sulla mia coscienza per amore della donna mia; per farle il sacrificio de' miei principî… Deve essere un amore ben grande quello che giunge fino ad immolare le cose più sacre, fin l'onore. E dopo tutto ciò ella spingeva l'ingratitudine fino a farmi dei rimproveri… Oh! le donne! E codesto esclamavo inorridito da tanto egoismo.
Stavo sotto l'incubo di quel legittimo orrore. Ed intanto la mia delicatezza cominciava a trovare ogni giorno più penosa l'idea di tradire un amico ne' suoi più cari affetti.
Una sera andai al teatro Carcano. Vi cantava una artista esordiente, giovane, simpatica.
La sera seguente il Carcano era chiuso. Il direttore dell'orchestra mi offerse di presentarmi a lei. Ero così triste, che proprio non desideravo far conoscenze; ma per compiacere il mio vecchio amico, andai con lui dall'artista all'Albergo Milano.
Trovai che la giovane signora conversava con un giornalista mio amico.
Era Giorgio Albani.
Il vecchio professore si ritirò alle nove. Io, giovane, non potevo ritirarmi così presto; sarebbe stato scortesia verso la signorina; era quanto dirle che la sua compagnia non mi tornava gradita.
Mentre io, sempre egualmente sollecito della salute del mio vecchio amico, lo accompagnavo—sino in capo alla scala,—la signorina disse a Giorgio:
—E quel signore che non ha preso il cappello e non m'ha salutata? Non se ne va?
—Perchè? Le dispiace? domandò Giorgio.
—Un poco; ha una cert'aria inquisitoria; quando mi guarda mi sembra di un'autopsia morale.
—Come s'inganna! È così sbadato, e così buono; quando lo conoscerà meglio, sono certo che le piacerà.
—Può darsi; ma intanto mi annoia; volevo fare una passeggiata, ma con quel signore non oso; mi dà soggezione.
—Massimo!? esclamò Giorgio ridendo.—Ma le giuro che egli non aspira punto a destare questo sentimento nelle signore…
In quella rientrai. Giorgio mi disse:
—Massimo, la signorina mi diceva che desidera fare una passeggiata; ma ha soggezione di te.
Egli diceva questo in aria di tanta ammirazione… si sarebbe detto che facesse un merito a sè stesso della timidezza di quella signora.
Giorgio sapeva ch'io non amo in generale le artiste. La libertà delle loro maniere mi dà uggia. Ed ora sembrava dirmi: Vedi che Fulvia non si emancipa; e, per essere artista, non cessa d'essere una signora?
Io contavo proprio quella sera di gettare colla mia presenza un raggio di felicità sull'esistenza della donna mia… Ma all'udire il desiderio dell'artista… esordiente, giovane, simpatica,—dovetti rassegnarmi, per delicatezza, a mettermi in terzo con lei e con Giorgio in quella passeggiata.—Ritirarmi sarebbe stato esternare il sospetto ch'essi stessero meglio soli… un uomo delicato non offende così gratuitamente una donna. Così, invece di tergere le lagrime della mia bella marchesa, mi rassegnai a sopportare il sorriso inesauribile di quella spensierata giovane. Ella scherzava su tutto. Pareva una cicala, nata solo per cantare.
Io, che avevo tanto amato i languidi sguardi, gli atteggiamenti melanconici della donna mia, sempre avvolta in una nube di tristezza, trovavo insoffribile il cinguettìo di quella nuova venuta.
Ciarlando un po' di tutto, ella venne a dire di essere stata raccomandata alla marchesa Vittoria Prandi; era la donna dei miei pensieri. E Vittoria, cortese e generosa, era corsa a vedere la giovane raccomandata nella sua camera dell'Albergo Milano.
Ora dunque Fulvia desiderava passare la sua prossima sera di riposo al circolo della marchesa, per ringraziarla della sua cortesia. Pregò qualcuno di noi a volerla accompagnare. Con che gioia colsi quell'occasione di vedere la donna mia!
Anche Giorgio Albani si offerse di fare da cavaliere alla giovane artista; ma egli non frequentava la casa di Vittoria; la conosceva poco; io invece ero intimo della famiglia; lo persuasi che era più conveniente che Fulvia vi si presentasse con me, e con me solo.
Ella rimase indifferente a codesta discussione, ed interpellata rispose:
—Per me, purchè vi sia qualcuno che m'accompagni, sia l'uno sia l'altro, mi fa egualmente piacere.
Facemmo una lunga passeggiata. Fulvia fu allegra, gentile, spiritosa, ma serbò sempre un certo imbarazzo riguardo a me. Quando mi parlava, evitava di guardarmi, e non accompagnava il discorso col menomo gesto.
Si occupava ad abbottonarsi o sbottonarsi i guanti, a cogliere una foglia ed a ripiegarla in tutti i sensi, e seguiva cogli occhi l'atto della mano, quasi fosse più intenta a quello che a quanto diceva.
I tratti di spirito che intercalava al discorso, i frizzi con cui presentava in caricatura una persona o una cosa, detti così senza importanza e poco accentuati, acquistavano un carattere più umoristico e sorprendevano di più.
Quando l'avemmo ricondotta all'albergo, Giorgio mi ripetè quanto ella aveva detto a riguardo mio, mentre accompagnavo il mio vecchio amico sulle scale.
—Ebbene, dissi, domani a sera non verrò. Non voglio privarla del piacere d'esser sola con te.
Egli non rispose. Era delicatissimo, prudente, pieno d'onore. Forse gli dispiacque il sospetto sottinteso in quella mia risposta, e non volle nondimeno ribatterlo per non impegnare una discussione che poteva far torto ad una signora ch'egli stimava. Parlammo d'altro e parlammo poco.
Io amavo sinceramente Giorgio, che era un nobile cuore, un amico leale. Pensai a lungo a quella parola amara che gli avevo detta; ed a quando a quando ripensai alla antipatia della giovane artista per me.
Prima che giungesse la sera del giorno seguente, mi persuasi che, a rimediare all'offesa che le avevo fatta, ed al dispiacere che avevo dato a Giorgio, era necessario che passassi ancora quella sera con loro. Andai a vedere Fulvia nel suo camerino in teatro; Giorgio mi vi raggiunse, e tornammo all'Albergo Milano insieme.
Fulvia aveva cantato quella sera con tanta grazia e tanta passione, che il pubblico l'aveva accolta con entusiastici applausi. Nel camerino s'erano affollate le visite a complimentarla. Io l'avevo ascoltata da un palco di proscenio, ed amantissimo della musica, ero stato profondamente commosso dalla sua voce; dimenticai le parole poco lusinghiere per me che ella avea dette ad Albani e, nella sincerità dell'animo, le dissi porgendole la mano:
—Signora Fulvia, ella mi ha strappato le lagrime.
—Le ho vedute, mi rispose: e mi strinse la mano cordialmente, e da quel momento fummo amici.
Il domani Fulvia non cantava, ed io accompagnai la giovane artista in casa Prandi a passarvi la serata. La società era poco numerosa. Vittoria accolse la sua raccomandata colla solita affabilità, e mi parve che si riuscissero simpatiche a vicenda. Ciarlarono all'amichevole un po' di tutto; Fulvia saltando di palo in frasca, trattando le cose con frivolezza mista d'un zinzino di sarcasmo, ed esprimendo certe idee arrischiate che facevano restare gli ascoltanti a bocca aperta. La marchesa seria, melanconica, ragionevole.
Io certo preferivo il nobile buon senso della donna mia; ma così, da osservatore, notai che la conversazione di Fulvia riusciva più piacevole.
La marchesa mi guardava col suo occhio profondo pieno d'amore; i lunghi sguardi ch'ella mi volgeva tradivano la più viva passione.
Io ne ero certo lusingato e felice; ma non avrei voluto per nulla al mondo che Fulvia si accorgesse che io… cioè che la marchesa aveva il cuore preoccupato. E però le ricordai che quando volesse ritirarsi, ero a' suoi ordini.
Ella si trattenne sino alle dieci soltanto. Mentre uscivamo. Vittoria mi strinse la mano e mi susurrò:
—Tornate?
Io le risposi con un cenno affermativo; ma nella mia alta prudenza avevo già deciso che non tornerei. Fulvia poteva aver concepito qualche sospetto, ed io sentivo di doverla persuadere, pel decoro della donna mia, che il mio cuore… cioè che il cuore di Vittoria era completamente libero. E però, rientrato con Fulvia all'Albergo Milano, posai il cappello coll'aria tranquilla d'un uomo cui nulla fa premura, deciso a trattenermi.
Vittoria avrebbe dovuto essermi riconoscente di quel sacrifizio fatto al suo decoro.
La giovane mi guardò un momento con meraviglia, quasi aspettando che mi congedassi. Io sedetti accanto alla sua tavola, e mi posi a sfogliare un albo. Ella allora mi offerse un sigaro, e si pose a sedere dall'altro lato del tavolino.
Per verità, benchè non ci mettessi interessamento di sorta, il tempo mi passò veloce tenendo dietro alle matte scorribande di quel cervellino per le vie più torte della fantasia.
Quel poco che sapeva del mondo lo presentava in modo affatto nuovo; aveva il dono di sorprendere sempre. Quando la lasciai erano le undici, e dovetti confessare a me stesso che uno spirito elegante e sereno, per chi non avesse come me un'altra passione, può piacere non meno che un'immaginazione vaporosa e sentimentale.
Certo, Giorgio Albani, col suo cuore entusiasta correva pericolo di perdere la pace, frequentando quella giovane. Compresi che, a preservare l'amico mio da una passione che potrebbe costargli delle amarezze, era mio dovere condividere con lui la compagnia dell'artista; e, quando uno di noi dovesse rimanere solo con lei, era meglio che restassi io, che nel mio impegno con Vittoria aveva una salvaguardia.
Il giorno dopo cominciai, coll'eroismo dell'amicizia, a passare tutte le mìe ore di libertà presso Fulvia.
Giorgio era sempre con noi; veniva insieme e partivamo insieme. Egli le lanciava sguardi appassionati; la circondava d'ogni maniera di premure; e quando parlava con lei aveva persino un'altra voce; trovava delle note profonde di petto che non avevo mai conosciute nella sua scala vocale.
Un giorno, uscendo da pranzo con un amico, incontrai Fulvia tutta sola che camminava a passi accelerati in via del Monte Napoleone dirigendosi verso il Corso. Presentai l'amico a lei, lei all'amico, e dalla presentazione emerse, sempre nuovo come la Fenice della favola, il famoso complimento:
—Ho tanto piacere di fare la sua conoscenza, col rispettivo:—Il piacere è tutto mio.
Ma per verità, se vi fu momento in cui Fulvia non mi diede grande idea del suo spirito, fu quello; tanto più che, nel pronunciare quel supremo dei luoghi comuni, la vidi arrossire come una collegiale.
—Qui c'è del torbido, pensai; e quindi le chiesi dove fosse diretta.
—Dalla signora Melli, mi rispose, e continuava ad arrossire.
Io avevo tutta la stima di quella giovane, ma non ero tanto ottimista da attribuire quel rossore e quella subita paralisi del suo spirito alla soggezione che poteva inspirarle uno sconosciuto. E però, non per curiosità, nè per interesse mio proprio, ma per l'interesse di Giorgio che evidentemente l'amava, volli accertarmi se realmente andasse dalla signora Melli, o se vi fosse qualche mistero di mezzo.
Lasciai ch'ella voltasse l'angolo del Corso, e quindi congedatomi dall'amico le tenni dietro.
La signora Melli abitava una delle case del corso Venezia, tra la via Monte Napoleone e la chiesa di San Carlo. Appostandomi nel caffè dell'Europa, che è in faccia alla chiesa, avrei potuto vedere uscire Fulvia dopo la sua visita, se realmente era diretta dove aveva asserito.
Ma mentre passavo dinanzi alla casa in questione per dirigermi al caffè, ecco Fulvia che usciva dalla porta.
Ella mise la più lusinghiera delle esclamazioni al vedermi.
Quella rapida uscita non era entrata per nulla nelle mie previsioni; vidi che era lieta d'incontrarmi ancora.
—La civettuola!—cominciai a recriminare internamente—gioisce di trovarmi qui. Si figura che la stia aspettando pei suoi begli occhi. Come sono vane le donne!
La signora Melli non era in casa. Proposi a Fulvia di fare una passeggiata. Ella accettò, e risalendo il Corso ci dirigemmo verso Porta Venezia.
Non so come avvenisse, che, durante quella passeggiata, ci trovammo a parlare d'amore, a teorizzarvi intorno, a fare della metafisica sentimentale. Certo fu lei a mettere il discorso su tale argomento. Le donne non sanno parlar d'altro.
Per pura cortesia io dovetti secondarla, ed in breve c'ingolfammo in uno di quei laberinti di ragionamenti da cui non c'è filo d'Arianna che ci tragga.
Mi sarebbe impossibile dire da che punto partimmo, e dove ci condusse la discussione, sebbene ne abbia in mente molte parole e persino il suono della voce di Fulvia nell'atto che le pronunciava; ma l'ordine mi sfuggì; forse perchè il discorso non ne aveva.
Si parlava d'incostanza. Fulvia mi disse:
—Convenga che noi abbiamo creato questa parola, e l'abbiamo schierata tra le colpe nel codice dell'amore, mentre non è che un fatto naturale. Forse l'amore è un episodio tempestoso; non altro. Due persone s'incontrano; dopo un tempo più o meno lungo s'accorgono d'amarsi; se lo dicono; sono felici di quel sentimento: ma quello stato d'esaltazione non dura, e, cessata l'esaltazione, è cessato l'amore. La costanza, che si traduce in quell'affetto lemme lemme, da cui sono avvinti gli sposi, è un portato della civiltà, e ne abbiamo bisogno per la tutela della prole. Ma in natura non esiste. Ed infatti vediamo che tutti gli animali si amano per un dato periodo di tempo poi diventano stranieri gli uni agli altri.
Disse tutto ciò con molta serietà; ma quando io volli rispondere per combattere codeste idee, esclamò:
—Mio Dio, come siamo ridicoli a voler ragionare sul sentimento, e definirlo! Ognuno lo prova in un modo speciale ed agisce in conseguenza.
E rise del suo discorso, e sopratutto non poteva perdonarsi d'aver detto tutela della prole, e d'aver paragonato l'amore degli uomini, che per lei era tutto idealismo, a quello degli animali inferiori.
—Come tutto questo è volgare e brutale! diceva. Subordinare la passione al calcolo preventivo dei bisogni della società! Profanazione! dov'è il Cristo che scacci i mercanti dal tempio? Il sentimento è l'essenza divina che il soffio di Dio ha infuso nell'uomo. Accettiamolo com'è.
—Tutto questo mi prova, le risposi con un'enfasi di cui allora non mi rendevo ragione, che per ora lei non è innamorata. L'amore ha leggi fatali che tutti siamo costretti a subire. Ammetto che possa finire, anzi in tesi generale è certo che finisce. Ma nessun innamorato ha il coraggio di dirlo e neppur di pensarlo. Mai, sempre, sono parole che si legano inevitabilmente all'amore. L'idea che quegli sguardi che c'inondano di dolcezza non si rivolgeranno più sopra di noi, che quella mano tanto eloquente pel nostro cuore non stringerà più la nostra mano, che fra noi e quell'essere, che è parte di noi, che è anzi tutta la nostra vita, debbano frapporsi il tempo e lo spazio, ci mette spavento; sentiamo di preferire la morte; e nel giorno dell'amore nessuno comprende la vita fuori e dopo di esso.
Io parlavo coll'eloquenza della convinzione, che è pure la chiave del successo. E nondimeno ella si aggrappava sempre più alla sua strana teoria, ed io non potei rimovernela d'un punto.
L'entusiasmo con cui dipingeva il suo episodio tempestoso, mi faceva sentire sempre più, non per me, ma per l'amico mio, che certo amava Fulvia, il bisogno che quell'amore fosse durevole.
Fulvia mostrava troppa potenza d'amore e di sacrifizio, perchè quelle idee fossero inerenti al suo carattere. L'amore in lei doveva, una volta nato, assorbire tutto il suo essere, sovrapporsi ad ogni interesse, ad ogni considerazione, non colla sfrontatezza che calpesta le leggi, ma colla nobile abnegazione che persiste, e vince.
Credetti comprendere che circostanze speciali non le permettessero la speranza d'un amore più completo, ed ella si adoperasse ad idealizzare quel poco che le veniva concesso, tanto per rapire la sua fugace scintilla al fuoco celeste.
Ma quali fossero queste circostanze, non mi riesciva d'immaginarlo.
Un'artista giovane, libera, corteggiata, perchè non potrebbe amare? perchè non potrebbe vagheggiare di unirsi per sempre all'uomo amato? Forse un punto nero nel suo passato non le permetteva di abusare della fede d'un uomo d'onore!
Ma tutto in lei si opponeva a questo sospetto.
Da tutti i suoi atti, da tutte le parole traspariva la confidente lealtà della donna onesta.
Tuttavia, per l'interessamento che m'inspirava l'amico mio, sentivo il bisogno di scrutare più profondamente l'animo di Fulvia.
—Giorgio è innamorato di lei, nevvero? le domandai senza altri preamboli.
—Non mi ha mai detto questo.
—Non l'ha detto, ma l'ha fatto comprendere.
—Non so. Io non mi occupo d'indovinare sciarade.
—Sia sincera, Fulvia, mi dica la verità. Crede che Giorgio l'ami?
—Non posso dirle ch'io lo creda propriamente; ma certo se non mi amasse, sarebbe un gran commediante.
—Dimostra di amarla molto dunque?
—Prende tutte le apparenze d'un sentimento profondo e represso.
—Represso?
—Certo. Represso.
—Non le disse mai una parola d'amore?
—Mai.
—Non le piace Giorgio?
—Sì; mi era simpatico, e la sua voce mi risuonava possentemente in cuore.
—E poi?
—Cosa vuole! io ho una iettatura. Mi piacciono gli amori da romanzo. Vorrei che l'amore fosse così anche nella realtà. Ed invece è tutt'altro. E quando mi pare di scontrarmi in una passione come quelle che si leggono, è come una goccia di mercurio; mi sfugge mentre sto per afferrarla.
—Io non sono forte nello stile figurato, e forse non la comprendo, osservai. Ma è certo che Giorgio non mi sembra punto inclinato a fare con lei la goccia di mercurio.
—Eppure, prima che il sogno si facesse realtà, è passato un soffio di vento, ed ha rovesciato l'idolo dal piedestallo.
—Così, domandai con involontaria acrimonia, lei ha avuto per Giorgio il quarto d'ora di idolatria?
—Con che tuono lo dice?
—Con che tuono? Non sono le sue parole? Non ha detto che si crea un idolo? E che quell'idolo cade ben presto dal suo piedestallo?
—Sì, ho detto codesto, ed è vero. Ma ebbi torto di dirglielo. Io le apro schiettamente il mio animo, come se fossimo vecchi amici. Le spiego un fenomeno che accade a me, che nasce forse da una eccessiva delicatezza di sentimento, e che ad ogni modo apporta conseguenze penose, per me, come per altri; e lei mi risponde con un'ironia che sente il rimprovero. Ci ho colpa io se sono fatta così?
Ella mi volse quell'apostrofe con una voce in cui strisciava l'accento allentato del disinganno che sembra volgersi indietro, e staccarsi con pena da una credenza passata; il suo cuore aveva sofferto della mia ironia, e nelle sue parole mi pareva di sentire gocciolare le lagrime che respingeva dagli occhi.
Confesso che non mi ero mai conosciuto prima d'allora tanta equità di sentimento e tanta facoltà di compunzione. Neppure nelle rimembranze azzurre della mia prima confessione, trovavo nulla di simile al sincero pentimento, al profondo dolore che mi strinse il cuore al pensiero di aver offeso il mio prossimo nella persona di Fulvia.
Curvai come una parentesi la mia lunga persona per mettere la mia testa al livello di quella di lei, e le dissi, con intima convinzione:
—Oh! perdoni, signora Fulvia, lo giuro sull'anima mia che non ho voluto offenderla; dica, mi perdona?
Ella mi stese la mano senza parlare, e volle sorridermi per supplire alla parola; ma le sue labbra tremavano in quel momento, ed i suoi occhi mi apparvero natanti in uno strato cristallino… Povero cuore di donna, tenero, generoso! Fulvia era commossa; ed io! Ah, non sapevo che desse tanto rimorso l'offendere il prossimo. Ripregai quel prossimo gentile di perdonarmi: e che me lo dimostrasse continuando quel discorso interrotto: ero così felice di quelle confidenze e così dolente di averle demeritate: ma no, non le avevo demeritate; ella non lo credeva. No? Ebbene, perchè non proseguiva? Perchè non voleva dirmi come era svanito in lei quel nascente amore per Giorgio?…
Un sorriso, una stretta di mano… ed il prossimo clemente continuava così:
—Si ricorda la festa da ballo di martedì? Io, senza esser punto innamorata di Giorgio, avevo avuto la debolezza di farmi bella per lui. Mi pareva che mi amasse come vorrei essere amata io, per una leggerezza di cui mi vergogno, desideravo di sentirmelo dire colla sua voce appassionata. Giorgio m'invitò a danzare, e mi fece danzare davvero. Ma quando mi strinse al suo cuore, e forse la parola d'amore stava per sfuggirgli dal labbro, quell'abbraccio mi lasciò fredda. Egli lo sentì, e tacque.
—Ma perchè? Cosa le aveva fatto?
—Nulla: si ricorda che lei mi aveva chiesto il primo ballo per star seduti vicini, a veder le tolette? Allora Giorgio andò ad invitare un'altra signora, e volle spiegare ai miei occhi tutte le sue grazie. Mio Dio! Non l'avesse mai fatto! Non ha mai osservato come è ridicolo un uomo serio nella danza? E per colmo di sciagura, ballava bene! Che orrore! Era così volgare, così volgare… mi fece un'impressione terribile… Mi fece ridere.
—Ma è una follia. Potrà cancellarsi quell'impressione. Giorgio non ballerà più, e sarà tutto dimenticato.
—No. Da quel giorno quel principio di simpatia svanì. Giorgio ha sentito il contraccolpo della mia freddezza. Egli è cortese sempre, ma è tutto mutato per me. Però siamo sempre buoni amici.
—Ah! lei è una fanciulla terribile, Fulvia. Povero Giorgio! Povero
Giorgio! Egli che va superbo di ballar così bene!
Mi accorsi che accompagnavo quest'esclamazione col più giocondo riso. Ne rimasi atterrito. E pensai: Amerei forse questa pazza giovane che respinge da sè un nobile cuore, come un cencio, perchè l'uomo che glielo consacra balla troppo bene?
Quando stavamo per entrare in città, le dissi:
—Lei è una donna molto simpatica, ma molto strana.
Ella non mi rispose. Rientrati in casa, ci sedemmo come la sera innanzi, ai due lati del tavolino.
Riepilogavamo in brevi frasi interrotte i discorsi fatti. Mi ricordo di averle detto:
—Io compiango quel povero giovane che s'innamorerà di una donnina tanto capricciosa.
—Non lo compianga—mi rispose Fulvia con una profonda nota di petto che non aveva mai fatto vibrare fin allora, neppure in teatro.—Non lo compianga, perchè io credo di saper amare come poche donne sanno.
In quel momento Fulvia era bella d'entusiasmo e di passione.
—Per otto giorni? le dissi; e veramente anche la mia voce non aveva più il suono di prima.
Oh! gioventù, gioventù!
Prima che Fulvia avesse tempo a rispondere, l'uscio si aperse, ed entrò Giorgio con alcuni amici.
Giorgio era pallidissimo; aveva l'occhio spento; una nube di tristezza pareva velargli la fronte; i suoi atti erano lenti, la sua voce fioca. Disse: «Buona sera, Fulvia» come avrebbe detto «Requiescat in pace.» Lo trovai molto ridicolo. Gli gridai alla mia volta «Buona sera, Giorgio!» come avrei gridato «Viva l'Italia!»
E traversata la sala andai a piantarmi dinanzi allo specchio con un sorriso di soddisfazione. Non ero un uomo serio, ed avevo la convinzione di ballare orribilmente male. Per la prima volta compresi la portata di codeste mie grazie.
Quando mi ritirai nella mia camera e mi coricai, invocai invano il sonno ed il riposo. Il bernoccolo della morale aveva preso in me uno sviluppo straordinario. Ero profondamente pentito d'aver potuto oltraggiare Ernesto ne' suoi affetti coniugali; un momento di delirio mi aveva trascinato, mio malgrado, a tradire l'amicizia; quel momento era durato quattro anni… Sono fenomeni strani, ma che pure accadono. Giosuè non ha fermato il sole? Ma veramente io sentivo repugnanza a quella vita di inganni; provavo il bisogno di rientrare nella legalità. La profonda riconoscenza che serbavo a Vittoria pel suo amore (non si trattava già più del mio) non m'impediva di osservare la tranquillità con cui ella mentiva al marito alla mia presenza. Certo ella si prestava ad un'odiosa commedia; certo ne soffriva; ma tuttavia con che arte vi si prestava! E come sapeva nascondere le sue ripugnanze! Oh! una donna che mente dinanzi all'uomo che ama, non può farlo che a danno di quello stesso amore per cui si avvilisce fino alla menzogna. Io ero stato ben generoso a superare il disgusto che m'inspirava quell'ipocrisia sorridente; avevo spinto la clemenza fino a non avvedermene affatto; ma ormai mi era caduta la benda. Il mio onore, il decoro e la pace di Vittoria, l'amicizia di Ernesto m'imponevano di rompere quella relazione colpevole. Ed a coronare tutto codesto capitolo di morale rivoltato in tutti i sensi, veniva sempre come un ritornello la riflessione: «Fulvia è una cara ed onesta giovane, ed io ballo assai male.»
Verso le quattro del mattino, stanco di avvoltolarmi nel letto, e stanco di quelle idee sempre le stesse, che cominciavano a diventar noiose, mi alzai, e mi posi a scrivere alla marchesa quelle mie riflessioni, ed a persuaderla ch'era necessario separarci per sempre.
Per quanto io stesso riconosca i miei torti, e sappia punirmene col sarcasmo, posso dirlo a fronte alta, io non sono cattivo. Avevo amata Vittoria con tutta l'anima; la passione mi aveva trascinato per un pendìo fatale e colpevole.
Le gelosie, gli ostacoli, l'acre sapore del frutto proibito e, più che tutto, il bisogno d'amare del mio cuore giovane ed ardente, avevano prolungato per quattro anni quell'accecamento passionato, che in una natura più fredda, in una mente più calcolatrice, e però più egoista, sarebbe cessato dopo pochi giorni. Quando conobbi Fulvia, un nuovo amore, ed un amore puro, legittimo, pieno di speranze e di sorrisi, che poteva fare la felicità di due cuori, senza frangere altri cuori, senza ledere nè l'onore nè l'amicizia, senza dare rimorsi nè a me nè ad altri, aveva cominciato a balenare alla mia mente come cosa che riguardasse Giorgio. Così lo avevo compreso, apprezzato. A poco a poco, senza ch'io stesso me ne rendessi conto, quella luce pura aveva albeggiato sul mio proprio orizzonte, mi aveva presentato la vita passata e la futura sotto un nuovo aspetto. Allora vidi l'errore che la passione mi aveva celato. Considerai me stesso e gli altri, sperai di potermi togliere a quella falsa posizione attingendo in un amore innocente la forza di strapparmi a' vincoli, a cui tuttavia mi legavano le memorie, le abitudini, la riconoscenza. Se avessi preso quella risoluzione senza l'aiuto ed il conforto d'un nuovo affetto, sarei stato più eroico. Io non fui che un uomo d'onore; accettai la forza piovutami in cuore senza demandarle da qual parte venisse; avevo trent'anni, ed avevo sostenute per quattro anni con fede e costanza le tempeste d'un amore clandestino; chi potrebbe farmi una colpa d'aver accolto nel mio pensiero la speranza d'un amore giovane ed ardente come il mio cuore?
Tuttavia non fu senza lagrime che tracciai quella lettera che doveva frapporsi, barriera eterna, fra me e Vittoria.
Il mio cuore è buono; sentii il suo dolore, ne presi la mia parte. Dinanzi alla crisi tremenda della separazione, tutti i trasporti si ridestarono in me. La bella figura piangente di Vittoria grandeggiò ai miei occhi di tutta la nobiltà della sventura; tutti gl'istinti generosi dell'anima mia mi riportarono verso di lei; dimenticai la lieta artista che non aveva avuto ancora per me nè un palpito nè una lagrima.
Se la donna mia fosse stata libera, quel salutare ritorno su me stesso mi avrebbe ricondotto a lei per sempre; ed a lei, a lei sola, avrei domandato ed offerto, nella serena dolcezza d'un amore senza colpa, l'obblio dei nostri torti, dei nostri rimorsi. Un istante gettai la penna e volli correre a lei, ma l'incanto omai era sciolto; e non mi era più possibile di calpestare l'onore e l'amicizia che si frapponevano fra noi. Se prima, cieco ed impetuoso, meritavo perdono, ora ipocrita e consciamente colpevole, avrei meritato disprezzo.
Ripresi la lettera incominciata, ed ebbi il coraggio crudele di compierla; e quando l'ebbi fatta consegnare a Vittoria, mi sentii migliore. Ella mi rispose un biglietto rassegnato e melanconico in cui mi domandava di continuare a frequentare la sua casa per salvare le apparenze, per evitare i commenti. Nella gioia come nel dolore gli amori colpevoli impongono la finzione ed il calcolo.
Per tutto quel giorno non vidi Fulvia. Omai non era più possibile l'illusione. Non per convenienza, non per vegliare alla felicità di Giorgio, ma per me, per la mia propria felicità io mi sentivo attratto verso quella strana giovane; il suo sguardo, la sua voce, la lealtà del suo cuore avevano gettato nel mio i germi dell'amore. Lo sentivo nascere in me, ed un terrore inconscio mi avvertiva di fuggirla. Tuttavia questa risoluzione non era ben determinata, e mentre andavo vagando dalla Galleria al caffè Martini, e di là ai Giardini pubblici, trovando le ore lunghe ed il giorno eterno, non volendo più tornare all'Albergo Milano, dicevo fra me:
«Che mi dirà quando la rivedrò? Si lagnerà della mia assenza?»
E continuavo a ripetere queste parole:
«Quanto tempo che non vi vedo, Max!» e studiavo in esse l'intonazione della sua voce. Dove e quando mi avrebbe salutato così, dacchè non dovevo più vederla?
Non ne sapevo nulla, ma udivo quelle parole, e mi scendevano al cuore; e le ripetevo con tale insistenza che ne ero sbalordito, ed il capo mi pesava come dopo un'emicrania.
Il giorno seguente, alle undici del mattino, stavo in piedi al caffè Martini dalla parte di via Manzoni. Il mio famoso: «Quanto tempo che non vi vedo, Max!» cominciava a farsi scolorito, e, malgrado tutti gli sforzi della mia immaginazione, non mi riesciva più di riprodurre, nel pronunciare quella frase, l'impressione di dolcezza che mi aveva fatta provare il giorno innanzi. Avevo vegliato tutta notte su quel pensiero. Lo avevo completamente esaurito, e con esso la mia energia, l'immaginazione, e la potenza d'amare. Ero annoiato; mi trovavo puerile d'aver fantasticato come uno scolaro dietro un sogno d'amore; i miei scrupoli a proposito di Vittoria mi sembravano ridicoli; insomma l'uomo raffazzonato dalle abitudini sociali si sostituiva in me all'uomo della natura, in quell'atmosfera del caffè Martini. Guardavo giù giù in via S. Giuseppe l'andirivieni di belle signore in toletta da mattina, di bei giovanotti che le adocchiavano; e sbadigliavo ad intervalli misurati, quando udii una vocina graziosa esclamare:
—Oh! il signor Guiscardi!
Era Fulvia accompagnata da Giorgio che andava alla prova dell'opera.
Io mi affrettai a salutarla, ed ella mi disse:
—Come va che ieri non l'ho veduto tutto il giorno?
Nulla dell'intonazione misteriosa e melanconica della frase ch'io sognavo. Ed infatti, perchè mi avrebbe detto Max? Non me l'aveva mai detto. E dove aveva preso io l'idea ch'ella mi amasse tanto da esclamare quanto tempo! dopo un giorno? È vero ch'io non aveva stabilito l'epoca del nostro incontro; ma è altresì vero che mi giungeva già in ritardo.
Fulvia mi rivedeva con evidente piacere; ma era lieta e serena come all'usato.
—Credevo che mi amasse, ma non è vero, pensai. E questa contrarietà mi ridonò tutto l'ardore giovanile del giorno innanzi; e quella frase scolorita riprese tutte le sue attrattive; ed avrei dato l'anima mia per sentirmi dire da Fulvia:
—Quanto tempo che non vi vedo, Max!
Il mio proponimento di fuggire la giovane artista fu completamente dimenticato. Era evidente che non l'avevo preso se non per provare quanto le rincrescerebbe la mia lontananza. Ma poichè non produceva nessun effetto, era necessario ch'io mi facessi amare abbastanza, perchè un'altra volta avesse a desiderarmi. Questa argomentazione naturalmente non la formulai nè colle parole, nè col pensiero; ma mi sentii irresistibilmente trascinato a ravvicinarmi a Fulvia, e da quel giorno le consacrai tutte le ore, tutt'i momenti che la mia professione mi lasciava liberi.
E rivissero in me i poetici entusiasmi della prima giovinezza, e le timide peritanze e gl'impeti inconsiderati ed i terrori puerili, e l'eterno dubbio e l'eterna speranza.
Con lei sciolsi il riso romoroso della fanciullezza; e mi abbandonai alle vergini emozioni dei primi affetti. Tutto il mondo era rinverdito intorno a me, ed io col mondo.
Nè mai parola esplicita d'amore era corsa tra noi, nè mai ci eravamo trovati a lungo da soli dopo quella sera. Altri amici erano sempre con noi e tutti la corteggiavano, e parecchi nutrivano evidentemente per lei vero affetto, e speravano. Ed io li trovavo sommamente impertinenti, ed era offeso che Fulvia non se ne mostrasse oltraggiata. Ed io pure l'amavo, e speravo, e non mi credevo impertinente, nè avrei trovato ragionevole che Fulvia considerasse codesto un oltraggio.
Tutti insieme facevamo lunghe scorribande per le nostre prosaiche campagne lombarde; e talora la mesta Vittoria era con noi; e Fulvia le cingeva la vita, e lungo i campi monotoni passeggiavano abbracciate e parevano la statua del dolore stretta a quella della gioia, il compendio della vita umana.
In tali giorni io non corteggiavo Fulvia, per non offrire alla marchesa uno spettacolo doloroso; e di codesta abnegazione mi sentivo eroico.
Ma allora i miei amici le stavano intorno e le dicevano mille cose galanti, e le davano margheritine a sfogliare per vedere chi di noi l'amasse più; ed io mi sentiva molto infelice.
Un giorno ella si fermò ritta in un prato con un fascio di codesti fiori e li diede a reggere ad un bel giovane che le stava al fianco. Poi andò man mano prendendo le margherite, e ad ognuna dava il nome d'uno di noi, poi la sfogliava dicendo: «mi ama, poco, molto, di cuore, alla follìa, mi burla.»
E codesto fece per gli uomini come per le donne ch'erano con noi, e ad ogni oracolo erano esclamazioni e risa e commenti.
Quando disse il mio nome, io che me ne stavo a due passi con Vittoria, tesi l'orecchio, e sentii battermi il cuore ed accelerarsi il respiro, come se si agitasse una quistione vitale. Sull'ultima fogliolina, cadde la parola «mi burla.»
—Oh mi burla! esclamò, è una impertinenza! Perchè potesse burlarmi bisognerebbe ch'io l'amassi.
