The Project Gutenberg eBook of Storia degli Italiani, vol. 15 (di 15)

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Title: Storia degli Italiani, vol. 15 (di 15)

Author: Cesare Cantù

Release date: April 28, 2024 [eBook #73485]

Language: Italian

Original publication: Torino: Unione Tipograficp/o-Editrice

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DEGLI ITALIANI, VOL. 15 (DI 15) ***

C. CANTÙ
STORIA DEGLI ITALIANI TOMO XV.


STORIA
DEGLI ITALIANI

PER

CESARE CANTÙ

EDIZIONE POPOLARE
RIVEDUTA DALL'AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI

TOMO XV.

TORINO
UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
1877


INDICE


[1]

APPENDICE I. DEI PARLARI D’ITALIA

(Vol. I, pag. 83).

Sermonem Ausonii patrium, moresque tenebunt.

Virgilio.

§ 1º Proposizione.

Senza toccare le origini del parlare, che è il problema capitale nello studio dell’uomo, avvertiremo solo come nel linguaggio trovasi una convenzione tacita per designare le cose stesse colle stesse parole, esprimere gli stessi giudizj colle stesse forme grammaticali; onde bisogna supporvi condizioni fisiologiche, val a dire un organo per produrre i suoni elementari, vocali o consonanti; un organo di udito per raccoglierli dalla bocca altrui e dalla propria; e condizioni soprorganiche, cioè un’attività volontaria per mettere in moto gli organi fonici, e ripetere con intenzione i suoni semplici o complessi che ciascuna lingua ammette; inoltre un’intelligenza capace di idee generali e di una coordinazione per istituire delle radicali, per recarle ad associazioni o derivazioni, per istabilire regole di sintassi.

[2]

V’è dunque alcuna cosa nell’uomo che lo fa, non solo superiore, ma essenzialmente diverso dal bruto; nè, speriamo, si dirà inopportuno il cominciare da tale protesta.

Dalla quale raccogliendoci allo scopo del presente lavoro, diremo come tre opinioni diverse corrono sull’origine dell’italiano. L’una che, per l’irruzione de’ Barbari, la lingua latina sia stata mutata e lessicamente e grammaticalmente, fino ad originarne una nuova, questo vulgare nostro; è il sistema di Castelvetro, Muratori, Raynouard, Max Müller[1]. L’altra, che sia il latino, svolto sotto gl’influssi degli idiomi indigeni nei paesi ove quello fu portato dalla conquista; sistema del Fauriel. La terza, che questo nostro vulgare sia il latino anticamente parlato, non cangiato di essenza e di natura, ma soltanto modificato dal tempo e dagli accidenti.

Noi intendiamo provare che l’italiano non è se non l’alterazione naturale della lingua che usava il Lazio antico: sicchè la legge di continuità, dal Leibniz stabilita nella fisica, e quella dell’evoluzione, oggi in moda, avveraronsi anche nell’idioma nostro; non sovvertimenti improvvisi, ma successivi svolgimenti, conformi ai [3] metodi con cui lo spirito umano crea, usa, trasforma la parola, e perciò somiglianti a quelli d’altri linguaggi. Tale è la nostra opinione, e cercheremo dimostrarla storicamente, seguendo l’alterazione passo passo dall’età arcaica e traverso al medioevo, sin quando, verso il 1200, anche nelle scritture si adoperò la nuova forma che si costituiva, insieme coll’antica che si sfaceva. E al modo che l’Ausonia, l’Enotria, l’Esperia si chiamò Italia senza per questo mutarsi, così la lingua latina cangiò il nome in italiana. Venuta a mano degli scrittori, i più insigni tra questi, per un sapiente caso, furono toscani, e adoperarono francamente la propria favella, mentre a questa cercarono accostarsi coloro che parlavano altri dialetti; onde ebbero assicurato al toscano il vanto di lingua nazionale tipica.

Meramente scolastico non crederà questo studio chi sappia che la storia della parola è storia dello spirito umano e talora segna le epoche. Questo solo noi vogliamo, senza ardire di inoltrarci in quella nuova filologia[2], che studia il linguaggio nelle sue relazioni collo spirito umano, negli elementi costitutivi delle favelle, nell’interna loro struttura; nell’attenzione ai dialetti, nell’indagine paleontologica, che tanto innanzi portò la prova della evoluzione delle lingue, e insieme tanto profittò all’etnografia, all’archeologia, alla conoscenza delle religioni. Noi ci limitiamo ad uffizio di storici.

[4]

§ 2º Lingue de’ prischi Italioti.

Allorchè, sul terminare del medioevo, si rintegrò lo studio dell’antichità, poteasi rivolgere l’attenzione alle prische lingue, mentre tanta ne costava il purgare la latina? Ma dopochè la filologia fu ajutata da ricca messe di nuovi documenti, parve vergogna il porre all’indiano o all’egizio maggior cura che non ai parlari italiani antichi, e i dotti vi applicarono quell’assiduità che merita tutto ciò che avvicina alla cuna d’una lingua com’è la latina, studiata da tutt’Europa perchè ha monumenti in ogni paese, dal lembo dei deserti africani sino ai perpetui geli polari.

Però l’interpretare iscrizioni in favelle che non si conoscono e con caratteri per lo meno incerti, richiede circospezione insieme ed ardimento, quali non sempre accoppiarono i moltissimi che, ai dì nostri, assunsero questo tema[3]. Le conchiusioni, a cui arrivano questi [5] e gli altri laboriosi cercatori, differentissime, eppur dimostrate tutte con altrettanta certezza, attestano che [6] non fu raggiunto ancora un vero assoluto, e neppure scientifico. È pur doloroso che, mentre s’avanzò tanto la cognizione e dei caratteri e delle lingue egiziana e babilonese e persepolitana, restiamo così indietro quanto alla etrusca, fino a non accertare a qual gruppo essa appartenga.

Guglielmo Corssen (Ueber die Sprache der Etrusker, Lipsia 1874) espone i lavori dei precedenti investigatori, cominciando dal favoleggiatore Annio di Viterbo, fino al Risi (Dei tentativi fatti per spiegare le antiche lingue italiane e specialmente la etrusca, Milano 1863); e riprovando lo Janelli, il Tarquini, lo Stickel... che l’etrusco reputano semitico, e peggio quei che lo danno per armeno, o finnico, o celto, o slavo; loda i nostri che, fino al Conestabile e al Fabretti, adoprarono la comparazione per attestarlo affine al latino, come egli pure lo crede. Valendosi dei tanti monumenti scoperti ed esaminati ultimamente, e argomentando sull’epigrafia, l’archeologia, la onomatologia, la fonologia, lo crede idioma flessivo, di stipite indo-europeo, di famiglia italica, poco differente dall’osco, dall’umbro, dal latino, ma più duro, con inasprimento, e molte consonanti, con caratteri affini agli altri idiomi italici. Alla sua opinione contrasta l’autorità di Dionigi di Alicarnasso, che, al tempo d’Augusto e mentre vivea Varrone, cercando in Roma le antichità italiche, asseriva che gli Etruschi nel vivere come nel parlare erano dissimili dalle altre genti. In fatti egli troppo asserisce senza provare le deduzioni ardite, e noi, dolendoci che non ce ne restino se non iscrizioni di tombe e qualche specchio, eserciteremo l’ars nesciendi.

Aufrecht, professore di Edimburgo, che col Kirchhoff esponendo le Tavole Eugubine, vi riconobbe il linguaggio degli Umbri, testè alla Società filologica di Londra indicò il suo parere sull’indole della lingua etrusca: ed [7] enumerava il poco che se ne conosce. Ciò sono i primi sei numerali e loro composti: avils età; ril anni; clan figlio; hinðial spettro; fleres statua; il suffisso al è affine al latino ali; i suffissi asa, esa, isa, usa indicano i cognomi di donne: p. es. pumpuasa, lecnesa, moglie di Pomponio, di Licinio: e conchiude che l’etrusco differisce da tutti gli altri linguaggi europei. In precisa opposizione al Corssen è anche W. Deecke (Corssen und die Sprache der Etrusker, Stuttgard 1875); ribatte tutte le prove di questo, e crede col Mommsen gli Etruschi un popolo estraneo agli altri d’Italia[4].

Nella lingua sanscrita, che è la classica e sacerdotale degli antichi Indiani, AVI significa vivere, e RIS tagliare, da cui il greco ῥαίω, ῥέσσω, il latino rodo e rado, il tedesco reissen, il russo riezu; RI esprime anche movere, trascorrere, da cui il greco ῥέω, il latino ruo, il francese rue, l’inglese ride. Il RIL etrusco potrebbe derivare dall’uno o dall’altro, considerando l’anno come uno scorrimento di tempo, o come una divisione.

Altre parole etrusche di non ben sicuro significato sono antar aquila, usil il sole, tutas il verbo tutari, lar signore, nepos lussurioso, clan figliuolo, see figlia. I filologi dalla somiglianza di queste voci con altre d’idiomi viventi si fanno forti per aggregare l’etrusca alle lingue indo-europee, anzichè alle semitiche.

Della lingua umbra il monumento principale sono le Tavole Eugubine di bronzo, scoperte il 1444; cinque scritte con caratteri etruschi; le due più grandi (che sono [8] il maggiore monumento di liturgia pagana) con lettere latine, come pure undici linee d’una terza, che alcuni non credono appartenere alla serie delle altre; tutte poi di ortografia, scrittura e linguaggio differenti fra loro in modo, da farle credere di età diversa; ma non si sa di quale: nè veruna ragione fa piede alla congettura di Lepsius, che quelle scritte con caratteri latini sieno posteriori a quelle d’alfabeto etrusco, e queste appartengano al sesto, quelle al quarto secolo di Roma. Perfino il chiamare umbra la lingua in cui sono scritte è convenzione, non fondata su d’altro che sul paese dove furono trovate; anzi la bizzarria delle forme potrebbe trarre a vedervi un esempio delle scritture arcane, usitate fra i sacerdoti nell’antichità.

Bizzarrissime interpretazioni se ne diedero, seguendo il capriccio, anzichè canoni di filologia comparata; Gori, Lami, Bardetti pretesero leggervi i lamenti de’ Pelasgi per le sciagure sofferte, e tutti vi fanno le più arbitrarie rimutazioni. Per esempio, in una d’esse Tavole si legge:

CVESTRE TIE VSAIESVESVVVEBISTITISTE TEIES.

Dividono

cuestre tie usaies vesv vvebis titiste teies,

per interpretare

cuestor tie οσας vesum vuebis τιθεστε deies

cioè

Questor dicit: quascumque vobis visum est,
constituite dies.

Opinione nuova mise fuori, poco fa, Guglielmo Bentham nell’Accademia reale irlandese; l’antico etrusco essere identico colla lingua iberno-celtica e coll’irlandese, quale oggi si parla in quelle isole; e conforme a ciò diede la versione della quinta e settima delle Tavole Eugubine, [9] prescelte come di materia più importante. Secondo lui, vi è esposta la scoperta delle isole Britanniche, fatta dagli antichi Etruschi, e l’uso dell’ago calamitato nella navigazione. La sesta comincia con invitare a scompartirsi o prendere a fitto le terre occidentali, ove sono tre isole di suolo ubertoso, con bovi e montoni assai, e damme negre, oltre miniere e belle acque. La settima finisce col rammentare che le isole scoperte possono dare incremento al commercio, protette dal mare contro i nemici, e che offrirebbero asilo qualvolta il loro paese restasse invaso da questi. L’iscrizione fu fatta trecento anni dopo il gran fragore sotterraneo! Dopo il Baldo, il Van Scrieck, il Dempster, il Maffei, l’Abati Olivieri, il Passeri, il Gori, il Borgnet, il Lami, venne il Lanzi interpretando qualche passo: Otfried Müller confermò che non erano in etrusco ma in umbro: Lepsius, celebre egittologo, e Lassen eminente indianista, Grotefend persianista, vi applicarono la nuova linguistica comparativa. Dalla sesta leviamo un brano d’una specie di litania, la quale mostra un parallelismo ed il ritorno di certi vocaboli, qual costumava fra gli Ebrei:

Tejo dei Grabove.

Dei Grabovi ocreper fisiv tota per iiovina erer nomneper erar nomneper fossei pacersei ocrefisei.

Di Grabovie tio esu bue peracrei pihaclu, ocreper fisiu totaper iiovina erer nomneper erar nomneper.

Di Grabovie orer ose persei ocrem fisiem pir ortom est toteme iovinem arsmor dersecor subator sent pusei neip hereitu.

Di Grabovie persei tuer prescler vasetom est pesetom est peretom est prosetom est daetom est tuer perscler viresto avirseto vas est.

[10]

Di Grabovie persei mersei esu bue perderei pihaclu pihafei.

Di Grabovie pihatu ocrer fisier totar iiovinar nome nerf arsmo veiro pequo castruo fri pihatu futu fons pacer pase tua ocre fisi tote iiovine erer nomne erar nomne.

Di Grabovie salvom seritu ocrem fisier totar iiovinar nome nerf arsmo veiro pequo castruo frif salva seritu futu fons paver pace tua ocre fisi tote iiovine erer nomne erar nomne.

Di Grabovie tiom esu bue peracri pihiaclu ocreper fisiu tota per iiovine erer nomneper erar nomneper... ecc.

Esibiamo la seguente interpretazione come delle meno improbabili:

Jovi Grabovi subvoco.

Jovem Grabovem invoco in sacrificio pro tota jovina (gente), eorum nomine, earum nomine, uti tu volens sis, propitius sis sacrificio.

Jupiter Grabovi, macte esto eximio bove piaculo sacrificio pro tota jovina, eorum nomine, earum nomine.

Jupiter Grabovi, hujus rei ergo quoniam ad sacrificium ignis ortus est toti jovinæ, armi desecti subactique sint tamquam sacrificio uno.

Jupiter Grabovi, prout pesclos mactare factum est, positum est, dictum est, mactare pesclos fas jusque esto.

Jupiter Grabovi, disecto eximio bove, piaculo piatus esto.

Jupiter Grabovi, piamine sacrificiorum totius jovinæ nominibus, agrûm, virûm, pecus, oppido expiato, fiasque volens propitius pace tua sacrificio totius jovinæ gentis, eorum nomine, earum nomine.

[11]

Jupiter Grabovi, salvo satu sacrificiorum totius jovinæ nominibus arvûm, virûm, pecudum, oppido satum sospita, fiasque volens propitius sacrificio totius jovinæ gentis, eorum nomine, earum nomine.

Jupiter Grabovi, macte esto eximio bove piaculo sacrificio, pro tota jovina gente, eorum nomine, earum nomine.

Si scosta in varie parti e nella lettura del testo e nella versione il Grotefend, il cui lungo e pazientissimo studio fu ben lungi dal condurre a risultamenti decisivi: e che così legge e interpreta un brano:

Teio subocav suboco Dei Grabovi, Fisovi Sansi, Tefra Jovi! ocriper Fisiu, tota per Iiovina, erer nomneper, erar nomneper: fos sei, pacer sei ocre Fisei, tote Iiovine, erer nomne, erar nomne. Arsie! tio subocav suboco. Dei Grabove. Asier fritte tio subocav suboco, Dei Grabove! ecc.

Te bonas preces precor, Jovem Grabovem! Fisovem Sansium! Tefram Joviam! pro monte Fisio, pro lota Iguvina, pro illius nomine, pro hujus nomine, uti sis volens propitius monti Fisio, toti Iguvinæ, illius nomini, hujus nomini. Benevole! te bonas preces precor, Jovem Grabovem! Benevoli Fidicia, te bonas precor, Jovem Grabovem!

Meglio Aufrecht e Kirchhoff, con sapienza e tatto ravvicinando i passi simili, tennero i veri modi di tentare quella interpretazione, invano conturbata da Huschke, e spinta innanzi dai più recenti filologi.

Sono gli atti della fratrecate dei frater atijediur, cioè fratelli attidiani, della città di Attidio, forse il moderno Attigio, che dirigono preci a varj Dei, alcuni simili, altri differenti dai romani; se ne prescrivono i riti, e pajono appartenere al VI o VII secolo di Roma. [12] Hanno qualche relazione cogli atti de’ Fratelli Arvali, che furono quasi completati da recenti scavi; riferendosi entrambi a un culto di divinità campestri dell’Italia antica, sopravvissuto alla invasione di Roma.

Chi si sgomenta de’ libri, può vedere la serie delle ricerche e delle scoperte in un articolo della Revue des Deux Mondes, 1 novembre 1875. L’opera più recente che conosciamo è Bréal, Les Tables Eugubines, texte, traduction et commentaire, avec une grammaire et une introduction historique, Parigi 1875.

La lingua più diffusa nell’Italia meridionale era l’osca, che parlavasi da popolo estesissimo e suddiviso, e fin nel Bruzio e nella Messapia ove nacque Ennio, il quale, secondo A. Gellio (XVII. 17), tria corda habere se se dicebat, quod loqui græce, osce et latine sciret. Dalle iscrizioni vi appajono elementi del latino estranei al greco, sotto forme che nel latino perdettero e sillabe e terminazioni, e con flessioni inusitate a quello. Il p si sostituisce spesso al q, come pid per quid, e forse opici per equi; l’ei all’i; l’ou all’u; aggiungesi il d a molte voci cadenti in o. Gli Oschi dicevano akera, anter, phaisnum, tesaur, famel, solum, quel che i Latini dissero acerra, inter, fanum, thesaurus, famulus, solus..... Questa favella, se crediamo a Klenze, non ebbe fondamentale differenza dalla latina, talchè se avessimo libri scritti in essa, potremmo, se non tutte le parole, intenderne però il senso. A Roma si poneano iscrizioni in quella lingua; Plinio dice che scriveasi sulle case arse verse, cioè arsionem averte; e si continuò a rappresentare burlette in osco, delle quali il popolo si spassava grandemente. Strabone ancora al tempo di Tiberio scriveva, nel V della Geografia: — Benchè sia perita la gente degli Oschi, la loro favella resta fra i Romani, talchè si recano sulla scena certi canti e commedie [13] in una gara che si celebra per antica consuetudine». E forse l’osco era il parlare fondamentale dell’Italia, cioè del vulgo; e sempre visse fra questo anche quando le persone colte e gli scrittori adopravano il latino, per poi prevalere allorchè le sventure scemarono la coltura e allontanarono la Corte: talchè sarebbe esso il vero padre del nostro vulgare.

Marsi, Sabini, Marrucini, Piceni parlavano il sabellico, che forse era identico col volsco, ma differiva dal sannita, il quale era osco, giacchè Tito Livio (X. 20) dice che, per esplorare l’esercito sannita, furono mandati uomini, gnari oscæ linguæ. Varrone invece farebbe solo affini le due favelle, dicendo che sabina usque radices in oscam linguam egit (De lingua lat., VI. 3). Anche i Volsci dovevano differirne in qualche cosa, poichè Titinio poeta, contemporaneo del prisco Catone, in un passo riferito da Festo alla voce Oscum, scrive che i popoli abitanti intorno a Capua, Terracina e Velletri obsce et volsce fabulantur, nam latine nesciunt. I Bruzj parlavano osco e greco, onde dicevansi bilingues Brutiates (Festo). Citano la voce hirpus, lupo, come comune ai Falisci ed ai Sanniti (Dionigi d’Alicarnasso, i. 21). Servio attribuisce ai Sabini la parola hernæ, rupi, e Varrone la voce multa (multæ vocabulum non latinum sed sabinum est; idque ad meam memoriam mansit in lingua Samnitium, qui sunt a Sabinis nati; lib. XIX); e informa che, invece di farena, diceano hasena (Velio Longo grammatico), e tebas i colli; dall’embratur de’ Sabini deriva l’imperator de’ Romani. Infine, secondo Livio, i Cumani chiesero ut publico loquerentur, et præconibus latine vendendi jus esset (XL. 42): il che prova che fin a quell’ora aveano usato lingua propria. I Marsi adottavano i caratteri romani e la lingua latina: i Sabini conservarono sempre l’osca.

Del dialetto volsco quest’iscrizione fu trovata a [14] Velletri, sul cui significato fu molto discusso fra Lanzi, Orioli, Guarini, Janelli ed altri:

Deve Declune statom sepis atahus

Pis velestrom fak esaristrom se

Bim asif vesclis vinu arpalitu sepis —

— toticum covehriu

sepu ferom pihom estu ec se cosrties ma —

— ca tafanies

medix sistiatiens.

Più facile a dicifrarsi parve questa osca, da Avella portata nel seminario di Nola, e illustrata dal Passeri, Simbole Goriane, tom. I:

Ekkuma... tribalac... liimit.... herekleis —

Ecce tribus limites herculis

— fissnu mefa ist entrar

fanum demensa est intra

einuss pu amf derl viam pusstis pui —

fines post circum per viam posticam per

ipisi pustin slaci senateis inim ink tri —

ipsius ibi loci senatus unum jugum tria

— barakinf

brachia

aufret puccahf sekss puranter teremss irik

aufert pauca sex puriter termini hircus

ecc.

Sul pendaglio d’una bella statua di bronzo, dissepolta presso Todi nel 1835, si trovarono parole, le quali (a lasciar via le fantasie e le arguzie) furono diversissimamente interpretate dai dotti. Il bibliotecario Cicconi, ricorrendo al greco, tradusse: Io lungamente tempestato in mare, offersi; il Campanari spiegò dapprima Ahala legato in onor di Marte offriva, dappoi: Ahala figlio di Trottedio il Marte Fonione dedicò; il padre Secchi divinò: Aveial Quirinus Vibii f. nomine [15] Vibius; il Lanzi coll’ebraico intese: Acco da Todi e Tito effigiarono il simulacro della Vittoria; il Vermiglioli: Aeia L. Trutinus punu mi vere, cioè Aeia figlia di Trutino pongo sono vero; il De Minicis, Trutino Fono figlio di Aeia fece. Tanto vacilla ancora la paleografia italiota.

Nella guerra Sociale, ultima riazione degl’Italiani contro il predominio di Roma, i popoli collegati assunsero per pubblico decreto il linguaggio natìo, e l’adoprarono nelle monete (Lanzi, Disc. proem. alla Galleria). Tardi poi visse l’etrusco: e che differisse molto dal latino lo prova quel passo di A. Gellio, ove si narra che, avendo uno detto apluda e floces, voci antiquate, gli astanti, quasi nescio quid tusce aut gallice dixisset, riserunt (XI. 7). Quintiliano (Inst. orat., I. 9), trattando delle parole non di lingua, scrive: Taceo de Tuscis, Sabinis et Prænestinis quoque; nam ut eo sermone utentem Vectium Lucilius insectatur, quemadmodum Pollio deprehendit in Livio patavinitatem. Chi potrà ora determinare quelle differenze di dialetti? Tanto più che gli antichi non avevano raggiunto il sentimento della natura delle lingue, e dell’illustrazione che da esse deriva all’indole dei popoli, sicchè vi scorgessero un interesse filosofico; laonde, non si fermando sui caratteri essenziali di somiglianza, faceano dell’idioma di ciascuna città indipendente una lingua a parte, designata col nome degli abitanti.

Ariodante Fabretti, davanti al Glossarium italicum, in quo omnia vocabula continentur ex umbricis, sabinis, oscis, volscis, etruscis, ceterisque monumentis quæ supersunt collecta (Torino 1857) dice: «In una materia così difficile sarebbe strano desiderare un lexicon alla foggia delle lingue conosciute, antiche o moderne; conciossiachè accanto alle voci di sicura spiegazione avvene molte che resistono alla critica, e [16] non permettono che congetture. Non tutte le voci sono chiarissime nel significato al pari delle umbre: karne carne, vinu vino, purka porca, sif sues, vitlu vitulo, est est, fetu facito, seritu servato, peturpursus quadrupedibus, alfir albis, rofa rufa, salvom salvum, karu coram, prufe probe, nomneper pro nomine, pupluper o popluper pro populo ecc.; — delle osche: aasas aras, dolud dolo, ligud lege, genetaí genitrici, kvaísstur quæstor, regaturei rectori, aíkdafed ædificavit, deicum dicere, fefacust fecerit, herest volet, prúfatted probavit, set sit, alttram alteram, pús qui, amiricatud immercato, malud malo, anter inter, contrud contra, inim enim, nep neque ecc.; — e delle etrusche: etera altera, clan natus, phuius filius, avils ætatis, turce donum, tece posuit, ecc. Un gran numero di vocaboli, ripetuti o modificati, varrà, se non altro, a fermare certe leggi eufoniche che governano gli antichi idiomi italici; ed alcuni nomi, che è bene conoscere, dovranno entrare quando che sia nei dizionarj della latina favella, come quelli delle tuscaniche divinità Tina Juppiter, Thalna Diana, Turan Venus, Menrva Minerva, Sethlans Vulcanus; o passati di Grecia in Etruria, come Aplu Apollo Turms Ἑρμῆς, Thethis Thetis, oltre una folla di greci eroi, quali Hercle Hercules, Achle Achilles, Achmemrun Agamemnon, Clutumita Clytemnestra, Menle Menelaus, Neptlane Neoptolemus, Pentasila Penthesilea, Urusthe Orestes ecc.

«Un’opinione male accreditata e la pubblicazione di certi alfabeti antichi d’Italia guasti ed errati, fanno dire a molti che nulla s’intenda delle vecchie epigrafi degli Osci, degli Umbri e degli Etruschi; eppure ad ogni passo si offrono chiare intere locuzioni. Nelle Tavole Eugubine per esempio: PVSEI. SVBRA. SCREHTO. [17] EST uti supra scriptum est; VITLV . TORV . TRIF . FETV vitulos tauros tres facito; SALVA . SERITV . FVTV FOS (o FONS) . PACER PASE TVA . OCRE FISI TOTE IOVINE . ERER NOMNE . ERAR NOMNE salva servato, esto volens, propitius pace tua, colli Fisio civitati Iguvinæ, ejus (colli) nomine, ejus (civitatis) nomine; — e nella tavola osca di Banzia SVAE PIS CONTRVD EXEIC FEFACVST si quis contra hoc fecerit: PIS CEVS BANTINS FVST qui civis Bantinus fuerit. Nella epigrafia etrusca un gran numero di leggende funerarie, più preziose se bilingui come questa

Iscrizione etrusca

— P . VOLVMNIVƧ A . F . VIOLENS CAFATIA NATVS,

ci dà una serie di nomi di famiglie, che verosimilmente passarono dall’Etruria in Roma, od hanno colle romane un riscontro storico e filologico; anzi taluni di questi nomi rivelano altrettanti vocaboli dalla lingua parlata dagli abitatori della media Italia, come i gentilizj cantini, capras, crace, crespe, plaute, pumpu, senate, spurie, sacria, salvis, vitli, ecc. Anche qualche etimologia, professata ab antico, viene raddirizzata col soccorso delle etrusche inscrizioni; per esempio la voce etrusco od etrusco (usil), che in due specchi metallici indica il Sole od Apollo, ivi rappresentato co’ suoi attributi, ci riconduce alla famiglia degli Auseli (Aurelii) a sole dictam (Paul., pag. 23, ediz. Müller) ed alla radice sanscrita svar, forma primitiva di sur (splendere), respingendo il detto di Cicerone (De natura Deorum, II. 68): Cum sol dictus sit, vel quia solus ex omnibus sideribus est tantus, vel quia cum est exortus, obscuratis omnibus, solus apparet.

«La fratellanza dei vetusti dialetti sparsi in Italia, riconosciuta dai segni alfabetici, si dimostra meglio coi ripetuti raffronti delle voci umbre ed osche ed etrusche in tra loro e coll’idioma latino; così l’osco deded, e [18] con etruschi caratteri tetet, era tez nell’Etruria e forse dede nell’Umbria, dedet e dede (dedit) nelle bocche del popolo romano. Con gl’idiotismi ed arcaismi che occorrono spesso nella latina epigrafia, si avranno argomenti per discorrere fondatamente intorno alla origine della lingua italiana, più remota di quel che generalmente non credesi: moltissime forme popolari verranno innanzi, raccolte dai monumenti de’ più bei tempi di Roma repubblicana e dai modesti funebri ricordi dei primi martiri della Chiesa».

§ 3º Origini del latino.

Le primitive lingue italiche traggono interesse quasi unicamente dalla loro connessione colla latina, la quale, per quanta sia l’importanza del greco e degli idiomi asiatici, resta la più meritevole dell’attenzione di chiunque fida negli insegnamenti della storia, come quella (dice Du Méril) che meglio parve opportuna alla tradizione delle idee altrui, e ad iniziare alla scienza del passato; sicchè costituisce quasi un ponte fra l’antico mondo e il nuovo. Lo studio filosofico del latino, risalendo alle sue fonti e accompagnandone gli svolgimenti, dovrebbe dunque essere introduzione allo studio dei suoi monumenti letterarj.

I dubbj sulla origine di esso sono cresciuti da certe metafore incoerenti di lingua madre o lingua figlia. Non volendo qui fare che da storici, ricorderemo come il carmelitano Ogerio[5] voleva dedurre il latino dall’ebraico: [19] frà Paolino di San Bartolomeo[6] e Klaproth[7] dal sanscrito, e in generale dalle lingue orientali; nel che concordano Calmberg[8], Madvig[9], Prasch[10], Jäkel[11]. Vi fu persino chi lo tirò dallo slavo[12]; nè era a credere vi facesse fallo la scuola un tempo di moda dei Celtisti; onde il Funcke pronunciò l’avola della latina lingua essere sconosciuta, madre la celtica, maestra la greca[13]. Oltre i già citati Donaldson e Edelstand Du Méril, abbiamo molte monografie di Tedeschi, fra le quali vogliamo distinguere i saggi di Hertz intorno ai grammatici latini[14].

L’artificio dei ciurmadori consiste nell’offrire un solo aspetto; gli scolari ignoranti e i leggicchianti si lasciano convincere, perchè non sanno che le medesime ragioni appoggiano anche assunti diametralmente opposti. Fatto è che il latino appartiene alla grande famiglia delle lingue indo-europee. Perocchè dalle falde dell’Ecla fino alle rive del Gange, una folla di popoli, disgregati gli uni dagli altri per secoli, quai civili, quai barbari, quali oscuri, quali famosi, parlarono e parlano ancora lingue estremamente diverse a prima vista, ma d’incontestabile parentela, giacchè non solo hanno comune un certo [20] numero di radicali, ma la grammatica di ciascuna ha profonde analogie colle grammatiche di tutte le altre, anzi tutte ne formano propriamente una sola. Al sanscrito, che di essa grande famiglia sta in capo, seguono come derivati l’antico e moderno persiano, il greco, il latino con tutti gli idiomi da questo rampollati, italiano, francese, spagnuolo, ecc.; infine gli idiomi germanici, gli slavi, e sino i celtici[15].

[21]

Che il latino sia figlio del greco sostennero gli antichi, massime dacchè, coll’imitare gli autori greci, si venne a ravvicinarlo[16]. Ma il vocabolario ha le origini stesse che le tradizioni e la vita d’un popolo, e la lingua non può essergli imposta da una potenza estrania alla sua vita. Molte voci latine derivano dal sanscrito senza passare pel greco; e fin nomi che più tenacemente [22] si conservano perchè più aderenti alla famiglia: onde soror da svasar che in greco è ἀδελφὴ, frater da bhràtar: vidua da vidhavà, che in greco è χήρη: puer da putra: juvenis da juvan: vir da vira, che i Greci dicono παῖς, νεανίας, ἀνήρ.

Nella costruzione grammaticale, al latino vennero dal sanscrito senza intermedio del greco la terminazione in bus del dativo plurale, e in i del genitivo singolare, e quelle in bilis, bundus, brum, viepiù notevoli perchè il b occorreva rarissimo nel latino prisco. Il latino procedendo s’avvicinò al greco, anzichè se ne scostasse: Tirone[17] dice che veteres Romani græcas literas nesciverunt, et rudes græca lingua fuerunt; Festo aggiunge, che nel quinto e sesto secolo storpiavano i nomi ellenici, necdum adsueti græcæ linguæ.

Effettivamente nel latino possono discernersi due elementi; uno originale, uno affine al greco, benchè abbastanza distinto da quello. Massimamente s’accosta al dialetto eolico, con affettazione di accento; onde Dionigi d’Alicarnasso disse che «i Romani parlano lingua nè affatto barbara, nè del tutto greca, la cui maggior parte è dall’eolico»[18]. Asserì alcuno che nel latino derivino dal greco le parole di economia domestica e rurale, non quelle attenenti a guerra e a governo. Sarebbero delle prime bos, vitulus, ovis, aries, e arvigna, agnus, rus, caper, porcus, pullus, canis, ager, silva, aro, sero, vinum, lac, mel, sal, oleum, lana, malum, ficus, glans; oltre forma travolto da μορφή, repo da ἕρπο, specto da σκοπέω: mentre non hanno a fare col greco tela, arma, currus, lorica, scutum, hasta, pilum, ensis, gladius, sagitta, jaculum, clypeus, [23] cassis, balteus, ocrea; nè i termini forensi jus, lis, forum, mutuum, vas, testis; nè rex, populus, plebs[19]; ἄριστος diceano i Greci l’uom migliore, da Ἄρες dio della guerra: optimus lo dicono i Latini, da opes ricchezza. Chi peraltro da ciò volesse, come il Niebuhr, arguire che una popolazione aborigena pacifica vi rimanesse soggiogata da una bellicosa, ricordi che in tutte le lingue indo-europee trovasi somiglianza de’ termini riferentisi alle pacifiche occupazioni, mentre sono più speciali di ciascun popolo quelli di caccia e guerra.

Inoltre l’asserzione del Müller è troppo assoluta, giacchè vitulus (ἴταλος) non si trova che nel dialetto siciliano, ove molte parole italiche introdussero gli Enotri; e vacca, mulus, juvencus, verres non hanno a fare col greco; agnus e aries sono troppo stiracchiati da ἀρνός e da κριός: asinus ed equus poco tengono a ὄνος e ἵππος; e πῶλος nel senso ristretto di pullus è poco antico: mentre invece equus somiglia al sanscrito AÇVA, pecus a PAÇV, ovis ad AVI, canis a ÇVAN, anser a HANSA; e con parole tutt’altro che greche si esprimevano i prodotti dell’agricoltura, ador, avena, cicer, faba, far, fœnum, hordeum, seges, triticum. Nei pochi frammenti rimasti di Epicarmo e Sofrone siciliani s’incontrano altre voci ignote al greco e affini al latino, γέλα gelu, κάρκαρον carcer, κάτινον catinus, πατάνα patina[20].

[24]

Ma derivate da ceppo comune, le lingue italiche, col lungo errar de’ popoli, col lasso del tempo, colle mescolanze, si alterarono in modo, che differente parlarono gli Umbri, gli Osci, i Volsci, i Sabini[21]. Noi crediamo [25] che le varie lingue dell’Italia meridionale fossero tutte dialetti d’una sola, ciascuna ritenendo però alcune parole e forme proprie, e tutte contribuirono alcun che alla formazione o trasformazione del latino. Grotefend[22] forse esagerò l’influenza che ebbero in ciò i prischi idiomi italici, massime l’osco; ma, per quanto questo restasse comune, un’altra lingua, che, almeno nella pronunzia, ne differiva assai, dovette contribuire a formare il latino, se in questo vediamo al P degli Oschi e de’ Greci surrogato sì spesso il Q fino in nomi proprj, come ἵππος equus, da ἔπω sequor, da ἦπαρ jecur, da λείπο linquo, da κόπυς coquus, da Ταρπίνιος Tarquinius, ecc. Schwegler[23] persiste nel considerare la lingua latina come mista di due dialetti italici, affini tra loro. Ma i linguisti più sperimentati, qualora una lingua sia presentata come una transizione fra due altre, la riguardano come uno sviluppo organico, anzichè una reale mescolanza. Certo non vi si riscontra l’elemento sabino.

Il latino conservava dalle lingue precedenti alcune flessioni, che riescono anomale nell’organismo suo: [26] così memini, odi, cæpi, novi, di forma pelasgica: il sum e possum di forma ariana: i verbi deponenti e comuni, che forse, negli antichi parlari, precedettero il verbo attivo, non essendo naturale che si inventasse una forma passiva ad esprimere quel che già dava l’attiva. Così perdette l’aoristo, il duale, salvo nei nomi duo, ambo, uterque; perdette il caso locativo, salvo humi, belli, domi, militiæ. Della radice es si perdette la vocale, restando sum, sumus, sunt, invece di esum, esumus, esunt, e la conservò in eram, essem, esse: e sopprimendola affatto in fui, fuisse.

Noi più volentieri consideriamo il latino, non come una miscela di varie lingue italiote[24], contratte, accorciate, addolcite al modo che fanno sempre le più moderne, ma come germogliato, al pari del greco, da altri polloni del tronco indo-europeo; sviluppato diversamente, come succede nelle individualità. La costituzione romana, personeggiata fin nella origine in una banda di fuorusciti di varj paesi, che si cercano mogli in un’altra gente, poi ammettono alla cittadinanza i Sabini, gli Albani, indi i Latini tutti, poi tutti gli Italiani, infine la classe eletta di tutto il mondo, rinnovava di continuo gli elementi civili, ma insieme doveva portare alterazioni nella favella (Μυρίa ὅσα οὔτε ὀμόγλοσσα, οὓτε ομοδίαιτα. Dionigi, i. 7).

[27]

Secondo Mommsen, sette alfabeti appajono nelle prische iscrizioni: il greco delle colonie, l’etrusco, il pelasgico, un antico che sta di mezzo fra l’etrusco e il pelasgico, l’umbro, il sabellico, il latino.

Sembra che il primo modo di scrivere de’ Latini fosse quello che intitolano bustrofedon, pel quale, giunti al termine d’una linea da sinistra a dritta, si ripiglia la seguente da dritta a sinistra, a modo del bifolco nello arare. Da ciò chiamavasi versus la linea, e arare, exarare, sulcare lo scrivere.

L’alfabeto latino era mal determinato da principio: si scambiavano le vocali: alcune lettere avevano espressione diversa; altre più d’un valore, come vedremo più avanti: a molte parole finite per vocale si soggiungeva n, d, t (men, allod, marit, per me, alto, mari): le consonanti non si raddoppiavano, bensì talvolta le vocali per esprimere le lunghe, come juus, feelix: le brevi erano spesso fognate nella consonante che le precede, come krus, cante, per carus, canite; e più spesso l’i, come ares, evenat, per aries, eveniat; e le m, n, s, onde Popeju, cosul, cesor, per Pompejus, consul, censor: i dittonghi ei per i, ai per æ sono frequentissimi, come Junoneis, sei, altai. Vuolsi che solo a mezzo il sesto secolo introducessero il g, non avessero il p nè il q, e invece della r usassero la s o il d; tardi certamente furono adoprate le k, y, x, z pei nomi forestieri; invece del b si trova in principio di parola dv e nel mezzo p, come dvellum per bellum, optinvit: la m finale si sopprime spesso, massime quando seguita da nome cominciante per vocale, forse perchè si pronunziava nasalmente come l’on e l’en nel francese e nei dialetti lombardi.

Nelle iscrizioni antiche la L somiglia alla greca, qual faceasi ne’ prischi monumenti cioè V; e che poi si mutò in Λ. Gli Eolj usavano un’aspirazione che indicavano [28] col digamma F: questo non appare mai nell’alfabeto attico: eppure come cifra ha il sesto posto e la significazione di sei (ϛ), poi passò nell’alfabeto latino come f. Segno d’aspirazione era anche la H, ma scompare nei monumenti posteriori; solo rimase come lettera nel latino. Il Q, ignoto ai Greci, deriva dal copto coph fenicio, che come cifra numerica era pure usato nella scrittura attica.

Tacito e Quintiliano si accordano nel dire che l’imperatore Claudio aggiunse tre lettere all’alfabeto latino, delle quali sono conosciute il digamma eolico e l’antisigma. Il primo era un F capovolto ed equivaleva a V, per esempio digamma

L’antisigma faceva le veci dello Ψ greco (psi), e scrivevasi ƆC. La terza lettera alcuni pretendono fosse il dittongo AI, che trovasi nella maggior parte delle iscrizioni del tempo d’esso Claudio, come Antoniai, Divai, ma siam certi che era usato molto prima. Altri da un passo di Velio Longo hanno voluto inferire male a proposito, che cotesta lettera servisse solo a raddolcire il suono troppo aspro della R. Secondo altri, dev’essere stata la X; ma da Isidoro (De origin.) impariamo che questa fu usata fin sotto Augusto. Il φ dei Greci, come osserva Quintiliano, ha un suono diverso dal ph dei Latini; dal che alcuni congetturarono che Claudio inventasse una lettera corrispondente al φ greco. Ancora privato, Claudio pubblicò un libro sulla necessità di queste lettere; salito al trono, le impose per legge; ma appena morto lui se ne tralasciò l’uso, sebbene ai tempi di Svetonio e di Tacito comparissero ancora sulle tavole di rame dove si scolpivano i decreti del Senato per pubblicarli (Svetonio, in Claud., IV; Tacito, Ann., XI. 14).

Notevole progresso dell’alfabeto latino è l’aver indicato le lettere non con denominazione speciale, ma col [29] puro suono di ciascuna; e mentre il greco dice alpha, beta, gamma, delta, l’ebraico alef, bet, ghimel, dalet, lo slavo as, buki, viedi, glacol, dobra, il romano disse a, be, ce, de. Peccato che abbia posto senza ragione la vocale or prima or dopo dell’articolazione, dicendo ef, el, er, invece di fe, le, re; e dispostele a capriccio, anzichè secondo gli organi o la natura loro propria.

La forza delle armi e la espansione del cristianesimo resero quest’alfabeto quasi universale in Europa, adattandolo ciascun popolo all’opportunità dei nuovi idiomi; in esso fu conservato il poco che ci rimane de’ parlari celtici; Ulfila, con alcuni cambiamenti, lo adattò al gotico, donde venne il tedesco d’oggi; anche molti popoli slavi il piegarono ai suoni di lor favella, mentre altri si valsero del greco.

Del resto è noto che scriveasi colle lettere da noi chiamate majuscole, e tardi come tachigrafia s’introdusse il corsivo. Però dalle iscrizioni graffite sulle mura di Pompej appare un altro alfabeto, usitato dai Latini, che chiameremmo lineare, con lettere quasi affatto fenicie, eccetto il g che è tutto latino; e formate di lineette disunite, quasi a modo dei caratteri cuneiformi. Probabilmente era consueto nei paesi de’ Vestini, de’ Rutuli, de’ Marsi, de’ Marrucini, anteriormente al latino.

Vedi Garrucci, Iscrizioni graffite sui muri di Pompej. Bruxelles 1853.

Massmann, Libellus aurarius, sive tabulæ ceratæ romanæ in fodina auraria apud Abrudbangam oppidulum transylvanum nuper repertæ. Lipsia 1840. Parla molto del corsivo latino.

[30]

§ 4º Latino primitivo.

«Le parole de’ prischi Latini sentivano d’aglio e cipolla», scrive Varrone. Dov’eransi accolti uomini di ogni paese, si poteva ripromettersi unità ed armonia nella lingua? Schiusa a tutte le importazioni, sottomessa a tutte le influenze successive, cambiava continuo fra tanto movimento. Al tempo di Polibio non erano più intelligibili i trattati conclusi coi Cartaginesi dopo la cacciata dei re: Τηλικαύτη γὰρ ἡ διαφορὰ γέγονε τῆς διαλέκτου, καὶ παρὰ Ῥωμαίοις, τῆς νῦν πρὸς τῆν ἀρχαῖαν, ὥστε τοὺς συνετωτάτους ἔνια μόλις ἐξ ἐπιστάσεως διευκρινεῖν (iii. 22).

Il radunare tutti i frammenti che ci rimangono della lingua latina, per accompagnarla via via sinchè si trasforma in questa nostra italiana, sarebbe necessario prodromo alla conoscenza de’ classici; noi nol faremo che quanto è mestieri al tema assunto.

Regnante Tarquinio Superbo, Sesto e Publio Papirio raccolsero le Leggi Regie romane; ma del codice Papiriano restano solo alcuni frammenti. Ulpiano tramandò questa legge di Romolo: Sei pater filium ter venunduit, filius a patre liber esto; e Festo quest’altra, anteriore a Servio Tullio: Sei parentem puer verberit, ast oloe (ille) plorasit, puer direis parentum sacer estod; sei nurus, sacra direis parentum estod.

In Varrone abbiamo un frammento del carme dei Salj, così disposto dal Grotefend[25]:

[31]

Cozoiauloidos eso: omina enimvero

Ad patuila’ ose’ misse Jani cusiones.

Duonus Cerus eset, dunque Janus vevet

... Melius eum regum.

Che s’interpreta: Choroiauloidos (re dei canti) ero: omina enimvero ad patulas aures misere Jani curiones. Bonus Cerus (nome mistico di Giano) erit, donec Janus vivet. Melior eorum regum. Si sa che il carme Saliare è forse il monumento più antico; Varrone lo dice prima verba poetica latina (lib. VI), e nomina Elio valentissimo latinista, che cercò interpretarlo, pure molte cose lasciando oscure (lib. VII).

La scoperta del canto degli Arvali nel 1778, quando non avesse altra importanza, attestò quanta mutazione la lingua subì dal tempo di Romolo, a cui forse risale, fin al tempo delle XII Tavole. I frammenti di queste ci vennero trasmessi modificati. Quintiliano[26] dubita se i Salj intendano essi stessi il loro proprio canto; sed illa mutari vetat religio, et consecratis utendum est; scrupolo che non cadeva sulle leggi, i cui vocaboli erano perciò svecchiati.

Oltre l’iscrizione posta a Duilio nel 494 di Roma, dopo la prima vittoria navale sopra i Cartaginesi, che vedesi [32] in Campidoglio sotto alla colonna rostrata, nel 1780 scopertesi le tombe degli Scipioni, se ne trassero epitafj, che sono documenti, non trascritti come i predetti, ma autentici e originali. Il più antico è di Cornelio Barbato, console nel 456 di Roma, 298 av. Cristo, e dice:

Cornelius Lucius Scipio Barbatus

Gnaivod (GNAEO) patre prognatus fortis vir sapiensque

Quoius (CUJUS) forma virtutei parisuma fuit

Consol censor aidilis quei fuit apud vos

Taurasia Cisauna Samnio cepit

Subigit omne Loucana opsidesque abdoucit.

Ove si noti l’o scambiato coll’u[27], che confondevansi nella pronunzia; l’ei per i alla greca, la m finale taciuta; e il subigit e abducit, non distinguendo il presente dal passato.

Benchè posteriore di qualche anno al 500, sa più d’arcaico l’epitafio di suo figlio Lucio Scipione:

Honc oino ploirume cosentiont R...

Duonoro optumo fuise viro

Luciom Scipione filios Barbati

Consol censor aidilis hec fuet a...

Hec cepit Corsica Aleriaque urbe

Dedet tempestatebus aide mereto...

che s’interpreta: hunc unum plurimi consentiunt Romæ bonorum optimum fuisse virum, Lucium Scipionem [33] filium Barbati, consul, censor, ædilis hic fuit apud vos, hic cepit Corsicam, Aleriam urbem, dedit tempestatibus ædem merito.

Nelle iscrizioni di quel tempo molte cadenze somigliano alle odierne più che alle latine: per esempio Optenui laudem; Pomponio Virio posuit; dono dedro, ecc. Invitiamo a vedere nella deca XXXIX, cap. 8 e 9 di Tito Livio, come da questo elegante scrittore fosse ringiovanito il senatoconsulto contro i Baccanali, dato circa il 568 di Roma. In quell’intervallo non era avvenuta irruzione di stranieri; eppure il cangiamento è ancor più notevole che non dall’età di Augusto all’età di Dante.

Del VI secolo di Roma o di poco posteriore sembra una remissione del Senato a quei di Tivoli che leggesi s’un bronzo trovato in quest’ultima città nel secolo XVI presso all’antico tempio di Ercole, e deposto nella biblioteca Barberini, donde sparve senza che più se ne abbia traccia. Portava:

L. Cornelius Cn. f. pr(ætor) sen(atum) cons(uluit) a. d. III. nonas maias sub æde Kastorus; scr(ibendo) ad(fuerunt) A. Manlius A. f. Sex. Iulius, L. Postumius S(p)f. quod Teiburtes v(erba) fecistis, quibusque de rebus vos purgavistis, ea senatus animum advortit ita utei æquom fuit: nosque ea ita audiveramus uti vos deixsistis vobeis nontiata esse: ea nos animum nostrum non indoucebamus ita facta esse propter ea quod scibamus ea vos merito nostro facere non potuisse; neque vos dignos esse, quei ea faceretis, neque id vobeis neque rei poplicæ vostræ oitile esse facere: et postquam vostra verba senatus audivit tanto magis animum nostrum indoucimus ita utei ante arbitrabamur de eieis rebus af vobeis peccatum non esse. Quonque de eieis rebus senatuei [34] purgati estis, credimus vosque animum vostrum indoucere oportet, item vos populo Romano purgatos fore.

§ 5º Seconda età del latino.

La seconda età della lingua latina contasi dal tempo che la conquista della Magna Grecia e le spedizioni nella Grecia propria introducevano straniera coltura. Continua la bella serie degli epitafj degli Scipioni:

L. Corneli L. E. P. N. (figlio di Scipione Asiatico)

Scipio quaist

tr. mil. annos

gnatus XXXIII

mortuos pater

regem Antioco

subegit.

Tacendo altre, chiameremo l’attenzione sulla seguente, per formole tanto vicine all’italiano (miei, optenui).

Cn. Cornelius Cn. F. Scipio Hispanus (pretore verso il 612 di Roma) pr. aid. cur. q. tr. mil. II. xvir. sl. iudik. xvir. sacr. fac.

Virtutes generis mieis moribus accumulavi.

Progenie mi genui facta patris petiei

Maiorum optenui laudem ut sibei me esse creatum

Lætentur stirpem nobilitavit honor.

Del 645 è questa formola di dedica, scavata a Capua (ap. Orelli, 2487):

[35]

N. Pumidius Q. F. M. Rœcius Q. F.

M. Cottius M. F. N. Arrius. M. F. ecc.

heisce magistreis Venerus Ioviæ

murum aedificandum coiraverunt

ped. CCLXX et loidos fecerunt

Ser. Sulpicio M. Aurelio coss.

Ma già la lingua riceveva regola e affinamento mediante la greca letteratura, e qui trovano luogo i frammenti di Nevio, di Pacuvio, di Cajo Lucilio, di Ennio, il quale fece per se stesso il seguente epitafio:

Adspicite, o ceiveis, senis Ennii imagini’ formam,

Heic vostrûm panxit maxuma facta patrum.

Nemo me lacrumeis decoret, nec funera fletu

Facsit. Quur? volito vivo’ per ora virûm[28].

Il latino, ch’era rauco e incolto nel carme Saliare, in Ennio risuona breve e marziale: malgrado il fare arcaico, questi poeti erano studiati nel secolo d’oro della lingua, come da noi i Trecentisti, sebbene Orazio non avesse per essi che disprezzo iracondo. Noi (qui non accogliendoli che come documenti storici) vi scorgiamo come allora si vacillasse nell’uso di certe lettere:

E per a (defetiscor, edor), per i (Menerva, magester, amecus), per o (hemo, peposci);

I per a (bacchinal, beneficere), per e (luciscit, quatinus, consiptum), per o (quicum, abs quivis);

EI per i lungo (inveisa, ameiserunt);

O per au (coda, plostrum, clostrum), per e (advorsum, [36] voster), per i (agnotus, olli), per u (folmen, fonus), principalmente quando segue al v (volgus, vivont, servom);

U per e (dicundum, legundum), per i (existumo, dissupo, optumus), per o (adulescens, fruns, epistula).

AI per æ, AU per o, Œ per i o per u (triviai, caudex, poplœ);

B per v, e viceversa (ferbeo, amavile, vibus);

C per g, qu, x (macistratus, cotidie, facit per faxit);

S per r e x (esit, arbos, nugas);

D per l e r (dacrume, medidies);

F per l’aspirazione h (fostis, fircus);

M per s, e viceversa (prorsum, domus), ecc.

Talvolta si sopprime qualche vocale nel mezzo[29] o in fine di parola[30]: ed anche intere sillabe[31], mentre in altre occasioni si appicciano lettere e sillabe[32].

Molte voci offendono, che poi furono abbandonate dai classici[33].

[37]

Altre portavano significato differente da quel ch’ebbero poi; arrhabo per arra o caparra; caudex per un imbecille, come noi diciamo ceppo; flagitium per flagitatio; heres per proprietario; hostis per straniero; labor per malattia; nugæ per nenia; usus per opus...; o vi diedero terminazione diversa.

Adoprarono al singolare parecchi nomi, usati poscia unicamente in plurale (mœne per mœnia); formarono diminutivi, che poi disparvero (digitulus, diecula); declinarono sul terzo modello varj nomi, relegati poi al primo (angustitas, concorditas, differitas, impigritas, indulgitas, opulentitas, pestilitas, tristitas); e così dissero autumnitas, amicities, avarities, luxuries, duritudo, ineptitudo, miseritudo, mœstitudo. Mettevano nomi in generi diversi, come gladium, nasum, collus: servivano ai due generi agnus, lupus, porcus: ærarium, ætas, grando, guttur, murmur, frons, stirps, lux, crux, calx, silex furono concordati col mascolino; finis, præsepe, metus col femminino; col neutro sexus: deliquio, emenda erano neutri con questa terminazione inusata; così dicevasi similitas e similitudo, vicissitas e vicissitudo, dulcitas e dulcedo, claritas e claritudo, inania e inanitas, cupedia e cupiditas, largitas e largitio; ed anche artua e raptio per artus e raptus. Si declinavano come della seconda genum, cornum, gelum ecc.; nella prima il genitivo termina spesso in ai o as alla greca; nella seconda finisce in semplice i il genitivo dei nomi in ius e ium, aggiungesi un e al vocativo dei nomi in r (puere); il genitivo plurale spesso contraesi in ûm; [38] gli accusativi e dativi della terza si terminano in im o em, i od e; si fa il nominativo plurale in is, il genitivo in um o ium. La quarta scambiasi sovente colla seconda declinazione; se ne fa il genitivo uis (domuis, exercituis), e levasi l’i del dativo (anu). Nella quinta il genitivo non si discerne dal nominativo, e si toglie l’i dal dativo (facie per faciei).

Si abusava di termini greci[34] e di composizione di parole che parvero mostruose ai contemporanei di Augusto[35].

Non indico i nomi scherzevolmente formati per onomatopeja da Plauto ed altri, bilsbare, pubulicottabi, buttubata, taxlas.

Più libera andava la formazione degli aggettivi, declinati spesso differentemente[36]; talora anche intesi diversamente da quel che usò dappoi[37].

Alter, solus, nullus e loro conformi non cadevano al genitivo in ius e al dativo in i: celer in neutro faceva celerum; dicevasi gnarures per gnari, gracila per gracilis, hilarus per hilaris, utibilis per utilis, munificior per munificentior, spurcificus per spurcus, tentus per extentus. Così ipsus per ipse, ipsipsus per [39] ille ipse, qui e quips per quis, ips per is, cujatis per cujus, em e im per eum, emem per eundem; hic, hæc, isthæc per hi, hæ, hæc; hisce per his, quojus per cujus, vopte per vos ipsi, me per mihi, sum, sam, sas, sos per suum, suam, suas, suos; ibus per iis ecc.

Molti verbi, consueti in quelle prische scritture, furono repudiati dall’uso, ritenuto arbitro supremo del parlare tanto da Orazio come da Quintiliano[38].

Alcuni vennero usurpati in altro senso, o sotto forme e cadenze che poi deposero quando la conjugazione restò fissata; come corporare far morire, decollare privare, grassare andare e adulare, innubere mutarsi da luogo a luogo, latrocinari militare. Usavano attivamente alcuni che in appresso si ritennero solo al deponente[39], e di rimpatto usavansi come deponenti adjutor, bellor, certor, consecror, copulor, emungor, punior, sacrificor, spolior. Diversamente dai moderni terminavano accepto per accipio, augifico per augeo, blatio per blatero, congrueo per congruo, viveo, diceo, [40] duo per do, creduo, perduo, moriri, scalpurire per scalpere. Diceano poi estur per editur; facitur per fit; osus sum per odi; potestur, posetur e poteratur; donunt per dant; nequinunt, soliunt per nequeunt, solent; ferinunt, prodinunt, scibam, capsi per cepi; descendidi, exposivi, loquitatus, morsi per momordi; parsi, sapivi, soluerim per peperci, sapui, solitus sum. Il futuro della terza e quarta conjugazione usciva talora in ebo e ibo, onde Plauto disse scibo: così gl’imperativi duce, face, dice; e siem, volam, edim per sim, velim, edam; faxo e faxim per faciam, axim per egerim, passum per pansum, sustollere per auferre, ecc. Al passivo infinito aggiungevano talvolta er, come il dicier che neppure spiacque a Persio; dixe per dixisse che è in Varrone. Un’iscrizione presso il Lanzi porta FERONIA STATETIO DEDE.

Nè minor divario correva negli avverbj[40] e nelle preposizioni; dove am per circum, apor per apud, ar e ab per ad, af per a, se per sine, endo per in; e più nelle frasi che se ne formavano[41].

[41]

De’ quali modi si dilettarono anche taluni d’età migliore, specialmente Catullo e Sallustio, affettanti l’arcaismo, che è un’altra delle forme della decadenza.

§ 6º L’età dell’oro e dell’argento.

Fomentato dal patriotismo e dalla libertà, invigoritosi nelle lotte esteriori ed interne, fatto robustamente conciso dall’orgoglio nazionale, arricchito dalle spoglie altrui, perfezionato da tanti scrittori, il latino negli ultimi tempi della repubblica aveva acquistato nobiltà di forme, pienezza di senso, eleganza degna del popolo re; e dalle conquiste fu portato sin all’estremità dell’Europa e dell’Oriente.

Eppure Cicerone collocava il miglior parlare ai tempi di Scipione e Lelio, lamentandosi che in Roma fossero accorsi tanti che parlavano scorretto; e piacevasi sulla bocca di Lelia sua suocera udire quella vecchia loquela incorrotta, che gli rammentava Plauto e Nevio: appunto come noi in qualche vecchia fiorentina o in qualche montanaro pistojese crediamo udire Giovan Villani o il Firenzuola.

Via via si andò declinando sotto gl’imperatori. La lingua accettò dall’adulazione parole inaudite alla prisca semplicità; e se non bastarono i titoli di cœlestis e divinus, fin cœlestissimus si volle dire, e sacre si chiamarono le occupazioni del principe, e majestas la sua persona, innanzi alla quale l’uomo cercò quasi annichilarsi, non parlando più di sè ma della sua parvitas, mediocritas, sedulitas. I quali nomi astratti, sostituiti all’aggettivo concreto, sono un carattere di [42] decadenza che vediamo ognor più dilatarsi nelle scritture odierne, ad imitazione dei Francesi dicendo il pauperismo, le notabilità, le capacità, il commercio, il brigantaggio, ecc.

A ribocco furono allora introdotti i modi greci[42]; s’accomunarono alla prosa traslati affatto poetici: e prœmia per spolia, limen belli, claudæ naves, moriens libertas, exedere rempublicam, laudare annis leggiamo in Tacito.

Mentre poi da una parte s’affettava l’arcaismo, dall’altra si foggiavano voci nuove, o vi si attribuiva senso diverso, terminazione variata, alterata costruzione[43]. Mutarono o estesero il proprio senso ægritudo per malattia, advocatio per dilazione, fiscus, famosus per celebre, ingenium applicato a cose inanimi, avus per atavus, gener per marito della vedova del figlio[44], [43] subaudire per sottintendere, decollare per decapitare, imputare per chiedere ci si tenga conto d’alcuna cosa come d’un favore, studere assoluto.

Variaronsi le terminazioni[45]; costruzioni alterate piacquero[46]. Dalle provincie, massime dalla Spagna, venivano alla metropoli elementi ed esempj di guasto; Seneca stesso, gran corruttore, lagnavasi fosse disimparato il parlare latino[47], altrove[48] dice che molte voci erano cadute in disuso, come asilo, che Plinio già chiamava tavano[49]; e deride coloro che prediligevano solo parole viete, mentre altri non soffrivano se non le più divulgate, guastando e vituperando così la favella col seguir l’uso particolare[50]. A. Gellio[51] si duole che ai giorni suoi le parole latine, dal senso ingenuo, fossero passate ad altro o simile o diverso; per abuso od ignoranza di chi le adoperava senza averne appreso il significato. Quintiliano[52] distingue le parole in latine e peregrine, così chiamando quelle che ex omnibus prope dixerim gentibus vennero; e cita rheda e petoritum derivati dai Galli, mappa dai Cartaginesi, gurdos dagli Spagnuoli.

[44]

§ 7º La lingua scritta e la lingua parlata: la lingua rustica.

Tutto ciò si riferisce alla lingua degli scrittori. Ma v’è paese dove si scriva appunto la lingua che si parla? Che i Romani usualmente adoprassero la sintassi artifiziosa che troviamo in Livio o in Cicerone, ci vieta di crederlo, primo, il conoscere come i Greci, maestri dei Latini, scrivessero semplicemente e disponessero le parti del discorso alla schietta, anche coloro che facevano studio speciale dello scrivere, cioè i retori. Cresciuti in repubblichette, sublimi nella loro piccolezza, piene di attività, governate a popolo, a questo voleano piacere coll’arte del bello, del cui sentimento ebbe dono specialissimo la Grecia.

I Romani invece ebbero assai di buon’ora l’orgoglio del dominio, s’intitolarono rerum dominos, gentemque togatam, e come i Greci l’originalità e il limpido gusto, così essi ebbero propria la maestà, della quale ai Greci mancava sin la parola. Lo scrivere per essi era uno squisito piacere, procurato all’intelligenza delle persone colte, cioè dei signori, o di quella porzione di cittadini che poteano esercitare la pienezza de’ diritti civili. I bei parlatori aveano forbito la lingua col delectus verborum, cioè mediante l’eufonia e l’analogia, rimovendo le parole troppo usuali od aspre, per attenersi alle dolci, tornite, numerose.

Facile era cadere nella gonfiezza; nè di questa si tennero mondi i sommi autori. È proverbiale l’esse videatur di Cicerone; il quale, ne’ libri retorici, si [45] dilata sul modo di formare i periodi, sulle varie cadenze col giambo o col trocheo; e racconta con che meraviglia il popolo accoglieva certi periodi, fino a prorompere in applausi.

Per poco che uno abbia familiarità coi classici, gli si fa evidente la differenza che corre fra gli oratori e in generale i prosatori d’arte, e quelli semplici, come Cesare negli aurei commentarj, o Cicerone stesso nelle epistole, e più in quelle che a lui dirigevano gli amici e familiari suoi.

Lo scrivere tramandatoci dai classici era dunque ben discosto da quello che appellavano quotidianum sermonem, quo cum amicis, conjugibus, liberis, servisque loquimur. Talora quella favella senza grammatica traforavasi nelle scritture: onde Cecilio ebbe ad avvertire cento generi di solecismi, ad evitarsi da chi volesse scrivere corretto[53]; di Curione si disse che favellava latino non pessimamente, condotto dalla sola domestica usanza, e benchè affatto di lettere digiuno[54]; Tullio vuole l’oratore parli latinamente, il che apprenderà colle lettere e colle scuole elementari[55]; A. Gellio avverte che, quei che chiamansi barbarismi, non dai Barbari vengono, ma da locuzioni del vulgo: quod nunc autem barbare quemque loqui dicimus, id vitium sermonis non barbarum esse, sed rusticum; et cum eo vitio loquentes, rustica loqui dictitabant[56]; e sant’Agostino cita alcuni modi vulgari e poco latini[57].