Quelle parole gettate al vento, con un lieto riso, mi suonarono al cuore come una sentenza di morte—Bisognerebbe ch'io l'amassi. Dunque non mi amava? Sperava ch'ella si volgesse a riferirmi la crudele risposta del fiore per combatterne la calunnia; ma l'allegra signora passò tosto ad un altro nome, e da quello ad un altro, senza pensarvi più che tanto; ed io odiai e maledissi tutti quelli di cui il fiore asseriva che amavano Fulvia molto, di cuore, alla follìa.
Che mi disse Vittoria in quel frattempo? Che le risposi? Si avvide della mia agitazione? Mi trovò crudele? O ridicolo? Non ne so nulla; non vi pensai punto. Dimenticai lei ed il mondo; rimasi solo col mio amore. Oh gioventù, gioventù!
Ed i giorni correvano veloci, ed io correva con loro a capo fitto in quella vertiginosa tempesta del cuore; dramma palpitante che si agita nell'intimo del nostro essere, celato al di fuori dalle frivolezze e dai sorrisi.
Fulvia teneva sulla tavola un albo, ed io vi avevo già scritto e riscritto il mio amore in versi ed in prosa. E tuttavia nè io credevo averglielo rivelato, nè ella averlo compreso. Perchè prima e dopo della mia parola che partiva dall'anima, erano altre parole che sa Iddio d'onde venissero. Tutti scrivevano su quell'albo, ed io lo presi in orrore.
Una sera vidi sulla sua tavola tra i fogli di musica, gli albums, i mazzolini di fiori, i libri, i lavori all'uncinetto, che l'ingombravano, un pezzettino di carta su cui, non so chi, aveva scritto parecchie volte Fulvia Zorra. Per tutto il tempo che rimasi tenni quel pezzetto di carta tra le mani, lo piegai in quadrato, in triangolo, ne feci una barchetta, un cappello da carabiniere, un imbuto, e tante altre cose sciocche; e di volta in volta prima di ripiegarlo guardavo Fulvia, poi leggevo il suo nome, poi tornavo a guardarla, e mi pareva di esprimere qualche cosa che ella dovesse comprendere. Quando si fece tardi, e stavamo per congedarci, io e tutti gli altri che eravamo a far la corte a Fulvia, ridistesi accuratamente quel cencetto di carta, e sotto il nome della giovane scrissi in caratteri microscopici Massimo Guiscardi. Poi le misi dinanzi quel documento e le dissi con un'aria da oracolo: «Guardi.»
—Ebbene, non vedo nulla! mi rispose.
—Qui, legga; e le accennavo quei due nomi vicini vicini, coll'aria che doveva avere la sfinge nel proporre i suoi problemi.
Ella guardò bene e poi disse:
—Io non vedo che il suo nome.
E le pareva nulla! E non era commossa! Il mio nome sotto il suo; un idillio, un romanzo, un poema un avvenire, una vita… Ella non comprendeva la poesia di quel ravvicinamento. La trovai stupida, e spingendo la carta sulla tavola con disprezzo le dissi:
—Non capisce mai nulla lei!
Allora ella capì il senso ch'io dava a quel gioco di parole. Si fece rossa come una vampa, e l'occhio le brillò di gioia, e guardò quella carta coll'angosciosa passione con cui si guarda addietro un'occasione che fugge… Ma non disse una parola di più. Comprese che l'aggrapparsi così ad una dichiarazione mancata sarebbe goffo, ed il suo spirito elegante preferì un rimprovero ed una grande abnegazione, all'essere un momento solo ridicola a' miei occhi. Io vidi e compresi tutto ciò, e l'amai doppiamente per quella finezza di tatto.
Sovente uscendo dal teatro dopo lo spettacolo giungevo in tempo ad offrire il braccio a Fulvia prima de' miei amici.—Ed allora la tenevo stretta stretta come cosa mia, e camminavo a fronte alta come un conquistatore, e meravigliavo che i passeggeri non mi facessero tutti di cappello, e leggevo l'ammirazione mista d'un po' d'invidia su tutti i volti. È ben vero che a tarda sera poco si distinguono i volti, e meno le passioni che esprimono: ma che non vede un occhio innamorato?
V'erano momenti in cui tenendola serrata così, e combinandosi i nostri passi come un solo passo, e tacendo entrambi quasi per muto accordo, mi pareva che pensassimo e sentissimo insieme, ed ella si fondesse in me, ed io in lei, e facessimo un solo essere.—E me la immedesimavo per modo, che finivo per dubitare della sua presenza reale, e credermi solo sognando di lei. Allora provavo il bisogno di accertarmi della sua esistenza. Nè volevo parlare per non rompere l'incanto: e mi passavo la sinistra mano dietro il dorso, e colla punta delle dita sfiorava il gomito del suo braccio che posava sul mio. Se aveva le maniche serrate ai polsi, le mie dita non incontravano che la stoffa dell'abito, ed ella non s'avvedeva di nulla. Ma più spesso aveva maniche svolazzanti, ed allora sentivo un gomito fresco e liscio, e non sapevo staccarmene, e mi prendevano vertigini pel dispetto di non poterci arrivare che colla punta delle dita. Ed allora Fulvia spaventata si voltava, poi alla sua volta portava dietro la mano destra per accertarsi che non aveva una bestia sul gomito. Sono certo che pensava ad una bestia, ed aveva paura.
Io lasciava che si tranquillasse, poi ripetevo il gioco, e la poverina diveniva pensosa ed inquieta.
Una volta ebbe come un'idea, un sospetto del vero, perchè la vidi cercare collo sguardo la mia mano sinistra. Ma questa era tornata già a carezzarmi il mento, ed ella tornò daccapo ad impensierirsi.
E codesto perchè, malgrado tanta tempesta di giovanile amore che si agitava in me, io la corteggiavo evidentemente meno de' miei amici; e per una certa convinzione che avevo d'inspirare le stesse inquietudini, gli stessi trasporti che provavo, non assumevo nessun'aria sentimentale; ero sempre allegro, e questo mi faceva sembrare indifferente.
Come dunque Fulvia avrebbe potuto credere che un giovane che non la corteggiava, nè faceva l'innamorato, cadesse in simili ragazzate? Io però ero spesso indispettito di quella sua mancanza di penetrazione, e pensavo: «Com'è sciocca! non sa indovinarmi.» Ma altre volte il suo imbarazzo e le sue tacite paure mi divertivano assai.
Un uomo costretto a sciupare man mano il suo patrimonio, prevede che giunto in fondo rimarrà denudato e povero, e la vita gli sarà penosa. E però va vendendo alla spicciolata i piccoli capitali, e le cedolette, e le gioie di famiglia, e lascia per ultimo il fondo più vasto che forma la base delle sue sostanze; e su quello mette ipoteche sopra ipoteche, prima di decidersi a venderlo, perchè pensa che dopo quello non avrà più nulla….
Così è di me, lettori. Sto liquidando l'aureo capitale delle memorie, e mi appiglio ai piccoli fatti, ai particolari, alle sensazioni mute; e tremo di por mano al grande avvenimento che forma la base del mio romanzo, delle mie gioie, perchè sento che con quello avrò esaurito il tesoro delle dolci ricordanze; mi resterà il dolore, la prosa…. poi l'isolamento, la miseria del cuore.
Ma anch'io ho tanto preso a prestito sul quel mio capitale, che omai i lettori potrebbero rapirmene il segreto mettendone insieme le bricciole sparse. Tanto vale adunque ch'io prenda il mio coraggio a due mani e dia dentro a grandi colpi di penna a distruggere quei poveri e cari avanzi della mia fortuna passata.
Era la sera d'una domenica. Fulvia non doveva cantare, ed era rimasta in casa. Giorgio, un altro amico ed io passavamo la sera con lei. La via Manzoni brulicava di folla elegante. «Usciamo sul terrazzo a vedere le signore che tornano dal Corso» disse Fulvia. Ed uscì. Io me le posi a destra, l'altro signore a sinistra. Il resto del terrazzo era ingombro di fiori. Giorgio rimase dietro a lei.
Egli era sempre melanconico anche quando scherzava, e scherzava molto per nascondere la sua pena. Si dissero amenità, si fece sfoggio di spirito a spese dei signori e delle dame eleganti che passavano nella via, si rise molto. Ed intanto si fece buio buio e la folla s'andò diradando. E colla folla e colla luce scomparve la vivacità del nostro spirito. La mia voce aveva ripresa quella nota profonda che aveva avuta già l'ultima volta che m'ero trovato solo con Fulvia; ed ella pure parlava con quell'altra nota di petto che, fin da quel giorno, aveva fatto riscontro alla mia.
Per appoggiarsi al terrazzo ella aveva conserte le braccia, e la sua mano sinistra rimaneva pendente sotto il gomito destro, e la destra sotto il sinistro. Io aveva preso la stessa posizione, sicchè la mia mano destra e la sua sinistra erano vicine, e la mia carezzava senza posa la sua, che non si ritirava punto, e riceveva passiva le mie carezze.
Ad un tratto, dopo averlo lasciato sino allora in piedi dietro a noi,
Fulvia fu presa da un'improvvisa pietà per Giorgio.
—Ed il povero Albani, esclamò, che se ne sta dietro tutto solo! Facciamogli un po' di posto. E così dicendo si strinse, non presso il suo vicino a sinistra, ma presso me, e, certo per fare che le braccia occupassero meno spazio, passò il suo nel mio e mi si serrò daccanto.
In quel momento il mio cuore prese a battere con tal violenza, che me ne echeggiavano i sussulti alla gola ed alle tempia. Premevo il braccio di Fulvia con sì vivo trasporto, che certo ella dovette sentire i miei palpiti. E la mia mano continuava a premere la sua.
Oh! tutta la mia vita per un'ora come quella! Le nostre persone aderivano, e le mani erano congiunte, e la mia testa sovrastava alla sua, ed il mio alito cadeva sui suoi capelli. Ella non mi guardava ed io non guardavo lei. Tutti e due avevamo gli occhi intenti giù nella via, dove non vedevamo nulla. Dicevamo cose insensate cogli altri amici, e si faceva un gran ridere.
Ma Fulvia ed io ridevamo non di allegria, di gioia; perchè omai una fase nuova era cominciata per noi; perchè sentivamo d'amarci e d'esserci rivelato a vicenda il nostro amore. Le nostre mani si stringevano con passione, si isolavano dalla conversazione, parlavano tra loro, si davano del tu. Quella di Fulvia diceva:
—Non più misteri fra noi, nè peritanze; io so che mi ami, e ti amo.
E la mia rispondeva:
—Sì, cara; ti amo con tutta l'anima, e sono felice.
Ed oasi inebrianti mi balenavano allo sguardo, e mi pareva ad ogni istante che gli altri due dovessero scomparire, e noi rimanere soli; soli in faccia l'uno all'altra; e guardarci finalmente, e cercarci negli occhi e sulle labbra tutto quanto ci eravamo detti colle strette delle nostre mani, e dirci: È vero.
Poi m'indispettivo che i miei amici si frapponessero tra me e lei; tra noi ed il nostro amore. Eravamo sempre appoggiati al balcone. Un momento pensai:
—Se l'inferriata del balcone cadesse, e li trascinasse con sè!
E, traendo meco la giovane che mi dava il braccio, mi rizzai per lasciarli cader soli. Oh, l'egoismo dell'amore!
Ma il terrazzo non cadde, nè i miei buoni amici con esso. Il tempo passava, ed io non pensava punto punto a spiccarmi di là. Ivi era la felicità; non avrei osato fare un movimento per timore di metterla in fuga. Fulvia mi strinse la mano ancora una volta, poi sciolse il suo braccio dal mio, e rientrò nella camera; i miei amici la seguirono.
Io rimasi immobile; e mi parve ch'ella fosse già troppo fredda, per aver saputo strapparsi spontaneamente a quella suprema gioia.
Un momento prima sentiva che quella donna mi amava; l'avrei giurato pel cielo e per la terra. Ed ora, a due passi di distanza, rinascevano tutte le mie dubbiezze. E pensavo:
—Forse quello ch'io credetti lo slancio irresistibile della passione, non fu che un atto di civetteria. Forse l'avrebbe fatto con un altro come lo fece con me. Infine una stretta di mano non può avere che un valore relativo. Ogni giorno ella stringe la mano a tutti i suoi conoscenti… Fui uno sciocco a lusingarmi per una stretta di mano… Oh! una stretta di mano! Furono molte strette, e furtive! È ben altra cosa. No; senza un grande e prepotente amore, una donna non può far violenza al proprio ritegno fino a stringere furtivamente la mano d'un giovane, che non sa ancora se l'ami. È bensì vero ch'ella doveva saperlo. E tuttavia ecco che se ne va via con indifferenza, e parla e scherza con Giorgio; forse in questo momento stringe la mano a lui come l'ha stretta a me… Oh, le artiste! Chi può mai dire se un'artista è una donna come un'altra? Chi sa? Forse è un'avventuriera; forse ha già avuto dieci amanti… Ed io me ne stavo innamorando! Eh via! Fu un'aberrazione, uno scherzo; ne riderò per un pezzo. E rientrai perchè la commozione mi serrava la gola; se fossi rimasto solo avrei pianto.
I miei amici stavano congedandosi da Fulvia.
—Domani, ella diceva, non riceverò nessuno sino alle quattro; perchè voglio studiare, e loro mi fanno perdere tutto il mio tempo.
—Dunque verremo alle quattro, disse Giorgio.
Io pure le porsi la mano in atto di saluto, e, trattenendo la sua, domandai:
—Ed io, a che ora debbo venire?
Comprese ella l'impertinenza di quella domanda, che rilevava a tutti che io mi credeva in diritto di aspirare ad una preferenza? Comprese ella, che agivo con lei, artista, come non avrei mai agito con nessun'altra signora? Comprese che, stupido e vile, la insultavo senza ragione?
Forse lo comprese, e lo perdonò al mio amore, inasprito dalla presenza altrui, che mi strozzava in gola la suprema parola; o forse il suo animo eletto non sospettò neppure la viltà del mio pensiero, e, sentendosi superiore ad ogni insulto, non pensò che altri l'insultasse. E non interpretò nella mia domanda, che il desiderio di vederla più presto, e la speranza d'essere distinto dagli altri. Ella rispose:
—Venga alle quattro.
Ma le sue parole soltanto dicevano così; e la sua voce invece, e la sua mano che premeva la mia, rispondeva:
—Vedi bene che non posso dirti, presente altri, di venir prima; ma vieni presto, perchè ti amo.
Fulvia, cara donna del mio cuore, hai tu udita dalla tua stanza solitaria la mia voce commossa mandarti un canto? Era il canto del pentimento, era una preghiera di perdono ch'io volgeva alla lealtà dell'anima tua. E tu mi perdonasti; ed io stesso mi perdonai, perchè, se il primo pensiero avvezzo a prendere norma ne' suoi giudizi dalle convenzioni sociali ha potuto insultarti, il mio cuore ti amava, Fulvia; ti amava col caldo trasporto d'una passione che poteva guardare senza spavento e senza rimorsi il domani e l'avvenire; ti amava di quell'amore impetuoso e vero, e che a tutto sovrasta e tutto purifica.
Per lunghe ore m'aggirai nelle contrade buie e silenziose adiacenti all'Albergo Milano, mandando alla notte ed a lei canti d'amore.
Il mio cuore nuotava in un'onda di dolcezze, aspirava soavemente la delizia di sentirsi amato. Ma il mio pensiero irrequieto precorreva con impazienza il domani; preparava il primo incontro ed il correr muto delle nostre braccia a stringerci l'uno all'altra, e l'irrompere delle ferventi parole, per tanta ora frenate in quella sera.
Passai una notte agitatissima, tormentato da ardenti fantasie. Mi pareva che all'alba volerei da Fulvia.—Ma colla luce venne la ragione, e vidi l'assurdità di comparire alle sei del mattino in casa di una signora, senza averne l'ombra di un diritto.
Il sonno mi opprimeva, ed il mio capo, affaticato da quella veglia affannosa, aveva bisogno di riposo. Nascosi il volto nel guanciale, e, dopo una breve lotta co' laboriosi pensieri che mi si agitavano, sebbene affievoliti, nella mente, il sonno la vinse.
Mi risvegliai alle dieci, cogli occhi riposati e la mente tranquilla. Tuttavia ero ancora un po' assonnato, e dinanzi a quella prepotente esigenza fisica tacque l'impazienza del desiderio morale, e sonnecchiai fino alle dieci e mezzo.
Ma tra il sonno e la veglia, l'immagine della donna amata mi tornò al pensiero, e si fece a grado a grado più viva, sicchè l'ansia di rivederla e di sentir dal suo labbro che mi amava, e di dirglielo, mi si riaccese ardentissima in cuore. Mi levai, ed alle undici mi fermavo alla sua porta, anelante pel battito accelerato del cuore.—Giungevo trionfante e sicuro come un conquistatore; ma all'atto d'entrare fui imbarazzato del mio contegno; compresi che tutte le scene che mi ero figurate nella notte erano assurde; che in realtà non avevo nessuna ragione seria di credermi amato; che sotto pena di ridicolo, non potevo presentarmi che precisamente come mi ero presentato tutti gli altri giorni.
Pensai anche una scusa per giustificare quella visita mattutina; e so d'averla trovata; ma non me ne valsi, e la dimenticai completamente.
Fulvia stava studiando, e faceva sul pianoforte una scala cromatica. La porto profondamente scolpita nella memoria, e mi è impossibile di ripensare a quel giorno senza che quella scala cromatica mi risuoni all'orecchio.
Bussai alla porta, ed il suono cessò.—La voce di Fulvia disse: «Avanti!» Non era punto commossa. Certo credeva che fosse un cameriere dell'albergo.
Ella, naturalmente, non soleva alzarsi da sedere quando entravano uomini; ma quella mattina si alzò, e mi venne incontro.—Non so se quella notte avesse fatto come me progetti appassionati; ma certo a quell'ora aveva pensato al par di me che dovevamo incontrarci coi modi semplici e contegnosi degli altri giorni. Oh, la tirannia delle convenienze!
—Come va, caro signor Guiscardi?—mi disse stringendomi la mano. Mi guardai intorno per vedere chi fosse il signor Guiscardi. A forza di pensare che dovesse chiamarmi Max, avevo dimenticato il mio cognome. Quel saluto mi suonò gelido, e ne fui sbalordito.
—Buon giorno! buon giorno, Fulvia; le risposi con aria affaccendata guardando il soffitto.
Fulvia m'invitò a sedere accanto a sè; mi fece varie interrogazioni che non compresi, e certo vi risposi a sproposito. Ella voleva sembrare calma, ma era evidentemente turbata. Quell'alzarsi, per venirmi incontro, aveva tradito il suo imbarazzo. Il suo sguardo sfuggiva il mio, e le sue domande si succedevano con assurda rapidità senza aspettare le risposte. Si sarebbe detto che non volesse lasciarmi tempo a dire qualche cosa che temeva di udire.
Alzandosi dal pianoforte aveva preso in mano gli esercizi di Kramer che stavano sul leggìo, e continuava a sfogliarli, ed a protendere il capo per leggere a quando a quando una nota in una pagina socchiusa, come se quella fosse l'argomento dei nostri discorsi.
E tutto ciò faceva per non guardarmi in viso; ma io era felice, perchè sentivo che, al primo incontrarsi dei nostri sguardi, quella momentanea commedia sarebbe diventata impossibile; ci saremmo trovati in faccia alla realtà;—e la realtà era il nostro amore.
Ed intanto parlavamo molto. Ci prendevamo la parola l'un l'altro, e parlavamo tutti e due ad un tempo.
In un momento ch'ella aveva posato il suo fascicolo chiuso sulla tavola, e vi teneva sopra la bella mano, io posai sovr'essa la mia, timidamente. Ma a quel contatto il battito del mio cuore perdette ogni misura, chinai il volto su quella mano, e vi impressi un bacio. E tutti e due eravamo ammutoliti.
Giammai avevo provato una simile dolcezza.—Le andavo ripetendo senza posa:—Mi amate, Fulvia? Mi amate?
—Oh, lo vedete bene! mi rispose evitando i miei occhi che cercavano i suoi.
—Oh, ditelo, Fulvia; ditelo voi!
—Ebbene…. sì, mi disse con un filo di voce agitata e commossa.
—Dammi del tu, Fulvia, chiamami Max; dimmi ancora che mi ami.
Un istante ella alzò gli occhi, che rifulsero un lampo d'amore; e riabbassandoli tosto, mormorò:
—Sì, Max, ti amo!
Oh, quel tu, e quel nome pronunciati da lei, mi inebriarono. Perdetti ogni facoltà di ragionare, e prendendole il capo fra le mani, posai le labbra sulla sua fronte.
In quel momento il mio sguardo doveva esprimere tutto il trasporto che avevo in cuore.
La povera giovane ne ebbe paura, e con voce tremante mi disse:
—Se è vero che mi amate, sappiate rispettarmi, Massimo.—Pensate che sono sola.
Questa parola mi richiamò in me stesso, e ad un tempo mi atterrì. Mi staccai precipitosamente da lei, e la guardai per leggere sul suo volto quanto vi fosse di verità in quella preghiera.
Avevo completamente dimenticato che Fulvia era un'onesta giovane; e la mia immaginazione fantasticava già un amore senza ostacoli e senza freno. Quella voce mi ricordò la realtà; ebbi paura di me.
In quel momento provai un grande imbarazzo. Avevo trent'anni ed avevo molto amato. Pure era la prima volta che mi trovavo in faccia ad un amore puro. Un istante pensai.
Essere amato da un'artista, che viaggia sola,—e rispettarla; e filare il sentimento come un collegiale.—Sarebbe ridicolo!
E tradussi codesto pensiero mefistofelico in uno sguardo pieno d'ironia.—Ma i miei occhi si scontrarono con quelli di Fulvia che, attonita del mio silenzio, mi interrogava collo sguardo. Quegli occhi erano pieni di lagrime, ed il suo volto era arrossito come non può arrossire che una donna onesta.
Il mio sguardo ed il mio cuore ridivennero buoni; la vidi e la credetti pura, ed ebbi fede in lei. Le presi la mano, e con sincerità profonda le dissi:
—Come farò a rispettarvi, Fulvia? Ora che so che mi amate!
—Amandomi molto e davvero, mi rispose.
—Ma io non so amare per metà.
—Io v'insegnerò; non ad amarmi per metà, ma a resistere al vostro stesso amore; e quando voi sarete debole, io sarò forte per tutti e due.
M'inginocchiai accanto a lei. Il mio cuore era profondamente commosso, ed il mio pensiero vagava in un'onda di contento indeterminato.
Continuavo a baciare con trasporto le sue mani, e le domandavo ancora, ed ancora:
—Mi amate, Fulvia?
—Pur troppo, vi amo—mi rispose con voce soffocata.
A quelle parole, dolorose per me, la guardai negli occhi;—erano gonfi di pianto.
—Perchè dite pur troppo? Perchè piangete? Vi dispiace di amarmi?
—Sì, mi rispose piangendo.
—Ma perchè? Cosa v'ho fatto, Fulvia? Siete scontenta di me?
—Non di voi, Massimo; di me sono scontenta. Avrei dovuto combattere codesto amore; nasconderlo; fuggirvi. Sono stata troppo debole; e voi troppo appassionato: fui troppo facile a svelarlo.
—Oh, non lo dite! esclamai. È tanto tempo che io vi amo; che ve lo faccio comprendere.—E le schierai una quantità di soavi ricordate? rammentandole ad una ad una le mie mute dichiarazioni, i miei trasporti, le mie speranze, le mie smanie, le mie gelosie…
Ella mi ascoltava senza cessare di sospirare e di piangere. Erano le lagrime che si danno ad un cadavere da cui si è sul punto di separarsi per sempre.
Finalmente mi disse:
—Che avrete pensato di me ieri sera, quando io strinsi furtivamente la vostra mano? Se sapeste come ho sofferto tutta notte ripensando a quell'atto! Come me lo rimproverai!
—O Fulvia!—Fui così felice in quel momento; non lo rimpiangete. Quello slancio impensato è una prova della vostra lealtà. Voi non conoscete le arti di fingere un'indifferenza provocante, per invitare l'amore a rivelarsi.—Amate e lo lasciate comprendere. Siete buona e sincera.—Non istate a pentirvene; non vi dolete d'avermi fatto felice.
—Ma io non posso, non debbo farvi felice;—non debbo amarvi—esclamò al colmo dell'angoscia, singhiozzando come un bambino.
—Perchè non dovete amarmi? Non siete libera?
—No, Massimo; sono promessa ad un altro che deve essere mio sposo.—E si nascose il volto nelle mani, e si sciolse in pianto.
Quella parola mi fece un male crudele. Mi parve che in quel momento mi si sottraesse il sangue dal cuore. Mi alzai lentamente ed andai a stendermi lontano da lei in una sedia a bracciuoli. Ivi rimasi qualche tempo senza pensar nulla, in uno stato d'abbattimento, con questa sola idea tuttavia non bene distinta:—Che tutto era finito; che stavo per partire, e non la vedrei più.
Ma intanto la vedevo, e la vedevo piangere, e quel pianto era d'amore per me. A poco a poco il mio stato di passività si andò animando d'una sensazione dolce. Provavo, dirò così, l'ebrezza di soffrire insieme. Il desiderio conteso, le aspirazioni ferventi verso una meta impossibile, sono lo stato più confacente al mio carattere.
Sentii un'acre dolcezza sostituirsi al senso di scontento che mi aveva invaso. Mi diedi a riflettere al nostro breve passato; ad esaminare quasi tranquillamente tutto il procedere di Fulvia ed il mio. Ad un tratto pensai:
—Ecco la ragione dell'episodio tempestoso! Promessa ad un altro, non poteva sperare di unirsi per sempre ad un uomo amato, e sognava di esaltarsi almeno per un tempo per un grande amore, prima di sacrificarsi per tutta la vita!
E tutte le promesse che avevo creduto di scorgere nell'espressione di quella sua strana idea, mi balenarono al pensiero in quell'ora di dolore, come un miraggio.
Quante lusinghe, quante speranze, quale completo abbandono in quelle parole ch'io interpretavo con una larghezza d'idee che Fulvia non ci aveva posta nel dirle!—Guardai la testa bruna di Fulvia, la sua persona casta e graziosa, e tutto un paradiso d'amore mi si aperse alla fantasia esaltata.
—È giovane e pura, e sarà mia—pensai.—E sorsi, e me le accostai, per ripeterle quelle sue parole, per implorare in nome dell'amore l'esaudimento delle mie ardenti speranze.
—Fulvia…—mormorai prendendole la mano.
Ella alzò il capo e mi guardò addolorata. Ma innanzi alla lealtà del suo sguardo il mio ardire venne meno. Era quello sguardo con cui m'aveva fissato dicendomi: «Se mi amate, saprete rispettarmi sempre.»
I miei amici che aspirano alla riputazione di Don Giovanni sentenzierebbero senza dubbio, leggendo queste parole, che tutte le donne dicono così. Io ammiro che sappiano quel che dicono tutte le donne. Quanto a me non lo so. Ma so di certo che Fulvia doveva dirlo in modo differente dalle altre, perchè quelle parole, in bocca a lei, erano sincere, ed inspiravano rispetto.
Le mie idee si confusero. Non osai rammentarle quel suo discorso avventato d'altre volte e, quasi inconscio dell'atto imprudente, le porsi tremando l'ultimo biglietto di Vittoria.
Ella lo lesse, poi me lo rese in silenzio. Più discreta di me, non pronunciò il nome della povera donna che aveva traditi i suoi doveri per me.—L'indovinò forse? O lo conosceva?
Seppi più tardi che lo conosceva. E che nel suo animo, in cui m'aveva posto tanto alto, non entrò neppure il sospetto che quell'atto mi fosse inspirato dalla stupida vanità di far pompa d'una mia conquista.—Comprese il muto linguaggio ch'io le parlavo dandole quella carta:—Io ho rotto dei legami che duravano da anni per amor di voi; non farete voi altrettanto per me?—Così mi comprese e fu nel vero. Una donna sinceramente innamorata, legge chiaramente nel cuore dell'uomo che ama, e non s'inganna mai.
Ci rimettemmo a discorrere, mesti entrambi, parlando di lei, di me, dei nostri vincoli che ci trascinavano per vie disparate.—Non so a qual proposito venni a dire ch'io non avrei potuto legarmi in matrimonio, che codesta idea mi faceva spavento. È una fanfaronata che tutti i giovani si credono in obbligo di fare. Ed io dicevo come gli altri, senza che ci fosse grande verità nelle mie parole. E poco dopo le domandai:
—Ma perchè non potreste sciogliervi dalla promessa con quel fidanzato, dacchè non l'amate?
—È un bravo giovane, un nobile cuore, mi ama… E poi, a lui non fa spavento l'idea di legarsi a me per tutta la vita.
Mi parve che in quelle parole vi fosse una provocazione. L'uomo della società si ridestò un'altra volta in me, e mi suggerì questo pensiero:
—Non è vero che Fulvia sia promessa ad un altro. È uno stratagemma per farmi svelare le mie intenzioni, ed indurmi possibilmente a sposarla; non è che una commedia, ed anche, d'una volgarità… Non avrei che ad offrirmi di soppiantare il mio rivale, e tosto ella lo lascierebbe dileguarsi come un vile.—Tuttavia quest'idea,—che trattandosi d'un altra donna, in pari circostanze, sarebbe già stata una certezza per me,—era ancora un po' dubbia dinanzi alla schiettezza di Fulvia. Volli accertarmene, e le dissi col mio accento più passionato:
—E se vi sposassi io, Fulvia?
Un lampo di gioia brillò nel suo sguardo.—Pur troppo è così, pensai.—E già rimpiangevo che la nobile fanciulla da me ideata non fosse che una piccola intrigante in cerca d'un marito. E colla morale un po' opportunista d'un giovane innamorato, dissi tra me:
—L'avrei preferita meno onesta, ma più schietta.
M'ero ingannato ancora. Fulvia si fece anche più mesta di prima; e prendendomi la mano in atto riconoscente mi disse:
—Sarebbe impossibile, Max. Ve l'ho detto, sono promessa ad un altro.
Questa risposta, anzichè addolorarmi, mi colmò di gioia. Ella non aveva mentito. Era sempre quella donna nobile e leale, incapace di finzione e di calcolo. Ancora una volta mi pentii di averla calunniata nel mio pensiero.
—Ebbene, le dissi, amatemi come un fratello; e non pensiamo ad altro, e speriamo nell'avvenire.—E suggellai quelle parole fraterne con uno di quegli sguardi in cui l'amore ha stillato tutto il suo nettare e tutto il suo fiele.
Ma ella piangeva ed io era triste.
Pensavo che quella donna non sarebbe mai mia, e sarebbe un giorno d'un altro. Pensavo che questo altro era stato amato da lei, non fosse che un'ora, quando gli aveva fatto quella promessa. Ma tali promesse chi pensa a mantenerle quando è cessato il sentimento che le ispirava? Ed a che servirebbe?—Perchè dunque Fulvia sposerebbe un uomo che non ama più, ella così sincera, invece di dirgli francamente: «Io non vi amo più; non potrei farvi felice; per la felicità che vi tolgo, vi ridono in compenso la vostra libertà.»—Perchè? Questo vincolo aveva qualche cosa di misterioso ai miei occhi. Fulvia era libera e sola; era stata innamorata—viveva sul teatro… Il dubbio mi entrò ancora una volta in cuore.
—Questo matrimonio dev'essere per lei una riparazione, dissi tra me.—È chiaro. Per quell'uomo ha commesso un errore; ora non lo ama più; ma è onesta; non vuole appartenere ad un altro. Forse una terza esistenza dipende da questo suo sacrificio… Povera giovane!
E nella bontà del mio cuore mi sentii compreso da infinita pietà.
—Fulvia, le dissi, perchè mi nascondete il motivo che vi obbliga a sposare un uomo che non amate? Abbiate fiducia in me; forse pensandoci insieme troveremo il mezzo di svincolarvi da codesto impegno.
—Non vi nasconderò nulla, mi rispose.—Ma non posso dirvi tutto ora, i vostri amici potrebbero venire; e poi certe cose sono più facili a scrivere che a dirsi. Vi scriverò. Vi scriverò questa notte, e domani saprete tutto. Ma non sarà perchè mi aiutiate a sciogliermi dal mio impegno. Sarà per giustificare, se è possibile, il mio strano contegno con voi.
Accettai questa promessa, e poco dopo lasciai Fulvia colla profonda convinzione che i miei sospetti non mi avevano ingannato;—ed infatti, cosa mai potevano essere le confidenze più facili a scrivere che a dirsi, se non un amore colpevole, il solo di cui una donna che conosce il mondo possa arrossire?—Se v'ha sotto il sole un uomo nato nell'anno di grazia mille ottocento quarantacinque, il quale possa dire in coscienza che in pari circostanze avrebbe pensato altrimenti, lo autorizzo a gettarmi la pietra; pronto a riceverla nella testa.
La certezza che Fulvia aveva una macchia nel suo passato, l'ombra d'un rivale, e forse il fatto stesso d'aver finalmente confessato il mio amore, lo avevano sensibilmente diminuito.—È fuor di dubbio che la poesia dell'amore è prima della rivelazione;—la parola immiserisce il sentimento, lo circoscrive ne' suoi limiti.—La pace del sentirsi amati, ci toglie dal cuore l'esaltazione dell'incertezza, l'entusiasmo dell'aspirazione; e non c'è amante felice il quale non debba confessare che lo era di più, quando non era completamente certo di esserlo.
La tempesta era sedata nel mio cuore.—Quel giorno badai tranquillamente ai miei affari, poi andai a far qualche visita, poi al caffè, al teatro, e non tornai più da Fulvia. Pensavo a lei con quel sentimento di commiserazione che era nato in me gemello al sospetto sul suo passato. Provavo per lei la tenerezza e la pietà che avrei provato per una vedova indiana condannata al rogo.—Non mi pareva di conoscerla nè di esserle legato di più.
Al teatro vidi Giorgio.—Egli era stato all'Albergo Milano. Ma Fulvia non lo aveva ricevuto.—Pure la sua scrittura era scaduta, ella non cantava più, e doveva essere in casa.—Egli era inquieto.
Quanto a me avevo un senso vago d'essere un eroe dell'amicizia. Sì; io, che fino a poche ore innanzi avevo adoperato tutto il mio ascendente per involargli quella donna ch'egli amava, ora pensavo che Giorgio dovesse essermi riconoscente perchè non me ne sentivo più innamorato, perchè non pensavo a contendergliela, perchè ero fermamente risoluto a non aver nulla di comune con lei.
Ed intanto vedevo col pensiero la giovane artista intenta a scrivere per me una storia, per cui non provavo già più che una lieve curiosità.
Povera Fulvia! non giudicarmi troppo severamente. È il mio carattere così;—io non so amare che a sbalzi.—Era certo studiando me, che la tua anima passionata inventava l'episodio tempestoso. Sì, il mio amore è splendido ed ardente come il lampo, ma rapido com'esso.—Salgo troppo alto nella sfera della passione, per rimanervi; bisogna ch'io ridiscenda;—ed allora la prosa della realtà mi gela il cuore,—poi mi innalzo di nuovo, ritrovo la luce, ritrovo l'ardore,—ma per perderli e ridiscendere ancora.—Perdonami, Fulvia; io non ne ho colpa; come tu non hai merito del tuo amore più durevole e profondo. È la natura che ci ha fatti così.—Tutto quanto hai diritto a pretendere è ch'io ti riconosca superiore.—E lo riconosco ampiamente.
La mattina seguente quando mi fu recato il caffè che soglio prendere a letto, vidi sul vassoio un grosso piego che compresi subito essere le confidenze di Fulvia. Confesso che fui sinceramente meravigliato di trovarmi ancora in sì stretto rapporto con lei; tanto nel mio cuore me ne sentivo già moralmente disgiunto.
Io sono pigro e mi alzo abitualmente assai tardi. Dopo aver preso tranquillamente il caffè, feci aprire le finestre, ravviai i guanciali e le coltri, mi posi a sedere sul letto, ed alla luce d'un bel sole mattutino impresi a leggere quelle pagine colla tranquilla e benevola curiosità con cui si comincia un romanzo d'un autore noto e simpatico;—nè più nè meno.
Con questa sola differenza che, dissuggellando quel piego andavo chiedendo tra me: «Scrive bene?» Ed era il solo pensiero che mi occupasse in quel momento.
«Caro Max,
«La mia nascita, la mia infanzia, la mia adolescenza non hanno nulla di romantico.—Me ne duole, per l'effetto di queste mie pagine, ma è così.
«Il mio babbo era impiegato governativo, ed era povero. La mia mamma morì pochi anni dopo la mia nascita. Non avevo fratelli. In casa mia si viveva meschinamente, con una sola serva che aveva cura di me.
«Quando ebbi dodici anni, il babbo mi pose in collegio, dove rimasi sette anni. La pensione era dispendiosa. Egli licenziò la serva, vendette il mobiglio, e si pose a vivere a dozzina per fare economia.
«Ed infatti riescì a mantenermi tutto quel tempo in collegio, senza farmi sentire la menoma privazione, senza farmi sfigurare presso le compagne; e, dal canto suo, non fece mai l'ombra d'un debito. Forse le privazioni, povero babbo, le imponeva a sè stesso; ed il mio benessere era il frutto de' suoi sacrifici.
«Ma fin allora non m'ero mai imbattuta a pensare quale potesse essere la condizione economica di mio padre. Accettavo la mia, e la godevo colla spensieratezza della mia età.
«Parecchie delle mie compagne imparavano il canto. Io vi aspiravo vivamente. Amavo la musica con trasporto, ed ero ambiziosa. Pregai la direttrice che mi facesse provare la voce. Il maestro trovò che era buona. Allora, senza pensare all'aumento di spesa che gl'imponevo, scrissi al babbo quel mio desiderio. Non mi cadeva in mente che lo studio d'un'arte potesse essere questione di denaro.
«Il babbo che mi aveva data un'istruzione nell'idea di fare di me un'istitutrice, s'adattò senza difficoltà a farmi invece una cantante.
«Io, che avevo desiderato cantare come dilettante, mi adattai, parimente senza difficoltà, ad essere artista. E tre anni dopo cantavo per la prima volta in un concerto, dopo il quale firmai la mia prima scrittura per la stagione di primavera a questo teatro Carcano di Milano.
«Come vedete, la mia carriera s'iniziò tranquillamente, senza contrasti. Non avevo una famiglia aristocratica che s'indignasse di vedermi sulle scene, e contro cui avessi a difendere l'arte incompresa. La mia famiglia è modestissima; non vanto passate grandezze; la mia vita d'artista non ha nulla di drammatico; tutto è prosa intorno a me.
«E la mia storia più intima, quella che mi dispongo a confidarvi? Ahimè, Max, è prosa anch'essa. Ora soltanto che è divenuta un ostacolo fra noi, attinge un po' di poesia da questa circostanza; la triste poesia del dolore.
«Uomini e donne hanno la crudele abitudine di rinnegare dinanzi ad un nuovo amore i loro amori precedenti. Tutt'al più ne ammettono uno, se la sua notorietà impedisce di negarlo; ma s'affrettano a dire che non fu vero amore; che fu un sogno giovanile, una calda amicizia cui il cuore illuso scambiò per una passione. Il solo vero amore deve sempre essere l'attuale.
«È forse atto di cortesia per lusingare l'amor proprio della persona amata; per dirle: «Nessuno ebbe a' miei occhi le tue attrattive, nessuno m'inspirò il sentimento che tu m'inspiri.»
«Io sarò meno gentile, ma più vera. Ho amato prima di conoscer voi,
Max.
«L'uomo, a cui sono fidanzata, non è un vecchio ricco ed acciaccoso che mi venga imposto tirannicamente da mio padre, e contro di cui io possa fare appello ai vostri sentimenti cavallereschi. No; è un bel giovane povero come me; buono, nobile, intelligente. Che io stessa scelsi, che amai; che amai con trasporto; per cui ho palpitato, ho pianto, ho gioito; la cui parola d'amore mi scese soave all'anima; a cui mi fidanzai con delizia sognando un avvenire di felicità.
«Ed ora, perchè non l'amo più? È almeno stato infedele, sleale? Ha demeritato il mio amore? No; è stato fedele, e mi ama, e merita d'essere adorato. Sono io che non l'amo più, perchè non l'amo più; perchè l'amore non è eterno che in casi eccezionali; l'amore può cessare; il suo carattere era troppo freddo per rispondere alle mie aspirazioni; e la sua freddezza ha spento l'ardore che le sue prime parole d'affetto m'avevano acceso nel cuore, ecco la prosa.
«Era un tedesco che m'insegnava il canto. Quando lo conobbi, era giovanissimo; e dirigeva già l'orchestra del teatro Regio di Torino, dove io sono nata e cresciuta. Era bello e d'un'eleganza di buon gusto.
«Non è punto vero che si ami un uomo per le sue qualità esterne o per le sue abitudini; si amano le qualità e le abitudini per l'uomo. I primi amori che io sognava nel segreto del cuore, erano per eroi, per uomini fieri, dall'aspetto maschio, da' modi franchi, come i vostri, Max. Uomini dalla voce dolce come una melodia, profonda come un pensiero, passionata come un bacio—la voce di Giorgio. I giovani dai palmerstons profumati, dai capelli unti e lucenti, dalla scriminatura dritta come una rotaia di ferrovia, gli eleganti che discorrono di toletta, e ne mutano tre ogni giorno, erano a' miei occhi ridicoli. Non me ne occupavo che per farne la caricatura.
«Il mio maestro di canto era appunto uno di codesti. Sembrava una figurina tagliata fuori da un giornale di mode. S'inchinava in due tempi; parlava sotto voce con un garbo inalterabile; era sempre del parere delle signore, e nelle sue stesse lezioni sapeva non contraddirmi, apertamente, e non riscaldarsi mai. I suoi lineamenti erano belli, d'una bellezza regolare e fredda. Viso ovale, occhi nè grandi, nè piccoli, colorito fresco, profilo greco, labbra rosse che nel parlare lasciavano vedere i denti d'una bianchezza abbagliante. La sua barba d'un biondo fulvo, ed i suoi baffetti erano evidentemente l'oggetto delle sue cure amorose. Parlava poco, ed era sempre dello stesso umore; nè troppo serio, nè troppo gaio. Aveva l'aria d'un cortigiano aspirante che facesse la sua pratica nell'etichetta di corte. Quando lo conobbi mi fu antipatico. Quando l'udii parlare, il suo accento straniero e la sua voce—sopra tutto la sua voce—finì di rendermelo repulsivo. Era una vocina di testa, con una nota cavernosa nel naso, che ad ogni tratto risuonava come una corda spezzata. Avevo sul pianoforte il metronomo per misurare il tempo. Il mio maestro non mi parve più animato di quello strumento. Avrei giurato che aveva una complicazione di ruote e d'ingranaggi al posto del cuore, e la sua bellezza mi lasciava fredda come la bellezza d'un fantoccio.
«In fatto di musica egli apparteneva a quella scuola che i profani chiamano dell'avvenire. Quanto a me, non avevo ancora opinioni; le cadenze lente e melodiche mi eccitavano il sentimento e mi riescivano facili; ed io le cantavo di preferenza.
«Un giorno il maestro entrò ch'io stavo intuonando, forse per la decima volta, un'aria della Straniera:
Trovarti, rivederti
Un solo istante ancora…
«Contro tutte le sue abitudini, il calmo tedesco fece un atto di dispetto, tolse quella musica dal leggìo e la respinse dicendomi:
«—Non s'innamori di questa roba!
«Io mi sentii offesa nel mio sentimento più caro. Avevo messa tanta espressione in quel canto, che mi figuravo di far pensare lui come tutti, ad un assente rimpianto, cui aspirassi di trovare e rivedere. Le mie compagne me l'avevano fatta ripetere a sazietà, e mi avevano detto:
«—Si sente che ci metti tutta l'anima.
«—Si direbbe che hai delle lagrime nella voce, ecc.
«Ed ecco invece che quel glaciale tedesco non comprendeva nulla di tutto ciò; e là dove si esprimeva un dramma di sentimento, egli non vedeva che la povertà d'una combinazione di crome e semicrome; nel grido dell'anima che deplorava l'assenza d'un essere amato, egli non deplorava che l'assenza di complicazioni armoniche e d'istrumentazione. Ne fui irritata, e, senza nasconderlo, gli risposi:
«—Perchè non ho a cantare un'aria che mi piace?
«—Perchè non le giova a nulla, mi disse riprendendo la sua calma abituale. È una melodia bella a sentirsi, ma che non fa fare nessuna ginnastica alla voce, e la sua ha bisogno di esercitarsi nelle difficoltà, per svilupparsi ed acquistare agilità ed estensione.
«—Gli esercizi sono freddi e mi annoiano, borbottai; non c'è sentimento.
«—L'espressione del sentimento,—riprese il giovane verista,—è infatti una delle attrattive per cui la musica ottiene il favore del pubblico. Ma per noi la musica dev'essere uno studio serio, e non un idillio sentimentale.
«Io fui sempre troppo sincera, come mi conoscete, Max. La parola mi fugge dal cuore al labbro, senza dar tempo alla ragione di controllarla. Indignata di quelle parole che reprimevano il mio entusiasmo, lo rimbeccai con vivacità:
«—Ella non ha cuore se intende la musica così. Il maestro d'aritmetica non parlerebbe altrimenti.
«Egli non mi rispose. Aperse sul leggìo un fascicolo di studi sugli arpeggi, ed incominciò gli accordi dell'accompagnamento, accennandomi di ripetere la mia lezione.
«Ma io ero irritata; cantavo male. Feci due o tre note false; egli mi corresse; la vergogna mi paralizzò la voce; gettai la musica sul pianoforte, fuggii all'altro capo della stanza, sedetti ad uno scrittoio colle braccia sovr'esso ed il capo sulle braccia, e scoppiai in pianto.
«Il maestro stette un momento in silenzio, durante il quale sentii che mi guardava. Vi sono sguardi che si sentono come un raggio carico di elettricità rivolto su di noi.
«Poi lo sentii voltarsi verso il piano, tentare qualche accordo incerto; rimanere pensoso come in cerca d'un pezzo di cui il lungo abbandono gli avesse fatte dimenticare le note; e finalmente cominciare con esitazione, e quindi procedere con sicurezza la grande aria del soprano nella Sonnambula, poi il duetto tra soprano e tenore nella Lucia, e chiudere quel piccolo concerto coll'aria del tenore ed il duetto d'amore della Jone. Tutta musica affatto contraria ai suoi gusti.
«Quella concessione fatta a' miei gusti sentimentali era una muta scusa ch'egli mi rivolgeva. Io lo compresi e ne apprezzai la delicatezza.
«In quel momento il congegno ad ingranaggi e ruote che mi ero figurato nel petto del mio maestro, scomparve, e vidi un cuore caldo e sensibile palpitare sotto l'eleganza della sua toletta.
«Non piangevo più, non pensavo più alla mia umiliazione. Un altro ordine d'idee mi preoccupava lo spirito.
«—Quel giovane cuore era egli rimasto freddo fin allora accanto a me? Quello sfoggio di melodia, un minuto dopo averla condannata, era un semplice atto di delicata condiscendenza? O era una dimostrazione di simpatia?
«Intanto, sebbene non piangessi più, continuavo a starmene nello stesso atteggiamento, col volto nascosto. Quando si è piantato qualcuno in asso per andare a piangere dispettosamente in un canto, non è così facile asciugarsi gli occhi e tornare a dirgli tranquillamente: «Eccomi, ho finito» a rischio di sentirsi ridere in volto.
«Il maestro comprese che bisognava ajutarmi ad uscire dall'imbarazzo in cui mi ero posta. Lasciò il piano; venne a fermarsi in piedi dinanzi a me, e mi domandò:
«—È in collera?
«Non sapevo che dire, e presi il partito di non rispondere, di non alzare il capo. Ma la sua voce mi parve meno brutta. In quella, da lontano, nel silenzio delle classi deserte,—perchè a quell'ora, tutte le compagne erano in giardino alla ricreazione,—si udì battere un uscio. La direttrice veniva abitualmente ad assistere alle lezioni di musica, e certo doveva esser lei. Io sentii con terrore la sconvenienza della mia posizione, il maestro pure la sentì perchè riprese curvandosi verso di me:
«—A momenti è qui la direttrice. Via, mi perdoni, e venga a riprendere la lezione.
«Io mi rizzai in fretta, e senza rispondergli, senza guardarlo, tornai al pianoforte.
«Egli mi seguì, sedette, pose le mani sui tasti, poi, invece di riprendere l'accompagnamento interrotto, alzò gli occhi in volto a me, e, con un sorriso che parve trasfigurarlo, mi interrogò:
«—Ed ora cosa facciamo?
«Io presi senza rispondere il fascicolo d'arpeggi che avevo respinto.
Era una risposta.
«Colla galanteria che gli era naturale egli accolse quell'atto di condiscendenza come un grande favore, e mi disse:
«—Grazie, signorina; ella è troppo buona; sebbene io non abbia cuore, le sono molto riconoscente del sacrificio che mi fa.
«In quella entrò la direttrice, e la sua presenza m'impedì di rispondere qualche imprudenza.
«Alla lezione seguente la direttrice era in classe quando il maestro entrò. Egli aveva un fiore di vaniglia all'occhiello dell'abito. Io guardavo quel fiore e pensavo: «L'ha portato per me….»
«Poco dopo la direttrice fu chiamata fuori. Io precipitai istintivamente l'esercizio che stavo facendo. Il maestro non mi corresse quell'errore di tempo. Erano così rari i momenti in cui il caso ci accordava di esser soli; entrambi avevamo premura di profittarne. Egli mi disse, mentre voltava il foglio:
«—È ancora in collera con me?
«—Sì, gli risposi; perchè non vuole lasciarmi cantare nulla di bello.
«—Ebbene, riprese egli, domani le porterò Gran Dio morir sì giovane, lo canteremo insieme.
«Non potei a meno di ridere. La grande facilità di quella melodia l'ha resa siffattamente popolare che omai ci sembra volgare, e la proposta era realmente umoristica.
«La mia ilarità gli diede coraggio ed egli soggiunse:
«—Sono stato infelice per causa sua tutti questi giorni.
«Io feci un atto ed un sorriso d'incredulità.
«—Non mi crede? riprese. Se sapesse che rimorso provava per averla fatta piangere! Ero tentato di andare da Blanchi a provvederle tutti quanti gli spartiti di Bellini e di Donizzetti….
«Cominciavo a sentirmi umiliata di quell'incapacità che mi attribuiva di apprezzare le più alte e complesse combinazioni dell'armonia tedesca.
«—Ma no, protestai. Ella mi deride. Io non sono mica esclusivamente amante della melodia. Ieri ho suonato tutta la Sinfonia pastorale.
«Era vero; l'avevo suonata dapprima in omaggio a lui, e dopo una prima lettura l'avevo ricominciata con vero interesse, e l'avevo scorsa fino in fondo con passione.
«—Ah! lo sapevo bene che ella non poteva non comprendere quella musica vera e sublime, esclamò con un sorriso di soddisfazione. E continuò:
«—Guardi, ne ero tanto sicuro, che le ho portato un fiore per fare la pace.
«Così dicendo, mi porgeva la vaniglia che s'era tolta dall'occhiello dell'abito.
«Io accettai quel fiore; poi fui mortificata della mia facile condiscendenza, e, tanto per darmi un contegno, osservai che era bello.
«Egli mi rispose che l'aveva coltivato sul suo balcone; che amava molto i fiori, che gli rammentavano le persone care che non poteva aver vicine; e riprese:
«—Ella non crederà che io abbia delle persone care, poichè dice che non ho cuore.
«—Vedo bene che non ne ha,—gli risposi—se non sa perdonare un'offesa.
«—Ma è perchè la sua offesa è troppo grande. È la più grande che si possa fare ad un povero giovane.
«Io non diceva nulla. Egli soggiunse:
«—Dica, lo crede davvero ch'io non abbia cuore?
«Ed accompagnava quella domanda con uno sguardo che smentiva altamente l'accusa.
«Ebbi appena il tempo di dirgli «No» e tosto s'udì la direttrice che s'avvicinava alla classe.
«Io aveva in mano il fiore di vaniglia che un momento prima era all'occhiello dell'abito del maestro. Se la direttrice l'avesse veduto, non avrebbe mancato di farne rimprovero non a me sola, ma a lui; anzi a lui solo, perchè quanto a me non potevo che accettare la cortesia d'un superiore.
«Tutto questo mi passò in mente nell'atto ch'ella apriva la porta, e con un movimento rapidissimo nascosi il fiore. Ma nel fare codesto arrossii vivamente. Era riconoscere che nel dono di quel fiore c'era implicato qualche cosa che la direttrice non doveva sapere; che quel qualche cosa io l'avevo indovinato; e però accettando il fiore, avevo accettato il qualche cosa sott'inteso; ed ora nascondendolo, convenivo d'avere un segreto comune con lui.
«Egli mi ringraziò con uno sguardo, poi cercando fra i fascicoli di musica l'aria della Straniera che era stata causa del suo malumore, e mettendola sul leggìo, mi disse:
«—Canti un poco per riposarsi dallo studio.
«Compresi che voleva così ringraziarmi secondando una mia predilezione, e cantai. Ma quell'aria mi era divenuta antipatica, e da quel giorno non vi fu astruseria di logaritmi musicali che non mi esaltasse fino al delirio.
«All'altra lezione il maestro portò un nuovo fiore. Le compagne trovarono modo di far uscire la direttrice, ed appena fummo soli il fiore mi venne offerto, come cosa convenuta. Accettando quell'altro avevo stabilito un precedente che autorizzava il giovane maestro a procurarmene una collezione.
«Gli domandai s'era anche del suo balcone.
«—Sì, era una pianta giovinetta e tutta in fiore. Aveva qualche cosa che mi somigliava. Egli la chiamava la vaniglia di Fulvia. Credeva di vedermi guardandola; nel togliere quel fiore gli era sembrato di farmi male e di sentirmi piangere….
«—Che tenerezza! esclamai volendo mostrare del sarcasmo.
«—Ebbene, riprese, si meraviglia della mia tenerezza? Ora non crede più ch'io non abbia cuore; si ricordi che mi ha detto di no, che non lo crede più.
«Io sorridevo senza rispondere e mi sentivo tutta accesa in volto.
Egli mi prese lentamente una mano e soggiunse:
«—Ora lo sa, nevvero, che ho un cuore?
«—Ero tutta commossa da quella prima stretta di mano. Lo guardai. Egli era bello in quel momento; ed il suo volto animato non aveva più nulla della freddezza abituale. Abbassai il capo, e non dissi nulla; ma avevo accennato di sì.
«—Ed un cuore capace d'amare…, continuò egli alzandosi dal piano e baciandomi lievemente la fronte senza abbandonar la mia mano.
«Io feci un altro cenno come il primo.
«—E lei non mi vuol anche un po' di bene? Non pensa un poco a me?
«Terzo cenno come sopra.
«Ero timidissima e quella scena che non mi dispiaceva punto, mi confondeva. Tuttavia era ben vero ch'io lo credeva innamorato, e lo amavo. Non mi sarebbe stato possibile di negarlo.
«D'allora appena poteva esser solo un momento con me, mi prendeva la mano e mi dava un bacio. A poco a poco codesto finì per diventare un'abitudine. Ma una dolce, dolce abitudine di cui mi sentivo lieta e tranquilla.
«Così passarono gli ultimi tre anni ch'io rimasi in collegio. Ci eravamo promessi di sposarci, quando la sua posizione sarebbe più assicurata. Era una promessa vaga, che si perdeva in un avvenire indefinito; ma io ne ero felice. Non avrei desiderato anticiparla. Dovevo fare la carriera del teatro. Ed allora sarei libera di vederlo sempre, di parlargli, di fare insieme delle passeggiate solitarie. Io viaggerei sola; egli mi verrebbe a vedere sovente. Mi pareva d'essere in una città ben lontana da Torino, applaudita dal pubblico, circondata da ammiratori; e ad un tratto di veder lui, il mio bel maestro tutto trafelato che avea percorsa una strada infinita per vedermi un'ora, un'ora d'espansione.
«Tutto questo mi preoccupava la fantasia. Io sognava tutte le follìe giovanili dell'amore, che allora la vigilanza continua della direttrice rendeva impossibili.
«Quei tre anni passarono. Uscii di collegio. Dovevo studiare un anno ancora prima di poter cantare in pubblico. Il babbo riprendendomi con sè, dovette rimettere casa. Egli non aveva la menoma risorsa. Convenne prendere un mobiglio a credenza, impegnandosi a pagarlo in un anno a rate mensili.
«Codesto riduceva il suo stipendio ai minimi termini. Poi bisognò pensare ad un corredo per me, che appunto per la carriera a cui miravo, avevo d'uopo di farmi conoscere e di figurar bene.
«Dedotto tutto, ci rimaneva appena di che vivere economicamente. Per sottrarre ancora da quella modesta entrata, già tanto assottigliata, la spesa delle mie lezioni di musica, avrei dovuto condannare il mio povero babbo e me ad infinite privazioni.
«Non so se avrei durato costantemente in quel proposito; però in quel momento per parte mia mi vi sarei sobbarcata volentieri. Ma non potei accogliere l'idea di imporre simili sacrifici al babbo. Decisi di studiare da sola.
«Alle due, l'ora in cui soleva darmi lezione in collegio, il maestro venne. Il babbo era all'ufficio. Eravamo soli. Egli mi salutò col solito bacio, poi aperse il pianoforte, cattivo strumento da nolo, che ai primi accordi lo fece rabbrividire.
«Io gli dissi, cercando dissimulare la difficoltà della dichiarazione sotto una frase scherzosa:
«—Non vi atteggiate a maestro, Welfard; ora non siete più il mio maestro.
«—Perchè no? Cosa sono ora?
«—Siete…. un amico….
«—Più che un amico, Fulvia; lo sapete. Ma codesto non toglie ch'io sia anche il vostro maestro. Avete bisogno di studiare ancora, e molto.
«—Studierò da sola.
«—Non basta. Ma perchè non volete più studiare con me? Il vostro babbo non permette ch'io venga qui?
«Rimasi alquanto imbarazzata. Ma fu un momento. Io non ho mai compreso la vergogna della povertà nè la gloria della ricchezza.
«Gli presi la mano, e conducendolo alla soglia di quel salotto che era anche la camera da letto del babbo e dava accesso a due altre povere camerette, gli dissi:
«—Guardate. Questo è tutto il nostro appartamento. Siamo poveri. Non sapevate, quando mi diceste d'amarmi, che il babbo ed io eravamo poveri? Ecco perchè non posso prender lezioni!
«Egli mi abbracciò teneramente. Era commosso. Mi condusse al pianoforte e volle incominciare la lezione senz'altro. Io chiusi il piano. Allora mi prese le mani nelle sue, e con atto supplichevole mi disse:
«—Che pensate ora, Fulvia? Non sono il vostro fidanzato? Non ha da essere un giorno tutto comune tra noi? Voi che siete una ragazza tanto superiore, vi vergognereste d'accettare qualche lezione da me, perchè non potete pagarle? Ma sapete che mi fate torto, che mi affliggete?
«Ero mortificata. Sentivo che nel suo caso avrei detto come lui. Mi pareva davvero d'avergli fatto torto e dispiacere.
«Il denaro non ha mai avuto importanza per me. E quando egli riaperse il piano, e traendomi accanto a sè, mi disse:—Via, cominciamo subito subito la lezione, se volete che vi perdoni—io mi affrettai ad obbedirlo, perchè sentivo di dovere una riparazione alla sua delicatezza offesa.
«D'allora venne sempre a darmi lezione e non si parlò più di compenso.
Non era il mio fidanzato?
«Tutti gli spartiti che mi occorrevano, egli trovava per caso di averli fra le sue carte. E molto spesso li aveva nuovi. Io mi accorgevo di tutte queste gentilezze, e le accettavo con riconoscenza. Ricusare quelle delicate premure mi sarebbe sembrato una sgarbatezza. Veniva ogni giorno, si occupava di me parecchie ore di seguito; attento, severo, instancabile, mi fece fare progressi insperati. Mi procurò molte conoscenze nel mondo musicale, e quando mi credette capace di figurar bene, combinò un concerto, sa Iddio con che fatiche, con quante brighe, unicamente per farmivi avere una parte!
«Quella sera condusse seco l'impresario del Carcano che era a Torino, me lo presentò, e risparmiandomi viaggi inutili, incertezze d'ogni maniera, e sopratutto le presentazioni umilianti alle agenzie teatrali, mi procurò una scrittura assai conveniente per una esordiente.
«Tutto codesto, lo vedete, Massimo, è prova d'un nobile cuore; ed io me gli sento legata per la vita.
«Ma tutti i sogni d'amore tempestoso che avevo vagheggiati quando ero in collegio, non si realizzarono mai. Non mi accadde mai di vedere Welfard irrompere in casa mia improvvisamente. Mai non mi propose di uscire una sera con me, quando il babbo mi accompagnava a passeggio. Mai non interruppe una lezione in un impeto d'affetto per stringermi al suo cuore. Veniva ogni giorno alla stessa ora; mai un minuto prima. Partiva ogni giorno alla stess'ora; mai un minuto dopo. Mai una parola appassionata; mai un impeto di gelosia.
«Quante volte ne ho pianto in segreto, invocando con tutta l'anima un amore caldo, passionato come quello ch'io mi sentivo nel cuore! Quante volte, dopo aver divorato lungamente le mie lagrime, esse mi sfuggirono dinanzi a lui! Allora, nell'angoscia che mi premeva, gli rimproveravo la sua freddezza, l'indifferenza con cui mi vedeva imprendere una carriera tanto piena di seduzioni.
«Avrei voluto che vi si opponesse, che mi facesse delle scene violente, che mi tormentasse con sospetti ingiuriosi. Tutto ciò mi avrebbe provato che era geloso, e però, che mi amava.
«Ed egli mi rispondeva con parole d'affetto, diceva che mi amava immensamente, ma mi apprezzava altrettanto, ed aveva fiducia in me. Per questo non era geloso. Che la sua passione non era meno grande per esser meno espansiva; era il suo carattere così.
«Ed è vero, Max. Era il suo carattere così. Ed era quel carattere freddo, che non rispondeva al mio, appassionato ed ardente, e mi rendeva infelice.
«In termini legali, la causa della mia infelicità si chiamerebbe appunto incompatibilità di carattere.
«E realmente credo che sia tale, perchè, se la freddezza di Welfard è un tormento per me, lo scontento che io ne provo, la melanconia che me ne risulta, le mie frequenti lagnanze, sono un tormento per lui. È così che, amandoci sinceramente, ci rendiamo a vicenda infelici. Io sono italiana come il nostro cielo; egli è tedesco come un soldatino di piombo.
«Ero in questo stato d'animo quando partii da Torino per recarmi qui.
«Avevo sperato che Welfard mi accompagnerebbe per assistere al mio debutto. Mi pareva impossibile che non avesse a prendere un interesse vivissimo a quel passo tanto importante per me.
«Egli non ne parlò nemmanco. Quando gli proposi di venire, mi disse che lo avrebbe desiderato, ma non ne aveva il tempo. Venne ad accompagnarmi allo scalo, e quando entrai nella sala d'aspetto, mi strinse la mano, mi fece un inchino e partì. Mi fermai alla porta e lo seguii collo sguardo, sperando che si volgesse qualche volta per vedermi e salutarmi ancora. Ma egli non pensava che al suo sigaro. Non si voltò mai. Correva e fumava come una locomotiva!
«Il babbo, non meno occupato di lui, potè bene trovar due giorni per accompagnarmi qui, installarmi, vedermi andare in iscena. Perchè non avrebbe potuto ottener anche Welfard un permesso come il babbo? Quella indifferenza mi fece male, salii in convoglio piangendo. Mi parve d'essere amata a tempo perso, di non essere il primo, ma l'ultimo de' suoi pensieri. Le considerazioni di tempo, di occupazioni, erano messe innanzi a me. Tutti i doveri gli erano più sacri che il dovere contratto con me di amarmi e di farmi felice.
«E pensavo: Se ora, che gli appartengo soltanto idealmente, è freddo così, che sarà quando diverrò sua moglie, quando la certezza del possesso m'avrà spogliata del prestigio d'un'aspirazione?
«Nondimeno, allorchè il successo mi riempì l'anima d'una gioia nuova ed immensa, sentii che le nobili soddisfazioni dell'arte, e l'avvenire che mi prometteva la mia carriera, erano tutto opera di Welfard, e si ravvivò più che mai in me il senso di gratitudine infinita che mi legava a lui.
«Gli scrissi a lungo quella notte istessa sotto l'impressione delle nuove emozioni che mi agitavano; cercai di trasfondere la mia anima nella sua, di riscaldarlo al fuoco del mio entusiasmo, della mia passionata riconoscenza.
«Passarono otto lunghi giorni; ed in ciascuno di essi speravo una lettera, e ciascuno mi recò una delusione.
«Ed intanto mi vedevo circondata da giovani vivaci, espansivi, che si disputavano come una gloria il piacere di accompagnarmi; che trascuravano i loro affari, le loro famiglie per me; che si rendevano indiscreti, importuni a forza d'assiduità.
«Mi erano tutti indifferenti. Se tutti avevano le qualità che mancavano a Welfard, nessuno aveva poi le virtù ch'egli possedeva. E tuttavia ogni giorno, dopo aver sperato invano una lettera, ero costretta a dire a me stessa: Oh perchè tutti questi esseri tanto inferiori a lui sanno amar meglio? Perchè in lui solo Dio non ha infuso il soffio della passione, che è la poesia della vita?
«Una sera, nove giorni dopo che avevo scritto a Welfard, ero pronta per andare al teatro, quando mi venne recata la sua risposta.
«Tremavo di speranza nell'aprirla. Tutte le espansioni della mia lettera mi si affacciarono al pensiero, reclamando in ricambio una parola appassionata.
«Ahi! fu ancora una delusione. La passione è muta in quell'anima; in essa la virtù, la generosità non sono uno slancio di sentimento, ma unicamente un portato della riflessione, la fredda idea del dovere.
«Vi trascrivo qui la sua lettera: giudicatene.
«Cara Fulvia,
«Mi fa molto piacere il vostro successo—del resto io non ne aveva mai dubitato;—voi farete una bella carriera; me ne congratulo sinceramente.
«Ho veduto i giudizî dei critici sul vostro debutto. Sono tutti lusinghieri per voi, ed anche per me, credetelo, sebbene voi vi esageriate fuor di misura la poca parte ch'io ebbi nella vostra educazione musicale.
«Tenete conto dell'appunto che vi fece il critico della Perseveranza. È vero; voi abusate delle note basse, e le forzate. È una risorsa delle artiste a cui il tempo e le fatiche hanno guastato le note di mezzo. Ma voi non avete lacune nella vostra scala, e dovete assolutamente correggere codesto difetto. Appena vi fermerete un poco a Torino, ci lavoreremo insieme.
«La scrittura che vi fu proposta è buona. Il teatro di Reggio d'Emilia, nella stagione di primavera, è un teatro importante. Transigete sugli interessi pur di combinare codesto affare che può esservi molto utile. La tessitura dell'Africana va benissimo per la vostra voce, ed in pochi giorni potrete imparare la parte.
«Mi dispiace all'anima di non poter esservi accanto per risparmiarvi codeste noie di contratti. Ma, voi lo sapete, sono schiavo del lavoro. Questo però non mi toglie dal pensare a voi.
«Scrivetemi spesso, ed amatemi come vi ama,
«Il vostro WELFARD HERBERT.»
«La freddezza nordica di quella lettera mi strinse il cuore. Dacchè amavo Welfard, era la prima volta che mi allontanavo da lui; la prima volta che ci scambiavamo una lettera. Per me era un grande avvenimento; e gliel'avevo detto, come aspettassi con ansia la sua prima parola scritta, come la sua stessa calligrafia che m'era ignota m'inspirasse la palpitante curiosità d'una rivelazione.
«Egli non accennava a nessuna di codeste emozioni; forse non le aveva trovate degne d'una risposta. L'unica parola d'affetto in tutta la sua lettera era una formola di saluto, un luogo comune. Forse una tedesca l'avrebbe trovata abbastanza espansiva. Ma io, nel mio caldo cuore italiano, me ne sentii delusa e quasi offesa.
A questo punto delle confidenze di Fulvia, posai il manoscritto, e mi guardai intorno trasognato.
Era l'anima sincera di Fulvia che traspariva in quelle confessioni, scevre egualmente di vanità e di falsa verecondia. Era la sua ingenua abitudine di dire la verità ad ogni costo, senza ostentare virtù trascendentali, riconoscendo i proprï torti; considerando le cose nella loro realtà.
Sentivo che mi aveva aperto tutto quanto il suo cuore, che non aveva più segreti per me.
Un sentimento nobile e puro, ed un debito di riconoscenza. Ecco tutto il suo passato.
Ed il punto nero ch'io credevo trovarvi?
Povera Fulvia! L'avevo commiserata come una colpevole, ed era pura come un lembo di cielo. Povera, povera Fulvia!
Il sole irradiava la camera avvolgendo gaiamente il mio letto in un'onda di calore e di luce. Il mio cuore era lieto. Mi vestii canticchiando, e sorrisi al sole che rinasceva più bello e più ardente dopo la oscurità della notte, come il mio amore dopo il gelo del sospetto. Lo dissi:—io non so amare che a sbalzi.
Ma non potevo comprendere che quella freddezza fosse stata solamente in me. Mi pareva che fossimo stati moralmente disgiunti, ed ora ci riunissimo; sentivo il bisogno di essere assicurato ch'ella mi amava ancora. Ella, che me l'aveva detto la sera innanzi, ella che aveva scritto tutta la notte per me!
Balzai in piedi, mi vestii in furia, uscii correndo, e non mi fermai che sulle scale dell'Albergo Milano, dove tre camerieri m'inseguirono e m'arrestarono come un ladro, per dirmi:
—Il numero 17 è uscito!
Il numero 17 era Fulvia! Briganti! Li respinsi come tre creditori, e ripresi a salire dicendo:
—Aspetterò la signora Zorra.
Ma anzichè comprendere la mia lezione uno di essi staccò la chiave dal quadro, e mi precedette gridando a' suoi compagni, a' suoi complici:
—Quando torna il numero 17 direte che c'è gente in camera ad aspettarla.
Entrai ardito e solo in quella camera, in quel santuario, dove il mio amore aveva bamboleggiato come un fanciullo, sognato come un poeta, sperato come un credente, sofferto come un martire.
Mi stesi nella poltrona di Fulvia, e volli adattare la mia persona in quella specie di nicchia che serbava l'impronta della sua. Ma la mia testa troneggiava fuor dalla sponda, e se volevo abbassarla al posto della sua testa, le ginocchia protendevano un metro lontano dal sedile. Pensavo al profeta Elia che per risuscitare i fanciulli morti si stendeva sui loro corpicini, le mani sulle mani, i piedi sui piedi, la bocca sulla bocca, ed invocai la fede che fa muovere i monti, per rinnovare quel miracolo, e rannicchiarmi nell'impronta di Fulvia sulla sua poltrona. Ma la fede non venne, nè il miracolo. Allora mi alzai, girai per la stanza esaminando ogni cosa. Pensai a Saint-Preux nella stanza di Giulia. Sopra una sedia nell'alcova erano alcuni oggetti di vestiario; alzai la cortina, stesi la mano per rinnovare le follìe dell'amante della Nouvelle Héloïse. Ma in mezzo alle tempeste della mia vita, in cui non mancano avventure, serbai sempre in me qualche cosa di ingenuo, una specie di culto sentimentale dinanzi al pudore d'una donna. E questo sentimento delicato mi fece ritirar la mano.
Indagare le forme d'una giovane amata nelle pieghe del suo busto! Quel
Saint-Preux era indiscreto e brutale.