I grammatici con Fortunaziano insegnavano che longioribus verbis decora et lætior fit oratio; onde si accettarono i composti come inaurare, aggregare, apparere, [46] extinguere, obserare, exprimere, non i loro semplici, i quali però dovettero restare nella lingua del popolo. Anellus e scutella abbiamo in Cicerone, adjutare in Pacuvio, minacias, agnellus e bucca in Plauto, in Lucrezio bene sæpe, come bene impudentem in Cicerone[58]; bellus e russus in Catullo, e russata era una delle fazioni del circo; caballus in Orazio; casa in Apulejo; bellissimum in Terenzio; adjutus in Macrobio; campsare per cansare è in Ennio; cooperculum in Plinio il vecchio; nel glossario d’Isidoro campsat, flectit; santra, apocope d’Alessandra, è in Marziale; in Nonio e nel codice Teodosiano birotta e birotium il biroccio. Cesare già diceva postridie hujus diei (de B. G., I, 23) come noi diciamo oggidì. Festo asserisce che subulo tusce tibicen dicitur, ch’è il nostro zufolo. Pinna chiamavasi la crista cassidi imponi solita, che noi diciamo penna o pennacchio. Tata in varj dialetti odierni chiamasi il babbo; e Valerio Flacco scrive, Attam pro reverentia cuilibet seni dicimus; quasi eum avi nomine appellemus et atavus, quia tata est avi, idest pater. Servio, nei commenti alla Georgica, c’informa che, invece di fimus, plebeamente dicevasi letamen; e A. Gellio[59] che il pumilio dal volgo imperito chiamavasi nano: due voci ora vive in Italia.

Così si ha testa per capo in Ausonio; ruvido in Plinio[60], fracidus in Catone de re rustica; cribellare in Palladio; minare per menare in Apulejo; jornus e tonus per giorno e tuono in Seneca; in altri retornare, putilla, puta, strata, per redire, puella, via; in Plinio [47] molli fermentati panis; in Vitruvio remi strophis religati: il quale stropa per vinco rimane in qualche dialetto (struppolo in napoletano): in molti vadere per ire[61], basium per osculum, belare per balare: campania per campagna l’abbiamo nel nome della Campania felix.

Svetonio narra che Augusto diceva, pro stulto, baceolum, come noi bacello; e tolse la dignità consolare ad uno che, invece di ipsi, avea scritto ixi (essi). così dicevasi granarium, jubilare, pausa, bassus, morsicare, auca (oca), planuria quel che nobilmente chiamavasi horreum, quiritare, mordere, anser, planicies; e sanguisuga per hirudo, majale per verres, rasores per novaculæ, cloppus (clopin fr., zoppo it.) per claudus, parentes per affines, pisinni per filii (piccini). Molto potrebbe spigolarsi negli scrittori d’agraria e d’agrimensura raccolti dal Goes, come botones per mucchi di terra (butte fr.), brancam lupi, campicellus, monticellus, flumicellus, montaniosus, fontana, quadrum e ben altri modi, ignoti allo scrivere letterario. È probabile si dicesse nascere, sequere, irascere, piuttosto che nasci, sequi, irasci; parescere anzichè videri; e così volere e potere per velle e posse: e già ne’ vecchi latini troviamo potesse.

Isidoro (19, 1) nomina barca, quæ cuncta navis commercia ad litus portat: san Girolamo dice che solent militantes habere linteas, quas camisias vocant: e Isidoro: Camisias vocamus quod in his dormimus in [48] camis, e spiega che camus è lectus brevis et circa terram: e altrove dice che «cortinæ sunt aulea, idest vela de pellibus»; e che «mantum hispani vocant quod manus tegat tantum, est enim brevis amictus». Sulpicio Severo dice che vestem respuit grossiorem.

Certi, che ora ne pajono idiotismi italiani, non sarebbe difficile riscontrarli nell’età migliore:

Orazio. Præter plorare.

Virgilio. Dispeream nisi me perdidit iste putus[62].

Lucrezio. Tota nocte pluit. Ad levare sitim fontes fluviique vocabant.

Giustino. Facere amicitiam, literas, fœdus, classes.

Quintiliano. Sic descernet hæc discendi magister, quomodo palæstricus ille cursorem faciet, aut pugilem aut luctatorem... Omnes tres de bonis contendunt.

Plauto. Quid hic vos duæ agitis? — Et nescio quid vos velitati estis inter vos duos. Foris cœnaverat tuus gnatus (Mostell., II. 2. 53). Tribus tantis reddit quam obseveris: rende tre tanti di quel che semini.

Marciano Capella. Il triangolo scaleno omnes tres lineas inter se inæquales habet.

Seneca. Bella res est mori sua morte.

Festo. Ne mutum quidem facere (ad mutire et mussare) che è il nostro far molto.

Catone (De re rust., CLXII) insegna una preghiera da dirsi agli Dei ed a Marte in particolare, «uti tu fruges, frumenta, vina, virgultaque grandire, beneque evenire sinas»; che è il nostro ingrandire e venir bene.

Ovidio. Quantum ad Pirithoum.

In quantum quæque secuta est.

[49]

E nei Fasti:

Hei mihi! credibili fortior illa fuit.

Signatur tenui, media inter cornua, nigro;

Una fuit labes: cetera lactis erat.

(cioè più del credibile; segnata di nero in mezzo alle corna; il resto era latte).

Festo scrive res minimi pretii, cum dicimus non hettæ te facio: e noi, Non ti stimo un ette[63].

Non si doveano unire due infiniti, eppure abbiamo in Livio (IV. 47) jussit sibi dare bibere; che è il nostro dar bere, dar mangiare.

Tutto ciò ne fa argomentare che, fra i patrizj latini prevalendo elementi etruschi e greci, di questi si nutrisse la loro lingua, mentre gli oschi e sabini dominavano nella rustica, adoperata dai plebei, la quale noi crediamo sia la stessa che oggi parliamo, colle modificazioni portate da trenta secoli e da tante vicende.

Oltre i comici, che al vulgo mettono in bocca modi affatto insueti agli scrittori colti, troviamo direttamente indicata la lingua plebea e rustica, che doveva essere più analitica, alle desinenze supplendo colle preposizioni, cogli ausiliarj alle inflessioni de’ verbi; e determinava meglio le relazioni mediante gli articoli.

Plauto discerne la lingua nobilis dalla plebeja: la prima dicevasi anche urbana o classica, cioè propria delle prime classi; l’altra rustica o vernacola dal nome de’ servi domestici (vernæ), e anche da Vegezio pedestris, da Sidonio usualis, quotidiana da Quintiliano, il quale muove lamento che «interi teatri e il pieno circo s’odano spesso gridare voci anzi barbare [50] che romane», e avverte che in buona lingua non dee dirsi due, tre, cinque, quattordice[64], e geme che ormai il parlare sia mutato del tutto[65].

Cicerone scriveva a Peto (lib. IX, ep. 21): Veruntamen quid tibi ego in epistolis videor? Nonne plebejo sermone agere tecum?.. Epistolas vero QUOTIDIANIS verbis tenere solemus. Marziale ricorda certe parole da contado, risibili a delicato lettore,

Non tam rustica, dilicate lector,

Rides nomina?

A Virgilio fu apposto d’usare voci da villa, e nominatamente il cujum pecus e il tegmen[66]. Che v’avesse maestri del ben parlare latino l’accerta Cicerone, aggiungendo che non è tanto gloria il sapere il latino, quanto vergogna l’ignorarlo[67]; ed esortando, giacchè s’ha il linguaggio di Roma corretto e sicuro, a seguir questo, ed evitare non solo la rustica asprezza, ma anche l’insolito forestierume[68], Ovidio raccomanda ai fanciulli romani d’imparare linguas duas, cioè il latino e il greco, e di scrivere agli amanti in lingua pura e [51] usitata[69]. Che se la passionata imitazione del greco diede al latino una consistenza che lo preservava almeno dalle profonde e repentine alterazioni, al popolo non importarono questi raffinamenti, e perseverò nell’abitudine di ciò che aveano detto il nonno e la nonna[70].

Abbiamo uno strano libro, sul quale forse non fu ancora detta l’ultima parola, il Satiricon di Petronio. Leggendolo, sentesi un parlare disforme dal consueto; composizioni insolite di parole, come: pietaticultrix, gracilipes, choraula, præfiscini, fulcipedia e gallinæ altiles, e periscelides tortæ, e domefacta per domita; frequenti diminutivi: taurulus, alicula, amasiunculus, manuciolum, palliolus, tunicula, vernaculæ meliusculæ; frasi insolite: non sum de gloriosis; Capuæ exierat; invado pectus amplexibus; defunctorio ictu; e parole che per avventura trovansi anche altrove, ma qui colpiscono per essere in tanto numero: come lautitia, tristimonium, barbatoria; ingurgitare; vicinia, gingillum, catillum, candelabrum, camella, bisaccium, capistrum; plane matus sum: vinum mihi in cerebrum abiit.

Altre sue frasi di schiavi s’accostano alle nostre moderne: — «Non potei trovare una boccata di pane. — Quello era vivere! — Come un di noi — Mi sono mangiato i panni». (Non hodie buccam panis invenire potui. — Illud erat vivere! — Tamquam unus de nobis — Jam comedi pannos meos).

Catone, che scriveva pei campagnuoli, dice, Arundinem prende.

[52]

Nell’Asino d’oro, un soldato domanda a un giardiniere quorsum vacuum duceret asinum? Quegli non comprende, onde l’interrogante replica: Ubi ducis asinum istum? e l’altro capisce e risponde. Ciò significa che la voce quorsum non avea corso tra il popolo. Avea corso invece quella di boricco per cavallo di vettura, non usata negli scritti; onde san Girolamo (in Eccles., X) Mannibus, quos vulgo buricos appellant. Il popolo, ne’ migliori tempi, dicea scopare, stopa, basium, bellus, caballus, bigletum, bramosus, brodium, dove gli aristocratici usavano verrere, linum, osculum, pulcher, equus, schedula, cupidus, jusculum.

Maggior colpo mi fa Varrone, dove attesta che i Latini usarono il solo ablativo, e la inflessione fu introdotta soltanto per utile e necessità[71]. Non stiamo ad appuntargli che un sì importante elemento non può intromettersi per proposito; ma consideriamo che le parole nostre italiane sono, la più parte, l’ablativo delle latine. A. Gellio menziona un libro di T. Lavinio de sordibus verbis, il quale sarebbe prezioso al caso nostro[72], ma è perduto; ed egli stesso dice che arboretum ignobilius est verbum, arbusta celebratius; e mette fra i verba obsoleta et maculantia ex sordidiore vulgi usu, botulus, voce che è in Marziale, e da cui il nostro budello[73]: e così dice che sermonari rusticius videtur sed rectius: sermocinare crebrius est sed corruptius[74]: taxare pressius crebriusque est quam tangere[75], donde il nostro tastare[76].

[53]

I legionarj nelle colonie e ne’ campi esteri adottarono parole germaniche, e in Vegezio abbiamo, Castellum parvulum, quem burgum vocant. Poichè la lingua scritta era diversa dalla parlata e doveasi impararla, tanto valea studiare quella o la greca[77]. Onde usavasi indistintamente il greco; fin i primi cristiani se ne valsero, e Giustino e Taziano, che pur pubblicavano le loro apologie a Roma: e Tertulliano fu il primo cristiano che scrivesse in latino, benchè il facesse anche in greco: lo stesso Giuseppe Ebreo, onde presentare la sua storia all’imperatore romano, la fece tradurre dall’ebraico in greco: greche sono spesso le iscrizioni anche mortuarie, e con caratteri greci.

[54]

§ 8º Della pronunzia.

Occorre dimostrazione per far convinti che la pronunzia volgare fosse diversa da quella delle persone colte? È essa un accidente sfuggevole, per modo che non si conosce se non per congetture; ma abbiamo qualche notizia certa di alterazioni fonetiche. In essa elidevano spesso la m, la c, la s finali. Oltre l’uso dei poeti antichi che, per esempio, finiscono l’esametro con Ælius sextus, ovvero optimus longe, questo detrimento è attestato da Vittorino (De orthogr.): Scribere quidem omnibus literis oportet, enuntiando autem quasdam literas elidere. Quintiliano (IX. 4) dice che la m appena pronunziavasi: Atqui eadem illa litera, quoties ultima est, et vocalem verbi sequentis ita contingit, ut in eam transire possit, etiam si scribitur, tamen parum exprimitur, ut MULTUM ILLE et QUANTUM ERAT, adeo ut pene cujusdam novæ literæ sonum reddat. Neque enim eximitur, sed obscuratur, et tantum aliqua inter duas vocales velut nota est, ne ipsæ coeant. Cassiodoro[78] cita un passo di Cornuto, ove dice che il pronunziare la m avanti a vocale durum ac barbarum sonat; par enim atque idem est vitium, ita cum vocali sicut cum consonanti m literam exprimere. Era questa una fina distinzione che al volgo dovea sfuggire. E però la m è taciuta in molte epigrafi[79], come per esempio ante ora positu est. La m finale dovea dare alla sillaba un suono nasale, simile all’on, en francese, conservatosi [55] in alcuni dialetti italiani, dove pure non toglie l’elisione colla vocale susseguente. Infatti il cum diede origine a confondere, constantia, conquero; e in italiano originò e il come e il con.

Anche mutavano l’u in o (servom, voltis); pronunziavano o invece di e o di au (vostris, olla per aulla), e il v pel b (vellum per bellum); col che da culpa, mundus, fides, tres, aurum, scribere, sic, per hoc, escono colpa, mondo, fede, tre, oro, scrivere, sì, però. Onde Festo[80] scrive: Orata genus piscis appellatur a colore auri, quod rustici ORUM dicebant, ut auricolas ORICOLAS.

È dell’indole dell’italiano l’omettere la nasale avanti la sibilante, sicchè da mensis, impensa femmo mese, spesa. Ora questo usava già fra gli antichi, e Cicerone pronunziava foresia, hortesia, megalesia, e nelle lapide ricorrono albanesis, alliesis, ariminesis, africesis, ateniesis, castresis, miseniesis, narbonesis, ostiesis, picenesis; come anche clemes, pares, potes per clemens, parens, potens.

Sembra poi che gli Umbri trascurassero regolarmente le finali, massime le nasali, poichè nelle loro iscrizioni troviamo vinu, vutu, nome, tota jovina per vinum, vultum, nomen, totam jovinam (civitatem iguvinam); e anche dagli Osci abbiamo scritto via pompaiiana teremnattens per viam pompejanam terminaverunt. Negli Umbri ancora riscontriamo fuia, habia, habe, portaja, mugatu per fuat, habeat, habet, portet, mugiatur, e fasia per faciat, che ricorre nel volsco.

La terminazione culo dagli Osci e dagli Umbri contraevasi in clo, e lo facevano pure i Romani, sicchè ne nascevano apicla, oricla, circlus, cornicia, oclus, panucla, pediclus, masclus,... che facilmente convertivansi [56] ne’ nostri pecchia, orecchia, cerchio, occhio, cornacchia, pannocchia, pidocchio, maschio.

È presumibile che nella parlata de’ Latini già usassero certi scambj di lettere che troviamo tuttodì nelle nostre, e massime nella toscana. In planus, plenus, glacies e simili, la l fu cambiata in i, come tuttodì fa il volgo dicendo i — padre — voi fare — ai campo — moito — aito. Già Catullo beffava un Arrio, che aspirava le vocali, dicendo hinsidias, hionios, e fu chi quell’Arrio suppose toscano, per indurre che già allora adopravasi in quel paese l’aspirazione, che ora ne è quasi caratteristica. Certamente l’aspirazione del c doveva essere abbastanza usata, se alterò alcune voci greche, come camus in amus, chortos in hortus, cheimon in hiems. Il c confondeasi col t, dicendo indifferentemente condicio, nuncius, servicium, e conditio, nuntius, servitium, come oggi si dice schiantare, schietto, maschio, al par di stiantare, stietto, mastio, e nel volgo andache, ho dacho.

Il v talvolta è soppresso, come in facea, fuggìa, e tra i volgari in arò, arei, laoro, faorire; e forse già diceasi caulis e cavolis, come oggi caolo e cavolo, manualis e manovalis.

Molte volte al semplice o latino è sostituito nell’italiano l’uo, come vuole, duolo, suolo, e probabilmente già faceasi dal volgo, che anche da noi usa ancora pote, vole, dolo.

Inclina anche oggi il volgo a trarre tutti i verbi alla prima conjugazione; e fa vedano, leggano, sentano all’indicativo, e al congiuntivo vedino, legghino, sentino.

Molto si studiò recentemente sopra gli accenti, e se non si saprebbe alla prima indicare come da dixerunt, fecerunt derivassero gli sdruccioli dissero e fecero, non sarebbe difficile provare che vecchiamente si usava disserono, fecerono: da cui disseno, feceno per sincope. [57] Quella desinenza no è caratteristica del plurale, talmente che il popolo talvolta l’applicò anche ad altre voci che ai verbi, come ad eglino ed elleno. Del resto il popolo dice andàvamo, volèvamo dove i colti fanno piana la voce, cioè mantiene l’accento sulla radicale, come fanno costantemente i Tedeschi[81].

Molte voci contraevansi, come populus, circulus, soldum, lardum, sartor, posti, del che è qualche vestigio pur nello scritto; e Quintiliano (I. 6) dice che Augusto pronunziava calda invece di calida. Meus dovette dirsi mius, del che è restato il vocativo mi: e in Ennio abbiamo debil homo.

E che veramente il modo di pronunziare s’accostasse più che lo scritto a questo che usiam noi, ce ne sono argomento i tanti errori delle iscrizioni. Un vaso trovato a Pompei porta scritto, Presta mi sincerum (vinum). Le bizzarre iscrizioni, ivi graffite da mani plebee e soldatesche, oltre le scorrezioni ortografiche, hanno anche errori grammaticali e modi plebei. Per esempio: Saturninus cum discentes rogat. Cosmus nequitiæ est magnissimæ — O felice me[82].

Crescono tali errori nelle epigrafi de’ primi tempi cristiani, errori che ravvicinano le parole alle nostre italiane. Nei recenti scavi a Ostia: Loc. Aphrodisiaes cum deus permicerit. — Cœlius hic dormit et Decria quando Deus boluerit. Dal cimitero di Sant’Elena in Roma fu scavata questa del terzo o quarto secolo:

Tersu decimu calendas febraras

decessit in pace quintus annoro

octo mensorum dece in pace.

[58]

In un’altra sta:

Gaudentius in pace qui vixit annis XX

et VIII mesis cinque dies biginti

apet depossone X kal. octobres.

Il Muratori[83] adduce epitafj del cimitero di Santa Cecilia in Roma, d’età certo antica, che dicono:

Qui jacet Antoni

Dio te guardi

et Jacoba sua uxor.

Madoña Joaña

uxor de Cecho

della Sidia

e in San Biagio sotto al Campidoglio:

Ite della dicta echiesa.

In più d’un sigillo antico è scolpito vivat in Dio o in Diu[84].

In altre iscrizioni l’apostrofe sta spesso in luogo della m, onde clarissimu’, multo’, annoro’: Zulia per Julia è citato da Celso Cittadini[85], in una lapide presso il Bosio; Olympios bixit annos tres, meses undeci, dies dodeci in pace; in altre bresciane si ha Asinone, Caballaccio, Marione, Musone, Paulacius.

In alcune incontri perfino l’i efelcustico, che sembra singolarità del nostro vulgare, leggendosi in una iscrizione delle Grotte vaticane AB ISPECIOSA. In una pittura delle Catacombe è figurata un’agape, e vi si legge Irene da calda — Agape miscemi[86]. E in un’altra iscrizione: Bellica fedelissima virgo impace.

[59]

Quello che Quintiliano dice che «ciò che mal si scrive, di necessità mal si pronunzia», può anche voltarsi a dire che mal si scrive ciò che mal si pronunzia: e l’essere le iscrizioni per lo più di cristiani, cioè di gente ineducata e affettuosa, appoggia sempre meglio il mio assunto, che il parlare nostro odierno sia il vulgare medesimo di Roma antica.

Questo accadeva nelle vicinanze di Roma; ora che doveva essere nelle provincie, discoste dal luogo dove meglio si parlava e proferiva, e dove sopravviveano i prischi dialetti? Racconta Erasmo che, essendo venuti ambasciatori d’ogni gente d’Europa per congratularsi con Massimiliano d’Austria fatto imperatore, recitarono un’orazione, tutti in latino, ma pronunziandola ciascuno a modo del suo paese, sicchè fu creduto si fosse ognuno espresso nella lingua materna[87]. Argomentatene come dovesse alterarsi il romano idioma su bocche sì diverse, e come soffrirne l’ortografia, attesochè, quando più la coltura scemava, gli scrivani s’attenevano mentosto al letterario che all’uso della pronunzia.

[60]

§ 9º La traduzione della Bibbia.

Se dunque si avesse a scrivere un libro, non più per la classe eletta e letterata, ma pel popolo, sarebbe dovuto riuscire pieno di que’ modi, che noi asseriamo correnti fra il vulgo, e inusati alla raffinata letteratura. Or questo libro c’è, non fatto dopo già sfasciato il latino, ma ai tempi di Tacito e di Svetonio, quando appena l’età dell’oro cedeva a quella d’argento, quando Barbari non erano intervenuti ancora a mescolare elementi eterogenei. Alludiamo alla versione della Bibbia, che risale al primo secolo; e fu poi riformata da san Girolamo, il quale pure viveva prima dell’invasione dei Barbari[88]. Ora, in essa abbondano [61] gl’idiotismi, che sono sentenziati per errori e barbarismi, sebbene molti abbiano riscontro nei classici. Quell’in sæculum sæculi ripetuto, è in Plauto: Perpetuo vivunt ab sæculo ad sæculum: (Miles glor., [62] IV. 2). «Viderunt Ægyptii mulierem quod esset pulchra nimis» (Genesi, XII. 14) risponde al plautino Legiones educunt suas nimis pulchris armis præditas (Amphitr., I, 1). Il Servitutem qua servivi tibi (Gen., XXX. 26) all’Amanti hero servitutem servit (Aulul., IV. 4): l’Ignoro vos (Deut. XXXIII. 9) al Ne te ignores (Captiv., II. 3): il Feci omnia verba hæc (III Reg., XVIII. 36) al Feci ego isthæc dicta quæ vos dicitis (Casina, V. 4). Bonum est confidere in Domino quam confidere in homine, dice il Salmo CXII. 8; e Plauto: Tacita bona est semper quam loquens (Rudens, IV. 4). Il Miscui vinum de’ Proverbj, (IX. 5) è sostenuto dal Commisce mustum della Persa, [63] I. 3; il Tibi dico surge di san Marco, V. 41, dall’Heus tu, tibi dico, mulier del Pœnul., V. 5; il Dispersit superbos mente cordis sui di san Luca, I. 51, dal Pavor territat mentem animi dell’Epidic., IV. 1[89]. Anzi io credo che i siffatti fossero forme popolari, già vive al tempo di Nerone, e sopravvissute ne’ vulgari odierni, come tant’altri di cui diamo un saggio:

Mensuram bonam... et supereffluentem dabunt in sinum vestrum. Luca, VII. 38.

Repone in unam partem molestissima tibi cogitamenta. IV Esdra, XIV. 14.

Et nemo mittit vinum novum in utres veteres. Luca, V. 37.

Populus suspensus erat audiens illum, XIX. 48.

Quærebant mittere in illum manus, XX. 19.

Sed meno misit super eum manus. Giov., VII. 44.

Quasi absconditus vultus ejus et despectus, unde nec reputavimus eum. Isaia, LIII. 3.

Non est dicere, quid est hoc, aut quid est istud. Eccl., XXXIV. 26.

In electis meis mitte radices. Eccl., 24.

In tempore redditionis postulabit tempus, XXXIX. 6.

Habebat Judam semper charum in animo, et erat viro inclinatus, II Macab., XIV. 24.

Ipsi diligunt vinacia uvarum. Osea, III. 1.

Sed rex, accepto gustu audaciæ Judaeorum, IV Macab., XIII. 18.

Etiam rogo et te, germane compar, adjuva illas. Paolo ad Philip., IV. 3.

Moyses grandis factus. Paolo ad Hebr., XI. 24.

[64]

Cum dixerint omne malum adversum vos. Matteo, V. 11.

Et omnes male habentes curavit, VIII. 16.

Mulier, quae sanguinis fluxum PATIEBATUR. IX. 20.

Corripe eum inter te et ipsum solum. XVIII. 15.

Apud te facio pascha. XXVI. 18.

Par turturum. Luca, II. 24.

Spero os ad os loqui. II Giov., 12.

Oblatus est... et non aperuit os suum. Isaia, LIII. 7.

Voi ci vedete i nostri modi «dar la buona misura, metter radice, mettere da una banda, essere inclinato ad uno, prenderci gusto, compare, diventar grande, dire tutti i mali, aver male, patir un male, tra sè e lui, far pasqua, bocca a bocca, non aprir bocca, stare sospeso, mettere le mani addosso, non crederlo lui, ecc.». Notiamo per ultimo questo di san Luca, VII. 40: Simon, habeo tibi aliquid dicere. E in illa hora, come diciamo in allora.

Mentre i precettori sentenziano la versione della Bibbia di corruzione e barbarie, il buon critico in quei salmi sente l’idioma del Lazio prendere un vigore inusato, e, per secondare la sublimità de’ concetti e l’idea dell’infinito, ripigliare la nobile altezza che dovette avere nei sacerdotali suoi primordj, un’armonia diversa da quella che i prosatori cercavano nel periodeggiare e i poeti nell’imitazione dei metri greci, e che pure è tanta, da farla ai maestri di canto preferire persino all’italiano.

Questo rifarsi della favella plebea, questo ritorno verso l’Oriente dond’era l’origine sua, avrebbe potuto ringiovanire il latino, infondendogli l’ispirato vigore delle belle lingue aramee e la semplice costruzione del greco; ma troppo violenti casi sconvolsero quell’andar di cose; e quando l’Impero cadeva a fasci, era egli a promettersi un ristoramento della letteratura?

[65]

§ 10º La lingua latina si sfascia. Età del ferro.

Nell’età che intitolarono del ferro, la crescente adulazione trovò qualificazioni enfatiche a lusingare i fortissimi e felicissimi ed incliti e provvidentissimi e vittoriosissimi monarchi, e quella serie di illustri e magnifici conti, patrizj, maestri ed altri. Gl’imperatori, man mano che scadevano di grandezza e potenza, si puntellavano con titoli ampollosi, parlando in nome della loro serenitas, tranquillitas, lenitudo, clementia, pietas, mansuetudo, magnificentia, sublimitas, perfino æternitas come fece Costanzo. Al greco si ricorse non solo dagli scienziati, ma anche negli uffizj civili e domestici, massime dopo trasferita la capitale a Costantinopoli[90]. Partita allora la gente [66] meglio stante colla Corte, ringhiera e senato a Roma ammutoliti, nè corpo di scrittori o impero di tradizioni conserva l’aristocratica castigatezza; sicchè il latino, come uno stromento complicato in mani inesperte, dovette alterarsi viepiù quanto più sintetico, e perchè non procede per mezzi semplici secondo il rigoroso bisogno delle idee, ma con tanti casi e conjugazioni e artificiosa inversione di sintassi.

Sottentra allora il pieno arbitrio dell’uso, cui stromenti sono il tempo e il popolo, operanti nel senso medesimo. Il popolo vuole speditezza, e purchè il pensiero sia espresso, non sta a curarsi d’esattamente articolare la parola o di valersi di tutti gli elementi, lusso grammaticale. Alla finezza di declinazioni e conjugazioni sostituì la generalità delle proposizioni e degli ausiliarj, specificò gli oggetti coll’articolo, mozzò le desinenze. Pei quali modi la lingua latina non imbarbariva come suol dirsi, ma tornava verso i principj suoi, riducendosi in una più semplice, poco o nulla distante dalla nostra odierna; la lingua scritta accolse in maggior copia voci e forme della parlata, modificate secondo i paesi: donde quel lamento di san Girolamo, che la latinità ogni giorno mutasse e di paese e di tempo[91].

Ajutarono siffatta evoluzione gli scrittori ecclesiastici, che più non dirigendosi a corrompere ricchi e ingraziante letterati, ma recando al vulgo le parole della vita e della speranza, non assunsero la lingua eletta, ma la comune, la vernacola. Essi mostrano sprezzare l’eleganza e persino la correzione; sant’Agostino dice [67] che Dio intende anche l’idiota, il quale proferisca inter hominibus; san Girolamo professa voler abusare del parlar comune per facilità di chi legge[92]. Gregorio Magno era uno degli uomini più colti del suo tempo, amava le belle arti, come provano e gli edifizj che procurò e l’innovamento della musica; a’ suoi giorni ancora nel Foro Trajano si tenevano circoli per leggere Omero e Virgilio, come oggi a Napoli e a Roma si legge l’Ariosto. Eppure Gregorio sentenziava di affettazione il voler ridestare le tradizioni della grammatica classica; e guidato dal senso pratico, vide che quei che diceansi barbarismi non erano che trasformazione, e non esitava a dichiarare che non evitava il barbarismo e il solecismo. Or quando esso ed altri santi Padri professavano non volersi attenere alla grammatica, nessuno li supporrà così bizzarri da far errori di proposito; bensì scrivevano come si parlava dal popolo pel quale scrivevano, e farsi capire da questo premeva a loro ben più che l’evitare gli appunti dei grammatici.

A torto però si attribuisce ai soli scrittori ecclesiastici[93] il peggioramento del latino. Anche gli scrittori [68] profani rifuggivano al rancidume, adoprando fortivile, interibi e postibi, obaudire per obedire, penitudo, pigrare e repigrare, prolubium, rancescere, repedere per reddere, rhetoricare, sublimare, usio per usus. Quali abbandonavansi a incondite novità di parole, di composti[94], di desinenze, di significato: crebbero gli astratti[95]; formaronsi nuovi aggettivi[96], nuovi verbi[97].

[69]

Di desinenze cambiate offrono esempio i nomi adoptatio, ædifex, agrarium per ager; albedo, altarium, alternamentum, baptismum, cautela, colludium, concinnatio, ecc.[98] e i verbi effigiare, exhereditare, honorificare, magnificare, obviare, significare, resplenduit, ecc.

Diez (Grammatik der romanischen Sprache. Bonn 1836) fa ricche e metodiche comparazioni di tutti gli idiomi romanzi, donde appajono le trasformazioni del latino, sia successive in uno stesso paese, sia contemporanee in paesi diversi. Poi dagli scrittori della bassa latinità Gellio, Palladio, Tertulliano, Petronio, Celio Aureliano, Arnobio, Giulio Firmico Materno, Lampridio e gli altri della Storia Augusta, Ausonio, Ammiano Marcellino, Vegezio, Sulpicio Severo, i santi Gerolamo e Agostino, Marciano Capella, Macrobio, Sidonio, trae una quantità di voci, inusate dai classici, e passate nelle sei lingue romanze.

[70]

Trascegliamone qualcuna, attinente all’italiano:

Contro i solecismi non aveasi più per salvaguardia la schiettezza della favella corrente, onde dicevasi: pacem alicui tribuere; vilissime natum esse; bona opera [72] facere; peccata remittere; homo pleraque haud indulgens, per in plerisque; vita interficere; contemplatione alicujus; affectionem habere per habere in animo; profugere villam per e villa; in pendenti esse; insuper habere; erat in sermone per rumor erat; urinam facere; trahere sanguinem per genus ducere. Nè si schivavano inusati reggimenti de’ verbi; benedicere, fungi, frui, erudire coll’accusativo; incumbere, queri, renunciare, contrahere, petere col dativo; amare in aliquo, privare a re, ambire ad aliquid.

Come avviene quando la lingua e la letteratura si staccano dal supremo canone del senso comune, si sbizzarrì a segno, che un tal Virgilio Marone a Tolosa insegnava a’ suoi discepoli dodici latinità «per circondare l’eloquenza di un nuovo lustro, e non comunicare ai profani le alte dottrine che devono essere privilegio di pochi». L’una chiamavasi usitata ch’era la lingua comune; poi l’assena o abbreviata, la semedìa tra il parlar volgare e il dotto; la numerìa che alterava il numero dei nomi; la lumbrosa che allungava il discorso, adoprando quattro vocaboli invece di uno; la syncolla che invece ne abbreviava quattro in una; seguivano la metrofia, la belsabia, la bresina, la militena, la spela, la polema; tutte producendo alterazioni, di cui non conosciamo la ragione. E, per un esempio, invece di ignis, il fuoco era chiamato ardor, calax, quoquevihabis, spiridon, rusin, fragon, fumaton, ustrax, vitius, saluseus, ænon; e con questo gergo scriveansi opere di sistematica barbarie.

Un tal fatto, nuovo nella storia della letteratura latina, raccogliamo dai Classicorum auctorum fragmenta, pubblicati dal Maj, e vaglia questo esempio: Bis senos exploro vechros, qui ausonicam lacerant palatham. Ex his gemella astant facinora, quæ verbalem sauciant [73] vipereo tactu struem. Alterum barbarico auctu loquelarem inficit tramitem, ac gemello stabilitat modello, quaternaque nectit specimina: inclytos literaturæ addit assiduæ apices: statutum toxico rapit scripturæ dampno; literales urbanæ movet characteres facundiæ; stabilem picturæ venenoso obice trasmutat tenorem. Alius clarifero ortus est vechrus solo, quo hispericum reguloso ortu violatur eologium, sensibiles partimi num corrodit domescas. Cetera notentur piacula, qua italicum lecti faminis sauciant obrizum, quod ex his propriferum loquelosi in hac assertione affigis facinus[100].

Un singolare documento ci rimane nei comandi, onde i tribuni dirigevano l’esercizio militare: Silentio mandata implete — Non vos turbatis — Ordinem servate — Bandum sequite — Nemo dimittat bandum — Inimicos seque[101]. Quel bandum per vexillum, quel sequite e seque e turbatis, imperativi insoliti, corrispondono alle contorsioni, che in ogni parlare si fanno pel comando delle milizie.

Dell’anno 38 di Giustiniano conservasi un istromento sopra papiro, fatto in Ravenna e già pieno di modi all’italiana, come domo quæ est ad sancta Agata; intra civitate Ravenna; valentes solido uno; tina clusa, buticella, orciolo, scotella, bracile, bandilos[102]. Ammiano Marcellino dice che i Romani del suo tempo giacevansi in carruccis solito altioribus[103]; e carroccia per carrozza dice oggi il vulgo lombardo. La [74] Storia Miscella riferisce, al 583, che, mentre Commentiolo generale guerreggiava gli Unni, un mulo gittò il carico, ed i soldati gridarono al lontano mulattiere nella favella natia, Torna, torna, fratre; onde gli altri lo credettero un ordine di tornare indietro, e fuggirono[104]. Ajmonio racconta che Giustiniano ebbe prigioniero il re di certi barbari, e fattoselo sedere a lato, gli comandò di restituire le provincie conquistate, e poichè quegli rispose Non dabo, l’imperatore replicò, Daras; forma nostrale del verbo dare al futuro[105]. Il Maj pubblicò una glossa del grammatico Placido, che dice: Mu adhuc consuetudine est; e tuttora usiamo mo. Il De Rossi nel Bullettino Archeologico reca un epitafio anteriore a Costantino, ove è detto Spiritum Maximi refrigeri Januarius, forma ottativa per refrigeret, quale l’usiamo oggi[106].

[75]

Nell’Historia Augusta si trova vos ipse: ad fratre suo: ad bellum Parthis inferre: in Cassiodoro abbiamo pretiare per estimare; in Sidonio cassare, cervicositas, papa, serietas.

Dopo altri, il Muratori[107] adduce iscrizioni del 260, e fino del 155 dopo Cristo, cioè del tempo degli Antonini, che potrebbero credersi di età barbara, eppure contengono atti ufficiali. Un istromento ravennate del 540 è poco men rustico che uno dell’800. Per non esser troppo lunghi noi torremo solo dal lib. VI, p. 546 delle Miscellanee del Baluzio una formola del 422, che può stare con qualsivoglia de’ secoli barbari: Ob hoc igitur ego ille, et conjux mea illa, commanens orbe Arvernis in pago illo, in villa illa. Dum non est incognitum, qualiter cartolas nostras, per hostilitatem Francorum, in ipsa villa illa, manso nostro, ubi visi sum manere, ibidem perdimus; et petimus, vel cognitum faciemus, ut qui per ipsas stromentas et tempora habere noscuntur possessio nostra, per hanc occasionem nostrorum pater inter epistolas illas de mansos in ipsa villa illa, de qua ipso atraximus in integrum, ut et vindedit ista omnia superiu conscripta, vel quod memorare minime possimus judicibus brevis nostras spondiis incolcacionibus, vel alias stromentas tam nostris, quam et qui nobis commendatas fuerunt, hoc inter ipsas villas suprascriptas, vel de ipsas turbas ibidem perdimus. Et petimus, ut hanc contestaciuncula, seu planetaria, per hanc cartolas in nostro nomine collegere vel adfirmare deberemus. Quo ita et fecimus ista, principium Honorio et Theodosio consulibus eorum ab hostio sancto illo castro Claremunte [76] per triduum habendi, et custodivimus, seu in mercato publico, in quo ordo curiæ duxerunt, aut regalis, vel manuensis vester, aut personarum ipsius castri, ut cum hanc contestaciuncula seu plancturia, juxta legum consuetudinem, in præsentia vestra relata fuerit, nostris subscriptionibus signaculis subroborare faciatis; ut quocumque perdiciones nostras de supra scripta per vestra adfirmatione justa auctoritas remedia consequatur, ut nostra firmitas legum auctoritas revocent in propinquietas[108]. Il Marini adduce una carta del 564, dove leggesi uno orciolo aureo, uno butte, una cuppa, uno runcilione[109].

A questa età ritroviamo dichiaratamente il nome di lingua italiana; poichè verso il 560, Venanzio Fortunato, poeta trevisano, cantava:

Ast ego sensus inops, italæ quota portio linguæ.

Importerebbe di colmare la lacuna che resta fra il lessico del Forcellini e quello del Ducange. L’uno dà il latino classico, l’altro il latino barbaro: ma realmente nei tempi di decadenza, nel IV, V e VI secolo, si usarono molte voci, che il Ducange non appoggia che ad autorità del IX e X secolo. Il vocabolario dunque di que’ secoli toglierebbe ogni soluzione di continuità. Un buon avviamento vi diede Quicherat (Addenda lexicis latinis investigavit, collegit. Parigi 1862) aggiugnendo al Forcellini circa 7000 articoli, tolti da autori della decadenza.

[77]

§ 11º Differenze del latino dall’italiano.

In quel parlare comune, se non ce ne restasse così poco, io penso troveremmo già l’italiano nelle sue maniere e lessiche e grammaticali.

Quanto al fondo, una lingua è l’altra, giacchè quasi tutte le parole nostre son latine. Ma troppo difficile sarebbe l’indovinare perchè, di due parole viventi nel latino, l’una fosse preferita; così:

Possiamo credere avvenisse così di altre voci che ora usiamo diverse affatto, ma che forse avevano un sinonimo, non mai usato dagli scrittori che possediamo, ma passato nella lingua, come enim, nunquam, etiam, igitur, ergo, ideo.

Abbiamo mora e remora, forse v’era demora, donde il nostro dimora. Potea esservi sucursus, come cursus e recursus. Fatigare ci lascia presumere vi fosse fatica, come litigare, fustigare, navigare, da lis, fustis, navis. [78] Talvolta il nome si formò da un aggettivo, come annales e diarii sottintendendo libri; come ficatum jecur il fegato che mangiavasi coi fichi.

Dedotta una parola dal latino, se ne derivarono altre; come da obblio obbliare, da pettine pettinare, da prezzo prezzare e i suoi figliuoli; da scimia scimiottare. Talvolta la derivazione è diversa da quel che parrebbe: e p. es. posare e riposare derivano il primo da ponere, il secondo da pausare.

In alcune voci variò l’accento, come in ardere, movere, ridere, rilucere, mordere, mungere, nuocere, rispondere, ora abbreviate e più di rado allungate, come in sapere, cadere, e principalmente in nomi, quali filiolus, linteolus, cristallinus.

Il nostro avverbio in mente viene spontaneo da forme latine, avendo in Ovidio celeri mente e insistam forti mente, in Quintiliano bona mente factum, in Claudiano devota mente, e già in Virgilio Manet alta mente repostum[110].

Nella negazione punto, mica, fiore, negotta ci rimase solo la cosa a cui si paragonava; onde Plauto (Pseudolus, I. 4) neque guttam boni consilii: e Festo dice: rem nullius pretii dicimus non hecte te facio. E già nel basso latino troviamo quel vezzo nostro di unire due negative; Petronio ha nemini nihil boni facere; poi nelle formole del Mabillon: nec per meum nullum ingenium nunquam perdedit; e nel Berquigny (Diplomata, t. I. 1086) nullus non praesumat de his speciebus nihil abstraere. Il modo era greco: οὐκ ἐποίησε τοῦτο ὀυδᾶμον ὀυδείς.

Talvolta una parola cambiò senso: ammazzare non significò più uccidere colla mazza; necare fu ristretto all’annegare; tropus del basso latino ci diede troppo; [79] via dovea dirsi per volta, rimastoci in tuttavia, e un via uno.

Quanto alla forma, alla grammatica, le principali differenze consistono,

1. nell’indicare la relazione con preposizioni, anzichè col variare le desinenze; ossia surrogare le pre-posizioni alle post-posizioni degli idiomi agglomeranti;

2. nel premettere ai nomi l’articolo determinato o indeterminato;

3. nel formare coll’ausiliario molti tempi del verbo attivo e tutti quelli del passivo: smettendo cioè il verbo che esprime la passione in atto (legor), per prendere quello dell’azione in effetto (ho letto)[111].

Lasciam via alcune varietà particolari, come i comparativi, come il neutro[112], come il verbo deponente, che non falsarono l’analogia ma l’estesero, e che del resto sono sporadiche, e derivanti esse pure, per vie indicate dai filologi, da un tipo anteriore e comune[113].

Gli usi grammaticali che accenniamo si riscontrano anche in altri idiomi del ceppo indo-europeo; fra gli altri nel persiano e nel tedesco; il che autorizza a credere esistessero già nella lingua parlata a Roma[114]. Ce lo conferma il vedere come talvolta scivolassero anche nello scritto.

E prima le declinazioni sembra che, col tempo, si [80] riducessero tutte alla II, col plurale in i quale passò nell’italiano; nel quale del resto sopravvive qualche traccia di declinazioni in io e me, egli e lui, che e cui; sicchè non può dirsi un sistema innovato di grammatica[115].

Già anticamente, per esprimere le relazioni, ricorrevasi, oltre le cadenze, spesso alle preposizioni, quando per ragioni di chiarezza, quando di varietà. Quintiliano (I. 4) dice: Noster sermo articulos non desiderat; e Gellio (N. Atticæ, II. 25) che il volgare differisce dal latino perchè manca di declinazioni e della varietà di desinenze; e Nonnio reca molti esempj di preposizioni adoprate per la maggior chiarezza. Ad Augusto, Svetonio appone di scrivere meno colla retta ortografia, che secondo la pronunzia, tralasciando lettere e fin sillabe, errore comune (cap. 88); e facendo prima cura l’esprimersi chiaramente, soggiungeva le preposizioni ai verbi, e iterava le congiunzioni, alla chiarezza sagrificando la grazia (cap. 86). Di fatto nel famoso [81] suo testamento troviamo impendere in aliquam rem, invece di alicui rei; includere in carmen invece di carmine o carmini. Nè questo vezzo è raro ne’ classici:

Plauto. Filius de summo loco — Hunc ad carnificem dabo.

Terenzio. Ne partis expers esset de nostris bonis — Si res de amore secundae essent — Alere canes ad venandum.

Lucrezio. Portante de genere hoc.

Cicerone. Homo de schola — Declamator de ludo — Audiebam de parente nostro. E così

Efugere de manibus (Rosc. Am., 52).

Cæsar de transverso rogat ut veniam ad se (15. Att. 4).

Se gladio percussum ab uno de illis. (Milon. 24).

Ecco altri usi del de al modo nostro:

Ut jugulent homines surgunt de nocte latrones. Orazio, Epist.

Una pars orationis de die dabitur mihi. Plauto, Asin., III. 1.13.

Fac ut considerate naviges de mense decembre. Cic. ad Quint., 2, 5.

Vos convivia lauta de die facitis. Catullo, 47, 5.

De principio studuit animus occurrere magnitudini criminis. Cicero, Sull., 24.

E altrove:

Atticus pecuniam numeravit de suo. Cic. ad Planc.

Succus de quinquefolio. Plin., 26. 4. 11.

Orazio. Cætera de genere hoc — De medio potare die — Rapto de fratre dolentis.

Virgilio. Solido de marmore templa instituam, festosque [82] dies de nomine Phœbi — Quercus de cœlo tactas.

Fedro. De credere (in un titolo).

Ovidio. Arbiter de lite jocosa — De duro est ultima ferro — Nec de plebe deus — De cespite virgo se levat.

Plinio. Genera de ulmo.

Svetonio. Partes de cœna[116].

Negli Agrimensori si ha «caput de aquila, rostrum de ave, monticelli de terra».

In Cicerone abbiamo: Ad omnes introitus, armatos opponit — Ad meridiem spectans — Quid ad dextram, quid ad sinistram sit — Esse sapientem ad normam alicujus.

Varrone. Turdi eodem revolant ad aequinoctium vernum — Quod apparet ad auricolas.

Cesare. Magnam hæc res contemptionem ad omnes attulit.

Livio. Patrum superbiam ad plebem criminari — Incautos ad satietatem trucidabitis — Restituit ad parentes (II. 13). — Restituti ad Romanos (XXIV. 47).

Parimenti nei classici troviamo il pronome usato al modo italiano, e l’inde per l’onde o il ne nostro:

Plauto. Cadus erat vini; inde impievi cirneam.

Cicerone. Romani sales salsiores quam illi Atticorum.

Virgilio. Ille ego qui quondam ecc.

Ovidio. Stant calyces, minor inde faba, olus alter habebat[117].

[83]

E nel Vangelo: «Exiit Petrus et ille alius discipulus — Currebant duo simul, et ille alius præcurrit».

Da ciò era ovvio il passaggio all’articolo determinante[118]: ma neppur dell’indeterminato scarseggiano esempj.

Cicerone. Cum uno forti viro loquor — Sicut unus paterfamilias — Ita nobilissima Græciæ civitas sui civis unius acutissimi monumentum ignorasset — Tamquam mihi cum M. Crasso contentio esset, non cum uno gladiatore nequissimo.

Orazio. Qui variare cupit rem prodigaliter unam.

Cesare. Inter aures unum cornu existit.

Curzio. Alexander unum animal est temerarium, vecors.

Seneca. Historici, cum unam aliquam rem nolunt spondere, adjiciunt, ecc.

Plauto. Qui est is homo? unus ne amator? — Est huic unus servus violentissimus — Unum vidi mortuum efferri foras.

Plinio. Tabulam aptatam picturæ anus una custodiebat.

Plinio il giovane. Tanta gratia, tanta auctoritas in una vilissima tunica. Vedi pure Cornelio Nipote in Hannib., XIII; e Tacito, Ann., II. 30. Uni libello.

Terenzio. Inter mulieres quæ ibi aderant, forte unam adspicio adolescentulam — Ad unum aliquem confugiebant.

Del qual ultimo verso vienmi a grand’uopo un commento, appostovi da Donato mentr’era ancor viva la [84] latina lingua: Ex consuetudine dicit UNAM, ut dicimus UNUS est adolescens. Unam ergo τῷ ἰδιοτισμῷ dixit, vel unam pro quandam.

Si sa che in Omero non si trova l’articolo, onde Aristarco asserisce ἐλλείτει γὰρ ὁ ποιητὴς τοῖς ἄρθοις ἀεί. Quando lo s’incontra, ha un valore diverso. Così τῆ δεκατῆ non vuol dire il decimo giorno, ma quel giorno, che era il decimo.

In ciò forse l’imitarono gli scrittori latini, tralasciando gli articoli, ma ricompajono abbondanti nella Bibbia, come i segnacasi: Et ecce una mulier fragmen molæ desuper jaciens, illisit Abimelech. Giudici, IX. 53.

Petrus sedebat foris in atrio, et accessit ad eum una ancilla. Matteo, XXVI. 69.

Per diem solemnem consueverat præses populo dimittere unum vinctum, quem voluissent, XXVII. 15.

Et videns fici arborem unam, venit ad eam. XXI. 19.

Interrogabo vos et ego unum sermonem. Ivi. 24.

Interrogabo vos et ego unum verbum. Marco, XI. 29.

Unus autem quidam de circumstantibus. XII. 47.

Nella flessione dei verbi, delle sei forme organiche amo, amabam, amavi, amaveram, amavero, amabo, le sole tre prime ritenemmo: le altre si circoscrivono cogli ausiliarj. Ma già il verbo si trova conjugato al modo nostro. Invece del futuro usano il passato futuro, duravero, respiravero, il quale sincopato in duraro, respiraro, equivale all’odierno, o piuttosto potè formarsi coll’habeo: dicere habeo usavano, e il vulgo a dir ho, donde dirò; siccome i nostri dicono fu nato per nacque, ebbe trovato per trovò, fece offensione per offese, ecc. Parimente si ha in provenzale dir vos ai, in ispagnuolo hacere lo he; e nel greco moderno θελω pel futuro, εκω pel passato[119]. Di fatto quando [85] anticamente si diceva io abbo, io aggio, usavasi pure io amarabbo, io amaraggio; ora che si declina ho, hai, ha, si dice amer-ò, amer-ai, amer-à. La stessa coincidenza appare nel francese e nel provenzale, nello spagnuolo, nel portoghese: anzi nel provenzale antico si ha pregarai vos, o pregar vos ai.

[86]

Già nella legge longobarda di Luitprando, tit. 108, § 1, si ha: veni et occide dominum tuum, et ego tibi facere habeo bonitatem quam volueris — Feri eum adhuc, nam si feriveris ego te ferire habeo. Il Grutero porta un’iscrizione del VII secolo, che legge: Quod estis fui, et quod sum essere habetis (Nº 1062). D’origine simile sarebbe il condizionale. Or ecco esempj degli ausiliarj avere e stare:

Cicerone. Satis hoc tempore dictum habeo — Clodii animum perfecte habeo cognitum, judicatum — Bellum nescio quod habet susceptum consulatus cum tribunatu — Domitas habere libidines — Si habes jam statutum quid tibi agendum putes — Aut nondum eum satis habes cognitum? Nimium sæpe exspertum habemus — Haec fere dicere habui de natura Deorum — Bellum habere indictum Diis — Habeo absolutum epos.

Cesare. Idque se prope jam effectum habere — Quorum habetis cognitam voluntatem in rempublicam — Præmisit equitatum omnem quem in omni provincia coactum habebat — Vectigalia parvo prætio redempta habere.

Terenzio. Quo pacto me habueris praepositum amori tuo — Quae nos nostramque adolescentiam habent despicatam.

Virgilio. Quem semper honoratum habebo.

Plinio. Cognitum habeo insulas.

Lucrezio dice che alcuni filosofi errarono, «amplexi quod habent perverse prima viai». A Gellio riferisce l’editto antico d’un pretore su quelli qui flumina retanda publice redempta habent.

La legge Tres tutores porta: «Cum destinatum haberet mutare testamentum. Tale è il frequentissimo [87] compertum habere: e habere conductas. In Plauto trovo anche avere per essere, come da noi usa: «Quo nunc capessis tu te hinc advorsa via cum tanta pompa? — Huc. — Quid huc? quid isthic habet? (che ci ha?) — Amor, Voluptas, Venus, ecc.».

E Tertulliano più alla moderna: «Etiam filius Dei mori habuit — Si inimicos jubemur diligere, quem habemus odisse?» che noi diremmo ebbe a morire, abbiamo a odiare.

A Pompei vedesi scritto: Abiat Venere pompejana irada qui hoc læserit.

Nè mancano esempj di essere come ausiliario. Così Ovidio: «Quassus ab imposito corpore lectus erat» per quatiebatur: e in altri, casus esto, vinctus erit, si furtum conceptum erit, si mortuus erit.

Lucrezio. Manus et pes atque oculi partes animantis totius extant.

Orazio. Hoc miseræ plebi stabat commune sepulcrum: e in Virgilio Dum Troja staret: nondum Ilium steterat: ubi transmissæ steterant trans æquora classe; e in altri stabat acuta silex; stant belli causæ; deserta stat domus. Del quale stare ci sopravanzò stato, verbale di essere. Anzi anche l’andare come ausiliario mostrasi in Virgilio (ite solutæ) e in Orazio (dimissus abibis).

Colla lingua dunque a terminazione variata, consueta negli scritti, viveva quella a terminazione fissa che parlavasi, e che crebbe col volgere de’ secoli, tanto che nell’italiano noi ci troviamo aver conservato le parole che escono in vocale (acqua, stella, porta...), mentre a quelle in consonante appiccicammo una vocale, o ne prendemmo l’ablativo (fronte, arbore, libro...)

Il Galvani[120] mostrò che ne’ primitivi itali c’era si e [88] su, nominativo del sui, sibi, se, e che di là viene il nostro si in si dice, si vuole. In una iscrizione presso il Muratori[121] leggesi: ultimum illui spiritum, come chi dicesse l’ultimo di lui spirito.

L’aggiungere spesso le preposizioni intro e foris tiene del modo nostro: — Ingressus intro (Matteo, XXVI. 58); egressus foras (ivi, 75). Hypocritæ, quia mundatis quod deforis est calicis; (XXIII. 25). Aforis quidem paretis hominibus justi (ivi, 28, dove riconosci il nostro parere, sembrare). Exeuntes foras de domo (X. 14), pleonasmo affatto italiano. Et cum intrasset in domum, prævenit eum Jesus (XVII. 24).

Oltre i vicecasi e i vicetempi, altra differenza grammaticale dell’italiano è il risolvere col che (siccome coll’ὄτι il greco) le proposizioni dipendenti, che il latino mette all’infinito coll’accusativo. Il basso latino, o, come noi crediamo, il parlar popolare v’adoprava il quia e quod, e non ne mancano i classici[122]. La Bibbia ne offre molti esempj. — Ut cognovit quod accubuisset in domo Pharisæi (Luca, VII. 37). Prædicate dicentes quia appropinquavit regnum cœlorum (Matteo, X. 7). Spesso lo usa un autore che scriveva prima dell’invasione dei Barbari, ch’era maestro di retorica, e che pecca di affettazione piuttosto che di negligenza, sant’Agostino. Apriamo a caso le sue Confessioni, e al libro vii. c. 9, narrando come i libri platonici lo avviassero al cristianesimo, dice che in quelli «legi quod in principio erat verbum... quia hominis anima non est ipsa lumen... quia in hoc mundo erat... quia in sua propria venit.... Item ibi legi quia Deus verbum non ex carne, sed ex Deo natus est. Sed [89] quia verbum caro factum est non ibi legi... quia semetipsum exinanivit... quia Dominus Jesus in gloria est Dei patris non habent illi libri. Quod enim ante omnia tempora unigenitus filius tuus coæternus tibi, et quia de plenitudine ejus accipiunt animæ... est ibi». E così prosegue mettendo quia e quod ove i classici avrebbero messo l’infinito, e ove noi mettiamo il che[123].

Senza più dilatarci in esempj, a sovrabbondanza abbiamo veduto come la lingua latina potesse tralasciare qualche sillaba finale; facoltà conservata dalla italiana, [90] ove tronchiamo tante voci, e diciamo ardor, furo, fero, ecc. Ascoltate un contadino toscano, e vi dice a cà, mi pa, u’ o a ì? (dove ho a ire?). Di tali mozzamenti maggior uso fanno ancora i vulghi d’altre contrade. E già il facevano i loro padri all’età romana; e con ciò invece di da mihi illum panem, compendiavano da mi il pane; e Cicerone potè udire questa frase senza meravigliare o frantendere, nè sognarsi che derivasse da imitamento di Barbari.

Le somiglianze o differenze grammaticali, di cui va tenuto maggior conto che delle lessiche, ci autorizzano ad asserire che, delle principali mutazioni nella nuova lingua, nessuna fu portata da imitazione esterna, bensì da evoluzione interna e naturale.

Perocchè, lo ripetiamo, la natura non procede di salto, e ciò ch’è oggi, nasce da quel di jeri. Potreste immaginare un giorno, nel quale gli abitanti d’Italia abbiano cessato di parlare la latina per adottare la lingua del vincitore, o formarsene un gergo, barbarico affatto, e dal quale uscisse poi questa bellissima e organica favella nostra? Non ne aveano essi già tutte le parole dal latino, e tutte le forme dal greco?

Le diversità grammaticali indicano che l’italiano deriva dal latino parlato, anzichè dallo scritto. Questo svolgeasi in ampj periodi e trasposizioni; l’italiano no: quello ha flessioni variate, finali consonanti, mentre l’italiano termina in vocali, e ciò viepiù dove meno Barbari intervennero: segno che persisteva una lingua popolare, in cui era stato introdotto il lessico del latino colto, ma non la grammatica.

[91]

§ 12º Andamento consimile nelle evoluzioni di varie lingue.

Che se guardiamo ad altre favelle della famiglia indo-europea, le vedremo tutte tramutarsi da un’antica in una moderna per andamento somigliante, attesa l’identità d’inclinazione e di principj; e passare dal prisco sintetico al moderno analitico.

D’una favella possono alterarsi o l’interna struttura delle parole, o le forme grammaticali. Le parole antiquandosi tendono a surrogare alle consonanti gagliarde e dure le deboli e dolci, alle vocali sonore le sorde dapprima, poi le mute; i suoni pieni s’estinguono a poco a poco e si perdono, le finali dispajono, le parole si contraggono; in conseguenza le lingue divengono meno melodiose; parole che lusingavano l’orecchio, non offrono più che un senso mnemonico e quasi una cifra.

Le forme grammaticali, che possiamo chiamare l’anima delle lingue, di cui le parole sarebbero il corpo, col tempo si confondono fra loro, o si trascurano; s’impiegano fuor di proposito, o si smettono: onde viene un linguaggio mutilato, che, per vivere, conviene adotti organamento nuovo.

E qui rivelasi l’azione rigeneratrice; diremmo oggi, la lotta del vivere. Perita l’antica sintesi grammaticale, smesse le inflessioni, mal distinti i casi de’ nomi, i tempi de’ verbi, i rapporti che prima erano espressi dai segni grammaticali aboliti si dinotano con parole separate, per evitare la confusione; con preposizioni [92] si supplisce alle desinenze che distinguevano i casi con ausiliarj a quelle che indicavano i tempi de’ verbi; i generi si dinotano cogli articoli, le persone coi pronomi. Di tal passo dal sanscrito nacquero il pali e i diversi dialetti pracriti; dallo zendo il persiano, dal greco classico il moderno, il tedesco odierno dall’antico, l’inglese dall’anglosassone, l’olandese dal frisone ch’è affine al sassone, il danese e svedese da quello scandinavo ch’è conservato in Islanda. Così pure dal latino derivarono le lingue neolatine, e specialmente la nostra.

È della natura umana, che una parola che ricorre frequente, la si scorci per parlare più spiccio; si sostituisca un segno semplice a uno complicato: si confondano le gradazioni, si trascurino le distinzioni delicate; e questo svolgimento delle lingue non è sospeso se non quando scrittori classici fanno legge e prefiggono un canone. Il popolo tende a contrarre, a fognare, giacchè parla per parlare, non per parlar bene; e purchè una parola renda il suo pensiero, poco gli cale l’articolarla con esattezza o trascurarne alcun elemento. I’ so per io sono; gnor sì per signor sì; vello per vedilo, Cecco, Bista, Cola, Gino, dugenvenzei sono contrazioni usitatissime; la lingua de’ trecconi è una perpetua contrazione; e così la più parte de’ dialetti. L’uso vulgare confonde le desinenze che distinguono i casi e le persone; darà il genere mascolino ad un sostantivo femminile, o il contrario; dirà voi eri, voi andavi, un poca d’acqua, una libbra e mezzo; porrà l’indicativo pel soggiuntivo, il passato definito per l’indefinito, e ciò non per solecismo ignorante, come chi parli una lingua non sua, ma con regola istintiva, tal che resta comune a tutto un paese, a tutta una classe. Come dunque lo scomporsi, così il ricomporsi delle lingue tiene all’indole dello spirito umano, [93] essendo naturale il rendere con preposizioni od ausiliarj, vale a dire con una sorta di perifrasi, ciò che le modulazioni grammaticali del nome e dei verbi esprimono o male o non più. Se paragoni le lingue primitive colle loro derivate, trovi dappertutto l’accorciamento delle parole. Inoltre ciascun idioma derivato è assai meno ricco di forme grammaticali che i primitivi; il numero duale, che esisteva nel sanscrito, sparve nel pali e nel pracrito; le declinazioni, sì ben distinte nel sanscrito, si confondono nel pali, ch’è suo figlio diretto, nel quale molte voci dell’ottava seguono la prima; di rado si adopera il passivo; la conjugazione offre appena i tempi indispensabili, e uno solo risponde all’imperfetto, al perfetto o all’aoristo del sanscrito.

Come l’alterazione e lo sfasciamento della lingua si manifestano per effetti quasi simili in tutti gli idiomi della famiglia indo-europea, in quasi tutti vi si oppone lo stesso rimedio. Dove i casi divennero troppo scarsi ai bisogni del pensiero, o troppo raffinati per l’uso comune, l’eguale terminazione si adottò per casi differenti, rimovendo la confusione coll’anteporre preposizioni al sostantivo. Ai modi e tempi semplici dei verbi ne furono surrogati di composti cogli ausiliarj essere, avere, volere, fare, venire, divenire. Nel bengali, derivato dal sanscrito, se ne formano quattro modi; potenziale, ottativo, inceptivo, frequentativo, e molti tempi. Nell’indostani, dialetto più alterato che il bengali per straniere influenze, si adoperano essere e dimorare come ausiliarj, il passivo formasi con raddoppiare il verbo essere, e n’è ausiliario il verbo andare. All’antica declinazione zenda, che è conforme alla sanscrita, nel persiano moderno in molti casi si supplì colle preposizioni der, be, ez; sono composti il passato e il futuro, e la voce passiva formasi col verbo essere. Il greco vulgare perdette il passato perfetto; [94] il piuccheperfetto forma mediante il verbo avere, e il futuro mediante il volere, come in inglese; avanti al soggiuntivo pone il να, come in francese il que.