E lasciai ricadere la cortina dell'alcova, e tornai a sedermi nella poltrona di Fulvia, rassegnato ad occuparvi maggior spazio di lei.
Poco dopo l'uscio si aperse ed entrò Fulvia, che al vedermi, emise un Oh! de' più felici che sia mai suonato tra labbra umane. Non aveva scontrato nessun cameriere, e la mia presenza in casa sua le riesciva inaspettata.
Corse a me, e mi disse:
—Come sono felice di trovarvi qui. Com'è bello! Peccato che non possiamo essere che amici. Eravamo fatti per comprenderci. Queste spensieratezze mi piacciono tanto. Se Welfard avesse saputo farmi una sola di queste sorprese… Ma egli avrebbe temuto di compromettermi, avrebbe pensato a quel che direbbe la gente, ai commenti dei servitori, poi avrebbe consultato il galateo, e non ne avrebbe fatto nulla. Egli pensa a tutte le cose del mondo invece di pensare ad amarmi.
—Ed io non penso che a questo, le risposi. E sono imprudente.
—O siatelo, esclamò, siatelo sempre, Max. La prudenza è lo spegnitoio d'ogni slancio giovanile. Non mi parlate di prudenza. Io l'abborrisco.
E non finiva d'ammirarmi per quella grande impresa d'essere stato ad aspettarla in casa sua. Sotto l'impressione del tedio e del disinganno che le avevano procurato le fredde circospezioni del suo fidanzato, non vedeva nulla di più bello che un po' di audacia. A' suoi occhi era un eroismo quella sfida lanciata alla società; ed ella pure si faceva una gloria di esporsi francamente alle calunnie con apparenze accusatrici.
L'amore aveva tanto osservato, compulsato, ragionato intorno a lei, che si era fatto uggioso come un vecchio pedante; ed ella sentiva il bisogno di rimettergli la benda tradizionale, di restituirgli le sue ali svolazzanti, la sua giovanile cecità. Era un errore, povera donna; ma e l'altro? Tutti gli eccessi conducono all'errore.
Le domandai dov'era stata.
—Oh mio Dio; non mi ci fate pensare Max. Sono stata all'agenzia a firmare la scrittura per Reggio di Emilia. Parto domani.
Il mio amore, che si stava addormentando dinanzi alla sua facile ammirazione, alla sicurezza del suo affetto, si ridestò d'un tratto a quell'annuncio. Separarci, perderla, vedere lo spazio frapporsi come ostacolo tra noi; tuttociò riponeva Fulvia nel novero della aspirazioni, ne rifaceva un frutto proibito; e come tale sentii d'adorarla, mi afflissi della sua partenza, cercai di oppormivi, di protrarla. Ed il suo povero cuore di donna, già addolorato da quella separazione, si abbandonò al suo dolore, e pianse. Io cercai di consolarla; ma le mie parole quanto più erano affettuose, tanto più aumentavano la sua commozione, le sue lagrime. Ed il suo pianto diveniva angoscioso e convulso.
Allora mi allontanai per lasciarla calmarsi, ed andai a sedermi al pianoforte. C'erano due sgabelli rimasti dal mattino quando forse si era suonato a quattro mani. Io mi sedetti dalla parte dei bassi, e curvandomi con molto disagio suonai la sinfonia del Freyschütz; poi l'aria del tenore nel primo atto: L'onda, il colle, il prato, il bosco.
I singulti di Fulvia s'erano allentati man mano. Mi voltai. Ella stava guardandomi col mento appoggiato alle mani incrociate; era accesa in volto ed aveva gli occhi gonfi. Mi baciai una mano poi vi soffiai sopra per mandarle il bacio. Ella volle sorridermi, ma le lagrime tornarono ad empirle gli occhi. Allora le dissi:
—Cantate, Fulvia; venite a cantare.
Ella si alzò asciugandosi gli occhi, e, con voce ancora piangente, mi disse, allontanando l'altro sgabello:
—Tiratevi in mezzo. Siete seduto a quattro mani.
Io risi e mi divertii di quello scherzo come del più felice motto di cui possa gloriarsi il Pompiere, e riescii a far ridere anche Fulvia, che, come tutte le persone nervose, non era mai tanto facile a ridere come quando aveva pianto.
Allora intuonai la grande aria di Agata: Perchè non giunge il sonno. E Fulvia la cantò divinamente, passando dal lagno increscioso alla dolcezza della preghiera, poi al terrore passionato, alla supplichevole invocazione di pace, ed alla calma serena di un'anima che ha pregato e spera. Ma quando fu alla stretta: O dolce mia speranza, o dì beato, non volle assolutamente cantarla, disse che era un'ironia, che quel giorno era troppo doloroso per lei, e dovetti rinunciarvi.
Stavo ancora seduto al pianoforte quando venne recato a Fulvia un biglietto d'una signora a cui io stesso l'avevo presentata, che la invitava a pranzare seco, ed aggiungeva che vi sarei anch'io, perchè mi aveva scritto in proposito.
Riservandomi a ricevere quel biglietto al mio ritorno a casa, insistetti presso Fulvia perchè accettasse, promettendole di accompagnarla e poi ricondurla a casa e passare tutta la sera con lei, e tutte le ore del domani.
Ella dunque accettò.
Poco dopo giunse Giorgio, e rimase con noi sino all'ora del pranzo. Allora uscimmo insieme, e Giorgio ci accompagnò sino in via Torino alla casa dove eravamo invitati.
Fulvia ci aveva domandato un momento di libertà, di cui io avevo profittato per correre a casa a cangiar abito, ed al mio ritorno l'avevo trovata in una elegante toletta verde cupo, con un gran collare alla Medici ed un ramo d'edera nei capelli. Quella tinta cupa s'adattava benissimo al suo colore olivastro e pallido; ed il collare altissimo correggeva la linea un po' aspra del suo collo eccessivamente lungo.
Fulvia non era bella. Non so che cos'avesse di attraente. Era forse il suo occhio innamorato o l'infinita dolcezza che spirava da tutto il suo volto, e specialmente dalla sua bocca? O era la sua voce bellissima, la seduzione possente del canto?
No; questo posso affermarlo; l'ammiravo come artista, ma l'amavo come donna. Se non avesse cantato, l'avrei amata egualmente, e chi sa? Forse l'avrei amata meglio.
Era il suo carattere leale fino all'ingenuità, appassionato fino all'esaltazione; erano i suoi modi; era l'originalità del suo spirito; e, più che tutto, era «amor, che a nullo amato amar perdona» il quale mi faceva sentire l'influenza della simpatia che inspiravo.
Tuttavia vestita così, Fulvia era una bella signora; ed io ne fui glorioso ed innamorato; e mi sentivo tanto felice d'amarla, e tanto afflitto di poterla amare soltanto idealmente sotto il titolo di amica, che in quella casa di freddi conoscenti non trovavo parole per sostenere la conversazione. Fulvia pure era preoccupata e non parlava che a sbalzi, per dir qualche cosa di strano alla sua maniera, poi tornava ad ammutolire per lungo intervallo.
Si discorreva di un padre di famiglia ch'era morto improvvisamente in principio di carriera, lasciando la moglie e due figli in gravi imbarazzi.
—Pover'uomo, esclamò Fulvia; «non potrà sentire la Messa funebre di
Verdi.»
I nostri ospiti erano una famiglia di formalisti, dalle virtù e dai sentimenti di parata. Si guardarono l'un l'altro inorriditi. Fulvia non se ne avvide. E ricadde nelle sue preoccupazioni. Allora io volli parlare, scherzare, far dello spirito, per divergere i pensieri di quei pedanti dalla parola avventata di Fulvia. E, per eccitarmi ad un brio fittizio, mi diedi a bere un bicchiere sull'altro; e tosto mi sentii animato fino all'esaltazione, ed accaparrai io solo tutta l'attenzione della compagnia.
Io, del resto, conoscevo perfettamente il cuore di Fulvia; e sapevo che lo scetticismo, che un abuso di spirito le poneva sulle labbra, non era nel suo interno. Sul finire della serata proposi una colletta a beneficio della famiglia del disgraziato che era morto prima di sentire la Messa di Verdi, che stava per essere compiuta ed eseguita a giorni.
La proposta fu accolta freddissimamente dalla compagnia; ma io non mostrai d'accorgermene e raccolsi le magre offerte in un portasigari giapponese. Quando se ne fece lo spoglio vi si trovarono 520 lire. Un biglietto giallo, e venti lire in ispiccioli. Il biglietto giallo attirò tutti gli sguardi. I convitati si conoscevano troppo bene tra loro, per sospettarsi a vicenda capaci d'una simile prodigalità. Ma nessuno neppure ne avrebbe creduta capace la spensierata giovane, che non aveva trovato una parola sentimentale per quella sventura. Tutti gli occhi si volgevano verso di me con una specie di commiserevole ammirazione quasi a dire:
—È generoso, ma è un capo scarico; finirà male.
Io avevo veduto quella mattina stessa in mano a Fulvia tre biglietti da L. 500 che aveva ricevuti dall'impresario;—il primo quartale anticipato della sua modesta scrittura da esordiente;—e sapevo bene da che parte venisse l'offerta sardanapalesca.
Lasciai che la convinzione della mia generosità mettesse radice per bene in tutti gli spiriti, e poi traendo lentamente il mio portafogli dissi:
—Manca ancora il mio obolo. E ne tolsi 20 lire che posai magnificamente sul vassoio.
Allora vidi tutti i visi volgersi più allungati che mai verso Fulvia, e sentii entrare in me la persuasione che quella gente, non potendo più dirla senza cuore, la diceva senza testa.
Erano già le nove. Per toglierla a quell'inquisizione malintenzionata proposi a Fulvia di ritirarsi; ed uscimmo.
Lungo la strada parlammo poco. Io ero spossato dallo sforzo fatto per sostenere la conversazione. Ella pensava alla sua partenza ed era triste.
Quando fummo a casa ci sedemmo come al solito ai due lati della tavola. Ma il vino bevuto mi era salito al capo; e senza esserne ancora precisamente esaltato, ne avevo le idee intorpidite e l'occhio stanco. Non sapevo più parlare. Ogni volta che aprivo la bocca dicevo:
—Mi amate, Fulvia?
La prima volta mi rispose con espansione: «Sì, mi amava, e malgrado che non potessi essere che un amico per lei, sentiva che nessuno le era più caro di me, neppure Welfard.» E mi stringeva la mano, e mi guardava quasi aspettando ch'io le dicessi parole altrettanto affettuose.
Io volli farlo, apersi la bocca e dissi:
—Mi amate, Fulvia?
Questa volta ella mi rispose soltanto:
—Perchè lo domandate? Non lo sapete abbastanza?
Ed io pensai che infatti lo sapevo, che ne ero certo; e che ero soltanto molto infelice del suo impegno con quel soldatino di piombo, e della sua partenza. E volli esprimerle tutto ciò; e la fissai languidamente e le dissi:
—Mi amate, Fulvia?
Ella mi guardò meravigliata, e mi strinse la mano senza rispondermi. Aveva ragione di non rispondermi. Ero sciocco; non sapevo dir altro; cominciavo ad accorgermi d'essere monotono. Pensai tante buone cose da dirle; sognai di seguirla a Reggio, di vederla andare in iscena, e poi di proporle di fuggire con me in un piccolo casino svizzero lontano lontano, che mi pareva di vedere, e che era fatto come una pagoda chinese. E poi eravamo già fuggiti. Eravamo già là insieme nella pagoda, seduti in terra colle gambe incrociate bevendo il thè, ed io le domandavo con trasporto:
—Mi amate, Fulvia?
Ma anzichè udirmi rispondere qualche dolce parola, sentii una mano irritata strapparmi la tazza di thè, gettarmi fuori dalla pagoda, ed una voce ironica, senza note di petto, dirmi all'orecchio:
—Destatevi. Come siete brutto quando dormite!
Apersi gli occhi trasognato. Avevo dormito come uno sciocco nella famosa poltrona di Fulvia. E quel ch'è peggio avevo dormito brutto. Mi parve di vedere Giorgio danzare un valzer vertiginoso nella camera; balzai in piedi spaventato, e questa volta non più per divagazione d'ebbrezza, ma con profondo terrore domandai:
—Mi amate, Fulvia?
—No; mi rispose. Non vi amo più. Quest'orrenda notizia vi dò. E voltandomi le spalle andò a sedersi al pianoforte e suonò tutto quello che potè pescare di più tedesco nel suo repertorio musicale. La tempesta di Rubinstein, il rondò dell'Oberon, il duetto del secondo atto del Lohengrïn.
Per protezione speciale di santa Cecilia non mi addormentai di nuovo. Stetti sopportando pazientemente quel supplizio acustico, e poi andandole dietro la sedia e togliendole le mani dalla tastiera le susurrai:
—Ora basta di germanizzare, Fulvia. Siamo un poco italiani.
—No, mi rispose senza voltarsi. Non vi amo più.
Io me le inginocchiai accanto per poterla guardare negli occhi, e le dissi:
—Davvero? Ripetetelo.
—Sì, lo ripeto, non vi amo più. Macbeth ha ucciso il sonno, ed il vostro sonno ha ucciso il mio amore.
—Che bisticcio! esclamai figgendo sempre più i miei occhi ne' suoi e tenendole strette le mani. Siate sincera, Fulvia. Non fate dello spirito, non fate eccentricità. Siate un poco voi stessa. È vero che non mi amate più? Che una posa inelegante nel sonno ha potuto distruggere tutto il vostro amore? Dite, Fulvia, non mi amate più?
Ella arrossì, abbassò gli occhi e rispose:
—È vile, ma lo confesso. Vi amo ancora, malgrado tutto.
Il giorno dopo andai a prendere Fulvia per accompagnarla allo scalo. Sapevo che altri ammiratori sarebbero stati pronti all'ora della partenza per accompagnarla anch'essi. E, per evitare d'averli in carrozza in quegli ultimi momenti, uscii io stesso per ordinare ad un fiaccherajo di venirci a prendere. Gli diedi uno scudo di mancia, e gli ordinai di prendere il suo brougham più stretto, e di levarne la panchetta dinanzi.
Quando vennero ad avvertirci che la carrozza ci aspettava, scendemmo tutti; ma, naturalmente, a nostro grande rincrescimento, soltanto Fulvia ed io potemmo capire nell'angusto veicolo. Dissi agli amici che ci raggiungessero alla stazione, e via!… Mancava un'ora alla partenza.
In quell'ora di corsa Fulvia non fece che piangere. Io le promisi di raggiungerla il giorno dopo a Reggio. Nulla mi sorrideva di più che quella scappata. Correrle dietro segretamente, rivederla con mistero dopo averla tanto veduta ed accompagnata ostensibilmente.
Tutto ciò aveva una tinta d'amore che mi agitava e mi faceva prevedere la fine di quell'assurda commedia di platonismo e d'amicizia, dietro la quale tenevamo malamente inceppati i nostri veri sentimenti, le nostre vere aspirazioni, la nostra doppia libertà.
Fulvia seppe riprendere il suo piglio franco ed un po' mefistofelico nel salutarmi allo scalo alla presenza di Giorgio; ma dietro le sue parole acremente scherzose, io sentivo sgocciolare le lagrime che le ricadevano sul cuore.
Ella doveva arrivare a Reggio la stessa sera; ed io dovevo raggiungerla la mattina seguente colla prima corsa.
Come lo feci? Come tenni la mia promessa?
Sento che non avrei bel gioco narrando io stesso le mie gesta da questo punto innanzi.
Più tardi, molto più tardi, il caso mi pose tra le mani il giornale di
Fulvia.
Se qualcuno può dare un giudizio vero, equo, delle azioni d'un uomo e de' suoi sentimenti, è la donna che lo ama.
Io lascerò dunque che d'ora innanzi il lettore mi giudichi traverso le opinioni di lei, dietro il suo esame psicologico. Essa mi scruta l'anima, mette spesso a nudo i miei pensieri un po' egoistici, il mio cuore arido; ma, sommato tutto, nel suo esame vi sarà sempre più indulgenza per me che non ne sento in me stesso.
«La mia partenza da Milano m'aveva addolorata meno ch'io non m'aspettassi. La speranza, la grande consolatrice, la grande menzognera, mi faceva prevedere giorni più belli. Massimo sarebbe venuto a Reggio; l'avrei veduto solo, misteriosamente; non l'avrei presentato a nessuno dei nuovi conoscenti che la mia vita artistica m'avrebbe imposti; e di codesti avrei procurato di accoglierne il meno possibile, e soltanto in teatro; e l'accesso alla mia casa l'avrei riservato a lui, a lui solo.
«Così, staccandomi da lui, e dalle care memorie di quel breve passato, io non volgevo lo sguardo indietro, ma innanzi a me; non correvo lontano da lui, ma incontro a lui, e mi pareva che il fischio della macchina irridesse alla società che mi compiangeva, o godeva forse di vedermi infelice pel termine d'una passione esaurita, mentre io, felice e pura, vedevo azzurreggiare all'orizzonte le dolcezze d'un sentimento caldo ed inebriante come l'amore, casto come l'amicizia.
«L'idea di scindere il mio impegno con Gualfardo, nè di fargli il menomo torto, non entrava nel mio cuore. E se la mia coscienza delicata mi rimproverava di sentire troppo vivamente la superiorità di Max, di pensare con troppa dolcezza con che impeto egli mi amava, e con che nobile slancio mi aveva offerto di farmi sua, tosto mi trovavo giustificata dal pensiero di aver respinto quella proposta che era per me tutto un avvenire di felicità. Avevo fatto il mio dovere; che si poteva pretendere di più?
«Giunsi a Reggio a tarda sera. La mattina seguente, appena alzata, mandai a prevenire l'impresario del mio arrivo. Alle undici egli arrivava da me. Dovevo andar in iscena fra sei giorni. Concertammo tutto per le prove al pianoforte e le prove d'orchestra, ed a misura ch'egli mi fissava le ore che dovevo consacrare al teatro, io compulsavo quante me ne rimarrebbero da dedicare a Max.
«Quando l'impresario mi lasciò, l'omnibus dell'albergo usciva dal cortile per andar a prendere i viaggiatori allo scalo. Mancavano cinque minuti all'arrivo del traino. Rimasi alla finestra da cui non vedevo che il cortile, ed alcuni staffieri che pulivano delle carrozze. Il cuore mi batteva così forte, che sentivo di comprimerlo stando appoggiata al davanzale; e pensavo come mai quegli staffieri potessero occuparsi di quelle carrozze, e quei forestieri, che vedevo per entro la finestra della sala terrena, potessero mangiare tranquillamente, col cuore sussultante a quel modo. Mi pareva che tutti i cuori dovessero sussultare.
«Finalmente udii ruotare una carrozza in lontananza.
«È l'omnibus, pensai. E corsi alla porta, e scesi una scala a precipizio. Al primo piano scontrai un cameriere che mi guardò meravigliato perchè non avevo cappello. Poi, come risovvenendosi d'una causa che avrebbe potuto farmi scendere così, mi chiese:
«—Scende a colazione? La sala è a pian terreno, a destra.
«Io arrossii di quella mia espansione come d'una volgarità; tanto le convenienze finiscono per imporsi anche agli animi più appassionati.
«Rimasi un momento immobile senza poter profferire una parola. Sentivo il veicolo passare dinanzi alla porta dell'albergo, e tirar via senza fermarsi; non era l'omnibus. Il cameriere tornò a dire:
«—Desidera scendere a colazione?
«Dovevo pur giustificare quella corsa precipitosa giù dalle scale. Mi rassegnai e scesi in sala da pranzo. Di là non vedevo in corte. Udii entrar l'omnibus, senza poter guardare chi ci fosse. Il servizio delle tavole fu rallentato un momento; segno che i camerieri erano occupati fuori a ricevere i forestieri. Dunque c'erano dei forestieri. Chi sa?
«Quando venne il cameriere domandai:
«—È giunta la posta? Non osavo prendere l'argomento di fronte.
«—Sissignora; è giunta, ma per lei non c'è nulla.
«Il cuore mi battè più forte. Non aveva scritto; doveva esser venuto.
«—Nessuno ha domandato di me? chiesi guardando nel mio piatto.
«—Nessuno, signora.
«Non mi restava altro da domandare. Eppure Max avrebbe dovuto cercare di me appena giunto: accertarsi se ero là, in quell'albergo. Ma no; lo sapeva. Eravamo d'accordo di trovarci là, all'Hôtel Royal, egli stesso me ne aveva dato l'indirizzo.
«Forse aveva voluto rassettarsi un poco.
«Farà toletta, poi verrà a vedermi in camera.
«E dietro questo pensiero sentii una smania febbrile di trovarmi nella mia stanza.
«Il cameriere, che mi portava un nuovo piatto, mi parve un cospiratore che macchinasse di trattenermi là con quell'esca volgare per farmi perdere quell'occasione di riveder Max. Tagliai un pezzo di gigot coll'aria d'un principe che sa di aver dinanzi una vivanda avvelenata, lo posi sul mio piatto, e porsi il piatto stesso ad un grosso gatto bigio, che mi rimproverava sordamente la mia ghiottoneria. Poi alzandomi come una regina offesa che ha sventato una congiura, mi avviai alla mia camera.
«La porta accanto alla mia era aperta. E nella notte precedente e nella mattina, quella camera non era abitata. Vi avevano dunque installato un forestiere giunto allora con quella corsa mattinale. E mi pareva che da quell'apertura spalancata uscisse una luce color di rosa; e sentivo che là dentro era la felicità. Dall'uscio della mia stanza potevo veder entro la stanza vicina; ma l'imposta della porta aperta me ne mascherava una parte. Non vedevo il letto.
«Fui lenta ad introdurre la chiave ed a girarla nell'aprire il mio uscio, per spingere l'occhio indiscreto in quella camera misteriosa. Non vi si vedeva alcuno; ma sopra una tavola accanto al balcone stava un pastrano di mezza stagione, di panno bigio. Io conoscevo quella tinta. Era il soprabito di Max. Dacchè lo conoscevo glielo avevo sempre veduto sul braccio, sebbene non lo calzasse mai. Max era dunque venuto. Era là accanto a me. Doveva essere nella parte della camera nascosta dalla porta. Mi pareva vederlo. Feci un po' di rumore colla chiave della mia camera, ed aspettai fingendo di non poter aprire. Ma nessun movimento si fece udire nella stanza di Max.
«—S'è alzato prestissimo per partire, ed appena giunto si sarà addormentato, dissi tra me. Conoscendo il suo carattere irrequieto, le sue abitudini turbolente, non potevo spiegare altrimenti quel silenzio nella sua camera. Lasciai il mio cuore, i miei pensieri, la mia anima nella penombra misteriosa di quella porta, ed entrai finalmente nella mia stanza.
«Non potei occuparmi di nulla. Per me aspettare è sempre stata una così grande e laboriosa occupazione, che non mi fu mai possibile di far qualche altra cosa mentre aspetto una persona o un avvenimento importante. Sedetti sulla punta d'una sedia, nell'atto precario di chi sta per slanciarsi incontro a qualcheduno, ed aspettai. Non potevo nemmeno pensar nulla. Sul camino stava un orologiaccio di bronzo dorato, tutto giallo e lucido che pungeva gli occhi; ed io seguivo affannosamente il battito del suo pendolo col pensiero, ripetendo senza posa «verrà, non verrà; verrà, non verrà, ecc.» Il pendolo diceva quelle parole ed il mio pensiero era forzato a ripeterle meccanicamente come se fosse montato col pendolo. Mezz'ora dopo stavo ancora nella stessa posizione; ma mi sarebbe stato impossibile di udire qualsiasi rumore nella stanza vicina, tanto mi fischiavano gli orecchi, e mi assordava il sussultar violento del mio cuore, ripercosso alla laringe ed alle tempia. Non potevo più tollerare quell'incertezza. Pensai di mettermi a suonar il pianoforte ed a vocalizzare per isvegliare Max. Ma le mani mi tremavano convulse, e la voce poi! M'attaccai al cordone del campanello, e suonai come se avesse preso fuoco alla stanza. Non avevo che questo pensiero: svegliarlo! Così quando un servo ed una cameriera accorsero spaventati per vedere che cosa accadesse, fui sul punto di gridare: È svegliato? Per buona sorte l'abitudine della società ci muta la natura e ci governa. Non lo feci, sebbene non potessi rendermi conto razionalmente di quel doveroso riserbo. Feci più: quei volti spaventati mi avvertirono della violenza con cui avevo chiamato, e l'istinto di coprire il mio sentimento mi suggerì questa parola:
«—Un sorcio! ho veduto un sorcio!
«La cosa mi giustificava completamente. Nessun codice a questo mondo può esigere che una donna conservi il suo sangue freddo dinanzi a un sorcio. La cameriera, meno riguardosa di me, perdette ogni contegno al solo nome dell'inoffensivo animale e si pose a strillare come una pazza. Tutti i forestieri si affacciarono alle loro porte, tutti si diedero a cercare eroicamente quel sorcio di fantasia. Anche il nuovo arrivato dal pastrano bigio uscì nel corridoio. Non era Max.
«La mattina seguente aspettavo ancora. Ed ancora passò l'ora degli arrivi senza che alcuno bussasse alla mia porta. C'era lettera almeno per me? Non osavo domandare. Mi pareva che persino i camerieri dovessero leggermi in volto l'ansietà del cuore, e comprendere che soffrivo un'amara delusione; nel loro linguaggio brutale, una canzonatura.
«Ed intanto poteva essere che la lettera ci fosse laggiù nella tavola, e che nessuno pensasse a portarla. Mio Dio! come farli ricordare di me? Ah! uscirò.
«Detto fatto. Misi cappello e cappotto e scesi le scale lentamente, senza sapere dove andassi. Nel passare dinanzi all'ufficio sentii gridarmi:
«—Signora, scusi; una lettera per lei.
«Ebbi un sussulto che mi scosse dalla testa ai piedi. Mi sentii divenire fredda. Era una lettera grossa, ed era di Max.
«Non saprei dire come nè quando avessi veduta la sua scrittura, ma la riconobbi.
«Rimasi là due minuti paralizzata con quella lettera in mano. Assolutamente non potevo avventurarmi per la strada con quella curiosità nell'anima. C'era da cadere in apoplessia. E neppure potevo tornare indietro dopo essermi avviata con quella sicurezza come se un grande affare m'aspettasse fuori. È impossibile dire fino a che sottigliezze arriva in una donna il pudore del sentimento. Ma uno dei suoi istinti principali è di dissimulare agli estranei l'interesse che inspira una lettera.
«Mi venne un'idea, e la colsi al volo come una ispirazione di cielo.
«Mi avviai direttamente alla sala da pranzo, quasi che quella e non altra fosse stata la mia meta.
«—Fa colazione? mi chiese il cameriere.
«—Sì.
«—Cosa prende? Caffè e panna?
«—Sì.—Mi sarebbe stato impossibile dir altro. Poi pensai che non volevo esser interrotta dal servizio mentre leggerei la mia lettera, ed aggiunsi:
«—Subito.
«Appena seduta ero servita. Apersi quella busta, stesi il foglio dinanzi a me appoggiato alla bottiglia dell'acqua, presi da una mano la molletta, dall'altra la zuccheriera… e lessi:
—«Mia cara Fulvia,
—«Voi mi chiamavate filosofo, forse collo stesso significato con cui i Greci chiamavano Eumenidi le bruttissime furie. Ebbene; io vi darò in iscritto un saggio di quella filosofia che non ho saputo mostrarvi conversando con voi, dovessi pure con questo provocare gli scongiuri della bella maga che ha evocato il mio non so se buono o cattivo spirito filosofico.
—«Nell'ora stessa in cui vi vidi partire giurai di non raggiungervi a Reggio; e manterrò il proponimento per quanto mi costi il mancare alla parola data, e rinunciare alla profonda soavità de' vostri sguardi.
—«E sapete perchè?
—«Perchè nell'ora amara della partenza, sentii che nel nostro amore neonato, era davvero per me il germe di una passione pazza, violenta, infelice come tutte le mie passioni. Questa scoperta tirò dietro a sè delle considerazioni in gran parte analoghe a quelle che voi facevate sulla nostra relazione, che venne troppo tardi; sulla sua natura, che è falsa perchè in realtà è amore, e noi gli facciamo violenza per camuffarlo nell'abito austero dell'amicizia; sopra i suoi ostacoli, che si riassumono tutti in uno solo: il vostro fidanzato. E le conclusioni che trassi furono per me d'uno sconfortante che non potrei esprimervi a parole.
—«Sapete, Fulvia, che io non posso nè amare, nè possedere a metà! Vi dissi che un altro amore mi aveva dominato in cuore avanti ch'io vi conoscessi. Ebbene, allora io rasentai il manicomio tormentandomi notte e giorno coll'idea fissa che un altro uomo aveva l'intimità della mia donna. Nè giovava farmi riflettere che quell'altro uomo era suo marito.
—«E nel caso vostro, Fulvia, credete che potrei più facilmente rassegnarmi?
—«Stando così le cose nostre, sento che mi è necessario evitare di convertire in passione ardente, l'affetto che m'avete inspirato. Ma la passione verrebbe senza dubbio, la sento montare come un fiotto dal fondo del mio cuore.
—«Mi conosco, Fulvia; anche qualche colloquio; anche l'amarezza d'una partenza e non sarei più padrone di me. Se io venissi a Reggio, sareste voi disposta a rompere ogni altro impegno, a vincolarvi con me, ad esser mia, ed a seguirmi a Milano, o a lasciare che io vi segua sempre e dovunque?
—«Mi avete già risposto di no… Ecco la mia filosofia.
—«Voi avete la sapiente moderazione che v'inspira il vostro decoro di donna; io no. Nel tempo stesso che v'onoro e vi venero, eccitate in me i trasporti più rivoluzionarii dell'amore intero e prepotente.
—«Dunque, non ci vedremo per ora. Le nostre esistenze, come voi mi diceste un giorno, debbono accontentarsi per ora di procedere parallele. Chi sa che l'avvenire non permetta la convergenza delle due linee? È un mio sogno ed una mia speranza.
—«Intanto, se questa lettera non è il Waterloo del mio povero amore, seguitiamo ad amarci da lontano. Scriviamoci della lirica epistolare. Ed, imitando quei grossi ragni da giardino di cui avevate tanta paura nelle nostre gite campestri, gettiamo delle fila che forse il vento romperà, forse diventeranno la tela istoriata d'un amore profittevole alla mia vita, e degno di voi.
—«Triste e solitario, penserò spesso con amara dolcezza i vostri dolci occhi fisi ne' miei. E voi?
«Sempre nella stessa posizione prosaica, nell'atto di inzuccherare il mio caffè, lessi tutta quella lettera. Passai dalla dolce trepidazione della speranza al più profondo abbattimento, senza che il menomo cangiamento si fosse fatto nella mia persona. Soltanto sentivo velarmisi gli occhi d'un liquido tremolante, e poi grosse lagrime rigarmi le guancie e cadere nella tazza che avevo dinanzi.
«Abbassai il velo ed uscii. Mi sentivo sola, perduta nel mondo; quella lettera aveva fatto il vuoto intorno a me e nel mio cuore.
«Io non so dove trovino gli scrittori quei caratteri chiari, coerenti, che, una volta descritti, agiscono sempre a seconda delle passioni e dei sentimenti predominanti che hanno rivelati. Nel mondo non è così. Si trovano nature fluttuanti in una perpetua alternativa di bene e di male, di coraggio e di debolezza, di passione generosa e prepotente, e d'egoismo calcolato e freddo.
«Massimo così appassionato, così impetuoso, così irriflessivo nelle sue giovanili imprudenze, ora era ad un tratto prudente e misurato come un'equazione algebrica. Qual'era il suo carattere? E dove? Nell'uomo o nella lettera?
«Egli che mi aveva dimostrato un amore delirante, ora parlava con paura del pericolo che l'affetto che io gli avevo inspirato si mutasse in passione.
«Non era adunque che un semplice affetto? La passione era ancora nelle nubi dell'avvenire? Ed il suo cuore era tuttavia calmo abbastanza per venire a congresso colla ragione, capire che non era il caso d'accelerare più oltre la misura de' suoi battiti, e fermarsi?
«Ma allora che cos'era il sentimento che mentre mi onora e mi venera, eccita in lui per me i trasporti più rivoluzionarii dell'amore prepotente ed intero? Mentiva in quell'ultimo periodo? O mentiva nel primo? M'ingannava l'uomo, o m'ingannava la lettera?
«Ingannava la lettera. Così pensai dopo averne passata in attenta rassegna ogni frase, ogni parola.
«Egli mi amava; in un impeto di vera passione aveva deciso di seguirmi, ed aveva sperato d'indurmi a rompere ogni altro impegno, a mancare alla mia parola, ad esser sua.
«Poi, nell'intervallo tra il progetto e l'esecuzione, aveva pensato a me, onesta e leale, che cesserei di esserlo il giorno in cui cedessi al suo amore. E si era detto.
—«A che l'uomo sarebbe il più forte se non avesse il coraggio morale, dinanzi all'amore di una donna, di combatterlo per sè e per lei, quando è nell'interesse di lei di combatterlo?
«Ed attingendo nella lontananza quell'eroismo che vicino a me sarebbe stato affogato da un impeto giovanile, ad una parola, ad uno sguardo, aveva scritto una lettera ragionata; aveva compresso il suo cuore per farlo tacere dinanzi al mio. Ed a quando a quando il cuore s'era imposto alla ragione, ed aveva dettato una frase che smentiva le precedenti.
«Così mi spiegai la lettera sconclusionata ed incoerente di Max. Era realmente così?
«Ma ad ogni modo io ne era addolorata ed offesa. Avrei voluto quella passione che non ragiona. Forse era un'idea da romanzo; forse sarebbe stato una ruina per me; forse in realtà egli era generoso ed assennato, io imprudente ed egoista; forse avrei dovuto ringraziarlo e benedirlo del sacrificio che s'imponeva per me.
«Eppure non lo ringraziai nè lo benedissi. Il mio pensiero non andava al futuro per calcolarvi i mali preveduti da quel savio procedere. Stava nel presente, che aveva sognato divino e trovava arido e vuoto. Cercava il giovane innamorato e trovava l'uomo savio. Nell'amarezza della delusione gettai sulla carta questa risposta:
—«Massimo,
—«La vostra lettera è un plagio. Avete tradotte in pratica le mie teorie dell'episodio tempestoso; ma voi, campione degli amori eterni, l'avete abbreviato. Vedo che siete ridivenuto filosofo; ma vi preferivo poeta.
* * * * *
«Dopo queste ci scambiammo una serie di quelle lettere, in cui il platonismo dell'amicizia disillusa fa posto tra riga e riga alle insinuazioni fatali dell'amore, che, grande o piccolo, caldo o freddo, alato come un Dio o paffuto e rubicondo come la prosa dell'umanità, sta sempre rimpiattato in qualche angolo, dovunque stanno in rapporto un uomo giovane ed una giovane donna.
«E tra una lettera e l'altra cominciai a fare le prove dell'opera, poi ad andare in iscena, ad essere applaudita, ad inebriarmi nella gloria del successo, nella passione dell'arte; ed anche nell'interesse delle nuove scritture.
«Tutto codesto spuntò la prima amarezza; mi aiutò a vivere senza quella gioia di cui m'ero fatto un unico pensiero, mi ripose lo spirito in calma.
«E quelle lettere ridivennero per me una grande dolcezza, e le attesi e le accolsi e le studiai come a caso nuovo; e di volta in volta mi affannai a trovarvi ed anche a provocarvi espressioni d'amore; e mi dissi che la violenza con cui egli reprimeva il sentimento dinanzi alla ragione, veniva meno grado grado, e tornai a credermi amata, e tornai ad amare, e tornai a sperare. Erano illusioni? Era verità? Non lo seppi mai.
«Sempre con quell'andirivieni di lettere, che ormai era parte integrante della mia esistenza, ed era la parte più cara, terminai la stagione di Reggio; di là passai ai bagni di Livorno, dove mi raggiunsero il babbo e Gualfardo che avevano ottenuto entrambi un mese di libertà per passarlo meco.