Anche le germaniche sostituirono preposizioni alla terminazione dei differenti casi; tutte si valsero degli ausiliarj dovere, diventare o volere pel futuro, il quale uso degli ausiliarj fu già conosciuto, sebbene non sempre usato da Ulfila, che nel quarto secolo tradusse in gotico la Bibbia. Altrettanto nei dialetti slavi moderni. Nell’antica lingua slavona già si trova il preterito, composto con iesmi (io sono), e due altri tempi formati con ausiliarj. Fra le celtiche, l’irlandese, che conserva i monumenti più vetusti, presenta pure forme grammaticali, mancanti a tutti gli altri dialetti, e vestigia di declinazioni, e specialmente il dativo plurale in aibh, analogo al sanscrito bhyas, e al latino abus. I dialetti bretoni e cornovalesi, più discosti dal tipo primitivo che non il gallese, hanno l’ausiliario io fo; mi a gura in cornovalese, me a gra in bretone. Il gallese esprime il passivo con terminazioni speciali; il bretone non le possiede più, e si vale del verbo essere come le lingue neolatine: il cornico sta di mezzo, conservando le forme passive del gallese, e adoperando il verbo essere come il bretone.

Anche noi nel verbo perdemmo molti tempi, e il gerundio, il supino: nei conservati si soppresse generalmente la consonante finale; gli altri si formarono cogli ausiliarj. Del passivo ci restò solo il participio passato, che serve a formare, coll’avere, i tempi dell’attivo, e coll’essere quei del passivo, contenendo però in sè la sola determinazione, mentre tutte le relazioni del soggetto, numero, persona, tempo, modo spettano all’ausiliare. Perduto è affatto il deponente. Il comparativo sparve quasi in italiano, ma già i Latini vi sostituivano il magis, come magis pius, conservato in altre lingue romanze [95] (mas dulce spagnuolo): e talvolta il plus, come plus lubens, in Plauto, plus formosus in Nemesiano.

L’analogia degli accidenti alfabetici s’incontra dappertutto. Come lavo fa lotus, così causa fa cosa; amavit fa amò. I dittonghi si contraggono, e come seibi in sibi, jous in jus, così audio in odo. Alcune lettere si ommettono, altre si aggiungono per eufonia, o mutansi secondo l’affinità di organi; talune si traspongono sì, che da metuo viene timeo; da magro gramo; da peramare bramare, da metipsum medesimo, fa verecundia vergogna, da dum interim dommentre, poi mentre. La h non fu più aspirata, sicchè divenne superflua; la j cambiossi in g; la x in s; crebbe l’uso della z.

Ognuno vede come facilmente, coi processi indicati, si venisse a fare ciò da ecce hoc, colà da ecce illuc; così da æque sic, ac si, che ne’ dialetti è ancora acsì e ixì; come e como da quo modo; da hanc horam e illam horam ancora e allora; da ad ipsum tempus adesso; da tunc dunque; da ab ante avanti; da post dopo; da retro dietro; da per hoc quid (allungamento invece di nam) l’imperciocchè; il quale da ille qualis, come nel neogreco ὁ ὁποῖος: da ecc’ille quello; da ecc’iste cotesto, cotestui, questo; da veh vai e guai, come in guasto mutossi vasto, in guado vado. Le tre forme di affermazione sì, oil, oc sono dal latino sic est; illud est; hoc est[124].

[96]

Da per tutto ci salterà all’occhio questo studio, o dirò meglio istinto del raddolcimento, manifestato col troncare, aggiungere, trasporre: nè di più si richiede per ridurre italiane la più parte delle voci latine.

Non sono abbastanza spiegate certe ragioni eufoniche, per cui una lingua predilige un tale accento, una tale cadenza, una tale combinazione di vocali e consonanti. Quando la favella si trasforma per costituirsi in linguaggio, le parole assumono alterazioni successive piccolissime, finchè incontrano una tale combinazione di suoni che resta prevalente, e determina l’indole eufonica d’essa lingua. Così l’italiano finisce le parole o piane o sdrucciole in vocali, il francese in consonanti coll’accento sempre sull’ultima sillaba e colle nasali; lo spagnuolo ha vocali chiare ma strette, mentre il portoghese le ha cupe: nell’inglese sibilano i suoni fra i denti; nel tedesco si conserva l’accento su ciascun componente delle parole e si pronunzia per tono di voce, anzichè per accento prosodico: nelle lingue semitiche abbondano suoni gutturali e fortemente aspirati. Introducendo in quelle lingue parole forestiere, queste s’acconciano al tipo eufonico.

L’alterazione prodotta dall’uso è viepiù sensibile, quanto più la lingua alterata avanza di età, e più risente delle abitudini popolari, cioè è più parlata e meno scritta. Il vecchio latino appare aspro nel rozzo numero saturnino; e tale si conservò in gran parte nello scritto: ma favellando si temperava per sentimento di eufonìa, sin a ledere la grammatica. Quest’alterazione, già operata dal vulgo ne’ bei tempi romani, e talora accettata dagli scrittori[125], io penso tenesse ai prischi [97] idiomi italici, e vorrei dedurne che la nostra lingua non originò dalla conquista germanica. Il latino volgare avea forme più povere e parole differenti dalle classiche. Da una letteratura esotica, tutta artistica, non nata col popolo nè svolta con esso, venne la lingua scritta, senza impedire che, in bocca al popolo, seguisse la legge universale del movimento, a segno che quando quella potè prodursi in iscritto, si trovò ben differente, modificata senza scrupoli filologici.

Ne segnammo le vestigia nelle iscrizioni, massime dei primi Cristiani, fatte da persone vulgari, cioè che scriveano secondo uso, non secondo grammatica; e più la coltura diminuiva, più gli scriventi s’avvicinavano alla pronunzia, piuttostochè all’uso letterario. I Padri greci continuarono a scrivere meglio de’ latini, perchè la loro lingua essendo più naturale cioè conforme alla parlata, non richiedeva molta coltura; mentre la latina, così artefatta, corrompevasi col diminuire degli studj ad essa necessarj. Oltrecchè l’uditorio de’ Greci era di persone civili, mentre quel de’ Latini componeasi spesso di schiavi o liberti o stranieri importati.

I popoli germanici importando molte voci, indirettamente ajutarono la decomposizione del latino, mentre le tradizioni e le abitudini letterarie da cui erane protetta la purezza, si corrompeano, e il negletto linguaggio delle classi incolte, di quei Casci, di cui dice Cicerone che la lingua non istudiavasi, prevaleva nell’uso all’accurato della classe forbita. Una lingua non perisce se non colla società che la parla: e qui appunto periva la società colta, e con essa il parlare accurato, e riviveva il popolare. Onde alla lingua latina si surrogarono gli idiomi neolatini in virtù di leggi intrinseche e generali, e non per particolari avvenimenti.

La filologia comparata provò che non fu sempre la [98] lingua più organica, in conseguenza la più bella, che venne ricevuta per nazionale. L’alto tedesco è incontestabilmente inferiore al basso tedesco, eppur divenne lingua letteraria dacchè Lutero lo adoprò a tradurre la Bibbia.

§ 13º Influenza de’ Barbari. Periodo di scomposizione.

Le cause di alteramento della lingua letteraria latina crebbero dacchè irruppero i Barbari, e scossero prima, poi annichilarono l’impero romano. È notevole che gli elementi lessicali germanici, divenuti parte dei parlari latini (contano da 300 voci comuni a tutti), s’incontrano egualmente in tutti questi nelle diverse regioni romane. Ciò è indizio che tale immissione è ben più antica dell’ultima invasione, e risale a un tempo quando il latino aveva ancora tanta vitalità, da non poterne venir modificato secondo le varie contrade. E forse si identificava coll’estendersi del latino fuori delle regioni natìe per mezzo delle colonie e degli accampamenti.

Ormai nessuno più crede che i Barbari fossero fiumi di popoli, che affogassero gli indigeni, e portassero non solo devastazione e micidio, ma sovvertimento generale. Fossero anche stati numerosissimi, sarebbe insolito il fenomeno d’un popolo conquistatore, che al conquistato impone la propria lingua. Nelle due Americhe le colonie antiche conservano la favella materna, mentre la conservano anche i prischi abitanti. Che se talvolta quella prevalse, ne fu causa la sua maggior coltura; come nelle colonie eoliche e doriche della Sicilia e della Magna Grecia. Pei Barbari in Italia il caso era [99] l’opposto: una gente rozza sovrapponevasi ad una colta; e se a questa imponeva le leggi sue, doveva ricorrere ad essa fin per iscriverle.

Dov’è però a notare che l’esclusivo patriotismo degli antichi idolatrava la patria favella, repudiando ogni altra. Fra le servitù che Roma imponeva ai vinti, era l’obbligo di parlar latino[126]; Claudio imperatore tolse la cittadinanza ad uno di Lisia, il quale non seppe rispondergli in latino[127]; davanti al Senato contendevasi se avventurare o no un tal vocabolo di greca etimologia, e Tiberio imperatore voleva ricorrere ad una circonlocuzione, piuttosto che dire monopolio.

Da ciò alle antiche favelle l’unità, il carattere specifico, non alterato nelle derivazioni e ne’ composti, mentre le moderne sono formate dei frantumi di varie, sicchè in un solo periodo potresti incontrar voci delle origini più disparate[128]: oltrecchè più popolare essendo la [100] letteratura, meno squisita riesce la forma. Così avvenne del latino, introdotto in paesi, la cui gente aveva gli organi abituati ad altri suoni, e lo spirito ad altra sintassi. Se, come pretende Fauriel, la lingua latina fosse stata decomposta dalle indigene di ciascun paese, dovrebb’essere riuscita differentissima, mentre da per tutto appare simile a quella de’ paesi dell’antico Lazio.

La località fu però uno de’ fattori de’ nuovi linguaggi: e per es. nell’Italia dove il latino parlavasi, le parole conservarono l’estensione; nella Gallia si raccorciarono. Ma che a generare le lingue, dette romanze perchè uscite dal romano, principal parte contribuissero i Barbari, è tutt’altro che provato. I Goti dominarono lungo tempo la Spagna, eppure a stento riscontri alcun vocabolo gotico in quell’idioma, che dall’invasione araba confinato tra le montagne delle Asturie, colla vittoria e colla croce ne discese, e s’impossessò di alcuni termini arabi, di alcuni francesi, ma in fondo rimase latino. Venezia non fu invasa da alcun Barbaro, Verona da tutti, e i loro dialetti si somigliano ben più che non il veronese col contiguo bresciano, o questo col bergamasco, o il bergamasco col milanese, separati appena da qualche fiume. E appunto un corso di acque o la cresta d’un monte frapponevasi a due linguaggi diversissimi, quant’è il toscano dal bolognese. Qui che hanno a fare i Barbari? Se l’articolo ci fosse dato dal tedesco, qualche traccia propria ne resterebbe, mentre non ve n’ha alcuno, anche de’ varj dialetti, che non si derivi e spieghi col e pel latino[129].

[101]

La lingua è tradizione, che si fa dalle madri, onde ben dicesi materna; nè gli stranieri ci hanno a vedere. Il cambiamento è neologismo, non barbarismo. Fosse anche durato l’impero, la trasformazione sarebbe avvenuta. Spagna, Portogallo, Francia hanno lingua simile all’italiana e come questa derivata dal latino, ma dal latino popolare non dallo scritto. Ora è certo che i dialetti conservaronsi fra i varj popoli, malgrado il latino; e che colà mai non fu parlato il latino proprio. Raynouard sostenne si fosse formata una lingua comune romanza, da cui derivarono le altre. Ma ciò supporrebbe che già fosse comunemente parlato il latino, val a dire che si fosse cambiata la grammatica originale di que’ paesi nel breve tempo della dominazione romana. Provasi che ciò non fu. E ripugnerebbe pure che il latino, mescolandosi [102] colle lingue originarie differenti, producesse una lingua simile in tutte.

§ 14º Periodo di formazione dell’italiano nell’età barbara.

In somma la lingua parlata scostavasi più sempre dalla scritta, fino a riuscirne due diverse; anche i Barbari conservavano la favella nazionale, ma per ispiegarsi coi vinti adottavano un gergo fra il tedesco e il latino, bilingui anch’essi. Che se in altri paesi il vinto ingegnavasi di usare la lingua del vincitore come segno di emancipazione, l’Italiano preferiva l’antica come ricordo di gloria; e il vincitore stesso che non avea letteratura, valeasi di quella del vinto. Nè solo i preti e i notaj erano latini, ma in latino furono scritti e l’Editto di Teodorico, e le sue lettere, e le leggi de’ Longobardi, sebbene sia dimostrato che queste non doveano servire se non pei conquistatori. In esse sovente alle parole latine s’aggiunge il sinonimo vulgare[130]: prova evidente dell’esistenza di questo, e che trapela anche dalle poche carte di quell’età. Nel feudalismo, i signori trovandosi diffusi nei castelli, in contatto cogli indigeni anzichè [103] coi loro nazionali, smetteano più sempre il tedesco, e diventava comune anche a loro il vulgar nostro nel parlare, il latino nello scrivere.

Quando gli studj erano così scarsi, difficile dovea riuscire lo scrivere questa lingua, mentre già in un’altra si pensava e parlava; ciascuno v’inseriva gli idiotismi del proprio paese; e, come in idioma non famigliare, vacillavasi per l’ortografia, pei reggimenti, pei costrutti[131]. Laonde ne’ rozzi scrittori di carte e di cronache è a cercare l’origine dell’italiana, o dirò meglio l’inconscio mutarsi dell’antica nella nostra favella, prima che fosse adottata per libri.

Il Codice Longobardo abbonda di modi traenti agli odierni: Rotari, leg. 218. Vadat sibi ubi voluerit: riempitivo tutt’italiano, se ne vada.

299. Si quis vitem alienam de una fossa scapellaverit. Quest’ultima voce dicesi ancora in Piemonte, come masca per strega: Striga, quod est masca. Ivi, 197.

302. Capistrum de capite caballi.

303. Pistorium per pastoje, come alla 296 sogas per soghe; alla 306 pirum aut melum; alla 345 caballicare per cavalcare; alla 382 cassinam per casa campestre; alla 387 genuculum per ginocchio.

Nelle leggi di Liutprando, alla VI, 68 occorre scemus; [104] alla III, 4, Faciat scire per judicem; alla IV, 3, In manus de parentibus suis, et in præsentia de parentibus suis; alla V, 3, matrina aut filiastra.

Il Canciani trasse dall’archivio di Udine una Legge Romana; e sia, come a lui sembra, dei tempi carolingi, o sia piuttosto un’irrazionale accozzaglia, noi, guardandola solo filologicamente, vi troviamo: Con mandatis principumIpsa uxor da marito suoProsequat cujus essere debeatSi hoc scusare potest (lombardismo frequentissimo) — Ancilla quam in conjugio prese — Ante per suam tema (timore). — De aliorum facultates male favellant — Si illa judiciaria per sua cupiditate prendere presumserit — Per fortia violaveritDe furtivo cavallo — Cujus causa minare voluerit — Ad unum de illos judices — Per sua culpa — Ad unum dare voluerit plusquam ad alium — Quod minus precium presisset, quam ipsa res valebat.

Nelle formole sulle Leggi Longobarde, dal Canciani stesso riportate al vol. V, pag. 85 delle Leges Barbarorum, incontrasi:

Petre, te appellat Martinus, quod tu comprasti decem modios de frumento.

Tu tenes sibi unum suum bovem.

Plus valebat quando tibi deditNon est verum.

Tu minasti Mariam ad aliam partem.

Volo tollere eam ad uxorem.

Invenisti unum suum caballum, et minasti ad clausuram.

De torto.

Tene tuum bovem, et da michi debitum.

Ora disponiamo, secondo la loro età, alcuni testi.

Anno 715. Il prete Aufrit interrogato, risponde: Quando veniebat Angelo de Sancto Vito, faciebat ibidem officio; et quod inveniebat a Christianis, totum [105] sibi tollebat... e termina l’interrogatorio: Sed postea quam ego presbiter factus sum, semper ego ibidem missa faciebam. Nam in isto anno Deodatus episcopus de Sena... presbiterum suum posuit uno infantulo de annos duodecim etc.... (Antiq. ital., VI. pag. 375). Orso prete disse: Vecinus sum cum istas diocias... Nam episcopus Senenses numquam habuit nulla dominatione... Iste Adeodatus episcopus fecit ibi presbitero uno infantulo, habente annos non plus duodecim, qui nec vespero sapit, nec madodinos facere, nec missa cantare. Nam consobrino ejus coetaneo ecce mecum habeo: videte si possit cognoscere presbiterum esse. Ib., p. 378.

715. Idio omnipotens. Ib., III. 1007.

Fortia patemus, et non presumemus favellare. Carta senese appresso Brunetti, I. 439.

720. Medietate de casa mea infra civitatem, cum gronda sua libera. Ant. it., III. 1003.

Garibaldus Tosabarba riceve a fitto un campo di santa Maria di Cremona, nei documenti del Troya, n. 441.

723. Post nostrum decessum, quem ivi ipsi monaci de ea consacrationem eligere ipsum aveat ordinatum. Brunetti, I. 275.

730. Et Gagiolo illo prope ipsa curte, ora præsepe. Ib., 518.

De uno latere corre via publica. Ant. it., III. 1005; bell’idiotismo toscano, ancora vivo; e così al 760, De suptu curre fossatum, et ab alio latere curre vigna. Brunetti, I. 570; e al 746: Cui de uno latum decorre via publica. Doc. lucch., II. 23.

[106]

736. Si eum Taso aut filiis ejus menare volueris, exeas. Brunetti, i. 491.

743. In via publica, et per ipsam viam ascendente in suso. E ivi stesso gambero, molino, capanna. Ant. ital., I. 517.

746. Da capo pedes sexaginta... di una parte terra... di alia parte... da capo vinea et da pede... di presente solutum. Carta di Chiusi ap. Brunetti, i, 522.

754. Mezzolombardo chiamasi un diacono cremonese nel codice del Troya, n. 683.

762. Fratellum presbiterum scribere rogavi: e nella soscrizione: Fratellus presbiter. Doc. lucch., LVI.

763. In una carta pisana: Et si ego non adimpliro ita, in ipsorum sacerdotis sia dominio hæc adimplendo. Ant. ital., III. 1009.

765. In una lucchese: Gustare eorum dava: Sua voluntate dava. Ib., 745.

766. Ita decrevimus ut per ipsum monasterium sancti Bartholomei fiant ordinata et disposita. Brunetti, i. 289.

767. Excepto silva qui fue de ipsa corte... Excepto forte Fosculi, qui fue barbano (barba, zio) ejus. Ant. ital., V. 748.

770. Hoc decerno, ut cum ipsis rebus quas vobis concido, vel pos meo decessu reliquero, siatis in monasterio, ut per singulos annos persolvere debeatis pro anima mea in ecclesia Sancti Salvatoris... per quam abueritis, reddatis in ipsa ecclesia vel ad ejus rectores in aureo soledo uno, aut pro auro, aut per circa, vel pro oleo, aut per quem volueritis in ipso Dei templo, pro anima mea reddere debeatis. Brunetti, i. 287.

[107]

Frasi italiane da un pessimo latino traspajono negli insegnamenti d’un chimico dello stesso secolo, ove si legge: Cuse ipsas pelles, laxa dissicare, batte lamina; et post illa battuta, per martellum adequatur, tam de latum quam de longum; scaldato illo in foco, batte, et tene illud cum tanalea ferrea; sed tornatur de intro in foras; dextende eum, ibi scalda, pone ad battere, sufficienter; modicum laxa stare, et lixa illud, ecc. — Imple carbonibus et decoque, ut superius diximus, josu (giuso) ligna et sus carbones. — Et si una longa fuerit vel curta, per martellum adequatur (Ant. italicæ, II. 380). Chi negherà che costui parlava italiano?

Nel musaico che da papa Leone III ponevasi in Laterano il 798, cioè nella città più colta del mondo e dal ristauratore degli studj, è scritto: Beate Petrus, dona vita Leoni pp. e victoria Carulo regi dona; dove già vedete abbandonate le desinenze, e raccorcia la congiunzione. Allora il popolo alle preci rispondeva Ora pro nos. Tu lo adjuva. Nel testamento di Andrea arcivescovo di Milano nel 903 si legge: Xenodochium istum sit rectum et gubernatum per Warimbertus humilis diaconus, de ordine sancte mediolanensi ecclesie nepote meo et filius b. m. Ariberti de befana, diebus vite sue. E quattro anni più tardi un altro: Pro me, et parentorum meorum, seu domni Landulphi archiepiscopi seniori meo, animas salutem. E altrove: Foris portæ qui Ticinensis vocatur — Ego Radaperto presbitero edificatus est hanc civorio sub tempore domno nostro...

Strafalcioni così madornali, e fra persone addottrinate come erano prelati roganti e notaj rogati, convincono che il latino non parlavasi più nemmeno fra la classe elevata; giacchè chi detta in lingua propria accorda nomi e verbi senza dar in fallo, mentre in bizzarre sconcordanze inciampa chi presume adoperarne [108] una differente. Di qui pure la durezza delle costruzioni, l’ineleganza degli idiotismi, la mancanza di spontaneità, la varietà degli stessi solecismi, attesochè non provenivano da un comune modo di favellare, ma dal capriccioso faticarsi di ciascuno per latinizzare il proprio linguaggio.

Ne è novella prova il vedere che spesso il notaro o lo storico credesi obbligato a spiegare in vulgare il nome latino. Così san Gregorio Magno circa il 594: Ferramenta, quæ usitato nomine nos vangas vocamus.

In un sermone del beato Ramperto dell’838 a Brescia, raccontasi d’una bambina che correva nelle braccia del padre gridando vulgari voce, Atta Atta, che è il tatta di cui già dicemmo.

Nella vita di san Colombano, scritta il decimo secolo (Acta SS. sec. VII, pag. 17): Ferusculam, quam vulgo homines squirium vocant (écureuil, ghiro).

Nel monaco di Bobbio (Ant. ital., II. 350): Legumen pis, quod rustici herbiliam vocant; e ancora il pisello dal vulgo lombardo chiamasi erbii, erbei, erbion.

Il monaco di Sangallo dice che i levrieri in lingua gallica si chiamano veltri.

Elgando nella storia di re Roberto: Exuens se vestimento purpureo, quod rustice dicimus campum.

Raterio di Verona: Cum calcariis, quos sparones rustice dicimus.

Nella vita di sant’Ermelando, scritta nel 700: Aderat tunc quispiam, qui dicerit nannetensem episcopum habuisse piscem, quem vulgo nampredam vocant (lampreda).

Incmaro (tom. II. p. 158), Bellatorum acies, quas vulgari nomine scaras (schiere) vocamus. — Tanta dedit militibus, quos soldarios vocari mos obtinuit.

Lo stesso nella vita di san Remigio dice che questo [109] diede a re Clodoveo plenum vas, quod vulgaris consuetudo flasconem appellat, de vino quod benedixit.

In un decreto della contessa Matilde: Casa salariata, a petra et a calcina seu arena constructa (Ant. ital., I. 489).

Nel 941: Subtus vites que topia vocatur. Rer. ital. script., I. 953.

Gran conto si fa dei numerali nello stimare le somiglianze fra le lingue. Or eccone qualche esempio:

715. Habeo annos plus cento. Ant. ital., VI. 379.

730. Soldos trentas, III. 1004.

767. Casa quod in cambio evenne locus qui vocatur cinquantula, 145.

777. Persolvere debeamus uno porco, uno berbice, valente uno tremisse. I. 723.

804. Debeamus uno soledo argento. III. 1019.

816. In una carta pisana: Quarta petia cum vitis in dullio, avent in longo pertigas quatordice in traverso, de uno capo pedis dece. Secunda petia cum vitis in long, perticas nove in traverso, de uno capo duas pedis, cinque de alio capo.

914. In una lucchese: Numero tre.

Meglio che una lunga serie di voci è valutato dai filologi il trovare le alterazioni di nomi, inusitate alla latina, e proprie della favella odierna. Recammo qui sopra più d’un esempio dell’i efelcustico preposto alla s impura. I Documenti Lucchesi ci danno all’anno 726 iscripsi per scripsi; al 749 istabilis presbiter; al 772 iscriptor, ed hec meam offensionem firmam et instabile valeat permanire. Poi abbiamo:

747. In loco qui dicitur Castellone. Doc. lucch., II. 24.

754. De suprascripto casale Palatiolo. Brunetti, I, 550. Trattasi di san Pietro in Palagiolo a Lucca.

Locus qui vocatur Palagiolo... abeat in simul [110] casa Magnacioli; e al 977 terra quæ esse videtur Orticello. Doc. lucch., II. 154.

775. Reddere uno porcello annotino. Ib.

781. A Pavia per silvam de Mallo, et inde in collinam. Ant. ital., V. 86.

828. In fondo Veterana Casale, qui vocatur Granariolo. Doc. Lucc., II. 142.

975. A Pisa, de omnis nostris casis et casinis. Doc. lucch., III. 41.

1092. Res quæ rejacent juxta ponticelli Rodani. II. 186.

1196. Guiglia Balzana quæ est in Gotticella. 90. Nell’inventario dei beni del vescovado di Lucca all’VIII secolo: Reddit de una orticello den. VI. Urso de una crotta et de uno orticello den. XII... In Elsa, casa dominicata, kanava, et granario, fenile, curte, et orto, ecc.

Ripigliando il nostro andare cronologico, troviamo:

770. Hic Luca propter chrisma nos mittebant (è l’idiotismo nostro mandare per una cosa) ad tollendum ab episcopo, et cavallicaturam cum ipsis presbiteris faciebamus. Rogito in Collina. Brunetti, I. 612.

771. Uno capo tene in vinea de filio qm. Lopardi. Ib., 73.

777. Et si nos parati non averemus; et nos redderemus ipso capital in integro, licentia aveatis tu, aut tuos heredes supradicta terra avire, et dominare. Ant. ital., III. 1014. Di quest’anno riferisce il Muratori un istrumento, ove molti testimonj son firmati con nomi all’italiana. (Ib. II. diss. XXXII).

780. Calsato e vestito trovo presso il Barsocchini, ove pure donna per domina al 778, desti per dedisti [111] all’839, nera all’873, sunnominato al 962. Carlo Magno, l’anno che calò in Italia, faceva all’abate di Nonantola una donazione ove si legge: Hanc vera paginam Ortuino notario a scrivere tolli (tolsi a scrivere), et roboriada con testibus complevi. Ant. ital., V. 649. In Agnello da Ravenna, scrittore del IX secolo, che adopera banda per schiera, siclum per secchio, ecc., è raccontato che, mentre esso Carlo pranzava colà da Grazioso arcivescovo, questi gli diceva Pappa, domine mi rex; e poichè l’imperatore non capiva questa parola, gli spiegò che pappare vuol dir mangiare. In altri documenti presso il Muratori leggiamo colonna, rio torto, allegro, piccioni, conquisto.

785. Respondebat joannes cum fratello advocato suo... Et per singulos annos gustare eorum dava in ipsa casa. Doc. lucch., IV. 118.

786. Sicut promise diligentibus sivi... tunc siamus compenituri... hanc cartulam iscrivere rogavi. Doc. lucch., IV. 121.

796. I scio Ascansuli pater istorum esse (i’ so). Ant. ital., III. 1015.

805. Via currente de medio die et sera.... alia terra aratoria campiva... apparuit quod pars ecclesie pegiorata non recepisset. Lupo, I. 637.

806. Una petiola de terra mea vidata posita inter fines da mane Deusdedit de Bonate, et da monte viam, da medio die et sera fines nostre basilice. Ib. 641.

808. Per singulos annos reddere debeamus vobis una turta, duo focacie bone, un pullo et animale, valente dinari septe. Doc. lucch., II. 209.

[112]

815. Mihi dedit ad lavorandum quondam Ghisprando negotiante. Ant. ital., I. 568.

819. Licentia abeatis vos nobis pignorare bovi, cavalli, serbi, sive alia pignora nostra, quali a nobis jungere potueritis. Doc. lucch., II. 257.

827. Et insuper admonuit, ut ipsa causa diligenter inquireret, et ea secondo leggi vel justitia liberare fecisset. I. 481.

831. Minuti noi Lombardi diciamo i ricolti minori; e un documento lucchese dà: Et quarta parte de lavoro minuto, lino, fasiolo seu vecia.

836. Nel capitolare di Sicardo principe di Benevento (ap. Peregrini, Hist. princ. long., pag. 75) si trova Neque per exercito aut cursas, neque per scammeras — De aliis personis vel rebus habeat sicut proprium suum menandum et gubernandum — Si quispiam militem ligare aut battere presumpserit — Et si quispiam homo super furtum inventus fuerit, et non dedierit manum ad prendendum se — Non abeat licentiam a partibus foris civitatem cavallum aut bovem comparare.

847. Ipsa terra casata, et due pecie de terra curtiva... quod pertinet de ipso visitando valleringasco. Lupo, i. 728.

866. Tibi trado et vendo cum cesis et fossis. Doc. lucch., II. 476. In Lombardia diconsi sces le siepi, come dicesi topia il pergolato, che trovammo qui sopra.

877. In presentia bonorum hominum presi vestitura de res illas.... sic vestitura preserunt. Cod. Dipl. lomb.

898. Quarta pecia ubi dicitur Pradello... quinta pecia [113] ubi dicitur Runculo... prima pecia est in loco ubi dicitur Busariola. Lupo, i. 1077.

902. Potere approvare. Doc. lucch., II. 476. E al 928 Sotto monte; al 983, montanino; al 984, ingordo, detto a proposito di misura: ad legittima galletta et non ingorda, che in lombardo dicono agordo.

960. Nell’archivio di Montecassino è una carta del 960 contenente una sentenza di Arigiso, che giudica in favore di quel monastero per una lite di confini. La deposizione de’ testimonj è in pretto vulgare. Il giudice propone ad essi che testificando dicant: Sao che chelle terre per chelle fini che contiene, per trent’anni le possete parte Sancti Benedicti (Gattola, Accessiones). In un’altra dei primi anni del 900: Sono pront di obedire et facere lo che me comanda lo dicto iudice Opizone.

988. Et ille quarta dicitur Longovia.... et ille quinta dicitur Fossa.... in loco et finibus ubi dicitur Campo Calderale. Doc. Lucch. Questo ille è l’articolo: onde in un livello di beni di casa Rinuccini nel 1003 s’indicano varie pezze di terra, illa una in loco Ponano, illa alia in loco Versinne, illa terza pezza in loco Ordinnano. — Ricordi storici del Rinuccini, p. 83. Monsignor Fontanini, Dell’eloquenza italiana, lib. II, diede una vita di san Pietro Orseolo del decimo secolo, dove si legge: Abba, rogo, frusta me; e poi: Credule mihi (credilo a me).

Molti nomi di luoghi trovansi affatto italiani, oltre i già addotti:

715. Ecclesia sancti Antonii De Castello. Ant. ital., V. 377.

[114]

767. Fundum centu colonna, qui vocatur Runco. Ant. ital., III. 890.

— In una carta bresciana; Donna Anselberga, abatissa monasterii sancti Salvatori, in loco qui noncupatur Rio Torto, uno capo tenente in ipsa chesa, et de alio capo Ioannes etc. Ib., II. 219.

772. Monasterio Sancti Petri in loco qui dicitur Monsverde. Brunetti, i. 282.

774. Silva nostra cum corte, quorum vocabulum est Montelongo. Ant. ital., I. 1003.

776. A tramuntanu Riu rosso, II. 199.

781. Deinde in locum qui dicitur La Verna, III. 86.

783. Monasteriolum in loco La Ferraria. Diss. XXXII.

799. S. Cassiani finibus Castellonovo. Doc. lucch., II. 163.

807. Vendo tibi una casa mea massaricia, quem habeo in loco Pulinio, ubi resede Ouriprandulo massario meo. Ib., 208.

819. Una petia de terra quod est saliceto, quæ est ubi dicitur a rio Tiola....et alio lato tenet in padule. Ib., 259.

822. Et ponimus in ista sorte petiole ille de vinee qui dicitur da Baraccio in integrum, et medietate de vinea nostra, ad Pastino. Ib., IV. part. II. app. p. 32.

843. In locum quo nominatur Casa alta, leggesi in un mattone trovato in San Faustino di Brescia.

879. Intra hanc civitatem Mediolani, non longe a foro publico quod vocatur Assemblatorio. Ant. It., III. 774.

883. In loco qui vocatur Fontane comitatu brixiensi. II. 205.

891. Concedimus in præfato monasterio, pro mercede animæ nostræ vadam unum in Pado ad piscandum, [115] ubi nominatur Caputlacti, habentem terminum superiorem in Cocuzo Gepidasco. Ant. ital., III. 44.

896. Domum novam quæ vocatur Masons. I. 454.

898. In loco qui dicitur Venero Sassi, V. 604.

940. Costantino Porfirogenito dà a Benevento e a Venezia il nome di città nova. De admin. imp., c. 27 e 28.

944. Decimus de Villa quæ vocatur Casale grande. Ant. ital., V. 204.

948. Totum et integrum fundum qui vocatur Due Rovere. II. 475.

957. Dagiperto vescovo di Cremona permuta alcuni beni, fra cui Roca una, idest monticello. Odorici, Cod. dipl.

964. Una cappella in comitaua brixiensi, locus ubi dicitur Casal alto. Dionisii, Vet. Ver. agri topog., diss. XXIII.

967. Valle quæ dicitur Torre. Ant. ital., V. 466.

970. In un placito si rammenta che Ottone fece in Ravenna fabbricare un palazzo, penes muros qui dicitur Muro Novo.

972. In fundo qui dicitur Bagnolo. Ant. ital., III. 494.

— In un placito del marchese Oberto d’Este, nelle Antichità estensi, par. I. Piscina quæ dicitur Pelosa de manca et alia parte ascendentem per fossatum qui dicitur Romdeso.

991. In un catalogo dei possessi del vescovo di Lucca: Alio capo tenet in terra Bonafedi... uno capo in terra del Cavatorta, alio capo in terra Signorecti... campo in via Mezana... alio lato in terra qui fuit qd. Ughi da S. Miniato: in loco casale quod est boscho; alio capo in terra del Wamesi... uno capo in terra del Manciorini.

[116]

E in un altro catalogo contemporaneo: Terras et vineas cum bosco; In Col di carro dimidiam masiam... Anselmuccio casam unam. Nella già citata vita di san Colombano, un monte presso Bobbio è denominato in lingua rustica Groppo alto.

994. Sancta Maria da li Pluppi. Ant. ital., II. 1035.

1005. In loco prope ecclesia Sanctæ Juliæ, ubi dicitur Fondo maggiore, III. 1069.

1023. Nella Permutatio de Monte Cretactio nelle Regesta Permana: Ipsam meam curtem de Moteriano... et in ipso colle de la curte... da capo terra de singulis hominibus; da pede litoris maris. Ivi stesso in carta del 1010: habet finem da capo, rigo qui dicitur fluvio; da pede cum littore maris.

1026. Quædam bona in civitate Placentiæ, ubi dicitur Campagna. Ant. Ital., V. 679.

1029. Prope loco qui dicitur a le Grotte. Annali camaldolesi.

1034. Monasterium sanctæ Dei Genitricis Mariæ, quod dicitur Maggiore. Testamento dell’arcivescovo Ariberto, ap. Puricelli, Mon. basilicæ Ambrosianæ, p. 370.

1041. Integram terram nostram al Pojo dictam nel orto de predicto monaste. Ricordi storici del Rinuccini.

1047. Carta di vendita in loco et finibus Selva longa, cum via andandi et regrediendi. Ant. ital., II. 1033.

1052. Fine al capo del monte. Ant. estensi, part. I. c. 24.

1058. Scilicet a mane flumen quod dicitur Gallicus, a meridie strada quae dicitur Claudia, a sera [117] via quæ ducit per Albereto et in josum (in giù) per zesen usque ad limitem quæ dicitur de Ploppe. Ant. ital., III. 242.

1068. Juxta flumen quod dicitur Gambacanis. II. 680.

1075. In loco qui dicitur Barche. I. 581.

1078. In loco et finibus Colignole campo de l’Arno. v. 680.

1084. De rebus illis quæ videntur esse ine la plebe di Radicata. II. 269. (Avverti l’in nella del vulgo odierno e de’ trecentisti).

In una carta côrsa del 900: In loco ubi dicitur lo Cavo tutto lo suo circulo, quomo est terminato et circumdato da ogni parte de nostro proprio allodio... sicut sunt terminate de pied in Ficatella in Busso, et mette alle saline, et mette allo livelli, et mette in via publica.

In un’altra pur côrsa del 936: Uxor de domino Gulielmo, la quale habitabat ad locum ubi dicitur a Cocovello di lo plebajo di Ampogiano. E vi è sottoscritto: Actum ad S. Luciam de la Bachereda: e in una terza del 951 Rosanello del Querceto, Raynuccius de Monte d’Olmo, Johanello Sambuchello.

In una del 981: Terminata per terminis da piede, lo ponte della Leccia, et da capite lo castellazzo, ex latere la strada et lo molino et lo Gargalo de casa Luna... Item damus vobis lo piano dello cerchio.

E in una del 1039: — Concedo allo dicto monasterio... Harnosa col poccio arenoso; et lo podio delle mortelle, quomodo sunt terminata da via pubblica, et mette alla Bertolaccia et descende per senone usque in Petra rossa, et mette in Gargalo cacciapanio, et drietro Sancti Marcelli, et mette in mare.

Il Trucchi adduce istromenti, ove son nominati Rio freddo (1092) e Casanova; Rocca dei Cori (1052); il [118] potere delle querce (900); Fonte buona (800); una tenuta a Cintoja (724).

In simil modo le persone son nominate per mestieri o per soprannomi all’italiana.

761. In una carta lucchese (Mem., doc. 54): Alpergula de Lamari; Gunderadula qui est in casa Baronacci cum due filie sue; Teodulo de Monacciatico, consulo de Serbano... Uno filio ed una filia nomine Visilinda, Ratpertula de Tramonte, Gaudoperto pristinario (voce di derivazione latina, non più intesa in Toscana, e viva in Lombardia); Liutperto vestorario, Mauripertolo caballario, Martinulo clerico, Gudaldo cuocho, Barulo porcario, Ratcansulo vaccario, ecc.

822. In un placito di Limonta: Johannes qui vocatur Peluso; Johannes Russo. E in una carta milanese dell’anno stesso: Ursulo qui Mazuco vocatur; Bonellus qui dicitur Magnano.

905. Berengario donò a un monastero i beni di Johannem, qui alio nomine Bracacurta vocitatur.

921. Rosanello dal Querceto. Ant. ital., II. 1064.

999. In un decreto di Ottone III imperatore: Arderici de Magnamiculo (Magnamiglio). VI. 317.

1061. Arardo qui vocatur Alegneto; Johannes qui vocatur de la Valle. V. 640.

1079. Aldeprandus qui Bello sum vocatus. I. 322.

Il Petroni nella Storia di Bari (Napoli 1858) trova nel 1075 i cognomi Mangiaviti, Manimarzo, Scolmaotre, Vinivendule, Rapinoce, Novepani, Garofolo, Maniapecuro, Navicella, Azuccabello.

Crescono tali cognomi dopo il 1100. Nel 1126 troviamo Hildeprandus Papatacula (Ant. ital., III. 1142). [119] Nel 1136 Per quem filii Grimaldelli tenent; nel 1140, Cagainos era console di Milano; nel 1141, Albericus Grataculum (IV. 714); nel 1153 Benteveniat giudice; nel 1155, il Guerzo; nel 1168, Ugo Boxardo de Novaria; nel 1170, Boso, Tosabò; nel 1177, Maladobatus de Placentia; nel 1181, Musso Circamondo è in carta lodigiana: al colloquio di Piacenza del 1183 è firmato Grimerius Co de porco (Ant. ital., IV. 291). Nei testimonj al giuramento fra Lodigiani, Cremonesi, Milanesi, Bresciani, Bergamaschi del 1167 (ap. Vignati, pag. 126) compajono Albertone Buca de torculo, Otto Malalberghi, Lanfrancus de Pescarolo, Albertus de la Ecclesia, Salamus de Galiardis, Tetavaca, Conradus Grataculum, Basacaponus, Odeprandus Verza, Zanebonus Caga in pozo, Guidotus Polentonus, Squarzaparte, Bertrame Scacabarozo, Albertus Pocaterra, Jacobus de la pusterla. Altrove abbiamo, nel 1183, un Brosamonega; nel 1184, Nicola Bragadelana; nel 1198, Dexedatus de Solbiate; nel 1199, Interfuerunt testes ser Guifredus Grassus, ser Martalliatus de Melegnano (Giulini, ad annos). A Genova nel 1228, Mezzabura, Molinaro, Pedeorso, Scurlazuca, Zoppo; nel 1229, Parpajone; nel 1232, Strejaporco; nel 1251, Banchiere, Belmosto, Bencivegna, Cavaronco, Falamonica, Ligaporco, Manjavaca, Menabò, Pizzamiglio (Liber juris).

Abbastanza ci apparve come le preposizioni e gli articoli alla moderna abbondassero: pure scegliamo altri esempj fra gl’innumerevoli:

528. Rivulus qui ipsas determinat terras, et pergit, ipsus finis... per ipsam vallem et rivulum vadit.

552. Calices argenteos II... ille medianus valet solidos XXX, et ille quartus valet solidos XIII.

[120]

629. Illi Senones... persolvant de illos navigios... Ut illi negociatores de Longobardia.

721. Dono... præter illas vineas, quomodo ille rivulus currit... totum illum clausum.

753. Dicebant ut ille teloneus de illo mercado ad illos necuciantes. Presso Raynouard, De la langue rom., I. 40, e nel Muratori, Antiq. It., diss. XII: Una ex ipse regitur per Emulo, et illa alia per Aripertulo.... Ipsa prænominata ecclesia....

760. Manifestum est mihi... quia stetet inter me et venerabili Peredeo ut cambium de casas massaricias inter nos facere debuerimus. Doc. lucch., V. 26.

847. Vel da omnes homines vobis defendere non potuerimus. II. 389.

853. Sicut consuetudo fuit da ipsa casa. 424.

898. Has predictas casa et cassina seo rebus superius dictis... quod est inter totas per mensura ad justa pertica mensuratas mediorum quinque in integrum ab te eas in comutationem recepi. 630.

910. Homini illo qui ipsis casi et predicta ecclesia da nobis in beneficio abuerit. III. 57.

961. Nel testamento di Raimondo I, conte di Rovergue: Dono ad illo cœnobio de Conquas illa medietate de illo alode de Auriniaco et de illas ecclesias... Illo alode de Canavolas, et illo alode de Cruclo, et illo alode de Pociolos, et illo alode de Garriguas, et illo alode de Vinago, et illo alode de Longlassa, et illos mensos de Bonaldo, Poncioni abbati remaneat.

In un livello del 1033: Manifestum sum ego Theuderico filio b. m. Ildebrandi, secundum convenenza nostra, et quia dare atque abendum et cassina ibidem levandum, et per hominem tuum ibi resedendum... [121] idest terre pezze tres, quæ sunt posite illa una in loco Poccano, et illa alia in loco Versinne ubi dicitur Salingo, et illa terza pezza in loco ordinanna ecc. (Ricordi storici di Filippo di Cino Rinuccini. Firenze 1840).

Qui ille fa appunto le veci di il, lo, le, l’una, l’altra. L’ipse fu adottato dai Sardi, dicendo so invece di lo[132].

Del verbo sostantivo, declinato all’italiana, ecco altri casi: Doc. lucch. al 732, Semper nobiscum sia; al 786, Eravamu; al 992, Una petia de terra quod è sterpeto; e al 999, Retta fu per Gualperto massario.

Che che ne sia delle diffamate carte d’Arborea, nell’archivio di Pisa ne esiste una del tempo del vescovo Gerardo, che morì nel 1080, dove, tra molt’altre vestigia d’italiano, si trovano parole con suffissi; p. es. et ego donolislu, ed io donoglielo; de levarelis teloneum, di levargli teloneo; de facerlis justitia, di fargli giustizia; ego faciudelis carta, io fecigli carta, et fecila pro honore de omnes amicos meos, fecila per onore di tutti gli amici miei.

In fronte al volume V dei Documenti lucchesi fu dal Barsocchini messo un piccolo dizionario delle voci e modi italiani che vi si riscontrano[133], e da carte precedenti o vicine al Mille scegliamo i seguenti modi e vocaboli: abitatori in plurale; acquaticcio per luogo dove l’acqua ristagna; al pari, altercagione, assalto, avere co’ suoi declinati avea, avendo, avente (per es. nel 997 Cum duo libelli, quos abeba fatti); exungia pel grasso d’animali, sugna; baroccio, bifolco, bigoncia misura di vino; briga e brigare; buonafede, mura a pietre et calcina et a rena construite; caldararo, canapajo, canova, cantone, capanna murata, castagneto, [122] cerreto, commare; ille in cui nos ecc. Ildebrando dalla petra da dosso, duomo, fenile, filiastro, guardare e riguardare, imboccare, inante, involare, in ultimo, ivi, lamento, legname, luccio pesce; mandrile, miccio e merlo animali; molino, moaetario, torre muzia; necessario per latrina; uno pario pulli, homo parmisiano, pogio, porcile; potere co’ suoi declinati possa, possiamo, se puoti; riposterio, roncare, ruscello, scaldare, segatura, setacciare, socero e socera, staccare, torto per ingiustizia, trasmontana; e così i diminutivi Anselmuccio, casalino, carboncello, collina, fiumicello, fontanella, monticello, ponticello, stanza con stanziola e stanzetta; e i numeri sette, nove, diece, undici, tredici, quattordeci, quindici, venti, dugento, cinquecento.

§ 15º Periodo d’organamento.

Siccome Romani erano chiamati dal conquistatore tutti i vinti, così romana o romanza fu detta la loro favella non solo in Italia, ma dovunque a colonie latine si sovrapposero i Barbari[134]. Riprotestiamo d’esser [123] lungi da quelli che credono una lingua romanza fosse parlata in tutta l’Europa latina; fatto da nessun documento provato, e dall’analogia smentito. Se latino non parlavano le provincie neppure ai tempi più robusti dell’Impero, allorchè da Roma vi andavano e leggi e magistrati, quanto meno dopochè furono inondate da popoli di vulgari differenti e incolti?

Papa Gregorio V nel suo epitafio del 998 è lodato perchè

Usus francisca, vulgari et voce latina,
Instituit populos eloquio triplici.

Ambrogio vescovo di Patti in Sicilia nel 1081 fa stendere una carta di memoria nel linguaggio officiale, che è tradotta in vulgare pel popolo.

Verso il 1090 Augerio vescovo di Catania concede ai catecumeni che non sanno di greco e latino di rispondere in vulgare all’amministrazione del battesimo.

Troppo m’è dubbia l’iscrizione che il Baruffaldi reca, nella prefazione ai poeti ferraresi, del mile cento trempta cinque nato: ma qualcuna se n’ha di quell’età a Pisa. Quella del Duomo del 1068 porta:

Anno, quo siculas est stolus factus ad horas; e fare stuolo è modo affatto italiano. Alessandro da Morena (Pisa illustrata, p. 303) dà come esistente sulla verrucola in un bastione verso ponente quest’altra:

A di dodici gugno MCIII.

Sebastiano Ciampi trasse queste due dal Camposanto:

[124]

Biduinus maister fecit hanc tumbam ad domn Giratium.

Hore vai. p. via. pregando dell’anima mia si come tu se ego fuit sicut ego fu tu dei essere.

Biduino lavorava nel 1180.

Il latino fin al VII secolo si accorge ch’era parlato; dappoi non è che affettazione dello scrivente, è lingua morta; nei libri scritti del XII secolo perdette ogni sapore antico, e parole, costrutti, frasi sono alterati in modo, da far accorgere che lo scrittore traduce il suo pensiero da una differente favella. Quel che sapevano di latino poteva farli schivare le flessioni popolari e le parole nuove, ma non i costrutti e la collocazione di parole speciali a ciascun dialetto, in cui pensavano e parlavano.

Questa lingua vulgare in Italia teneva molta conformità col latino letterale; talchè Gonzone, italiano del 960, dice che nel parlar latino gli era talvolta d’impaccio l’abitudine della lingua vulgare, tanto a quella somigliante[135]. Talvolta ancora lo storico pone detti vulgari in bocca de’ suoi personaggi[136], o lasciasi per [125] abitudine cascar dalla penna idiotismi e frasi, quali usavano nel parlare casalingo, e che ritraggono non meno dell’ignoranza dello scrittore, che del paese ond’egli è. Tutte prove che già era distinto il linguaggio nuovo dall’antico.

Il domandare però quando la latina lingua nell’italiana si trasformasse, equivale al domandare in che giorno un fanciullo diventò giovane, e di giovane adulto. Ai pochi scienziati tornava comoda e gradita una lingua comune, per cui mezzo partecipare i loro pensieri anche a quelli d’altra nazione; onde coltivarono il latino, negligendo i vulgari. I signori avranno trattato gli affari in dialetti tedeschi; ma quando aveasi a ridurli in iscritto, ricorreano a cherici nostrali, che si servivano di quel gergo da loro chiamato latino; gli istrumenti stendevansi da notaj colle formole antiche; in latino erano dettate leggi e convenzioni; nè verun grande interesse spingeva ad educare la lingua vulgare. Le prediche possiam credere fossero capite dalla gente comune, come sono oggi quelle che, per mezza Italia, si recitano in lingua diversa dai dialetti: qualche volta però il predicatore esponeva in latino, poi egli stesso o un altro spiegava in vulgare. Nel 1189 consacrandosi Santa Maria delle Carceri, Goffredo patriarca d’Aquileja predicò literaliter et sapienter, Gherardo vescovo di Padova spiegò al popolo maternaliter[137]. Nel 1267 assolvendosi il Comune di Milano da censura incorsa per aver aggravezzato beni d’ecclesiastici, vien letto l’atto in presenza di molti congregati, primo literaliter, et secundo vulgariter, diligenter per seriem de verbo ad verbum[138].

[126]

E già poco dopo il Mille riscontriamo scritture, che non per qualche solo accidente, ma in intero sono a dire italiane. Il Federici, nella Storia dei duchi e ipati di Gaeta, produce un ritmo del 1070, molto per verità confuso, ma dove appariscono forme italiane. Incomincia:

Eo, Sinjuri, seo fabello lo bostro audire compello

De questa bita interpello, ed dell’altra bene spello

Poiche un altu meo castello ad altri biarenu bello

Et me becendo flagello: et arde la caude se be libera

Et altri mustra bia del libera...

Al 12 dicembre 1095 il conte Ruggero concede al monastero di San Filippo di Fragalà alcuni feudi, con atto steso in greco, e pubblicato dallo Spata: vi va unita una traduzione o piuttosto riassunto in vulgare, fatto certamente per uso de’ vassalli, e probabilmente contemporaneo. Dice: «Conti Rogeri di Sicilia et di Calabria, ayutaturi di li christiani. Impero hi scelliysti lu divinu amuri di la pichulitati di li tenniriti di li ungi et di exiri a la vita monastica et viviri silenziusamenti et quietamenti et praticando secundu lu dictu di lu apostulu di nocti et di jornu petendu et pregandu lu signuri deu pir lu sthabilimentu pachificu pir tuctu lu populu christianu adunca ricolligasti bene plachenti a deu....».

Nella base del campanile di Reclus presso Forogiulio nel Friuli sta scolpito:

MCIII XP. DM. fo començat lo tor de Reclus lo primo di de gugno pieri et toni so fradi di Yia.

Cioè: «1103 Christi Domini, fu cominciato il campanile di Reclus, il primo giorno di giugno. Pietro e Antonio suo fratello di Uja». Si impugnò questa data: ma il Piloni nelle Storie bellunesi riferisce, sotto al 1196, uno [127] scritto latino, nel quale si trovano questi versi, allusivi ad un avvenimento di quell’anno:

De Casteldart havì li nostri bona part;

I lo zettò tutto intro lo flume d’Art:

E sex cavaler de Tarvis li plui fer

Con se duse fe i nostri presoner[139].

L’iscrizione sull’angolo esteriore della stanza del tesoro di San Marco presso alla mirabile porta della Carta a Venezia, male dal Gamba riferita al X secolo, e dal Cicogna al xiii, parrebbe della fine del XIV, e dice:

L’om po far e

die in pensar

e vega quelo

che li po inchontrar.

Più certa è questa sepolcrale:

MCCXIX de sier Michiel Amadi franca per lu e per i so heredi[140].

[128]

In S. Fridiano di Lucca è una tomba marmorea con quest’iscrizione:

[129]

Discendenti di ser Aldobrandino

E del suo fratello Paganino

Giaceno in questo lavello

Per lor fatto sì bello

Ditti figliuoli Guidiccioni

Preghiamo Dio che lor perdoni.

Questo è per li maschi fatto

Per le femine l’altro.

In MCCXC

Ajutili la Vergine santa.

Il Molini copiò dalla biblioteca dell’Arsenale di Parigi una cronaca di Pisa che finisce al 1175, e dove si leggono frasi come questa: Plus de trecente milia inter milites et pedites et arcatores et balestreros per andare et prendere et subjugare Damasco et tota terra paganorum, per stare mai sempre in terram jerusalem et tota terra Christianorum. E altrove: Tunc fuit ibi sconficto per fame et mortui più di CC milia (Documenti di storia italiana).

In una carta del 1122 presso l’Ughelli (Italia sacra, archiep. Rosianen., tom. IX) i confini sono determinati così:

Incipiendo da li Finaudi et recte, vadit per Serram sancti, et la Serra ad hirto (ad herto) esce per dicta Serra Groinico; e li fonti aqua trondente inverso torilliana; e esce per dicto fonte a lo vallone de Ursara; e lo vallone Apendino cala a lo forno, et per dicta fiumana ad hirto ferit a lo vallone de li Caniteli, et predicto vallone ad hirto esce supra la Serra de li Palumbe a la Crista cussa; et deinde vadit a lo vado drieto da Thomente, et dieta ecclesia sancto Andrea abe ortare unum, et non aliud. Et dieta Serra Apendino cala a lo vallone de Donna Leo; et lo vallone Apendino ferit a [130] l’aria de li Meracieri et ferit a la Gumara de li Lathoni ecc.

Nel 1144 i consoli di Bergamo concedono agli uomini di Ardesio di tagliar legna per le cave del ferro, salva cacia seu venatione episcopi; ma che non debent tra se conversare ut damnum episcopus patiatur. Ap. Lupo.

Nè tanta parte d’italiano basta. Il Muratori trasse dagli archivj côrsi scritture di data corrotta (e già le accennammo), ma che la conformità di nomi metterebbe al 900, e sono in vero italiano. Che un notaro ricopiandole le vulgarizzasse, sarebbe pratica insolita: oltre che il notaro il quale le trascrisse nel 1354, dice averle tratte dall’autografo de parola in parola come si contiene qui appresso; nè il Muratori trova altra ragione onde diffidare di loro antichità, se non l’essere in italiano; circolo vizioso. Ecco una donazione fatta a Silverio abate dell’isola di Montecristo da Ottone conte in Corsica.

Ad honorem Dei et beatæ Mariæ et beato Stefano et beato Benedetto, anno dominicæ naptivitatis quadragentesimo settimo (?) regnando messer Berlinghiero re et giudice. Sia manifesto a tutte persone che leggeranno et che odiranno questa carta. Quando venne messer Otto, et messer Domenico, et messer Guidone de’ conti dell’isola di Corsica, et questi vennono in presentia di messer l’abate Silverio abate di sancto Mamiliano dell’insula di Monte Cristo. Et questi sopradecti signori li dedono sua possessione, ch’elli avevano in Venaco in l’isola di Corsica, che sono case, casamenti, terre, vigne, boschi e selve agresti et domestiche, le quali sono terminate, et per termini sopra lo piano chiamato lo Felice, e mette atto fiume di Rissonica, et mette in Tavignano, et mette allo Poio nello Palazzo, mette allo Vado delle Carcere, et mette [131] allo Polo delle Tavole, et mette allo Tuisano, et mette allo Vado delle Rondini, con due carte dello Gualdo delle Lentigini. Et questa possessione diamo per noi e nostri heredi in perpetuum ecc. E finisce:

Actum in Marrana, innanzi la chiesa di Sancta Maria, in presentia di me notario insoprascripto et di messer Sinibaldo legato. Testes prete Grisogano, prete Antonio, et messer Bonaparte, et messer Manfredo di Somma, ed altri più che vi erano.

Un’altra donazione e una querimonia vanno del medesimo fare; e men incredibile pare la loro antichità, perchè i modi stessi incontrammo più o meno anche altrove.

Le Carte d’Arborea, pubblicate dal Martini nel 1846 e seguenti, farebbero molto al nostro proposito: ma i gravissimi dubbj elevati sulla loro autenticità mi trattengono dal valermene.

Nel Bullettino archeologico sardo del 1855, il signor Pellito ragiona d’una canzone di ducencinquantasei versi in lode di Costantino II, che fu giudice d’Arborea prima del 1131, composta da Lanfranco di Bolasco genovese, e ne dà questo saggio, che lasciamo in tutto a sua fede:

Lo non poder di mente in me trovato

De labore disgrato

Che for onne valere e anco volere

Meglio cherlo l’uom disapprestato.

Ma dopo il 1073, e prima del 1130 fu giudice d’Arborea un Torbetano, del quale nei Monumenta historiæ patriæ si pubblicò una concessione a Nibatta moglie sua, di disporre di due case, dette Nurage Nigella e Massone de Capras. È dettata in lingua sarda, ed espresse le condizioni, viensi alle imprecazioni contro chi ardisca pugnare, adisbertinare istu arminatu: Siat [132] illi sterminata in istu seculum de magione sua: siat cecum et surdum e grancatu (aggranchito) et de magione sua totu istramatu (sterminato): et siat dannata co Core et Habiron et Anna et Caipha et Pilatu de Ponza ciest in iscrinio ferreo, u (ove) bellu (belva) mandicat fera acreste (fiera agreste) et animas eorum sepulta sunt in infernu[141]. Vi tiene dietro un’altra di vendita, stilata al modo stesso: A Gostantine dorrubu fidele meu abeat benedizione de Deus et de omnis sanctus, et sanctus dei amen: et qui de aixtruminare boluberite, e dixerit quia non sit, instruminet Deus magione isoro in istu secolo, et deleatur nomene sus de libro bite, e abiat porzone cun Erode e cun Juda traditore et cun diabulu in infernus.

Nel 1165 Barisone re d’Arborea faceva una donazione a sua figlia, che comincia: Ego judice Barusone d’Arborea faço custa carta ad Susanna filia mia et a fios catos ad faguer pro bene quod illis faço cum voluntate bona de donna Algabursa mugere mia... Et quod abet dicere qua bene et fu kést iscrita in icusta carta (chi dirà che è bene ciò ch’è scritto in questa carta) abat benedictionem de Deus. Seguono le imprecazioni, poi: Custu privilegiu exempladu davas autenticu fudi bulladu cum bulla de plumbu, cum corda de seda niella sugale bulla est tunda etc.[142].

Nel 1170 Alberto arcivescovo di Torres esimeva la badia di Montecassino da certi pesi:

«Ego Albertu monachu arckiepiscopo de Torres, kigla fhato custa carta pro ca mi pregait su abbate de Monte Cassinu domno Raynaldu pro indulgere li sus censu, ki davan sos priore de Nurr ki ac sancto Gavinu pro sancto Jorgi de Baraggie, et pro sancta Maria de [133] Eenor una libra de argentu, et viginti solidos de dinares, kandonke benniat su missu desso papa (qualunque volte veniva lo messo dello papa), et levarende dessu ki aviat sanctu Benedictu in Sardinia. Et ego Pusco Toraive Namana in Sardinia petuli boluntate assu domna mea a judice Barisune de Laccon.... Et ego cum boluntate de Deus, et dessu domnu meo judice Barisune de Laccon, e dessa mujere domna Pretiosa de Orrobu regina, e dessu fuiu domna Gostantine rege, et cum boluntate desso episcopos soprascriptos, e desso arkaiprete, e dessos calonicos in Tulgoli custo censu a sancto Benedictu, ki siat nulla arkiepiscopo pus me, neque nulla homine Kindali fathat hertu baytee kinde apat pro de usque in sempiternum, etc.»

Nel 1153 Gumario Torritano, giudice in Sardegna, privilegiava così lo stesso monastero di Montecassino:

«Ego judice Gumari de Laccon ki laco custa carta cum boluntate de Deu, et de fuius meus Barisune rege, et de sa mujere Pretiosa de Orrobu regina, de sancta Maria de Tergu, cum boluntate Deum et pro remissione dessos peccatos meos, et de parentes meos, et pro servitu bonu hispi in Monte Cassinu cando andai ad Sanctu Sepulcro, ad ultra mare, kaime feliciter, abbate Raynaldu, ki fuit abbate de Monte Cassinu, et cardinale de Roma, et pro sanctitate revidi in cussa sancta congregatione et procamiglole scrum si anima mia, et de parentes mios in suo ufficio, et in ipsas orationes cantu sait facter in cussu locu, et in tuto sos atteros locos in sero kencitimos l’abbate et totu sos monachos».

Verso il 1182 il predetto Barisone concedeva questo privilegio alla chiesa e al monastero di San Nicola di Urgen.

«Ego judice Barisune, podestando totu logu d’Arborea, simul cum mugera mia domna Algaburga regina [134] de Logu, et arkiepiscopu Comita de Laccon... fago quista carta a sanctu Nigola de Urgen, ch’est post in Ficusmara, de chi fabricarat judice Gostantina au meu, et judice Comita patre meus. Et non apat ausu, non judice cataer depus me, non arkiepiscopu, et non piscopu, et non priore de Monte Casinu, non monachu, non combersu, nec nulla homine mortale, a levar ende dessa causa de Sanctu Nigola, non de spirituale, ninque de temporale, nin dintro de domu, nin de foras domu keria voluntate des abbades et de sos monachos cantesset in sanctu Nigola, et in custa domo de sanctu Nigola, cum omnia cantu, et ad aver dare como innanti, et ivi, et ateras cortes suas siat libera...»

È un’altra delle stranianze del libro di Dante De vulgari eloquio quell’imputare i Sardi di non avere dialetto proprio (egli che pur tutti i dialetti riprova), ma di scimmiare il latino: soli sine proprio vulgari esse videntur, grammaticam tamquam, simiæ homines imitantes; nam domus nova, dominus meus loquuntur[143]. Noto è infatti quanta parte di latino conservi quel dialetto, nel quale si fecero interi poemi bilingui[144]. Or bene, la Sardegna non fu invasa da [135] Settentrionali, che potessero introdurvi le forme di loro favella, siano lessiche o grammaticali.

Fin del 1133 il De Gregorio (Considerazioni sulla storia di Sicilia, I, c. V.) reca una pergamena dell’archivio vescovile di Patti, ove, in una controversia, il re ordina si legga una carta di memoria del 1080, vulgariter exposita.

Nel Codice Cassinese della Divina Commedia, con diligentissima scienza pubblicato da quei Benedettini nel 1865, fu prodotta una poesia, che vorrebbesi provare del secolo XI. Eccone alcuni versi:

Questa bita regnare

deduceve de portare

morte non guita gustare

cumqua de questa sia pare

ma tanto questu mundu a gaudebele

Ke lunuellaltro (l’uno e l’altro) face mescredebele.

Ergo ponete la mente

La scriptura como sente

Calasse mosse d’oriente

unu magnu vir prudente

et un altru d’occidente

fori junti nalbescente

addemandaru se presente,

ambo addemandaru de nubelle

l’unu ell altru dicu se nubelle....

Nel 1186, Bonanno di Pisa fondeva le porte di bronzo del duomo di Monreale in Sicilia, e ne’ quarantadue scompartimenti istoriati poneva iscrizioni, delle quali alcune sono quasi, altre affatto italiane: Eva serve a [136] Ada. — Caim uccise frate suo Abel. — Iosep, Maria, puer fuge in Egitto. — Battisterio. — La Querrentina. — Iudi tradì Cristo.

Contemporaneo si fa un marmo di Firenze, che il Crescimbeni distribuì in versi, ov’è raccontata l’avventura d’un Ubaldini al tempo di Barbarossa: ma all’autenticità di quello gravissimi dubbj oppone la critica.

In quell’anno era già nato san Francesco d’Assisi, del quale è affatto italiano il Cantico del sole. Ma potrebbe essersi rimodernato da Bartolomeo di Pisa, che lo trascrisse in un libro del 1383, censessant’anni dopo morto il santo.

Del quale anche altri versi sono riferiti da san Bernardino da Siena, ma probabilmente ringiovaniti; anzi il dotto Affò, nella Dissertazione sui cantici vulgari di san Francesco, nega sieno del serafico, o veramente ch’esso dettolli in prosa, ed altri li rimò. Pure in italiano doveva egli predicare, atteso che ne’ Fioretti leggesi che in Montefeltro prese per testo il proverbio vulgare «Tanto è il ben che aspetto, Ch’ogni pena mi è diletto».

E quest’usanza era d’altri. Farinata, per difendere a viso aperto Firenze contro quei che consigliavano a torla via, cominciava da due proverbj: «Siccome asino sape, così sminuzza rape. Si va la capra zoppa se il lupo non la intoppa». Il consiglio d’uccidere il Bondelmonte fu espresso con altro proverbio: «Cosa fatta capo ha». Frà Salimbeni al 1235 cita un proverbio de’ Toscani: «D’omo alevadizo e di piuolo apicadizo non po l’hom gaudere»; e spesso dà canzoni e satire correnti: come al 1241 quando era podestà di Reggio Lambertesco de’ Lamberteschi, quidam fecerunt rithmos de eo dicentes: «Venuto è ’l lione De terra fiorentina Per tenire [137] rasone In la città reggina». E altrove: «Tu no cura de me, e no curarò de te — Or ritorna frate Elìa che pres’ha la mala via»: e dice che frà Cornetta, uno dei molti predicatori di pace, faceva cantare al popolo preghiere vulgari, come queste: «Laudato et benedetto et glorificato sia lo Patre, sia lo Fijo, sia lo Spirito Sancto, alleluja, alleluja».

Nel 1233, 3 dicembre, Federico II scriveva a papa Gregorio IX che mandasse missionarj per convertire gli Arabi di Lucera, avvertendo che capivano l’italiano. Quia vero placet sanctitati vestre aliquos fratrum ordinis predicatorum transmittere ad conversionem Saracenorum, qui Capitanata Luceriam incolunt, et intelligunt italicum idioma, gratum est nobis ut iidem predicatores veniant, et incipiant nomen domini predicare[145].

Basta guardare i discorsi rimastici di quei tempi per convincersi che chi li faceva, se anche usasse il latino, parlava però l’italiano; e l’italiano quei che gli udivano. Il famoso Odofredo, terminando di leggere il Digesto all’Università di Bologna, così congedava gli scolari: Dico vobis quod in anno sequenti intendo docere ordinarie bene et legaliter sicut unquam feci. Non credo legere extraordinarie, quia scholares non sunt boni pagatores: quia volunt scire sed non volunt solvere, juxta illud, SCIRE VOLUNT OMNES, MERCEDEM SOLVERE NEMO. Non habeo vobis plura dicere: eatis cum benedictione domini. Di sant’Antonio di Padova è scritto che italico idiomate adeo polite potuit quæ voluit pronuntiare, ac extra Italiam nunquam posuisset pedem (Wadingi Annales): e le sue prediche ci sono conservate in latino, ma di evidentissima origine [138] italiana. E tale parlava certamente quell’Andrea da Firenze che, secondo Benvenuto da Imola, diceva in pulpito: O domini et dominæ, sit vobis raccomandata Monna Tessa cognata mea, quæ vadit Romam: nam in veritate, si fuit per tempus ullum satis vaga et placibilis, nun est bene emendata: ideo vadit ad indulgentiam.

D’altre siffatte bizzarrie potremmo ricreare la noja di questo discorso; ma tornando al serio, nomineremo Gaufrido Malaterra, storico ben noto de’ re Normanni di Sicilia e buono scrittore latino, il quale però, ad istanza del principe, scriveva canzoni plano sermone et facili ad intelligendum, quo omnibus facilius quicquid diceretur patesceret. E ne adduce alcune, fra cui questa allorchè a re Ruggero nacque Simone, appena morto il primogenito:

Patre orbo gravi morbo sic sublato filio

Unde doleret quod careret hæreditatis gaudio,

Ditat prole quasi flore superna prævisio.

Qui voi avete notato e la misura e il ritmo moderno, cioè la sostituzione della poesia ritmica alla metrica.

Poco divago dal tema se tolgo a provare che qui pure la poesia originaria de’ prischi Itali era ritmica, quale appare ne’ versi Saturnini, nel Carme Arvale e in altri carmi deprecatorj, medici, magici, che recitavansi assa voce, vale a dire senza accompagnamento musicale, ma marcando col piede l’accento; e le canzoni convivali ricordate da Catone; e forse i versi Fescennini, e certo que’ versi popolari che Svetonio, inesorabile raccoglitore di aneddoti, ci conservò, e giù fino ai notissimi di Adriano morente, indocili alle conosciute misure.

L’imitazione greca introdusse i metri dattilici, ma [139] come armonia fittizia, arbitraria, non connaturata alla lingua, e preoccupandosi delle convenienze accidentali del metro, e di pretese analogie coi modelli greci, anzichè della vera pronunzia: segno che il tono cadea spesso sulle brevi, e gran numero di sillabe rimanevano comuni, cioè incerte. Tutt’artifiziale essendo tale melopea, la quantità diveniva facilmente corruttibile, e per quanto i poeti cercassero aumentare l’armonia de’ loro versi col sottomettere a un ordine sistematico i piedi liberi, cioè determinare la successione de’ dattili e degli spondei, o prefiggere il posto delle cesure e fin la lunghezza delle parole, l’armonia fra’ Romani non acquistò tampoco la forza d’un’abitudine. Quando poi la pronunzia restò unica signora della lingua, essa ricondusse le convenzionali differenze a una qual si fosse uniformità, dedotta dall’accento; e i poeti dapprima variarono ad arbitrio le regole prosodiche, poi confessarono ignorarle, e sul tipo dell’antico esametro congegnarono versi, che non teneano punto alla melopea antica. Aggiungete che, al deperire della squisitezza classica, rivalsero le forme indigene; e qui pure assai operarono i Cristiani, dove l’ispirazione essendo personale, e predominante il sentimento, non subordinavansi le emozioni ad una misura materiale, bensì questa appropriavasi ai pensieri, e l’espressione melodica sostituivasi alla plastica regolarità. Lo vediamo negli inni della Chiesa, ove negligevasi la quantità per cercare soltanto il numero delle sillabe e far agevolezza alla musica. E anche degli altri versi si variò la misura, sempre con riguardo al numero, non alla lunghezza o brevità delle sillabe.

Questa digressione valga di riprova al nostro assunto, giacchè qui vedrebbesi riprodotto lo stesso andamento che nella lingua. Abbiamo canzoni popolari che si usarono in varj tempi, dal canto delle sentinelle sugli spalti [140] di Modena minacciati dagli Ungari[146], fin alle invettive contro Federico II. Erano latini almeno di desinenza; il che prova quanto fosse vulgarmente conosciuta la lingua latina, ridotta però alla sintassi popolare, che forse costituiva la sola differenza dall’italiano, insieme colla trascuranza delle terminazioni, che, dapprima soltanto propria della plebe e de’ parlanti, allora s’accomunò anche agli scriventi.

§ 16º Prime scritture italiane.

Non sorgeano dunque le lingue nuove per arte e proposito, ma dietro all’eufonia e all’analogia, secondo la logica naturale e quell’istinto regolatore, che così meraviglioso si manifesta ne’ fanciulli. In conseguenza variava secondo i paesi, cioè formavansi dialetti. Alla parte poetica, anima di ciascun dialetto, si univa l’erudizione, cioè gli elementi trasmessi dal mondo antico; e così le [141] lingue moderne, poetiche e popolari di natura, si rimpulizzirono sull’esempio delle precedenti.

Pargoleggiarono esse finchè scarse le comunicazioni e gli affari in cui adoperarle; ma quando anche il popolo, redento dalla servitù feudale, fu chiamato a discutere dei proprj interessi, dovettero acquistare estensione e raffinamento i dialetti, non volendo l’uomo nei consigli parlare altrimenti che nell’usuale conversazione, nè potendo ciascuno avere in pronto il notaro che esponesse i suoi pensamenti in latino. Così il vulgare sollevavasi dalle faccende casalinghe, in mezzo a cui erasi formato.

La separazione dei Comuni e dei Feudi avea portato prodigiosa varietà di loquele. Quando si fusero in piccoli Stati, poi i piccoli in grandi, un dialetto speciale fu adottato di preferenza, in prima nelle canzoni, poi nella prosa, accostandosi sempre più all’unità, non fra chi parla ma fra chi scrive, deponendo ciò che v’era di più speciale, e formandosi una tradizione letterale; e le nazioni acquistarono anche quel che n’è distintivo primario, la lingua.

Anche in questa si rivela la condizione politica; e mentre la Francia restringevasi in unità di dominio, e con essa veniva unità di linguaggio[147]; da noi, fra [142] tanto sminuzzamento di Stati, altrettanto se n’ebbe dei parlari, e più di uno recò innanzi pretensioni di priorità o di coltura.

Dante asserisce che cose per rima vulgare in lingua d’oc, cioè in provenzale, e in lingua di non siensi dette se non 150 anni prima di lui, lo che rimonterebbe al 1150, e lo rincalza Benvenuto da Imola nel suo commento. Quanto al provenzale, egli è smentito da numerosi documenti[148]. L’italiano, tardi fu sentito il bisogno d’usarlo letterariamente, attesochè possedevamo il latino, formato e nazionale.

[143]

Che Folcalchiero de’ Folcalchieri, cavaliere senese, fosse contemporaneo alla pace di Costanza, lo inducono dal principio di quella sua canzone:

Tutto lo mondo vive sanza guerra,

Ed eo pace non posso aver neente.

O Deo, come faraggio?

O Deo, come sostenemi la terra?

E par ch’eo viva en noja de la gente.

Ogni omo m’è selvaggio:

Non pajono li fiori

Per me com’già soleano,

E gli augei per amori

Dolci versi facevano agli albori[149].

Di Lodovico della Vernaccia da Firenze, verso il 1200 versato in civili maneggi, il Crescimbeni reca un sonetto, che comincia:

Se ’l subjetto preclaro, o cittadini,

Dell’atto nostro ambizioso e onesto

Volete immaginar, chiosando il testo

Non vi parrà che noi siamo fantini?

S’alli nostri accidenti, ed intestini

Casi ripenserete, con modesto

Aspetto inchinerete il cor molesto;

Fien radicati al cor in duri spini.

Dalle poesie di Noffo, notaro d’Oltrarno, vivente nel 1240, scelgo una canzoncina:

Vedete s’è pietoso

Lo meo signore Amore,

A chi ’l vuol obbedire,

E s’egli è grazïoso

[144]

A ciascun gentil core

Oltre a l’uman desire.

Ch’io stava sì doglioso

Ch’ogni uom diceva, el muore,

Per lo meo lontan gire

De quella in cui io poso

Piacer tutto e valore

Dello mio fin gioire.

E stando in tal maniera,

Amor m’apparve scorto,

E ’n suo dolce parlare

Mi disse umilemente:

Prendi d’Amore spera (speranza)

Di ritornare a porto,

Nè per lontano stare

Non dismagar (iscoraggiarti) neente.

Guido delle Colonne da Messina, nella seconda metà di quel secolo, «poetava gravemente», come disse Dante nel Vulgare eloquio:

Ben passa rose e fiori

La vostra fresca ciera,

Lucente più che spera;

E la bocca aulitusa[150]

Più rende aulente odore

Che non fa una fera

Che ha nome la pantera,

Ch’in India nasce ed usa.

Benchè paja anteriore, Odo delle Colonne gli è coevo:

Va, canzonetta fina,

Al bono avventuroso,

Ferilo a la corina: (cuore)

Se il trovi disdegnoso,

[145]

Nol ferir di rapina,

Che sia troppo gravoso;

Ma feri lei che ’l tene,

Ancidela sen (senza) fallo;

Poi fa sì ch’a me vene

Lo viso di cristallo;

E sarò fuor di pene,

E avrò allegrezza e gallo[151].

Quell’Jacopo notaro da Lentino, che Dante mette a fascio con frà Guittone d’Arezzo, cantava di qua dal dolce stile:

Mia canzonetta fina,

Va, canta nuova cosa;

Moviti la mattina

Davanti alla più fina,

Fiore d’ogn’amorosa,

Bionda più ch’auro fino:

Lo vostro amor ch’è caro,

Donatelo al notaro

Ch’è nato da Lentino.

Di Rinaldo d’Aquino, messo dall’Alighieri fra’ buoni trovadori, s’ha otto canzoni, di cui ecco un saggio:

Guiderdone aspetto avire

Da voi, donna, a cui servire

No m’è noja.

Ancorchè mi siate altera,

Sempre spero avere intera

D’amor gioja....

Donna mia, ch’io non perisca

S’io vi prego, non v’incrisca

Mia preghiera.

[146]

La bellezza che in voi pare

Mi distringe, e lo sguardare

Della ciera.

A re Manfredi, che governò le Sicilie dal 1258 al 66, è diretto il Fior di retorica, dove frà Guidotto da Bologna, a vantaggio de’ laici che non sono alliterati, cioè non sanno di latino, raccolse alcuni precetti di Cicerone volgarizzandoli; avvegnachè mal agevolmente si possa ben fare, perchè la materia è molto sottile a me non ben saputo, e le sottili cose non si possono bene aprire in vulgare. V’avea già dunque persone che adopravano l’italiano a componimenti studiati, se per loro il frate bolognese preparò un trattato di retorica. E diceva loro: «Qualunque persona vuole sapere ben favellare piacevolmente, si pensi di avere prima senno, acciocchè conosca e senta quello che dice; poi prenda ferma volontà di operare giustizia e misura e ragione, acciocchè dalla sua parola non possa altro che ben seguitare; e questo libro legga sicuramente, e senta meco certi ammaestramenti che sono dati dalli savj in sul favellare; e da che gli ha letti e ben impressi, si usi spesse volte di dire; perchè il ben parlare si è tutto dato alla usanza, che ogni cosa si acquista per uso, et abbassa molto per disusare, e senza usare non può essere alcuno bono parlatore».

Già adducemmo canzoni popolari.

In tutta Europa vicino al Mille si ha esempj di Ludi e Rappresentazioni, ma sempre latini. Nessuno invece ne resta in Italia: forse perchè si fecero subito in italiano; i quali modificati poi col variar della lingua, giunsero fino a noi, creduti d’età più tarda. Tale forse la rappresentazione che, nel 1243, si fece in Prato della Valle a Padova; e quella che nel 1273 a Siena, per festeggiare l’assoluzione dalla scomunica.

[147]

§ 17º Della lingua romanza e della siciliana.

Non è del nostro assunto il librare il merito de’ poeti di Sicilia e del Reame: ma quanto alla lingua, non crediamo usassero quella del loro paese, bensì se ne proponessero una, comune alla gente colta; quella che Dante intitolò cortigiana.

Se fosse dimostrato che, prima d’altrove, in Sicilia siasi parlato italiano, n’avrebbe rinfianco il nostro asserto sulla scarsa efficienza dei Barbari. Ma altro è parlare, altro è scrivere, e immiseriscono la questione quelli che attribuiscono la formazione delle lingue ad alcuni, e foss’anche a tutti i letterati, mentre solo dal popolo esse riconoscono vita e sovranità. Forse che filosofi e poeti hanno l’intelligenza che inventa e la possanza che fa adottare le parole? Al più, sanno dall’uso arguire le leggi. Per ispiramento ghibellino e per adulazione a Federico II e sua Corte si asserì che in questa siasi primamente sostituita nel poetare la lingua italiana alla provenzale; e Dante imperiale dice: «Perchè il seggio regale era in Sicilia, accadde che tutto quello che i nostri precessori composero in vulgare si chiama siciliano: il che ritenemmo ancora noi, e i nostri non lo potranno mutare»[152]. Or bene, noi sfidiamo a trovare verun altro che mai intitolasse siciliano il parlar nostro. Solo il Petrarca, per condiscendenza d’erudito, scrive che il genere della lingua poetica apud Siculos, ut [148] fama est, non multis ante seculis renatum, brevi per omnem Italiam ac longius manavit[153]. Ove del resto s’intende di poesia, non di lingua; e potrebbe darsi che Federico, udite in Germania le canzoni che i Minnesingeri ripetevano per le Corti, volesse averne alla sua in lingua italiana[154]. Era dunque la Corte siciliana un centro di poesia erotica, colta, alla foggia provenzale. Dante stesso, quando antepone i Siciliani, non vuole intendere del loro parlare; anzi i parlari riprova tutti, e quel della gente media di Sicilia non trova migliore degli altri; ma poichè colà sedevano que’ da lui vantatissimi Federico e Manfredi, e accoglievano il fior di tutta Italia, al contrario de’ sordidi e illiberali principi del restante paese, dice che gli scrittori riuscivano in nulla diversi da ciò ch’è lodevolissimo. Nè si creda (conchiude) che il siculo e il pugliese sia il più bel vulgare d’Italia, giacchè quei che bene scrissero se ne discostarono[155].

[149]

Non basta quest’ultima confessione a scassinare il suo edifizio?

Plauto, nel prologo dei Menecmi, professa non avere atticizzato, ma sicilizzato (atque ideo hoc argumentum græcissat, tamen non atticissat, verum at sicilissat).

Anche Cicerone (in Verrem) rinfaccia al suo competitore Cecilio d’avere imparato le lettere greche non in Atene ma al Lilibeo, le latine non a Roma ma in Sicilia. E forse la poca finezza del parlare nascea dall’usarsi in quell’isola insieme il greco e il latino e fors’anche il cartaginese pel commercio. Infatto Diodoro vanta d’aver imparato la lingua di Roma in grazia del commercio che i Romani faceano in Sicilia (Introduzione).

Certo però il siciliano odierno tiene molto dell’antichissimo latino, giacchè vi si dice argentu, locu, pani, che è il latino pretto, colla m e la s fognate all’arcaica; vi si dice jocu, jugu, judici dove il toscano fece giuoco, giogo, giudice: e amau, laudau per amò, lodò, e così via. E senza ricorrere al paradosso del Galiani, una riprova del nostro assunto si trova in monsignor Crispi, Sul dialetto parlato e scritto in Sicilia: e in Di Giovanni De div. Sicul. officiis, dove mostra le mutazioni di lingua, che prevalsero in Sicilia secondo i tempi.

Giulio Perticari, oltre adottare le teoriche del Cesarotti, del Muratori, del Napione nel rattizzare col Monti quistioni sopite, trapiantò fra noi il paradosso del francese Raynouard, supponendo che dalla corruzione della lingua latina uscisse una comune, che si parlava da tutte le nazioni neolatine, le quali poi separandosi formarono lingue proprie; opera di letterati più che del popolo[156]. Argomentò in conseguenza, che in ogni [150] parte d’Italia si scrivesse con pari correzione o scorrezione. Per sostenerlo recò passi d’autori di vario paese: nè prese scrupolo di far qualche alterazione al loro dettato, sicchè paressero meno corretti i toscani, meno scorretti gli altri; donde conchiudere contro la superiorità, che ai Toscani concedono tutti, almen nella pratica. Senza tener conto delle mutazioni a lui imputabili, si noti che di quelle poesie non abbiam forse nessun esemplare contemporaneo e autentico; e nel trascriverle avrà molto operato o l’imperizia o il capriccio degli scrivani: fors’anche passarono tradizionalmente per le bocche, modificandosi secondo e i tempi e il paese; quello poi che o primo le ridusse in iscritto o le ricopiò, adattolle al gusto e alla pronunzia sua: e i Toscani poterono intoscanare le poesie d’altri paesi, come i Lombardi avranno guasto le toscane[157]. N’è [151] conseguente la poca diversità che si nota fra i primi poeti; e che anch’essa deriva dalla differente coltura dei singoli, e dalla trascrizione, in cui si perde l’immagine del primitivo idioma.

Poi anche oggi potrebbero addursi deh quanti Toscani che scrivono men bene del Giordani e del Puoti (rimoviamo l’invidia col nominar solo i morti); ma domanderemmo se questi si proponessero scrivere il parmigiano e il napoletano, o se piuttosto cercassero il toscano, anzi il solo toscano senza fiato del dialetto natio: e vi riuscissero con arte maggiore di quei troppi che, avendolo dalla madre, ne sconoscono il merito e le finezze.

Pel proposito dunque del Perticari sarebbe importato provare che nel regno di Federico II si parlava qual veramente troviamo scritto da lui e da’ suoi. Prove dirette ci mancano; forse n’è alcuna in contrario.

Ciullo d’Àlcamo vorrebbero vivesse col Saladino, cioè fra il 1174 e il 1193, giacchè canta,

Se tanto aver donassimi

Quant’ha lo Saladino;

ma la menzione che fa degli agostari lo tirerebbe a più tarda età, essendo essi battuti da Federico II il 1222: [152] se non che rifletterono che il loro nome è più antico, e fin de’ tempi longobardi, a fede del Muratori[158].

Di Ciullo è notissima una lunga cantilena a botta e risposta; della quale non conosciamo veruna lezione buona, nè manoscritti antichi che ce la possano sincerare. A me parve che il poeta in essa mettesse a dialogare l’amante in lingua toscana o cortigiana, coll’amica nel suo dialetto pugliese, mal riprodotto da lui o dal copista siciliano. Così (mutando qualche parola a idea, piuttosto che coll’appoggio di codici) leggeremmo:

Amante. Rosa fresca aulentissima

Cha pari in ver l’estate,

Le donne ti desiano,

Pulzelle e maritate.

Tragemi d’este focora

Se t’este a bolontate:

Per te non ajo abent o nocte o dia,

Pensando pur di voi, madonna mia.

Madonna. Se di mene trabàgliti,

Follia lo ti fa fare,

Lo mar potresti arrompere

Avanti e semenare,

L’abere d’esto secolo

Tutto quanto assembrare...

Averimi non poteria esto monno...

Cerca la terra ch’este granne assai

Chiù bella donna di me troverai.

Amante. Cercata ajo Calabria,

Toscana e Lombardia,

[153]

Puglia, Costantinopoli,

Genua, Pisa, Soria,

Lamagna, Babilonia

E tutta Barberia,

Donna non vi trovai tanto cortesi,

Perchè sovrana di mene te presi.

Madonna. Poi tanto trabagliastiti,

Facioti meo pregheri

Che tu vadi, eddomannini a mia mare e a mon peri,

Se dari mi ti degnano, menami a lo monsteri (al monastero),

E sposami davanti della genti

E poi farò li tuoi comannamenti.

Qui è sentita abbastanza la differenza fra i due parlari, e come nel secondo abbondino gl’idiotismi siculi.

Dante, inteso a menomare il vanto de’ Toscani, e supponendo che la lingua fiorisca per le Corti e per gli studj, non rifina di vantare il siciliano dialetto: ma ciò prova di già che era distinto dal toscano, mentre nol sono le poesie che sopra accennammo o recammo.

I Siciliani misero grande impegno, in questi ultimi tempi, a trovare vestigia antichissime di loro vernacolo. Le poesie addotte da Lionardo Vigo (Canti popolari siciliani, Catania 1857), quand’anche potesse provarsi che appartengono all’età di Guglielmo il Buono, poco gioverebbero all’assunto nostro, giacchè nulla è più facile a mutarsi dietro ai tempi che le canzoni in bocca al popolo. Sol proverebbero che un vulgare esisteva, e in fatto un rituale del bretone Augerio, che fu il primo vescovo di Catania, prescrive le formole pel battesimo degli adulti, soggiungendo che, si nescit literas, [154] hæc vulgariter dicat. Si ha un atto di permuta di case fra Leone Bisinianos ed Effimio abate di Santo Nicola di Xurguri, scritto in greco, che a tergo della pergamena è tradotto in vulgare, che da buoni argomenti credesi contemporaneo[159]. E comincia: «Eu Leon Bisinianos cum la Madonna mia mugleri et Nicolao lu meu legitimo figlo, cum lu nomu di la santissima cruchi, cum li manu nostri propri scriviamo insembla cum lu meu figlo Nicolao cum tutta lu nostru bona voluntati et intentioni senza dolo alcuno lu presenti cambiu et permutationi chi fazo cum li nostri possessioni, li quali suno siti et positi a la citati vechia a Palermo a la rimini menzo di Ximbeni di la parti di fora di la porta de Xaltas chi confina cum lu muro, etc. etc... A li misi di ottubre a lo sexto jornu di lo dicto misi di la seconda indictioni in tu annu milli e sexantadui.

Questa data, impastata dell’êra romana e della bisantina, risponde al 1153; e l’essere nel testo indicato soltanto l’ottobre, e non il giorno come nel transunto, fa credere che questo sia contemporaneo[160].

Di un anonimo siciliano il Trucchi pubblicò un frammento cavato dal Libro reale della Vaticana, nº 3793, giudicato della prima metà del millecento, quando a Palermo fiorivano nel palazzo reale le manifatture di seta, dalle quali nel 528 dell’egira, 1133 di Cristo, fu lavorata l’insigne dalmatica di re Ruggero. In esso frammento si legge:

Levasi allo mattin la donna mia

Ch’è vie più chiara che all’alba del giorno:

E vestesi di seta caturìa (di Catura)

La qual fu lavorata in gran soggiorno

Alla nobile guisa di Soria

[155]

Che donne lavorarlo molto adorno.

Il su colore è fior di fina grana,

Ed è ornata nella guisa indiana.

Ed ha un’ammantadura oltremarina

Piena di molte perle prezïose...

Quand’ella appar con quella ammantadura

Allegra l’aire, e spande la verdura,

E fa le genti star più gaudïose.

Della Corte di Sicilia sopravvive qualche frammento di Federico II, di Enzo suo figlio.

Il Barbieri, nell’Origine della poesia rimata, cap. XI, riferisce il principio d’una canzone in siciliano del re Enzo:

Allegru cori, plenu

Di tanta beninanza

Suvvegnavi, s’eu penu

Per vostra innamuranza,

Chil non vi sia in placiri

Di lassarmi muriri talimenti

Chiu v’amo di buon cori e lialmenti.

Or dello stesso principe infelice n’abbiam una in italiano, che suona ben diversa:

Va, canzonetta mia,

E saluta messere,

Dilli lo mal ch’i’ aggio,

Chè lei che m’ha in balia

Sì distretto mi tiene

Ch’eo viver non poraggio.

Salutami Toscana

Quella ched è sovrana,

Ed in cui regna tutta cortesia.

E vanne in Puglia piana,

La magna capitana,

Là dove è lo mio core notte e dia.

[156]

Di Pier della Vigna, che «tenne ambe le chiavi del cuor di Federico», recheremo questo sonetto:

Perocchè amore no se po vedere

E no se tratta corporalemente,

Quanti no son de sì folle sapere

Che credono ch’amore sia neente!

Ma po’ ch’amore se faze sentere

Dentro dal cor signorezar la zente,

Molto mazore pregio de’ avere

Che se ’l vedesse visibilemente.

Per la virtute de la calamita

Come lo ferro attra’ e non se vede,

Ma si lo tira signorevolmente.

E questa cosa a credere me invita

Che amore sia, e dammi grande fede

Che tutto sia creduto tra la gente.

I seguenti versi di Ruggerone da Palermo s’accostano all’anno 1230:

Canzonetta giojosa,

Va allo fior di Soria,

A quella che lo mio core imprigiona:

Di’ alla più amorosa,

Che per sua cortesia

Si rimembri del suo servidore.

Altri di Rinieri da Palermo, sono citati dal Trissino.

Il suddetto Barbieri adduce un’altra canzone di Stefano protonotaro da Messina, vissuto attorno al 1250, che comincia:

Pir meu cori allegrari

Ki multi longiamenti

Senza alligranza e joi d’amuri è statu,

Mi ritorno in cantari,

Cà forsi levimenti

Da dimuranza turneria in usatu

[157]

Di lu troppu taciri.

E quandu l’omo a rasuni di diri,

Ben de’ cantari e mustrari allegranza;

Ca senza dimustranza

Joi siria sempre di pocu valuri,

Dunca ben de’ cantar onni amaduri.

Questa è in siciliano, ma quest’altra in italiano scrisse il medesimo:

Assai mi piacerìa

Se ciò fosse che Amore

Avesse in sè sentore

D’intendere e d’audire;

Ch’eo li rimembreria,

Come fa servidore

Perfetto a suo signore,

Meo lontano servire,

A fariali assavire

Lo mal di che non oso lamentare

A quella che ’l meo cor non può obliare:

Ma Amor non veo, e di lei son temente,

Per che ’l meo male adesso è più pungente.

Ci resta il processo per assassinio tentato sopra Federico II, ma le risposte sono stravolte dal notajo.

Nelle Effemeridi letterarie di Roma del 1772, tom. IX, p. 158, si riportano alcuni brani di un codice Chigiano, che pretendesi scritto in Sicilia e prima dei Vespri, e forse versione dal provenzale. Una cronaca anonima dal 1279 all’82, stampata dal Gregorio[161], e che in miglior lezione trovavasi manoscritta presso il principe di Sangiorgio Spinelli in Napoli, comincia: «Quistu esti lu rubellamentu di Sichilia, lu quali hordinau, effichi [158] fare messer Iohanni di Prochyta contro lo re Carlo». S’anche non è contemporanea, certo è antica; e vi sentite tutti gl’idiotismi moderni di Sicilia: «Multu corrucciatu in visu (Procida esortava a) non lassari quista cussi fatta imprisa, cussi grandi... Lu papa lu conuxia, e ricippilu graziosamenti»[162].

Fu raccolta dalle labbra popolari una canzone, o frammento di poesia, dove, tra altro, si ode:

Senti la Francia ca sona a mortoria:

No, ca la Francia un veni cchiù’n Sicilia.

Viva Sicilia ca porta vittoria!

[159]

Viva Palermo! fici mirabilia.

Sunati tutti li campani a gloria,

Spinciti tutti l’armi terribilia,

Ca pr’in eternu ristirà a memoria

Ca li Francisi ristaru ’n Sicilia...

Nun v’azzardati a veniri ’n Sicilia

Ch’hannu juratu salarvi le coria (uccidervi).

E sempre ca virriti ’ntra Sicilia

La Francia sunirà sempri mortoria.

Oggi a cu’ dici scisciri ’n Sicilia

Si cci tagghia lu coddu pri so gloria:

E quannu si dirà qui fu Sicilia

Finirà di la Francia lu mimoria.

Il canto ha tutta l’aria d’essere contemporaneo dei famosi vespri, ma via via s’ammodernò: pure attesta che avevasi una poesia alla moderna, e che vi s’adoperava il dialetto corrente.

Il Giambullari, il quale, nel Gello, sostiene un’opinione conforme alla nostra, dice che Guglielmo Ragonesi affermava essere stato Beltrano Ragonesi di Gaeta il primo che innestò il siciliano col toscano: ma ch’egli attribuisce tal merito a Lucio Drusi. Perocchè «que’ nostri antichi terminavano la maggior parte delle parole con lettere consonanti, ed i Siciliani, per l’opposito, le finivano con le vocali; Lucio, considerando la nostra pronunzia e la siciliana, e vedendo che la durezza delle consonanti offendeva tanto l’orecchio, cominciò, per addolcire e mitigare quell’asprezza, non a pigliare le voci de’ forestieri, ma ad aggiugnere le vocali nella fine delle nostre. Il che, sebbene per allora non piacque molto se non a pochi, dopo la morte di esso Lucio, conoscendosi manifestamente la soavità e la dolcezza di tal pronunzia, cominciarono i Toscani a seguir la regola detta, e non solamente nelle composizioni rimate, ma [160] nelle prose ancora e nel favellare ordinario dell’uno con l’altro. Di qui venne questa pronunzia».

Ripugna affatto alla natura delle cose che un uomo solo cangi il sistema d’una favella: può bene cambiar qualcosa di ortografia, come fecero il Trissino e Voltaire, ma non il parlare d’un popolo. E tanto più chi veda come i Toscani, neppure i più plebei e più isolati, non soffrano voci terminate in consonante, e anche alle forestiere appiccino una vocale.

Nel dialetto napoletano il Mazzocchi[163] dice che faceansi tutte le iscrizioni del XIV e XV secolo: oggi però o niuna o ben poche se ne trovano. In Napoli, sulla [161] piazzetta di San Pietro Martire, sopra un sepolcreto dodici versi fanno corredo ad uno scheletro portante il falcone in una mano, il logoro nell’altra, e dicono:

Eo so lo morte, chachacio (che caccio)

sopera voi jente mondana

amalata e la sana,

dì e notte la perchaccio

no fugia nesuno ine tana

p. scampare de lo mio lactio

che tucto lo mundo abractio

e tucta la gente umana

perchè nessuno se conforta

ma prenda spavento

ch’eo per comandamento

de prendere a chi ven la sorte

siave castigamento

questa fegura de morte

e pensavie de fare forte

in via de salvamento.

Da sinistra un mercante versa un sacco di moneta sull’ara, e fa colla Morte il seguente dialogo:

Merc. Tuto te voglio dare se mi lasi scampare.

Morte. Se tu me potisse dare quanto se potè ademandare, no te scampara la morte se te ne vene la sorte.

Sugli orli corre questo scritto:

† mille laude factio a dio patre e a la santa

trinitate che due volte me aveno

scampato e tucti li altri foro annegate.

Francischino fu dr. Brignale feci fare

questa memoria ale m. CCCLXI de

lo mese de agusto XIIII indiccionis.

Ben anteriore sarebbe la cronaca di Giovanni Villani, ma fu raffazzonata da Leonardo Astrino di Brescia [162] nel 1626, colla pretesa di quello alla prima composizione restituire. Dal Pelliccia[164] recasi un istrumento del 1208, ove si sente quel dialetto, ma sono avvertito che è falso. Teniamo però questo «Banno et commandamento per parte de monsignor lo re Lanzolao re di Sicilia etc. che Dio lo salva e mantenga etc. de lo vicemiralia de lo ditto riame per parte de la maiestà de lo ditto segnore re, che ben se guarde omne pescator che va pescanno che non pescano a li mari de s. Pietro ad Castello senza licenzia de li gabellotti ad pena de uno augustale per uno, et chi lo accusa ne avrà lo quarto».

Gio. Boccaccio ha una burlevole «pistola in lingua napoletana», che comincia: «Facciamote, caro fratiello, a saperi che, lo primo jorno de sto mese, Machiuti filiao, et appe uno biello figlio masculo, che Dio nee lo garde, e li dea bita a tiempo e a hiegli anni ecc.». Egli sul miserando caso della Lisabetta di Messina cita una canzone, usata dai Siciliani, i cui primi due versi

Qual esso fu lo mal cristiano

Che mi furò la grasta?

son di fatto del dialetto di Sicilia.

Giovan Villani fiorentino fa parlare molti nel dialetto ad essi natio, e da quei di Sorrento dire a Ruggero di Lorìa:

«Messere l’ammiraglio, come te piace, da parte del comune de Surienti; istipati queste palombole, et prindi quissi augustarj per un taglio de calze, e piazesse a Dio, com’hai preso lo filio, avessi lo patre».

Una cronaca della morte di Manfredi leggesi nel lavoro del De Renzi sopra Gio. da Procida, pag. 234: come un’altra cronaca a pag. 299.

[163]

Matteo Spinelli da Giovenazzo, dal 1247 al 68 vergò le cronache napoletane mescendovi il dialetto del suo paese (Rer ital. Scrip., tom. VII):

«Me venne proposito di notare, per una delle gravi cose successe in vita mia, lo fatto di quisto messer Rugiero de Sanseverino, come me lo contao Donatiello di Stasio da Matera servitore suo. Me disse che, quando fo la rotta da casa Sanseverino allo chiano de Canosa, Aimario de Sanseverino cercao de salvarse, et fugio inverso Biseglia per trovare qualche vasciello de mare, per uscirne da regno. Et se arricordao di questo Rugiero, che era piccierillo di nove anni; et se voltao a Donatiello che venia con isso, et le disse: A me abbastano questi dui compagni: Va, Donatiello, et fòrzati di salvare quello figliuolo. Et Donatiello se voltao a scapizzacollo, et arrivao a Venosa alle otto ore, et parlao allo castellano; et a quillo punto proprio pigliao lo figliuolo, et fino a quaranta augustali, et un poco di certa altra moneta, et uscio dalla porta fauza, senza che lo sapesse nullo de li compagni, et mutao subito li vestiti allo figliuolo et ad isso, con un cavallo de vettura, con nu sacco di ammandole sopra, pigliaro la via larga, allontanandose sempre da dove poteva essere conosciuto»[165].

[164]

Si accosti questo scrivere a quello di Ricordano Malespini fiorentino. Il quale dice aver cominciato il 1200 la storia sua; e forse vi corre sbaglio, ma ad ogni modo passò finora pel primo che scrivesse storie in toscano[166].

«Io Ricordano fui nobile cittadino di Firenze della casa de’ Malespini, e ab antico venimmo da Roma. E’ miei antecessori, rifatta che fu la città di Firenze, si puosono presso alle case degli Ormanni in parte, e in parte al dirimpetto delle case dette degli Ormanni; e dirimpetto alle nostre case era una piazzuola, la quale si chiamava la piazza de’ Malespini, e chi la chiamava piazza di Santa Cecilia. E io sopradetto Ricordano ebbi in parte le sopradette iscritture da un nobile cittadino romano, il cui nome fu Fiorello: ebbe le dette iscritture di suoi antecessori, scritte al tempo, in parte quando i Romani disfeciono Fiesole, e parte poi; perocché ’l detto Fiorello l’ebbe, che fu uno de’ detti Capocci, il quale si dilettò molto di scrivere cose passate, ed eziandio anche molto si dilettò di cose di strologia. E questo sopradetto vide co’ suoi proprj occhi la prima posta di Firenze, ed ebbe nome Marco Capocci di Roma».

[165]

§ 18º Del toscano.

Chi si ostinasse nella priorità del siciliano, dovrebbe dire che questo avesse un peccato d’origine, e che, nato nella Corte, colla Corte perisse, mentre il toscano si perfezionò col popolo. Ma non fa mestieri d’altri argomenti per farci credere che, all’organarsi dell’italiano, nè a Napoli nè in Sicilia si parlasse un dialetto che sia divenuto lingua comune; mentre ciò si prova del toscano, ove, dando alla parlata la terminazione e l’ortografia latina, si aveva una fortunata conformità col vocalismo popolare. Dopo i poeti citati potremmo addurre esempj di Noffo notaro d’Oltrarno, di Gallo pisano, di Buonagiunta Urbicani da Lucca, di Meo de’ Macconi da Siena, di Guittone d’Arezzo, di Chiaro Davanzati di Bondie Dietajuti, di Brunetto Latini, col quale tocchiamo a Dante.

Che se diffidiamo delle prove tratte da poesie, non ce ne mancano altre. Già n’è occorsa qualche iscrizione. Nel camposanto di Pisa leggesi questa:

✠ Die sce Marie de sectebre anno dni mllo ccxliii indict. i. manifesto annoi e al più delle PerSONE CHE NEL TEMPO DI BUONACOSO DE PALUDE LI PISANI ANDARO CUM GALEE CV E VE VAC. C. A PORTO VENERE STEDTERVI P DIE XV E GUASTARO TUCTO E AREBBERLO PreSO NON FUSSE LO CONTE PANDALO CHE NON VOLSE CHESA TRAITORE DE LA CORONA E POI N ANDANMO NEL PORTO DI GENOVA CUM CIII GALEE DI PISA E C VACCHECTE E AVAREMOLA COBADUTA NO FUSSE CHEL TEMPO NO STROPIO. DNS DODUS FECIT PUBLICARE HOC OPUS.

[166]

Una siffatta sta al Mulino del Palazzo in val di Merse senese:

MCCXLVI AL TEPO DE GUALCIERI DA CALCINAIA PODESTÀ — GUIDO STRICA — RANIERI DI LODI; ORLANDINO DE CASUCCIA FEICE.

La riferisce il Repetti[167]: mal però asserisce che questa lingua non fu «mai, almeno nelle cose pubbliche, usata innanzi la metà del secolo decimoterzo». Oltre i già detti, abbiamo scritture originali, quali d’ufficio, quali pagensi, che provano come fosse comune colà il parlare che fu adottato dagli scrittori; tanto da accontentare il Muratori che si querelava più volte di non aver potuto ritrovare nulla dell’italiano, che pure dovette adoperarsi per secoli nelle prediche e nei conti mercantili. In un bel documento senese, pubblicato nell’appendice nº 20 dell’Archivio storico del Vieusseux, portante le spese e le entrate di madonna Moscada dal 1234 al 43, il vulgar nostro vedesi bell’e formato:

«Queste sono dispese de la casa a minuto da chinc’indrieto.

»Anno Domini MCCXXXIIII del mese di dicembre... Si à dato madona Moscada e Matusala lo mulino di Paternostro ad afito alo priore di san Vilio per VII mogia meno VI staja di grano di chieduno ano, ed ene ricolta chiuso da san Cristofano del deto afito. E ano impromesso di recare a loro dispese overo grano overo farina, per ciaschedun mese, tredici staja e mezo di grano o di farina, qual noi piacese; a pena del dopio. La pena data, lo contrato tenere fermo. E Matusala impromise di fare, se la casa si discipasse, di farla a le sue dispese per la sua parte; e se bisciogno v’avesse [167] macine, per la sua parte, di recavile ale sue dispese fino al mulino e di murare lo petorale alle mie dispese... E se lo steccato si disfacese per aqua o per altro fare del mulino, lo deto priore lo dee rifare de legname comunale a le sue dispese...

»Anno Domini MCCXXXVII da genajo indrieto, ala signoria de l’escita di Giacopino e per tutte le signorie que[168] sono iscrite di che in chesta carta, si è compito sere Lambertino; e da genaio indrieto, com’è scrito di sopra, si è chiamato pagato da Matusala per la quarta parte dele piscioni di val di Montone: et o riscrivo lo compimento qued eli che per queste razoni di soto ecc.».

E di questo tenore seguita per quarantacinque carte in-4º piccolo. Ivi pure furono stampate le Ricordanze di Guido di Filippo di Ghidone dell’Antella, quaderno domestico e d’affari, chominciate a scrivere in kalen di marzo anno MCCXXXXVIII; e sentite s’egli è italiano compito.

«Ne l’anno MCCLXXVIII andai a dimorare con la compagnia de li Schali e chon loro stetti dodici anni, tra in Firenze e fuori di Firenze. Per la detta compagnia tenni ragione in mano in Proenza. Per loro stetti nel reame di Francia, in Proenza, in Pisa, in Corte, Napoli et in Acri, et fui loro compagno».

Nell’arcivescovado di Firenze si conserva una donazione ai frati Umiliati, che mostra si stendeano già in italiano i protocolli.

«Anno MCCL etc., in palatio de Gàligariis... ad sonum campane ad consiglium vocati fuerunt consules judicum mercatorum... propositum fuit — se si debbano concedere [168] a’ frati di San Donato a Torre, stante l’utilità che apportano alla città per l’esercizio dell’arte della lana, terre e case poste nel popolo di San Paolo e di Santa Lucia, e si concedono»[169].

Corrispondenze del 1290 e 91 della ditta Consiglio de’ Cerchi e Compagni in Firenze e Giacchetto Rinucci e Compagni in Inghilterra, convincono come frequente e regolare si tenesse il carteggio in italiano[170]:

«Diciesette dì di febbrajo avemmo due lettere che ne mandaste;... Recollene il primo corriere di Langnino: e del mese di marzo n’avemo avuto anche cinque piccole lettere che m’avete mandate per altre genti; e sedici dì di marzo avemo anche una lettera che la ci recò il corriere di pagamento di Langnino ecc...

»Noi avemo pagata per voi, per vostre lettere, a Cambino Bonizzi e a Paganello Bencivenni e alla moglie di Diotajuti Montieri quella quantitade della moneta che ne mandaste dicendo. In altre lettere v’avemo iscritto il parere nostro di quello che volemo che per ugnanno si faccia per noi in Inghilterra e in Iscozia sopra la coglietta, e ancora in lane di magioni. Nostro intendimento si è di volere che si faccia 200 sacca di lana coglietta tra in Inghilterra e in Iscozia, in quelle luogora che più utilitade credete che si ne possa fare.

»... Sopra ’l fatto delle saje di Luja non fae mestiere più di scrivere, ch’assai vi n’avemo scritto per altre lettere; ed è nostro intendimento che, quando avrete questa lettera, quelle che rimandare ci dovete per ugnanno ci avrete rimandate in Fiandra».

In alcuni capitoli del 18 giugno 1297 della Compagnia d’Or San Michele sta:

[169]

«Anche ordiniamo che, conciossiacosachè, per cagione del mercato del grano e per altre cose che si fanno nella detta piazza sotto la loggia, la tavola di messer santo Michele si impolveri e si guasti, li capitani siano tenuti di farla stare coperta acciò kessi (che si) conservi nella sua bellezza et non si guasti. Salvo kel sabbato dipo’ nona, disfacto il mercato, la debbiano fare discoprire et stare discoperta per tutto il dì de la domenica, et così si faccia per le feste solenne che mercato non si faccia. Che non si mostri, overo si scuopri la figura di detta nostra donna senza torchi accesi».

Nell’archivio di Siena è lettera, che nel 1253 scrivea Tuto Enrico Accattapane a Ruggero di Bagnole, capitano di quel popolo per Corrado re de’ Romani e di Sicilia:

«A voi, mesere Rugiero da Bagnole, per la grazia di Dio e di domino re Currado capitano del comune di Siena, Tuto Arrigo Acatapane vi sie va raccomandando. Contio vi sia, che io sono in Peroscia, e giosevi giovedì due die entrante ottobre, con una grande quantitae di cavaieri della valle di Spuleto e delle contrade di la giuso; e quandio gionsi in Peroscia sì vi trovai Aldobrandino Gonzolino, unde sappiate che io me ne volea venire coi detti cavaieri per chello che io voleva esere in Siena colloro innanzi voi per vedervi, e perchè voi intendeste i pati che sono da me e dalloro anzi ch’ellino vi scrivessero, i quali pali apaiono per carta a mano di notaio; unde io facio contio che i pati son cotali ch’eglino vi deano servire a vostra volontà di die di notte con buoni cavalli domi».

La città di Siena possiede una serie di statuti, dettati in lingua volgare nei secoli XIII e XIV; il più antico dei quali (Statuto di Montagutolo, nº 50 nel R. Archivio) va dal 1280 al 1297. Il principio è tale: «Questo ene [170] il breve e li statuti e li ordinamenti del Comune e delli uoni (uomini) da Montagutolo dell’Ardinghesca, facto et ordinato et composto per li massari del decto Comune sotto gli anni del nostro Signore Mille CCLXXX del mese di Iennaio Indictione VIIII. Ad honore e buono stato del Comune di Siena e de’ Conti da Civitella et ad honore et riverentia Didio e de la beata Vergine Maria e di tucti Santi e le Sante di Dio et ad mantenimento e buono stato del Comune e delli uomini del decto Castello e de la sua corte e distrecto e di tutti coloro che avessero ragione col decto Castello e nel suo distrecto».

Di data legale abbiamo al 1265 la pace concordata in Tunisi fra l’ambasciatore pisano e quel re:

Terminus pacis.

«Et fermosi questa pace per anni XX. La quale pace sempre sta ferma in de lo soprascripto termine a di XIII de lo mese di sciavel anni LXII, et DC secondo lo corso de li Saracini, e sub annis Domini M CC LXV, indictione VII, tertio idus augusti secondo lo corso de li Pisani...

Lo testimoniamento et lo datale di questa pace.

»Et testimoniove dominus Parente per culoro che lui mandono in sua buona volontade et in sua buona memoria et in sua buona sanitade, che questa pace a lui piace, et cusì la ricevette et fermove. Et inteseno li testimoni da lo scheca grande et alto et cognosciuto secretario et faccia di domino Elmira Califfo Momini, et faccitore di tutti li suoi fatti, lo quale Dio mantegna et in questo mondo et in de l’altro. Et rimagna sopra li Saracini la sua benedicione. Baubidelle filio de lo Scheca, a cui Dio faccia misericordia. Buali Aren filio de lo Scheca alto, cui Dio faccia misericordia».

Tale mistura d’italiano e di latino rivela un notajo, o piuttosto un traduttore rozzo, che conserva alcune [171] formole notarili quali usavansi negli istrumenti, e vi mescola il parlare che aveva consueto, vergato a guida della pronunzia. E appunto a tal modo venne formandosi l’italiano. Dapprincipio nel latino s’insinuarono alcune voci e frasi, insolite allo scrivere eletto, ma quali usavansi dal vulgo. Via via ch’erano adoperate, acquistavano una specie d’autenticità; e alle giù ammesse unendone altre ancora insolite, il numero ne aumentava, sin al punto che le italiane furono il maggior numero, e il minore le latine[171].

La mistura appare cresciuta nel testamento della contessa Beatrice di Capraja del 1278[172], il quale da Sebastiano Ciampi fu stampato con tutte le scorrezioni grammaticali e grafiche, ponendolo a confronto colla traduzione dei Trattati morali di Albertano Giudice, fatta l’anno stesso da Soffredo del Grazia, notaro pistoiese, e ch’esso Ciampi stampò colla medesima improba pazienza. Questi trattati terminano così:

«Or finisce lo libro del consolamento e del consiglio, lo quale Albertano giudice di Brescia de la contrada di sancta Agata compuose’ ne li anni d. MCCXLVI del [172] mese de aprile, ed imagoregato in su questo vulgare ’ne li anni d. MCCLXXV del mese di sectembre.

«Chi scrisse questo vulgare

Dio li dia bene e capitare,

Chi scrisse ancora scriva

Sempre e ognora».

Una lingua, in cui stendeansi atti importanti pubblici e privati, in cui già si trovava opportuno tradurre le opere di quella che un tempo era stata nazionale, doveva essere adulta, e conosciuta ai lettori più che non quella da cui si traslatava. Già erasi compreso che l’intelligenza umana aveva acquistato un nuovo istromento, non inferiore in forza e bellezza a verun’altra forma della loquela; e mentre prima riservavasi agli usi giornalieri dell’esistenza materiale, si vide bastava a dipingere la natura con tutti i suoi particolari, enunciare il pensiero con tutte le sue finezze, prestare una voce potente a ciascuna passione.

Erra dunque il Bembo che trae tutto dai Provenzali, e asserisce che pochi scrittori di prosa si vedano in quel primo secolo, fuor dei Toscani (Sulla vulgar lingua). Erra G. B. Niccolini (Qual parte aver possa il popolo nella formazione di una lingua) scrivendo che «in prosa volgare si può dire che quasi niuno al tempo di Dante scrivesse, non essendo ancora in credito la lingua volgare, e scrivendo i dotti in latino e facendo commenti in latino». Erano già note allora, e furono meglio divisate poi molte anzi moltissime cronache in romanesco, in napoletano, in siciliano, e prose devote, e didattiche, e poesie, donde si chiarisce che Dante trovava una lingua già molto esercitata.

Bologna è di mezzo fra l’Italia settentrionale e la meridionale: vi sono professori e scolari d’ogni paese, il che doveva facilitar l’avvicinamento. Perciò Dante la [173] esaltava; e di fatto s’avvicinava al tipo latino più che al provenzale, e vi si fissavano la fonologia e la morfologia. Pure il toscano avea meglio contemperato la tradizione latina col dialetto; delle due estremità evitato i difetti; avea chiarezza, trasparenza; era fra i dialetti italiani quel che l’italiano fra le lingue romanze; con minore mescolanza di parole tedesche, francesi, arabe.

Alcuni scrittori accettarono gli idiotismi, di che Dante li rimprovera; i migliori li abbandonavano, di che venne questo meraviglioso stromento del pensiero; il quale alla Toscana va debitore del suo splendore.

§ 19º Riassunto e paragoni.

Con questo noi abbiamo inteso combattere l’opinione, che si sorbisce nelle scuole, derivasse la lingua nostra da mistura colle tedesche. Queste ci diedero bensì alquante voci, come rubare, bicchiere, fiasco, sprone, sciabola, arnese, stivale, fallo... ma non un complesso, nè tanto meno un sistema grammaticale. Nella nostra rimasero ben pochi termini d’origine teutonica, e questi significano armi e generi nuovi di oppressione; i pochi che si applicano alle occorrenze della vita, hanno a fianco ancora vivo il sinonimo latino[173]; a [174] ogni modo son meno assai che non le voci latine, le quali furono accettate dai Tedeschi. E alla storia dice qualche cosa il vedere che le parole de’ vincitori, adottate dai vinti, furono spesso tratte al peggior senso; land che pei Tedeschi è terra, per noi fu un terreno incolto; ross non espresse un cavallo, ma un cavallaccio; barone divenne sinonimo di paltoniere e birbo; grosso significò tutt’altro che grandezza; volk non indicò popolo ma popolaccio.

Troveremo nel parlar nostro voci e locuzioni assai, che non traggono origine dalle latine, o dirò più preciso, non dalle latine scritte; e queste sono spesso delle più necessarie; molte fiate la radice loro non si riscontra neppure fra i Settentrionali; e più frequentano nei paesi ove i Nordici men posero nido, come sarebbero Toscana, Sicilia, Venezia, Romagna. Ora, donde vennero elle se non dai prischi dialetti, ch’erano sopravvissuti alla dominazione romana? e non n’è altra prova la conformità mantenutasi tra dialetti di paesi ove pure si parlano due lingue differenti?[174]. Per mettere tutto ciò in sodo, bisognerebbe rimontare alle origini, quando della stirpe indo-europea, o come meglio dicono, ariana, un ramo si spinse verso i nostri paesi, nei quali viveano affratellati Celti, Greci, Latini. Si divisero poi, e il greco tenne le felici contrade dell’Arcipelago, estendendosi dall’Emo all’Asia Minore, e occupando anche la Sicilia e l’estremità meridionale d’Italia. Il celtico s’attendò nell’Europa centrale per le valli del Danubio e del Reno; e circuite le Alpi, popolò anche la Svizzera, la Francia, [175] l’Italia settentrionale, la Spagna, mentre elevavasi fino all’Anglia e all’Islanda. Il ramo italico forse era durato in maggior comunanza col celtico, se vediamo nel parlar suo l’assenza di aspirate, e di certe modificazioni del verbo, come il futuro e il passivo. Men numeroso del celtico, men del greco dotato del sentimento estetico, s’allungò nella penisola nostra, sovrapponendosi ai Casci, agli Aborigeni, alle razze, non dirò indigene, ma preistoriche, e la cui esistenza ci è ora attestata dai ruderi lacustri, e dalle terramare. Queste genìe selvatiche non perirono, non cessarono di parlare; e la loro loquela modificò in parte quella de’ sopravvenuti, in parte conservossi, e si troverebbe in fondo ai dialetti, chi li cercasse con quell’artifizio di eliminazione, che ora si pratica con tanta e pazienza e sapienza dai glottologi.

Attenendoci alle modeste e storiche proporzioni del nostro tema, diremo come anche il provenzale, da cui altri volle dedurre il nostro idioma, era di fondo latino, ma per le terminazioni teneva maggiormente del tedesco che non l’italiano. Pure dee farne gran conto chi voglia tessere la storia della lingua e de’ dialetti italici. Nei trobadori, e massime in alcuni canti delle valli alpine, si riscontra un dire, che con poche mutazioni si riduce italiano[175]; ma, o fallo, o dovranno tirarsene [176] tutt’altre illazioni che quelle che ne trasse il Perticari negli Scrittori del Trecento.

Nè si avranno a trascurare i dialetti, mantenutisi in paesi dove si piantarono colonie latine e legioni di difesa, come la Rezia e i Principati Danubiani[176]. De’ quali [177] toccando, ha maternità simile all’italiana la lingua valacca, parlata da popoli che ancora s’intitolano Rumeni, come di rimpatto noi Italiani dai Tedeschi siamo chiamati Wälschen, nome affine a Walachen, e dai Polacchi Woloch, dai Boemi Wlach. Il fondo del valacco è di parole latine, miste a slave e aplo-elleniche, a tedesche, a turche, per necessità di comunicazione; ma le somiglianze lessiche col latino sono tante, da potersi dire identiche le due favelle[177]. La valacca poi conservò [178] molte radici, delle quali a noi restano solo i derivati[178]; come albo, fur, ove, da cui noi serbammo albore, albume, furtiva, ovile; e così ningere, querere, cucurbitu, vulture, venare. Come usa in italiano e non in latino, il nome degli alberi si fa maschile, femminile quel de’ frutti, pruni e prune, peri e pere: come in italiano e non in latino abbondano i diminutivi, peggiorativi, vezzeggiativi: muiierone una donnona; omoiu un omaccione; domicelu signorino; canubin il canino; mariutia, negrutiu, orbetiu, fiiastro; d’onde io argomenterei esistessero già tali alterazioni nel linguaggio parlato dai Latini al tempo che fondarono queste colonie.

Forma i plurali, non con affiggere la s come altre lingue neolatine, ma col cambiare l’a in e, l’u in i; molti finiscono in uri, come da jugu juguri, da nodu noduri, da fumu fumuri, somiglianti a donora, pratora, campora, che diceano i nostri vecchi. Abbandonò il genere neutro; l’articolo derivò da ille, ma invece di prefiggerlo, il suffigge dicendo parinte-le il parente, domn’ul il donno, omu’l l’uomo; e pel femminile a, ovvero oa se termina in è. Vale a dire che il valacco adottò i suffissi degli Epiroti[179], valendosi dell’articolo italiano. I pronomi sono i nostri: eu, tu, elea; nei, [179] voi, ei; così nostru, vostru, loru, acest, acelu, unu, tot, nimene, amendoi, quest; questu, quel, quelu; un, uno, tot, totu; e gli avverbj che, dapò, dapòque, o, altrmentrile, de qui, ma, giosu, sum, dinsuso, de aqui in ante, jeri, forte. Il superlativo e comparativo forma alla francese; maí bon, cel maí bon, che del resto non è insolito ai Latini (magis dives ecc.). I numerali ha identici ai nostri fin al cento, che dicesi sata come nel sanscrito. I verbi han quattro desinenze dell’infinito, sincopate come si fa nei dialetti dell’alta Italia, in à, è, e muta, ì; e sono preceduti sempre dall’a, come gl’inglesi dal to; per es. a cantà cantare. Perdettero il futuro semplice, supplendovi con voiire volere, ma conservarono il trapassato: eu avusem, io avea veduto. Pel passivo fanno eu me vedu, io sono visto; el se vede, egli è visto; affiggono i pronomi come noi: dami, dai, dali, per dammi, dagli, danne[180].

La conjugazione valacca è simile e spesso eguale all’italiana: semplice e diretto il periodo e la sintassi. I nomi equivalgono spesso all’ablativo latino, come pulvere, sore (sole), munte, margine, facie, vale (valle), morte, langore.

Frequentissimi i participj in utu, avutu, credutu, crescutu, conosciutu, implutu, battutu, alcuni de’ quali non si hanno in latino (batuto), altri assai differenti (cognitus, cretus) mentre in italiano son eguali.

Hanno bolta, usia (uscio e volta), stala, cucina, supa, [180] sala, sappa, vechiu, rosiu (rosso), verde, fiastra, sora (suora), caldura, ochi, urechi, voja (voglia), ajutare, bere, chiamare, cercare, discarcare, inaltiare, manciare (mangiare), tocare, repansare, adunare, lasare, jocare... che sono molto piu simili all’italiano che al latino scritto.

È rara nel latino la terminazione in esco, mentre noi abbiamo conosco, patisco, nutrisco, ardisco, ecc., e così nel valacco nutrescu, nodescu, amutesco, impartiesco.

Anche nel moldavo oggi si dice porta, bove, vacca, leo, lupe, volp, urs, passere, niegro, verdie, alb, vin, aer, argint, aur (oro), fier (ferro), plumb, flore, uccis; e così domne, femaya, ferestra, yerba, sordisce, vulture, magine, ciudad, alterazioni ben facili di domine, fœmina, fenestra, herba, sorex, vultur, margo, civitas; e i verbi cresk, floresk, nesk, schio, per cresco, floresco, nascor, scio.

Sui dialetti ladini sarebbe superfluo e incompleto ogni studio dopo i Saggi ladini dell’Ascoli. Suo scopo non era tanto di comparare singoli idiomi, quanto di ricomporre nello spazio e nel tempo una delle grandi unità del mondo romano, e come essa si colleghi con altre contigue, e confluisca col veneto e col lombardo.

§ 20º Illazioni. Sistema della trasformazione.

Or queste colonie della Romania e della Rezia furono piantate avanti l’irruzione dei Barbari. Dunque la lingua ch’esse serbarono, era già in corso mentre l’Impero sussisteva; dunque arriviamo anche per questa via alla [181] conclusione, che la lingua italiana non sia se non la latina, qual era parlata già ai tempi classici, e forse prima; non essendovi ragione perchè un popolo, il quale non cambiò di patria, smetta il parlar suo per adottare quello dei conquistatori; tanto più che questi erano pochi, viveano sceveri dai conquistati, ed erano meno colti di essi[181].

Altre prove ne troverà chi osservi come noi tuttodì usiamo termini che il latino classico repudiava come antiquati o corrotti, ma che doveano essersi conservati tra il popolo, giacchè li vediamo resuscitare quando si guasta o ammutolisce il linguaggio letterario. E poichè noi non nasciamo dai pochi letterati, ma dal grosso della popolazione latina, perciò le parole d’oggi tengono il significato de’ bassi Latini, anzi che quello degli aurei. Clostrum, coda, vulgus, magester, audibam, caldus, repostus, cordolium, bolga, mantellum; finis e frons al femminile, che passarono all’italiano, erano negli antichissimi, e furono abbandonate dai classici. Nel latino classico era comune il fortis, non forcia ch’è poi nel basso e in tutte le lingue romanze. Così è [182] di giardino, di gatto. Blanch c’è nello spagnuolo, nel valacco, nel ladino, come in italiano. In valacco dicesi boje, in romancio bojer, in ispagnuolo boja quel che in latino carnifex. In valacco abbiamo inaltzà, bâte, per inalzare e battere; e così citu per zitto, come lo pronunziano i Lombardi. Mannaja sarebbe nome nuovo, ma nel romancio abbiamo manera, e in dialetti lombardi manerin. Tacio il capitaneus che è già in un papiro del 551 presso il Marini. Or donde vennero se non dal parlato?