«Questa volta Gualfardo ed io eravamo, per dirla con termine da teatro, perfettamente affiatati. Freddi entrambi, egli per natura, io per lo sgomento che avevo di mentire con lui un amore che sentivo invece per un altro, ci trattavamo come due bagnanti che si sieno conosciuti alla tavola rotonda il giorno innanzi. Così a me non accadeva di fargli rimprovero della sua freddezza; e, quanto a lui, sarebbe andato a rotoli il mondo prima che pensasse a rimproverarmi la mia.
«E tuttavia ogni volta che scrivevo a Massimo o ricevevo lettera da lui, mi sentivo umiliata della mia colpa, ne avevo rimorso, stavo a disagio tra il babbo e Gualfardo; e cento volte fui sul punto di aprire l'animo mio al mio bel maestro, e di dirgli lealmente: «o fa ch'io possa amarti, o rendimi la mia libertà.»
«Ma come erano passati i trasporti febbrili di Milano pel bello ed innamorato Massimo, come era passato il grande sconforto per la caduta delle mie illusioni a Reggio, passarono anche i miei rimorsi ed i propositi generosi. Nei romanzi, sul teatro, tutti i principii hanno un fine; tutti gli intrecci giungono ad uno scioglimento. Nella vita codesto accade di rado; tutto passa e si dilegua. Sic transit.
«E finì il mese dei bagni, e mi recai a Firenze dove ero scritturata per andar in iscena colla Jone al teatro della Pergola.
«Le lettere di Max s'erano fatte sempre più misteriose; mi citava dei versi d'amore, ne scriveva per me. Nella mia qualità d'artista ero circondata a Firenze come altrove. Ben pochi non mi corteggiavano; ed a me pareva che l'amore fosse il grande affare dell'umana vita.
«Il babbo era tornato con Gualfardo a Torino; non avevo ambiente di famiglia che m'inspirasse a maggiore serietà d'idee. Quanto a Gualfardo non mi parlava mai, nelle sue lettere, del nostro matrimonio, più che d'un eclissi lunare. E così mi restava sempre quel vuoto nel cuore, ch'egli non pensava a riempiere con una parola appassionata, e ch'io popolava colla calda memoria di Max.
«Ero alla vigilia di lasciar Firenze. Scrissi al babbo che sarei partita col primo treno dell'indomani, e sarei giunta a Torino la sera stessa. Non contavo fermarmi per via.
«La sera mi giunse una lettera di Max. Era una strana lettera, che riporto per intero.
* * * * *
—«Mia buona amica,
—«Avete voluto mortificarmi rimproverandomi i sottintesi delle mie lettere; accetto la lezione e ve ne ringrazio. Voi dite sempre le cose vere, e per giunta, come le dite benino! Insomma, siete una giovane ammodo, e vorrei esservi vicino per esprimervi tutto il trasporto d'amicizia e di simpatia… che ho per voi. Quanto al resto, acqua in bocca. Non volete più che ne parli; e sia.
—«Mi crederete molto malvagio se vi dico che provo un senso di acre voluttà figurandomi che il vostro Gualfardo pensa forse, nel gelo della sua anima, alla vostra freddezza durante il mese di Livorno, e ne soffre alla sua maniera?
—«Vi sono periodi nella vita in cui si sveglia nell'uomo tutta la parte che gli è toccata nella grande eredità del male. Io mi trovo in uno di cotesti periodi. Non mi sono mai sentito così parente (alla lontana) coi malfattori d'alta e bassa sfera, come ora, e pensando a voi ed al giovane tedesco.
—«Il fatto è che io sono molto infelice. Vi giuro pei bei giorni del nostro fuggevole passato, che non faccio delle frasi per commovervi. A che le farei? Anch'io come voi dispero dell'amore; anch'io, Fulvia, guardo con tristezza sconfortata a quel lampo di felicità che ci ha abbagliati. E poi? E poi c'è Gualfardo, e la vostra fede inviolabile a quella statua di ghiaccio, ed il suo anello nuziale, e la sua felicità.
—«Non son chi fui, perì di me gran parte: la parte migliore, la parte che nessuna potenza umana potrà ridonare alla vita. Mi resta la vostra amicizia, Fulvia; la vostra affettuosa amicizia, punto luminoso e dolcemente mesto in una landa oscura e fastidiosa.
—«(Ora poi voglio posare sulla tua bella fronte un lungo bacio, che sia il compendio delizioso di tutte le mie speranze svanite, di tutte le mie illusioni non raggiunte; che sia come la cadenza armoniosa di una bella canzone, che non dovremo mai più ricominciare).
—«Addio, Fulvia. Non mi rimproverate un ultimo sfogo dell'anima. Io non sono temibile per voi. Non credo di esserlo stato mai dinanzi alla vostra fiera virtù. Ma ora poi, mi sento disfatto in faccia a me stesso, e debbo esserlo anche in faccia a voi. A rivederci, se il destino lo vorrà. Quando vi stringerò la mano, la bella mano candida, mi troverete molto mutato.
«Quella lettera mi fece una profonda impressione. Lessi più e più volte quel periodo chiuso nella parentesi, e lo ripensai ancora ed ancora dopo aver piegata la lettera, e mi trovai di saperlo a mente.
«Mi nascondevo il volto tra le mani, e ad occhi chiusi vedevo Massimo dinanzi a me, e sentivo il suo bacio. O Dio! Non era vero ch'egli non fosse temibile per me. Ero d'una debolezza dinanzi a lui! Egli aveva l'energia che mancava a me; e quello sguardo d'aquila che penetra nell'anima. Con questo mi conosceva; con quella mi dominava.
«Se, quando io gli avevo detto in quella sera burrascosa: «Non vi amo più» egli fosse rimasto umiliato dalla mia parola, e l'avesse accettata, io mi sarei esaltata in quel capriccio, e vi avrei persistito, e quell'amore sarebbe finito come la simpatia per Giorgio. Max invece mi scrutò il cuore e vide che l'amore viveva, ma era sopraffatto soltanto da una fantasia bizzarra; ed, ardito ed energico, s'oppose alla mia fantasia, mi dimostrò il mio proprio inganno, e mi disse:
—«Sii sincera; non vedi che mi ami?» Ed io fui sincera, il capriccio svanì, l'amore rimase.
«Egli mi dominava coll'ascendente del suo grande ingegno e della sua anima leale; e non poteva non esser temibile. Dovevo fuggirlo. Dovevo fuggirlo.
«Codesto pensavo, poi ripensavo il suo bacio, poi guardavo la mia mano per vedere se fosse realmente la bella mano candida, o se gli preparasse una delusione. Dove poi? Quando? Io non ne sapevo nulla. Ma chi può dire da quanto tempo ha cominciato ad abbozzarsi nel nostro pensiero un errore prima che una circostanza futile, o una catastrofe,—uno zeffiro o una bufera,—lo spingano nella realtà dei fatti?
«Quella sera non ricevevo alcuno perchè dovevo fare i preparativi della partenza. Però quando si presentò la signora contralto colla quale avevo stretto amicizia, la mia cameriera credette dover fare un'eccezione in suo favore e la introdusse.
«Ebbi sempre il baco delle confidenze. Le mostrai la lettera. Era una donna franca e gioviale. Buona in realtà, onesta anche; ma senza raffinatezze. A lei, bacio più bacio meno, non era quello che disturbasse la digestione. In quella lettera non trovò che da ridere. E come ne rise!
«Quanto a me, l'ultimo pensiero che avrei potuto avere, sarebbe stato di ridere di quella lettera, e di un sentimento che mi dava l'impressione di tenermi sospesa per virtù d'incanto sul cratere di un vulcano. Però, appunto perchè a' miei occhi tutto codesto era tanto serio e grave, che mi tormentava in una continua alternativa di aspirazioni e di terrori, di audacia e di rimorso, mi sentii consolata al vedere che quella giovane non lo considerava che come un gioco.
«Dunque io mi esageravo i miei torti, e Massimo pure si esagerava la gravità dei nostri rapporti; non c'era alcun male. Infatti non ero io onesta come prima, e degna della mano d'un uomo d'onore? Questo mi rasserenò e diede alle mie idee ed al mio giudizio un carattere meno severo.
«La contralto era milanese; ella doveva partire con me da Firenze per
Torino, dov'era scritturata. Ma voleva fermarsi due giorni a Milano.
—«Si fermi anche lei» mi disse. «Che paure ha? È forse la prima volta che vede il signor Massimo? Se ha saputo rispettarla prima lo saprà ancora. E poi la ci ha da essere anche lei.
«Tolga Iddio ch'io voglia scaricare, colla viltà di Eva, la responsabilità di un mio errore sull'amica tentatrice. Ero libera ed in età di ragione e d'esperienza, e quel che feci lo feci perchè volli.
«Ma è un fatto che, una volta ch'ella ebbe messa la questione sotto un punto di vista falso, io non la presi più che da quel lato. «Essere o non essere Massimo capace di rispettarmi;—essere o non essere io ben risoluta di rimanere onesta.»
«E, poichè di codeste due cose ero certa, non pensai che il male ha tante gradazioni; che un fidanzato è oltraggiato non solo dall'ultima conseguenza dell'infedeltà, ma da qualunque dimostrazione d'amore prodigata ad un altro, fosse pur solo una stretta di mano; Una lettera… una gita misteriosa poi… ed un bacio! Santa pazienza!
«Tutto codesto non pensai, e spedii questo telegramma al babbo:
«Pietro Zorra, via Roma, 10.
—«Vengo colla contralto. Resto Milano due giorni. Arriverò sabato.
* * * * *
«Tre volte avevo scritto e riscritto «saluta Gualfardo» e tre volte il rimorso me lo avea fatto cancellare. Finii per contare le parole colla precisione d'un avaro, e persuadermi che era affatto impossibile raddoppiare il prezzo del telegramma per aggiungere quel saluto e quel nome. Dio m'è testimonio che l'avarizia non c'entrava, ed avrei dato fin l'ultimo soldo, per poter salutare Gualfardo colla coscienza tranquilla ed il cuore contento.
«Giungemmo a Milano sull'imbrunire. Bisogna aver provato a sentirsi un simile inganno sulla coscienza, per comprendere l'angoscia di quel momento. Non mi ero premunita, come le donne da commedia o da romanzo, di un denso velo per coprirmi il volto. Faceva un caldo soffocante; ero vestita di chiaro, con un cappello tondo. Chiunque m'avesse veduta una volta poteva riconoscermi. Allo scalo c'era un mondo di gente coll'occhio intento ai nuovi arrivati, per cercare fra essi le persone che aspettavano.
«Mio Dio! Mi pareva che tutti quegli occhi fossero là per me sola; che tutta quella gente non avesse altro affare a questo mondo che di domandarsi a vicenda perchè io giungessi a Milano, e che vi cercassi se non Max; e perchè lo cercassi dacchè avevo un fidanzato.
«Non potevo capire che i facchini gridassero forte i numeri dei colli, nel distribuire le merci, ed i conduttori d'omnibus e di carrozze facessero tanto chiasso, mentre io giungevo con tanto mistero. Mi pareva che tutti avessero a star zitti, ed a camminare in punta di piedi, ed a sgusciar via al più presto, come feci io.
«Entrammo in una carrozza da nolo; non osai entrare nell'omnibus dell'albergo, per non esser veduta. Mi pareva di non aver diritto di essere a Milano; e che ogni primo venuto potesse ricordarmelo. Si passò in via della Spiga per condurre la contralto da' suoi parenti, poi per la via Gesù, Monte Napoleone, via Pietro Verri, e piazza Belgiojoso, mi feci condurre all'Albergo della Bella Venezia. Non avrei mai avuto il coraggio di affrontare gli sguardi dei camerieri dell'albergo di Milano. Non c'era mascalzone sulla terra, in cui non vedessi un giudice, e dinanzi a cui non chinassi la fronte.
«Massimo non seppe e non saprà mai che immenso sacrificio io gli abbia fatto, e quanto quella follia sia costata al mio cuore.
«Avevo preparato a Firenze un biglietto per avvertirlo del mio arrivo, e lo avevo impostato allo scalo. Non c'era caso che egli si alzasse avanti la prima distribuzione della posta. Così il mattino seguente alle otto avrebbe la mia lettera.
«Non mi fu mai possibile di tener conto, ne' miei calcoli, del tempo che impiegherebbe il fattorino a recarsi da Max, ed egli a vestirsi ed a venire da casa sua all'albergo—dalla via del Cappuccio alla piazza S. Fedele—circa un chilometro di strada. Alle otto si cominciava la distribuzione delle lettere; e mi pareva che alle otto Max busserebbe alla mia porta.
«Tutta notte vegliai, angosciata dalla paura di non destarmi abbastanza presto per essere in ordine a quell'ora mattutina. Alle sei mi alzai senz'aver chiuso un occhio. Alle sette ero vestita per ricevere. Con un'ora dinanzi a me, guardai trenta volte l'orologio e feci dei calcoli infinitesimali, per persuadermi che avevo il tempo di prendere il caffè prima che Max venisse. Ordinai quella bibita con tanta premura che dovettero credere che mi prendesse male. Poi m'inquietai che non fosse lì subito, e nel tempo che il cameriere impiegò a scendere le scale e risalire, mi pentii dieci volte di aver dato quell'ordine, e mi spaventai all'idea d'essere scoperta da Max prendendo il caffè, come non so di che umiliazione. Appena fu recato il vassoio, dissi al cameriere di aspettare, ed afferrata la tazza ingollai tutto il caffè bollente in un fiato, bruciandomi la bocca e lo stomaco, e rimandai tosto il servo col corpo del delitto.
«Non erano che le sette e mezzo. Ancora mezz'ora, mezzo secolo da aspettare!
«Andai allo specchio e rifeci toletta; mi ravviai i capelli, rilavai le mani, ecc. Finalmente sentii il primo tocco delle otto. Era come se Max avesse bussato. Gettai alla rinfusa tutti gli oggetti da toletta nella scatola senza prendere un minuto per ordinarli; e prima che l'ottava ora fosse suonata, corsi a sedermi sul sofà, come se me ne restasse appena il tempo.
«Oh Dio! Le ore avevano cessato di suonare, e Max non era ancora giunto; ed il mio uscio rimaneva chiuso. Ne ero sbalordita come se da quell'uscio avessi veduto entrare la guglia del duomo.
«Là, immobile su quel sofà, coll'occhio intento e l'orecchio teso, rimasi ore dopo ore, e ad ogni passo di cameriere che saliva le scale, il mio cuore si mettava a ballare una pazza tarantella. S'è molto scritto sul senso di divinazione dell'amore che ci fa riconoscere il noto passo della persona amata; ma in realtà codesto si riduce ad una questione di scarpe. Quelle di Massimo scricchiolavano quand'ero a Milano. Supposto che le avesse cambiate, addio noto passo; non l'avrei riconosciuto più. Intanto scricchiolavano tutte le scarpe dei servitori, e, se non ne presi un aneurisma, è un fenonemo da notare negli annali della medicina.
«Passò il mezzogiorno, ed un'ora, e le due, ed ero sempre sola. Non c'era pensiero desolante che non mi venisse in mente.
«Max era innamorato d'un'altra e non pensava più a me. O aveva rinnovata la sua relazione colla marchesa Vittoria, e stava a Monza nella villa di lei, e non aveva nemmanco idea della mia lettera e del mio arrivo. O la lettera l'aveva ricevuta, sì; ma giudicava la mia condotta severamente; come meritava. Gli sembravo un'avventuriera, una donna senza decoro ad andarmene così di città in città per dare appuntamento ad un giovinotto in una camera d'albergo. E non si degnava neppure dì venire a porgermi la mano. Era un rimprovero, una lezione.
«E quest'idea era la più insistente, la più terribile. Mi pareva di vedermi dinanzi la bella figura tanto dignitosa di Gualfardo, fissarmi con uno sguardo di sprezzo, che mi trafiggeva il cuore.
«Alle tre, non reggendo più a quell'immobilità angosciosa, uscii, traversai la galleria senza nemmanco pensare che mi si potrebbe riconoscere, andai in duomo, m'inginocchiai dietro il coro, ed in quella penembra solenne, piansi amaramente.
«Per la prima volta pensai a lungo senza raccapriccio alla morte. Quel primo novissimo di cui non è dato dubitare, mi pareva in quel momento la cosa più desiderabile che rimanesse per me in questo mondo. La mia agitazione era così grande, che nulla dovea sedurmi più di quella tranquillità assoluta e secura. Pensavo che i morti dovevano gustare una pace deliziosa adagiati nelle loro casse, dove non vi sono fidanzati da ingannare, nè amanti da attendere, nè alberghi per ospitare un errore.
«Avrei voluto partir subito; correre a Torino. Ma avevo scritto che giungerei sabato colla contralto. Che cosa penserebbero il babbo e Gualfardo a vedermi arrivare il giovedì, e sola? Eppure, in tanta noia ed in tanto cruccio, non andavo a cercar consiglio dalla contralto. L'idea di vederla trattar leggermente quell'agonia della mia coscienza mi faceva male. Comprendevo omai tutta la gravità del mio passo, e qualunque fosse il giudizio indulgente di lei, sentivo che non potrebbe modificare il mio. Nell'uscire scontrai un prete nella navata; e desiderai d'esser quel prete. Poi vidi un vecchio cieco che vendeva amuleti e coroncine; e desiderai d'esser quel cieco. E pensavo. Ecco due uomini che non hanno amori, e non sentono rimorsi, e sono felici. In quello stato d'animo non credevo ad altre passioni nè ad altri errori, nè ad altre miserie.
«Nel traversare la Piazza del Duomo per tornare a casa mi trovai in faccia a Giorgio.
«Se fossi stata più devota l'avrei creduta una grazia concessa dal cielo alla mia preghiera. Egli non riderebbe de' miei rimorsi, de' miei dolori. Era un'anima nobile, un amico.
«Gli strinsi la mano con effusione, e come cosa convenuta, egli venne con me; era contento di rivedermi, ed io ero felice d'averlo trovato. Gli dissi tutto, tutto il peso che avevo sul cuore. Ed egli mi narrò come mi avesse amata. Ed io pure gli narrai come allora l'avevo compreso. E fin che rimase nel mio cuore una piega da svolgere non cessai dalle confidenze.
«Mi disse che gli facevo male a parlare del mio amore per Max. Ma io avevo bisogno di parlarne; avevo bisogno di accusarmi.
«Giorgio era uomo di spirito. Checchè avesse nel cuore, non fece la menoma scena di gelosia. Parlò di Max come ne parlava sempre, con entusiasmo, colla più calda amicizia. Dissipò tutti i miei terrori.
«—Max non amava un'altra. Non vedeva più Vittoria. E non penserebbe mai a disprezzarmi per essermi trattenuta a Milano per lui. Max non era nè severo, nè formalista; guardava ai fatti, e nessuno conosceva meglio di lui, che io era un'onesta giovane. La sua mamma era in campagna sul lago di Como; egli c'era forse andato a passare una giornata, e per questo non aveva ricevuto il mio biglietto, e non era venuto.»
«Tutto codesto mi disse colla sua bella voce un po' commossa, ed io ne ebbi profondo conforto.
«Si trattenne a lungo. Passò tutta la sera con me. Si parlava sempre del passato. E v'erano momenti in cui la sua bella voce mesta mi commoveva. Ed allora riprendevo a parlare di Max, ed esageravo il mio amore per lui con espressioni da romanzo. Ero così indisposta contro di me, mi giudicavo così severamente, che quell'emozione involontaria alla voce di Giorgio mi sembrava una colpa. E sentivo orrore di me. Impaurita de' miei sentimenti, li prendevo tutti in mala parte. Se un accattone m'avesse commossa domandandomi un soldo, mi sarei accusata d'amare quell'accattone. Se un poeta ignoto m'avesse commossa colle sue rime, o un maestro colle sue melodie, mi sarei accusata d'amare quel poeta e quel maestro.
«Però m'accusavo a torto. Ora, ripensando a tutto quel passato, se v'ha cosa in cui possa riposare la mente senza scontento di me, se v'ha memoria di cui possa gloriarmi, è quella della sera passata con Giorgio, della sua lealtà, del suo nobile contegno, della sua vera amicizia.
«Ebbi un'altra notte d'insonnia angosciosa; ed ancora mi alzai all'alba, ed ancora passai una mattina in ansietà assurde e ridicole per chi m'avesse osservata a sangue freddo, ma che per me erano una vera agonia.
«Alle dieci s'udì una corsa rumorosa su per le scale, come d'un cameriere che accorra ad un appello impaziente, o d'un ragazzo che giochi; e la sbarra risuonava forte. Ed immediatamente il mio uscio fu aperto con impeto. E, senza farsi annunciare, senza bussare, senza chieder permesso, Max irruppe in camera tutto ansante, e mi prese nelle sue braccia.
«Era dunque ancora lui, impetuoso, passionato, che non faceva mai nulla come gli altri. Non era vero ch'egli fosse mutato. Alteramente bello ed alteramente imprudente come prima, dimenticava il mondo dinanzi al suo amore, non soffriva l'indugio d'un'ambasciata, correva lieto e spensierato dove lo portava il cuore.
«Com'era felice di vedermi! Anch'io fui felice, Furono belle ore; ore di gioia inebriante. E quel bacio sulla mia fronte, quel bacio che aveva descritto nella sua lettera, fu quanto di più intimo, di più colpevole avvenisse tra noi. Egli mi stringeva le mani, e mi diceva:
«—Voi mi siete sacra per la vostra ingenua fiducia, Fulvia. Sono contento d'amarvi così. Credetelo pure, io conosco il mondo, e vi giuro che la sola felicità vera, è quella che si può rammentare senza rimorso.
«Perchè, s'egli può rammentarmi senza rimorso, ne rimase tanto a me? I doveri d'una donna sono dunque così differenti e maggiori? E, da lei che è più debole, si dovrà pretendere di più? Cosi è. Egli mi rispettava, faceva il suo dovere di uomo d'onore; era onesto e grande. Io mi creavo un segreto, preparavo una menzogna per ingannare un nobile cuore, ed ero colpevole.
«Ma allora non pensavo più a fare esami di coscienza.
«Max possedeva tutte le superiorità. La bellezza, la forza, l'ingegno, il carattere; ed in esse io trovava una scusa alla mia debolezza, ed una protezione contro le accuse del mondo e della mia coscienza.
«Non vidi più Giorgio, non vidi più alcuno fuori di Max. Egli mi lasciò, appena per qualche ora, al tempo del pranzo. Poi tornò. Faceva un gran caldo. Aprimmo il balcone; ci sedemmo l'uno accanto all'altro tenendoci per mano, e guardando, giù nella via, le signore che andavano al teatro Manzoni a piedi ed a capo scoperto per pigliare il fresco. Eravamo sereni ed ilari come due fanciulli. Io gli dissi:
«—Ecco, io non potrò mai andare a teatro con voi. Eppure sarei tanto felice se lo potessi. Seduta in un palchetto in faccia ad uno sposo amato, come si devono risentire tutte nell'anima le situazioni passionate del dramma! Vi sono certe scene che non ho mai potuto udire senza provare un gran desiderio di ripeterle con una persona amata.
«Allora egli volle che ne citassi qualcuna; ma la mia memoria non me ne suggeriva; ero tutta assorta nella bella scena reale che rappresentavamo noi due per noi soli. E gli risposi:
«—Suggeritemi voi, così vedrò se i nostri pensieri si sono accordati prima di conoscerci.
«Ed egli a citarmi le cose più strambe, passando dagli amori di Arlecchino e Colombina, alla tomba di Giulietta; ricordando le situazioni più comiche, evitando a bello studio tutte le scene di passione. E ridevamo come due scolari in vacanza. Io gli chiesi:
«—Che cosa fanno stasera al Manzoni?
«—Non lo so, mi rispose; vado a vedere.
«—Sì, poi mi racconterete la commedia; e se non la sapete dovrete inventarla.
«—Accettato. Le scene di sentimento le reciteremo a braccio.
«E scese a leggere il manifesto. Io lo guardavo dalla finestra.
«La commedia annunciata era il Terenzio. Egli risalì, felice che dovessimo parlare in versi martelliani. Io mi prestai di buon grado alla scena tra Terenzio e Creusa, e da parte di Max, i versi di Goldoni non furono peggiorati certo.
«Quando cominciò la gente ad uscir dal teatro, gli dissi che lo spettacolo era finito, e che doveva ritirarsi. E ci lasciammo stringendoci la mano. Giovani, liberi, innamorati, riuniti misteriosamente, ci lasciammo con una stretta di mano, e fummo felici, «sotto l'usbergo del sentirci puri.»
«L'indomani colla prima corsa dovevo partire. Egli sarebbe venuto a prendermi per accompagnarmi allo scalo, per salutarmi ancora. E poi? Poi nulla. Non c'era prospettiva d'un altro ritrovo, non c'era avvenire per noi. Scriverci… era tutto.
«Erano le undici. Mi restavano quattro ore per finire di mettere in sesto la mia valigia, spettinarmi, svestirmi, dormire, poi rivestirmi, ripettinarmi. Ed avevo il cuore così angosciato, ero in tale eccitamento nervoso che prevedevo di passare una terza notte di veglia. Rinunciai affatto a coricarmi. Mi abbandonai in una poltrona col capo tra le mani, decisa ad aspettare là il momento della partenza.
«Avrei voluto che quel momento fosse giunto. Avrei voluto essere già a Torino. Avrei voluto non essere stata a Milano. Appena Max non mi era più accanto, mi sentivo profondamente umiliata e pentita della mia posizione. Ripensavo ad una ad una tutte le mie conoscenze, per cercare se ve ne fosse qualcuna a cui potessi confidare quella mia gita misteriosa. No; tutte quante erano troppo oneste persone per accettare una simile confidenza. Forse sapendola avrebbero cessato di frequentarmi.
«Oh Dio! Avevo commesso un'azione da non poter confessare alle persone oneste! Dopo ciò, che importava che io stessa fossi onesta? Ed in vero, avevo perduta quella onestà morale, che risulta dalla lealtà del nostro procedere. E pensavo:
«—Una donna che abbia un amante, che conviva seco, ma gli sia fedele, è più onesta di me che mento a due innamorati, ed alla società. Ecco a che sono ridotta.
«Piangevo di vergogna, di rimorso, della disperante impossibilità di cancellare dalla mia vita quel passo fatale.
«E pensavo a quei romanzi che fanno tanto dispetto a leggerli, perchè vi si vedono esseri che potrebbero essere felici, purchè si spiegassero francamente, ed invece si sacrificano per una fedeltà esagerata, ad un principio e ad una promessa che farebbero assai meglio a revocare, nell'interesse stesso della persona a cui l'hanno impegnata. Noi eravamo appunto in quella circostanza. Ci sacrificavamo; perchè? Per fare un romanzo?
«Avremmo potuto essere felici, sposarci, amarci tranquillamente. Gualfardo non ne sarebbe morto; lo sapevo bene. Eppure non mi sentivo il coraggio di dirgli:
«—Dopo quanto avete fatto per me, malgrado il vostro nobile carattere, la vostra generosità, il vostro animo leale, la vostra fedeltà, il vostro rispetto per la mia gioventù abbandonata, malgrado tutto ciò, io vi sono stata infedele moralmente, e vi ridomando la mia parola per esserlo in fatto. Voi foste tutto per me; in compenso io non voglio esser nulla per voi. Ho trovato un uomo il cui ingegno mi affascina; un uomo dal carattere impetuoso e giovanile; un uomo che ha le virtù ed anche i difetti che non avete voi. Io voglio quei difetti, voglio quelle virtù, voglio quell'uomo. Che importa se sono egoista ed ingrata? Rinunciate ai vostri progetti d'avvenire; rinunciate a me che sceglieste fra tante; io non voglio combattere i miei sentimenti, io voglio essere felice.»
«Guai alla donna che ha il coraggio di affrontare una simile spiegazione. Il suo cuore dev'essere arido per non spezzarsi; ed allora la felicità che cerca, potrà trovarla per sè, ma non potrà renderla a nessuno.
«S'udì ruotar la carrozza in corte, e Massimo salì a prendermi per la partenza. Mi trovò mesta; volle consolarmi e mi fece piangere. Il cameriere prese la valigia e ci precedette. Noi ci stringemmo ancora una volta la mano e scendemmo le scale, e salimmo in carrozza, e traversammo la città scura e dormente, e giungemmo allo scalo senz'avere scambiata una parola. C'era ancora un quarto d'ora da aspettare. Ci sedemmo in un angolo riposto, e ci ripetemmo le più sincere promesse di sempre e di mai.
«O propositi profondamente veri, amore profondo, profondo dolore da cui eravamo compresi! Calde inspirazioni di quelle proteste, di quei giuramenti! Che fu di voi? Ahi, tutto passa. Sic transit.
«Poco dopo di noi giunse la contralto. Ella salutò, ci precedette, ed andò a mettersi in carrozza. Max ed io traversammo insieme la sala d'aspetto, ed insieme ne uscimmo dall'altro lato. Io entrai nel carrozzone dov'era la contralto. Egli salì sul predellino e rimase là guardandomi muto e melanconico. Lentamente s'era fatto una luce scialba e triste, e Max mi disse:
«—Incomincia ad albeggiare.
«In quella il convoglio si mosse; egli mi strinse forte la mano e si allontanò. Fu l'ultima parola, l'ultimo ricordo senza amarezza che mi rimase di lui. D'allora non potei più veder l'alba senza sentirmi stringere dolorosamente il cuore, senza rivedere tutti quei fantasmi d'amore, di gioia, e sentirne la morte nel gelo di quell'ora, nella malinconia di quella luce, nella ricordanza di quella parola. E pensando ad una ad una le cose e le idee a me care, su cui cominciava ad albeggiare, mi ripetei poi sempre rabbrividendo: non vedranno il tramonto.
«—Torino! Porta Susa! Chi scende! Porta Susa!
«Queste grida ripetute a varie distanze e lo spalancarsi della portiera, mi strapparono alle mie fantasticaggini. Scesi dalla carrozza e mi avviai all'uscita, triste, confusa, umiliata all'idea di incontrarmi con Gualfardo.
«Avevo fatti pochi passi, quando sentii prendermi di mano la valigia, ed udii una voce ben nota dirmi:
«—Ben tornata, Fulvia.
«Era Gualfardo.—Pensai che, per un carattere freddo e chiuso come il suo, aveva fatto molto a domandare che lo lasciassero passare entro lo scalo per incontrarmi un minuto prima, e quel pensiero mi serrò il cuore come un rimorso.
«—Come va, Gualfardo? gli dissi.
«—Bene, bene, e voi? Passate di qui, a destra. Il vostro, biglietto?
E mentre rimetteva il biglietto alla guardia, riprese:
«—Ecco il babbo.
«Io gli corsi incontro per abbracciarlo.
«—Ben tornati, disse il babbo.
«Quel plurale mi sorprese. La gioia del mio ritorno lo confondeva.
«—È un pezzo che state ad aspettarmi? domandai.
«—No, giungo or ora, rispose il babbo.
«—Ah, sei venuto solo? gli chiesi stupita che rispondesse in singolare alla domanda che gli avevo fatto in plurale.
«—Sicuro. E voialtri avete fatto buon viaggio?
«—Come, voialtri? Io.
«—Ma non siete venuti insieme?
«—Son venuta colla contralto; ma tu non la conosci punto. A proposito, nello scendere è sgusciata via. Non l'ho più vista.
«Intanto eravamo usciti sotto il portico, e Gualfardo fece avanzare una carrozza. Quando io ed il babbo vi fummo entrati, Gualfardo mi domandò la ricevuta del mio bagaglio, e voleva rimanere per farmelo condurre a casa subito. Io risposi che non occorreva; potevo far ritirare i bauli con comodo il domani.
«Egli ci mise dell'insistenza, come se gli desse noia d'entrare in carrozza con noi. Allora il babbo gli disse:
«—Almeno metti qui le valigie che t'imbarazzano.
«Un altro plurale! Io non avevo che una valigia.
«—Sì, dissi; posate la mia valigia. Ed intanto tiravo fuori il portafogli per dargli la ricevuta del bagaglio.
«Egli posò sul sedile dinanzi a noi la mia valigia, prese lo scontrino che gli porgevo, e via.
«—Gualfardo! gli gridò il babbo. Anche l'altra, che ne fai di quell'impiccio?
«Gualfardo tornò indietro. Era un po' arrossito, ed il suo occhio ebbe qualche cosa di triste in risposta al mio sguardo attonito.
«Egli aveva due valigie!
«—Ma io non ne ho che una, gli dissi. Quella non è mia…
«—È mia, disse Gualfardo.
«Sentii vagamente che in quella parola c'era qualche cosa di spaventoso, e tuttavia non compresi ancora.
«—Vostra! esclamai. Mi siete venuto incontro colla valigia?
«—Ma sì;—ed entrando in carrozza soggiunse: Tanto fa che venga con voi; il bagaglio lo prenderò domani; e diede l'indirizzo al cocchiere. Poi, fissandomi con quella sua aria impassibile da tedesco che metteva i brividi, mi disse:
«—Vi sono venuto incontro fino a Milano; ecco perchè ho la valigia.
«—Ah? che? come? Non vi siete scontrati? Ora capisco perchè volevi nascondere la valigia colla scusa di rimanere a ritirare il bagaglio. Non volevi ch'io ridessi!
«Così esclamava il babbo, e rideva, e trovava un umorismo infinito a pensare che Gualfardo mi era venuto incontro senza trovarmi; ed attribuiva la confusione di Gualfardo e la mia confusione unicamente alla paura del ridicolo.
«Oh Dio! il ridicolo! avrei voluto vedere tutta Torino a bocca squarciata, tenendosi le costole dal ridere per conto mio; avrei riso più forte di tutti, avrei danzato di gioia se avessi potuto non essere che ridicola.
«Ero rimasta fulminata dalle parole di Gualfardo. Avevo udito le osservazioni del babbo meccanicamente; ma nel mio interno avevo ben altra preoccupazione.
«Che cosa aveva fatto Gualfardo a Milano? Come e perchè non mi aveva trovata? Sapeva qualche cosa? Sapeva tutto? O non sapeva nulla?
«Il suo volto era perfettamente impassibile. A giudicare da quello si poteva credere che non sapesse nulla.
«Cento domande mi vennero alle labbra nell'ansietà di quel momento. Ma sentivo battermi il cuore con tale violenza, e provavo un'angoscia ed un'umiliazione tanto profonde, che non avrei potuto pronunciare una parola su quell'argomento, senza tradirmi col rossore e col tremito della voce.
«Così non dissi più altro, e mi diedi a guardare fuori dallo sportello, ed a fissare i passeggieri con tanta attenzione, come se tra essi cercassi una persona aspettata, dalla cui presenza dipendesse il massimo interesse della mia vita.
«E Gualfardo, seduto di contro a me, stava ritto come un palo per lasciarmi padrona dello sportello, e non fece più la menoma allusione al suo viaggio. Pareva che, ai nostri occhi, l'andare incontro a qualcheduno per sette ore di ferrovia e non trovarlo, e tornare indietro ciascuno per suo conto, e vedersi soltanto allo scalo d'arrivo, fosse la cosa più naturale del mondo.
«Il babbo pensava, forse, che fosse nato tra noi uno di quei malumori da innamorati, che hanno bisogno di esaurirsi in silenzio, per dar luogo all'ansia della riconciliazione; e, dopo quella prima espansione di meraviglia, non cercò più spiegazione. Del resto, taciturno per abitudine come tutte le persone avvezze ad una vita monotona, laboriosa, e solitaria, non soleva mai cercare il fondo delle cose quando per giungervi gli occorreva un soverchio dispendio di parole.
«Quando la carrozza si fermò in via Roma, alla porta della nostra casa, Gualfardo scese pel primo, mi aiutò a scendere alla mia volta, prese la mia valigia da una mano e la sua dall'altra, e s'avviò verso la scala. Il cuore mi si allargò. Se saliva così col suo piccolo bagaglio, era dunque disposto a rimanere a colazione con noi. Incoraggiata da quell'idea lo guardai in volto; era perfettamente calmo. Grazie ad Apollo, grazie a tutte le divinità protettrici degli amanti, il suo viaggio non l'aveva condotto a nessuna scoperta; egli non sapeva nulla.
«Tutto questo pensai nell'istante ch'egli impiegò a muovere due passi. Al terzo, la serva che era scesa per incontrarci, lo fermò per isbarazzarlo delle valigie.
«In quel momento credo che il sangue abbia sospesa la circolazione nelle mie povere vene, tanto era vitale per me la risposta ch'egli stava per dare a quella serva.
«—Ah, bene! Poichè sei qui, ti lascio la valigia della tua padrona, e profitto della carrozza per portare a casa la mia.—Disse questo col solito piglio tranquillo. E cedette la valigia. Se ne andava! Mi lasciava appena arrivata. Che voleva dire? Sapeva perchè ero stata a Milano? Si allontanava per sempre?
«Questo pensiero mi traversò la mente spaventoso, come l'idea della morte, che ci empie di terrore nell'istante di cadere in deliquio. Esso mi strappò una domanda angosciosa:
«—Gualfardo! mi lasciate?… e tosto, sentendo la stranezza di quell'impeto, soggiunsi: Non restate a colazione con noi?
«—Non posso, mi rispose, senza neppure notare la mia agitazione. Sono due giorni che manco alle lezioni. Verrò questa sera.
«Due giorni! Gli porsi macchinalmente la mano, e salii le scale di corsa senza aver mente a rispondere una parola.
«Due giorni! Mio Dio! Quanto può aver scoperto in due giorni!
«Per tutti i vizi che la morale condanna, per tutte le colpe che la legge punisce, dovrebbe essere espiazione sufficiente la tortura morale che io soffersi quel giorno. Mi sentivo avvilita in faccia a Gualfardo; sentivo ch'egli aveva diritto di sprezzarmi, e ne piangevo con tutta l'amarezza del mio cuore. Pensavo:
«—Questa sera, o mi darà un bacio, come soleva prima che partissi, ed io dovrò renderlo,—io che l'ho tradito,—fare la parte di Giuda, piegarmi all'onta della finzione. O non mi darà il solito bacio, ed allora vorrà dire che sa tutto, che non si considera più mio fidanzato, ma ha bastante fede nella mia lealtà per aspettare che gli faccia io stessa la confessione che gli debbo.
«Ed allora pensavo seriamente a quella confessione. La dovevo io realmente? Non avevo ricusato di sposare Max per evitarla? Ed ora perchè la farei? Max non era che un amico per me.
«Sì, ma un amico che ero andata a vedere segretamente; un amico da cui aspettavo una lettera con tutta l'ansietà del mio cuore.
«Ed un istante sentivo di dovere aprir l'animo mio a Gualfardo ad ogni costo.
«Poi andavo alla finestra, guardavo un poco la gente, pensavo che, forse, neppur la metà di quelle signore che avevano marito, nutrivano per esso un sentimento più caldo dell'affettuosa stima ch'io aveva per Gualfardo. Che, forse, una gran parte di esse avevano amato un altro prima di sposar quello, che se ne ricordavano ancora; eppure non erano meno buone mogli, ed i loro mariti non erano infelici per questo; e nessuno faceva a quelle donne una colpa dei loro sentimenti combattuti; nessuno le disprezzava. Ricordai parecchie signore ch'io conosceva in quelle identiche circostanze; erano signore ammodo, cui il mondo non faceva la menoma eccezione, il menomo rimprovero.
«Allora le mie idee presero un altro indirizzo.
«Certo io ero troppo scrupolosa. Infine mi ero contenuta decorosamente con Max; egli sapeva il mio impegno; tra noi non s'era parlato che d'un sentimento fraterno. Io non avevo tradito i miei doveri verso Gualfardo. Ero ancora degna di lui. D'altra parte, quanti giovani avevo io conosciuti mentre cantavo? Quanti m'avevano corteggiata? Quanti m'avevano parlato con meno riserbo di Max? Io non li avevo lusingati, avevo respinto il loro amore. Precisamente come avevo fatto con Max. Forse che pensavo di fare a Gualfardo la cronaca di quelle galanterie? Nemmeno per ombra. E perchè dovrei farmi un dovere di narrargli la mia relazione con Max? Perchè gli altri li avevo respinti senza soffrirne, e Massimo lo avevo ricusato con dolore? Ma questo non era che un merito di più.
«Poi vennero le penombre della sera. Non vidi più la gente in istrada. Non vidi più nulla intorno a me; ed allora guardai nella mia coscienza.
«E vidi che tutto ciò era sofisma per ischermirmi da un dovere penoso. Vidi che la mia colpa non stava nel sentimento involontario ch'io provavo per Max, ma nelle piccole ipocrisie d'amicizia con cui lo alimentavo; in quella specie di compromesso col mio dovere, con cui cercavo di ricusare il suo amore, e di serbarlo vivo al tempo stesso; di mantenermi in dolci rapporti con lui, senza spezzare il mio vincolo con Gualfardo, che per una cara abitudine si era immedesimato colla mia esistenza; e da cui non avevo il coraggio di sciogliermi.
«In realtà io non desideravo di sposar Max. Egli aveva un grande ingegno, una posizione agiata, un avvenire largo di promesse, una salute fiorente, una maschia bellezza, e tutte quelle attrattive di parola, di voce, di modi, di eleganti cognizioni, che guadagnano tutte le simpatie, che aprono tutte le porte.
«Un uomo così, nel matrimonio ha tutto a dare, nulla a ricevere. Per farmi sua moglie avrebbe dovuto sacrificarmi la sua libertà. Farmi vivere colle sue rendite ed i suoi guadagni, perchè la sua carriera legale sarebbe stata inconciliabile colla vita girovaga di un'artista. E poi egli non avrebbe avuto alcun bisogno di farmi continuare a cantare. Per adattarsi alla vita di famiglia avrebbe dovuto far violenza al suo carattere gioviale, brillante; alle sue abitudini chiassose e disappensate; imporsi una gravità, una monotonia, un ordine d'esistenza a cui non era punto inclinato, e che gli avrebbero costato un vero sacrificio.
«Ed io, cosa avrei potuto dargli in compenso di tutto codesto? Il mio amore. Ma quante donne potevano dargli altrettanto, e per di più censo, bellezza, ingegno…
«Decisamente nel matrimonio a lui sarebbe toccata la parte bella della generosità; a me quella umiliante dell'egoismo. Ecco perchè non desideravo di sposare Max.
«Invece Gualfardo era avviato alla stessa mia carriera del teatro. Non guadagnava più di me; e non poneva nessun ostacolo a che io continuassi a cantare, e contribuissi quanto lui e più di lui alla vita comune.
«Egli pure aveva molto ingegno; a lui pure sorrideva la gloria, ma la stessa gloria, lo stesso ingegno che sorridevano a me. Eravamo pari. E poi egli era taciturno, serio, compassato; non attirava le simpatie. Ed era quindi più in grado di apprezzare il mio affetto. Era delicato di salute e misantropo, due cose che creavano a lui il bisogno della famiglia, a me la gioia e l'orgoglio di fargliene sentire i vantaggi.
«Per tutte queste ragioni io mi spaventavo all'idea di perdere l'amore di Gualfardo, malgrado la libertà che mi risulterebbe da quella perdita.
«Gualfardo fu buono quella sera come sempre. Mi baciò in fronte come soleva fare ogni sera, e mi parve che mi stringesse al suo cuore con un'espansione insolita.
«Ne risentii più acuta la fitta del rimorso. Mi sentivo così vile, d'ingannarlo come facevo, così vile…
«Avrei voluto scrivere a Max di troncare ogni corrispondenza con me; di dimenticarmi, di lasciarmi tutta ai miei doveri. Ma non ne avevo il coraggio. Ed aspettavo la sua lettera con tutta l'ansietà.—Sempre la miserabile attrattiva del frutto proibito!
«Il posdomani la lettera venne.
«Max era malato. Soffriva, era triste. Non poteva scrivermi altro perchè stava a letto. Appena guarito mi scriverebbe a lungo, aveva tante cose a dirmi.
«Era malato; ed io non poteva correre a lui, sedermi accanto al suo letto, curarlo, vegliarlo. Ed era malato per me, per la mia partenza; ne ero sicura. Stava così bene prima! Era dunque il dispiacere che lo faceva star male. No. Decisamente la nostra posizione non poteva durare così. Non si comanda ai proprii sentimenti. Poichè ci amavamo—non solo per noi, ma per lo stesso Gualfardo—era necessaria una confessione, una risoluzione.
«Quella sera aspettai Gualfardo in uno stato di eccitazione straordinaria. Volevo esser sola con lui. Ed invece il babbo s'era incastonato nel suo seggiolone come una perla in un anello. Aveva l'aria di doverci rimanere il resto de' suoi giorni; dacchè ero tornata, da tre giorni, non era più uscito.
«—Non esci a passeggiare, babbo? gli domandai.
«—No, mi rispose; fa un caldo orribile.
«Che fare? Pure era necessario ch'io parlassi con Gualfardo da sola.
«—Babbo, ripresi. Io invece sento il bisogno di passeggiare questa sera. Vuoi ch'io vada al Valentino a far un giro con Gualfardo? vuoi?
«—Eh! va. Omai sei artista; se gli ho permesso di andare ad incontrarti a Milano, non vedo alcun male a lasciarti fare una passeggiata con lui. Del resto è il tuo fidanzato.
«Io mi avviai alla mia camera per prepararmi col cappellino, tanto ero impaziente di uscir subito appena Gualfardo fosse giunto. Ma prima che fossi uscita il babbo riprese:
«—Ed è un bravo giovane, sai; un bravo, bravo giovane.
«—Sei ben fortunata, Fulvia, d'esserti imbattuta in lui; ed anch'io ne son fortunato. Muoio tranquillo, vedi, sapendoti nelle sue mani, perchè è un nobile cuore.
«Io fuggii senza rispondergli. Povero babbo! Io stavo per distruggere la mia fortuna, e la sua tranquillità. E perchè? O Dio!
«—Gualfardo, volete condurmi al Valentino a far una passeggiata?—gli dissi appena giunse.—Il babbo lo permette.
«Egli accettò colla solita cortesia.
«Era la prima volta che uscivamo soli. Eravamo un po' imbarazzati. Ed io pensavo quante volte ero uscita a Milano con Max, e che non eravamo imbarazzati; ed ammiravo quel carattere impetuoso, espansivo; e deploravo il riserbo di Gualfardo, e dicevo tra me:
«—Ecco com'è. È impossibile amarlo com'io l'intendo. È la sua freddezza che è causa di tutto.
«Quando fummo in Borgo Nuovo, c'era grande andirivieni di popolino e di omnibus; e si faceva buio; e gli accendi-fanali correvano colle loro pertiche illuminate come piccoli fari; e più d'una volta fui urtata.
«Allora Gualfardo mi disse:
«—Vorreste prendere il mio braccio, Fulvia? Camminereste meno a disagio. Se non ci avete difficoltà…
«Io presi il suo braccio, pensando quanto aveva tardato ad offrirmelo, e quante cerimonie ci metteva; e che invece Max prendeva addirittura il mio braccio e lo passava sotto il suo in barba a tutti, e s'arrabbiava se un altro c'era arrivato prima. Ah! quello era amore!
«C'era molta gente al Valentino. Io proposi di andare fino alla
Barriera di Nizza costeggiando il Po.
«Quella strada era quasi solitaria. Parlavamo poco. Io ero preoccupata di quanto stavo per dire. Gualfardo pareva si studiasse di portare il discorso su argomenti estranei a noi. Trovava belle o brutte le case dei canottieri; più o meno svelte le forme dei canotti. E fresca la strada, e pittoresca, ecc.
«Dopo aver risposto una quantità di sì, e di sicuro, e di già, io dissi ad un tratto:
«—Gualfardo, ho deciso di accettare la scrittura che mi hanno offerta per Nuova-York.
«—Sì? diss'egli senza il menomo cenno di sorpresa o di approvazione o di disapprovazione.
«Quella risposta succinta mi sconcertò. Avevo contato su qualche obbiezione, su qualche interrogazione per aprirmi la via a spiegare i miei motivi. Che fare davanti a quel freddo monosillabo? Pensai di ripetere per eccitare altre risposte.
«—Già, ripresi. Vado a Nuova-York.
«Questa volta egli non rispose affatto. Solo dopo un momento, tanto per dir qualche cosa, mi domandò:
«—Avete già firmato la scrittura?
«—No, dissi; firmerò domattina.
«Vi fu ancora una pausa. Poi io soggiunsi.
«—Desideravo di parlarvene prima di concludere.
«—Grazie, Fulvia. Ma dovete far sempre il vostro interesse. Questo è quanto preme.
«—Ebbene, no, esclamai con tutto il mio coraggio. Non si tratta del mio interesse. Non è quella la ragione che ho consultato per decidermi…
«Egli taceva, e si vedeva che lo faceva di proposito. Io ripresi:
«—È necessario ch'io vada ben lontana da voi, Gualfardo; ecco perchè ho accettato.
«A queste parole Gualfardo mi prese la mano che appoggiavo al suo braccio, e me la strinse in silenzio come per dirmi: coraggio!
«Codesto doveva sembrarmi strano, perchè mi avvertiva che le mie parole non gli davano la menoma sorpresa. Ma io ero eccitata dalla parte drammatica che m'ero imposta; e poi avevo realmente bisogno d'essere incoraggiata, ed accettai quell'atto amichevole senza esaminarlo punto.
«—Debbo andar lontano, Gualfardo, continuai cogli occhi a terra, perchè non posso più essere vostra fidanzata. Non lo sono più…
«Un'altra stretta di mano, più energica della prima. Ed io continuai:
«—Ho un grave torto verso di voi. Ho molte cose da farmi perdonare. Vi debbo una confessione. Gualfardo, quando mi sono fermata quei due giorni a Milano…
«—Basta, Fulvia, interruppe Gualfardo con una terza stretta di mano.
So tutto. Ero a Milano prima di voi, vi ho veduta arrivare e partire.
So tutto.
«—E non mi diceste nulla?…
«—So che siete leale. Sapevo che parlereste voi. Era difficile; ci voleva del coraggio. Ma voi l'avete trovato. Siete una brava giovane…
«M'ero aspettata dei rimproveri o dei lamenti; un amante sdegnato o afflitto. E non trovavo che un giudice giusto e clemente.
«Forse era un senso d'amor proprio ferito; allora non studiai le mie impressioni; ma mi dolse all'anima di non sentirmi rimpianta neppure con una parola. Pensai quanto era freddo per aver sopportato così filosoficamente la scoperta ch'io amavo un altro: e dissi nel mio cuore che non aveva nessun amore per me, dacchè si rassegnava così. Non potei a meno di dirglielo:
«—Voi non mi amate, Gualfardo.
«—Perchè me lo domandate, dacchè amate un altro?
«È vero. Non avevo diritto di lagnarmi. Ma provavo, più forte della mia ragione, una specie di civetteria sentimentale, che ambiva di eccitare un rimpianto in quel cuore che era stato mio per tanto tempo.
«—Ve lo domando pel passato, risposi. Ah! per rassegnarvi così freddamente bisogna che non mi abbiate amata mai.
«—Fulvia, volete dire che ho mentito con voi? Avete ragione di dirmelo?
«Mio Dio! Ero io che avevo mentito. Rimasi umiliata. La lealtà della sua condotta era un rimprovero alla mia.
«Avrei dovuto consolarmi di veder passare così liscia quella scena che m'avea preoccupata e spaventata tanto. Ed invece soffrivo.
«—Mi sarete amico egualmente? gli domandai.
«—No, Fulvia, mi rispose. Dovete vincere quelle irresolutezze del vostro carattere, che vi fa sempre appigliare ai mezzi termini. Abbiate il coraggio dei vostri sentimenti. Non si può aver un amico ed un amante. Sono due affetti che si somigliano troppo. Non mi amate più? Amate un altro? Lasciatemi. Siate di quell'altro. Non ci rivedremo più. Almeno non cercheremo più di vederci. Coraggio.
«Mi strinse ancora la mano, poi voltò strada per condurmi verso casa.
«Non vederlo più! Non avevo mai pensato ad una separazione così assoluta. L'idea di spezzare la nostra intimità che mi era stata fin allora una dolce abitudine, faceva un vuoto ne' miei sogni d'avvenire. Non potevo pensarci senza raccapriccio.
«Provai un senso di freddo al cuore, e vidi tremolare tutti gli oggetti traverso le lagrime che mi velarono gli occhi.
«Camminammo un lungo tratto in silenzio; ed in quei momenti rividi col pensiero tutto il passato ch'io conosceva di quel giovane. Ritrovai la sua generosità, la lealtà del suo cuore, ed il suo agire sempre nobile e dignitoso. Ed allora la sua freddezza mi parve un torto ben lieve in confronto al mio torto; e mi sentii sempre più avvilita. Ed il rimorso nel mio cuore era più forte che il sentimento della libertà ricuperata.
«Quelli che ci scontravano ci credevano marito e moglie, o, se ci conoscevano, sapevano delle nostre promesse, e pensavano che fossimo felici di quella passeggiata sentimentale a lume di gaz. E noi invece eravamo divisi moralmente, e stavamo per diventare estranei.
«Volli pensare a Max. Ma mi faceva l'impressione di uscire da una casa tepida, agiata, elegante, per correre lungo campi e boschi nel furore d'un uragano, ad inebriarmi delle tremende bellezze della natura in burrasca. Era la tempesta con le sue grandi emozioni, le sue fiere bellezze, ma con tutti i suoi danni ed i terrori e le repulsioni che inspira.
«Ed intanto provavo un'interna curiosità di sapere cosa accadesse nel cuore chiuso di Welfard in quell'ora di separazione. Soffrivo di non vederlo afflitto, e mendicavo un rimpianto.
«—Gualfardo…, cominciai.
«—Non parlate, Fulvia, mi rispose, io potrei accorgermi che siete commossa, e rimproverarvi un'altra volta le irresolutezze del vostro carattere.
«—O Gualfardo, i vostri rimproveri sono crudeli.
«—Lo so, Fulvia, e ve ne domando perdono. Ma è necessario parlarci francamente per evitare degli equivoci, le cui conseguenze sarebbero dolorose per entrambi. Voi avete troppa immaginazione. Vi siete figurata una felicità che non esiste. Vi siete fatto uno di quegli ideali inebrianti, che hanno d'uopo per realizzarsi di tutta la somma di pregi che la natura ha ripartito in scarse dosi fra gli uomini, senza la larga parte di difetti che ciascuno di essi possiede. Voi volete la bellezza elegante, e la maschia espressione della forza; volete gli impeti inconsiderati della passione, e la pace dignitosa del sentimento legittimo; volete l'imprudenza giovanile, ed il decoro; volete un insieme di cose che non si possono associare. Un giorno trovaste in me alcune delle qualità del vostro ideale, e mi amaste per esse; poi ne scontraste in un altro qualcuna più saliente, ed amaste lui; in realtà non amate nè me, nè lui, nè un altro; è sempre la vostra visione che amate, dispersa qua e là, ed associata a difetti non contemplati nel vostro programma, che si rivelano poi, e raffreddano il vostro entusiasmo. È per questo che, legata a me aspiraste a Guiscardi, e sul punto di legarvi a lui, rimpiangete me. Se fosse possibile a me di darvi la mia figura elegante e quella che voi chiamate la nobiltà del mio carattere; se fosse possibile a lui di cedervi la sua impetuosità giovanile e la sua bella voce ed il suo fiero disprezzo delle convenienze, ed il suo ingegno; e, finalmente, se fosse possibile a voi di animare quelle qualità astratte, non rimpiangereste più nè lui, nè me, e sareste contenta con quel fantasma di vostro gusto. Ma ciò non è possibile. Ed a qualunque di noi vi appigliaste, siatene certa, Fulvia, voi fluttuereste sempre fra l'uno e l'altro, in una alternativa incessante d'aspirazioni e di rimpianti.
«Io tenevo il capo abbassato; sentivo la verità di quel giudizio, e piangevo amaramente in silenzio.
«Eravamo giunti alla porta della mia casa; egli mi stese la mano dopo avere staccato il mio braccio dal suo, e mi disse:
«—Addio, Fulvia.
«Io avevo pieno il cuore, piena la mente di un mondo di cose da rispondergli. Era una riconoscenza infinita, ed un profondo pentimento.
«Alzai gli occhi, ma il suo sguardo limpido e leale mi paralizzò. Mi sentii avvilita dinanzi a lui, non potei che rispondergli piangendo:
«—Addio, Gualfardo.
«E lo vidi allontanarsi per sempre.
«Fu una notte orribile per me, nella quale il mio cuore non cessò un momento di battere lento e forte come una campana sepolcrale.
«Sentivo il vuoto intorno a me; eppure ben altri dolori m'aspettavano.
«Mi ero alzata presto dopo quella notte di veglia e di pianto, e dalla mia finestra guardavo sbadatamente nella via.
«Mentre stavo assorta così, sentii prendermi per la vita e baciarmi sui capelli.
«Era il babbo; ed era tanto pallido che, appena l'ebbi veduto, tutte le mie preoccupazioni svanirono; non provai che lo spavento di vederlo cadere in deliquio.
«—Mio Dio, babbo, come sei pallido! Che hai? Stai male?—gli chiesi tremando di spavento; e lo feci sedere sul mio sofà, gli proposi di fargli il caffè, di andare pel medico, e che so io altro.
«—No; mi rispose trattenendomi, non mi occorre nulla. Son venuto per parlarti di cose gravi. Resta qui. Fammiti vicina; ho bisogno d'abbracciarti per prender coraggio, povera Fulvia!
«Pensai che Gualfardo gli avesse scritto che rinunciava alla mia mano.
«—Vuoi dirmi di Gualfardo?… domandai.
«—No, cara. Ti parlerò anche di lui, ma quello è il più caro, il più consolante de' miei pensieri. Debbo dirti una triste, triste notizia; si tratta di me, Fulvia, del tuo povero babbo…
«Era profondamente commosso; la sua voce tremava.
«Credetti di comprendere, e chiudendogli la bocca con un bacio, gli dissi:
«—Non dir più altro, babbo. Sono una sbadata; avrei dovuto pensarci prima, che puoi trovarti in istrettezze. Io ho tutto il denaro dell'ultimo teatro. Da questa mattina non avrai più nessun pensiero molesto; scusami, povero babbo, non penso mai a nulla.
«—Tu sei un angelo, mi rispose singhiozzando; ed io debbo perderti, lasciarti per sempre…
«A quella parola una luce fatale si fece nella mia mente. Misi un grido e scoppiai in pianto.
«Povero, caro babbo! Egli, tanto ammalato, mi consolava in quel supremo dolore.
«—Il tuo cuore ti ha detto la verità. Coraggio, mia buona Fulvia.
Pensa che sono vecchio. Dobbiamo pur morir tutti…
«—Ma no, tu non morrai; tu non devi morire. Faremo tutte le cure possibili; chiameremo dei medici.—E piangevo, e mi agitavo nella convulsione del mio dolore, tenendo stretto al cuore quel mio unico parente, quasi per contenderlo alla morte che lo minacciava.
«La serva accorse alle mie grida, e mi disse con piglio severo:
«—Non faccia scene, signorina. Non vede che fa del male al suo babbo?
Il medico gli raccomanda di evitare ogni commozione.
«Quelle parole mi richiamarono in me. Ma il mio cuore era spezzato da quell'annuncio crudele. Mi posi in ginocchio accanto al babbo, e cercai di persuaderlo che il suo male non era grave.
«—Dimmi tutto, babbo; narrami come ti ammalasti, che medico ti vede, e come ti venne quella idea triste che mi ha fatto tanta pena.
«—Come mi ammalai non lo so. Ma viveva ancora la tua povera mamma che io soffrivo già di un acuto dolore al cuore, ogni volta che mi esponevo a qualche fatica. Quand'ella morì, l'affanno di quella perdita mi sviluppò una malattia di cuore, che mi tenne a letto più d'un mese. Tu eri bimba allora, ma devi ricordarti di questa circostanza.
«—Guarii, ma continuavo a sentire a quando a quando quella puntura al cuore; qualche volta avevo violente palpitazioni. Poi tutto passava, ed io non ci badavo punto.
«—Ma quest'inverno il dolore cominciò a farsi insistente; al solo salire una scala la palpitazione mi soffocava. Lasciai che tu fossi partita per Milano, poi chiamai il medico. Egli mi prescrisse le solite pillole che prendevo sempre quando si ridestava il mio male; più tardi mi consigliò i bagni di mare. Fu allora che ti raggiunsi a Livorno. Ti ricordi che mi trovasti dimagrato e pallido, ed io ti dissi che soffrivo il caldo? Era la malattia che aveva già fatto terribili progressi.
«—Il pensiero di lasciarti sola al mondo mi spaventava. Non volevo crederci; non mi ci potevo adattare. Speravo sempre; volevo sperare ad ogni costo.
«—Feci la cura dei bagni di mare con assiduità; avevo riposto in essa tutta la mia fiducia; ma ne tornai più malato di prima. Quando mi salutasti allo scalo di Livorno per andare a Firenze, mi parve che non mi restasse tanta vita da vederti tornare, e dissi a Gualfardo:
«—Pensa a renderla felice, perchè non ha più che te sulla terra. Io non la vedrò più.
«A quelle parole del babbo, io, che avevo sempre pianto in silenzio nelle sue braccia ascoltandolo, non potei più frenare i miei singhiozzi, e mi abbandonai ad un pianto convulso, disperato. Il babbo piangeva anch'esso; mi baciò più volte con trasporto, e ripigliò:
«—Via, non tormentarti, Fulvia. Vedi che ho potuto riabbracciarti. Chi sa; potrò forse ancora durare a lungo: sono malattie lente. Ma, per la mia tranquillità, perchè io possa pensare senza spavento alla morte, vorrei che tu mi dessi la consolazione di vederti unita a Gualfardo.
«Quella domanda in quel momento mi suonò terribile, spaventosa come un rimorso. Il mio fatale amore per Max, aveva distrutta l'ultima speranza del mio povero babbo. L'idea di dirgli in quel momento la triste verità, che Gualfardo non era più nulla per noi, che io l'avevo respinto colle mie follie, che non lo vedremmo mai più, mi fece spavento. Sentii che quella notizia poteva essergli fatale, che l'avrebbe forse ucciso; compresi che dovevo ingannarlo. Rimasi muta, assorta nel mio dolore.
«Egli pensò che esitassi a decidermi, e mi disse ancora:
«—Tu ti lasci sedurre da un'arte che lusinga il tuo amor proprio, e le sacrifichi un amore che ti farà felice. Credilo al tuo babbo, che ti ama tanto. Io ho studiato l'animo di Gualfardo; pensa con che interesse l'ho studiato, dacchè so di doverti lasciare a lui, senza nessun altri al mondo per proteggerti ed amarti. Credimi, Fulvia, che se avessi la scelta fra i più splendidi partiti per collocarti, non vorrei scegliere altri che lui; non ho conosciuto mai un più nobile cuore, un animo più leale. Quando tu eri lontana, era lui che teneva il tuo posto presso di me; che mi amava come un figlio; che mi vegliava la notte quando stavo male; che sacrificava tutte le sue ore di riposo per supplirmi all'ufficio, e compiere per me un lavoro che mi diveniva sempre più faticoso. Fu lui che si assunse mille brighe per domandare ed ottenere la mia giubilazione. Se in questi ultimi tempi potrò godere un po' di riposo senza cadere nella miseria, lo debbo a lui. Non potrai amarlo mai abbastanza per tutto il bene che ha fatto al tuo babbo, mentre tu, povera figliuola, eri costretta a starmi lontana…
«E sentendo che io piangeva amaramente, con tutta l'amarezza del rimorso, riprese:
«—E tu pure lavoravi per me, ed ora mi porti il frutto delle tue fatiche, che servirà a curarmi. Ho tanto bisogno di cure e d'affetto. Tu mi farai guarire, mia Fulvia.
«Io sentivo che diceva tutto questo per consolarmi; perchè, nel riandare la sua povera storia di dolori, s'era accorto del contrasto penoso tra la mia posizione e quella di Gualfardo: tra me festeggiata, inebriata d'applausi, felice e spensierata, lontana da lui,—e quel generoso giovane che lo curava, lo consolava, lo sosteneva nelle difficoltà della vita. S'era accorto che le cure di Gualfardo erano altrettanti rimproveri al mio abbandono, e voleva consolarmi mostrando apprezzare i miei guadagni che gli arrivavano tanto tardi.
«Come mi sentivo avvilita da tanta generosa bontà! Come ero nulla al confronto di quei due nobili cuori! Ed appena tornata presso il mio povero babbo, avevo allontanato da lui quell'unico amico, quel figlio che lo consolava, che gli rendeva meno penosa la morte.
«Il babbo non diceva più nulla. Era là pallido, ansante per l'emozione sofferta, e mi guardava coi suoi occhi lagrimosi e supplichevoli. Volli consolarlo ad ogni costo, e gli dissi:
«—Sì, babbo; io sposerò Gualfardo appena sarai guarito; ed intanto sta certo che io l'amo, che lo amo tanto, più della mia arte, più della gloria, più di tutto. Tu solo mi sei più caro di lui. Ti cureremo insieme, faremo dei bei progetti accanto a te, e quando starai bene ci sposeremo; e se io dovrò cantare tu mi accompagnerai; e quando non canterò staremo tutti e tre insieme.
«Povero babbo! Bastarono quelle parole a consolarlo. Si mise anch'egli a far dei progetti, ma pur troppo non ci credeva, e li faceva per illuder me.
«Da qualche tempo il suo male s'era aggravato. Non usciva che pochissimo, e non mai solo. Gualfardo lo accompagnava. Egli s'era offerto di venirmi ad incontrare a Milano, per prepararmi alla disgrazia che m'aspettava. Temevano che la vista del babbo così magro e pallido mi colpisse troppo dolorosamente.
«Ed invece egli m'aveva trovata a Milano folleggiante dietro un amore colpevole, dimentica della famiglia, di lui, di tutto. Come doveva disprezzarmi! E come dovette disprezzarmi ancora più, quando al mio giungere, tutta assorta nelle passioni che mi tempestavano nell'anima, io non m'ero neppure avveduta del deperimento del mio povero babbo; non avevo domandato perchè, giubilato da circa un mese, e senza impegni, non fosse venuto egli stesso ad incontrarmi. Non avevo chiesto nulla, non avevo veduto nulla; egoista, crudele, non pensavo che alla mia passione ed a' miei rimorsi.
«Per tutto quel giorno il babbo fu così spossato dall'emozione, che non ebbe la forza di vestirsi per fare una passeggiata. Rimase in abito da camera, steso nella sua poltrona. Non mangiò quasi nulla, e ripetutamente si lagnò di non vedere Gualfardo. Io gli dissi una quantità di scuse: aveva trascurato a lungo le sue lezioni durante la mia assenza, ed ora, che io era presso il nostro caro malato, desiderava di riparare il tempo perduto. Andava in iscena un'opera nuova, ed egli doveva dirigere le prove d'orchestra. Era occupato egli stesso a scrivere un'opera, ed aveva frequenti abboccamenti col poeta che gli scriveva il libretto.
«Ma il babbo non s'appagava di quelle ragioni che egli sapeva al pari di me.
«—I giorni scorsi lavorava qui—mi diceva;—e tra una lezione e l'altra passava a vedermi. Dovrebbe oggi venire più che mai, dacchè ci sei tu. Voi non v'amate come prima. Ieri me ne sono accorto. Perchè non vi parlavate punto tornando dallo scalo? Tu non lo guardavi nemmeno; ed egli se ne andò appena fosti giunta. Ebbi una grande fatica a salire la scala da solo. Egli mi reggeva sempre. Come è andata a non scontrarvi a Milano?
«Tutte queste domande mi straziavano il cuore. Rispondevo vagamente, cercando di rassicurarlo, ma vedevo che non potrei ingannarlo a lungo. L'assenza di Gualfardo lo tormentava, ed a me non riesciva di spiegarla.
«Dopo due giorni il babbo era tanto inquieto, che mi obbligò a mandare la serva da Gualfardo per vedere se non fosse malato. Profittai di questa sua idea, e senza mandare, rientrai dopo un tempo conveniente per lasciargli credere che fosse eseguita la sua commissione, e gli dissi, che Gualfardo era a letto con una infreddatura al capo, che sperava di alzarsi presto, ed appena uscirebbe di casa verrebbe da noi. Che del resto il suo male non era grave.
«Il mio povero malato si crucciò tutta notte, vegliò angosciato pensando al suo giovane amico. Io dormivo nella sua camera stesa sopra un sofà senza spogliarmi, per esser pronta ad assisterlo sempre. Lo sentii sospirare, rivoltarsi nel letto, e mi domandò da bere con una frequenza straordinaria. Aveva una febbre violenta.
«Al mattino mi disse:
«—Fulvia, Gualfardo dev'essere malato più seriamente che non dice. Siamo appena in settembre e fa un caldo soffocante. Con un caldo così non si sta letto per un'infreddatura. Manda ancora stamane a vedere come sta. E poi appena sarò alzato prenderemo una carrozza; tu mi accompagnerai, ed andremo a vederlo.
«Non era possibile esporre il povero babbo in quello stato ad una scoperta dolorosa. Andando da Gualfardo lo avremmo trovato fuori, avrebbe compreso d'essere ingannato, avrebbe scoperto la verità, ne sarebbe morto di dolore.
«Corsi nella mia camera e scrissi in fretta questo biglietto, che mandai a Gualfardo:
—«Il babbo sta male e vi domanda ad ogni momento. Nello stato in cui è ridotto, non posso dirgli perchè non venite più; lo ucciderei. La nostra unione è la sola speranza che lo conforti nei suoi dolori.
—«Siate generoso, Welfard. Venite per lui. Lasciategli la sua dolce illusione; e quando il vostro ufficio pietoso sarà compito, mi lascierete sola col mio dolore; non mi vedrete mai più, ed io vi benedirò pel bene che avrete fatto al mio povero babbo.
«Mandai la serva con quel biglietto; la mandai in carrozza per avere più presto la risposta. L'aspettai in un'angoscia inesprimibile. Omai non mi facevo illusione sullo stato del babbo. La sua vita, la breve vita che gli rimaneva ancora, dipendeva da quella risposta.
«Dopo mezz'ora la serva tornò con un altro biglietto. Lo apersi tremando, ed in quel momento pregai dal fondo del cuore come da gran tempo non avevo pregato. La mia fede era così grande, così vera in quell'ora di dolore, da credere che la mia preghiera potrebbe modificare la risposta di Gualfardo già scritta, già nelle mie mani.
«Non erano che quattro parole:—«Fra un'ora verrò.»
«Misi un grido di gioia, corsi in camera del babbo, e gli dissi:
«—Gualfardo è guarito, sta bene, fra un'ora verrà.
«E lo dissi con tanta gioia, pensando da che pericolo lo salvava quella notizia, che il povero babbo, tratto in inganno, scambiò quel trasporto figliale per un trasporto d'amore, e, sempre preoccupato di me e del mio avvenire, mi abbracciò tutto consolato, e mi disse:
«—Dunque sei ben contenta di vederlo; dunque lo ami; sarai felice con lui? Quanto bene mi fa questo pensiero. Temevo che tu non l'amassi.
«Quella parola fu un altro rimprovero. Sì. Amavo Gualfardo con tutta la mia riconoscenza di figlia. Ma non era quello l'amore cui pensava il mio povero babbo.
«Esatto come sempre, Gualfardo giunse all'ora indicata. Egli fu generoso fino all'eroismo. Debbo pur dirlo, per quanto la sua generosità fosse per me una tortura. Mi salutò colla solita dolcezza tranquilla, mi strinse la mano e mi baciò sulla fronte. Ma intanto mi susurrò all'orecchio col suo sguardo più cerimonioso:
«—Perdonate, Fulvia; è necessario fingere per la pace del babbo.