Nel daco romano abbiamo nu erà niminea; nimenui nù së convine; nù zicë nimic, come in italiano diciamo «Non era nessuno; a nessuno non conviene; non dica nulla». Ne’ classici le due negative affermavano; ma il trovar l’opposto nel vulgare di due paesi così distinti ci fa credere che altrimenti usasse il vulgo[182].

Indicammo a pag. 77 di non poter determinare perchè, fra due sinonimi, i nostri preferissero l’uno, come grandis, fames, niger, senior, totus, piuttosto che magnus, esuries, ater, omnis[183]; e così piuttosto [183] di sicut il quomodo[184]; de mane piuttosto di cras; subito piuttosto di cito; penso piuttosto che cogito; e supponiamo che già il popolo dicesse più volentieri plus che magis; hac hora (ora) che nunc; illa hora (allora) che tunc; ad minus (almeno) che saltem; per hoc (però) che ideo e nam; perfecta mente che perfecte.

Deperita la correzione che era mantenuta dagli scrittori, l’uso prevale colla sua mobilità; e le parole latine divengono italiane mediante que’ cambiamenti che i grammatici classificarono, intitolandoli protesi quando s’aggiunge una lettera o una sillaba al principio; aferesi quando la si toglie, come da rotundo tondo; apocope quando levasi la finale; sincope quando di mezzo alla parola si leva una lettera o una sillaba; onde da rubigine ruggine, da parabola parola, da civitas città, da Pado, viginti, bonitas, facere, mensura, pensare, Po, venti, bontà, fare, misura, pesare; epentesi quando s’introduce una lettera nuova, come pietra e fiera in petra, fera; antitesi quando si cangia una lettera, onde diurnus, de mane, hordeum, vestro, radium diventano giorno, domani, orzo, vostro, raggio; metatesi quando si muta ordine alle lettere, col che aer, luscinia, super divengono aria, usignuolo, sopra; antifrasi quando alla parola si dà un senso contrario, come da vir bonus, birbone. L’eufonia, cioè la dolcezza di pronunzia, è poi una principale ragione, la regola forse suprema di tutti i cambiamenti.

[184]

Alcune voci ne tornarono dal greco più direttamente; e p. e. ripigliammo palla, di cui i Latini aveano fatto pila, e le terminazioni in osus, ontius, entius, così comuni nei primi cristiani[185]. In molte la radice latina [185] fu conservata soltanto nei composti: onde non avemmo struere, ma costruire; non ducere, ma condurre, addurre, produrre; non voco ma convoco, invoco; non clamo, ma declamare; non pingo, ma dipingo.

Il fondo però, o, come oggi dicesi, il tipo, rimase sempre latino, ed è noto che in varj dialetti d’Italia occorrono intere frasi prettamente latine; il friulano, per esempio, dice, Vos statis in tantis miseriis: oltre quel che riferimmo del sardo.

Certo non si venne di tratto al bel vulgare odierno. Una lingua che succede ad un’anteriore, difficilmente sa sciogliersi dall’imitarla, anche dopo che, formata ed ingrandita, viene assunta dagli scrittori. Così avvenne della nostra, ove nel Trecento si riscontra ancora la fisionomia materna nel non restringere l’au in o, non mutare la l in i avanti ad a b c f p, nè lo j in g, nè inserire la i avanti ad e[186]. Che se de’ primi scrittori, [186] Dante compreso, volessimo raccorre le differenze da noi moderni, che mostrano cominciante esperienza, troveremmo che ancora usavano molte parole latine: dece, il libito fe licito, sperma, pretio, carpe, parco, cogitare, manduca, unqua...; e i plurali, campora, ramora, palcora, nomora...; altre scriveano perchè forse pronunziavano alla latina, come umeri, triumphi, justo, jurare. Vi scambiavano di lettere, resurressione, terso, penza, perzona, resprendente, stiaffo, stiena, dovunche, oblico, fragello, boce, forvici, paravole, brivilegio, fedita, adasio, Cicilia, savere, navicare, beano, granne, foi, mobole, rimore, sanza, neente, Deo, eo; o di generi, le sacramente, la fiore, la mare, l’oblìa, il nojo, il sedio, e in Dante il domando e il velo; e massime dell’articolo lo per il; od eccedevano in quelle desinenze provenzali d’anza, aggio. Talora sono lettere trasposte, come preta, grolia, impretare, grillanda, stormenti, gralimare, palora, frebbe, aire; o lettere fognate, come in memora, desidero, manera, molesta, lussura, sciutto, scoltato, rede, pitafio, dificio, subitano, brobbio, propiamente, gioane, stribuire, douto; o aggiunte superfluamente, come triemare, bointà, Europie, superbio, istando, auccidere, ausare, aoperare, appruovare, puose, bascio, resgione, tegnendo, vogliendo, cognosco, vuogli, o non ancora assimilate, come adsai, ciptadini, ecceptiamo; o sciolgonsi i dittonghi, come in audire, tesauro, aulente, claudo, pausare, gaudere; o mutasi una delle vocali in consonante, come blasmo, claro, galdio, laldare, aldire. Talora vi appajono sincopi strane: semmana, volno, venno, pensrà, sen (senza), avan’, soven’, ca, foss, fi, fol, nul; quando [187] allungamenti, massime nelle desinenze (partiraggio, rifitoe, piue, sarabbo, farajo, saccio, pietanza e coraggio per pietà e cuore, e tue, mene, quici, mee). Le finali sono spesso viziate (interesso, crimo, leggisto, pianeto, nomo, giovano, comuno, le porti, febbra, adessa). Talvolta si tace la preposizione (dico voi, grazie voi sia, fa noi grazia) o si pone a sovrabbondanza (in ninferno).

I verbi vi sono conjugati a sproposito, trovando spegnare, allegrere, parire, finare, sentere, abbassirsi; schermare, favorare, giojare, pentere sono in Dante; e in lui e in altri dissono, vedia, sentette, dicette, abbo, ei (ebbi), ablavano, avemo e avamo, sentimo, sappie, vinsono, parlasseno, passarebbe, io vorrebbi avere, porìa, dea; e i participj feruto, falluto, pentuto. Essi participj sono spesso adoprati pel nome: il destinato, il pensato, il gloriato, l’imperiato, i falliti, la finita, per destino, pensiero, gloria, impero, falli, fine; del che ci sono rimasti il concordato, l’arbitrato, il giudicato e simili.

Alquante voci di quell’età abbiamo di poi affatto dismesse, come disianza, dolciore e dolzura, perdigione, bellore, increscenza, incominciaglia, usaggio, rancura, smagare, dottanza e dotta, vengiare, issa, grazire, amanza, gelore e gelura, sezzajo, primajo, tostano, prossimano, temorente, bontadioso, pensivo, allegranza, acceleranza, tristanza ecc. Smettemmo pure gli affissi in fratel-mo, moglie-ma, casa-ta, signor-so, e il suto dal verbo essere, che sarebbe giovato tanto ad evitare sgarbate consonanze (è stato portato).

Ne’ versi poi, oltre la generale deficienza d’armonia, occorrevano frequenti le cacofonie, le dieresi stentate, o le contrazioni malsonanti; la rima o era mal determinata, o con parole alterate, facendo consonare ora e [188] ventura, destro e presto, lusinga e rimanga, pietate e matre, morte e raccolte, luna e persona, ottima e cima, majesta e gesta;

E men d’un mezzo di traverso non ci ha.

Che andate pensando sì voi sol tre?

(Dante)

Chi bestia, chi sgraziato, chi cattiv’è,

Chi sciocco, chi invidiato sempre vive?

(Meo Abbracciavacca).

Insomma qui pure si ripete l’andamento, che seguimmo riguardo alla lingua latina.

§ 21º Dei dialetti: loro antichità. Il libro del Vulgare Eloquio.

Già toccammo del dialetto napoletano, e del siciliano, nobilissimi fra gli italici, massime per la tanta parte che ritengono di greco. Ma quel che di essi dicemmo s’applica ben più ai tanti che si parlavano per Italia. Ove noi dobbiamo asserire quel che già per analogia si argomenta, che, ne’ varj paesi, la lingua latina parlata variava. Roma era quel che Firenze o Siena oggi, distinta per quell’urbanità, di cui, al dir di Cicerone, si avverte più la mancanza in provincia che la presenza in città. Del resto è a credere che tutto il Lazio usasse originariamente quella lingua, la quale fu detta latina appunto come la moderna si dice toscana, per quanto ne piglino scandalo i pedanti. E come noi discerniamo gli scrittori toscani da quelli d’altro paese (fiorentino [189] mi sembri veramente quand’io t’odo; Dante), così avveniva allora, e Asinio Pollione tacciava Tito Livio di patavinità, conchiudendo: Quare, si fieri potest, et verba omnia et vox hujus alumnum urbis oleant; ut oratio romana plane videatur, non civitate donata[187].

Agli Urabro-Tusci mancava l’o, e ancora in que’ dialetti sentiamo spesso l’u al luogo dell’o; come in dopo, quattordici, Giorgio, posto: lo che avviene pure in Sicilia.

L’etrusco forse era lingua di conquistatori, onde il popolo non l’aveva adottata, e perciò perì, ma dicono abbondasse (e il Lanzi credè provarlo) di vezzeggiativi, diminutivi, donde venne ai dialetti moderni tal facoltà, scarsissima nel latino. Nel latino terminavansi spesso le voci in consonante; nell’etrusco preferivasi la vocale, siccome conservarono i moderni Toscani.

Giovanni Galvani volle, in molte contrazioni di voci osche, riconoscere la pronunzia de’ rustici odierni: come combner per convenire: Kapfa per Capua, siccome alcuni proferiscono afdace, aftunno; fi e fia per filius e filia; faka e facat per faciat. Embratùr per imperator segnerebbe ancora la pronunzia d’un abruzzese.

A Bologna, città potente dell’Etruria, dicesi ancora pzein, dla, vgnè, cminzò, cm’un (piccino, della, venne, cominciò, come uno), che son contrazioni usate nel poco d’etrusco che conosciamo: e v’era comune il mutare [190] l’e in ei, come oggi in veina, lein, canteina, per vena, lino, cantina.

Festo il nome di famuli deriva dagli Oschi, fra cui servus FAMEL nominabatur; e famei in molti dialetti si dice anche oggi il mandriano. Lo stesso dice che aruscare significa undique pecunias colligere; e ruscà su dicesi ancora in Lombardia per raccogliere d’ogni dove. Lo stesso nota antios per excruciatus; e sarebbe la voce nostra ansioso. Bacar o baccar era un vaso da bere il vino, e sarebbe l’origine indigena del bicchiere o pechero. Servio vuole che Sabinorum lingua, saxa HERNA vocantur, ed ecco l’origine di caverna.

Certamente la Gallia Cisalpina, popolata prima, dominata poi da Cimri, da Celti, da Galli, doveva usare una lingua diversa da quella del Lazio, popolato dagli Aborigeni, o della Toscana dagli Etruschi, o de’ paesi meridionali, traenti la popolazione da Fenici e da Greci. La conquista vi introdusse la lingua latina, non però così che cancellasse la primitiva. Dovendo Bruto andar proconsole a Milano, Cicerone l’avverte che vi udrà verba parum trita Romæ. A Decimo Bruto, negli ultimi aneliti della repubblica, fu agevolata la fuga da Bologna verso Aquileja dal sapere il dialetto di quei paesi[188]. Pompeo Festo si duole che ormai non si conoscesse il latino in quel Lazio, da cui aveva dedotto il nome[189]. A. Gellio narra che un oratore avendo detto apluda e floces, voci antiquate, gli astanti, quasi nescio quid tusce aut gallice dixisset, riserunt[190]: il [191] che significa che il tosco era ben disforme dal latino.

Viepiù dovevano le prische lingue sussistere fuori d’Italia, e basterebbe a provarlo il consulto d’Ulpiano, che consente di stendere i fedecommessi non solo in latino e greco, ma in lingua punica, gallica, o di qualsiasi altra gente[191]. Le legioni nostre che per le province accampavano, e quelle reclutate di stranieri che s’assidevano poi in Italia, dovevano trasportar qui voci e modi ignoti ai colti parlatori. Conosciamo storicamente quando i Marsi adottarono i caratteri e la favella latina: i Cumani chiesero ut publico latine loquerentur, et præconibus latine vendendi jus esset[192]. Titinio poeta, contemporaneo del prisco Catone, scrive che i popoli abitanti attorno a Capua, Terracina, Velletri, obsce et volsce fabulabantur, nam latine nesciunt[193]: e bilingues Brutiates diceansi i Bruzj perchè parlavano osco e greco. Nella guerra Sociale, ultima riazione delle italiane autocrazie contro il funesto accentramento romano, i popoli collegati, come protesta, assunsero per pubblico decreto il linguaggio natio, e l’adoprarono fin nelle monete.

In questi ultimi tempi s’è rivolta l’attenzione dei dotti napoletani sui dialetti italioti, e basti accennar gli studj di Guarini, Avellino, Minervini, Garrucci; pure siamo ancora lontani dal possederne una teorica nè una storia. Se noi dovessimo a ciò fermarci, dopo [192] Jannelli[194] e Lepsius[195] e Fabretti e Mommsen, vorremmo portare studio speciale sull’osco, la lingua più diffusa nell’Italia meridionale, che parlavasi da popolo estesissimo e suddiviso, e sin nel Bruzio e nella Messapia ove nacque Ennio, il quale tria corda habere se se dicebat, quod loqui græce, osce et latine sciret[196].

È conforme alla natura dei vulghi, che, colla lingua a parole finite, adoprata negli scritti, resti la parlata a parole tronche. Ma oltre il toscano, che fu poi elevato a lingua nazionale, io penso che anche gli altri dialetti avessero già nei primissimi secoli preso il carattere proprio che tennero dappoi, e che traevano da fonti più lontane. Che se il Lombardo pronunzia l’eu, l’u e [193] l’on e l’an nasali a modo francese, e contrae au e al in o, forse è dovuto alle immigrazioni de’ Galli, anteriori ai Romani; donde pure i tanti nomi di località, affatto gallici o celti, e l’udirsi dal vulgo lombardo voci proferite come le antiche galliche[197]. In altri dialetti si rinvengono modi non adottati dagli scrittori, e nello studiare i dialetti sariano a fare certi raffronti, fecondi di alte conseguenze. Quanta distanza di vie, di origini, di linguaggio, di civiltà fra il Milanese e le Calabrie! Ebbene, in queste si pronunzia onza, panza, vittura, fasuli, citto, Michè, stu e sta, na donna, vedè, sentì... per oncia, pancia, vettura, fagiuoli, zitto, Michele, questo e questa, una donna, vedere, sentire..... come appunto si pronuncia in Lombardia. Addurremmo anche forme lessiche ben più significanti, come mi vegl pa, io non voglio, rispondente affatto al piemontese mi voeuj pa e al milanese mi vuj no, e parallelo al tedesco Ich will nicht; se non che ci si può affacciare il dubbio che questi modi provengano dalle colonie [194] valdesi, migrate colà dalle valli di Pinerolo[198]. In Sardegna si ode pè, crù, conchetto (piede, crudo, truogolo) come in Lombardia[199].

I deputati alla correzione del Boccaccio chiamano il Trecento «quel buon secolo, quando, come gli abiti e le monete, così usavano tutti li medesimi modi e parole». Intendono dei soli Fiorentini, ma è asserzione assurda. Che diremo di quella del Perticari, che «tutte ad un tempo le città d’Italia vennero a parlare nella stessa maniera l’idioma vulgare?» È fatto ripugnante a natura, quand’anche non restassero prove del contrario. Perocchè potrebbonsi ripescare parole, pronunziate ne’ varj paesi come si usa tuttodì, e scivolate nelle scritture latine e nelle prime italiane.

Nei patti fra Obizzo Malaspina e la Lega Lombarda del 1168 leggesi: Novum dicimus statutum a triginta annis infra, sive in zae. E in una carta dei 1153 ap. Giulini: Et hoc vidi per annos octo et plus a terremotu in za, et a decem annis in là. Noi diciamo tal quale anche oggi[200]. Nel Novellino abbiamo che fu [195] condotto ad Ezelino un ollaro cioè pentolajo; e che egli avendo inteso uno laro, cioè un ladro, mandollo alla forca.

Già le carte venete del XII secolo mutano il g in z (verzene, Zorzi)[201]; le bolognesi ci offrono altare [196] sanctæ Luziæ, Cazzavillanus, Cazzanimicus, Bonazunta, rivum Anzeli, Delai de la Bogna, Adam de Amizo, Mulus de Bataja, Arderici de Magnamigolo; Boso Tosabò è uno de’ cinque consoli di giustizia, che nel 1170 compilarono gli statuti di Milano.

[197]

Nel secolo XIII, mentre a Firenze cantavansi le Laudi in un vulgare così caro, in altre città d’Italia correvano canzoni che possono dar saggio della lingua parlata. Gli esempj addotti dal Perticari proverebbero soltanto per la scritta, e perciò non appoggiano la tesi di lui, avvegnachè tutti s’ingegnassero di scrivere il toscano. La seguente fa parte di una raccolta pei Battuti di Cremona:

Com fo trahit el nos Signor

E vel dirò cunt grant dolor.

Al temp de quei malvas zudè

Un grand consey-de-Crist se fe

Chel fos trahit et ingannath

E su la cros crucificath.

Inter lo corp de quey malvas

Denter gintrava (gli entrava) el setenas

Zosin fo Yuta Scariot

Che Crist trathiva dì e not.

Quel Yuta fais et renegath

Ay sovra princep fo andath

E si ye dis, quem volef da

Se vel tradis illy vosy ma?

Respos illora quey zudè,

Trenta diner tinì de accè

Stul po trady ed ingannà

Deraz de no apresentà...

[198]

E quant ey laf sflagelath

Mult tosto ey laf incoronath

De spini grossi et ponzent

Per che el so volt fo sanguanent, ecc.

Una laude di Monza fu da me pubblicata nella Margherita Pusterla: e di somiglianti ne ha per avventura ogni città di Lombardia. Pietro de Bescapè milanese, di cui si ha un bellissimo manoscritto del 1264, dà una rozza storia del Vecchio Testamento:

Como Deo a facto lo mondo

E como de terra fo lo homo formo,

Cum el descendè de cel in terra

In la Vergene regal polzella,

E cum el sostenè passion,

Per nostra grande salvation,

E cum verà el dì del ira

Là o sarà grande rovina

Al peccator darà grameza

Lo iusto avrà grande alegreza

Ben a rexon ke l’om intenda

De que traita sta legenda...

In mille duxento sexanta quatro

Questo libro si fo facto.

Et de iunio si era lo primier dì

Quando questo libro se finì;

Et era in secunda diction

In un venerdì abbassando lo sol.

Di Buonvexin da Riva, frate umiliato, vivente circa il 1290, si ha nella biblioteca Ambrosiana un trattato di buone creanze, ove, fra lo studio di italianizzare le parole, sentesi il fondo lombardo. Comincia:

Fra Bonvexin de Riva che sta in borgo Legniano

D’le cortesie de descho ne disette primano;

[199]

D’le cortesie cinquanta che s’de’ osservare a descho

Fra Bonvexin de Riva ven parla mo de frescho.

Esso frà Bonvicino ha un dialogo fra la Madonna e un villano, che comincia:

Chi loga se lumenta lo satanas rumor

D’la verzene Maria matre del Salvator;

e anch’oggi in villa dicono chi loga per qua (hoc loco) e lumentà per ricordare, rammentare.

In questo poeta già avvertimmo la formazione della conjugazione odierna mediante l’affissione del verbo ausiliare.

E che il dialetto milanese già si parlasse anteriormente, lo raccogliamo dal trovare, nel poeta Cumano che cantò la guerra decenne contro i Comaschi, nominati un Pagano prestinaro, un araldo Pandisegale: sull’arco che i Milanesi eressero dopo riedificata la patria nel 1174, son nominati Passaguado da Setara, Arnaldo de Mariola, Gerardo de Castagnianega, prevede per prete, che sono pronunzie ancora usate. A difesa del carroccio i Milanesi istituirono la compagnia de’ Gajardi, e n’era capo un di Monza, detto Mettefogo: parole del dialetto; come sono i cognomi usitati in quel tempo, Bragacurta, Bragadelana, Cavazocco, Brusamonega, e simili. Anche a Brescia trovo nel 1177 Martinus Petenalupi, Ogero de Cavalcacane; e nel 1192 Landolfo Scanamojer, Carnevale de Codeferro, ecc.

Agli incunabuli della stampa appartiene El vocabolista ecclesiastico ricolto et ordinato dal povero sacerdote de Christo frate Johanne Bernaldo savonese, stampato a Milano per Leonardo Pachel, 1489, nel quale son registrate parecchie voci nel dialetto milanese vive fin oggi, quantunque egli vi desse la terminazione italiana; come aguccia ago, amolato arrotato, assetarse [200] sedersi, barba zio, brancata manciata, camola tignuola, copo tegola, dar fora pubblicare, despresio malizia, fiadare respirare, fidigo fegato, fronza fronda, gera ghiaja, gialdo giallo, la grassa l’adipe, impressa in fretta, ingualare eguagliare, lentigia lenticchia, lisca carice, lumisello gomitolo, meda mucchio, messedare mescolare, mezena lardone, mocare smoccolare, morone gelso, mufolento ammuffito, pagura paura, rampegar arrampicare, rognoni arnioni, rosegato roso, sbadagiare sbadigliare, scarcare sputare, scoder riscuotere, semeso sommesso, sesa siepe, spegazzato imbrattato, temporito precoce.

A Gabriele Rosa fu esibita una composizione in bergamasco, che nell’archivio notarile di Bergamo esisteva fra istrumenti privati in un volume di pergamena del 1253, sicchè vorrebbesi crederla dell’anno stesso. Sarebbe dunque anteriore a tutti questi saggi di dialetti; ma per ciò appunto si desidererebbero più concludenti prove d’autenticità, e meglio ancora un fac-simile.

Il Lasca, negli Inganni, atto III. 5, introdusse un Pider da Valsassina che parla il suo dialetto; e così si fa in altre commedie del Cinquecento, ma in modo sì sformato, da non riconoscersi più il lombardo. Anche Franco Sacchetti fa parlare molti in dialetto, massime in friulano e genovese; ma sempre piccol conto si può fare sopra chi riporta vulgari altrui. Perciò fallisce la prova fatta dal Salviati di tradurre in milanese una novella del Boccaccio[202]; e perfino la più diligente disquisizione in tal proposito pubblicata testè dal signor Biondelli.

[201]

Pel dialetto piemontese è a veder la traduzione degli statuti della società di S. Giorgio di Chieri, pubblicata dal Cibrario nel t. II, p. 287 della Storia di Chieri e assegnata al secolo XIV[203]. Del qual tempo sembra pure un uffizio ad uso de’ confratelli disciplini di Saluzzo, ove sono 32 laude in un cattivo italiano che tirerebbe al veneto. P. e.:

Or s’aprossimo lo tempo che lo rey del paradiso

Si dey nascer da una vergen como n era empromisso

Deo pure n’a tramisso lo so figlol glorioso

L’agnelo sanza peccao Ihu Xre pietoso, ecc.

Inoltre vi sono diciotto recomendaciones in vero piemontese.

Non mancò chi tolse a provare che il piemontese forse più ch’altri dialetti ritenne del latino, perocchè dice ses e sömo da es e sumus; is, ist pronomi; om, dom, magister, liber, papaver, cadaver, setember, otober, par, dispar, vas, sal, gius, ses, dominica, fumela, pansa, spuè, stranuè, (da spuere e sternuere, anzichè dal frequentativo), fenestra, ceresa, ecc.; modi comuni, del resto, ai parlari dell’Italia alpina.

[202]

Del principio del 1300 si ha una cronaca saluzzese di Gio. Andrea Saluzzo signor del Castellaro, in rozzo italiano misto a parole prette piemontesi, come gesia, eschalero (scala), quiglieri (cucchiaj), governore (governatore), servanta (serva), fruita (frutta), largour (larghezza), Menia (Domenica), chatar (comprare), rabelar (strascicare), penta (dipinta) ecc.

Delfino Muletti, nelle Memorie di Saluzzo, vol. iv, reca delle laude del 1400 nel dialetto saluzzese, e una iscrizione posta il 1403 sulla chiesa di San Sebastiano: ma questa può piuttosto dirsi in rozzissimo italiano che in dialetto; quelle orazioni sono l’anello fra il dialetto piemontese e il valdese, che si connette con quei della Linguadoca:

«Noe ce tornerema devotament al altissim De nostro Segnor Yhu Christ, da qual venen tuit gli bin e tute le grasie che nos n’a dait grasia en cast beneit di de fer questa disciplina ch’el nos dea grasia che noi la pussèm e voglièm fer a tuit gli temp de la nostra vita al sò los, onor e gloria, e a recordament de la soa santissima passion, e a esmendament di nostri peccai, asiò che quant noi passerema da questa misera vita, el nos condua tuit a la gloria de vita eterna».

Del dialetto nizzardo il primo esempio a stampa è il Compendion del Abaco per Francesco Pellos di Nizza, Torino 1492. Comincia:

«Jesus done a mi gratia et sia en so plaser che fassa principi he fin de aquest compendio de abaco de art de aritmetica he semblament dels exempels de jeometria contegnut en los presents sequents capitols, lo quals tracleray coma a mi sera possible, perchè les citadins de lo ciutat de Nisa son sotils et speculatieus en ogni causa, et specialment de las dichas arts».

Stranissimo è il dialetto genovese; e raccontasi vulgarmente [203] d’un commissario, il quale non volle segnare il foglio di via ad un cittadino per Cogoleto, atteso che non sapeva trascrivere in lettere la bisbetica pronunzia di quel nome. Lo stesso caso dev’essere intervenuto ad un notajo nel 1110, che di molti testimonj non indica il nome, quorum nomina sunt difficilia scribere (Mon. Hist. patriæ, Chart. II. 186).

Di esso genovese dialetto Matteo Mollino conserva manoscritte alcune poesie d’autore ignoto, tra il 1270 e il 1320 (Spotorno, Storia letteraria della Liguria, tom. I. p. 283). Una, celebrando la vittoria riportata nel 1294 a Lajazzo, comincia:

L’alegranza de le nove

Chi noamente son vegnue

A dir parole me commove

Chi non son de ese taxue...

Quelli se levan lantor

Como leon descaenai

Tutti criando alor alor...

Ben fè mestè l’ermo in testa,

Si era spessa la tempesta;

L’aere pareia nuvelao...

Correa mille duxenti

Zunto ge novanta e quatro.

Or ne sea De lodao,

E la soa doze maire

Chi vitoria n’ha dao...

Ha pure un componimento giocoso intorno ai marroni:

Non trovo in montagna

Mei fruto da castagna;

La qua s’usa, zo se dixe,

Ben in pu de dexe guise;

Boza, maura, cota e crua ecc.

[204]

Nella Çittara zeneise di Gian Giacomo Cavalli è data come antica un’ode di Barnaba Cicala Cazero, che al tono direbbesi contemporanea de’ trovadori:

Quando un fresco, suave, doçe vento

A ra saxon ciù bella, a ra megiò

Treppà intre fœugge sento

E pà ch’o spire amò;

Me ven in mente quella

No donna za ma stella,

Quando ro ventixœu ghe sta a treppà

Dent’ri cavelli e ghe ri fa mescià.

Rambaldo di Vaqueiras, trovadore del secolo XII, ha una tenzone in forma di dialogo fra l’autore e una dama genovese, la quale gli risponde:

Jular, voi no se corteso

Che me charcheai de chò[204]

Che niente non farò

Anche fosse vos a peso[205],

Vostr’amia non sarò,

Certa ja ve schernirò;

Provensal mal agurano,

Tale noja ve darò,

Sozo, mozo, esclavado,

Nè jà voi non amarò

Ch’ec un bello mario,

Che voi no se, ben lo so[206].

Andè via, frar, en tempo megliorado.

Al Vocabolario genovese latino sono premessi saggi di scritture in quel dialetto, di varj secoli, volendosi mostrare che a principio era similissimo all’italiano, [205] dappoi se ne scostò. I passi qui addotti nol confermerebbero; oltrecchè, se sono simili all’italiano, come provare che siano in dialetto?

Negli Atti della Società Ligure di storia patria (1859, vol. I, p. 129) si indicano come segni dell’esistenza del dialetto genovese le voci miexi nel 1019; pixone, montenello in altre del 1143 e 1148; poi Lunexana, Palavixino, e così frexia, Sardena, fregabrena, merdenpè, noxedo, labuxada nel secolo XII; e nel XIII toagia, toffania, tomao, ruxentarium. Nel vol. VI, pag. 708 d’essi Atti si portò una relazione all’uffizio del Banco di S. Giorgio del 1457, in pretto idioma genovese. «Segnoi, a noi è staeto molesto acceptar questo officio, non per recusar de portà li carrighi publici, li quae poessimo ben fa, ma considerando che anti che a queste compere fussen arrembe et tranferte, ecc.».

Nell’Archivio glottologico, vol. II, p. 162, si reca una quantità di rime genovesi della fine del secolo XIII e del principio del XIV[207].

Il signor Tozzetti Mazzoni (Origini della lingua italiana, Bologna 1831) vanta assai il bolognese dialetto, appoggiandosi a Dante, e soggiunge a pag. 1111: — Del nobile vulgare bolognese, uno de’ più antichi documenti che si conservano, è, a parer mio, la lettera diretta al marchese Maroello Malaspina, scritta nell’anno 1297». Eccola:

«Al nobelle e al savio e posente mis. lo marchexe Maroello Malaspina honorevolle podestà e capitano generale [206] de guerra del chumuno e del povolo de bologna, Zame de mis. Aldrovandrino di Symipuzuli e Paolente Dipananisi, capitani del castello de Savignano, ve se mandano raccomandando. Conta cossa sia a vui mis. (siavi conto) che di domenega Zoane de mis. Landolfu de la capela de s. Apolito e Zoane dal lotino de la capela de santa Maria majore si ferno grande romore. in somo e dagandosse de la pugne l’uno al altro in suso lo volto, e per questa rissa sinfo (si ne fu) grande romore in lo borgo del castello di Savignano, e loro miseno a sagramento e confessorno che quisi era la verità per esso sagramento, e sovra goderno a loro de termene a fare soa defessa e nessuna nonanfatta, ecc.».

Anche altri esempj reca egli, massime a pag. 909; ma sono sempre di persone che s’ingegnano scrivere toscano. È però curioso un libretto di Ovidio Montalbani, Vocabolarista bolognese, nel quale con recondite historie e curiose erudizioni si dimostra il parlare più antico della madre degli studj come madre lingua d’Italia. Bologna 1660, in-12º, di pag. 272.

Uno de’ primi lavori della patria letteratura è il De Vulgari Eloquio di Dante. Potrebbesi parlare delle origini della lingua senza tornar più volte su questo gran rivelatore? Non per questo vogliam portarci all’idolatria, o a crederlo forte in etnografia e in filologia: e già repudiammo chi lo chiama creator della lingua. Tutto fatto egli vi trovò, perfino la versificazione: erano abbozzi, ma preparati a ricevere splendida coloritura; ed egli stampò l’impronta del suo genio sopra un idioma che fin allora non aveva se non quella d’una timida fatica. Egli stesso da principio fu ben lontano dal conoscerne la potenza; nella Vita Nuova ne parla con disprezzo, come di lingua soltanto adatta a cose leggiere; nel Convivio non mostra intenderne gran fatto, poi ne [207] discorre espresso nella Vulgare Eloquenza. Ne componeva il primo libro fra il 1302 e il 1309; poi lo sospese: più tardi scrisse il secondo, e lasciò interrotta a mezzo la dimostrazione ch’era richiesta dalla proposta messa all’entrare del capo XIV. Trattato nel libro secondo delle stanze, forse nel terzo avrebbe dimostrato la struttura della canzone e della licenza, poi nel quarto avrebbe discorso delle rime, e specialmente delle ballate e dei sonetti, sempre come stile, non come lingua; forse anche dovea seguirne un quinto sui poemi più lunghi. Insomma è un’arte poetica, e della lingua poetica (giacchè in prosa poco usavasi il vulgare) è il ragionar suo, il che troppo pérdono d’occhio coloro che ne fanno fondamento a teoriche sopra il parlar comune. Ivi colpisce di «perpetuale infamia i malvagi uomini d’Italia, che commendano lo vulgare altrui e il proprio dispregiano..... abominevoli cattivi d’Italia ch’hanno a vile questo prezioso vulgare»; e riconosceva esser esso già distinto, perfetto e civile ridotto, qual si vedeva in Cin da Pistoja e nell’amico suo (Dante stesso); e lo erige sopra al latino, al francese, al portoghese, come dolce e sottile[208]. E questo vulgare non è già la lingua cortigiana di cui altrove egli si fa predicatore; bensì «quello il quale, senz’altra regola, imitando la balia; s’impara»[209]: ma lo scrittore lo rende perfetto con «eleggere i vocaboli adatti, gettando i rozzi e rabbuffati, e cogliendo i soavi, i gentili, gli efficaci»[210].

Alla qual opera accintosi, conosceva già allora quattordici dialetti in Italia: «Ad minus quatuordecim vulgaribus [208] videtur Italia variari; quæ omnia vulgaria in se se variantur, ut puta in Tuscia Senenses et Aretini; in Lombardia Ferrarienses et Piacentini: nec non in eadem civitate aliqualem varietatem perpendimus. Quapropter si primas et secundarias et subsecundarias vulgares variationes calculare velimus, in hoc minimo mundi angulo non solum ad millenas loquelæ variationes venire contigerit, sed etiam magis ultra». E adduce alquante frasi di ciascun dialetto, tali però che poco ajutano le ricerche nostre, a mala pena riconoscendosi[211]. Ma qui ci basta l’attestarne non già che sussistevano, fatto troppo naturale, ma che sapeansi [209] essere i tipi idiomatici de’ varj dialetti. E per quanto egli s’industriasse a svertare il toscano, esaltandone alcuni che certo non pretesero mai a primato e per fino lo squallido bolognese, il toscano prevalse, anche per merito di lui, che adoprollo a «descriver fondo a tutto l’universo», e divenne il letterario, come il dialetto attico in Grecia dopo Alessandro, come il turingio per la Germania.

Oltre i dialetti di fondo italiano, ce ne rimangono di altra filiazione; in Malta il punico antico; in Algheri di Sardegna il catalano; il teutonico nei Sette Comuni del Vicentino, ne’ Tredici Comuni de’ monti Lessini sul Veronese, a Bosco nel Canton Ticino, e in qualche lembo del Trentino; il romancio nella limitrofa Engadina, e in alcuna parte della Val Leventina e della Val di Blenio nel Canton Ticino; in qualche valle della Sicilia e della Calabria l’albanese o romaico.

Altre voci di dialetti serbano l’impronta delle dominazioni o comunicazioni forestiere, greche a Ravenna, tedesche e spagnuole in Lombardia, arabe e greche in Sicilia, levantine a Venezia, francesi in Piemonte, mentre ne’ paesi de’ Volsci, Sabini, Vejenti, Falisci, Sanniti si riconosce il vecchio latino. Tant’era lontano che tutte le città italiche parlassero il linguaggio stesso.

I dialetti serbansi più fedeli alla loro origine; onde sentiamo tutto di pronunziare e cantare: Lo santo padre si scoprì lo viso — I’ te voglio ben assai — Da li capelli a la fronte e a li occhi — chesto loco, quisto, chillo, ello. Essi conservano parole che non hanno analogia col greco nè col latino o col celtico; e fin elementi grammaticali estranei alle lingue indo-germaniche: segno (lo ripetiamo) che sopravvissero durante la dominazione romana, e rivalsero quando il latino officiale periva.

[210]

Gli studj sui dialetti richiedono tal profonda cognizione delle loro finezze, che difficilmente un uomo può attendere a più che a quello che ha dalle labbra materne. Onde trarne utilità filologica, più che i soliti dizionarj, crederei opportuno lo sceverare da ciascuno le parole che, più o meno alterate, derivano dal latino o dal greco; e soltanto sulle residue esercitare l’analisi: le loro corrispondenze o differenze ci avvicinerebbero, o m’inganno, alle favelle primitive degli Italiani. Qualche cosa di simile tentò il barone di Hormayr sui dialetti romanzi del Tirolo, e pretese nelle voci estranee riconoscere il linguaggio degli Etruschi, popolatori antichissimi di que’ paesi, a creder suo[212]. La ricerca fatta con esteso accordo potrebbe guidare a importanti conclusioni, e a provare che i dialetti non son altrimenti una corruzione dell’italiano, bensì linguaggi antichi, che per circostanze non si elevarono a lingua officiale e letteraria.

Ma è scienza affatto nuova quella che ora nello studio [211] dei dialetti porta una veduta generale che tutte le particolarità lessiche, morfologiche, fonetiche riferisce ad un insieme; uno spirito geometrico che alle singole nazioni assegna un posto conveniente; così si cessa di parlarne come di bizzarrie vulgari, accorgendosi che ciascuna società particolare, arbitra di sè, foggiò un dialetto, e che le anomalie, anche in storia naturale, diedero ai giorni nostri le teorie che cambiarono faccia alla botanica.

§ 22º La lingua italiana è patrimonio esclusivo d’una provincia? Sue vicende.

Per quanto in lavori di tal genere s’abbia sempre ad aggiungere e resti sempre a spigolare, noi crediamo aver dimostrato che que’ primi scrittori, di qualunque parte nascessero, e comunque il lor paese natio parli trinciato, o squarti e scortichi le parole, o sdruccioli sulle desinenze, o le strascichi, o adoperi voci bazzesche e croje, quali le lombarde già parevano a Dante, o accumuli frasi sgraziate e villani costrutti, ingegnavansi, come oggi ancora si fa, d’accostarsi all’idioma [212] toscano, non foss’altro perchè più vicino all’ortografia latina.

Il qual fatto generale, se non si fosse voluto disconoscere da coloro che vennero a ragionar poi sopra ciò che generalmente si praticava, avrebbe evitate assai sofisterie e discussioni, che empirono biblioteche intere per rendere avviluppato e controverso ciò che è lampante e consentito col fatto. Perocchè il linguaggio somiglia al diritto. Una logica naturale domina la sua prima formazione; poi qualche alto ingegno ajuta il popolo nel costituirlo; prende il cumulo informe degli elementi di esso, ne trae il meglio, e dà norme alla lingua e la fissa. In quell’alto ingegno il popolo non vede un tirannico comando, bensì la espressione autorevole del suo modo di essere, pensare, sentire, quantunque nobilitato.

Noi ci appoggiammo assai sulla analogia, e questa ci mostra che le varie contrade parlano variamente, sia per indole, sia per derivazione, donde i molteplici dialetti. Un dialetto viene adottato dagli scrittori come lingua comune; essi lo determinano, lo regolano, lo fissano, e in tal forma resta nel tesoro letterario della nazione. Ben altra è la natura dei quattro famosi dialetti greci, dove la varietà riducevasi a pochi accidenti, tantochè tutti poterono adoprarsi mescolatamente in Omero, e il dialetto comune prevalse negli ultimi tempi, e da quel solo, misto ad elementi slavi, derivò il greco moderno. Nell’antica Italia fu il dialetto del Lazio che ottenne la preferenza legale e letteraria: come in Inghilterra quel di Londra, in Francia quel di Parigi, in Ispagna e in Portogallo quel di Madrid e Lisbona, in Germania il sassone, in Polonia il varsaviano e via discorrete.

In Italia il dialetto che gli autori preferirono fin dall’origine [213] fu il toscano, men contaminato di mescolanza forestiera, e più consono al latino. Di esso si valsero i grandi triumviri della nazionale letteratura; donde gli venne tal dignità e importanza, che ad esso cercarono accostarsi tutti quelli d’altri paesi. Abbiamo componimenti ne’ varj dialetti; ma quando il Bernieri celebrava Meo Patacca, Carlo Porta sbertava i Milanesi nel Giovannin Bongee, o Sgruttendio sbizzarriva le Mattinate, o il Meli cantava stupendamente l’Apuzza o la Cicaletta[213], essi sapeano di far lavori, ristretti al proprio paese, non destinati a tutta Italia. Abbiamo dizionarj che le voci e le frasi proprie di ciascun dialetto traducono in italiano; a chi venne mai in mente di farne uno pel toscano? La differenza sua dall’italiano non consisterebbe che in varietà di pronunzia, o in quelli ora vezzi ora sgarbi che mette il popolo nella lingua di cui si serve; incolta se vogliasi, scorretta di grammatica, insulsa di cose, ma pura, propria, calzante.

Le gare municipali, che furono il disastro ma insieme la vita della nostra Italia, tolsero che, in teorica, si volesse accettare la supreminenza del toscano; eppure in pratica era adottato da tutti. Ad ogni modo, se alcuno pretese che al toscano possano contribuire voci anche [214] il milanese, il romagnuolo, il napolitano, non credo verun mai sostenesse da buon senno che la letteratura nazionale possa farsi in romagnuolo, in napolitano, in piemontese.

Lo straniero che chiede d’imparare la lingua nostra, intende sempre la toscana. Quando interroghiamo come si nomini un oggetto, intendiamo come si nomini in toscano. Io penso che ogni dialetto sia una lingua compiuta, ed abbia tutti i termini che le bisognano; nè il toscano manca d’alcuno; giacchè, forse, non è possibile il pensar a un oggetto senza avere la voce a cui fissarlo. V’ha oggetti che la Toscana non ha, non conosce; ma se v’ha paesi dove si trovano ghiacciaj e steppe, coll’acquisto di quella nozione acquistò anche la parola, l’ha fatta sua. Ciò s’avvera pei trovati nuovi, puta quelli dell’elettrografia o delle strade ferrate. Il toscano accetta i nomi de’ singoli oggetti da chi glieli recò, pur talvolta, nell’immensa potenza dell’uso popolare, riconosce in quegli oggetti o gli assimila ad alcun altro che dapprima v’aveva un nome, o cui può darsene uno derivato e intelligibile. Quindi il Kreuzer diventò crazia, il Semel e il Kifel semello e chifello: e allorchè gli dicono i wagons, i rails, il tender, gli slippers....... egli traduce i carrozzoni, i regoli, il magazzino, il bagagliajo, le traversine.....

Se da ciascun dialetto avesse a scernersi il meglio, secondo fantasticano taluni, verrebbe la necessità di conoscerli tutti, il che è impossibile, e porterebbe all’esitanza, ch’è lo stato peggiore nelle scritture come nelle azioni. D’altra parte scegliere il meglio indica avere un tipo al quale raffrontare; sicchè più breve e men fallibile sarà l’attenersi a questo tipo stesso. Se dai singoli dialetti potesse desumersi qualche parola, ne verrebbe che ciascuno scrittore adoprerebbe una lingua diversa, [215] mentre supremo bisogno d’una nazione è l’unità della lingua, dietro alla quale vengono le altre unità.

Primo scopo del parlare e scrivere è il farsi intendere. Meglio a ciò si riesce quanto maggiore è la precisione. In matematica chiunque scrive 7+9 = 16: oppure (a+b)2=a2+2ab+b2, è certo di essere inteso da ognuno che sappia leggerli, di qual nazione egli si sia, perchè quella forma è unica, nè può essere surrogata da altra. La parlata non raggiungerà mai siffatta precisione, ma vi si accosterà, quanto più fissi e convenuti saranno i significati delle parole. E come un grande acquisto è l’avere un peso, un tipo, un titolo solo per le monete, un modulo unico per le misure e i pesi, così sarà prezioso l’aver nella nazione una lingua sola, cioè un solo uso al quale riferirsi.

Il napolitano ha grandemente meritato della favella nazionale, perocchè, oltre le origini greche, in codesto paese avea nido il parlare osco, prevalente tra i vicini e usato altrove nelle Atellane (vedi pag. 12); poi fu dei primi a usar l’italiano. Pure non credo pretenderebbe sostituirsi al toscano, e neppure in questo introdurre parole sue. Avesse pure voci, frasi e dizioni più logiche, più calzanti, più espressive che non le corrispondenti toscane; non le consacrò l’uso, quem penes arbitrium est, et jus, et norma loquendi. A Napoli si fece una ristampa del Vocabolario della Crusca, forse la più notevole per quantità d’aggiunte, e inserzione delle etimologie e sinonimie: ma non so che il Liberatore, il Borrelli, il Rocco, gli altri che vi collaboravano, abbiano messa a registro neppur una voce napolitana.

Distinguasi però la lingua toscana, ch’è una cosa positiva, da stile toscano, che è un non senso. Una è la lingua, differentissimi i modi d’usarla; e se quella può impararsi in Toscana o da Toscani, tutt’altro si richiede [216] per riuscire grande scrittore, cioè gran pensatore. A tutte le armonie immaginabili bastano sette note, e con esse si resero sommi Jomelli, Rossini, Bellini, Verdi, senza sognare di voler mostrare originalità coll’inventarne di nuove.

Un insigne scrittore, che tanto tien conto della lingua da aver avuto il coraggio di rifare un proprio libro, graditissimo all’Italia, sol per uniformarlo all’uso toscano, ripose la sovranità di tal uso in ciò che si dice in Firenze. Sempre è l’amor della semplificazione, dell’unità, della vitalità progressiva, surrogato alla pedanteria di un dizionario, che non s’appoggia se non ad un’autorità secondaria, qual è quella degli scrittori. Perocchè gli scrittori son buoni (dico per lingua) in quanto fan testimonianza dell’uso. Nè a concedere ciò troveranno difficoltà quelli (e non sono molti) che sanno separare la quistione della lingua da quella dello stile.

Ma esso autore fece troppo scarsa la parte degli scrittori in fatto di lingua. Una lingua morta non può essere che imitazione, ricalco; tutto si circoscrive negli scrittori; non si può dire se non quel ch’essi dissero, a rischio d’esser barbari. Non così delle lingue vive. Se gli scriventi non hanno diritto di creare alcuna parola, molto contribuiscono, sia collo scegliere, sia col fissare, sia col derivare o comporre, siccome avviene a chi non parla soltanto, ma riflette alla parola. La quale poi è scritta in libri che la nazione adotta; e quei libri servono di testimonianza e di scuola, si citano, si imitano; e riducono, non immobile, chè non è nella natura di cose umane, ma più durevole lo stato d’una favella.

Il latino aveva l’autorità dell’uso al tempo dei precinti Cetegi come sotto i Costantini; eppure latino intendiamo quel ch’è scritto ne’ classici, anzi negli ottimi di questi.

[217]

Il latino stesso però, benchè si estendesse officialmente, ne’ varj paesi restava alterato dai linguaggi preesistenti, pur rimanendo sempre latino. Quando gli autori natii di Roma cessano, e ne sottentrano di provinciali e massime di spagnuoli, anche il parlare si altera. Chi scriveva dopo caduto l’Impero, ingegnavasi sempre e dappertutto imitare il latino classico: perciò lo scritto risentiva dell’individualità, essendo più o men rozzo secondo lo scrivente, perchè era studiato, non parlato. Ignoranti notari e legulei vi mescolano parole che non soleansi dai più corretti, ma che si usavano dal vulgo; gli ecclesiastici, volendo al vulgo farsi intendere, adoprano a tutto pasto i modi e le costruzioni di questo; e così il latino forbito degli scrittori s’accosta al parlato.

Come ne’ paesi artici l’aurora comincia ad albeggiare prima che siano scomparsi gli ultimi rossori del tramonto, così l’italiano sbocciò mentre era vivo tuttora il latino; crebbe via via che questo decresceva, e trovossi perfezionato prima che l’altro disparisse.

L’ingerenza di questo va estendendosi, finchè taluno, per iscrivere i proprj ricordi, le spese, le lettere, adopera affatto il parlar suo, cioè il vulgare: scritto, è vero, ancora con ortografia o alla vecchia o inesperta, ma pur vero italiano; lo usano i predicanti; i narratori di vite di santi o d’altri racconti per la plebe o per la gaudente società, e prima ancora in canti d’amore o di prodezze.

La vitalità di quel tempo trapela anche nell’adottarsi parole straniere e assimilarsele, acconciandole al proprio sistema, dicendo Parigi, Basilea, Brugia, Magonza, Loira, Aquisgrana; il che più non si fa quando la lingua cessa di essere indecisa; introducendole vi si lascia l’aria straniera.

In questo parlare plebeo, in questo vulgare «che [218] seguita uso mentre il latino seguita grammatica», potrebbe egli stendersi una grande epopea, che abbracciasse tutto lo scibile, e cielo e terra? Dante tenzona fra il sì e il no, fra l’opinione de’ suoi amici e il sentimento proprio, fra la negativa espressa nella Vita Nuova e nel Convivio, e la potenza acquistata coll’uso: frate Ilario non credea possibile quegli altissimi intendimenti significare per parole di vulgo, nè giudicava conveniente che una tanta e sì degna scienza vestisse a quel modo plebeo[214]. E Dante gli risponde: «Avete ragione, ed io medesimo lo pensai; e allorchè da principio i semi di queste cose presero a germogliare, scelsi quel dire che n’era più degno; e presi a poetare così:

Ultima regna canam, fluido contermina mundo,

Spiritibus quæ late patent, quæ præmia solvunt

Pro meritis cuicumque suis.

Ma poi, pensando che la gente colta non bada ai poeti e li lascia a’ plebei, temprai la lira in modo conveniente all’orecchio dei moderni».

In Dante, che chiamava Virgilio la maggior nostra Musa, e faceva dire da Sordello lingua nostra la latina[215], è visibilissima ancora l’esitanza fra l’uso e la grammatica, ossia la lotta del latino coll’italiano.

Questo appare già staccato definitivamente nel Petrarca; ma perchè credeva che «le note dei sospir suoi [219] in rima» fossero solo per donne e pel popolo, esso Petrarca riprometteasi la gloria da un poema latino, e latine stendea per lo più le lettere. Il Boccaccio, nel Decamerone, si valse stupendamente de’ modi vivi del popolo, ma latina credette dover tenere la costruzione; donde quel periodare aggrovigliato e ingombro, più lodato che imitabile; che non lieve guasto recò alla letteratura patria dandovi un’aria di ricercata, di attorta, di oratoria, di pretensiva, anzichè la ingenuità, la spigliatura, la concisione che aveva in que’ trecentisti, i quali scriveano come parlavano. Perocchè dall’eloquenza vengono alterate grandemente le lingue, cioè dallo studiar alle parole più che alle cose. E appunto in grazia del Boccaccio fra noi si radicò il concetto insulso, o la sciagurata pratica di due lingue; una dotta, azzimata, compassata, col periodo ritondeggiante, la cadenza studiata; lingua grammaticale o accademica, che titilla le orecchie, lascia gelato il sentimento e nebbiosa l’intelligenza; l’altra schietta, ingenua, perspicua, nè per questo trascurata, che anzi «le negligenze sue sono artificj».

Quantunque fosse compita la trasformazione del latino nell’italiano, pure la pedanteria nel Quattrocento introdusse un latino tutt’affatto italianizzato[216], e un italiano che poco differisce da quel fidenziano che altri maneggiò per celia, e che quelli farebbe creder libri del XIII o XIV secolo, allorchè appena svolgeasi l’italiano dalle fasce latine.

Prendendo la prima opera che mi cade sotto mano, nel vulgarizzamento del leggendario di Jacopo da Varagine, [220] fatto dal Malermi e stampato a Venezia nel 1475, leggo che «Niccolò Jenson franzese, dapoi li instaurati quasi infiniti divini et preclari volumi, li quali per l’antiquità erano stati deperditi et quasi extincti, el divino, del quale fase mentione, volumo de le legende de’ sancti vulgarizzato, con mirabile ingegno et divina arte ha impresso et stampito». Direte che trattasi di uno stampatore ignorante? nol concedo; ma questo stile era comune, e Cesare Ciseriano, nel commento a Vitruvio, stampato il 1521, ha: «Infine alla sua etate (di Francesco Sforza) nulla symmetria di opera de ornamenti che Vitruvio ha descripto non era stata quasi mai dal tempo de’ Romani usque ad id tempus usata in Milano. Ma imperante Galeatio et successive Johanne Galeatio suo filio, et dapoi Lodovico, con più somma opera che poteno curaro havere architecti, che con queste vitruviane symmetrie facessero fabricare et ornare li mediolanensi edificj».

Ed erano già vissuti Dante e Boccaccio non solo, ma il Pulci e il Poliziano. Con buona licenza del Puoti e de’ suoi concittadini, io metto fra questi mal latineggianti anche il Sannazzaro; e senza citare il non t’irascere, il cominciava a tangere, il munger gli uberi, e gli opachi suberi, e l’inducere e producere; non mancano che le desinenze per far latina molta parte delle sue prose. Per esempio: «Napoli è nella più fruttifera e dilettevole parte d’Italia, al lito del mare posta, famosa e nobilissima città di armi e di lettere, felice forse quanto alcun’altra: sovra le vetuste ceneri della sirena Partenope edificata, prese et ancora ritiene il venerando nome della sepolta giovane».

Il buon italiano era però conservato da quei che scriveano naturalmente e come parlavano: poi a quello tornarono gli scrittori del Cinquecento, nuova fioritura [221] della nostra favella. Pure la cognizione e la pratica del latino era tanto comune, che s’insinuava in tutti gli scritti; le lettere, persin le famigliari, portano l’intestazione e la chiusa latina, qualche periodo esce in latino, qualche frase latina vi s’incastra, come oggi facciamo col francese.

Al 14 febbrajo 1525 il cardinale Rorario scriveva al Sadoleto, due prelati tanto colti:

«Sua Santità extima non esser decente a un pontefice prender le arme fra christiani, et se li suoi predecessori lo havevano facto, già se vedea de quanti mali erano stati causa: onde havendo sua santità deliberato gerere se tamquam patrem omnibus communem et servare la neutralità, el re di Franza..... inviò un exercito per lo Stato della Chiesa ad temptandum regnum neapolitanum: donde S. S. fu costretta aut sumere arma, quibus nec poterat nec volebat uti, aut dare fidem regi neutralitatis ecc.».

Il famoso cardinale Aleandro, stando legato in Germania nel 1522, scrive: «Accedit ad id il fastidio dell’animo per le tante paure, che costoro mi dipingono contra omnes ecclesiasticos: et voleano mutarsi habito et nome; del nome si è fatto, saltem del cognome. Del resto vado modestamente ut sacerdos, non facendo però le grida quia agitur de alia re quam de lana caprina: nè mi piace miglior consiglio quam confiteri Christum qui et me confitebitur coram Patre».

Su questo tenore leggo moltissime lettere di quel tempo, e alla ventura prendo una dell’elegante scrittore cardinale Campegio, che al 22 agosto 1524 scriveva all’or lodato Sadoleto: «In Augusta el predicatore che era in S. Mauritio, già corrotto di questa heresia, rediit: et perseveranter, non obstante queste turbolentie, predica pro fide. Intendo la canonizatione di san Brunone [222] essere stata publicata magno populi concursu et devotione».

Ed egli stesso il 25 giugno 1530 al Salviati: «Nunc intendo quam in hoc cedent. S’è etiam proposto di voler eodem tempore cum articulo fidei miscere li gravamini della natione cum sede apostolica, de’ laici contra ecclesiasticos et e contra, ed è stato risoluto che no: ita che la prima sarà la cosa della fede. Io conosco, etiam per quello che vidi a Bologna, che tutte queste cose son troppo peso sopra le mie spalle... Ingenia parva materias grandes non sufferunt, sed in ipso conatu postea succumbunt. Pur mi forzerò di non mancare del debito et omnia consulte agere. S’è ragionato di fare electione di alcuni per restringere le negociationi. Li nominati sono cardinalis Salzburgensis, episcopus Augustæ, de quo nunc aliquid sinistri audio, al qual pur gli ho dato il suo breve ed exhortatolo fingens me longius ire...».

Che più? trovo ora appunto alcune nuove lettere di uno scrittore dei più leggiadramente italiani, Lodovico Ariosto; e sempre cominciano col Magnifici et potentes domini mihi observandissimi: per entro gli cascano intervenientibus utrinque commissariis, e converso, inveteratus malorum, versa vice, et, quæ bene valeant, feliciter valeant, data paritate, Baldaxare, suspecto, ipso, damno, dicto, excellentia, advenire, subditi, prompto; e chiude, ex Castelnovo Carfagnanæ, XII aprilis: observantissimus S. A. comes et ducalis commissarius generalis[217]. Qual meraviglia se alcuno [223] persuadeva all’Ariosto di scrivere in latino quel poema, che più di qualsiasi non toscano accolse e crebbe le ricchezze del parlar nazionale?

Giorgio Trissino, nella dedica della Sofonisba, prega Leon X a non «attribuirle a vizio l’essere scritta in lingua italiana». Anche il Bibbiena, nel prologo alla Calandria, dice che «non è latina, perocchè dovendosi recitare ad infiniti, che tutti dotti non sono, lo autore ha voluto farla volgare alfine che, da ognuno intesa, parimenti a ciascuno diletti».

Già pensavasi sottoporre a leggi convenzionali il fatto spontaneo della parola; ma i primi studj precettivi intorno alla lingua italiana la modellavano sulla latina; nelle grammatiche figuravano ancora verbi deponenti, casi, ordini de’ verbi secondo il reggimento, e così via. Il Vocabolario della Crusca, il primo di lingue moderne, fu ideato sui latini, perciò registrando solo le parole che si trovassero in autori e appoggiandole ad esempj, appunto come si farebbe d’una lingua morta; e perciò non sempre bastando alle infinite gradazioni ed evoluzioni del sentimento e della dottrina.

Molte scienze, oltre la teologica, si insegnavano ancora in latino; in latino si trattavano spesso le cause, sempre gli affari ecclesiastici. I tanti stranieri, che dalla devozione, dall’estetica curiosità, dalle scuole, dalla voluttà, dall’ambizione erano chiamati in Italia, si faceano intendere, non che dai preti e dai notari, ma fin dagli ostieri col latino; di qual natura latino è facile comprenderlo. I governi, la religione, la scienza continuavano anche fra gli stranieri ad usar quell’idioma, siccome più estesamente conosciuto, e già addestrato alle trattazioni; sicchè doveano averlo comune i nostri che in tanta quantità andavano fuori, in virtù della supremazia che la Corte di Roma mantenne all’Italia. E i grandissimi [224] sforzi fattisi dal clero e dai letterati per conservare, non che il primato, ma quasi l’unicità del latino nelle scritture, mentre era non solo comune nel popolo, ma bellissimo nelle composizioni l’italiano, mi adombra e spiega l’opera degli aristocratici romani nel far prevalere la lingua letterata a quella ch’era popolare, e che, mantenutasi ne’ vulghi, ricomparve allorchè la favella colta degradò al mancare degli artificiali sostegni.

Solo al tempo della Riforma, come al resto, così si fece guerra al latino; i Riformati tradussero la Bibbia nelle loro parlate, volendo surrogare l’idea di nazionalità alla grande unità cattolica del medioevo; nelle lingue vulgari dibatterono le controversie religiose, poi anche le politiche e le scientifiche; e le adoperarono alle preci e ai sacramenti, sicchè il latino fu relegato nei santuarj cattolici. Molti nel Cinquecento l’adoprarono alla storia, alla poesia; ma non l’aveano raccolto dalle bocche coi solecismi e i neologismi d’una lingua parlata, bensì eransi rifatti ai classici, e il vanto loro consisteva nello esprimere interessi, fatti, sentimenti nuovi, senza dipartirsi dalle frasi di Virgilio, d’Orazio, di Livio, di Cicerone; e tanto vi s’industriarono, che la prosa, e più la poesia latina potè avere un’altra età dell’oro. Almeno v’è chi tale la giudica, quantunque io sia ben lontano dall’accettare quel giudizio; e tal lingua restava separata affatto dal popolo, e non appoggiata che alle reminiscenze. Il Bembo scriveva l’italiano coll’arte e colla fatica stessa del latino.

Dov’è a notare che sull’italiano operarono poco o punto due fatti, di somma efficacia sopra le altre lingue, la stampa e la riforma.

Nel 600 s’applicarono maggiori studj all’italiano, ben determinandone la natura, affinandone l’arte, scostandosi, è vero, dal naturale per renderlo artefatto e con [225] immagini e metafore secondo il gusto del secolo; pure sceverandolo non solo da ogni influsso esotico, ma anche dal latino. È comune in que’ precettori la raccomandazione di usare, fra due sinonimi, quello che più si scosta dal latino. Il Buonmattei, Celso Cittadini, il Cinonio, lo Sforza Pallavicino (che definiva nascer l’eleganza da piccioli lumi, come da piccole stelle la via lattea), il Bartoli, il Corticelli, Udeno Nisieli diedero buoni avvertimenti; ma non credo giovassero gran fatto al bene scrivere, che in verità allora si scombussolò nelle smancerie secentistiche, dilatatesi dappertutto, eccetto che fra que’ Toscani che osavano scrivere come parlavano.

Nel secolo seguente prevalsero i Lombardi, deridendo il toscano, e contaminati d’una fanghiglia di francesume, la cui inondazione parve ricchezza al Cesarotti, che la eresse anzi in teorica, volendo l’italiano si rifiorisse continuamente con vocaboli e modi forastieri. Nel secolo nostro si tornò alla correzione; ma, ripigliando la primitiva funesta scissura, alcuni adottarono una lingua che intitolano illustre, accademica, cortigiana, letteraria[218]; altri, con opere più che con dispute, assicurarono bel posto alla schietta e limpida, che si arricchisce colla favella popolare e coi modi che provengono da passione. Pur sempre restiamo alla miseria di non avere peranco accertato qual delle due maniere sia la migliore, e da taluni son decantati come sommi maestri quelli che per altri non son che retori e pedanti; e stiamo incerti se ammirare il Bembo o il Caro, il Redi o il Bartoli, il Bresciani o il Manzoni.

A levar questo ingrato dissenso, a toglierci da questo [226] bivio della lingua illustre o plebea, gioverà il porre in sodo e le origini e la costituzionale natura del parlar nostro. Perocchè, se vi ha sguajati che stampano libri professando di non conoscere la lingua, i savj sentono come vadano inseparabili il pensar bene e lo scriver bene; e come il senso comune giudichi ingegnose e incivilite le persone e le nazioni che meglio parlano e scrivono. Si procuri dunque una lingua nervosa, abbondante, chiara, facile, aggiustata, animata, uguale, non vaga, inesatta, esitante: una lingua che possa portare la divisa di Bajardo, Sans peur et sans reproche; con essa si espongano non baje ma cose, non frivolezze corruttrici ma scienza educatrice; sicchè infine si vada a imparar il bene scrivere dagli autori che insegnano il ben pensare; si adopri la lingua di tutti, ma per dir cose che non tutti sanno dire; e coll’eletta concisione di stile, colla precisione di senso e la delicatezza e la grazia, riducansi alla più semplice espressione gli svolgimenti d’un’idea originale.

Così venga, per l’accordo comune, a formarsi anche nella prosa una lingua scritta che si conformi alla parlata; lingua dotta e popolare, semplice e colta, istruttiva senza pedanterie, dilettevole senza trivialità, forbita dai dotti, compresa anche dagli indotti, aggradita dalla intera nazione. Del quale studio viepiù sentesi il dovere or che tutto vien mandato alla peggio da questo sproloquio di sofisti, micidiali non meno alla repubblica letteraria che alla civile. La divina pietà ne salvi una volta questa, per loro colpa, abjettita nazione!

[227]

APPENDICE II. DELL’ANNO E DE’ CALENDARJ

(Vol. I, pag. 81).

I Romani non contavano i giorni del mese progressivamente come noi, ma v’avevano tre punti distinti: le Calende, primo giorno di ciascun mese; le None, al quinto nei mesi di gennajo, febbrajo, aprile, giugno, agosto, settembre, novembre, dicembre, e al settimo negli altri; gli Idi, al tredicesimo dei prenominati mesi, al quintodecimo degli altri. I giorni intermedj si denominavano dalla distanza loro da questi punti: metodo certamente incomodo.

Chi voglia tradurre i giorni del mese romano nei nostri, deve alla cifra reale di ciascun mese aggiungere 2, poi da questo numero sottrarre la differenza tra la data che si vuol convertire, ed essa cifra aumentata. — Chiedasi a che giorno corrisponde il septimo kalendas maii: aprile ha 30 giorni; se n’aggiungano 2, e si avrà 32; si sottragga il 7, e resterà 25 d’aprile, giorno corrispondente al domandato. Se chiedasi come si chiami in latino il 25 aprile, si sottragga questo da 32, e resterà 7 avanti le calende di maggio. — Pel sexto kalendas martii: ai 28 giorni di febbrajo s’aggiungano 2, e dai 30 che risultano si levi 6, e resterà 24. Se l’anno fosse bisestile, si avrebbe pel bis sexto il 25.

[228]

Dalle calende trasse nome il Calendario, tavola su cui i pontefici notavano le feste. Il sovrantendere ai calendarj fu sempre spettanza de’ sacerdoti, in grazia delle feste da celebrarsi a tempi prefissi. Non servivano che per ciascun anno, e vi s’indicavano i giorni fasti e nefasti, ne’ quali cioè era lecito o no rendere giustizia; i comitiales e atri di sinistro augurio; le nundinæ o mercati; e negli ultimi tempi, quelli in cui fare omaggio ai membri della famiglia imperiale.

Alcuni calendarj, più o meno compiti, furono trovati, scolpiti su pietra o su metallo. Tale è il Calendarium Prænestinum scoperto nel 1770, compilato da Verrio Flacco, ma che si estende solo ai quattro primi mesi e al dicembre. Il Foggini ne riunì i frantumi, e da diversi altri calendarj cercò formarne uno dell’intero anno nelle Fastorum anni romani a Verrio Flacco ordinatorum reliquiæ. Roma 1779. Vedansi pure Waassen, Animadversiones ad Fastos romanos sacros. Utrecht 1795; Ideler, Handbuch der matematischen und technischen Cronologie. Berlino 1826.

Gli altri calendarj sono il marmo rotto de’ Maffei conservato a Roma, che contiene tutti i dodici mesi; quello de’ Capranica per agosto e settembre; quel di Amiterno, frammenti dei mesi da marzo a dicembre; l’Anziatino, frammenti de’ sei ultimi mesi; l’Esquilino, frammenti di maggio e giugno; il Farnesiano con parte di febbrajo e marzo; il Pinciano, frammenti di luglio, agosto, settembre; il Venosino, con maggio e giugno compiti; il Vaticano, con pochi giorni di marzo e aprile; l’Allifano, con pochi di luglio e agosto. Ultimamente si scopersero a Cuma alcune parti di uno dell’età di Augusto.

Particolare è il calendario rustico Farnese, sculto sopra le quattro faccie d’un cubo, ciascuna delle quali divisa in tre colonne d’un mese ognuna. In capo v’ha il [229] segno dello zodiaco; seguono il nome del mese, il numero de’ giorni, la posizione delle none, la durata del giorno, il nome del dio a cui è sacro, e le operazioni agricole. Per maggio e giugno dice:

MENSIS MENSIS
MAIVS IVNIVS
DIES XXXI DIES XXX
NON. SEPTIM. NON. QVINT.
DIES HOR. XXIIII S. DIES HOR. XV
NOX HOR. VIIII S. NOX HOR. VIIII.
SOL. TAVRO. SOLIS INSTITIVM
TVTELA APOLLIN. VIII KAL. IVL.
SEGET RVNCANT. SOL GEMINIS.
OVES TONDENT. TVTELA
LANA LAVATVR. MERCURI.
IVVENCI DOMANT. FŒNISICIVM.
VICEA PABVL. VINEÆ
SECATUR. OCCANTVR.
SEGETES SACRVM
LVSTRANTVR. HERCVLI.
SACRVM MERCVR. SACRVM
ET FLORÆ. FORTIS. FORTVNÆ.

Altri calendarj s’aveano, somiglianti ai nostri ciarlataneschi e profetici. Uno ne fece nel VI secolo Lido, venerabile magistrato, pei signori e dotti di Costantinopoli, edito poco fa da Hase. Insegna esso che, se tuona quando il sole sta per entrare nel Capricorno, vi saranno dense nebbie, le quali, se durino fino al levar della canicola, porteranno malattie, estrema penuria, massime in Macedonia, Tracia, Illiria, nell’India alta, nella Gedrosia, paesi sottoposti all’influenza del capricorno. Se la luna eclissa ne’ gemelli, le cose politiche saranno turbate, e muteranno di mano. Un tremuoto fra una neomenia e il quinto giorno del mese lunare annunzia la [230] morte di molti; se è fra il nono e il diciannovesimo, un disastro pel capo del governo; se fra il ventesimoquinto e il trentesimo, tempeste, guerra, caduta d’un gran personaggio.

Il calendario Viennese, pubblicato dal Lambeccio, tiene già la divisione della settimana cristiana, ed è di circa la metà del IV secolo. L’uso di scolpire calendarj in pietra durò fra’ Cristiani; e nel demolire il castello di Coëdic in Bretagna se ne trovò uno, spiegato nelle Memorie dell’Accademia delle iscrizioni dal Lancelot, che lo crede del 468.

Se mai sforzo d’erudizione recondita fu fatto per sostenere un errore, è certo quello con cui il danese Niebuhr tolse a provare che il primitivo anno degli Italiani, adottato alle origini da Roma, constava di trecentoquattro giorni in dieci mesi. Quest’anno era lunare, e rimettevasi in accordo coll’anno solare mediante l’intercalazione trieterica in periodi di ventidue anni, adattandovi, dieci volte per ciascuno, un mese supplementare, alternativamente di ventidue e di ventitre giorni, e trascurando l’ultimo triennio. Come cinque anni facevano un lustro, cinque di tali periodi facevano un secolo di centodieci anni. L’anno è istituito per comodo della vita e pel periodico ritorno di certe feste; onde sempre fu messo in accordo più o meno esatto con una rivoluzione della terra attorno al sole, e con un periodo delle fasi lunari.

Pertanto già gli antichi trovavano assurdo il supporre un anno siffatto, senza correlazione nè col sole nè colla luna. Plutarco dubitò se mai fosse adoperato, e Giuseppe Scaligero lo tratta di favola, supponendolo fin da principio di dodici mesi. Il Niebuhr attribuisce questa repugnanza all’abitudine; ed oltre le precise indicazioni di Censorino e di Macrobio, troverebbe prove della sua [231] applicazione in tempo più recente. Inoltre, atteso i rapporti ciclici di quest’anno col lunare intercalato che dicemmo, e col suo periodo secolare, si vede che da una parte potea servire di correzione perpetua, dall’altra era preferibile per l’uso scientifico.

La chiave di questo sistema gli è data da Censorino, De die natali, XVIII, dicendo che il lustro era l’antico anno grande di Roma, e il ciclo in cui il cominciamento dell’anno civile coincideva con quello dell’anno solare. Cinque anni solari egizj, da 365 giorni, ne contengono 1825; sei anni di Roma da 304, fanno 1824: onde in cinque anni la cronologia romana perdeva un giorno a fronte dell’egizia civile, che non aveva anni bisestili, e che in capo a 1461 anno tornava al suo punto di partenza colla perdita di un anno, siccome chi fa il giro del globo perde un giorno tra via. La cronologia romana, a confronto coll’anno giuliano, perdeva circa un giorno e un quarto: deviazione sì forte, che, se altre divisioni del tempo, nel sistema medesimo dell’anno di dieci mesi, non avessero somministrato un’intercalazione sistematica facile e di evidente concordanza, bisognerebbe credere assolutamente inverosimile l’uso ciclico di anno siffatto.

Queste divisioni di tempo sono il più grande e il più piccolo fra i periodi etruschi, il secolo e la settimana di otto giorni. Il secolo era pure la misura dell’anno lunare, intercalato: la settimana si conservò presso i Romani, talmente che ogni nono giorno era mercato (nundinæ). Fra gli Etruschi questo nono dì era pure chiamato nonæ; e in armonia con siffatta divisione di tempo, un tal nome fu sempre appropriato al nono giorno avanti agli idi. Ma le nundinæ di Roma non stavano in veruna relazione coll’anno, ed erano semplicemente un giorno del mese; mentre fra gli Etruschi [232] formavano vere divisioni di settimana, ogni nono dì essendo quel degli affari, e in cui i re davano udienza e rendevano giustizia (Macrobio, Saturn., I. 13). L’anno di dieci mesi e di trecentoquattro giorni si risolve appunto in trentotto ottave; onde conta altrettante none, ed è precisamente il numero de’ giorni chiamati fasti nel calendario giuliano. Così questo numero si conservò dai Romani; ma essendo insufficiente per gli affari del fôro, molti altri giorni furono aggiunti con nomi diversi.

Cominciando le settimane sempre al medesimo giorno del mese, anche i mesi intercalari doveano essere divisibili per otto. Ora, se nel secolo del periodo ciclico, composto di cendieci anni o ventidue lustri, s’intercalasse all’undecimo ed al vigesimosecondo lustro un mese di tre ottave, cioè di ventiquattro giorni, ne risultava al fine del periodo un’approssimazione alla verità e una correzione del cielo lunare inaspettatissima; giacchè, secondo il calcolo dello Scaligero, che non aspirava ad esattezza maggiore di quella del calendario giuliano, i cinque periodi di secolo facevano 40,177 giorni, intanto che la somma degli anni ciclici, giusta siffatta intercalazione, ne dava 40,176. Mentre dunque la cronologia giuliana suppone l’anno tropico di 365 giorni e 6 ore, l’antica lo fa di 365 giorni 5h 40’ 22”, cioè solo 8’ 23” meno del vero, non di 11h e 15’ come il giuliano. Le 15h 22’ 10” che mancavano al periodo etrusco di centodieci anni, e che in capo a centosettantadue anni producevano un giorno di perdita, dovettero essere supplite con ulteriori intercalazioni: ma le regole di calcolo non poteano spingersi fino ai minuti secondi, ed è molto verosimile che gli Etruschi abbiano determinato l’anno tropico a 365 giorni 5h 40’.

Dalla scientifica esattezza di quest’anno, che era una [233] forma di cui erasi perduto il senso, consegue l’uso che se ne poteva fare accanto dell’anno civile già costituito. Nell’ultimo periodo, invece d’un mese intercalare di 25 giorni, bisognava armonizzare i due sistemi, intercalandone uno di 22. Purchè dal principio del secolo fino al suo termine si contasse esattamente, la correzione succedeva; e per evitare la confusione minacciata dal cominciare così vario dell’anno dei Fasti, si adottò la pratica di conficcare un chiodo nel tempio del Campidoglio. A mezzo il VI secolo erasi dimenticato il senso di questa solennità, tanto che eccitava solo il riso; e forse erasi abbandonata da che il consolato passava senza interregno ai successori eletti: perciò Cincio (ap. Livio, VII. 5) dicea d’avere trovato i medesimi segni nel tempio di Norcia a Vulsinia, aggiungendo che era l’indicazione degli anni nel tempo che raro si scriveva. Scopo di questa cerimonia era di segnare quanti lustri fossero trascorsi dopo cominciato il secolo. A tutto ciò Niebuhr confessa che manca l’appoggio di testi antichi; ma è forza scegliere fra due supposizioni: o i prischi Romani, ignoranti quanto sciocchi, usavano un calendario non fondato su veruna analogia colla natura nè colla scienza; o i Romani adottarono un calendario, frutto d’un popolo addottrinato. Ammettere con Macrobio, che quando i mesi non si acconciavano più colle stagioni, i Romani lasciassero trascorrere un certo tempo senza denominarlo, è un farli più barbari degli Irochesi.

Gli archeologi supposero che il calendario di dieci mesi fosse dapprima il solo usato, e presto venisse abbandonato del tutto. Ma Niebuhr riflette che quel calendario è in relazione coll’anno ciclico lunare, per modo che dovette essere formato simultaneamente; e d’altro lato è possibile che il più antico usato fra il popolo fosse collegato ad osservazioni sulle fasi della luna; e [234] un calendario adattato alle stagioni dovette sempre essere indispensabile.

Che poi il calendario di dieci mesi rimanesse in uso anche dopo la cacciata dei re, parrebbe da applicazioni, di cui le generazioni successive non conobbero l’origine. Gli Etruschi avevano adottato di non concludere trattati di pace che sotto forma d’armistizio e per un tempo prefinito. Quasi tutti i trattati conchiusi dai Romani con Vejo, Tarquinia, Cere, Capena, Vulsinia sono qualificati per tregue, esprimendo per quanti anni durerebbero; ma agli Etruschi non si rinfaccia mai di averle violate, benchè le ostilità comincino quasi sempre prima che gli anni dell’armistizio sieno compiti. Per dirne uno, il trattato con Vejo nel 280 si stipula che durerà quarant’anni: ora nel 316 si parla della defezione di Fidene che si unisce a Vejo, il che suppone che questa repubblica fosse già in guerra con Roma; e i Romani, per quanto irritati della diserzione di Fidene, non accusano i Vejenti d’aver fallito il patto. Più decisivo è l’udire da Tito Livio, sotto il 347, che la tregua di vent’anni conchiusa nel 329 era spirata; mentre, secondo i Fasti, non sarebbero trascorsi che diciotto anni. Questi fatti non si possono spiegare se non applicando l’anno di dieci mesi, quaranta dei quali equivalgono a 33 1⁄3, e venti a 16 2⁄3; per modo che nel primo esempio la tregua era spirata col 314, nel secondo col 346.

Tali sono le ragioni del Niebuhr, raccolte con quella sottigliezza che eccita la meraviglia, ma non soddisfa la ragione. Siffatta cronologia, che a lui pare semplice e regolare, cadde in disordine, atteso l’ignoranza delle matematiche e dell’astronomia, di cui gli Etruschi avevano bensì comunicato ai Romani i risultamenti, ma non la scienza: e fu aumentato dalla mala fede de’ pontefici, che acquistato il diritto di fare intercalazioni ad [235] arbitrio, favorivano o sfavorivano i consoli o i questori, prolungando o accorciando l’anno della loro magistratura. Dell’anno di dieci mesi trovasi però vestigio nel lutto prescritto alle vedove, nel tempo da pagare le doti e i legati, nel credito per vendita di frutti, e forse negli interessi del denaro.

Riguardo agli altri popoli italiani, i Latini e gli Ernici usavano calcoli del tempo loro proprj; e Censorino, il quale c’informa della cronologia de’ diversi popoli, avverte che ne’ calendarj di Alba, Lavinio, Tusculo, Ericia, Ferentino i mesi variavano dai 39 fino ai 16 giorni. Dell’anno de’ popoli Ausonj sappiamo soltanto che era differente dal civile di Roma, la quale perciò con essi, co’ Volsci e cogli Equi calcolava la durata delle tregue secondo gli anni ciclici.

Del resto fa meraviglia come i Romani, che tanto si occuparono del calendario, rimanessero sempre in somma incertezza di date e di epoche: colpa appunto del mescolarvisi tanto la politica, e valersene patrizj e sacerdoti per governare il popolo. Genti antichissime e fin barbare possedettero esattissimi calendarj; i Romani l’ebbero vacillante sino alla riforma di Giulio Cesare.

Quanto all’êra, la deducevano dalla fondazione della loro città, nel 753 o 754 a. C.: ma ne erano talmente incerti, che presero lo spediente di notare ciascun anno dal nome de’ consoli. Divennero perciò importantissimi ai cronologi i Fasti consolari, vale a dire la serie de’ consoli. Erano scolpiti in Campidoglio, e una parte ne fu dissepolta il 1547, e dal cardinale Alessandro Farnese donata al senato romano, che la fece riporre in una sala, da Michelangelo disposta in Campidoglio. Ma non erano compiuti; ed altri furono scoperti il 1503 a’ piedi delle Esquilie, altri nel 1816 presso al tempio di Castore, altri nel 1876.

[236]

Questi Marmi Capitolini contengono non solo i consoli annuali, cominciando dal 295 di Roma, ma le liste degli altri magistrati e de’ pontefici, e alcuni avvenimenti. Eccone un esempio:

AN. VRB. COND. CCXX. L. TARQVINIVS L. F. DAMARATI N. SVPERBVS REX POPVLI INIVSSV ET SINE PATRVM AVCTORITATE ISQVE VRBEM CAPITOLINO TEMPLO AVGVSTIOREM REDDIDIT FERIAS LATINAS INSTITVIT LIBROS SIBILLINOS REIPVBLICÆ COMPARATOS II VIRIS INSPICIENDOS SERVANDOSQVE DEDIT.

Onofrio Panvinio li credette opera di Verrio Flacco, il quale, secondo Svetonio, fastos a se ordinatos et marmoreo parieti incisos publicarat. Mutilati com’erano, venivano scarsi all’uopo, onde molti si diedero a supplirli, ossia a compilare nuovi fasti, e l’edizione più recente è: Fasti consulares triumphalesque Romanorum, ad fidem optimorum auctorum recensuit et indicem adjecit J. G. Baiter, Zurigo 1837.

L’arbitrio lasciato ai sacerdoti di mettere in accordo il corso del sole e le lunazioni, e la mala pratica nel fare le intercalazioni, aveano prodotto nel calendario romano grave disordine, al quale volle riparare Cesare, 46 anni prima di Cristo. Sosigene, principale autore di tale riforma, fissò l’equinozio di primavera al 25 marzo: ma la differenza di 11 minuti e 12 secondi fra l’anno suo e il vero, ogni centoventinove anni facea precedere d’un giorno esso equinozio, sicchè al tempo del concilio di Nicea, cioè nel 325 dell’êra vulgare, cadeva al 23 marzo.

Già agli antichi Ebrei, che rozzamente regolavano l’anno secondo le lune, era stato cagione di darvi miglior ordine la celebrazione delle feste: imperocchè a Pasqua doveano essi mangiare l’agnello, e offrire le primizie dell’orzo; a Pentecoste, due pani fatti col frumento nuovo; le solennità de’ Tabernacoli doveano succedere [237] dopo finita la vendemmia e raccolti gli ulivi: era dunque necessaria l’intercalazione acciocchè tornassero tali feste in tempi da poter consumare quei riti. Per egual modo il doversi celebrare la Pasqua nel plenilunio che succede all’equinozio di primavera, fece che i Cristiani ponessero mente all’accennata variazione, della quale i Padri, radunati nel concilio Niceno, non seppero trovare la ragione.

Nel 1257 la precessione era di 11 giorni: tre anni dopo, l’inglese Giovanni di Sacrobosco avvertiva la necessità d’una nuova riforma; alcuni la tentarono nel secolo XIV; se ne trattò pure in varj concilj, alfine la ordinò quel di Trento. Gregorio XIII occupò dieci anni a discutere le diverse formole a ciò presentategli, singolarmente dal perugino Ignazio Danti domenicano, autore del gnomone di San Petronio a Bologna, e dal gesuita Clavio di Bamberga. Intanto Luigi Lilio, medico calabrese di nessun nome, ideava il metodo più spediente a correggere l’errore; ma morto prima di darvi compimento, suo fratello Antonio terminò il lavoro e l’offerse al pontefice, che nel 1577 ne mandò copia a tutti i principi, alle repubbliche e alle accademie cattoliche. Avutone l’approvazione, Gregorio pubblicò il nuovo calendario l’anno 1582, sopprimendo dieci giorni fra il 5 ed il 15 di ottobre. In esso è fissato l’anno a 365 giorni 5h 49’; e che, ogni quattro anni, uno sia bisestile, eccetto il quarto secolare, come fu il 1800. Questa correzione s’approssima tanto al vero, che solo dopo 4238 anni i minuti residui sommeranno ad un intero giorno, di cui sarà preceduto l’equinozio. Chi allora vivrà, ci provveda.

Per rispetto all’abitudine, il calendario gregoriano lasciò sussistere la divisione del giuliano in mesi capricciosamente lunghi di 30 o di 31 giorno; e il cominciare l’anno circa otto giorni dopo il solstizio, in modo che [238] il principio dei mesi non corrisponde coll’entrare del sole nei varj segni dello zodiaco. E semplicità e naturalezza e venustà si sarebbe potuto ottenere cominciando l’anno col giorno solstiziale, e facendo i mesi alternamente di 30 e di 31 giorno, eccetto l’ultimo di 29, e di 30 nei bisestili; o meglio ancora, facendo di 31 giorno i mesi tra l’equinozio primaverile e l’autunnale, di 30 gli altri, e scemo il dicembre; col che i principj dei mesi avrebbero combinato quasi appunto coll’ingresso del sole ne’ segni dello zodiaco.

[239]

APPENDICE III. INCERTEZZA DELLA STORIA PRIMITIVA DI ROMA E FONTI DI ESSA

(Vol. I, pag. 157).

Tardissimo si scrisse delle origini di Roma, e primi lo fecero Greci, i quali, stipendiati come precettori nelle case patrizie, inventavano o alteravano i fatti per dare lustro all’una o all’altra di queste, senza badare più che tanto alla verità, e spesso indulgendo al patriotismo col dare risalto alla civiltà greca. I due più celebri furono Dionigi d’Alicarnasso e Polibio: ma essi mostrano non riporre veruna fiducia negli autori che li precedettero nell’illustrare le antichità romane.

Dionigi d’Alicarnasso, vivo all’età d’Augusto, abbracciò i tempi dall’origine di Roma fino all’anno in cui cominciò Polibio la sua storia. I primi undici libri giungono al 433 avanti Cristo: il resto è perduto, salvo alquanti frammenti, alcuni de’ quali pubblicati non ha molto dal Maj. Per quanto siasi detto a suo appoggio, è facile comprendere che sì egli, sì Tito Livio, non fanno che accumulare favole, mal palliate dalla retorica di quello e dalla grandiloquenza di questo. Livio confessa tratto tratto di non sapere il certo; riferisce sovente con forme dubitative: dopo le quali è strano come egli scenda a [240] particolarità, dicevoli solo a chi avesse direttamente udito o visto. Mancando poi del sentimento dell’antichità e della pieghevolezza di spirito che s’adatta ai varj tempi e ai varj popoli, non ci presenta che ideali di vizj e di virtù.

Plutarco, greco e vissuto ancor più tardi, nelle vite di Romolo, Numa, Coriolano, Catone, Publicola, Camillo, mostra aver conosciuto documenti ignoti a Livio e a Dionigi, onde qualche importanza acquista nel darcene informazione. Ma oltre le vite, egli stese Paralleli della storia greca e romana, ove riferisce molte tradizioni greche, corrispondenti alle romane. Filonome, figlia di Nictimo, concepì dal dio Marte due gemelli, che furono gittati nel fiume Erimanto: l’acqua li trasportò nel cavo d’una pianta, ove una lupa gli allattò: poi tolti ad allevare da un pastore, divennero re d’Arcadia. — I Tegeati e i Feneati in guerra fra loro, convengono di terminarla rimettendosi al duello di tre gemelli contro tre altri, figli di Demostrato e di Ressimaco. Critolao, ch’era il secondo di questi ultimi, vedendo i fratelli caduti, finge fuggire, poi si rivolge a combattere i tre avversarj che a spazio disuguale lo inseguivano, e ne trionfa. Tornato, uccide una sorella; e accusato dalla madre, è assolto dal popolo. — Brenno re dei Galli assedia Efeso, e Demonica gli promette tradirgli una porta, patto che le dia in ricompensa tutte le ricchezze del tempio. Avutala, il Gallo fa gettare su costei tante preziosità, che la soffoca.

Sì evidente rispondenza coi fatti di Romolo, degli Orazj, di Tarpea potrebbe essere accidentale? Attento poi sempre com’era al concetto morale e all’arte, Plutarco svisava anche i fatti o non li chiariva; onde un moderno, il quale all’arguzia sentitissima univa una profonda cognizione degli antichi, disse che Plutarco «farebbe guadagnare a Pompeo la battaglia di Fàrsalo se [241] ciò potesse rendere alquanto più rotonda la sua frase» (Courier, Lettera a Thomassin, 25 agosto 1809).

Ogni anno, presso i Romani, il magistrato supremo conficcava un chiodo in un tempio, chi dice per segnare gli anni, chi per un fine religioso. In occorrenza di peste si eleggeva un dittatore apposta per piantarlo; dictator clavi figendi causa. Quest’uso darebbe a pensare che non sapeasi o non soleasi scrivere, e quindi era impossibile che ci venisse tramandata la storia dei primi tempi colle particolarità che alcuni storici spacciano. I quali medesimi, dopo averci regalato come indubitabili alcuni minutissimi ragguagli, mostrano poi peritanza e oscurità in avvenimenti di capitale rilievo. Lo stesso Livio, del quale il Niebuhr disse che non conosce il dubbio, mostra più volte esitare sui cominciamenti della romana storia; ignora gli anni di avvenimenti insigni, quali, per esempio, la battaglia al lago Regillo e la creazione del primo dittatore, e chi fosse; ripete ogni tratto che non facile est aut rem rei, aut auctorem auctori præferre (VIII. 40); che certam derogat vetustas fidem (VII. 6); che basta in rebus tam antiquis, si quæ similia veri sint, pro veris accipiantur (v. 21); e conta come favole parecchi di quei fatti, e come aptiora scenæ, gaudentis miraculis, e che non val la pena di affermarle nè confutarle (v. 21). Cicerone ride delle storielle de’ primi tempi, dove «appena i nomi dei re sono conosciuti» (De Rep., II. 18): il resto di quella storia est nostris hominibus adhuc aut ignorata, aut relicta (De Leg., I. 2).

Eppure si sa che Porcio Catone pel primo, poi Cintio Alimento, Valerio d’Anzio, Licinio Macro, Elio, Gellio, Calpurnio ed altri aveano scritto sulle origini romane; ma tutti lontani sei secoli da queste, come anche Fabio Pittore, da Livio chiamato longe antiquissimus, e da [242] Polibio dichiarato leggero e poco cauto. Qual fondamento dunque fare sopra esso Polibio e sopra Dionigi, che della costoro autorità si appoggiarono? E quando, come spessissimo accade, l’uno contraddice all’altro e a Tito Livio, a quale dare fede? Poi qualche grammatico ci conservò brandelli e testi sconnessi d’autori perduti, che vengono ancora a insinuare nuovi dubbj e differenze nuove, in modo che si potrebbe dire disperata la conoscenza della storia primitiva di Roma.

Oltre gli scrittori, questa cercasi dedurre, 1º dai grandi annali, Annales maximi o publici, Annales pontificum; 2º dagli atti pubblici; 3º dagli atti de’ magistrati, che forse sono tutt’uno coi Libri lintei, contenenti l’elenco de’ magistrati superiori; 4º dalle cronache delle famiglie censorie e dagli elogi funebri, Laudationes funebres, già da Cicerone indicati come fonte di menzogne. V’è chi crede che i re abbiano lasciato delle memorie, Commentarii regum, tra legali e storiche, concernenti la loro amministrazione.

La presa di Roma per opera de’ Galli mandò a male tutto quello ch’era anteriore; gli annali de’ pontefici vi perirono in gran parte; il resto custodivasi arcano; il senato non cominciò a registrare i suoi atti che sotto Giulio Cesare. Ma sebbene si perdessero in quell’incendio i documenti primitivi, quai ch’essi fossero, sopravvissero nelle memorie alcuni canti nazionali (non già una regolare epopea), dove un fondo di verità era stato, come suole, abbellito dall’immaginazione, e che prima di Catone solevansi cantare nei banchetti (Varrone ap. Nonio, ad assa voce). Cicerone nelle Tusculane, IV. 2 dice: Morem apud majores hunc epularum fuisse, ut deinceps qui accubarent, canerent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtutes.

Aggiungi alcune feste nazionali, come sarebbero le [243] Palilie, che si celebravano all’anniversario della fondazione di Roma il 21 aprile. Dionigi dubita se fossero anteriori a questa, al che propenderebbe anche Plutarco, e siasi scelto quel giorno come fausto, per inaugurare la nuova città; o veramente se sieno nate colla città stessa, alla cui inaugurazione si credette bene invocare anche le divinità pastorali. Altre feste ancora rammentavano fatti della Roma antica: ma potrebbe darsi o che vi fossero applicate le leggende tradizionali, o che queste ne alterassero il senso primitivo.

I pontefici solevano riferire s’una tavola gli avvenimenti più importanti di ciascun anno, i nomi de’ magistrati, i trionfi, gli eclissi, il caro de’ viveri, i prodigi, le calamità pubbliche; e cominciando dal 350 di Roma, offrivano, se non altro, una serie cronologica. Pare non siano periti affatto nell’incendio suddetto, poichè li troviamo citati a proposito di fatti anteriori; ma ristretti in iscrizioni, ognuno vede come poco potessero servire a quella che è storia d’uomini.

Anche documenti pubblici scolpiti su tavole sopravanzarono, in caratteri e in lingua antiquata: che se Livio od altri non vi posero mente, le consultò Polibio a gran vantaggio. Nello splendore di Roma repubblicana, l’uomo, assorto nella vita attiva, non curavasi di rovistare negli archivj, dissotterrare lapide, dicifrare tavole; e la storia d’allora sente la pienezza della pubblica vita più che l’indagine dell’erudito, l’entusiasmo più che la ponderazione scientifica. Mutati i tempi, gli imperatori animarono le ricerche: Vespasiano fece trarre in luce tremila tavole di rame, che diceansi campate dall’incendio de’ Galli, e che contenevano trattati, senatoconsulti, plebisciti, privilegi, risalenti fin quasi all’origine di Roma (Svetonio, in Vespasiano, cap. VIII). A queste avranno potuto ricorrere Tacito e Plinio, e trovarvi, per [244] esempio, il trattato vergognoso de’ Romani con Porsena, e tant’altri fatti che avrebbero al certo mutato aspetto alla primitiva romana storia, se essi o qualche par loro l’avessero scritta.

Questo basti a dar ragione delle numerose contraddizioni fra gli uni e gli altri scrittori, fino a non saper certo nè il fondatore della città, nè il tempo, nè quali i primi abitatori, nè come nascessero i comizj per tribù, nè se Porsena pigliasse la città, nè se i Galli la distruggessero. Serva pure a tôrne lo scandalo a coloro che, nel vedere i moderni riconvenire d’ignoranza o di mala intelligenza gli antichi, adducono che questi, essendo più vicini ai fatti, sono meglio attendibili. Assai tardi il dubbio si insinuò, se pure non si dia per tale il ridersi del rasojo di Nevio e delle oche del Campidoglio, baje già per gli antichi. Il medioevo credea; e avvezzo a riposare sull’autorità nelle materie sacre, anche nelle profane non sottigliava; tanto più che l’erudizione difettava di mezzi, quand’anche avesse posseduto la critica. Al risorgimento delle lettere, la venerazione per tutto ciò che era antico s’insinuò negli animi per modo, da influire non soltanto sulla letteratura, ma sulla legislazione e sulla vita. Adunque la storia romana fu accettata siccome di fede, e trattata con quella sommessione di spirito e di giudizio alla lettera scritta, che dominava tutto l’insegnamento. Dubitare di quel che aveano detto un Livio, un Dionigi, un Plutarco, sarebbe parso colpa di lesa antichità: tutt’al più s’applicavano di ridurre in accordo le loro contraddizioni, calcolare qual di due autorità avesse maggior peso. Ben si meritarono egregiamente i critici del Cinquecento col faticarsi a raccorre dalla superstite letteratura tutti i brani che rischiarassero le antichità romane; e vanno lodatissimi da chiunque non faccia colpa ad uno scrittore s’egli non sorpassa le idee e la [245] erudizione del suo secolo. Fra gl’Italiani meritano special lode Paolo Manuzio, il Sigonio, De antiquo jure Italiæ, De antiquo jure provinciarum, De judiciis, e il Gravina più tardi. Machiavelli accettava come oracolo che che trovava in Tito Livio, non pensando a discuterne, ma volendo soltanto farsene un testo di discorsi o di opportuna allusione.

Pure non mancò qualche arguto, che avvisasse le contraddizioni e gli assurdi. Il nostro Lorenzo Valla, in una disputa sopra Tito Livio, pose a nudo le magagne della prima storia di Roma. Fin dal 1677 Lancelotto Secondo, ingegno bizzarro, scrisse gli spiritosi Farfalloni degli antichi storici, ove mette in rilievo le costoro incoerenze e ciancie, ma con intento di celia e negazione. Con maggiore franchezza lo svizzero Glareano mostrava gli svarj di Livio: ma restò oppresso dalla universale indignazione del dotto vulgo. Con erudizione ponderata Giuseppe Scaligero e Giusto Lipsio tolsero ad esame quegli storici. Con violenza Perizonio professore di Leida (Animadversiones, 1685) oppose testi a testi, e pel primo avvisò che, nel racconto di Livio, una parte vada attribuita ad antichi canti nazionali: ebbe la sorte di chi di buon tratto precede i suoi tempi, restando ignorato e incompreso; eppure dalla minuzia de’ particolari seppe sorgere a generali ed estese osservazioni, che annunziavano una nuova êra dell’arte critica.

La quale, associandosi al progresso delle altre scienze, usciva di tutela, e non guardava più con cieca riverenza i libri siccome unico campo degli eruditi, ma voleva che a questi l’uomo si accostasse col giudizio e col sentimento proprio e coll’esperienza delle cose del mondo. Pietro Bayle, che nel suo Dizionario critico recava il dubbio e lo scherno anche su punti molto più sacri che non la ninfa Egeria e il bastone incombustibile [246] di Romolo, poco si prevalse del lavoro di Perizonio, già da dodici anni pubblicato, e che pure egli chiamava l’errata degli storici e de’ critici; ma suppose che, come nei monasteri si dava per esercizio agli studenti di comporre vite, martirj e miracoli di santi, che poi da taluni furono scambiati per leggende vere, così la storia dei primi re fosse dedotta da esercitazioni retoriche.

Luigi di Beaufort (Sur l’incertitude des cinq premiers siècles de l’histoire romaine, 1738) non più da scorridore, ma di proposito e con giusta arte di guerra la storia primitiva romana tutta relega tra le finzioni poetiche. Il suo libro, pel tono stesso frizzante, venne accolto con applauso, per quanto egli ecceda nell’abbattere, e vacilli le poche volte che tenta ricostruire: gli uomini d’ingegno lo lessero, l’applaudirono, pure seguitarono a contare i sette re, e gli storici a descrivere i primi tempi di Roma con intrepida sicurezza. Lo stesso Montesquieu, il quale spiega tant’ala allorchè Roma assume politica fisionomia, e l’elemento italico lotta e si fonde collo straniero, vagella nella cognizione di Roma primitiva e delle sue antichità; e i sette re sono per lui, come pel Machiavelli, personaggi delle corti e de’ gabinetti moderni.

In mezzo però a tutte quelle fatiche di demolizione, un Italiano, solo, sconosciuto, aveva assunto quest’impresa con idea più vasta, mostrando che la storia romana, quale fin allora intendevasi, era più incredibile che non la favolosa di Grecia; perocchè questa non si comprende che cosa voglia dire, quella ripugna all’andamento della natura umana. Non contentandosi però di abbattere come i critici puramente negativi, aveva adoperato quei rottami a rifare un edifizio grandioso.

Parliamo di Giambattista Vico napoletano, il quale nelle due Scienze nuove e nelle opere latine investigò [247] nella romana la storia ideale dell’umanità, interpretò que’ racconti come simboli, e mostrando che l’umanità si costruisce da se stessa, ne seguitò i passi e i faticosi acquisti. Gli uomini che s’incontrano nella storia infinitamente superiori all’umanità, non sono, al dire di lui, che una creazione di essa umanità, la quale accumulò sopra un solo la lenta opera dei secoli e le imprese dei molti che essi riassumevano. Romolo, Numa, Servio, le XII Tavole sono meri enti di fantasia, idoli storici, epiloghi d’un ciclo poetico: Romolo e i padri d’illustri parentele (gentes) fondarono la città sopra la religione degli auspizj, e sopra l’asilo aperto ai vinti e ai deboli che alla loro tutela rifuggivano: di qui vennero, come in tutte le città eroiche, due Comuni; patrizj che comandano, plebei che obbediscono.

I patrizj avevano impero familiare e impero civile o pubblico: il primo estendeasi sopra i figliuoli e le famiglie, donde i nomi di patritii, patria, res patrum; e sopra i possedimenti, che godevano immuni da tributo. Tutti insieme tenevano l’impero pubblico, governando i comuni interessi nelle adunanze che erano i comizj curiati, dove interveniva il popolo de’ Quiriti (detti così da quir asta), cioè i soli nobili; ed il senato, composto dei capi delle parentele e presieduti da un re.

Essi patrizj, come facevano i nostri baroni del medioevo, abitavano su alture fortificate: la plebe tenevasi al basso (onde humili loco natus), per nulla partecipando alla cittadinanza, vivendo col lavorare a giornate le terre de’ nobili, cui era obbligata servire in guerra senza soldo, e rendere tutte le derrate, se non volesse essere chiusa nelle carceri private di essi. Leggi scritte non v’erano, ma il popolo, cioè i nobili raccolti, provvedevano secondo i casi alla pubblica sicurezza: quindi i nomi lex ed exempla.

[248]

Tale fu il governo sotto i re, i quali non sono altrimenti ad intendere per effettive persone, ma per caratteri eroici e poetici, sui quali s’accumularono diversissimi casi e ordinamenti; attribuendo, per esempio, a Romolo tutte le leggi intorno agli istituti civili, a Numa quelle concernenti le cose sacre, a Tullo le militari, a Tarquinio le divise della maestà, a Servio le costituzioni sul censo e quelle che avviarono la libertà popolare.

Regnante il qual Servio, erasi operato un insigne mutamento. I plebei, oppressi sempre peggio dai nobili, sentirono quanta abbiano forza il numero e la concordia, pretesero una legge agraria, e ottennero il dominio bonitario, o vogliam dire il naturale possesso dei campi pubblici, che conservarono a maniera di feudi rustici, pagando un annuo censo ai nobili, presso cui rimaneva il dominio quiritario, cioè patronale, ed obbligandosi ad assisterli nel ricuperarne il possesso qualora lo perdessero (juris auctores fieri).

Dovunque le cose trovansi a simile condizione, il re si mostra tutore dei diritti popolari incontro ai nobili; e tale uffizio sostennero Servio e Tarquinio Superbo: del che forse scontenti, i nobili cacciarono quest’ultimo, operando quella rivoluzione che a torto viene considerata come popolare e liberale. Allora i nobili tornarono ad insolentire, ritoglievano i campi, aggravavano il censo alla plebe, che avea già cominciato a tenere i comizj delle sue tribù. Per ovviare la tempesta, il senato comandò che il censo dei campi non si pagasse più al privato dominatore o feudatario, ma al tesoro pubblico, il quale si assumeva le spese per la guerra.

La plebe però non avendo azione civile, mancava di mezzi onde garantirsi dalle usurpazioni de’ magnati; e per questo si ritirò sul monte Sacro, finchè ottenne prima i tribuni per difendere la sua libertà naturale e [249] il dominio bonitario de’ campi, poi una legge scritta e patente, obbligatoria ai patrizj non meno che ai plebei. Fu quella delle XII Tavole, per cui la cognizione delle leggi, uscendo di mano de’ nobili e sacerdoti, cessò d’essere un arcano. Fu essa ordinata, non secondo le greche ma secondo le consuetudini latine e romane, siccome appare evidente se si spogli dalle aggiunte fattevi come a carattere poetico.

Questa legge garantiva a’ plebei il dominio quiritario, ma interdiceva loro le nozze legittime, il connubio, vero fonte della cittadinanza e del diritto privato: laonde ridotti a maritaggi naturali, non potevano trasmettere l’eredità dei loro campi, che perciò tornavano ai nobili ogniqualvolta i vassalli morissero. Chiesero dunque fosse comunicato il connubio, e l’ottennero per la legge Canuleja, con cui entrarono a parte della cittadinanza romana.

Allora aspirarono anche al dominio pubblico, a partecipare alle magistrature da cui rimanevano esclusi come gente priva della religione degli auspizj, ed a formare le leggi. Ne’ comizj tributi, che potremmo assomigliare ai convocati comunali, la plebe statuiva intorno ai proprj occorrenti, e due volte ottenne che la sua volontà (plebiscita) venisse rispettata dai nobili: nel 305 di Roma, quando si ritirò sull’Aventino, e per la legge Orazia ottenne che nessun magistrato potesse crearsi senza suo consenso; e nel 367, quando si negava di comunicarle il consolato. Dappoi pretese che anche le sue leggi diventassero obbligatorie per tutti, talchè venivano ad esistere contemporaneamente due podestà legislatrici. Fu dunque eletto dittatore Filone Publilio, il quale ordinò che i plebisciti fossero obbligatorj per tutti i Quiriti; il senato, per la cui autorità soltanto le deliberazioni popolari acquistavano vigore, non facesse [250] più che promuovere e consigliare ciò che farebbe il popolo radunato ne’ comizj; e alla plebe venisse comunicato eziandio l’uffizio di censore.

Si trovarono dunque pareggiati i plebei co’ nobili: ma a questi rimaneva la facoltà d’imprigionare i plebei debitori, finchè l’abuso fattone provocò la legge Petilia del 419, che tolse il carcere privato ai feudatarj. Al senato pertanto non rimaneva più che l’eminente dominio dei fondi della repubblica, cui mantenne talvolta anche coll’armi, come nella sedizione dei Gracchi. Però il senato non componevasi più di soli patrizj; e Fabio Massimo dittatore avea tolta di mezzo la distinzione fra nobiltà e plebe, ordinando il popolo in tre classi, di senatori, cavalieri e plebei, a misura non dell’origine ma delle ricchezze. Con ciò rimaneva dischiusa alla plebe la strada per tutti gli ordini civili; e il popolo, distinto in quelle tre classi, conveniva ai nuovi comizj centuriati ove si formavano le leggi consolari, mentre le tribunizie si ordinavano ne’ comizj tributi, e nei curiati le leggi sacre e le arrogazioni. Il corso naturale delle nazioni recò poi questa città, prima aristocratica, indi popolare, a cadere sotto la podestà d’un solo.

Sin qui quel profeta della storia congetturale: e sebbene fuori d’Italia non uscisse grido della sua sapienza, e in Italia ne lasciasse dimenticare i libri la neghittosa prontezza degl’ingegni, ingordi solo di facili letture; e sebbene le posteriori scoperte in fatto di storia e di filologia abbiano sminuito il merito di lui, gli rimarrà sempre la gloria di chi viene primo in una scoperta; e se altri gli porranno avanti il passo, non ne cancelleranno però le orme.

Nè in Italia era rimasto infruttuoso il seme gettato dal Vico. Emanuele Duni, quantunque nomini appena questo forte pensatore, pubblicò in Roma nel 1763 [251] Origine e progressi del cittadino e del governo civile di Roma, ove sotto alle tradizioni indaga i fatti veri e la storia del diritto. Fonte d’ogni privata e pubblica ragione è in lui, come nel Vico, la religione degli auspizj; in virtù della quale, cittadini non erano che i patrizj, signori della legge, ad esclusione del vulgo innominato, che non aveva nè padri certi nè auspizj. Come questo arrivasse alla questura, al consolato, al pontificato, acquistasse il diritto di suffragio ne’ comizj centuriati (istituiti, dic’egli, da Tullo, per comodo della milizia, per lo spartimento del censo, e per bandirvi i decreti del re e del senato, le nuove leggi, i magistrati eletti) viene discusso nel primo libro del Duni, il quale nei nomi di classi e centurie non vede che istituzioni militari.

Svolge dappoi il procedimento del governo civile sotto i re. Due soli ordini sussistevano allora; il popolo, cioè i patrizj, e la plebe: celeri, flessumeni, trossuli, cavalieri non erano che gradi della milizia, occupati dalla gioventù patrizia. Questa forma perseverò sin quando le tribù plebee si ritirarono sul monte Sacro, donde non scesero che ottenuta la tutela de’ tribuni. Allora anche i plebei s’adunarono ne’ comizj tributi, ove condannarono talvolta anche i patrizj, come nel caso di Coriolano. Per la forza espansiva dei diritti, ottennero di convocare i comizj indipendentemente dal senato, poi una legge agraria, poi la limitazione della podestà consolare colla pubblicazione della legge decemvirale. Gli abusi dei Decemviri fruttarono che nessun magistrato potesse crearsi senza consenso della plebe, ed i patrizj dovessero osservare i plebisciti.

La plebe, che fin allora non avea fatto che garantirsi dall’oppressione, da quel punto comincia a cercare diritti. Il Governo mantenevasi sempre aristocratico puro, mancando alla plebe la ragione privata e pubblica [252] e il gius dei suffragi: onde, vedendo come senza di ciò non potesse conseguire alcuno de’ vantaggi sperati, pretese e ottenne il connubio, e così i plebei furono cittadini di ragione privata; poi parteciparono alle magistrature, e in conseguenza acquistarono i diritti di ragion pubblica, e l’aristocrazia mutossi in democrazia. Acciocchè le due podestà non cozzassero, il dittatore ordinò che i plebisciti obbligassero del pari tutti i cittadini, e che la censura fosse comunicata anche alla plebe. Sono dunque pareggiati plebei e patrizj; questi pérdono il diritto del carcere privato, quelli conoscono l’ordine de’ giudizj. Se non che i patrizj ricchi non vogliono accomunarsi coi meno facoltosi, e ne sorgono tre ordini, di patrizj, cavalieri, plebe. Coi Gracchi poi la plebe comincia a voler soperchiare la nobiltà.

La parte più prestante del lavoro del Duni è quella ove tratta dello stato delle famiglie; e fu fatto conoscere in Germania da Eisendecher, Ueber die Entstehung, Entwickelung und Ausbildung des Bürgerrechts in altem Rom, 1829. Il Duni anticipa forse il fatto della democrazia, giacchè la città ben più tardi stava spartita in plebe e in nobili; mal confonde il senato colle curie: pure dimostra come si sapesse fra noi tener fisso gli occhi nello splendore romano senza rimanerne abbagliati. E ve li tennero Mario Pagano ne’ Saggi, e Melchiorre Delfico nei Pensieri sull’incertezza e inutilità della storia, e nelle Antichità di Adria Picena, senza però dipartirsi dalle orme del Vico, se non in quanto v’innestavano alcuni concetti degli Enciclopedisti; e colle idee di quello interrogò la civiltà antichissima degl’Italiani Vincenzo Coco nel Platone in Italia.

Qualch’altro potremmo menzionare fra i nostri. L’Algarotti, nel Saggio sopra la durata de’ regni dei re di Roma, avvertì come fosse incredibile che sette re [253] elettivi, i quali tutti, eccetto Romolo, vennero al trono in età già piena, e quattro morirono violentemente, durassero ducenquarantaquattro anni, cioè trentacinque anni di regno medio. In Venezia, quando ancora non si eleggevano soli vecchi, e il doge era vero capo dell’esercito e dello Stato, dall’894 al 1311 sedettero quaranta dogi, cioè dodici anni e mezzo caduno. Dal 1587 al 1764 in Polonia furono sette re elettivi; durata lunghissima, eppure molto minore di quella dei romani. I sette precedenti erano regnati cenquarantun anno, dal 1445 al 1587. I regni ereditarj danno per lunghezza media venti o ventidue anni. — Federico Cavriani ripudia anch’esso l’esistenza di Romolo, e crede che i Sabini abbiano soggiogato la banda di fuorusciti assisa sul Palatino, imponendole e re e dio e nome.

Ma anche l’uffizio di distruggere è inconcludente qualora non facciasi con ordine e per sistema.

Nella generazione precedente alla nostra, la Germania si afforzava di studj robusti, e colla filologia accoppiando la critica indipendente e profonda, sentivasi chiamata mediatrice fra le età più lontane e le nostre. Dopo Lessing e Voss più non si vollero tollerare quelle parole indefinite, quelle idee vaghe, comprese soltanto per metà; le osservazioni superficiali cedettero alle positive; si volle ne’ classici interpretare quel che essi accennavano appena supponendolo conosciuto, e penetrare nella vita intima, nelle idee religiose, nelle forme più minute del governo, come si farebbe con gente divisa soltanto per ispazio non per tempo: le grandi esperienze dei moderni soccorrevano a rialzare il velo che copriva l’enigma antico.

Più ardita mano portò nei santuarj della romana Vesta il danese Giacomo Niebuhr. Studiosissimo dell’antichità, adoprato in impieghi dalla Prussia, ch’ebbe [254] sempre l’arte di non mostrarsi gelosa de’ gagliardi pensatori, arrestò l’attenzione sopra la storia romana; e sceveratosi affatto dalle opere moderne per aspirare pieno l’alito degli antichi, indipendente nelle opinioni, indefesso nelle indagini, immaginoso nelle ristaurazioni, rifabbricò l’antica città con tentamento sempre ardito, se non sempre fortunato. Pubblicava egli la prima parte della sua Römische Geschichte nel 1812; e dopo che la guerra delle nazioni cessò di tenere occupata la sua penna e il suo tempo nell’incitare l’amor dell’indipendenza, venne spedito in Italia perchè trattasse colla santa Sede, o forse per allontanarlo da un paese, a’ cui principi cominciava a fare ombra quell’ardore patriotico, di cui tanto aveano prima fatto profitto. Qui ricevette l’ispirazione che nessun libro può dare, quella dei luoghi, ed ebbe la fortuna di scoprire nell’archivio capitolare di Verona, o, dirò meglio, pubblicare gli Istituti di Gajo, al tempo stesso che uscivano in luce Lido De magistratibus reipublicæ romanæ, i libri della Repubblica di Cicerone, i frammenti di Frontone. Nuova messe si offriva dunque alle sue indagini; ed egli rifuse il proprio lavoro, portandolo da due a tre volumi (Roma 1824), cambiando anzi affatto il modo di vedere intorno ai prischi abitanti della città eterna. In una terza edizione poi lo riformò di nuovo in molte parti, e principalmente quanto all’origine dei Luceri, che più non tenne come Etruschi.

Certamente allorchè egli rintegra a suo senno una iscrizione, di cui non rimasero che pochi frammenti, e vuole indurne un fatto nuovo; quando trova che Cicerone o Livio errarono nel capire la costituzione del loro proprio paese, e suggerisce il come dovevano intenderla; quando vi pianta le asserzioni più nuove colla formola tutti sanno, o nessuno ignora; quando v’incontrate in [255] modi sul fare di questi: Erodoto in un momento di cattiva ispirazione giudica che...; — Questo avrebbe dovuto dire la tradizione: — Gajo fallò nello scrivere a tal modo, e doveva scrivere al tal altro; — Son io che fo fare a Camillo questa preghiera nel tempio; ma è certo che ciò è secondo lo spirito della tradizione; — Nessuno storico parla di siffatto assegnamento, ma era indispensabile...; voi domandate a voi stessi se forse non sia meglio che un paradosso da sofista questo spingere le avventate ipotesi, e con frammenti sconnessi distruggere ciò che altri ha posto in sodo. Quando poi abbracciate il complesso, non sapete indurvi a credere ad una costituzione, non solo contraddittoria all’indole dell’antichità, ma, per confessione dell’autore, contraria ad ogni analogia nella storia.

Pure la sconfinata sua erudizione, la felicità con cui ripristina od emenda passi di cento autori, la franchezza onde passeggia sul suo campo, e raffronta le antiche colle istituzioni moderne più minute e complicate, la convinzione infine che egli reca nelle sue ricerche, sin talora a pregarvi di credergli sebbene nol provi, soltanto perchè egli n’è intimamente persuaso, v’inducono a rispettarlo anche là dove da lui dissentite, anche là dove vi pare si contraddica, anche là dove (ciò che troppo spesso gli avviene) s’avvolge in un linguaggio oscuro e sibillino. Egli scriveva a Lerminier: — Quel che m’importa soprattutto di vedere riconosciuto, si è che la mia cura è di comunicare ai lettori la persuasione di cui sono penetrato io stesso. Il libro dee da se medesimo convincere chi se ne occupa di buona fede. Non v’ha parola che non sia posta colla possibile esattezza onde esprimere una maniera di vedere o una convinzione mia. Sarebbe il sommo dell’ingiustizia l’attribuirmi la smania de’ paradossi».

[256]

Singolarmente meritano riguardo le sue riflessioni sull’Italia primitiva, sulle famiglie patrizie e le curie, sul Comune e le tribù plebee, sulle centurie e la costituzione di Servio Tullio, e sui nexi. Suppone che le favole de’ primi tempi nascessero dalle nenie onde si celebravano i morti, e dai canti che dicemmo usarsi nei banchetti; talchè le prime avventure di Roma sarebbero o canti isolati o epopee. La storia di Romolo costituisce da sè un poema; brevi canzoni separate si riferiscono a Numa; un altro poema comprende Tullo Ostilio, gli Orazj, la ruina d’Alba; la storia d’Anco Marzio non dà sentore di poesia, ma con Tarquinio Prisco comincia un altro poema, che finisce alla battaglia affatto omerica del lago Regillo, poema più grandioso di quanto Roma abbia mai più immaginato, e che non è ristretto all’omerica unità, ma piuttosto corrisponde alla varietà dei Niebelunghi, cioè del gran poema della primitiva Germania, scoperto anch’esso a’ nostri giorni.

Conobbe egli il Vico? Egli concorda con questo nel considerare poetica la natura della storia romana, paragonarla alle più antiche, e rischiararla con le moderne. Entrambi videro la città fin dall’origine ripartita in due classi, patroni e clienti; ma in questi il Vico scorge subito l’origine della plebe romana, mentre il Niebuhr non la fa nascere se non quando Anco aggrega i vinti alla polizia di Roma. In Servio notano entrambi un progresso de’ plebei verso l’equità civile: ma il Vico trova concesso loro soltanto il diritto naturale o il bonitario possesso dei campi, pagando un annuo censo, e obbligandosi a servire nell’esercito; mentre il Niebuhr, oltre la conferma del dominio quiritario, fa concesso a loro il suffragio ne’ pubblici affari, quindi un censo pubblico, e soldo dato ai guerrieri. Il Vico poi mette principalissimo fondamento del suo sistema storico la [257] religione degli auspizj, mentre il Niebuhr non ne tocca tampoco; e questa è forse la ragione che più vaglia per quelli che asseriscono non avere il Danese conosciuto il nostro pensatore, del quale mai non fa cenno.

Guglielmo Schlegel, negli Jahrbücher von Heidelberg, 1816, Nº 53, entrò quasi a piè pari nell’opinione del Niebuhr, sebbene in alcune particolarità lo confuti, e massime neghi che i poemi cantati ai conviti potessero essere epici, supponendoli soltanto canzoni brevi e sconnesse, quali convenivano ai Latini, diseredati del genio epico della Grecia. Staccossi invece affatto dal Niebuhr Nicolò Wachsmuth nella Aeltere Geschichte des römischen Staats, pure combattendo Tito Livio e le scolastiche opinioni.

Carlo Peter continuò la storia del Niebuhr dal punto ove questo l’avea lasciata in tronco. Fiedler sostiene che molti documenti scamparono dall’incendio gallico; ed anche altre città ne conservarono, quantunque i più antichi storici non se ne valessero. Più ameno il francese Michelet, nella Histoire romaine profittò di tutti i precedenti, come il mostrano le copiose note di cui la arricchì; mentre nel testo espone i risultamenti della critica, volendo fare una storia, non una dissertazione. Seguace, non ligio del Niebuhr sul principio, ha sopra questo (oltre il metodo e l’esposizione) l’avvantaggio di considerare intera la vita di quel popolo, non le origini soltanto. Distingue egli nella civiltà romana tre età: l’italiana fino a Catone; la greca, cominciata cogli Scipioni, e che produce il secolo d’Augusto in letteratura, e di Marco Aurelio in filosofia; l’orientale, che vince i vincitori dell’Oriente. Quanto alla storia politica, nella prima epoca la città si forma col pareggiamento e la mistione dei due popoli, patrizio e plebeo, fino al 350; nella seconda si forma l’impero colla conquista e l’ammissione [258] degli stranieri; poi dopo la guerra Sociale, la città è aperta a tutti i popoli.

Fu pubblicato a Londra An inquiry into the credibility of the early roman history, 1855, vol. II, di Giorgio Lewis Conwall cancelliere dello Scacchiere della regina d’Inghilterra, ove si sostiene che quasi nulla sappiamo delle cose romane prima dell’invasione di Pirro. Invece Gerlach e Bachofen (die Geschichte der Römer, Basilea 1851) sostengono la verità de’ primi fatti romani.

Vedasi pure H. Taine, Essai sur Tite Live; saggio premiato dall’Accademia Francese nel 1856.


Stimiamo opportuno soggiungere una lista di autori che giova consultare.

Cluverius, Italia antiqua. Miniera di tutti quelli che parlarono delle origini italiche, e che agevolmente poterono darsi aria di eruditi mercè le copiosissime sue citazioni.

Grævius e Sallengre, Thesaurus antiquitatum romanarum.

Conradini, De priscis antiqui Latii populis.

Vulpi, Latium vetus.

Lachmann, Commentatio de fontibus Titi Livii in prima Historiarum decade.

Heeren, De fontibus et auctoritate Vitarum Plutarchi.

Krause, Vitæ et fragmenta veterum historicorum romanorum.

Petersen, De originibus historiæ romanæ.

Haeckermann, Vindiciæ antiquitatum romanarum.

Spangenberg, De veteris Latii religione domestica.

Daunou, Cours d’études historiques.

[259]

Hooke, Discours et réflexions critiques sur l’histoire et le gouvernement de l’ancienne Rome.

Levesque, Doutes, conjectures et discussions sur différents points de l’histoire romaine.

Histoire critique de la république romaine. Severo esame della millantata gloria latina, ma arbitrario e inferiore a’ suoi predecessori.

Nitsch, Beschreibung des häuslichen, wissenschaftlichen, gottesdienstlichen, politischen, und kriegerischen Zustandes der Römer, nach den verschiedenen Zeitaltern der Nation.

Fergusson, The history of the progress and termination of the roman republic.

Adam, Roman antiquities.

Ruperti, Handbuch der römischen Alterthümer.

Per la descrizione dei luoghi e la rappresentazione:

Nardini, Roma vetus.

Piranesi, Antichità di Roma.

Rossini, I sette colli di Roma antica e moderna.

Venuti, Descrizione topografica delle antichità di Roma, edita da Ennio Quirino Visconti, i lavori del quale sono una miniera d’altre notizie.

Valladier, Raccolta delle più insigni fabbriche di Roma antica e sue adjacenze, con illustrazioni di F. A. Visconti.

Desgodets, Les édifices antiques de Rome, con buoni disegni.

Platner, Bunsen, Gerard e altri Tedeschi, Beschreibung der Stadt Rom.

Vi è premesso un catalogo di tutte le descrizioni di Roma, cominciando dal Curiosum urbis Romæ. La parte topografica fu confutata da G. W. Becker nel Manuale delle antichità romane, Lipsia 1843. Vedansi [260] pure Piale, Dissertazioni accademiche XXIV, sopra la topografia di Roma, 1832-34, e Riva, Dell’antico sito di Roma; Pietro Rosa, Topografia della città e campagna di Roma, 1857, nella proporzione di 1 a 200,000.

Illustrazione alle antichità e ai dintorni di Roma portarono Carlo Fea (Sul ristabilimento della via Appia, 1835), Antonio Nibby (Viaggio antiquario nei contorni di Roma, 1819. Analisi della carta dei contorni di Roma, 1837), il Poletti, Pier Ercole Visconti (La via Appia, 1832) e Luigi Canina. Quest’ultimo nel 1839 stampava a Roma il volume V della Storia e topografia della Campagna romana antica, ove nel discorso preliminare dà ampia informazione di quelli che espressamente o indirettamente trattarono dell’argomento stesso. Il suo concetto sulla credibilità de’ primi storici così esprime: — È vero che i fondamenti su cui si basano le narrazioni storiche de’ primi tempi d’Italia, sono poco stabili; ma allorchè non se ne trovano dei migliori per quanto profondamente si scavi, reputo essere più prudente attenersi a quei che ci prestano gli strati più sicuri, che di fabbricarne superficialmente degli artifiziali. Quindi sono di parere che sieno più nocivi che utili alla maggior cognizione delle cose antiche gli scritti di coloro che, nulla apprezzando l’autorità de’ prischi documenti, cercano di distruggere un edifizio basato sulle più profonde radici, senza saper edificare niente di buono».

Dello stesso si hanno L’antica città di Vejo, L’antica Etruria marittima. Descrizione dell’antico Tusculo, ed altre monografie.

Tusculo, Sostruzioni della via Appia; Esposizione topografica della prima parte dell’antica via Appia; ed altre monografie.

Possono anche vedersi Jacobini, Memorie sullo scavo della via Appia fatto nel 1851.

[261]

Viola, Tivoli nel decennio della deviazione del fiume Aniene, nel traforo del monte Catillo; 1848.

Borman, Altlatinische Chorographie und Stadtgeschichte. Halle 1852.

Kudscheit, Tab. geographica Italiæ antiquæ. Berlino 1851.

Ponzi, Mémoire sur la zone volcanique d’Italie, nel Bull. de la Société géologique de France; 1853.

Lateroully, Plan topographique de Rome antique et moderne. Parigi 1841.

Leveil, Plan de Rome au temps d’Auguste et de Tibère. Ivi, 1847.

Un riassunto di tutti in Ernest Desjardins, Essai sur la topographie du Latium. Ivi, 1854; e in Dyer nel Dictionary of greek and roman geography. Londra 1856.

Per la cronologia:

Fasti romani, editi dal Grevio e da Almeloveen.

Ghigi, Annales Romanorum, che vanno sino a Vitellio.

E tutti gli illustratori dei Fasti consolari.

Per le costumanze:

Boettiger, Sabina. Suppone di descrivere le occupazioni d’una elegante romana.

Becker, Gallus. Viaggio sul modello di quelli del giovane Anacarsi.

Mazois, Palais de Scaurus, ou description d’une maison romaine.

Ruines de Pompej.

Haudebourt, Le Laurentin, maison de campagne de Pline le Jeune.

Desobry, Rome au siècle d’Auguste.

[262]

Meierotto, Sitten und Lebensart der Römer in verschiedenen Zeiten der Republik.

Sul diritto:

Sigonius, De antiquo jure civium romanorum.

Beaufort, La république romaine, au plan général de l’ancien gouvernement de Rome.

Histoire critique du gouvernement romain.

Texier, Du gouvernement de la république romaine.

Savigny, Gesch. des römischen Rechts in Mittelalter. Quivi e nelle illustrazioni delle tavole d’Eraclea diede idee del diritto italico ben più precise che non il Sigonio, l’Eineccio e gli altri precedenti.