«E tutto il conforto, tutta la dolcezza che m'avea posta nell'anima la soave intimità di quel saluto, dileguarono a quelle parole.
«D'allora egli fu sempre assiduo presso il babbo come lo era stato durante la mia lontananza. Quando li vedevo uscire insieme, e Gualfardo si metteva un braccio del povero babbo intorno al collo, e lo cingeva alla vita per sorreggerlo nello scendere la scala, poi entro la carrozza gli accomodava i cuscini, e mi salutavano tutti e due dalla finestra dove correvo per vederli ancora, pensavo con dolore che io era estranea a quel cuore che mio padre credeva mio, che non m'era più data la suprema delle gioie di rendergli una vita d'amore in compenso della sua generosa devozione.
«A misura che lo vedevo così nobile, così buono, la memoria di Max diveniva più scolorita nella mia mente. Ed in quell'atmosfera di affezioni calme, legittime, sante, il mio amore per Max mi sembrava un romanzo, una follia. E ne arrossivo ogni giorno più. Mentre prima lo avrei gridato sui tetti, ora mi vergognavo di ripensarci io stessa. Era perchè il mio cuore si apriva per la prima volta ad un sentimento basato su qualche cosa di serio, di grande. Ad un amore inspirato dalla riconoscenza figliale, dalla virtù. Dinanzi a questi due nobili moventi, cos'erano più la bella voce ed il carattere bizzarro di Max?
«Quante lagrime ho sparse in quelle ore tristi in cui rimanevo sola a rassettare la stanza del mio povero babbo, a rifare quel letto, ad accomodar quei guanciali, dove pur troppo tra poco non riposerebbe più!
«Poi tornavano; rivedevo quelle cure amorose dell'elegante giovane pel povero vecchio infermo, e quelle attenzioni delicate, figliali, che mi inondavano l'anima di riconoscenza e d'amore, e ricevevo ancora il suo bacio, il saluto soave e fatale, come l'oppio che inebria ed uccide.
«Ne venni al punto d'attendere, d'invocare ansiosamente quelle ore di disperante commedia; di accogliere con passione quel bacio convenzionale, di valermi del vantaggio della nostra strana situazione per stringere al mio cuore quell'uomo che non mi amava più, per serrare la sua mano tra le mie, per parlargli come ad un fidanzato, per pascere il mio cuore innamorato con una cara e funesta illusione.
«Nessuno, al vederci così uniti nell'affetto, nella cura comune d'un caro infermo, che entrambi chiamavamo babbo, nessuno avrebbe sospettato mai che tempesta mi fervesse nell'animo e che abisso ci separasse.
«Intanto la malattia del babbo procedeva rapida, inesorabile. Gli si eran gonfiate le gambe, le mani, il volto; omai non usciva più, ed a stento ci riesciva di collocarlo in una poltrona per rifargli il letto. Era una poltrona lunga dove il malato stava disteso; e mentre io accomodavo il letto, Gualfardo apriva le finestre, poi spingeva lentamente la poltrona per far movere il babbo e fargli respirare un po' d'aria.
«Oh! in quel momento mi sarei gettata in ginocchio, avrei baciato i suoi piedi, per implorare che mi lasciasse dedicargli la mia vita. Tutta la mia riconoscenza di figlia si volgeva in amore per lui, tanto generoso, buono, servizievole nella sua apparenza fredda ed elegante. Ed io stupida e leggiera non avevo saputo indovinare quel nobile cuore.
«Intanto il babbo insisteva sempre a pregarci perchè ci sposassimo prima ch'egli morisse.
«Noi ripetevamo che volevamo aspettare che fosse guarito, che per allora non pensavamo che a lui; non volevamo fare un matrimonio nella tristezza; avremmo celebrate insieme le nostre nozze e la sua guarigione.
«Ma egli non s'illudeva sul suo stato, ed un giorno ci disse, quasi piangendo:
«—Perchè non volete darmi questa consolazione? Siete tanto buoni tutti e due, e potete respingere la preghiera d'un moribondo? Fulvia, te lo domando pel bene che ti voglio, pei tormenti che soffro, pel dolore della nostra separazione; Gualfardo, te lo domando in nome di tua madre, nella solennità della morte; datemi questo conforto, questo pensiero di pace. Che vi veda uniti, che possa dire: lascio a mia figlia l'amore e l'appoggio del più nobile degli uomini, ed allora morrò contento.
«A quell'appello straziante per una grazia impossibile, io scoppiai in pianto. Credetti giunta l'ora terribile di svelare la verità, di troncare quel misero filo di vita con un ultimo, grande dolore.
«Ma Gualfardo, generoso, grande, clemente come un Dio, si alzò, venne a me stendendomi le mani, e mi disse:
«—Volete essere mia sposa domani, Fulvia?
«Poi, col piglio sommesso con cui soleva dirmi dopo un bacio quel crudele «Perdonate» che mi gelava il cuore, tornò a ripetere stringendomi le mani:
«—Volete?
«Egli perdonava; faceva sacrificio di sè, del suo sdegno, dinanzi al desiderio d'un moribondo; e per risparmiargli un dolore diceva realmente a me, che non amava più, a me, che disprezzava: «Volete essere mia sposa?»
«Era troppo grande sacrificio per lui; troppa grande gioia per me che la meritavo così poco.
«Ebbi il coraggio di respingerla, e, con uno sguardo che voleva dire:
«Secondatemi» risposi:
«—Domani è impossibile, Welfard. Dovete prima far venire le vostre carte. Scrivete; procuratevele, e poi ci sposeremo subito.
«Gualfardo mi strinse ancora le mani, poi me le lasciò cadere susurrandomi:
«—Brava!
«Era una parola crudele. Mi diceva che liberandolo da me lo aveva salvato. Eppure mi fece del bene. Il suo amore era perduto per me. Mi era ancora un conforto la sua stima.
«Ma il babbo disse con tristezza:
«—Ci vorranno almeno otto o dieci giorni. Il vostro paese è tanto lontano! Non avrò tempo a vedervi uniti!
«Allora fui io che presi la mano di Gualfardo, e traendolo accanto al letto dissi:
«—Tu avrai tempo a vederci sposi, ed a vivere con noi molti anni, babbo. Ma per farti piacere noi ci uniamo ora qui; davanti a Dio e davanti a te; tu ci benedirai, e sarà come se fossimo già sposati.
«Ed alla mia volta susurrai a Gualfardo: «Perdonate.»
«Egli comprese ch'io non davo valore a quella cerimonia; che volevo soltanto ingannare pietosamente il povero malato; ancora una volta mi disse: «Brava!» e s'inginocchiò accanto a me, ed il babbo congiunse le nostre mani e ci benedisse.
«Da quel momento la pace entrò nel suo cuore, ed il suo volto fu sempre animato da una serena rassegnazione. Vedeva avanzarsi la morte a gran passi, e ne parlava senza terrore. Il mio povero babbo era profondamente credente; aveva quella fede consolante che toglie ogni squallidezza alla morte; che anima di spiriti aleggianti, di memorie, d'affetti e di speranze, la tristezza glaciale della tomba.
«Ci parlava con dolcezza di quando saremmo uniti, in un piccolo nido d'amore, e la sua anima invisibile vivrebbe tra noi:
«—Allora non mi spaventeranno le distanze ed i biglietti di strada ferrata, diceva sorridendo. Se vi scrittureranno per la China, io sarò là prima dì voi; entrerò in tutte quelle case da bambole, e vi cercherò la meno inospitale, la più europea; poi verrò a prendervi, v'accompagnerò nel viaggio, ed allo sbarco vi susurrerò all'orecchio: «Contrada tale, numero tale,» e voi ci andrete credendovi guidati dal caso, e troverete il nido scelto da me: e ci starete comodi e felici… Non mi direte, come facevate prima: «Grazie, babbo; come sei buono, babbo; tu pensi sempre a noi.» No; non lo direte; sarà il caso, sarà la fortuna che ringrazierete; ma non importa, io vi vedrò contenti, ed il mio spirito esulterà. Allora non sarete più imbarazzati come ora dinanzi a me. Vi crederete soli, e non assumerete quell'aria freddamente cerimoniosa; io potrò udire le vostre parole d'amore; pormi tra i vostri sguardi per leggerne l'espressione passionata; contare i vostri baci, misurare e risentire la vostra felicità.
«Tutto codesto diceva colla sicurezza della sua fede robusta; e lo diceva sorridendo per consolarci nel nostro dolore. Quando Gualfardo si mostrava un po' espansivo con me, il povero malato dimenticava ogni sofferenza, ed era contento; non avea vissuto che per me, e credendomi felice non sentiva di morire.
«Era una strana situazione. Sapevo che Gualfardo non mi amava più, nè mi amerebbe più mai. «So tutto» m'aveva detto, quando avevo voluto confessargli il mio amore per Max, «so tutto.» Ma non era vero. Egli poteva avermi veduta all'albergo, stare alla finestra con Max. E quando dopo tali apparenze accusatrici, mi diceva: «So tutto» doveva credermi più colpevole che non fossi.
«No, non sapeva tutto. Non sapeva che Max aveva avuta tanta generosità, tanta poesia giovanile nel cuore, da rispettare, nella donna che amava, la fidanzata d'un altro. Non sapeva che, leggiera, incostante, compromessa, in quell'ora stessa che mi credevo obbligata a rendergli la sua parola, a scindere il nostro impegno, ero ancora onesta e degna di lui.
«No; non sapeva tutto questo, ed io dovevo nascondere il mio amore per lui, possentemente ravvivato da quel ravvicinamento, da quella comunanza d'affetti e di dolori, dalle nobili manifestazioni dei suoi sentimenti; dovevo nasconderlo perchè sapevo che non troverebbe mai più la via del suo cuore. Ch'egli non dimenticherebbe mai la colpa di cui mi accusavano le apparenze; che, anche quando in un impeto generoso mi aveva detto sinceramente: «Volete essere mia sposa domani?» anche allora poteva perdonarmi, poteva darmi il suo nome, la sua vita, ma non obbliare il passato, non rendermi la sua fiducia, il suo amore.
«Ed allora appunto che io dovevo dissimulare a Gualfardo i miei sentimenti, egli si forzava di mostrarsi espansivo con me per consolare il babbo, ed io cercavo di fargli credere simulate in favore del malato quelle dimostrazioni, che gli corrispondevo con tutta l'espansione del mio cuore.
«Quella situazione strana sarebbe stata insopportabile, se la preoccupazione continua e più saliente di vedere spegnersi lentamente una cara vita, non ne avesse distratto il nostro spirito. Subivamo nei nostri rapporti sensazioni ed impressioni, volta a volta attraenti, repulsive, angosciose; ma non erano che sensazioni, ed il pensiero non ci si arrestava mai. Il pensiero di entrambi noi, era fisso alla malattia del babbo, ad alleviare i suoi dolori. Mai una volta mi domandai, che sarebbe di me quando quell'ultimo parente avesse cessato di soffrire. Tuttavia sentivo che nel tempo stesso che perderei il babbo, perderei anche Gualfardo. Ma lo sentivo senza pensarci. Il mio cuore viveva con tutte le sue potenze d'affetto, d'amor proprio, di tendenza istintiva alla felicità, di rimpianti, e d'aspirazioni; ma nella mia mente io ero completamente dimenticata, e con me tutto il mondo; non esisteva che quel filo di vita del mio povero babbo.
«E quel filo di vita si spense, senza angoscie, senza convulsioni d'agonia.
«Era trascorso poco più d'un mese dal mio arrivo a Torino. II babbo era deperito di giorno in giorno. Non lasciava più il letto. Le gambe gli si erano gonfiate enormemente; non si nutriva quasi più. E quella gonfiezza saliva, ed aumentava sempre.
«Da molte notti Gualfardo rimaneva a vegliare il malato con me. Non ci coricavamo più, non uscivamo più di camera. Quando uno era spossato si addormentava per poco nella poltrona da una parte del letto, mentre l'altro vegliava dall'altro lato. Era la vigilia degli Ognissanti. Da due giorni e due notti non avevo più riposato un minuto. Le cure che la malattia richiedeva erano faticose, ed io consentivo a dividerle con Welfard, ma non a cederle a nessuno. Ero in uno stato di abbattimento; indebolita, convulsa. Il babbo, che aveva appena un filo di voce, mi accennò di accostarmi, e tenendomi abbracciata colle poche forze che gli restavano, mi disse:
«—Riposati un poco nella poltrona, mia cara. Mi farà bene a vederti dormire; e Gualfardo mi veglierà. Poi soggiunse:
«—Tuo marito mi veglierà;—e ci guardò entrambi con un sorriso di gioia celeste.
«—Ma tu come stai, babbo? gli chiesi con un senso di paura che non potevo spiegarmi. E se avesti bisogno di me?
«—Tuo marito ti sveglierebbe; dille che si riposi, Gualfardo; diglielo tu. E lo fissava coll'occhio pieno d'ansietà, come se desiderasse ardentemente di vedermi dormire.
«Gualfardo, che lo comprese meglio di me, ed indovinò che voleva togliermi al supremo dolore di vederlo morire, strinse il mio capo sul suo cuore, e baciandomi in fronte, mi disse:
«—Sì, Fulvia; dormi. Io ti sveglierò:—e mi condusse alla poltrona, mi accomodò i cuscini, mi coperse con uno scialle, poi tornò presso il babbo.
«All'istante il sonno mi vinse. Un sonno profondo, senza sogni. Non so quanto tempo durasse. Quando mi svegliai ero nella mia camera, sulla stessa poltrona. Accanto a me era seduta la vecchia serva del babbo. E sulle mie ginocchia un pezzo di carta su cui era scritto a matita:
—«Coraggio, Fulvia. Non ha voluto che lo vedeste morire; non vuole che lo vediate più. Ha desiderato di rimanere per sempre nella vostra memoria come lo vedeste ieri sera quando vi baciò e vi sorrise. Obbedite e siate forte. Lo spirito del povero babbo vi vede e vi benedice.—Io l'accompagnerò fino all'ultimo. Farò come se fosse mio padre. Non uscite dalla vostra camera.
* * * * *
«Dopo tante veglie e fatiche la natura aveva vinto, ed avevo dormito l'intera notte ed una parte del mattino. Povero, caro babbo! Aveva avuto l'eroismo di pensare ad addormentarmi, perchè non lo vedessi morire. Santi eroi dell'affetto, della famiglia! A codesti non si fanno monumenti, e statue. Ma hanno un monumento nel cuore dei superstiti che hanno amato; e se i loro spiriti possono vederlo, devono esserne più consolati.
«Come avevo presentito, perdendo il babbo perdetti anche Gualfardo.
«Egli vegliò il cadavere, ordinò i funerali e mandò una carrozza a prendermi per la messa di requie; tutto ciò senza che io lo vedessi. Poi terminato quel doloroso compito se ne andò, e non lo rividi più.
«Ero in una specie d'apatia. L'isolamento pesava su me, mi gelava il cuore. Non pensavo nulla. Mi sentivo sola e profondamente infelice.
«Mi erano rimaste nella mente quelle ultime parole scritte da
Gualfardo, che interpretavano pure l'ultima volontà del povero babbo:
«Non uscite dalla vostra camera.»
«Mi pareva che non dovessi uscirne più; che dovessi passare il resto de' miei giorni solitaria ed inerte in quei dodici metri quadrati di spazio, per obbedire a due ordini egualmente sacri.
«Non ricevevo nessuno. La serva mi recava continuamente delle lettere. Ne avevo aperte alcune sbadatamente e ci avevo trovato una carta da visita colle iniziali P. C. scritte a mano.
«Quella formola per condoglianza, che ricorreva persino ad un'abbreviazione per sbrigarsi più presto da un dovere di società che non aveva nessun lato piacevole, mi parve uno scherno al mio dolore, mi irritò; e d'allora a misura che la serva mi recava quelle buste le gettavo sulla tavola senza aprirle.
«Non so quanto tempo rimanessi così, muta, triste, isolata nella mia camera. Forse qualche settimana appena, forse pochi giorni. Ma nella mia memoria quel tempo occupa uno spazio grande, mi pare di esserci rimasta un anno.
«Un giorno la serva entrò con una lettera. Io la presi e la gettai sulla tavola.
«Ma no. Ella tornò a darmela. Bisognava che io la leggessi; l'aveva recata un signore, che stava aspettando la risposta.
«—Chi è? domandai.
«La serva non lo sapeva. Era già venuto due volte, ed essa non l'aveva introdotto, dicendogli che io non ricevevo ancora. Ora era tornato con quella lettera, ed attendeva ch'io gli facessi dire una parola.
«Lessi la lettera. Era dell'agente teatrale che mi aveva proposto la scrittura per Nuova-York. Aveva aspettato a lungo la mia decisione in proposito. Non ricevendola era venuto per vedermi; alla porta gli avevano detto che il mio babbo stava male; che io non abbandonavo più la sua camera.
«Aveva compreso che in quel momento non potevo pensare ad altro, e, nella necessità di fare la compagnia, aveva scritturata un'altra donna.
«Ma ora, al momento di partire, quella signora s'era ammalata alle tonsille, ed il medico le aveva consigliato un lungo riposo, se non voleva perdere affatto la voce.
«Per questo egli, informato della mia disgrazia che mi lasciava nell'isolamento, veniva a proporre ancora a me quella scrittura ridivenuta disponibile. L'arte potrebbe distogliermi da' miei tristi pensieri, ecc., ecc.
«In realtà mi sentivo sola ed infelice. Il babbo e Gualfardo, le due grandi affezioni, e le sole che mi legassero a Torino, erano entrambe perdute per me.
«L'amore dell'arte non mi parlava punto al cuore in quelle ore di sconforto.
«—Ma se potessi ancora trovarvi un interessamento,—pensai.—Se potessi ancora appassionarmi di qualche cosa, dare uno scopo alla mia vita!
«Non istetti a riflettere un istante di più. Feci entrare l'impresario. Firmai la scrittura, e gli promisi d'essere pronta a partire fra dieci giorni.
«—Se potessi ancora appassionarmi di qualche cosa! Dare uno scopo alla mia vita!
«Non fu un'idea fuggevole, un pretesto a cui mi fossi aggrappata per allontanarmi da quella casa piena di dolorosi, di strazianti ricordi. Era un bisogno istintivo della mia anima, che si rivelava istintivamente, dinanzi alla squallida prospettiva d'una vita senz'affetti.
«Perchè realmente avevo ancora una vita dinanzi a me. Ero giovane, ero forte; e le lunghe sofferenze morali non avevano punto alterata la mia salute, non avevano forse neppure accorciata d'un giorno la mia esistenza.
«Ero dimagrata, perchè, tutta assorta ne' miei dolori, avevo respinto il cibo ed il sonno, avevo faticato giorno e notte. Avevo il sistema nervoso eccitato, perchè mi ero lasciata indebolire.
«Ma senza queste cause materiali e dirette, c'era in me tanta robustezza da sopportare il dolore morale sotto tutte le sue forme, da provarlo in tutta la sua intensità senza soccombere.
«Questo io lo sentivo con un senso di vero sgomento. Sentivo in me tanta potenza di vita, e mi domandavo: «Che farne?»
«La sera stessa mi misi al pianoforte; passai una quantità di musica. Dalle più vaporose fantasie nordiche, alle più soavi melodie italiane, andai cercando con ansia un'emozione.
«E ne trovai; e piansi. Ma non erano emozioni d'artista. Era l'aria prediletta dal povero babbo che mi strappava le lagrime. Era uno spartito che mi aveva insegnato Gualfardo, che mi rapiva in una serie di cari e dolorosi pensieri. Erano ancora quei due affetti, ancora quelle due memorie del mio passato. Ma là dove quegli affetti non si legavano pel vincolo misterioso d'una rimembranza, la musica mi lasciava fredda.
«Prendevo un pezzo irto di difficoltà musicali, cominciavo a cantarlo con tutte le finezze, con tutte le sfumature d'una interpretazione intelligente, ma tosto pensavo che Gualfardo non era più là per dirmi col suo volto impassibile: «Brava Fulvia!» e respingevo la musica dicendo: «Oh! che m'importa?»
«Domandavo a Rossini, a Bellini, a Verdi le loro melodie più appassionate. Cominciavo a cantarle con tutto lo slancio, con tutta l'anima; ma pensavo che i cari occhi del babbo non erano più là per empirsi di lagrime, e respingevo la musica dicendo: «Oh! che m'importa?»
«No. L'arte non bastava a riempiere il vuoto del mio cuore. Sentivo il bisogno non solo d'amare, ma anche d'essere amata.
«—Lo fui tanto! pensavo. Tre grandi affetti erano concentrati su di me. Quello del babbo, di Gualfardo, di Max…
«Max! Era la prima volta che il mio pensiero si rivolgeva a lui dopo la mia grande sciagura. Oh come era lontano omai dal mio cuore! Come la conoscenza di Welfard, in tutta la gloria del suo nobile carattere, aveva cancellata l'impressione romanzesca di quell'amore avventuroso.
«Rimasi assorta nel pensiero di Max. Lo rivedevo in tutta la sua maschia bellezza, nell'espansiva impetuosità del suo carattere, ne' suoi entusiasmi, nelle sue giovanili imprudenze. Era una bella, splendida immagine, una cara memoria; ma non era più un'aspirazione. Potevo ancora pensare:
«—Oh! se Gualfardo avesse quelle qualità!—Ma non potevo amarle in un altro. Vedevo che Max era più affascinante, più splendido all'apparenza; ma sentivo che Gualfardo valeva di più; e lo collocavo più in alto, più in alto.
«Ma Gualfardo non mi amava più; mi aveva abbandonata per sempre. Che potevo sperare da lui? Non ero stata io stessa a respingerlo? E per amore di Max?
«Oh mio Dio! Che era mai avvenuto di quella passione entusiasta che mi aveva indotta a sacrificare il nobile fidanzato che da tanto tempo mi amava, per acquistare il diritto di amare Max?
«Ricordavo il mio trasporto di quella sera fatale in cui avevo preso la risoluzione d'accettare la scrittura per l'America, e di sciogliere il mio impegno con Welfard, per essere libera di scriver follie in un epistolario sentimentale con Max.
«Stupido sogno da romanzo! Era svanito prima che avessi finito la mia confessione a Gualfardo. Ed omai, ripensando a quei due amori che s'erano disputato a lungo il mio cuore, ripetevo con amarezza un verso altre volte citatomi da Massimo: Il ben ch'è mio davvero, è il ben che sparve!
«Presi le lettere di Max, belle, poetiche, eleganti, appassionate, strane, e mi posi a leggerle pensando:
«Se potessi amarlo ancora! Chi può dire quanto possa sopra un cuore entusiasta l'ascendente dell'ingegno?
«Mentre ero assorta così, la mia serva entrò in camera per portarmi il pranzo.
«Al vedermi allo scrittoio con tante lettere intorno, si fermò alzando il capo ed aprendo la bocca nell'atto di chi si ricorda improvvisamente d'una cosa; poi disse:
«—A proposito di lettere; ce ne sono molte, che sono venute quando lei non aveva mente ad occuparsene. Vuole che gliele porti?
«Pensai da quanto tempo non avevo più scritto a Max; e che certo fra quelle lettere ce ne dovevano essere di sue; ed accettai di vedere quella corrispondenza arretrata.
«Passai tutte quelle buste chiuse, cercai sugli indirizzi la brutta scrittura di Max. C'era infatti una lettera sua. Nell'aprirla tornavo a dire tra me: «Se potessi amarlo ancora!» e la mia mano tremava. E le forme vaghe di vaghe speranze alate sembravano delinearsi più e più nel vuoto infinito.
«Quell'epistola era abbastanza breve perchè io possa riportarla qui per intero:
«Fulvia!
«Dicono che un uomo affetto da spinite, quando è seduto, crede di poter camminare come chicchessia.
«Lo stesso è accaduto a me. Credevo di poter ancora amare e mi sono ingannato. L'amore per me può essere tutt'al più, come voi dicevate, un episodio tempestoso.
«Ho lungamente lottato fra la ripugnanza ad ingannarvi, e la paura di darvi un dolore.
«Perdonatemi e compiangetemi! Darei dieci anni della mia vita per sapervi felice.
«Spero per voi nel tempo, nella lontananza, e più più ancora nell'effetto morale che la mia condotta deve fare sul vostro animo.
«Perdonatemi!
«Ed io ammiravo la sua anima appassionata! Bruciai ad una ad una quelle lettere belle, poetiche, eleganti, passionate, strane; poi bruciai quell'ultima che era soltanto strana.
«E nel vuoto, le forme vaghe delle vaghe speranze alate svanirono per sempre.
«Massimo,
«Ho scritte queste memorie durante il mio soggiorno in America; e le ho scritte per voi.
«Esse non sono un rimprovero; non sono una risposta alla vostra felice trovata o similitudine, o non so più che figura rettorica, sulla spinite.
«Sono una specie d'espiazione pe' miei piccoli e grandi errori, pe' dolori che ho procurati ad altri, per lo spreco che ho fatto della mia fede, delle mie speranze, della mia mente e del mio cuore.
«Voi che siete scrittore, correggetele dove non vanno; poi pubblicate queste confidenze. Nella loro semplice verità, senza voli poetici e senza colpi di scena, hanno tuttavia un non so che di romanzo, e le signore le leggeranno. Le fanciulle, che nei lunghi ozii di una vita frivola e disappensata, suggono il veleno delle aspirazioni vaporose, e le spose solitarie, che, nel terra a terra della vita domestica, prendono a noia la placida continuità di quei dolci affetti, e sognano i voli lirici delle passioni da romanzo, leggeranno la storia di una povera sognatrice, ed impareranno che tutto codesto passa e vanisce.
«Giunta al fine di quella mia vita giovanile, io mi rivolsi a guardarla in questo lungo e dettagliato esame; e posso dir loro, posso giurarlo sull'anima mia, che due sole immagini, due soli affetti, due soli ricordi, sopravvivono nel mio cuore e m'inspirano un sincero rimpianto. Gli affetti calmi, serii, legittimi del mio babbo e di Welfard; gli affetti domestici, la famiglia. La prosa—tanto poetica nella sua verità!
«Per ogni cuore che le mie memorie convinceranno, per ogni imprudenza che faranno evitare, la mia anima dolente si sentirà perdonato un errore. Questo vi lascio come il mio testamento, Massimo. E lo lascio a voi, perchè voi solo potete riempirne le lacune, ed attestarne la verità. Ve lo lascio come testamento, perchè voglio morire. È la triste fine, la catastrofe del mio romanzo.
«È una risoluzione tranquilla e maturata, non è l'esaltazione d'un grande dolore.
«È trascorso quasi un anno dalla morte del babbo, dal distacco di Gualfardo e dal vostro attacco di spinite retorica. Vedete dunque che ho avuto tempo a riflettere.
«Ma non solo ho riflettuto del tempo; furono anzi il tempo e l'esperienza della mia nuova situazione che mi hanno condotta grado grado dalla noia della vita alla sfiducia, all'aspirazione della morte.
«Ero partita da Torino sul finire di novembre. Dovevo imbarcarmi a Genova. Vi giunsi due giorni prima della partenza del bastimento, il 26 novembre, e presi alloggio all'albergo della Ville.
«Dovete ricordarvi quella data e quell'insegna.
«Stavo alla finestra della mia camera la sera del mio arrivo, quando vidi entrare nel cortile una carrozza da nolo, da cui scendeste voi, con una signora.
«Avevo presso di me una cameriera dell'albergo che mi prestava qualche servizio da toletta. La chiamai alla finestra, ed additandovi le domandai:
«—Chi sono quei signori?
«—Sono due sposi lombardi.
«Non interrogai di più. Avevo anch'io indovinato che eravate un marito ed una moglie. Del resto che m'importava omai?
«La spinite vi aveva accordato una tregua sulla via del Municipio.
«Tuttavia codesto mi diede un disinganno retrospettivo.
«O voi progettavate già quel matrimonio quando dicevate d'amarmi; e tutta la vostra lealtà ch'io ammiravo non era che una finzione.
«O quella nuova simpatia era nata dopo il vostro attacco di spinite (la lettera che me lo annunciava era in data del 24 ottobre), e vi era bastato un mese per dimenticar me, innamorarvi di un'altra, rinunciare alle vostre prevenzioni contro il matrimonio, sposarla, ed imprendere il viaggio da nozze.
«Dunque, quelle vostre passioni impetuose, ch'io aveva preferito al serio amore di Welfard, non erano che fuochi di paglia, splendenti, ma fuggevoli e senza calore.
«Quella scoperta distruggeva anche il passato. O mi avevate amata leggermente, o non mi avevate amata mai.
«Non stetti a fare altri commenti. Non m'informai di null'altro, non cercai più di vedervi.
* * * * *
(Nota di Max.—Ero stanco, disgustato di me e della mia vita, dopo aver scritto a Fulvia quell'ultimo biglietto.—Quell'amore contrastato, che avevo combattuto in me stesso per rispetto all'onestà di lei, mi aveva fatto riflettere ai pericoli de' miei amori, a slanci impetuosi e fuggevoli.—Era tempo di mettermi al sodo. Avevo trent'anni. Se Fulvia fosse stata libera avrei sposato lei. Ma era vincolata ad un altro, e voleva condannarmi pel resto de' miei giorni alla parte burlesca d'un amante epistolare.—Ne sposai un'altra).
* * * * *
«Il giorno 28 m'imbarcai.
«Durante il viaggio di mare, di cui m'ero fatta un'idea delle più poetiche, stetti sempre male.—Tutte le passeggiere, e molti passeggieri soffrivano come me. Sembrava un ospitale di colerosi.
«Non eravamo in pensiero che di quanto ci convenisse mangiare e bere, e del come dovessimo coricarci per soffrir meno.
«Quelle continue preoccupazioni della vita materiale sopivano tutte le mie facoltà contemplative.
«Non mi sono mai assorta sul ponte al chiaro di luna ad ammirare l'immensità del cielo e del mare. Per soffrir meno bisognava sdraiarsi prima di cominciare la digestione. Ed io levandomi da tavola correvo alla mia cabina, e mi mettevo a letto.
«Giunsi in America magra, debole e spoetizzata.
«Ebbi subito a studiare lo spartito che dovevo cantare. Però la voce si ristabilì presto, e quando andai in iscena ebbi un grande successo.
«Ma la corda dell'ambizione s'era spezzata nel mio cuore con quella dell'amore. Non c'è ombra di egoismo nel mio carattere. La gloria di cui nessuno gode per me, mi è indifferente.
«Que' serii yankee che mi facevano la corte, e mi parlavano d'amore, mi sembravano una goffa parodia del mio bel Gualfardo.
«Mi provai a ricevere un poco, e ad andare in società. Ma dove erano riuniti due uomini, era sicuro che s'udiva presto parlare d'affari. Mi annoiai a morte.
«E tuttavia il ritorno in Europa non mi sorrideva. Sentivo di esservi omai straniera, perchè nessun affetto mi vi richiamava.
«E poi avevo lo spavento di trovare Welfard ammogliato. Io avevo agito male con lui; si credeva tradito. Aveva ragione d'essersi allontanato da me. Ed omai erano trascorsi molti mesi dalla nostra separazione. Se si fosse ammogliato, io non avrei avuto nessuna ragione di biasimarlo; ma sentivo che non avrei avuto il coraggio di sopportarlo.
«Mi domandavo continuamente:
«A che serve la mia vita? A chi sono utile? A chi sono cara? Chi posso amare? Per chi studio e lavoro?
«E sentivo il vuoto, l'inutilità della mia esistenza, e mi facevo sempre più misantropa, e desideravo di morire.
«Per lunghi mesi ho agitato a mio modo la grande questione di Amleto: Essere o non essere.
«E decisi di non essere più.
«Ma, dietro la pace e la solennità della morte, mi apparvero le cento figure goffe e pettegole delle cronache dei giornali, coi loro commenti indiscreti ed il loro biasimo pedante.
«Allora tentai un'ultima prova. Feci toletta come una civettuola; mi studiai di esser bella e di piacere, e mi slanciai nel mondo decisa di innamorarmi, se fosse possibile.
«Imposi a me stessa di prestare attenzione a quanti mi corteggiavano per sorprendere il primo barlume di preferenza.
«Scontrai un uomo d'ingegno, che aveva viaggiato molto. Era bello; parlava bene; aveva uno spirito acuto, ed una voce appassionata. Era poeta, e mi dedicò dei versi belli di quella tranquilla poesia della verità e del sentimento, a cui s'inspira la letteratura inglese. Mi corteggiava, senza affettazione, senza chiasso.
«Mi lasciai corteggiare; feci delle chiacchere sentimentali, cercai di esaltarmi; ma dopo alcuni giorni mi accorsi che sprecavo tempo e fatica. Ero perfettamente fredda.
«Rinunciai tosto a quella commedia inutile. Più tardi mi accorsi che il bel poeta mi amava realmente, e soffriva del mio strano procedere.
«Allora mi rimproverai d'essere stata egoista; compresi che non avevo diritto di giuocare coi sentimenti d'un altro per misurare i miei; di lusingare un cuore confidente, dacchè non potevo più amare che la memoria del mio perduto Gualfardo.
«Oh! a me sì che s'attaglia veramente la parabola della spinite!
«Una volta più mi sentii sola, inutile, finita; ed ho deciso di morire.
«Ma voglio evitare tuttoquanto può avere di drammatico il suicidio d'una signora. Nella morte cerco il fine d'una vita insoffribile, e non il rimpianto del mondo. Voglio che nessuno possa sospettare nella mia morte un suicidio. Se un cadavere rimane alla curiosità degli uomini, essi strapperanno alle sue viscere fredde il segreto che l'ha ucciso.»
Qui finivano le memorie di Fulvia che ricevetti in un piego da Chamounix il giorno 20 agosto. Ad esse erano aggiunte le poche righe seguenti in data di Chamounix.
«Dopo averci pensato a lungo, ho trovato.
«Giunsi a Torino il giorno tre d'agosto dopo otto mesi di assenza.
Avevo il mio progetto già fatto.
«Rividi alcuni conoscenti, alpinisti valenti ed appassionati.
«Manifestai una smania irresistibile di salire sul Monte Bianco. Li pregai di trovarmi una compagnia, di dirigermi nelle spese da farsi, ecc.
«Questa stranezza parve assai naturale in una signora giunta or ora dall'America, dove gli originali ed i touristes sono produzioni del suolo.
«Pochi giorni dopo mi annunciarono che due giovani alpinisti, loro amici, si disponevano a salire sul Monte Bianco, alla metà d'agosto. Essi erano già nella prossimità di Chamounix.
«Telegrafammo interrogandoli se mi volessero per compagna. Accettarono. Li raggiunsi qui a Chamounix ieri a sera. Oggi mi occupai di tutte le provviste necessarie alla salita. Ho degli stivali con ventisei chiodetti, appuntati come diamanti. Ho dei bastoni ferrati, dei veli verdi, degli occhiali imbottiti; tutto un carico di roba per preservare la vita.
«Chi potrebbe dire che io vado a morire?
«Eppure così è. Troverò un crepaccio che m'inghiotta, una valanga che mi travolga; ruinerò da un precipizio; mi getterò a capo fitto in una gola; dove sono tanti i pericoli, s'incontra la morte ad ogni passo; il suicidio è facile e segreto. Da quella gita non tornerò.
«Ho domandato di Gualfardo; non è più a Torino. Dov'è? Non ne so nulla. Non lo vedrò mai più.
«Ho preso meco le sue lettere; tutte le sue lettere, ed il suo ultimo biglietto che mi annunciava la morte del babbo. Quelle lettere che mi parevano tanto fredde, e che ora mi sono tanto care. Esse riscalderanno il mio povero cuore gelato tra le nevi del Monte Bianco.
«Non imposterò queste carte per voi se non al momento di partire per la grande ascensione, da cui non tornerò più. Quando le riceverete avrò già cessato di vivere.