Cosman, Disputatio historiæ juridicæ de origine et fontibus legum XII Tabularum.

Grauert, De XII Tabularum fontibus atque argumento.

Bach, Historia jurisprudentiæ romanæ.

Giraud, Histoire du droit romain.

Walter, Gesch. der Römischen Rechts.

Mackeldey, Storia delle fonti del diritto romano (inglese).

Hugo, Elementi della storia del diritto romano (tedesco).

Ortolan, Histoire de la législation romaine.

Explication historique des Institutes de Justinien.

Haubold, Institutiones, con preziose aggiunte di C. E. Otto.

Laurent, Histoire du droit des gens et des relations internationales.

Pellat, Droit privé des Romains.

La Ferrière, Histoire du droit civil de Rome.

[263]

Zimmern, Gesch. der römischen Privatrechts.

Macé, Sur les lois agraires.

Mommsen, Die römische Tribus in administrativer Beziehung. Altona 1844.

Per la milizia, omettendo i più antichi:

Ghichard, Mémoires militaires sur les Grecs et sur les Romains.

Lange, Historia mutationum rei militaris Romanorum ab interitu reipublicæ usque ad Constantinum Magnum.

Loehr, Das Kriegswesen der Griechen und Römer.

Sonklar, Abhandlung über die Heeresverwaltung der alten Römer in Frieden und Krieg.

Per la religione:

Lacroix, Sur la religion des Romains, d’après les fastes d’Ovide.

Hartung, Die Religion der Römer nach den Quellen dargeslellt.

Ambrosch, Ueber die Religionsbücher der Römer.

Studien und Andeutungen im Gebiet des altrömischen Bodens und Cultus.

Klausen, Æneas und die Penaten.

Woeniger, Das Sacralsystem der Römer.

Su singoli punti occorrono dissertazioni negli atti delle Accademie, specialmente in quella delle Iscrizioni di Parigi, e in quelle di Gottinga e di Torino. In Germania non va anno, massime dopo il Niebuhr, che non si pubblichino molte monografie; e singolarmente lodate furono quelle del Savigny, Warnkönig, Schutz, Huscke, Gerlach, Drumann, Göting, Hullmann, ecc. Tra le francesi sono importanti

Dureau de la Malle, Économie politique des Romains.

[264]

Leclerc, Des journaux chez les Romains. Tende ad acquistare alcuna certezza ai racconti anche primevi.

Francesco Greuzer, nell’Abriss des römischen Antiquitaten, ad ogni capitolo offre una serie d’opere a consultarsi in proposito, poi una sequela di quesiti, indicando succintamente le risposte, e lasciando che fra le varie scelga il lettore. Per fermarci a quelli che ora ci occupano, ecco parte del primo capitolo: «Sulle origini, differenti opinioni degli antichi e de’ moderni, vedasi Schwarts, Osservazioni su Nieuport, Compend. antiq. rom., pag. 13. — Fabricius, Bibl. antiquar., pag. 215-16. — Ruhnken, Prælect. academ. in antiq. rom., I. 1. — Cicerone, De Rep., II. 7. Tradizione che fa Roma colonia d’Albalonga. Id., II. 2. Concedamus enim famæ hominum, e poi Ut jam a fabulis ad facta veniamus. Osservazioni su questo passo da paragonare colla storia romana di Levesque, pag. 434, e d’altri moderni. Erodoto sopra Turio in Enotria, anno 310 di Roma, non sa nulla di Roma, ma parla assai de’ potenti Tirreni che combatterono i Focei, i. 166 (confrontisi Niebuhr, Hist. rom., I. 84), e che diedero il loro nome a tutta l’Italia occidentale fino al 420 (Dionigi d’Alicarn., I. 23, 29). Spesso la nazione tirrena ha per capo un lucumone distinto per sapere (Livio, I. 2; V. 33. — Ateneo, IV. 153; XII. 517. — Maffei, Verona illustrata, I. — Lampredi, Del governo civile degli antichi Toscani, 1760. — Lanzi, Saggio di lingua etrusca, 1789. — Micali, L’Italia avanti il dominio dei Romani, 1810. — Inghirami, Monumenti etruschi, 1820). Roma fu fondata dagli Etruschi o dai Tirreni? Roma è colonia di Cere? (Niebuhr, i. 162. — Schlegel, Annali letterarj di Heidelberg, 1816, pag. 892). Cere, già Agilla, sulla sinistra del Tevere, ha comunicato ai Romani il nome di Quiriti, dall’antica parola Cairites, [265] Ceriti (Schlegel, ib.). Trattasi di questi Ceriti ove è detto che i Cartaginesi e i Tirreni diedero battaglia navale ai Focei? (Niebuhr, i. 84). Il fondo della popolazione romana era etrusco (ceretico)? I patrizj sono una casta sacerdotale di questa nazione? (Niebuhr, Schlegel). Gli antichi Etruschi sono forse i soli sudditi di Romolo? Roma è d’origine greca o pelasga? (Bonstetten, Viaggi in Italia, I. 225. — Wachsmuth, pag. 100. — Raoul-Rochette, Sist. de l’établissement etc., II. 360), ecc.».

[267]

APPENDICE IV. LE SIBILLE

(Vol. I, pag. 157).

Le Sibille, vergini conscie dell’avvenire e del modo di stornare le sventure e di esorare gli Dei, le quali palesavano i loro oracoli in versi, sono un altro problema dell’antichità profana; poi anche della ecclesiastica, dacchè parvero aggiungere un testimonio all’aspettazione giudaica del rinnovamento de’ tempi.

Quasi simultanei trovansi apparire questi esseri misteriosi in diversi luoghi del mondo civile: ma le tradizioni variano fin sul loro numero, che alcuni portano a dieci, altri riducono a quattro, altri anzi restringono alla sola Eritrea. Questa, secondo Pausania, scrittore d’un viaggio in Grecia, dicevasi or donna, or suora, or figlia d’Apollo, e che da Samo passò a Claro e a Delfo, indi nella Troade, ove la tomba sua vedevasi nel bosco d’Apollo, con epitafio che ne attestava l’ispirazione e la verginità: era anteriore alla guerra di Troja, della quale predisse l’esito. Va aggiunta la Sibilla Libica, forse identica con Erofile, figliuola di Giove e di Lamia; è la più antica di tutte, e un inno a lei attribuito era popolare fra gli abitanti di Delo al tempo di Pausania. La Sibilla di Samo era stata sacerdotessa nel tempio [268] di Apollo Sminteo, e talora è confusa colla Eritrea. Pausania applica il nome di Sibille a tutte le indovine antiche; già ai tempi d’Euripide e di Platone se ne avevano e veneravano gli oracoli a paro con quelli di Orfeo e Museo; onde possiamo crederle un eco di quelle tradizioni patriarcali, che per tutto il mondo risonarono con maggiore o minore mescolanza di favole.

De’ libri ad esse attribuiti l’esistenza è accertata, come qualsiasi fatto della storia antica. A Roma la Sibilla Cumana era venuta offrirli a Tarquinio il Superbo; ed avendo egli ricusato comprarli, essa ne arse tre dei nove che erano, e tornò al re chiedendone il prezzo stesso. Avutone ancora il rifiuto, bruciò tre altri libri, e tornò domandandone l’egual prezzo; ond’egli per curiosità li comprò, e trovò che conteneano fata urbis Romæ, come dice Lattanzio, i. 6, appoggiandosi a Varrone. Vedi pure Dionigi, iv; A. Gellio, i. 19. Ciò vuol dire ch’essi libri risalgono al tempo dei re; e scritti su tela o su foglie di palma, conservavansi entro urna di pietra in un sotterraneo del tempio del Campidoglio. In tempi che l’incredulità religiosa veniva di moda, Silla prepose quindici sacerdoti a custodirli; Augusto li fece in gran solennità trasferire dal Campidoglio al tempio d’Apollo Palatino. Quando si consultavano, i sacerdoti doveano prepararsi con riti ben diversi dai consueti, cioè col digiuno e colla preghiera: indizio che contenessero una dottrina più pura; e forse perchè questa combatteva il politeismo vulgare ed uffiziale, erano celati con tanta cura. In qual modo si consultassero non appare, ma sembra si facesse coll’aprire a caso il volume, e leggere le prime parole occorrenti. Le risposte che se ne traevano, riguardavano soltanto cose ed effetti religiosi, nè sembra che, ai tempi della repubblica, si consultassero per fini politici o per indovinare il futuro.

[269]

Quando, nelle guerre civili, incendiatosi il Campidoglio 83 anni avanti Cristo, que’ libri bruciarono, parve pubblica sciagura; si diede opera a procacciarne una copia; i consoli Ottavio e Curione adunarono sopra tal bisogna il senato, che mandò tre deputati nella Grecia, in Sicilia, a Eritrea, a Delfo, a Cuma, per raccorre quanto fosse rimasto di quelle vecchie predizioni. Tali frammenti formavano più di mille versi, e furono cerniti e ordinati con uno studio, che attesta l’importanza attribuita a siffatte profezie, e all’opinione d’un rinnovamento de’ tempi in esse annunziato, e che, secondo Plutarco, doveva essere una palingenesi del mondo antico, il termine del periodo umanitario. Queste forse erano soltanto idee popolari, non volute dal Governo, che tosto rinserrò e ascose que’ frammenti, fra’ quali molti spurj si erano insinuati, e da cui il vulgo traeva augurj ed altre superstizioni. Augusto, fatto pontefice massimo 13 anni avanti Cristo, temendo che la pace pubblica non venisse sommossa da cotesta aspettanza d’un nuovo ordine di cose, comandò che in un dato giorno fossero consegnati al pretore urbano tutti i libri o versi Sibillini che alcuno possedesse, e più di duemila ne mandò al fuoco; fece rivedere gli autentici, sigillare in doppia cassa dorata, e riporre sotto l’altissima base dell’Apollo Palatino. Tiberio imperatore ne decretò poi un nuovo esame, molti espungendone. Poco stante vi fu aggiunto un nuovo volume. Sotto Nerone andarono in fiamme, ma ancora furono restaurati. Arsero di nuovo al tempo di Giuliano apostata, poi sotto Onorio nel 395 dopo Cristo, e sempre furono ripristinati. Finalmente, nel 405, Stilicone bruciò il codice delle Sibille, nè più si cercò serbarne traccia, attesochè le profezie erano adempite.

La raccolta dei versi Sibillini fu pubblicata da Galleo ad Amsterdam nel 1689, con moltissimi falsi, specialmente [270] quelli che riguardano Cristo. Il Maj nel 1817 diè fuori altri frammenti, e Struve ne fece la raccolta più compita, Sibyllinorum librorum fragmenta, Königsberg 1818. Ma a quanto or ne possediamo manca ogni carattere di autenticità. Pure Giuseppe Ebreo, nell’Archeologia giudaica, cita un pezzo dei libri Sibillini, ove si raccontano quasi come nella Genesi la confusione delle lingue e la torre di Babele; e il citarli mostra fossero conosciuti al suo tempo. Poco dopo, san Giustino e Teofilo d’Antiochia adducono versi delle Sibille a favore del cristianesimo. Altri Padri se ne valgono nelle controversie, cioè dove poteano essere impugnati se finti fossero o recenti. San Clemente Alessandrino mette in bocca all’apostolo Paolo un appello ai versi della Sibilla.

Non conchiuderemo per questo che le Sibille fossero ispirate dallo Spirito Santo e vere profetesse. Forse aveano esse raccolto con maggior attenzione e minori mescolanze quelle verità, che al paganesimo erano rimaste dalla rivelazione primitiva, e che insegnavansi ai mistagogi in grande segretezza, e le aveano deposte in libri. In questi sembra si contenessero teogonie molto più precise ed elevate che non le diffuse nelle scuole e nei tempj; e profezie, i cui punti principali erano il fine delle cose, finem ævi, e il Dio re, Deum regem. Fine delle cose, per gli uomini di sangue e di gloria, non poteva essere che il termine del sistema delle conquiste e della nimicizia universale. Seneca stesso trae da questa aspettazione qualche tinta melanconica, e vi si premunisce col suo stoicismo.

Il più insigne interprete degl’insegnamenti delle Sibille è Virgilio, il quale, nel libro VI dell’Eneide, dalla Cumana fa esporre una filosofia, che la più elevata non aveva mai inteso il paganesimo; quasi già il Verbo divino si [271] fosse accostato alla terra, tanto da balenare a qualche intelletto privilegiato. Poi, nell’Egloga IV, dipinge con colori mitologici e pastorali un’imminente età dell’oro, una rinnovazione del secolo, attribuendo ancora la predizione alla Sibilla Cumana. — Vedi l’Appendice VII.

[273]

APPENDICE V. NOMI E GENTI ROMANE

Ogni Romano libero aveva tre nomi, prænomen, nomen, cognomen; alcuni v’aggiungeano l’agnomen. A tale attribuzione s’innesta una delle quistioni più controverse fra gli archeologi e i giurisperiti, che cosa s’intendesse per gens e gentilis. Cicerone, nelle Topica, VI, volendo dare un esempio della definizione, adduce questa: «Gentìli sono coloro che hanno lo stesso nome; non basta: che sono d’origine ingenua; non basta: de’ cui ascendenti nessuno fu in servitù; manca ancora qualcosa: che non furono diminuiti del capo; tanto forse basta, nè altro vedo v’abbia aggiunto Scevola pontefice». Il luogo degli Istituti di Cajo, ove la quistione era trattata, manca: sicchè molti sistemi si formarono sopra tal punto.

Credono alcuni che ciascuna gente si dividesse in stirpi, e le varie stirpi in famiglie, con un nome comune per tutta la gente, un agnome per ciascuna stirpe, un cognome per ciascuna famiglia: agnati sarebbero i membri della stessa famiglia o stirpe; gentili gli altri. Secondo alcuni, gli agnati si fermerebbero al decimo grado; più in là sarebbero gentili. Altri fermano gli agnati ai collaterali, provenienti da avo o da padre comune, e dalla loro discendenza; e gentili chiamano i [274] collaterali, provenienti da bisavoli, trisavoli, o altri ascendenti più remoti. Distinzioni arbitrarie, e tanto più il supporre che la gente si componga di famiglie, fra cui il nome comune indica comune origine, sebbene lontana a segno, che fra i membri non si potrebbero provare legami civili d’agnazione.

Il Niebuhr farebbe la gente un’aggregazione politica di famiglie patrizie, senza legami di sangue o di podestà patria, bensì consociati sopra una divisione territoriale della città, per esempio un quartiere, con nome e riti comuni, e partecipazione complessiva alle funzioni politiche della città. Non sarebbe stata propria che de’ nobili: pure il Niebuhr è costretto riconoscere che i clienti e i liberti facevano parte della gente; e vi erano genti plebee, come la Popilia, la Elia ed altre, fra cui non compajono cotesti legami politici.

Certo i Romani all’espressione di gente affissero l’idea d’una derivazione comune: ma tale derivazione poteva essere o naturale o civile. Nella convivenza civile o naturale de’ Romani voglionsi distinguere, 1º la famiglia, a cui corrisponde l’agnazione; 2º la gente, a cui corrisponde la gentilità; 3º la cognazione.

La famiglia ha luogo per tutti i cittadini, patrizj siano o plebei, di razza ingenua o liberti: fondasi sopra una base affatto civile, qual è la podestà paterna o maritale, che tutti congiunge sotto un capo comune, qual è il capostipite se fosse ancora vivo.

La gente non abbraccia tutti, ma quei soli che stettero sempre liberi, e i cui ascendenti non furono mai in servitù nè in clientela, e perciò tessono la propria genealogia di generazione in generazione; mentre quelli, un cui ascendente fu cliente o schiavo, devono la loro generazione civile alla stirpe di cui assunsero il nome e i riti. Adunque i membri delle famiglie sempre ingenue [275] sono fra loro agnati e gentili: inoltre sono gentili de’ membri di tutte le famiglie di clienti annesse alla loro gente, o di quelle prodotte dalla famiglia loro mediante l’emancipazione. Questi ultimi hanno dei gentili, ma essi non sono gentili di nessuno: portano il nome e partecipano ai riti della gente cui si attaccano o da cui emanano; possono essere deposti nel sepolcro di quella gente; ma non hanno la qualità di gentili, nè i diritti di eredità e di tutela annessi a tale qualità. In siffatta ipotesi regge la definizione di Cicerone, mentre cade in quella del Niebuhr.

La cognazione, al pari che la famiglia, ha luogo indistintamente per tutti i cittadini, esprimendo il legame fra persone unite per sangue naturalmente, o che la legge reputa tali. Perciò ogni membro della famiglia è pur membro della cognazione; membro anche della gentilità, se trattasi di famiglia perpetuamente ingenua. Laonde tutti gli agnati sono anche cognati fra loro; e nel caso di famiglie sempre ingenue, tutti gli agnati sono anche gentili e cognati fra loro; oltre che son gentili di tutti i membri delle famiglie derivate dalla loro gente.

Ciò condusse alcuni nella falsa credenza che la famiglia e la gente fossero una cosa sola; siccome fece il Vico, al quale rimase sconosciuto il carattere speciale e civile di tale istituzione (De constantia philologiæ, tom. III. p. 198, 279: De uno universi juris principio et fine, tom. III. p. 58-107, ediz. dei classici). Erra egli egualmente nel supporre che la gentilità non si perde da chi esce dalla famiglia per adozione: il che ripugna e col senso del diritto civile romano, e colla definizione suddetta di Cicerone. Perocchè ogni membro escluso dalla famiglia cessa d’essere agnato; cessa pure d’essere gentile se trattasi di famiglia gentilizia; ma non cessa di essere cognato di quelli cui è legato per [276] sangue, atteso che l’agnazione e la gentilità sono legami civili, mentre la cognazione è legame naturale.

Adunque la gente, nelle varie agnazioni ond’è composta o che ne dipendono, comprende: 1º la famiglia o agnazione, d’origine perfettamente ingenua; 2º in posizione subordinata, le famiglie o agnazioni plebee dei clienti, le quali fra loro nella famiglia rispettiva sono agnati e cognati, ma tutti hanno per gentili i membri della gente superiore di cui portano il nome; 3º al di sotto ancora le famiglie o agnazioni ingenue adesso, ma che provengono da un’emancipazione operata dalla gente. Se di molta oscurità è involto il legame della clientela, non è meraviglia, giacchè su questo privilegio patrizio pochi documenti rimangono, e cessò presto, mentre durarono sempre la schiavitù e l’emancipazione.

Come dunque l’agnazione è fondata sopra un legame comune di podestà patria o maritale, così la gentilità fondasi sopra un legame di patronato, comunque antico; e l’una e l’altra portano comunanza di nome e di riti, mentre la cognazione si deduce soltanto dai vincoli del sangue; quelle sono legame civile e religioso, questa è di mero diritto naturale.

La gentilità in conseguenza rimane ristretta a quelle poche famiglie che in nessun tempo trovaronsi sotto patronato nè in servitù. In origine non furono tali che i patrizj; ma poi s’introdussero nella città stirpi plebee, le quali non erano state sottomesse alla clientela dei patrizj, come soleano i primitivi plebei; poi, come dicemmo, la clientela andò in dileguo, mentre rimasero la schiavitù e l’emancipazione. Le famiglie plebee poterono dunque costituire genti, col diritto di gentilità, non relativo a clienti che mai non ebbero, ma ai membri delle famiglie derivate da loro per l’affrancazione. E di fatto Cicerone, nella definizione a cui ci appoggiamo, [277] non mette per condizione della gentilità il patriziato.

Da tutto ciò s’inferisce che il titolo e i diritti di gentile spettavano soltanto ai membri della famiglia patrizia del patrono, o della famiglia che essa affrancava, riguardo a quelli della famiglia de’ clienti o de’ liberti. Gentile indicava chi apparteneva ad una stirpe primitiva, con genealogia, propria e sempre ingenua. Il diritto di gentilità sparve di buon’ora: Cicerone già lo diceva raro; Gajo lo dà come disusato (III. 17). E la ragione è chiara, poichè la clientela rimase tolta dall’uguagliamento de’ plebei co’ patrizj: quanto alle emancipazioni, moltiplicandosi all’infinito la successione delle razze, le affrancate ne affrancavano altre; che generavano altre famiglie, considerantisi di maggiore ingenuità quant’era più lontano il tempo del loro affrancamento; per modo che dovettero smarrirsi le traccie della gentilità; si moltiplicavano ed appuravano le famiglie secondarie, mentre nelle successive perdeansi le famiglie primitive. Il diritto di gentilità sopravvisse solo in alcune famiglie poderose, che mettevano onore e interesse nella loro genealogia. Ma mentre i giureconsulti e gli eruditi discordavano intorno a siffatta istituzione, il popolo ne conservò il vero senso nelle voci di gentile, gentilizio, gentiluomo, e ne’ corrispondenti che negl’idiomi diversi esprimono una persona di buona estrazione, di puro sangue.


Tornando alle particolarità dei nomi, il prenome indicava l’individuo, come i nostri di battesimo; e davasi al bambino nove giorni dopo la nascita. I prenomi arrivavano appena alla trentina; alcuni erano prediletti in certe famiglie, e aveano da principio qualche significato. Noi gli esibiamo colle etimologie, comecchè spesso forzate, de’ grammatici:

[278]

Agrippa da ægre partus, nato con difficoltà.

Appius, variazione di actius, indicava qualche azione particolare: era proprio d’un ramo di casa Claudia, che si estinse colla repubblica: dappoi diventò nome di famiglia.

Aulus da alere, consacrato agli Dei alimentatori.

Cœso da cœdere, tratto dal seno materno con un taglio.

Cajus o Gajus da gaudium, gioja de’ genitori.

Cnæus da nævus, neo, macchia sulla pelle.

Decimus, Sextus, Quintus ecc.; numero progressivo de’ figliuoli del padre stesso.

Faustus, felice, caro agli Dei.

Hostus da hostis, nato in terra straniera; quod esset in hostico procreatus, dice Macrobio.

Lucius da lux, nato all’aprirsi del giorno.

Mamercus, nome osco del dio Marte: era usitato in casa Emilia.

Manius da mane mattina, o da manus, che anticamente significava buono.

Marcus, nato in marzo.

Numerius. Uccisi tutti i Fabj a Crèmera, ne sopravanzò un solo, che sposò la figlia d’un cittadino di Benevento detto Numerio Otacilio, il quale volle che il primogenito si chiamasse Numerio; donde questo prenome venne in quella famiglia.

Opiter, ob patrem, nato dopo la morte del padre, ma vivo l’avo che gliene fa le veci.

Posthumus, nato dopo sepolto il padre.

Proculus, nato nell’assenza del genitore, o nella vecchiaja; quasi procul progressa ætate.

Publius, divenuto orfano prima d’aver nome, pupilli facti priusquam prænomina haberent. Fors’anche si riferiva alla forza del corpo o ad augurio, da pubes.

Servius, nato da madre schiava.

[279]

Spurius, di padre incerto.

Tiberius, nato presso al Tevere.

Titus deriva da un Sabino di questo nome.

Tullus da tollere, indicante l’intenzione che il padre aveva di accettare e allevare il neonato.

Volero da volo: volentibus nasci liberis parentibus indebatur, dice un grammatico ch’io non intendo. Era proprio della gente plebea Publilia.

Vibius?

Vopiscus, usato in casa Giulia; e dicono indicasse un gemello venuto a maturità, mentre l’altro uscì abortito.

Sotto gl’imperatori, parecchi nomi che indicavano famiglie e rami, diventarono personali, come Cossus, Drusus, Paulus, e principalmente Flavius dopo che imperarono i Flavj.

Le donne avevano il prenome? Qualche esempio sembra provare il sì; ma generalmente s’indicarono col nome di famiglia del padre o del marito, distinguendole una dall’altra cogli epiteti di major, minor, tertia, e per vezzo primilla, secundilla, tertilla ecc.

Il nome dicemmo come indicasse la gente, cioè la casa. Primieramente esprimeva l’origine d’essa casa, o il luogo donde veniva; perciò finivasi per lo più in ius. Alcuno traevasi da antichi prenomi, come Marcius da Marco, Postumius da Postumo; o da qualche animale, Porcius, Asinius; o da funzioni sostenute, o da altra accidentale particolarità.

Dal non avere gli Etruschi usato il nome, volle arguirsi non conoscessero la divisione per genti; ma conviene ricordare che neppure i Romani lo adoprarono nei primi tempi.

Ogni casato distinguevasi in più rami, chiamati stirpes che si dividevano in familiæ, a cadauna delle quali si affiggeva un nome particolare, che era il cognome. Per [280] lo più deducevasi da circostanze speciali del capostipite, buone o cattive qualità, difetti corporei, imprese e simili. Non termina in ius, ma in us, in or, ecc.

L’agnome s’aggiungea talvolta ai tre precedenti per indicare la stirpe, o per memoria di qualche splendido fatto, o per esprimere che uno era entrato nella famiglia per adozione. In quest’ultimo caso, un figlio di famiglia rinunziava ai suoi diritti di nascita, e diveniva membro della famiglia in cui entrava; e conservando il prenome suo, assumeva il nome del casato e della famiglia del padre adottivo; se conservasse l’antico suo casato, mutavane la desinenza in ius o anus, e lo collocava come agnome dopo il nuovo nome e cognome. Publio, figlio di Paolo Emilio vincitore di Perseo, quando fu adottato da Publio Cornelio Scipione Africano, s’intitolò Publius Cornelius Scipio Africanus Æmilianus, al che poi aggiunse il soprannome di Numantinus.

Taluni, in luogo dell’agnome, portavano il nome della tribù o curia a cui appartenevano, ponendolo all’ablativo: per tal modo gli ablativi Curio, Capito ecc. divennero nomi di famiglia.


Le genti o casati romani, ricordati dalla storia prima degl’imperatori, sono da censettanta, di cui un terzo patrizj, gli altri plebei. Fra i primi, tredici o quattordici pretendeano derivare da Troja o da Alba, e avere costituito il senato de’ prischi re, onde chiamavansi majorum gentium. Secondo Dionigi d’Alicarnasso, appena un cinquanta famiglie patrizie sopravvivevano al finire della repubblica; e Tacito (Ann., XI. 21) asserisce che nessuna ne avanzava al tempo di Claudio. Ne poniamo qui la serie, anche perchè giova conoscerle per interpretare le epigrafi:

[281]

1. Gens Æmilia asseriva discendere da Emilio figlio d’Ascanio. Spesso adottava il prenome Mamercus, che indicò poscia un dei rami, mentre l’altro fu detto Lepidus. Dai Mamerci si formò il ramo Paulus, diviso esso pure in Pauli e Lepidi. V’apparteneano anche gli Scauri; dei quali l’ultimo Mamerco Scauro, poeta e oratore, fu ucciso sotto Tiberio per lesa maestà, adulterio e sortilegio. Dei Lepidi molti compajono ancora sotto i primi imperatori; Marco Lepido, nipote d’Augusto, cognato e complice di Caligola, congiura con Agrippina e Giulia, ed è ucciso.

2. Gens Antonia voleva derivare da Ercole.

3. Gens Clelia, da un compagno d’Enea, ed ebbe fra’ suoi la celebre Clelia.

4. Gens Fabia, da un fratello d’Ercole. Trecentosei perirono a Crèmera, rimanendo solo Fabio Vibulano. Questo cognome voleano derivare da Vibo, città dei Bruzj fondata da Ercole: fu mutato in Ambustus per una saetta che colpì uno di quella casa. Il ramo più celebre degli Ambusti era il Maximus, da cui fu Fabio Massimo che salvò Roma da Annibale, e che venne chiamato Verrucosus in grazia di un porro che aveva sul labbro, Avicula per la naturale sua bontà, Cunctator pel temporeggiare con cui ripristinò le cose. Questa casa finì nel primo secolo dopo Cristo.

5. Gens Gegania, da Gia compagno di Enea.

6. Gens Julia, da Julo figlio d’Ascanio. Da Cajo Giulio Julo, console nel 265 di Roma, veniva il ramo dei Libo, che uscente il v secolo prese il nome di Cesare, o perchè uno de’ suoi membri fosse venuto in luce pel taglio cesareo, o perchè avesse ucciso un elefante, che tal nome porta in lingua punica.

7. Gens Junia, da un Giunio compagno d’Enea. Era di questi Giunio Bruto, espulsore dei re. Coi due figli [282] ch’e’ mandò al supplizio finì quella casa, essendo plebei i Giunj che dappoi s’incontrano.

8. Gens Nautia, da Naute compagno d’Enea, nella cui famiglia era il privilegio del sacerdozio di Pallade. I membri di questa casa presero il soprannome Rutilus, e spesso il prenome Spurio; e l’ultimo nominato fu il console del 467.

9. Gens Quintia. Tre rami s’illustrarono, il Capitolinus, il Cincinnatus, il Flaminius. Nel VI secolo ai Capitolini e ai Barbati succedono i Crispini, detti dai capelli crespi. Anche i Cincinnati sono detti dai ricci, suddivisi poi in due rami, di cui il cadetto si chiamò Pennus: nel 403 cessano di comparire nella storia, sopravvivendo oscuri; Caligola vietò loro i capelli ricci. I Flaminj ebbero tal nome dall’essere flamini di Giove: dopo il vincitore di Filippo, console nel 631, più non si parla di questo casato.

10. Gens Sergia, da Sergeste compagno d’Enea: suoi rami principali i Fidena e i Silo. L’ultimo de’ Fidena conosciuti era tribuno militare nel 375. I Silo, così detti dal fondatore di questa casa che avea il naso ritorto, diedero il famoso Catilina.

11. Gens Servilia: principali rami i Prisci e i Cepiones. Alcuni dei quali portarono il soprannome di Ahala o Axilla, da un difetto nelle spalle; e scompajono dopo il V secolo. Da’ Cepioni usciva la madre di Marco Bruto, che adottato dallo zio, prese i nomi di Servilio Cepione Bruto: con lui finirono i Servilj. Più avanti accenneremo l’altra famiglia plebea.

12. Gens Valeria, stratta da Voluso, venuto a Roma con Tazio. Publio Valerio Voluso fu console il primo anno della repubblica, ed ebbe il titolo di Poplicola. Suo fratello, dittatore nel 260, chiamossi Massimo per aver riconciliato il senato col popolo. Da questi due [283] fratelli discesero due linee. Quella del maggiore si suddivise in due collaterali, i Poplicola e i Potitus, detti poi Flaccus nel V secolo. La linea del Massimo prese anche il nome di Corvius o Corvinus, in memoria del combattimento con un Gallo, sostenuto dal più famoso di loro casa. Il pronipote suo v’aggiunse il nome di Messala per aver preso Messina. Discendea da loro Messala Corvino, protettore di Tibullo. Altri rami di questa casa erano i Levinus, i Falto ecc., oltre i plebei.

13. Gens Vettia, oriunda sabina. Un Vettio fu interrè fra Romolo e Numa. Judex chiamavasi una sua linea.

14. Gens Vitellia è delle antichissime; volea provenire da Fauno re degli Aborigeni, e dalla dea Vitellia: ma restò oscura fino all’imperatore Vitellio.


Da queste quattordici case, sangue purissimo di semidei, veniamo alle minores gentes:

1. Gens Æbutia. Dal ramo Elva uscirono varj consoli nel III e IV secolo.

2. Gens Æteria o Ateria, in cui erano i Fontinales.

3. Gens Aquilia, da aquilus nero. Erano di essi quello cui Mitradate VII fece colar oro in gola, e il giureconsulto che fu pretore con Cicerone.

4. Gens Atilia, col soprannome di Longus.

5. Gens Cassia. Suoi rami i Longini e i Viscellini: soli i primi s’illustrarono.

6. Gens Claudia. Atto Clauso Regillense, ricco sabino, mutatosi a Roma dopo la cacciata dei re, prese il nome di Appio Claudio, donde la gente più arrogante. Suo nipote fu decemviro: un altro costruì la via Appia, ed ebbe il soprannome di Cieco. Un suo figlio diede il soprannome di Pulcher alla sua linea, estintasi nella guerra civile. Il Clodio famoso si fece adottare da un plebeo per divenire tribuno, mentre, fino a Nerone, [284] nessun plebeo era stato adottato dai Claudj. Da un altro Claudio, soprannominato Nero che in sabino significa prode, discesero gl’imperatori Tiberio, Claudio, Caligola, con cui finì la gente Claudia patrizia, stata cinque volte alla dittatura, ventotto al consolato, sette alla censura, e che avea menato sei trionfi e due ovazioni.

7. Gens Cominia: due rami, Aruncus e Laurentinus.

8. Gens Cornelia, la più numerosa e illustre pei più grand’uomini. De’ molti suoi rami quattro sono certamente patrizj:

I Lentuli, detti da uno che aveva la pelle chiazzata di lentigini, o che introdusse la coltivazione delle lenti. Il primo console loro trovasi nel 451, l’ultimo nel 736. Publio Cornelio Lentulo console nel 683, fu cognominato Sura, polpaccio della gamba, perchè avendogli Silla chiesto conto del denaro amministrato come questore, egli rispose che la sua gamba ne renderebbe ragione, alludendo a un trastullo fanciullesco, ove era percosso su quella parte chi mancava di sveltezza.

I Maluginenses. Un ramo ebbe nome di Cossus cioè rugoso, poi di Arvina grasso.

I Rufini, nominati dal colore de’ capelli, illustrati principalmente da Silla dittatore, il cui bisavo avea avuto tale soprannome perchè l’oracolo sibillino l’avea incaricato di celebrare i giuochi ad onore di Apollo.

Gli Scipiones, più famosi, provengono da uno che al padre cieco serviva di bastone (σχηπιον). Nel IV secolo si divisero in quattro linee, Hispallus, Nasica, Africanus, Asiaticus. Gli Ispalli furono i meno illustri, detti da Hispanus, un di loro che portò primo la notizia della conquista di Spagna fatta da suo fratello. I Nasica durarono a lungo, e sotto Nerone uno d’essi era sposo di Poppea. Gli Africani e gli Asiatici venivano dai due fratelli vincitori d’Annibale e di Antioco: il primo adottò [285] il figlio di Paolo Emilio, che non ebbe discendenza; degli Asiatici trovasi un console nel 671. Dice Cicerone che, fino a Silla, il cadavere di nessun Cornelio era stato bruciato, costumandosi di sepellirli. Sotto i primi imperatori troviamo ancora un Publio Silla, genero di Claudio, esule a Marsiglia, ucciso da Nerone; Publio Cornelio Scipione, marito della prima Poppea; molti Lentuli consoli; un Gneo Dolabella, scannato per ordine di Vitellio; Gneo Cinna, graziato da Augusto; un Maluginese flamine diale. Altri erano plebei.

9. Gens Curtia, oriunda del paese dei Sabini.

10. Gens Fossia. Uno de’ suoi soprannomi era Flaccinator, quasi infiacchitore.

11. Gens Furia o Fusia da Medullia ne’ Latini venne a Roma sotto Romolo. Due rami s’illustrarono, il Medullinus e il Camillus: dopo il 429 non appajono nella storia fino al 780, quando un Furio Camillo proconsole d’Africa è nominato da Tacito. Un altro ramo dei Furj chiamavasi Pacilus. Ebbero sette dittatori, venti consoli, ventitre tribuni militari, quattro censori, sette trionfanti.

12. Gens Genucia. È notevole il ramo Augurinus.

13. Gens Herminia. Un suo ramo diceasi Esquilina.

14. Gens Horatia. Uno fu console l’anno della cacciata de’ re, e chiamossi Pulvillus dal nome dei letti che faceansi a onore degli Dei. Ne uscirono Orazio Coclite e i tre vincitori de’ Curiazj.

15. Gens Hortensia. Il celebre oratore Quinto Ortensio era del ramo Ortalus.

16. Gens Hostilia. Diversi portano il soprannome di Mancinus, altri di Cato.

17. Gens Lætoria, forse tutt’uno colla Plætoria plebea.

18. Gens Lartia. Lars indicava i capi degli Etruschi.

[286]

19. Gens Lucretia. I più famosi sono il Tricipitinus e il Vespillo, detto da Claudio Lucrezio edile, che fece gettar nel Tevere il cadavere di Tiberio Gracco; e vespillo vuol dire becchino.

20. Gens Mælia. Suo soprannome fu Capitolinus.

21. Gens Manlia: principali rami, Vulso, Capitolinus e Torquatus. Un Vulso fu console nel 280; poi prese nome dal Manlio salvatore del Campidoglio. Un nipote di questo fu nominato Imperiosus per l’arroganza onde comandò a’ cittadini di prendere le armi. Suo figlio maggiore lo conservò; il minore prese quello di Torquatus da un monile (torques) ch’e’ tolse a un Gallo vinto in duello, e che i suoi portarono per distintivo finchè Caligola il vietò.

22. Gens Menenia. Costumava i soprannomi d’Agrippa e di Lanatus.

23. Gens Minucia. Il ramo che arrivò ai primi onori, massime nel III secolo, chiamavasi Augurinus, da qualche augure: un altro diceasi Rufus.

24. Gens Numicia, col soprannome di Priscus.

25. Gens Octavia. Della famiglia patrizia trovansi i rami Rufus e Balbus.

26. Gens Papiria. I suoi rami patrizj Mugillanus, Cursor, Crassus, Masso scompaiono dopo il secolo VI.

27. Gens Pinaria. I Pinarj e i Potizj volevansi far discendere da due Arcadi, venuti con Evandro in Italia. Godevano per eredità il sacerdozio d’Ercole, il quale dicevano gli avesse iniziati ai misteri del suo culto. I due rami erano uguali, finchè una negligenza de’ Pinarj diede la prevalenza ai Potizj. Ma avendo questi consentito che alcuni schiavi appartenenti alla repubblica adempissero certe funzioni del loro sacerdozio, gli Dei ne presero tal collera, che in un anno estinsero tutti e [287] dodici i rami di quella famiglia; e Appio Claudio, che vi avea consentito, rimase cieco.

28. Gens Postumia: avea il privilegio di far sotterrare i suoi morti in città. Il ramo principale chiamasi Tubertus. Una delle sue suddivisioni, Albus o Albinus, unì l’epiteto glorioso di Regillensis quando Albo Postumio vinse i Latini al lago Regillo. Sussistettero i Postumj quanto la repubblica.

29. Gens Quintilia. Nel 301 Sesto Quintilio fu console: suo figlio chiamossi Varus, perchè era sbilenco: e tal nome passò ai successivi.

30. Gens Sempronia. I patrizj portavano anche il nome di Atratinus: ma i più celebri furono plebei.

31. Gens Sestia, soprannominati Capitolini.

32. Gens Sicinia, soprannominati Tusci e Sabini.

33. Gens Sulpitia, generata da Giove e Pasifae. Il ramo anziano nomavasi Camerinus da Cameria, già noto ai primi tempi della repubblica, e ancora sotto Nerone; il ramo Galba s’estinse coll’imperatore di questo nome.

34. Gens Tarquilia, col soprannome di Flaccus.

35. Gens Titinia.

36. Gens Veturia, spesso ricorre nei fasti consolari del iii secolo; un suo ramo chiamavasi Geminus Cicurinus, uno Crassus Cicurinus, uno Calvinus, una Philo.

37. Gens Virginia, illustre nel III e IV secolo, portava il soprannome di Tricostus, cui alcuni aggiunsero Cœlimontanus, altri Rutilius.

38. Gens Volumnia. Vi si nota il soprannome d’Amintinus e di Gallus.


Ora enumeriamo le case plebee, salite ad onori, massime in tempo della repubblica:

[288]

1. Gens Acilia. Durante la repubblica questo casato ricorre quattro volte fra’ consoli, e dodici ne’ tre primi secoli di Cristo. Altri rami v’erano, come i Balbi.

2. Gens Ælia, per antichità è lodata da Orazio, (Od. III. 1). I rami dei Pœtus e dei Tubero ricorrono spesso dopo il 317. Avvi pure i Ligur, i Gallus, i Lamia, de’ quali ultimi era Sejano. A un Lamia l’imperatore Domiziano tolse la moglie e la vita.

3. Gens Afrania.

4. Gens Albia.

5. Gens Alfinia.

6. Gens Anicia.

7. Gens Annia, coi rami Luscus, Bassus, Rufus, Capra.

8. Gens Antistia, ebbe parecchi tribuni del popolo; al consolato giunse solo il 748; un ramo erano i Labeo o Veteres, di cui fu Antistio insigne giureconsulto.

9. Gens Antonia, fu tra le plebee consolari sotto la repubblica. La rovina del famoso Marc’Antonio triumviro involse pure i suoi figliuoli; ma delle figlie una fu ava di Nerone, l’altra bisava: e i Gordiani, imperanti nel III secolo, pretendevano discender pure da Antonio.

10. Gens Apuleja. Due rami, Pansa e Saturninus.

11. Gens Arruntia. Lucio Arrunzio, console il 759, è lodato per innocenza di vita e ben adoprata eloquenza: accusato, dovette svenarsi.

12. Gens Asinia, affatto nuova. Asinio Urio fu generale degli Alleati contro Roma. Suo nipote è il celebre Asinio Pollione, console nel 714. Asinio Gallo, figlio di questo, sposa Vipsania repudiata da Tiberio, ed è obbligato a morir di fame.

13. Gens Atia. N’usciva la madre d’Augusto, onde Virgilio la fa venire da un compagno d’Enea (V, 368): non salì oltre la pretura.

[289]

14. Gens Atilia, da cui Marco Atilio Regolo.

45. Gens Aufidia.

16. Gens Aulia.

17. Gens Aurelia, detta Ausalia, che in sabino significa sole, perchè a Cajo Aurelio Cotta, quando si stanziò a Roma, fu dato un posto dove far al Sole i sacrifizj costumati nella sua famiglia. Suo nipote fu console nel 502: i discendenti si divisero in tre rami, Cotta, Orestes, Scaurus. Aurelj eran pure i Simmachi, illustri nel IV e V secolo dopo Cristo; ma non sappiamo se di questo casato.

18. Gens Autronia.

19. Gens Bæbia.

20. Gens Cæcilia plebea, benchè pretendesse venire da un compagno d’Enea. Il ramo Metellus dopo il 470 diede molti grandi, fra cui il Macedonico, il Dalmatico, il Numidico, il Cretico, oltre il Celere e il Pio. In ducencinquant’anni, diciannove di questa casa ottennero quattro volte il pontificato massimo, due la dittatura, dodici il comando della cavalleria, venti il consolato, sette la censura; i Creticus trionfarono nove volte, Pomponio Attico v’entrò per adozione. Tutte le donne chiamavansi Caja, in memoria di Caja Cecilia Tanaquilla.

21. Gens Cædicia.

22. Gens Calpurnia plebea, ma voleva attaccarsi a Calpo preteso figlio di Numa, e ostentava orgoglio aristocratico. Arrivò al consolato nel 574, e d’allora portava il nome di Piso, cui un ramo aggiungeva Cæsonius. Lucio Calpurnio Pisone, console nel 621, fu cognominato Frugi per la sua morigeratezza; il qual titolo passò a’ suoi discendenti, poi a tutti i rami dei Pisoni. Lucio Pisone, uom d’antichi costumi, sarebbe stato ucciso dall’imperatore Tiberio se non moriva a tempo. Un altro, console nell’810, fu ucciso in Africa per ordine di Vespasiano. Cajo Pisone cospirò contro Nerone.

[290]

23. Gens Canidia.

24. Gens Caninia. Entrante l’VIII secolo, trovansi i due rami Gallus e Rebilus.

25. Gens Carvilia.

26. Gens Cassia, il cui ramo principale chiamavasi Longinus. Il più famoso è l’uccisore di Cesare: Cassio Longino, console nel 783, sposò Drosilla figlia di Germanico: Lucio Cassio, insigne giureconsulto e di gravità antica, conservava l’effigie del suo antenato col titolo Duci Partium: Cassio Cherea assassinò Caligola: Cassio Ovidio si rivoltò contro Marc’Aurelio.

27. Gens Claudia. Il ramo più celebre plebeo dei Marcelli produsse insigni uomini, e si estinse in Marcello nipote e genero d’Augusto.

28. Gens Cælia. Molti Celj hanno il soprannome di Rufus o di Caldus.

29. Gens Cornelia. Parecchi rami plebei; il più noto è quello dei Cinna. Era di questa casa il poeta Gallo primo prefetto dell’Egitto, poi Tacito e Nepote storici, Celso medico; altri Cornelj erano i Dolabella, i Balbo, i Merula, i Mammula, i Blesio.

30. Gens Cornificia.

31. Gens Coruncania. Un d’essi fu il primo pontefice plebeo.

32. Gens Curia.

33. Gens Decia. Il ramo detto Mus giunse al consolato nel 414. Famosi quei che si sacrificarono superstiziosamente per la patria.

34. Gens Domitia, una delle plebee più illustri, venuta all’impero con Nerone. Due rami più conosciuti, Calvinus ed Ahenobarbus, così detto da uno, cui Castore e Polluce comparvero annunziando una vittoria de’ Romani, e carezzandogli la barba, che divenne rossa di rame. Ebbero sette consoli, un censore, un trionfante, [291] e passavano per orgogliosi e violenti. Gneo Domizio Enobarbo, console nel 785, sposò Agrippina di Germanico, da cui ebbe Nerone, nel quale finirono gli Enobarbi ed i Cesari. L’ultimo Calvino nominato nella storia fu console nel 714.

35. Gens Duilia.

36. Gens Fabricia.

37. Gens Fannia.

38. Gens Flavia. Dal ramo Fimbria uscirono uomini illustri; dal Sabinus, l’imperatore Vespasiano; poi nel secolo IV ricomparve questo nome in Valentiniano, Valente e Teodosio. Dopo il qual secolo divenne comunissimo per adulazione, e quasi tutti i consoli lo assunsero, poi per imitazione alcuni re barbari.

39. Gens Fusia.

40. Gens Fulvia, molto illustre. Vi troviamo i rami Maximus, Centimalus, Pœtinus, Nobilior, Flaccus. Fulvia, sposa di Marcantonio, nasceva da un liberto.

41. Gens Fundania.

42. Gens Furnia.

43. Gens Gabinia.

44. Gens Genucia.

45. Gens Gettia.

46. Gens Herennia, coi soprannomi di Balbus e Gallus.

47. Gens Hirtia.

48. Gens Hostilia.

49. Gens Junia. Tutti i Giunj che troviam nella storia dopo Giunio Bruto, sono plebei. Per due secoli non n’è parola, poi occorre un console nel 429; indi scontriamo altri coi soprannomi di Bubulcus, Pennus, Silanus; abbiamo pure i Norbanus, Rusticus, Otho. I più conosciuti sono Marco e Decimo Bruto, uccisori di Cesare. Cinnia, moglie di Cassio uccisor di Cesare, [292] sorella di Bruto e nipote di Catone, fu l’ultima di sua stirpe. A’ funerali di essa apparvero le immagini di venti nobili famiglie; quelle di Bruto e Cassio spiccavano viepiù perchè non v’erano (Tacito, Ann., III. 76). I Silani furono scopo alle persecuzioni degli imperatori.

50. Gens Juventia.

51. Gens Lælia. Famosi Cajo Lelio, amico di Scipione Africano Maggiore; e suo nipote, amico dell’altro Africano.

52. Gens Licinia, cioè dai capelli ritorti indietro. Il primo tribuno militare con autorità consolare fu Licinio Calvo. Suo nipote Licinio Calvo Stolone fu il primo console plebeo. Tre rami illustri, Crassus, Lucullus, Murena. I Crassi chiamaronsi Dives dopo Licinio Crasso, nominato pontefice massimo senza passare per gl’impieghi curuli; eccezione onorevole. Suo figlio adottò un fratello del sommo pontefice Muzio Scevola maestro di Cicerone; il quale, col nome di Licinio Crasso Muciano Dives, propagò il ramo primogenito de’ Crassus. Dal secondogenito venne il Crasso triumviro. Un suo discendente adottò il fratello di Calpurnio Pisone che aveva cospirato contro Nerone. Il giovane Pisone recò nella casa Licinia il nome di Frugi, cui i suoi figli aggiunsero quello di Scribonianus, in onore della loro madre. Il ramo Lucullus fu illustrato dal vincitore di Mitradate; il Murena dal trionfatore del re del Ponto. Sotto gl’imperatori, troviamo dei Crassi provenienti per donne da Pompeo, e che perciò avevano il soprannome di Magni, che Caligola proibì loro di portare. Un Crasso Frugi fu bandito da Trajano, e ucciso da Adriano nel 117 dopo Cristo.

53. Gens Livia, benchè plebea, ebbe prima d’Augusto otto consoli, due censori, tre trionfatori, un dittatore, un maestro della cavalleria. Il primo Livio menzionato [293] era dei Dexter, uno de’ quali fu console nel 452: un altro nel 535 e 547, fu cognominato Salinator per aver imposto la tassa del sale. Più illustre è il ramo Drusus, nome derivato da Livio Emiliano che vinse Drauso capo gallo. Da lui vennero i famosi tribuni della plebe Marco Livio Druso padre e figlio. Livia, sorella di questo, fu madre di Catone d’Utica e di Servilia, che generò Marco Bruto. Il fratello di lei adottò un Livio Druso Claudiano, e s’uccise dopo caduta la repubblica a Filippi: sua figlia Livia Drusilla generò Tiberio.

54. Gens Lollia. Cicerone nomina molti Lollj, ma nessuno pervenne al consolato fin a Lollio Paolino nel 733, che fu ajo di Cajo Cesare nipote d’Augusto. Fu sconfitto dai Germani, e arricchì sua famiglia colle spoglie dell’Asia. Lollia Paolina sua figlia sposò Caligola, poi volle sposare Claudio, ed Agrippina la fece perire nel 49.

55. Gens Lucinia. I rami Balbus, Bassus, Longus, Capito ecc. ebbero tribuni della plebe.

56. Gens Lutatia. Il ramo Catulus, venuto al consolato nel 512, diede letterati e statisti insigni.

57. Gens Mænia.

58. Gens Mallia.

59. Gens Mamilia, oriunda di Tusculo, dal cui fondatore Telegono pretendea provenire, cioè da Ulisse. A Roma era plebea. Son noti i rami Vitulus, Turinus, Limetanus.

60. Gens Manilia.

61. Gens Marcia, coi rami Philippus, Figulus, Rex, Censorinus. Marcio Filippo, console nel 698, sposò Azia nipote di Giulio Cesare e vedova di Cajo Ottavio, divenendo così suocera d’Augusto.

62. Gens Maria, illustrata da Cajo Mario.

63. Gens Memmia. Virgilio la deriva da Mnesteo compagno d’Enea: un suo ramo era Regulus.

[294]

64. Gens Messinia.

65. Gens Mucia, soprannominata Scevola dall’assassino di Porsena. Da padre in figlio trasmetteansi lo studio della giurisprudenza.

66. Gens Mummia. Il più illustre ne è l’Acaico, distruttore di Corinto.

67. Gens Munatia.

68. Gens Nævia. I Balbi e Sardini ne sono i rami.

69. Gens Nonia.

70. Gens Norbana.

71. Gens Numitoria.

72. Gens Octavia, già patrizia. Un ramo divenne plebeo, non si sa come, finchè Cesare le rese il patriziato. Gli Ottavj plebei furono più illustri. Cajo Ottavio, d’antica famiglia di Velletri, fu il primo che ottenesse dignità; e da Azia nipote di Cesare generò Ottaviano, che si chiamò poi Augusto, e che non lasciò figliuoli.

73. Gens Ogulnia.

74. Gens Oppia.

75. Gens Papiria. Il ramo plebeo chiamavasi Carbo.

76. Gens Pedania o Pediania.

77. Gens Pætilia.

78. Gens Plætoria.

79. Gens Plancia.

80. Gens Plautia o Plotia. Ne conosciamo i rami Proculus, Silvanus, Hypsæus, Venno, Tucca, tra cui l’amico di Virgilio. Un Plauzio è ucciso orribilmente da Nerone, uno fu pontefice, un altro console nell’834.

81. Gens Pompeia. Una linea dei Rufus fu detta Bithynica per una vittoria sui Bitini: l’altra degli Straboni, celebre pel Magno Pompeo, pare essersi estinta co’ due suoi figli Gneo e Sesto nelle guerre civili; però qualche Pompeo appare sotto gl’imperatori.

82. Gens Pomponia pretendea discendere da Numa: [295] vi troviamo i soprannomi di Matho, Græcinus, Secundus ecc. e n’uscì l’amico di Cicerone. Lucio Pomponio consolare, guerriero, poeta, è mentovato da Tacito.

83. Gens Pontia.

84. Gens Popilia.

85. Gens Poplicia.

86. Gens Porcia. Un Porcio Prisco tusculano fu capo d’un ramo, ed ebbe titolo di Cato per la sua prudenza, e di Censorinus per la sua severità nell’esercitare la censura. I due suoi figli, portanti egual nome, si distinsero col soprannome di Licinianus e Salonianus desunto dalla madre. Da quest’ultimo venne Catone Uticese.

87. Gens Publilia. Quinto Filone di questa casa fu console quattro volte, 415-439, si segnalò nella guerra sannitica, e fu il primo pretore plebeo. Dopo di lui questa stirpe scompare.

88. Gens Roscia.

89. Gens Rubria.

90. Gens Rupilia o Rubellia. Rubellio Plauto, accusato d’aspirare all’impero, è ucciso da Nerone.

91. Gens Rutilia. Due rami Rufus e Lupus. Il più celebre fu Publio Rutilio Rufo, oratore, filosofo, storico, e console nel 649.

92. Gens Salia. Ne uscì Lucio Salvio, buon capitano, da cui nacque l’imperatore Otone, che non lasciò posterità.

93. Gens Scribonia. Curio e Libo erano i rami principali, e quest’ultimo discendeva da una figlia di Pompeo. Scribonia, maritata in un Crasso, fu uccisa col marito sotto Claudio.

94. Gens Sempronia. Oltre il ramo Atratinus patrizio, erano plebei i Blæsus, Longus, Tudytanus, e i [296] Gracchi famosi. Un Gracco amante di Giulia fu esigliato da Augusto, ucciso da Tiberio.

95. Gens Servilia. Il Priscus certamente, e i Cœpio probabilmente erano patrizj; plebei i Casca, Rullus, Vatia, ecc. Un di questi ultimi ebbe il soprannome di Isauricus.

96. Gens Sextia.

97. Gens Silia. Cajo Silio fu vincitore di Sacrovir, e Sejano l’obbligò ad uccidersi. Silio suo figliuolo sposa Messalina, e Claudio imperatore lo condanna a morte nel 49 dopo Cristo. Silia, moglie d’un senatore, è esigliata come sospetta d’aver divulgato le secrete lascivie di Nerone.

98. Gens Solia.

99. Gens Statilia.

100. Gens Sulpicia. Fra’ plebei conosciamo i rami Olympius, Quirinus, Rufus.

101. Gens Terentia. S’illustrò il ramo Varro, donde il famoso erudito Marco Terenzio.

102. Gens Titinia.

103. Gens Titia.

104. Gens Trebonia, Tribonia.

105. Gens Tullia. Il ramo dei Cicero fu illustre. Non n’è più traccia dopo Marco, figlio dell’oratore, gran beone, e che essendo console nel 724 con Augusto, fece dal senato condannare la memoria d’Antonio.

106. Gens Valeria ebbe molti oratori. Messala Barbato, console nel 742, sposò Marcella nipote d’Augusto, e fu avo di Messalina. Valerio Messalino salì al consolato nell’826.

107. Gens Valgia.

108. Gens Vargunteja.

109. Gens Ventidia.

110. Gens Vibia.

[297]

111. Gens Villia.

112. Gens Vinicia.

113. Gens Vipsania fu illustrata da Marco Vipsanio Agrippa, amico d’Augusto. Vipsania, sua figlia, moglie repudiata di Tiberio, morì naturalmente: ma gli altri cinque figli, avuti da Giulia d’Augusto, perirono per opera di Livia.

114. Gens Vitellia, proveniente da un liberto calzolajo. Lucio Vitellio censore e tre volte console, fu adorator di Caligola, e adulatore di Messalina, della quale portava come reliquie una pantofola. L’imperatore e il fratello furono uccisi: sua figlia andò sposa a Vespasiano.

115. Gens Voconia. Suoi rami Saxa, Naso, Vituli.

116. Gens Volcatia.

117. Gens Volumnia. Flamma Violens fu console nel 447 e 458.

118. Gens Volusia antica, ma sotto la repubblica non era giunta che alla pretura, e sfuggì alla gelosia degli imperatori. Lucio Volusio, morto l’anno 20 dopo Cristo, fu il primo che fosse console; e acquistate grandi ricchezze, assicurò il credito di sua famiglia. Un altro Lucio Volusio morì nel 57 nonagenario, avendo traversato il regno di tanti Cesari senza nimicarsene alcuno, benchè ricco.

Sarebbe pure ad annoverare la gente Annia spagnuola, da cui i due Seneca, Marco filosofo, Lucio maestro di Nerone, Anneo Mella suo fratello e padre di Lucano. Marco Annio Novato, per adozione chiamato Giunio Gallione, ebbe a fare con san Paolo.

Nei tempi successivi è viepiù difficile seguir le traccie delle famiglie, prima per la scarsezza di documenti, poi per la confusione dei nomi, applicandosi questi pochi a troppe famiglie diverse; poi per le adozioni, [298] che i membri dell’una trasferivano in un’altra. Aggiungasi la facilità con cui sotto gl’imperatori cangiavansi i cognomi: la quale è pure indizio del deperimento delle schiatte primitive, desiderato e sollecitato dagli imperatori, accelerato dalla scostumatezza, che disperdeva i patrimonj, conculcava la dignità, e impediva o sciupava la generazione.

Su questo proposito possono consultarsi

C. Sigonio, De nominibus Romanorum.

O. Panvinius, De antiquis Romanorum nominibus.

R. Streinnius, De gentibus et familiis Romanorum.

A. Augustinus, De familiis Romanorum.

F. Ursinius, Familiæ romanæ nobiliores. Sono nei vol. II e VII del Thesaurus antiquitatum romanarum di Grevio.

G. A. Ruperti, Tabulæ genealogicæ, seu stemmata nobilium gentium Romanorum. Gottinga 1794.

Ortolan, Explication historique des Instituts de l’empereur Justinien, Parigi 1854, al lib. III, tit. 2.

Drumann (Storia di Roma nel passaggio dalla repubblica alla monarchia, per ordine di genti, 1830-38) porge le particolarità delle famiglie romane notevoli al tempo di Cesare e d’Augusto.

[299]

APPENDICE VI. MONETE, MISURE E VALORI FRA I ROMANI

Affatto incerta è la valutazione delle monete antiche, e i ragguagli dati dagli eruditi differiscono può dirsi in ciascuno, anche di buon tratto. Dopo degli altri, e perciò profittando di tutti, ne ragionò Boeckh, Metrologische Untersuchungen über Gewichte, Münzfüsse und Mässe des Alterthums in ihren Zusammenhange. Berlino 1838.

L’asse, prima unità monetaria romana, era una libbra da dodici oncie di bronzo non coniato, æs rude. Un’impronta vi si pose sotto Numa o Servio Tullio, che fu una pecora, donde il nome di pecunia.

La prima moneta d’argento fu battuta nel 485 di Roma, ed era il denaro (dena æris), equivalente a dieci assi di bronzo: sua metà fu il quinario; suo quarto il sesterzio, sesquitertius, cioè due assi e mezzo. Per comodo di cambio ebbero la libella = 1 asse, o ad una libbra di rame; la sembella = 1⁄2 libbra; il teruncio = 1⁄4 libbra. In una libbra v’avea quaranta denari d’argento e voleansi dieci assi per fare un denaro, sicchè la proporzione del rame all’argento era :: 400:1.

Al fine della prima guerra punica, l’asse fu ridotto da dodici oncie a due; e quindi il denaro a 1⁄84 [300] della libbra, ossia grani 73 333; essendo il grano di marco = 0 0531 gramme di peso metrico. La proporzione dunque fra l’argento e il rame monetato era :: 84 × 10 : 6, ossia :: 140:1. Nell’anno di Roma 536, l’asse fu ridotto al peso d’un’oncia, e il denaro, senza alterarne il valore, fu alzato a sedici assi, il quinario a otto, il sesterzio a quattro; onde la proporzione dell’argento al rame coniato stette :: 112:1. La legge Papiria del 562 abbassò l’asse a mezz’oncia di rame; il denaro restò uguale, e valse ancora sedici assi; quindi la proporzione fra il rame coniato e l’argento fu :: 1:56. Ma non era un valor mercantile, bensì arbitrario; l’asse non restava più che moneta di conto; e unità monetaria divenne il sesterzio.

Questo sestertius non va confuso col sestertium, moneta di conto che valea mille sesterzj. Spesso negli autori si trova sestertium, genitivo contratto di sestertiorum. È marcato IIS o HS, cioè assi due e mezzo: e cogli avverbj semel, bis, ter, decies esprime 100,000 sesterzj, presi una, due, tre, dieci volte. Così ter HS varrà 300,000 sesterzj.

I Romani nel 547 batterono la prima moneta d’oro alla ragione di uno scrupolo per venti sesterzj; e abbiamo di tali monete coll’impronta del XX, XXXX, IX. La libbra romana è ducentottantotto scrupoli; perciò conosciuto il peso dello scrupolo, s’avrà la libbra. Le esperienze più squisite diedero grani 6154.

Mentre da principio in Roma l’aureus si riferiva allo scrupolo, dappoi si riferì anch’esso alla libbra, come il denaro. Tale cambiamento non sappiano bene quando si facesse, ma pare dopo Cesare; quantunque Eckhel (Doctrina nummorum) neghi che durante la repubblica siansi coniate monete d’oro, per la ragione che troppo bello n’è il conio, e somiglia a quello de’ Siciliani e [301] de’ Campani. Ma Roma non poteva adoperare a ciò qualche Greco?

Dopo il 705, la moneta d’oro fu la quarantesima parte della libbra, e venticinque denari di valore. La proporzione dunque fra i due metalli era

:: 40×25 84 : 1,

ossia press’a poco come 12 a 1.

Ai tempi d’Erodoto, l’oro valea tredici volte l’argento; a quelli di Platone, dodici; alla morte di Alessandro, dieci; e così al tempo del trattato fra gli Etolj ed i Romani.

In Italia non troviamo antiche miniere d’oro e d’argento, talchè sino al 247 avanti Cristo non corse nella settentrionale che moneta di rame, e sembra che le colonie della meridionale tirassero dalla Grecia l’argento per le monete loro. Roma esigeva i tributi in argento, lo che mantenne l’oro ad una proporzione superiore alla greca. Sotto gl’imperatori succeduti ad Adriano, la moneta andò in disordine: la proporzione dell’oro coll’argento sotto Domiziano era di 11 1⁄2. Verso il regno di Postumo l’argento scompare, poi ricompare con Diocleziano. Usandosi allora moneta scadente, l’oro dovette crescere enormemente di prezzo e uscire d’Italia; onde sotto Costantino la proporzione era di 1 a 15; sotto Teodosio il Giovane, di 1 a 18; ma al tempo di Giustiniano il troviamo ancora di 1 a 15.