«Cambiate i nomi, e poi pubblicate le mie memorie. Ma non questa lettera. Non tradite per ora il segreto della mia morte.»
Il piego delle memorie di Fulvia mi era giunto la mattina del 20 agosto. Ero nel mio studio. Lo apersi; ma appena mi accorsi che era cosa estranea agli affari, malgrado la viva curiosità che m'inspirava, lo misi da parte. Ero sovraccarico di lavoro; da otto giorni avevo molto trascurato il mio studio, per occuparmi quasi esclusivamente della mia camera nuziale, dove, dopo nove mesi e qualche giorno di matrimonio, un bel bambino faceva echeggiare in suono di pianto la sua voce robusta.
Era la prima gioia viva che avessi provata dopo il mio matrimonio.
Quel vagito potente aveva rimosso qualche cosa in fondo al mio cuore.
Avevo abbracciato mia moglie con un senso di profonda riconoscenza.
Poi era venuto il battesimo, poi le congratulazioni, la ricerca della nutrice, il suo arrivo in casa, le disposizioni da prendere, le raccomandazioni, e finalmente la partenza del bimbo colla nutrice, avvenuta quella mattina stessa di buon'ora.
Mia moglie aveva superata felicemente quella prima crisi materna. Tutto era ritornato in calma nella mia casa, ed io ero tornato allo studio, ansioso di riguadagnare il tempo perduto.
Ero contento, di quella contentezza senza trasporto, che si riscontra nei matrimonii dove non manca nè l'agiatezza, nè la salute, nè la gioventù, nè la pace. Se l'amore vi avesse posta la sua scintilla ardente e luminosa, sarei stato felice; così non ero che contento. Ma ero contento e lavoravo; lavoravo già per mio figlio. Uscendo dallo studio alle cinque, passai a salutare mia moglie che stava ancora in camera, poi andai a pranzo, e quand'ebbi preso il caffè e licenziata la cameriera, mi adagiai comodamente in una poltrona presso il balcone, ed apersi il manoscritto di Fulvia, di cui avevo riconosciuto la scrittura fin dalla busta, dicendo tra me:
«—Se avessi sposato Fulvia, questi giorni avrei pranzato nella sua camera, sopra un tavolino piccolo piccolo, accanto al suo letto.
Quella lettura mi trasportava, mi commoveva, m'irritava volta a volta, m'interessava sempre.—Molte volte rilessi un periodo che mi riguardava, e rimasi assorto cogli occhi fissi alle finestre della casa di contro, pensando con un misto di gioia e di rimpianto, quanto ero stato amato.
L'incontro inavvertito di Fulvia a Genova durante il mio viaggio di nozze, mi vendicò un momento di tutti i sarcasmi ch'ella aveva lanciati alla mia povera metafora della spinite.
Ma la sua poca curiosità riguardo al mio matrimonio e quelle parole: M'ero accorto che eravate un marito ed una moglie, le quali, senza parere, avevano un fondo di canzonatura, mi irritarono al sommo grado.
Così quella lettura procedette lenta; avevo acceso il lume da un pezzo, ed il mio orologio sonava le dieci e mezzo, quando giunsi all'ultima pagina a cui era incollata la lettera, fredda, amara, disillusa come il pensiero del suicidio.
Benchè fossi da otto giorni, quello che Fulvia soleva chiamare derisoriamente, un buon uomo ammogliato con prole, tutto il mio sangue ribollì al leggere quella lettera, come il sangue di un giovinotto.
Mi alzai, presi il cappello in furia come se dovessi andare di quel passo sul Monte Bianco a trattenere Fulvia sull'orlo d'un precipizio.
Al momento d'uscire m'accorsi che ignoravo completamente dove andassi. Allora pensai a confrontare le date. Ma tra la mia grande agitazione, tra l'abitudine di Fulvia di non precisarle, non mi riuscì di comprendere perfettamente da quanti giorni quella lettera fosse scritta.
Una cosa però era sicura. Che Fulvia non voleva impostarla che al momento d'imprendere la salita; e però, se il piego era giunto a me, Fulvia era partita al tempo stesso per la sua triste destinazione; ed a quell'ora….. Un brivido mi corse nelle vene.
Questa volta uscii di corsa sapendo perfettamente dove andare. Al mio club si ricevevano moltissimi giornali, e c'erano degli alpinisti appassionati che raccoglievano tutte le notizie di ascensioni pericolose.
Ma nulla di notevole, e sopratutto nessuna disgrazia aveva accompagnato le ultime gite al Monte Bianco.
Questo non mi calmò. Conoscevo il carattere di Fulvia. Profondamente onesta, era incapace di avermi scritto una cosa che doveva addolorarmi, senza essere ben decisa a quanto annunciava.
D'altra parte la lentezza e la calma con cui aveva presa quella risoluzione, la freddezza con cui ne parlava, provavano la sua profonda delusione, lo sconforto che le era entrato nel cuore.
Fulvia, malgrado le angoscie del dubbio, che sono l'eterno tormento dell'umano pensiero, era profondamente religiosa. Il materialismo,—che per lei era la mortalità dell'anima, il nulla,—le faceva orrore.
Tuttavia la sua religione non poteva averla trattenuta dal passo fatale che mi annunciava. Altre volte avevamo parlato del suicidio. Ella non lo credeva una colpa, in una persona che non è utile a nessuno sulla terra.
«—È un atto di coraggio, mi diceva. Quelli che chiamano il suicidio una viltà non possono esserne convinti. Mi sembrano certe mamme che dicono ai loro bimbi: «Badate a non far capricci, perchè codesto fa diventar brutti.»—Essi dicono alle masse: «Se qualcuno di voi si uccide, il mondo lo chiama vile.» Ma è un inganno pietoso che gettano dall'alto della loro sapienza a noi ignoranti, per impedirci di ucciderci. L'attaccamento alla vita e il terrore dell'ignoto sono due istinti possenti in noi. Anche i più entusiasti credenti provano un senso di ribrezzo istintivo al momento di rinunciare al loro modo di essere attuale, sebbene credano con certezza che continueranno ad esistere sotto forme migliori. Ci vuol dunque del coraggio per superare tutte codeste ripugnanze e rinunciare volontariamente alla vita.»
Questi brani di discorsi sconnessi, queste opinioni avventate, mi tornavano in mente orlati a nero come tanti documenti funebri, comprovanti la morte di Fulvia.
Ed intanto andavo come un matto per Milano. Entravo nei teatri senza pensarci, arrivavo in platea coll'occhio fisso e i capelli ritti, ed a mezzo d'un pezzo musicale, o d'una scena drammatica che teneva l'uditorio affascinato, urtavo dieci persone per raggiungere un conoscente, a cui domandavo con affanno:
—Non sai che sia avvenuta qualche disgrazia sul Monte Bianco?
Il pubblico mi zittiva; e l'interrogato mi tastava il polso fingendo di prendermi la mano, e mi offriva di accompagnarmi a casa, con quella voce carezzevole, che teniamo tutti in serbo per parlare ai malati ed ai matti.
Non so quante volte mi ricondussero così, ed io tornai sempre ad uscire, con quell'idea insistente come una mania, finchè trovai tutto chiuso, caffè, teatri, clubs, e neppur l'ombra d'un individuo nelle strade a cui domandare le ultime notizie del Monte Bianco.
Suonavano le quattro del mattino, quando traversando, forse per la decima volta, la galleria, mi trovai ad un tratto possessore di quest'idea:
Andare a Chamounix!
Di là Fulvia aveva scritto pochi giorni innanzi. Di là era partita per la sua ascensione funesta. Là potrei immancabilmente sapere le circostanze dolorose della sua fine.
Corsi a casa per prendere del denaro.
La cameriera era alzata.
«—La signora è inquieta, mi disse. S'è coricata, ma non volle dormire finchè ella fosse tornato.
In quel momento ero col pensiero a centomila leghe da mia moglie. Non mi sentivo in istato di sopportarne la presenza, che non mancherebbe di essere accompagnata da un importuno interrogatorio. Risposi alla cameriera:
«—Dille che un affare urgentissimo m'ha trattenuto fuori finora, e che debbo uscir subito ancora, perchè sono aspettato da un mio cliente. Che vado in campagna con lui per esaminare dei documenti, e resterò fuori alcuni giorni.
Ed entrai nel mio studio, presi del denaro in fretta, e senza portar meco neppur un goletto, uscii di nuovo.
«—Max! mi gridò mia moglie dal suo letto udendomi passare nel corridoio.
Nel lampo d'un pensiero comparai la Fulvia passionata ed entusiasta a quella comoda moglie che si limitava a chiamarmi dalle sue tepide lenzuola, senza che l'annuncio della mia partenza le desse la forza d'infilare le pianelle. Ed il cadavere gelato fra i crepacci del Monte Bianco mi parve meno freddo di mia moglie. Tuttavia entrai, la baciai in fretta e le dissi:
«—Mi tocca partire; non moverti, potresti infreddarti, addio.
E via a precipizio.
Partii col primo treno. Mi cacciai in un angolo del convoglio e rilessi tutto il manoscritto di Fulvia, senza risentire più il menomo senso di amarezza o di risentimento.
Ora che sapevo a che fine l'aveva condotta il mio amore, sentivo la sua superiorità ed i miei torti.
Povera Fulvia! quanto mi amava! e come nobilmente m'amava! Perchè non avevo saputo renderle quell'amore passionato ch'ella sognava e che meritava tanto. Contenderla al suo fidanzato, al suo dovere, a lei stessa? Povera Fulvia! Come sarei stato felice con lei! E sospiravo sul mio stato presente; e quei sospiri la vendicavano.
Non tenni conto del tempo, dei cambiamenti di treno, delle fermate, di nulla.
Non avevo che un pensiero: «Fulvia.» E lo elaborai per tutto il viaggio. Non attendevo che una parola: «Chamounix.»
Finalmente, quando Dio volle, senza saper come, mi trovai arrivato.
Scesi all'albergo, e per prima cosa m'informai se non erano accadute disgrazie nelle ultime salite al Monte Bianco.
—No, nessuna disgrazia.
Là almeno non mi credevano pazzo. La domanda era naturale. Potevo avere un fratello, un babbo, un figlio alpinista, di cui mi mancassero notizie.
—Ma dal principio del mese non c'erano state ascensioni?
—Sì, parecchie.
—Non avevano veduta una signora?
—Una signora? Sì, più d'una.
—E… non era perita quella signora sul Monte Bianco?
—No. L'albergatore non lo credeva. Non s'era parlato di una disgrazia.
—Le guide! Volli vedere le guide.
Ne furono chiamate parecchie. Due avevano accompagnata una carovana in cui erano delle signore. Ma nessuna era rimasta vittima.
Volli dare i connotati di Fulvia; ma non si ricordavano. Mi risposero dei sì e dei no contradditorii.
Ma forse Fulvia s'era vestita da uomo. Non l'aveva scritto; ma poteva averlo fatto. Rilessi il brano della lettera dove accennava di volo al suo equipaggio da alpinista.
Non mi diceva nulla. Quegli oggetti potevano servire con entrambi i costumi.
Il tempo era delizioso per una salita, e le guide, che s'erano credute chiamate per una buona giornata, s'annoiarono di trovare soltanto un importuno interrogatore. Mi risposero di mala voglia, e con un'aria di canzonatura male dissimulata.
Una cosa era certa; che non si contava nessuna vittima nelle ascensioni di tutto il mese.
Fulvia ha cangiato progetto, pensai. Trovandosi in paesi sconosciuti, tra i villaggi, dove il giornalismo non è là a raccogliere i fatti di ogni giorno per alimentare la sua cronaca indiscreta, avrà trovato modo di finire la sua vita senza esporsi ad essere salvata dalla generosità de' suoi compagni di viaggio.
Questo pensiero mi scoraggiò. Dove, come scoprirla?
Partii per Torino. Appena arrivato mi feci condurre in via Roma al n. 10. Ma dal novembre antecedente quell'alloggio era stato licenziato da Fulvia, che aveva venduto il mobiglio, ed era partita per l'America.
Nei pochi giorni che era stata a Torino al suo ritorno, era stata ad un albergo. Ma quale? E che cosa avrei potuto saperne? Non era supponibile che avesse fatte delle confidenze all'albergatore.
Inoltre aveva scritto a me da Chamounix. Il suo nuovo progetto adunque non poteva essere nato che là. La mia gita a Torino era stata perfettamente insensata. Un istante mi venne l'idea di ricorrere agli uffici di questura. Ma mi parve di oltraggiare la memoria di Fulvia, che aveva voluto circondare di tanto mistero la sua morte.
Qualunque sia l'impeto che ci spinge ad una corsa precipitosa, qualunque sia l'esito ed i sentimenti che ne riportiamo, si finisce sempre per tornare a casa.
Tra andare, venire, interrogare, almanaccare, piangere in segreto, disperarmi, ero stato fuori sette giorni.
La mattina dell'ottavo, triste, irritato, disgustato del mio passato e del mio presente, con un profondo tedio nell'anima, ripresi alla stazione di Porta Nuova il treno per Milano.
Giunsi a Milano il 30 agosto a mezzodì, con un caldo soffocante, un sole infuocato.
Nello stato d'animo in cui mi trovavo non potevo sopportare il pensiero di accogliere il tranquillo benvenuto di mia moglie.
Avevo una chiave del mio studio, dove potevo entrare per una porta attigua a quella dell'alloggio. Mi rifugiai nel mio studio senza entrare in casa.
A quell'ora i commessi erano a colazione.
Sedetti allo scrittoio su cui erano disposte in ordine di data le lettere venute durante la mia assenza.
Tra quelle soprascritte non ne vidi che una. Una trammezzo a tutte, che era giunta tre giorni innanzi.
Una lettera di Fulvia!
Un freddo sudore m'imperlava la fronte in quell'ardente meriggio d'agosto.
Una lettera di Fulvia! Era viva; ricuperata dopo l'agonia di quei giorni in cui l'avevo creduta morta, ed avevo pensato a lei con tutto l'amore che giustifica la inviolabile solennità della tomba; era viva e mi scriveva…. Ed io era un buon uomo ammogliato con prole!
Mi sentivo sull'orlo di un precipizio; un precipizio verdeggiante, attraente come quelli cui sognava Fulvia sul Monte Bianco. Volsi un pensiero di compianto a mia moglie… ed apersi e lessi la lettera.
«Massimo,
«Non v'impaurite. Non è dall'altro mondo che vi scrivo. No; è da questo mondo bello, dalla terra verdeggiante, dal cielo azzurro, dall'aria pura e serena, da questo mondo di luce, in cui si aspira la vita e la felicità, in cui si ama e si è amati!»
Posai la lettera e mi alzai a passeggiare nello studio facendomi aria coll'istruttoria d'un processo civile. La gioia mi soffocava. Neppure nei più bei giorni passati, Fulvia non mi aveva mai scritto con tanto trasporto.
La dolcezza acre ed inebriante del pomo di Eva mi saliva alla gola, e mi dava alla testa.
O lettore, lettore!…. Tornai a leggere.
«Avete ricevuto il piego colle mie memorie? Oh Massimo! Erano cattive le ultime pagine delle mie memorie; perdonatemi, avevo il freddo nel cuore.»
Ed io in quel momento ci avevo un incendio!
«Non fu una commedia, vedete. Sapete pure che io non mento. Allora volevo realmente morire. Non speravo più che l'amore potesse farmi rivivere, ed adorare la vita. Oh come sono, come voglio essere felice!
«Avevo il freddo nel cuore, ed ero decisa a morire. Ma per verità la mia inesperienza m'aveva fatto credere la cosa più facile che non fosse in realtà. Trovai a Chamounix un capo delle guide, a cui le guide ch'egli mi assegnò si resero in certo modo responsabili della mia persona. Poi delle corde, catena inesorabile di sicurezza, con cui debbono legarsi insieme guide e viaggiatori nei punti in cui il suolo è più pericoloso.
«Ad ogni modo, pensavo che troverei sempre una gola spalancata, o quanto meno un ripido declivio per lasciarmi precipitare in un momento di libertà. Le stesse cautele mi guarentivano la certezza dei pericoli. Soltanto decisi di compiere l'ascensione, di godere ancora quell'ultimo solenne spettacolo, e di studiare la via, di scegliere coraggiosamente il mio punto, e di lasciarmi precipitare soltanto nella discesa, quando mi fossi ben accertata che la caduta sarebbe mortale.
«Nulla mi spaventava di più che l'idea d'esser rialzata, mezzo gelata, colle gambe rotte, per passare anni ed anni di dolorosa inedia, sopravvivendo miseramente a me stessa.
«I due compagni di viaggio che avevo trovati a Chamounix erano due capi scarichi. Non avevano nessuna individualità. Uno posava, e l'altro l'imitava. Erano di quelle persone nulle, che si praticano, che si chiamano oneste, perchè in ogni occorrenza possono mostrar la fedina criminale, e provare che non hanno mai avuto maglia a partire colla giustizia; ma non valgono la pena di essere studiati più di così.
«Tuttavia, ero raccomandata ad essi, dovevamo fare la salita insieme, erano volgarmente cortesi, e di buon umore, e si stabilirono tra noi quei rapporti di apparente cordialità che erano inevitabili in quelle circostanze.
«Partimmo animati da un vero entusiasmo.—Quando alla Pietra della Scala vidi che si passavano le corde per legarci tutti insieme colle nostre guide prima d'entrare nel ghiacciaio dei Bossons, incominciai a domandarmi seriamente, come era possibile di precipitare in un abisso con quelle precauzioni. Quest'idea mi preoccupò pel resto del viaggio fino ai Grand-Mulets. Avevo traversato ponti di neve larghi appena come il piede di un uomo; avevo costeggiato precipizi di cui non si vedeva il fondo; ma le guide erano là colla corda tesa. Se il ponte fragile si fosse spezzato sotto un urto violento del mio piede, se avessi scivolato entro la gola spalancata d'un precipizio, avrebbero tirato la corda, m'avrebbero tenuta sospesa, e sarei stata salva.
«Ai Grand-Mulets trovammo una specie di casupola dove entrammo, per mangiare e riposarci. Non dovevamo riprendere la grande salita che dopo la mezzanotte.
«All'entrare in quella capanna indietreggiai spaventata. Credetti vedere uno spettro. Era una grande figura d'uomo colle gambe nascoste entro immensi stivali che salivano sino al ginocchio, un ampio soprabito a lungo pelo che dissimulava le forme del corpo;—ed uno di quegli orribili passa-montagne di lana scura, che usano i viaggiatori di professione nei lunghi viaggi di notte, gli copriva intieramente il capo ed il volto.
«I miei compagni di viaggio non ne fecero meraviglia.
«—Qui è il luogo delle stranezze, mi dissero. I touristes sono tutti stravaganti, e quando non lo sono vogliono parerlo.
«Quello strano personaggio era accompagnato da due guide.
«—Il signore sale al Monte Bianco? domandò quello fra i miei compagni che posava per edificazione dell'altro.
«L'interrogato guardò una delle sue guide, che rispose per lui:
«—Il signore non parla che tedesco. È stato già sul Monte Bianco; ne discende.
«I miei compagni non sapevano il tedesco e rinunciarono a conversare collo straniero. Si disposero a mangiare; ma, sia l'agitazione della salita che si sta per imprendere, sia il freddo intenso, non si può mangiare a quell'altezza. Il loro appetito non fece onore alla straordinaria potenza di stomaco di cui s'erano vantati.
«In compenso bevvero enormemente.
«Quanto a me non ero preoccupata che dalla mia grande idea, e dissi:
«—Non comprendo come possano avvenire disgrazie sul Monte Bianco, dacchè, appena il suolo è pericoloso, i viaggiatori si legano colle corde di sicurezza.
«Allora tra i miei compagni e le guide si fecero ad enumerarmi una schiera di vittime, quali scoperte sotto una valanga che le aveva sepolte, quali scivolate da un'altura vertiginosa, e trovate agghiacciate sopra una sporgenza del monte.
«—Si trovano dunque sempre i cadaveri? domandai.
«—Quasi sempre, rispose una guida.
«—Ed allora?
«—Allora si frugano, si cerca dalle loro carte di sapere il loro nome, si annuncia il fatto; i giornali lo pubblicano, e, se hanno una famiglia, ne viene informata. E la guida compiacente proseguiva a narrare di una signora venuta tre anni innanzi dal fondo dell'Inghilterra a cercare il cadavere di suo figlio, per portarlo a giacere eternamente nella tomba di famiglia accanto a suo padre.
«—Ma quello è stato un suicidio—soggiunse.
«—Un suicidio!—esclamai.—Come lo sapete?
«—Dalle carte che si trovarono sul cadavere.
«Era un bel giovane. Ricco come Rotschild e nobile come un re. S'era messo in testa d'essere un gran genio musicale, ed era venuto in Italia per studiare. Quella primavera aveva compiuto la sua opera, che credeva un miracolo. Egli ne aveva parlato tanto; aveva creato una grande aspettazione, si figurava di diventare da un giorno all'altro un grand'uomo. Invece la sua opera era caduta. Allora aveva voluto morire; era salito sul Monte Bianco, e giunto al grande altipiano,—mentre guide e viaggiatori si riposavano facendo colazione,—egli si era allontanato verso sinistra, dalla parte delle Roccie Rosse, e si era precipitato in un crepaccio, da cui fu tratto a grande stento cadavere, stecchito, come una massa di ghiaccio.—Tutto questo mi disse la guida in un lungo racconto.
«Un altro aveva avuto prima di me l'idea del suicidio sul Monte
Bianco. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
«Questo contrariava il mio progetto. Io non avevo pensato al ritrovamento ed allo spoglio del cadavere. Contavo rimanere sepolta tra quei ghiacci eterni, e, come vi dissi, avevo portato meco le lettere di Gualfardo, l'unica cosa che amassi ancora sulla terra, perchè fossero eternamente con me.
«Le avevo riunite in un piego, e, non so per quale sfogo dell'anima, in quel momento d'emozione suprema, ci avevo scritto:
«Gualfardo! Per quanto t'ho amato, per quanto ho sofferto, perdonami di non renderti questi ultimi preziosi ricordi, perdonami di seppellirli con me fra quei ghiacchi eterni, da cui ti volgerò il mio ultimo pensiero; dove morendo per te, ti benedirò pel bene che hai fatto al mio povero babbo, pel male ch'io t'ho fatto, pel tuo nobile cuore. Perdonami, Gualfardo, perdonami. T'ho amato troppo tardi, ma t'ho amato fino a morire per te.»
«Quel piego era accuratamente avvolto in una busta di tela cerata e suggellato. Se lo trovavano su di me, la mia dichiarazione scoprirebbe il mio segreto, e tutto quanto avevo fatto per evitare la pubblicità indiscreta ed oltraggiosa, diverrebbe inutile.
«Era necessario ch'io mi privassi di quelle lettere, che le rendessi a
Gualfardo. Sulla sua discrezione potevo contare.
«Ma come fare? Affidarle a' miei compagni di viaggio o alle guide, era quanto dire che volevo morire; essi mi veglierebbero, desterebbero l'allarme intorno a me. Era ancora la pubblicità, ed una pubblicità vergognosa, che svelerebbe il mio progetto prima che fosse compiuto, e lo impedirebbe.
«A quelle somme altezze, ed in quelle supreme circostanze, ebbi un'audacia che non avrei avuta mai nella vita d'ogni giorno. Pensai a quello straniero che parlava soltanto il tedesco, e scendeva già dal gran monte.
«I miei compagni, dopo aver bevuto assai più che non avessero mangiato, s'erano distesi sui loro materassi e dormivano. Delle guide, alcune dormivano pure, altre passeggiavano fuori della capanna, forse attratte dallo splendido orizzonte che il crepuscolo avvolgeva ne' suoi raggi fiammanti.
«Mi accostai risolutamente allo straniero, e gli dissi in tedesco:
«—Signore, sono una donna sola, ed ho bisogno di un uomo d'onore.
Posso contare su di voi?
«—Contate, mi rispose.
«Non era che una parola, ma il tuono con cui era detta era più rassicurante d'un giuramento; e, cosa strana, la voce di quell'ignoto mi parve commossa.
«Ma la stranezza del luogo, il pericolo cui andavamo incontro, la mia stessa esaltazione che doveva esser vicina al delirio per avermi indotta a quel passo, giustificavano a' miei occhi la sua emozione.
«Io soggiunsi, sempre nella bella lingua di Welfard che parlavo con amore perchè l'avevo imparata da lui:
«—Quando si va incontro ad una salita pericolosa come quella a cui mi dispongo, bisogna prevedere tutto, anche il peggio. Potrebbe darsi che mi cogliesse una disgrazia, che non tornassi più. Non ci avevo pensato prima. Ho meco un piego che non mi appartiene. Vorreste farlo avere a Torino al Consolato Tedesco perchè lo mandi alla persona che deve riceverlo, e ch'io non so dove si trovi?
«Così dicendo porgevo il prezioso piego.
«—Non ha indirizzo;—osservò l'incognito; e la sua voce era così fioca e tremante, che pareva sul punto di svenire.
«Quella faticosa salita lo aveva sfinito.
«—Non ho meco una matita per scriverlo. Ma dirò l'indirizzo a voi, e voi lo metterete.
«Ma all'atto di pronunciare così, davanti ad uno sconosciuto, quel nome tanto caro, di staccarmi da quelle lettere senza averle di mia mano dirette a lui, mille diffidenze mi sorsero in cuore;—ed esclamai:
«—Oh se potessi scriverlo!
«Lo straniero aperse il suo soprabito, trasse un portafogli, ne levò una matita e me la porse.
«Quell'ultima esclamazione, quasi involontaria, m'era sfuggita in italiano. Non la rivolgevo a lui, ma a me stessa; non avevo cercato di farmi comprendere.
«Come mai mi aveva compresa, egli che non conosceva l'italiano?
«In tutt'altro momento questa contraddizione mi avrebbe colpita. Ma nell'esaltazione di quell'ora non ci pensai.
«Presi quella matita e scrissi sul mio piego:
«Welfard Herbert. Raccomandata al Consolato Tedesco in Italia.
«Egli prese il piego senza parlare, e s'avviò per uscire dalla capanna. Io mi spaventai, e trattenendolo esclamai angosciosamente:
«—Sul vostro onore….
«—Sul mio onore, l'avrà; rispose con voce tremante; poi senza voltarsi uscì.
«Allora, priva di quelle lettere che mi ero avvezza a stringermi sul cuore come un ricordo di lui, come parte del mio passato, mi sentii sola; sola in faccia alla morte. Ero seduta accanto alla tavola. Mi nascosi il volto tra le braccia, e piansi amaramente.
«Rimasi a lungo così, immersa nel mio dolore.
«Ad un tratto sentii prendermi alla vita e mi alzai spaventata.
«Ma un braccio energico mi trattenne, mentre una voce ben nota, troppo nota, e profondamente commossa mi diceva:
«—Fulvia, perdonatemi!
«Era lo sconosciuto che aveva deposto il suo orribile passa-montagne; era Gualfardo.
«Era Gualfardo inginocchiato accanto a me. Gli ultimi raggi del crepuscolo entrando per una stretta finestra segnavano una striscia nell'oscurità della capanna, e rischiaravano il suo volto. Vidi quei begli occhi che mi guardavano con infinito amore, ed erano pieni di lagrime.
«—Welfard! mormorai. E mi strinsi al cuore la sua bella testa, e le nostre labbra si cercarono, e piangemmo insieme.
«—Mia Fulvia; mia amante; mia sposa; susurrava Gualfardo stringendomi le mani. Dimmi che vivrai, che vivrai per amarmi; per esser mia; per non lasciarmi mai più.
«—Ma tu, Welfard, potrai tu perdonarmi il mio torto, potrai tu amarmi ancora?
«—Oh cara, mi rispose col dolce accento passionato de' nostri primi abboccamenti del collegio, non sai che t'ho amata sempre? Non sai che neppure un'ora ho dubitato della tua onestà? Era il tuo cuore che mi sfuggiva; ma io sapevo che tornerebbe; ed ho lasciato tempo al tuo cuore di tornare a me. Quei due giorni fatali che passasti a Milano, io non t'ho abbandonata un momento. Ti vidi uscire dallo scalo. Ti udii dire alla contralto:
«—Povera me! Se qualcuno mi vedesse!
«—Fu allora che mi nacque un sospetto; perdonami, Fulvia; ti amavo… E presi anch'io una carrozza di piazza, e seguii quella che ti conduceva. E scesi allo stesso albergo, e presi la camera accanto alla tua; e traverso la porta ti ho vegliata sempre. Ho vedute le tue impazienze, le tue lagrime. Ho udita la tua conversazione con Giorgio, e la terribile confessione del tuo amore per Guiscardi. T'ho veduta con lui… Ho sofferto, Fulvia; ho molto sofferto. Ma partii di là, ti seguii a Milano colla certezza che, se non mi amavi più, non avevi cessato d'esser buona ed onesta. Ti ricordi che quando volesti farmi la tua confessione, io ti risposi:
«—So tutto!
«—Te ne ricordi? Poi vidi la lotta che si agitava nel tuo cuore, quando una fatalità dolorosa e cara ci tenne per tanti giorni strettamente uniti al letto del povero babbo. Un istante mi parve che tu mi amassi ancora, e fu con tutta la sincerità del mio cuore che ti dissi:
«—Vuoi essere mia sposa domani?
«—Tu trovasti una scusa; respingesti l'offerta. Sentii che m'ero ingannato.
«—Allora mi ritirai colla morte nel cuore, e non pensai che a combinare coll'impresario per farti riavere la scrittura di Nuova-York, per allontanarti dai luoghi che ti ricordavano la dolorosa perdita del povero babbo.
«—Ma dopo la tua partenza, Torino mi riescì insopportabile.
«—Lasciai le mie lezioni, lasciai tutto; ti seguii in America, dove ottenni di dirigere l'orchestra d'un teatro secondario; e vissi vicino a te, e ti vidi, Fulvia; e la tua cameriera, che avevo saputo guadagnare, m'introdusse nelle tue stanze tutte le sere in cui per combinazione al mio teatro era riposo, mentre al tuo cantavi.
«—Sì, Fulvia; rinunciavo alla gioia di vederti, per sedermi al tuo scrittoio, nella tua poltrona, ed al lume della tua lampada, in quell'atmosfera piena di te, leggere, a misura che le avevi scritte, le tue memorie.
«—Allora conobbi i miei torti, Fulvia, ed il tuo amore; il tuo nobile e generoso amore.
«—Avrei voluto correre a' tuoi piedi e ridomandarti piangendo quella dolce promessa che la mia stupida freddezza t'aveva indotta a ritogliermi. Ma ero povero allora; non avevo più posizione; avevo lasciato tutto per seguirti. Era necessario ch'io mi rifacessi una rendita sufficiente per offrirti il mio appoggio.
«—Scrissi subito; ma ci volle del tempo, e quando mi fu offerto il posto di direttore d'orchestra in uno dei primi teatri di Vienna, tu eri partita da due giorni.
«—Partii subito anch'io, ma, sbarcato a Genova, dovetti fare una corsa a Milano, per firmare il contratto che mi assicurava un avvenire degno di te.
«—Allora, felice del tuo amore, e della mia posizione, corsi a Torino. La tua cameriera m'aveva detto a che albergo contavi discendere. Vi accorsi. Anche di là eri partita. Interrogai i pochi conoscenti che avevamo comuni, e dopo un giorno di ricerche inquiete, seppi che eri stata pochi giorni a Torino, che eri triste ed abbattuta, ed eri ripartita per Chamounix diretta al Monte Bianco.
«—Avevo letto le ultime pagine del tuo giornale, in cui esprimevi l'idea triste del suicidio. Un dubbio crudele mi strinse il cuore.
«—T'inseguii a precipizio. Giunsi a Chamounix avant'ieri. Credendomi già in ritardo, domandai soltanto se non erano accadute disgrazie, e tosto impresi la salita sperando di raggiungerti qui, o al Grande Altipiano… Mi ero vestito in modo da non esser conosciuto per risparmiarti una sorpresa forse fatale al tuo animo esaltato.
«—Oh! se tu sapessi, Fulvia, che angoscie mi straziarono il cuore a misura che salivo in quei deserti di ghiaccio. In ogni voragine mi sembrava di vedere un lembo delle tue vesti, di scoprire una traccia di sangue. Non ho sentito il freddo, non ho provato la menoma vertigine, non ho avvertito pericoli, non ho pensato che a te.
«—Ma quando scendevo disperato, cupo, deciso ad esaurire fin l'ultimo passo per trovarti, od a morire con te, lo spirito del povero babbo ti ha condotta in questa capanna. Egli è qui tra noi, ci ascolta e ci vede, Fulvia. Oggi come allora, te lo domando dal fondo del cuore: «Vuoi essere mia sposa? Vuoi lasciare la tua carriera, il tuo paese, e non vivere che per me? ed essere mia?»
«In quella sorpresa di gioia e d'amore il mio cuore lungamente oppresso si era sciolto, ed avevo pianto come la più miserabile delle donne. Era un pianto dolcissimo che mi faceva tanto bene. Non avevo detto una parola per interrompere il mesto racconto del mio bel Gualfardo. Lo ascoltavo, inebriata e felice di essere amata così; profondamente addolorata di averlo tanto male giudicato e compreso. Soltanto a quell'ultima soave preghiera esclamai tra i singhiozzi:
«—Oh! Gualfardo, io non sono degna di te.
«—Non dirlo, cara, riprese colla sua generosa bontà. Tu mi hai giudicato per quello che mi mostrai. Avevi ragione, povera Fulvia. Tu eri ardente come il tuo bel sole d'Italia, ed io ero tedesco come un soldatino di piombo.—È vero; ho avuto torto; non ho saputo adattarmi al tuo carattere, alle tue aspirazioni; ma, credilo, ti amavo con tutta l'anima. Dimmi che mi perdoni!
«I miei compagni di viaggio, chiamati dalle guide, si destarono, scesero dai loro materassi, e si disposero alla gran salita. Quanto a me, che m'importava omai del Monte Bianco, e di tutti i ghiacciai della terra? Quel ghiaccio che mi aveva pesato sul cuore, che m'aveva resa infelice e colpevole, era sciolto. La vita mi sorrideva come una promessa d'amore. Ero felice. Che potevo cercare più in alto?
«Ridiscesi colla gioia nell'anima quel tratto di monte che avevo salito in tanta desolazione. Con che spavento trattenni fin il respiro nel passaggio della congiunzione, quando le guide raccomandarono il silenzio, perchè anche il più lieve spostamento d'aria prodotto da un suono potrebbe staccare un masso di ghiaccio, una valanga, e seppellirvi il nostro avvenire, il nostro amore, la nostra felicità!
«Dove prima vedevo quasi l'impossibilità di morire, ora tremavo ad ogni passo; volevo vivere, e paventavo per due vite.
«Oggi siamo rimasti a Chamounix per passeggiare insieme, per dirci e ripeterci la storia dei nostri passati dolori. Siamo andati passeggiando fino a metà strada da Argentières. Ho detto a Welfard che vi ho spedito le mie memorie; ed ora, mentre egli fuma accanto a me, vi ho scritto l'esito felice ed inaspettato del mio prosaico romanzo.
«Noi ci sposeremo fra otto giorni a Torino, e partiremo subito per Vienna. Non vi vedrò forse mai più. Perdonatemi d'avervi cagionato un dolore, forse un rimorso, coll'ultima mia lettera. Ora è passato, come passa tutto. Come il nostro folle amore, come la freddezza di Welfard, come la mia disperanza. Addio, Max. Siate felice come me, nella sola gioia che non passa, che resiste al tempo ed agli eventi, l'amore della famiglia.
Mi asciugai una lagrima, e corsi in camera di mia moglie che abbracciai con trasporto.
—Che hai? mi disse. Sei agitato…
—Ho che ti amo. Che sono felice d'esser sposo e padre; vuoi che andiamo domani a vedere il nostro bambino dalla nutrice?
End of Project Gutenberg's Tempesta e bonaccia, by Colombi, marchesa