Sebbene le monete deteriorassero di peso, il titolo restò quasi eguale, fra 0.998 e 0.991 di fino per l’oro, e per l’argento da 0.993 a 0.965. Regolator del valore era l’oro, come oggi in Inghilterra; perciò conservasi inalterato di peso e di titolo, e una Novella di Valentiniano III porta: — L’integrità e inviolabilità del segno favoriscono il commercio, e mantengono la stabilità del prezzo delle cose venali».

Così valutando, senza tener conto delle spese di monetazione, [302] Letronne riscontra il denaro d’argento dalla repubblica sino a Domiziano rappresentare un valore da centesimi 83 fino a 70, ossia precisamente:

MONETE EPOCHE
   
Sestertii Denarii Dal 536 al 720 Augusto Tiberio-Claudio Nerone Galba-Domiziano
 
4 1 11.       82 79 78 73 70
8 2 1.64 1.59 1.56 1.47 1.41
12 3 2.46 2.38 2.34 2.20 2.12
16 4 3.27 3.18 3.12 2.94 2.83
(scrupulum)
20 5 4.09 3.97 3.89 3.67 3.55
24 6 4.91 4.77 4.67 4.41 4.24
28 7 5.73 5.56 5.45 5.14 4.95
32 8 6.55 6.36 6.23 5.88 5.66
36 9 7.36 7.15 7.01 6.62 6.36
40 10 8.19 7.95 7.79 7.35 7.08
(aureus o solidus)
100 25 20.47 19.87 19.48 18.38 17.79
400 100 81.88 79.52 77.93 73.52 70.77
800 200 163.77 159.04 155.87 147.04 141.44
1.200 300 245.65 238.55 233.80 220.57 212.32
1.600 400 327.53 318.07 311.75 294.09 283.09
2.000 500 409.42 397.60 389.67 367.62 355.86
2,400 600 491.30 477.11 467.60 441.14 464.64
2,800 700 573,19 556.63 545.54 514.67 495.41
3.200 800 655.07 636.15 623.47 588.19 566.18
3.600 900 736.95 715.67 701.41 661.71 636.95
4.000 1,000 818.33 795.19 779.34 735.34 707.73
40,000 10,000 8,183.33 7,951.91 7,793.42 7,352.39 7,077.29
400,000 100,000 81,833.33 79,519.10 77,934.24 73,523.92 70,772.90
4,000,000 1,000,000 818,333.33 795,191 779,342.45 735,239.20 707,729.06
40,000,000 10,000,000 8,183,333.33 7,951,910 7,793,424.50 7,352,392 7,077,290.60

Ma le tabelle date da Dureau de la Malle, il quale trattò espresso dell’Economia de’ Romani, fanno il denaro al principio della repubblica = lira 1.63; sotto Cesare = lire 1.12; sotto Augusto = lira 1.08; sotto Tiberio = lira 1; sotto Claudio = lira 1.05; sotto Nerone = lira 1.02; sotto gli Antonini = lira 1.

Sotto Costantino Magno, il solido, di cui tagliavansi settantadue alla libbra d’oro, può valutarsi a lire 15.53, il resto in proporzione: sotto i suoi successori, cioè nel Basso Impero, a lire 15.10.

La libbra d’oro, così spesso menzionata, può valutarsi a lire 900; a 75 quella d’argento. Sul declinare dell’impero, la libbra d’oro valse lire 1066.

[303]

Nel trattato d’Antioco coi Romani, riferito da Polibio e Tito Livio, si stipula che il tributo si paghi in talenti attici di buon peso, e che il talento pesi ottanta libbre romane. Sapendo d’altro luogo che il talento era seimila dramme, otterremo il peso della dramma = grani 82 1⁄7. Il talento attico si può approssimare a lire seimila.

Ecco le tabelle dei pesi e delle misure romane, secondo Letronne:

PESI
      chilogr. grammi
 
Scripulum o scriptum       1.136
Sextala       4.544
Sicilicus       6.816
Duella       9. 88
Semuncia       13.633
Vncia       27.265
Sescuncia unc.   40.898
Sextans 2 »   54.531
Quadrans 3 »   81.797
Triens 4 »   109. 62
Quincunx 5 »   136.328
Semis 6 »   163.593
Septunx 7 »   190.859
Bis 8 »   218.125
Dodrans 9 »   245.390
Dextans 10 »   272.656
Deunx 11 »   299.922
As, o libra romana       327.187
Dupondium 2 asses 654.347
Tressis 3 » 981.316
Quadrussis 4 » 1. 308   
Quincussis 5 » 1. 636   
Sexcussis 6 » 1. 963   
Septussis 7 » 2. 290   
Octussis 8 » 2. 617   
Nonussis 9 » 2. 945   
Decussis 10 » 3. 272   
Vigessis 20 » 6. 544   
Trigessis 30 » 9. 815   
  40 » 13. 87   
  50 » 16. 359   
  60 » 19. 631   
  70 » 22. 903   
  80 » 26. 175   
  90 » 29. 447   
Centussis 100 » 32. 718   

[304]

MISURE LINEARI
 
Uncia Palmus Pes (unità di misura) Cubitus Passus Decempeda Actus Militarium Km metri
1                  
3 1                
12 4 1             0 295
18 6 1           0 442
60 20 5 1         1 475
120 40 10 6⅔ 2 1       2 950
1,441 480 120 80 24 12 1     354   
60,000 20,000 5,000 3,333⅓ 1,000 500 41⅔ 1 1 475   
              2 2 950   
              3 4 425   
              4 5 900   
              5 7 375   
              6 8 850   
              7 10 325   
              8 11 790   
              9 13 275   
              10 14 750   

MISURE DI SUPERFICIE
 
Pedes q. Scripulum Clima Actus Jugerum Heredium Centuria Saltus ettare are metri q.
 
100 1                 8
3,600 36 1             3 8
14,400 114 4 1           12 34
28,800 188 8 2 1         24 68
57,600 576 16 4 2 1       49 36
L’unità dei quadrati era lo jugero, nella cui divisione ricorre la partizione dell’asse in oncie e loro frazioni. Lo jugero era un bislungo di 240 piedi sopra 120, cioè 28,800 piedi quadrati. 4 2       98 72
6 3     1 48 8
8 4     1 97 44
10 5     2 46 80
12 6     2 96 16
14 7     3 45 52
16 8     3 94 88
18 9     4 44 24
20 10     4 93 60
200 100 1   49 36  
800 400 4 1 197 44  

[305]

MISURE DI CAPACITÀ
 
LEGENDA - A: Ligula - B: Cyathus - C: Acetabulum - D: Quarantarius - E: Hemina - F: Sextarius - G: Congius - H: Modius - I: Urna - L: Amphora - M: Culeus
 
A B C D E F G H I L M hl dal l dl cl
 
1                           1 14
4 1                         4 58
6 1                       6 87
12 3 2 1                   1 3 75
24 6 4 2 1                 2 7 5
48 12 8 4 2 1               5 5  
288 72 48 24 12 6 1           3 3    
384 96 64 32 16 8 1⅓ ½         4 4    
768 192 128 64 32 16 2⅓ 1         3 8    
1,152 288 192 96 48 24 4 1       13 2    
2,304 578 384 192 96 48 8 3 2 1     26 3 9 9
46,080 11,520 7,680 3,840 1,920 960 610 60 40 10   2 64      
L’unità di misura di capacità era l’anfora, che dapprima chiamavasi quadrantal, come quella che conteneva un piede cubo. Il suo peso, secondo Festo, era uguale a 80 libbre di vino, il che monta a litri 26,3995, posto il peso specifico del vino = 0,9915. 20 1 5 28      
30   7 92      
40 2 10 56      
50   13 20      
60 3 15 84      
70   18 8      
80 4 21 12      
90   26 76      
100 5 26 39 9 5  

Senza ingolfarci in particolarità, difficilissime come sono tutte quelle che concernono i valori, indicheremo che nel 454 un montone compravasi per dieci assi, un bue per cento. A Roma si faceano distribuzioni di grani a bassi prezzi: questi sono conosciuti, ma non danno il reale ragguaglio fra il grano e il denaro. Il medio pare fosse di tre sesterzj al moggio. Il moggio di frumento pesava da sedici libbre francesi: stava dunque allo stajo :: 1 : 15 (ettolitri 0,101). Perciò lo stajo sarebbe costato a Roma sesterzj 45 o denari 11 1⁄4, cioè 825 grani d’argento. Adunque al tempo della repubblica il rapporto fra l’argento e il grano era come 2.681 a 1.

[306]

Si può credere che l’Italia, all’epoca delle maggiori sue conquiste, possedesse più ricchezze che ora verun altro paese d’Europa. Ma ben presto cessarono d’entrare nuovi tributi, mentre cresceva l’asportazione dei metalli verso l’Arabia, l’India e la Persia, onde ottenerne le delicature; poi gl’imperatori pagarono tributo ai Barbari, poi i Barbari stessi vennero a far preda; scemò in conseguenza il prezzo del grano. Una legge di Valentiniano III del 446 stabilisce che il soldo italico è il valore di quaranta moggia di grano; il che dà fra l’oro coniato e il grano la proporzione di 73.911 a 1; ed essendo allora l’oro coniato all’argento in verghe come 18 a 1, ne viene che l’argento stava al grano come 4.106 a 1; ossia lo stajo di grano sarebbe valso appena 538 grani d’argento, non più 825 come al principio dell’êra vulgare.

[307]

APPENDICE VII. FAVOLE INTORNO A VIRGILIO

La tradizione, che trasfigurò san Giorgio in un cavaliere, il filosofo Abelardo nel libertino Pietro Bagliardo, Carlo Magno in un capo di venturieri, Silvestro II papa in un mago, e pose in cielo Seneca, Plinio, Trajano, fece una trasformazione ancor più degna d’essere studiata; quella di Virgilio in un necromante.

Al suo tempo, diversissima fama correva de’ costumi di lui, chiamato verginale da chi per castità, da chi per troppo amore alle ragazze, e non alle ragazze soltanto. Ma già allora veniva onorato sovranamente; Properzio prenunziava in lui qualcosa maggiore d’Omero: Nescio quid majus nascitur Iliade; commentatori e biografi di poco posteriori dicono che il popolo si alzava al comparir suo in teatro, come all’imperatore; la vita sobria e ritirata, cui la gracile salute lo induceva, aggiungevagli il prestigio dell’ascetismo e del mistero. Narrossi ben presto che sua madre aveva sognato partorire un lauro: ch’e’ nacque senza vagiti; che il platano piantatosi, secondo il costume del suo paese, al nascer di lui, trascese tutti gli altri in grossezza. Gli s’attribuiva una scienza portentosa, e la facoltà di scoprire i difetti nascosti e le qualità arcane degli animali. Appena morto gli furono poste statue, e alcuni imperatori, come Alessandro Severo, ne teneano fin nel sacrario domestico: [308] al tempo di Plinio celebravasi il natalizio di lui: al suo sepolcro venivano a raccomandarsi le gravide e i poeti: coll’aprire a caso il suo poema si chiedeva risposta a quesiti, detti sortes virgilianæ, tali perfino da decider uno ad accettare o no l’impero (pag. 242, vol. III). Proba Falconia con emistichj di lui tessè un poema sul nuovo Testamento; e i Cristiani vollero leggere una predizione della venuta del Messia nella famosa Egloga IV.

E davvero fa stupore rincontrare nella limpida facilità de’ Bucolici quell’egloga, tanto misteriosa, che gli sforzi per raccoglierne il concetto generale uscirono vani fin ora. Festeggia essa la nascita vicina d’un bambino, che è figlio del cielo, che rinnovellerà il mondo, che redimerà i peccati:

Ultima Cumæi venit jam carminis ætas:

Magnus ab integro sæclorum nascitur ordo.

Jam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna;

Jam nova progenies cœlo demittitur alto.

... Incipient magni procedere menses.

Te duce, si qua manent sceleris vestigia nostri,

Inrita perpetua solvent formidine terras.

Ille deûm vitam accipiet...

Cara deûm soboles, magnum Jovis incrementum.

Presagi tanto superbi a chi potevano mai convenire?

S’accordano i critici nel fare quest’egloga scritta il 714 di Roma, e vorrebbero attribuire questi vanti a un figlio di quel Pollione, cui è diretto il canto, come ad autore della pace in quell’anno conciliala a Brindisi fra Antonio ed Ottaviano: ma, prima, è ignoto che quell’anno alcun figlio nascesse al console; poi, come mai accumulare sul capo d’un neonato tanti augurj, quel Virgilio che tanta sobrietà di lodi usò fin con Augusto e colla famiglia di questo?

[309]

Pertanto altri (contro l’asserzione di Servio) supposero alludesse a Marcello, gravida del quale, Ottavia, sorella d’Augusto, andava allora sposa ad Antonio: ma per quanto questo pegno di pace potesse parere meritevole di canti, bisogna considerare ch’e’ non era germe del triumviro, bensì dell’antecedente marito d’Ottavia, sicchè nulla aveva a fare collo sperato pacificatore del mondo. Altri pensarono che Virgilio alludesse alle nozze allora conchiuse fra Ottaviano e Scribonia: ma come potersi pronosticare l’impero del mondo al figlio di quell’Ottaviano che allor allora avea spartito le provincie coi due colleghi, e lasciava sperare rintegrata la repubblica, anzichè stabilire una monarchia?

Non trovandosi fanciullo cui s’appropriassero tali augurj, si credette che il poeta indicasse l’intera generazione migliore, che la benevola sua immaginazione gli dava fiducia di vedere. Chi così la pensa voglia spiegarci di grazia queste frasi:

Tu modo nascenti puero...

Casta fave Lucina...

Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem;

e la culla sotto cui sorgono l’ellera e l’acanto; e l’aggirarsi del giovane fra gli eroi e gli Dei, prima di frenare i venti e pacificare il mondo.

De Vignoles immaginò che il poeta celebrasse l’êra alessandrina, ordinata nel 724 di Roma dal senato romano: e se rifletteremo ch’essa non fu introdotta se non il 29 agosto 729, ci potrà benissimo rispondere che a quest’anno va riferita l’egloga. Ma che ragion v’era di tanto magnificare un’êra arbitraria e speciale d’un popolo vinto? che novità aspettarne? che progenie dovea scendere dal cielo?

Cadendo tutte le altre supposizioni, alcuni eruditi [310] ritornarono all’antica, che vedeva in quel fanciullo il Cristo. Non già che Virgilio fosse profeta; ma la tradizione d’un vicino redentore era molto diffusa in quei tempi per l’Oriente; potea Virgilio averla udita, e trovatala bel soggetto di canto, ove dipingere estesa a tutto il mondo quella felicità, ch’egli inclinava a vedere ne’ suoi pastori. Virgilio tutte o quasi tutte le altre egloghe dedusse da poeti alessandrini a noi conosciuti: chi ardirebbe negare che questa pure avesse tratta da alcuno a noi ignoto, il quale dagli Ebrei, allora numerosi in Alessandria, avesse avuto conoscenza dell’aspettato Messia, e de’ colori con cui Isaia e gli altri profeti dipingeano la nuova età? E veramente chi ben guardi, trova in quest’egloga de’ pensieri e de’ colori che tengono forte dell’orientale, anzi del profetico; e il poeta stesso dice d’esporre i vaticinj della Sibilla Cumana.

E noi accettiamo volentieri Virgilio come il più insigne interprete degli insegnamenti delle Sibille, quali che coteste si siano (vedi l’Appendice IV). Il libro vi dell’Eneide palesa credenze elevate, quali in niuna parte riscontransi del paganesimo; una filosofia che sente di cristiano; quasi che il Verbo divino siasi già accostato alla terra tanto da balenare a qualche intelletto privilegiato. Ebbene, tutti que’ dogmi pone Virgilio in bocca alla Sibilla.

In essa egloga poi egli dipinge con colori pastorali e mitologici un’età dell’oro, ma sul fine cangia di tono; sicchè Schmidt, nella Redenzione del genere umano, vi pose rimpetto le due profezie di David e d’Isaia sulla venuta del Salvatore, come prova che avessero un’origine comune. Isaia esclama: «Un fanciullo ci è nato, che porterà sulle spalle il segno della dominazione. Sarà detto l’Ammirabile, Dio forte, Principe della pace; il suo impero si estenderà ognora più, e la pace sua non [311] avrà fine. Sederà sul trono di Davide. La giustizia sarà cingolo sulle reni, e la fede sua bandoliera. Il lupo dimorerà coll’agnello, il leopardo coricherassi col capriolo, il leone e la pecora stabbieranno insieme, e un fanciullo li guiderà... Il deserto s’allegrerà; la solitudine, nella gioja, fiorirà come il giglio, germoglierà d’ogni parte in un’effusione di letizia e di lode; nelle caverne, dove stanno i dragoni, crescerà la verzura delle canne e de’ giunchi, ecc.».

E David: — Tu vinci in bellezza i figli degli uomini, e grazia ammirabile è diffusa sulle tue labbra; lo perchè Iddio ti ha benedetto in eterno. Tu onnipotente, cingi la spada sopra il tuo fianco, t’armi e trionfi, e stabilisci il tuo regno mediante la dolcezza, la verità, la giustizia... Giudichi i popoli secondo la giustizia, e i poveri con equità. Le montagne ricevano la pace pel popolo, e le colline la giustizia. Egli salverà i figli dei poveri, e umilierà il calunniatore. Discenderà come pioggia sul vello, e come acqua dal colmo de’ tetti. La giustizia apparirà al suo tempo con un’abbondanza di pace, che durerà quanto la terra, e regnerà dall’uno all’altro mare».

È evidente che il fondo è il medesimo come in Virgilio, sol differendo nelle diverse idee di grandezza fra i due popoli, e nella maggiore incertezza che avvolge i Gentili. Fra i quali è notevole come si fossero allora diffuse le profezie a segno da sgomentare i potenti: Augusto bruciò duemila libri di vaticinj, gli altri riveduti ed appurati chiuse sotto al piedistallo dell’Apollo Palatino: vivo Augusto, erasi annunziato a Roma che la natura partoriva un re al popolo romano (Regem populo romano naturam partorire. Svetonio in Aug., 94): la credenza antica e costante in tutto l’Oriente d’un liberatore del genere umano erasi rinfrescata, e che la [312] Giudea diverrebbe signora del mondo (Percrebuerat toto Oriente vetus et constans opinio... esse in fatis, ut eo tempore Judæa profecti rerum potirentur. Svetonio, in Vesp., 4. — Eo ipso tempore fore ut valesceret Oriens, profectique Judæa rerum potirentur. Tacito, Hist., V, 13): indovini predissero a Nerone che stavano per perire il regno di Gerusalemme e l’impero d’Oriente (Svetonio, in Ner., 40): poco dopo, l’oracolo del Carmelo con promesse di gloria eccitava gli Ebrei all’ultima ribellione: e Gioseffo ebreo al generale Vespasiano per adulazione applicava gli oracoli relativi al liberatore dell’uman genere. Plutarco poi riferisce che, verso l’età di Tiberio, veleggiando una nave presso l’isola di Paxò, mentre tutti erano svegli e a tavola, i naviganti da una delle isole udirono una voce che chiamò il piloto Tamo, in modo sì chiaro che tutti stupirono; alla prima e seconda volta e’ non rispose, alla terza sì, e allora la voce soggiunse: — Arrivato all’altura di Palode, annunzia che il gran Pan è morto». E così fece, e allora parve udire esclamazioni di meraviglia, e chiassosi lamenti di molte persone: e i testimonj del fatto lo raccontarono a Roma, e Tiberio il seppe e lo tenne per certo (De oracul. defect., 44).

In somma tutto era effusione o ispirata o mentitrice di spirito fatidico, e Virgilio ne accolse e poetizzò qualche parte in sublimi versi. Vi accoppiò l’altra tradizione di un grand’anno revolventesi, nel quale alta fede riponevano gli Etruschi, e il credevano i Romani, come può vedersi nel Sogno di Scipione. E l’uomo è così fatto, che suppone ad una grande innovazione di fenomeni celesti dover accompagnarsi un mutamento o un’alterazione di queste basse venture umane.

Tale interpretazione cristiana fu accolta dai Padri della Chiesa; e Costantino, nell’arringa che recitò davanti [313] ai vescovi radunati a Cesarea, ripetè quell’egloga tradotta in greco, siccome un argomento della divina missione di Cristo, provata fin da testimonianze pagane.

È notevole che Virgilio proclama così sublimemente la gran legge del progresso; allorchè poetizza le ispirazioni profetiche, gli oracoli; ma gli mancano questi? ricade nella persuasione degli antichi, che il mondo vada continuamente in peggio, e che gli sforzi degli uomini non valgano contro quella corrente che seco trae il naviglio umano:

Sic omnia fatis

In pejus ruere ac retro sublapsa referri.

Non aliter, quam qui adverso vix flumine lembum

Remigiis subigit, si brachia forte remisit,

Atque illum in præceps prono rapit alveus amni.

Nelle Georgiche, lib. I.

Comunque sia, questo presentimento d’un avvenire diverso, d’una rinnovazione del secolo, attirarono il rispetto, anzi il culto popolare a un poeta sì poco popolare qual fu Virgilio. Nel medio evo l’ingegno, perchè raro, otteneva maggior venerazione, e credeasi capace d’ogni virtù; sicchè Ovidio, Orazio, Livio furon tenuti pergrandi sapienti; e, il che allora vulgarmente vi equivaleva, per maghi Aristotele e Ruggero Bacone. Perocchè qual scienza più utile che l’arcana, potente a signoreggiar con parole e con atti la natura e gli spiriti? E già per gli antichi carmen esprimeva i versi non meno che il fascino; lo che fu ritenuto nella lingua francese (charmer).

Virgilio studiò la natura, come il mostrano le sue Georgiche: nei Bucolici accenna spesso a superstizioni dominanti al suo tempo:

[314]

De cœlo tactas memini prædicere quercus...

Aspice; corripuit tremulis altaria flammis

Sponte sua, dum ferre moror, cinis ipse. Bonum sit!

Nescio quid certe est, et Hylax in limine latrat...

Quod nisi me quacumque novas incidere lites

Ante sinistra cava momiisset ab ilice cornix;

il VI libro dell’Eneide, chi volgarmente lo consideri, è uno spettacolo di necromanzia ed uno sfoggio di scienza arcana. Virgilio non aveva ordinato morendo di bruciare il suo poema? ora tutti gl’incantatori si davano premura di non lasciar sopravvivere i libri che attestassero i loro patti col demonio, o v’addottrinassero altri.

Virgilio aveva predetto la venuta di Cristo; laonde nelle feste spettacolose si facea figurare l’immagine di lui insieme colle Sibille. In quell’inclinazione ad acquistare al cielo gli spiriti più elevati, alcuno suppose che san Paolo intraprendesse un viaggio a bella posta per andar a convertire Virgilio, ma lo trovò già morto; avrebbe desiderato tanto acquistare i libri magici di esso, ma non riuscì. A Mantova era tenuto a vicenda per mago e per santo; e fin nel secolo XV vi si cantava un inno nella messa di san Paolo, supponendo che l’apostolo delle genti, nel giungere a Napoli, volgesse uno sguardo verso Posilipo, ove riposavano le gloriose ceneri di Marone, dolendosi di non esser giunto in tempo per conoscerlo e convertirlo:

Ad Maronis mausoleum

Ductus, fudit super eum

Piæ rorem lacrimæ:

Quem te, inquit, reddidissem,

Si te vivum invenissem,

Poetarum maxime!

[315]

Ma poichè non potevasi ammettere in paradiso chi fosse mancato di fede ne’ piè passi o ne’ passuri, si volle almeno a Virgilio attribuire la massima potenza che uom possa avere in terra, e ch’ei se ne servisse soltanto a vantaggio altrui. Pertanto egli fu supposto fondatore di città ed autore de’ benefizj che Italia tiene dalla natura. I Napoletani narravano mille storie intorno alla grotta di Posilipo, ove additano la scuola di Virgilio, e dove suppongono si ritirasse a far sortilegi ed insegnare le arti segrete a pochi adepti, che con quelle principalmente riuscivano a prosperare le campagne. Con quelle il poeta, in una notte sola, aprì nel masso la famosa grotta; costruì i bagni di Pozzuoli, e su ciascuna vasca il nome dell’infermità che guariva; fece una statua che soffiava in modo, che le ceneri del Vesuvio (per verità non ancora ignivomo) restavano respinte dalle campagne napoletane; fece un cavallo di metallo, che guariva ogni cavallo malato; e una mosca pur di metallo, mercè della quale nessuna mosca più v’ebbe in Napoli. Fu sin detto ch’egli fondasse la città di Napoli, il cui greco nome di Partenope sarebbe traduzione di Virgilio: e soggiungevano che Augusto l’avesse donata a quel poeta con tutta la Calabria. Altre volte egli fa del male, ma contro Augusto, presentato in tal caso come un tiranno o uno stupido, e che lo avea spogliato dell’aver suo; e contro il soldano di Babilonia, aggiunta fatta al tempo delle crociate, quando pure vien fatto educare a Toledo, invece di Atene come diceano i precedenti. Fin al principio del secolo XVII mostravasi a Firenze lo specchio di cui si serviva per le operazioni di necromanzia, e un altro nel tesoro di San Dionigi a Parigi: l’immagine di lui portavasi al collo come un talismano contro gl’incanti: il suo sepolcro credevasi recar felicità al paese: e qualvolta fosse toccato, ne seguiva tremuoto.

[316]

Innumerevoli poemi, racconti, romanzi, storie narrano questi prodigi di Virgilio; ma nessuno ha baje più strane che I fatti meravigliosi di Virgilio, figliuolo d’un cavaliere delle Ardenne, nella Margherita poetica di Alberto di Eyb (Norimberga 1472). Un rozzissimo Bonamente Aliprandi, vissuto al fine del XIV secolo, stese una Cronaca mantovana in terzine, ove le favole più assurde sono accumulate sopra Marone; e ci perdoni questo genio dell’ordine e dell’armonia se alcun che ne produciamo.

La madre di Virgilio fu avvertita in sogno che dovrebbe partorire un gran poeta:

La donna fece l’animo jocondo;

E quando venne lei al partorire,

Nacque il figlio maschio tutto e tondo.

Seguono le tirannidi esercitate sopra Mantova da un tal Arrio centurione; per cui Virgilio mutatosi a Roma, ottiene il favore d’Augusto e la restituzione de’ beni suoi, e si mette tutto al poetare:

Ciascuno gli facea grande onore;

Filosofo, e poeta di grandezza,

Di retorica si era lo maggiore.

L’avvenimento di Cristo profetoe,

Nella Bucolica sua di valore...

In mezzo a Roma fece un gran fuoco che ardeva continuo, a ristoro de’ poveri, e con un arciero che ver quello tendeva una freccia: un imperatore sperando che questa indicasse qualche tesoro, fece scoccare quella freccia, ed essa colpì il fuoco e lo spense per sempre. Nel palazzo imperiale inalzò tante statue quante erano le provincie dell’impero, con campanelli al collo; e qualunque volta una provincia si ammutinasse, la statua corrispondente scotevasi e sonava, talchè gl’imperatori [317] sapevano ove dirigere l’esercito. Fabbricò uno specchio alto ben cento piedi, sicchè illuminandolo rischiarava tutta la città, oltre che indicava i ladri, i nemici, le guerre. Combinò pure una gola di rame, nella quale chi fosse sospettato di colpa metteva la mano per purgarsi; e se era innocente, la ritirava senza pericolo; se mentiva, non potea ripigliarla finchè non avesse palesato la verità.

Ma l’uomo è soggetto a peccare, massime per amore, e Virgilio vi cascò; il quale da una nipote d’Augusto si lasciò gabbare in modo, che essa, consigliata da un cavaliero suo vago, il persuase a salir da lei entro un paniere che gli calò dalla finestra: ma come fu a mezz’aria, ivi lo tenne sospeso, talchè la mattina tutti si preser la baja di lui. Il poeta se ne vendicò in terribile modo, facendo che in tutta Roma non si potesse più aver fuoco o lume, se non dalle parti posteriori della sua tiranna: beffarda beffata.

La donna in quattro piè posta si giace,

. . . . . . . . . . . . . . . .

Per foco va a chi bisogno face.

L’uno all’altro dar foco non potìa,

Perchè e l’uno e l’altro s’ammorzava;

Per sè ogni casa tor ne convenìa.

Molti giorni passati già si stava

Anzi che Roma di foco fornesse;

Lo cavalier gran dolore portava.

Ma Virgilio che a lui non incresse

Per vendicarsi allegrezza facìa,

Contento era che ciascun sapesse

Che quello incanto lui fatto l’avìa,

Per voler la sua beffa vendicare,

Non curando di quel che si dicìa.

[318]

Di foco fornita senza mancare

Che fece Roma tutta a compimento,

La donna a casa fu fatta tornare.

Dolse ad Augusto dell’oltraggio; e istigato dal cavaliere, fece cacciar prigione Virgilio. Ma tener rinchiuso un necromante sarebbe stato difficile; e

Virgilio d’andarsene pensava.

Nel cortile una nave disegnoe;

Li prigionieri tutti dimandava,

D’andar seco tutti loro pregoe,

Dicendo se con lui volìa andare:

Alcun per beffa andar accettoe.

In quella nave sì li fece entrare;

A ognun per remo un baston dasìa,

Ed egli in poppa se mise a settare;

E a ciascun di loro si dicìa:

«Quando comanderò che navigati,

Ciascun di voi a navigar si dia,

E niente a farlo non ve ne indusiati.

Da le prigioni tutti ci usciremo,

Condurrovvi, e sarete liberati».

Quando gli parve, disse: — Date a remo».

Ciascun mostrava forte a navigare,

La nave si levò. Disse: — Anderemo».

Fuor del cortile si vedea andare,

In verso Puglia la nave tirava,

Per aria la detta si vedea tirare.

I prigionieri, che in prigione stava,

Che nella nave non vollero entrare,

Veduto il fatto, tutti lamentava.

Augusto si querelò co’ suoi baroni d’averlo indotto ad offendere un uomo, cui il cielo «accordoe Tutte le [319] scienze che il mondo avìa», e promise, se tornasse in corte, usargli ogni onore.

Virgilio intanto, sceso dalla nave, s’indirizzò a Napoli, ma fallata la via,

Passati li vespri, si se trovava

Appo una casa, chiedendo albergare.

Non c’è vino; che importa? Virgilio ordina che ammaniscano una corbella d’uva ancor ghezza, e la mettano in un tinozzo con acqua. Non c’è prebenda; che importa? Virgilio manda uno spirito che proprio dinanzi ad Augusto toglie

Un gran taglier di carne allesse

Con molti polli, e si se portò in mano.

Augusto comprese che Virgilio solo poteva avergli giocato quel tiro; e a spese di lui si cenò a dovizia e si bevve a josa.

In Napoli fur le feste grandi quando si seppe che Virgilio vi stava s’un’osteria, e il pregarono

Che in Napoli memoria lasciasse

Del gran saper, che di lui fa parlare.

Egli adunque scrisse a un tal Melino «suo discepolo valente», che da Roma venisse a lui tosto; e come ci fu,

Tornare a Roma sì gli comandoe:

— A Roberto di’ che ’l mio libro ti dia».

Di non legger su in quello lo pregoe.

Melino tosto si se mise in via,

Dì e notte non cessò di camminare

Tanto che lui a Roma giugnia.

Andò a Roberto a dimandare

Lo libro del maestro, che ’l mandava:

Gliel diè Roberto senza dimorare.

[320]

Avuto il libro, indietro ritornava;

Di Roma uscito voglia gli venìa

Di legger lo libro lui sì bramava.

Come a legger lo libro si mettìa,

Di spiriti moltitudine granda

Contro di lui tutti se ne venìa:

— Che vuoi tu? che vuoi tu?» tutti dimanda.

Melino allor tutto si spaventoe

E de morir ebbe la tema granda.

Melino si prese ad argumentare,

E di presente a loro comandava

Che quella via debban salegare (selciare)

Da Roma a Napoli a compimenti,

Che sempre quella netta debba stare,

Gli spiriti sì furon ubbidienti.

Quella strada si fece salegare

Di sassi vivi senza mancamenti.

Melino a Napoli vien a arrivare:

Virgilio molto forte ’l riprendìa;

Dicea: — Rott’hai lo mio comandamento;

Pena ne porterai per fede mia».

Eccovi come le cronache fanno fabbricare la via Appia.

Virgilio, risoluto di dare più bella prova di necromanzia, fece compiere un’altra fabbrica meravigliosa:

Castel dell’Ovo quello si fe fare,

E nell’acqua quello si fabbricoe,

Che ancor si vede e per opera pare.

Ancora oltra di quello si incantoe,

Una mosca in un vetro incantava,

Che tutte l’altre mosche si caccioe.

Alcuna mosca in Napoli non entrava,

Questo al popol grandemente piacìa.

Ma un’altra fece che più si montava:

[321]

Una fontana d’incanto facìa,

La quale sempre olio si gittava,

E dal gittare mai non s’astenìa;

E quell’olio si continuava

A bastamento di quella cittade:

Grand’allegrezza il popolo menava.

Altre cose e di grandi novitade

Virgilio in quella terra facìa

Maravigliose e di grande beltade.

Preso dalla fama di tanti portenti, Augusto chiamò risolutamente a Roma Virgilio. Ma quando l’imperatore ritornava d’Asia vincitore, il poeta se gli fece incontro fin a Brindisi, e «dal gran caldo sì fu combattuto» che ammalò e morì.

Ottavian, che venia con sua schiera,

Come la morte di Virgilio udia,

Di gran dolor fe lamentanza fera.

Ai suoi baroni allora sì dicia:

— Di scïenza è morto lo più valente,

Non credo che nel mondo il simil sia».

I moralisti del medioevo da tutti questi fatti traevano buoni insegnamenti; ed anche la fine di Virgilio, secondo una tradizione diversa, doveva istruire quanto sia fallace la scienza umana. Perocchè avendo promesso (dice) ad Augusto di fare che gli alberi portassero tre volte l’anno, ed insieme fiori e frutti maturi e acerbi, e che i vascelli rimontassero i fiumi, e si guadagnasse denaro colla facilità con cui si perde, e le donne partorissero coll’agevolezza con cui concepiscono, ed altre meraviglie, pensò tornar giovane per aver tempo a compierle. A un fedelissimo servo insegnò dunque che il tagliasse a pezzi, poi lo salasse in un barile, mettendo la testa sotto, e il cuore in mezzo, e altre avvertenze da [322] fare nel massimo secreto, finchè egli si ravviverebbe. L’imperatore, inquieto della lontananza di Virgilio, fece tanto e tanto, che obbligò il servo a menarlo nel castello difeso da incantesimi, ove il poeta giaceva a pezzi: il che vedendo, e credendolo assassinato, egli uccise il servo. L’opera restò interrotta, e Virgilio più non rivisse.

Traverso alla mitologia del medioevo arrivò la conoscenza di Virgilio, come degli altri antichi, a Dante, il quale non seppe scegliersi guida migliore per giungere, fra i pericoli del mondo, a vedere le pene dei reprobi e le speranze de’ purganti, e fin alla cognizione delle cose superne e della verace beatitudine. Conformavasi egli alle credenze popolari allorchè facea dirgli, per niun altro peccato aver perduto il cielo, che per non avere posseduto la fede; e fa che Stazio rimanga convertito alla verità pel lume appunto venutogli dai vaticinj dell’egloga citata, sicchè dice a Virgilio:

... Tu prima m’inviasti

Verso Parnaso a ber nelle sue grotte,

E poi appresso Dio m’alluminasti.

Facesti come quei che va di notte,

Che porta il lume dietro, e sè non giova,

Ma dopo sè fa le persone dotte,

Quando dicesti: Secol si rinnova,

Torna giustizia e primo tempo umano,

E progenie discende dal ciel nuova.

Per te poeta fui, per te cristiano.

Purg., XXII.

Una bella e rarissima incisione di Luca d’Olanda rappresenta il poeta entro una corba, spenzolante a mezz’aria; e una femmina alla finestra vicina pare che inviti i viandanti a berteggiarlo.

[323]

Ad Amsterdam nel 1552 fu stampata Ene schone historie von Virgilius, von zijn leven, doot, ende van zijn wonderlike werken di hj deede by nigromantien, ende by dat Behulpe des Dugrels.

Görres, nei Volksbücher, ragiona a lungo l’istoria popolare di Virgilio nel medioevo.

Vedansi pure Genthe, Virgil als Zauberer in der Volkssage.

Siebenhaar, De fabulis, quæ media ætate de Publio Virgilio Marone circumferebantur.

Edelstand du Méril, De Virgile l’enchanteur.

Franciscus Michel, Quæ vices, quæque mutationes et Virgilium ipsum et ejus carmina per mediam ætatem exceperint, explanare tentavit. Un capitolo di questa tesi per laurea è intitolato: De scriptoribus medii ævi, qui quædam de magica Virgilii scientia retulerunt.

[325]

APPENDICE VIII. DANTE ERETICO

Il concetto di Dante eretico fu ridesto dal signor Eugenio Aroux, che ne formò un’opera espressa, col titolo Dante hérétique, révolutionnaire et socialiste; révélations d’un catholique sur le moyen-âge. Parigi 1854. L’opera è dedicata a Pio IX comme une protestation contre l’erreur et le mensonge, que le génie même ne saurait absoudre. Mentre il silenzio stagna sulle opere italiane, le francesi sono proclamate in paese, echeggiate di fuori; e così avvenne di questa. Noi dirigemmo all’autore una lettera, che qui stimiamo opportuno riprodurre.


All’amico E. Aroux, Parigi.

Milano, 5 febbrajo 1854.

Mi permettete che, invece di storpiar la vostra bella lingua, io vi risponda nella mia e in quella del vostro Dante per ringraziarvi dell’invio del vostro libro? Ma ringraziarvi non basta, giacchè me pure metteste in causa; e, comunque cortesissimo, mi rinnovate il rimprovero già fattomi, nella vostra traduzione della mia Storia universale, d’aver io dichiarato «delirio o piuttosto capriccio» quel di due nostri Italiani che vollero dimostrar Dante eretico. Voi campeggiate per [326] loro, e togliete a sostenere che tutte le opere di Dante sono esposizione ereticale, ed aspirazioni rivoluzionarie e socialiste.

È destino dei libri che divengono nazionali e popolari il trovarvi ciascuno ciò ch’e’ vuole; e non abbiam visto cercare nel Vangelo prove contro la divinità di Cristo, come altre volte cabalisti e alchimisti scoprivano nella Bibbia i numeri onnipotenti e la polvere di projezione? Primo ch’io sappia il padre Hardouin, che volle celebrità mediante i paradossi, nel 1727 sostenne che l’autore della Divina Commedia fosse un impostore, seguace di dogmi eterodossi. Ugo Foscolo, trovata ospitalità fra gli Inglesi, a cui potea piacere un ascendente illustre nella gran negazione della unità cattolica, resuscitò quest’eresia di Dante, ma come un paradosso pruriginoso, senza corredo di prove. Il nostro amico Rossetti, sbalzato dalla patria a roder anch’egli il duro pane dell’esiglio fra gl’Inglesi, volle forse blandire a questi, nei Misteri dell’amor platonico, fecondando quel germe, e in cinque grandi volumi assunse che, non Dante solo, ma tutti i poeti erotici volevano cantar tutt’altro amore da quello ch’esprimevano: assunto pio per salvare que’ begli ingegni dalla taccia d’essersi logorati in cantar begli occhi, sen di neve e treccie d’oro. Anche Graul, ministro protestante che nel 1848 stampò a Lipsia una traduzione tedesca dell’Inferno, vuole a tutt’uomo dimostrare che Dante sviava dal dogma cattolico, e nel veltro ravvisa Lutero, al quale corrispondono perfino le lettere del nome. Voi vi valete di tutti, e venendo a mezza spada, e colla sicurezza che vi danno la conoscenza d’un poeta che avete con tanta abilità tradotto, e un’erudizione estesissima, dedotta dalle fonti più diverse, assalite Dante quasi avesse voluto dimostrare che la supremazia papale è il regno visibile di [327] Satana. Chi vorrà rivedervi il pelo, potrà appuntare errori di particolarità e sovrattutto di quegli eccessi che son forse inevitabili in chi toglie a sostenere una tesi distaccata dal senso ordinario. Che monta? Non la mancanza di difetti, ma l’abbondanza di meriti rende vitale un libro; e il vostro gli ha: ma voi stesso m’insegnate che la plus grande preuve d’estime, qu’on puisse donner à ses amis, c’est de leur dire la vérité.

Vi ricordate del Biagioli, pedantesco ammiratore di Dante, che portando costà a battezzare un suo neonato, voleva mettergli nome Dante; e chiedendogli il parroco se san Dante ci fosse, — Se vi sia un Dante santo io nol so; so che v’è il dio Dante». Voi invece me ne fate un Dante satana, e trovate ignorance, prévention, esprit de parti, mauvaise foi in chi leggermente ripudia questa tesi. Io mi confesso francamente fra questi; onde vi tengo obbligato a permettermi che, senza sentirmi a gran pezza capace di lottar con voi di argomenti, vi opponga alcuni pregiudizj legittimi.

E in prima, ella è regola del processo inglese, e dovrebb’essere d’ogni buona legislazione, il non aggravare un imputato finchè non siano esausti gli argomenti in suo favore. Or bene; noi cattolici crediamo al Testamento vecchio e al nuovo; ma poichè questi sono lettera morta e bisognano di supplemento e d’interpretazione, ci atteniamo alla tradizione della Chiesa e alla decisione dei papi. Uno dunque che c’intimasse di credere nella Bibbia e al papa se vogliamo esser salvi, e di non abbandonarci al senso individuale, lo pensereste voi perfetto ortodosso? Ebbene, gli è quello appunto che usa Dante, facendo ai Cristiani intimare da Beatrice:

Avete il vecchio e il nuovo Testamento

E il pastor della Chiesa che vi guida;

Questo vi basti a vostro salvamento...

[328]

Non fate come agnel che lascia il latte

Della sua madre, e semplice e lascivo

Seco medesmo a suo piacer combatte.

Io corsi avidamente alla spiegazione di questi versi nella bizzarra analisi, onde passo passo voi accompagnate quella che chiamate Commedia del cattolicismo, per vedere come questo passo decisivo interpretavate. Tenendo i due Testamenti, che abbiamo comuni cogli eretici, voi dite che per pastor della Chiesa vuolsi intendere il capo di quell’arcana religione, di quella framassoneria di cui Dante era adepto non solo, ma apostolo. Eppure la parola di pastore è da lui applicata sempre ai papi, sia quando li chiama in veste di pastor lupi rapaci; sia quando intima, di voi pastor s’accorse il vangelista; sia quando si lamenta che sia usurpata per colpa del pastor la giustizia di Firenze.

Quel medioevo, che da taluni vuolsi dipingere sentina di vizj e dormitorio di servilità, esaminò, discusse, negò: e voi trionfalmente l’avete mostrato. Ma corre gran divario tra scoprire le piaghe d’un malato, e ucciderlo; tra dichiarare che una casa è scassinata e ha bisogno di rinfianchi, e il darvi d’urto per abbatterla; insomma tra riformare la Chiesa e distruggerla. Vero è che anche nel primo uffizio si può errare sino all’eresia; e al tempo di Dante i Fraticelli erano monaci, buttatisi a straordinario rigor di vita, e che pretendevano dover la Chiesa deporre il lusso e le ricchezze per tornare alla indotata semplicità primitiva. Gli è quello che Dante ripete in cento modi, e lo ripetevano persone piissime, gran santi, pontefici, che più? i concilj, nessun dei quali passò senza gravi lamenti del tralignato costume e della sciolta disciplina, e senza fare decreti di riforma. Io collocherei Dante fra questi, e con Pier Damiani, con san Bernardo.

[329]

E se quei Fraticelli ammoniti reluttarono, e inorgogliti da una rigida perfezione, sconobbero l’autorità suprema, allora solo uscirono dalla Chiesa, allora cessò la discolpa della buona fede. E così fecero gli Albigesi al tempo di Dante, poi i grandi negatori del Cinquecento. Voi avete descritto maestrevolmente, cioè in breve, la guerra degli Albigesi. Erano fuor della Chiesa; e furono perseguitati con buon diritto, sebbene con modi atroci, convenienti alla ferocia del tempo e d’una guerra civile, più che non alla mitezza cristiana.

Dubbia ancora è la colpabilità ereticale de’ Templari; e non la Chiesa, ma un papa, non con bolla definitiva, ma con breve provvisionale li soppresse; nè sulla loro eresia fu proferita la parola che non falla. Ora, secondo voi, Dante apparteneva all’ordine de’ Templari, stipite della moderna framassoneria, e voleva vendicare sui papi la crociata contro gli Albigesi e la distruzione dei Templari. Ma che? degli Albigesi non una sola volta io trovo cenno nella Divina Commedia, non una; nè voi ce l’avete potuto vedere che a forza di allusioni, di premesse, d’interpretazioni; mediante le quali non vi sarebbe stranezza che non poteste trovarvi. Sembra che il fondo di lor dottrina fosse il manicheismo; eppure in Dante tutto spira la libera azione di Dio uno e trino nella creazione e conservazione del mondo, e le quistioni principali versano attorno al combinare la Provvidenza e la Grazia col libero arbitrio dell’uomo.

Quanto ai Templari, ho due pregiudizi: che il loro Ordine ricevette la regola, da chi? da Misraim? da Valdo? no: da san Bernardo. Io non credo che il retto vostro senso vi lasci scorrere fin ad asserire con Lenoix (Origine de la Framaçonnerie, p. 235) che san Bernardo stesso era un francomuratore. Dante poi, una volta nomina i Templari: ma dove? dove scagliasi contro Filippo [330] il Bello, perchè spinse le vele nel Tempio, e perchè (soggiunge) crocifisse Cristo nel suo vicario, che stava in Anagni. E quel vicario chi era? Bonifazio VIII, la persona più esecrata da Dante (le ragioni son note), il quale ben nove volte lo bestemmia nel suo poema. Lo bestemmia, ma come contrariatore dei Ghibellini, come causa del suo esiglio, come attizzatore delle discordie di Firenze. Ma il vede oltraggiato da un re e da un avvocato? più non ricorda l’uomo, sibbene il papa, il pastor della Chiesa, il vicario di Cristo.

Pigmalione che s’innamora della propria statua, è immagine che deve affacciarsi a chi legge il vostro libro: ma sarete perciò inesorabile a chi le nega l’incenso migliore, il consenso? Che un autore da capo a fondo dei libri suoi dica il contrario di quel che pensa, ogni sua frase deva spiegarsi in altro senso da quel che suona; quando dice santi intenda eretici; quando pecore, intenda capre; quando inveisce contro gli increduli e la loro presunzione e chi li segue, intenda i cattolici; che ove loda il donare deva leggersi dona re; che quando professa le verità più austere sulla Trinità, sul papa, vere claviger regni cœlorum, il quale, secundum revelata humanum genus perducit ad vitam æternam, o loda il santo sene Bernardo, o Domenico santo atleta della cristiana fede, faccialo per ironia; che la distinzione de’ linguaggi nel Vulgare eloquio esprima distinzione di partiti e di credenze; che nel Convivio, dove commenta le sue Canzoni, si proponga invece di commentare la Divina Commedia, della quale nè un cenno vi fa tampoco; e trovi modo di commentarle così che i Ghibellini v’intendano una cosa, e i Guelfi la precisa opposta; che un autore, insomma, i suoi sentimenti e la sua gloria appoggi a libri scritti perpetuamente in gergo, perdonatemi, ma sarebbe artifizio degno del vostro [331] Talleyrand, che diceva la parola esser data all’uomo per dissimulare il pensiero, anzichè del poeta il quale cantava:

Io mi son un che, quando

Amore spira, noto; ed in quel modo

Ch’ei detta dentro, vo significando.

So che quella parola Amore è la chiave della vôlta di tutto il vostro edifizio: ma non è bastante fatica il dicifrare i passi oscuri, senza proporsi d’oscurare gli evidenti? E certo il supporre in Dante ed errori e verità è men difficile, atteso le tante sue obscurités, que ne sont pas encore parvenu à éclaircir toutes les gloses des commentateurs. Ma se così è, qual idea è mai cotesta d’un settario di farsi per più anni macro onde esporre una dottrina in un linguaggio che non sarà inteso se non da pochi adepti, il che sarebbe un predicare a convertiti? Eppure Dante in un’opera espone pienamente il sistema della monarchia ghibellina a contrasto della papale: e quella è la più chiara, voi dite, anzi la sola chiara; e infatti subì condanne che le altre no.

Nessuno più di me aborre la tracotanza di chi, in una pagina, buttata giù, come voi direste, entre la pomme et le fromage, pretende sventare un’opera di lunga lena, di meditata pazienza. Il cielo mi guardi dal voler così usare colla vostra, benchè io, ammirando quella paziente ostinazione nel cercar le traccie rivelatrici, non possa accettarne le risultanze. Nè le accettarono i contemporanei di Dante, i quali pure seppero apporre all’amico suo Cavalcanti di strologare sulla mortalità dell’anima. Appena Dante morì, vestito, come chiese, dell’abito di francescano, dicesi che il cardinale Poget cercò turbare le ceneri del nostro poeta. Poget, cattivo prete e cattivo generale, che non portava in Italia le benedizioni dell’esule pastore, ma ne menava gli eserciti a devastarla, [332] doveva aborrire il Ghibellino che non risparmiò mai improperj ai papi, e che nella Monarchia proclamò canoni diametralmente opposti alle libertà guelfe e alla primazia del pensiero sopra le spade. Ma, non foss’altro, gli ultimi avvenimenti m’hanno insegnato a distinguere ciò che uno fece da ciò che volea fare: e certo il Poget non processò nè disturbò il cadavere del grand’italiano, benchè sia un luogo comune il ripetere che voleva farlo. Dante vivo «invocava mattina e sera il nome del bel fiore» cioè di Maria (Parad., XXIII). Morto appena che fu, la sua Firenze, la capitana del guelfismo, lo facea leggere e commentare: e dove? in chiesa e in domenica; e da chi? dal Boccaccio, che voi dite era en communauté de doctrines avec le poète, e che pure non ci lasciò detto nulla di più chiaro. E l’immagine di Dante fu dipinta in Santa Maria del Fiore, e il suo viaggio nel duomo d’Orvieto e nel camposanto di Pisa; un arcivescovo di Milano istituì una cattedra, ove due filosofi e due teologi il doveano spiegare; al concilio di Basilea si tenevano lezioni sopra la Divina Commedia; finchè Rafael Sanzio dovea, per commissione d’un papa, e quando la riforma religiosa già ruggiva, proprio nelle sale del Vaticano dipinger Dante fra i gran maestri in divinità che coronano l’altare del ss. Sacramento.

Che più? quel risolutissimo campione delle ragioni pontifizie, il gesuita cardinale Bellarmino, alla sua opera De summo pontifice soggiunse una dissertazione contro un francese protestante (dicono François Perot), il quale dava Dante come eretico. Esso Bellarmino sostiene non trovarvisi cosa che contraddica alla verità cattolica, anzi andar l’intero poema in confutare i protestanti, e assume a recare testimonia plurima atque apertissima Dantis, non solum pro summa romani pontificis auctoritate et dignitate, sed etiam pro aliis nonnullis [333] fidei nostræ capitibus, ut adversarius intelligat, se, Dante judice, non modo causa cecidisse, sed etiam plane hereticum et impium esse.

Che vuol dir ciò? che la Chiesa e i preti, nello stolido e feroce medioevo, cioè quando teneano in mano e i giudizj e la forza per farli eseguire, si porsero meno intolleranti, che non cerchino esserlo alcuni d’oggi, i quali, ridotti unicamente alla penna, vogliono almeno con questa sostenere il diritto della persecuzione e la opportunità dell’intolleranza. Lasciamoli dire, caro Aroux; e se verrà mai tempo che essi di nuovo si cerchino salvezza dietro alla tolleranza, serbiamoci il conforto di non averla rinnegata, nemmeno quando ce ne faceano delitto. Voi pure siete persuaso che una causa si serve meglio col mostrare che ella fu abbracciata dai pensatori e dai valentuomini, anzichè coll’indagar parole e atti di questi, i quali accusino infedeli anche coloro che del proprio ingegno fecero docile omaggio alla verità.

E se in Dante vogliam pure trovare l’eresia, abbiamola nell’ira a cui s’inspirò; nel disamore che sparse tra le città d’Italia, preparando nomi d’improperio con cui insultarsi prima d’uccidersi; nel farsi giudice fin di pene eterne per rancori, o almen per giudizj privati; dimenticando che «dove non è carità non è Cristo.

Voi però ecc.».


La quistione di Dante eretico fu ripigliata nel Calendario Evangelico che si stampa a Berlino, dove il dottore Ferdinando Piper, professore di teologia in quella Università, nel 1865 trattò di Dante und seine Theologie. Egli conviene che Dante pone come supremo bene Iddio, nè poter l’uomo raggiungere esso bene se non acquistando la beatifica visione: questa acquistarsi colle [334] virtù teologiche: alle quali ci ajutano le sacre carte, l’esperienza e la ragione, che però nelle cose soprasensibili piegasi alla rivelazione. Dante propriamente non può dirsi uscito dalla Chiesa di Roma: le sue dottrine però menano dritto alla evangelica. E non solo quanto alla riforma del capo e delle membra, e quanto al potere temporale: ma anche nel dogma. In fatti (è sempre il Piper che ragiona) egli non ammette l’infallibilità del papa, giacchè colloca fra gli eretici Anastasio II papa: non ammette che niun altro che il presbiterato possa ingerirsi nella Chiesa, poichè egli stesso se ne ingerisce raccomandando la riforma: non ammette che le decretali possano esser fonte del vero quanto le sacre carte.

Veda ogni cattolico se questi siano argomenti valevoli a segregar uno dalla nostra unità.

[335]

APPENDICE IX. STATISTICA

Dal libro XI di Giovanni Villani possiamo ricavare, comecchè imperfetto e inesatto, il conto discusso della repubblica di Firenze attorno al 1343. Il fiorino d’oro, di ventiquattro carati e del peso di settantadue grani, valeva lire tre e soldi due.

Entrate.
 
Gabella alle porte; diritto d’entrata e uscita delle vettovaglie appaltavasi l’anno fior. 90,200
Gabella pel vino a minuto, a un terzo del valore » 58,300
Estimo del contado a soldi dieci per lire » 30,100
Gabella del sale a quaranta soldi lo stajo ai cittadini, e venti ai contadini » 14,450
Queste quattro maggiori gabelle destinavansi alla guerra di Lombardia, che in due anni e mezzo costò seicentomila fiorini.  
Beni dei ribelli e condannati » 7,000
Gabella sui prestatori e usuraj » 3,000
Gabella dei contratti (registro) » 11,000
Gabella del macello in città » 15,000
Gabella del macello in campagna » 4,400
[336]
Gabella delle pigioni » 4,250
Gabella degli albergatori di campagna » 2,550
Gabella delle farine e macinatura » 4,250
Gabella delle accuse e scuse » 1,400
Gabella sul mercato di bestie in città » 2,150
Gabella sul bollo dei pesi e misure » 600
Gabella sulle pigioni del contado » 550
Gabella sui mercanti di contado » 2,000
Gabella sulle trecche e fruttajuoli » 450
Gabella sugli sporti delle finestre di Firenze » 5,550
Gabella dei sergenti » 100
Gabella sulle zattere d’Arno » 100
Gabella de’ revisori delle garanzie date al Comune » 200
Gabella delle prigioni » 1,000
Prestazioni dei nobili del contado » 2,000
Tassa delle signorie, cioè sui cittadini che andavano di fuori in uffizio » 3,500
Lucro della zecca sulle monete d’oro » 2,300
Lucro della zecca sulle monete di rame » 1,500
Beni del Comune e pedaggi » 1,600
Spazzatura e affitto delle bigoncie d’Or San Michele » 750
Ammende e condannazioni » 20,000
Difetti di soldati a cavallo e a piedi, cioè per dispensa dalla milizia o per multe incorse durante il servizio » 7,000
Licenza di portar arme; venti soldi per testa » 1,300
Parte dei diritti percetti dai consoli delle arti per richiami » 300
[337]
La gabella sui cittadini abitanti in campagna, le gabelle sulle possessioni rurali, sulle battaglie senz’armi, sui mulini e la pesca, e quella di Firenzuola, faceano giungere l’entrata a circa » 306,000
Spese ordinarie.
 
Salario del podestà e sua famiglia lire 15,250
Salario del capitano del popolo e sua famiglia » 5,880
Salario dell’esecutore degli ordini della giustizia contro i grandi » 4,900
Salario del conservatore del popolo e sopra gli sbanditi con cinquanta cavalieri e cento fanti » 26,000
Salario del giudice delle appellazioni sopra le ragioni del Comune » 1,100
Salario dell’uffiziale sopra il lusso delle donne » 1,000
Salario dell’uffiziale sopra il mercato della biada d’Or San Michele » 1,300
Salario dell’uffiziale sopra il soldo delle truppe » 1,000
Salario dell’uffiziale sopra le paghe morte ai soldati » 250
Tesoriere del Comune, notaj e messi » 1,400
Uffizio delle entrate proprie del Comune » 200
Soprastanti e custodi alle prigioni » 800
Mensa de’ priori e loro famiglia in palazzo » 3,600
Salario de’ donzelli, campanaj e servidori del Comune, guardiani delle torri del podestà, ecc. » 550
Sessanta arcieri e loro capitano a servizio de’ priori » 5,700
Notajo forestiere sopra le riformagioni » 450
[338]
Pasto de’ leoni, lumi e fuoco in palazzo » 2,400
Notajo al palazzo de’ priori » 100
Salario degli arcieri e uscieri » 1,500
Trombetta del Comune, naccherini, sveglia, cennamella » 1,000
Limosine a religiosi e spedali » 2,000
Seicento guardie di notte » 10,800
Stendardi e palj per feste e corse » 310
Spie e messi » 1,200
Ambasciatori » 15,000
Castellani e guardie di fortezze » 12,400
Per armi, balestre, freccie » 4,650

Da quarantamila fiorini d’oro per i soldati, che in tempo di pace si riducevano a settecento in mille a cavallo e altrettanti a piedi; e per le riparazioni a mura, ponti, chiese, erano le spese straordinarie, cui supplivano le borse de’ cittadini.

Una lezione diversa è data nelle Delizie degli eruditi toscani, vol. XII. p. 349.


Dönniges (Acta Henrici VII imperatoris, part. I. p. 95. Berlino 1839) stampò come del tempo di Enrico VII un bilancio della repubblica di Pisa, steso da Vani di Zeno, e riveduto da Bernardo notajo; ma non può essere di quel tempo, bensì del 1340 circa.

    Le entrate nel distretto erano
Dal regno Calaritano in Sardegna     fior. d’oro 70,000
Dal regno di Gallura in Sardegna     » 20,000
Dalle condannagioni in essi due regni     » 10,000
Dall’isola d’Elba, netto di spese     » 50,000
Dai castelli di Castiglione, della Pescaja e dalla badia del Fango, netto     » 12,000
Dal castello di Piombino, fra sale e diritti, netto     » 6,000
    Mancano l’isola del Giglio ed altri paesi del distretto.
[339]
    Le entrate della città e del contado sommavano     » 168,000
Gabelle nette fior. 48,400 78,400
Condannagioni de’ giudici » 30,000
         
 
Entrata totale 246,400
Spese nel distretto.
 
Nel regno Calaritano per stipendio di venticinque uomini a cavallo fissi, otto fiorini d’oro il mese ciascuno fior. 2,400
Centoventi soldati a piedi per guarnigione de’ castelli, con lire sei al mese » 2,804
Nel regno di Gallura, venticinque uomini a cavallo » 2,400
Nel regno di Gallura, cinquanta a piedi » 1,161
    Nella città e contado:
Per stipendio del podestà e capitano del popolo » 3,225
Per stipendio di trecensettanta pedoni per custodia de’ castelli a lire tre, soldi dieci al mese; e lire 3:2 fanno un fiorino » 17,144
     
 
in tutto » 29,144

Erano spese straordinarie le truppe tolte a stipendio secondo il bisogno. Il quadro è affatto incompleto, mancando fin le spese per armare venti galere, per le fortificazioni, le spedizioni di consoli e ambasciadori, e ponti, vie, canali, abbellimenti. L’entrata sarebbe quattro quinti di quella di Firenze.

Raccogliamo dal Ghirardacci il bilancio di Bologna nel 1381.

[340]

Entrate.
 
I mulini, a soldi quattro la corba lire 97,000
Vino » 60,000
Sale, a soldi otto la corba » 60,000
Mercatanzia » 24,000
Imbottato di pane, cera, prigioni » 50,000
Dazio alle porte, a soldi quattro il carro » 25,000
Bestie e ritaglio » 20,000
Macinatura e pane » 20,000
Folecelli » 12,000
Condanne e pubblici » 10,000
Affitti e pigioni » 10,000
Carteselle » 7,000
Sgarmiato » 8,500
Buratteria » 7,000
Ritenzioni per difetti » 4,000
Gualchieri » 2,000
Frutti e pesci » 3,000
Fieno e paglie » 2,000
Prigioni e banditi » 4,000
La massa » 2,000
Contado d’Imola » 2,000
Prestatori cristiani » 1,360
     
 
    427,860
Spese.
 
Lancie trecento, a tre cavalli per lancia lire 119,300
Fanti tremila » 157,600
Riparazioni delle mura » 20,000
Munizione a artiglieria » 30,000
Podestà » 7,000
Spesa per gli anziani » 5,670
[341]
Vestire la famiglia de’ signori » 1,500
Al vicario del papa » 1,320
Resto di censo » 1,300
Salario dei dottori » 8,000
Corrieri e spie » 6,000
Ambasciadori » 6,500
     
 
    364,190

Marin Sanuto, poco dopo il 1450, ci offre un quadro statistico comparativo delle forze ed entrate delle potenze cristiane, che qui compendiamo.

Il re di Francia può mandar fuori cavalli 15,000
Il re d’Inghilterra altrettanti » 15,000
Il re di Scozia » 5,000
Il re di Spagna » 15,000
Il re di Portogallo » 3,000
Il re di Bretagna (?) » 4,000
Il mastro di San Jacopo di Galizia » 2,000
Il duca di Borgogna » 1,500
Il re Rinieri » 3,000
    Tutti possono averne il doppio in casa; e così i seguenti:
I Barcellonesi » 6,000
Tutta l’Alemagna alta e bassa, co’ signori spirituali e temporali, colle città franche e non franche, e l’imperatore » 30,000
Il re d’Ungheria con tutti i duchi, signori, principi, baroni, prelati, cherici e laici » 40,000
Il granmaestro dei Portaspada di Prussia » 15,000
Il re di Polonia » 25,000
I Valacchi » 10,000
[342]
La Morea » 10,000
Tutta l’Albania, Croazia, Schiavonia, Servia, Russia e Bosnia » 15,000
Il re di Cipro » 1,000
Il duca di Nisia nell’Arcipelago » 1,000
Il granmaestro di Rodi » 2,000
Il signore di Metelino » 1,000
L’imperatore di Trebisonda » 15,000
Il re di Giorgiana » 5,000
Il duca di Savoja » 4,000
Il marchese di Monferrato » 1,000
Il conte Francesco Sforza duca di Milano » 5,000
Il marchese di Ferrara » 1,000
Il marchese di Mantova » 1,000
La comunità di Bologna » 1,000
La comunità di Siena » 1,000
La signoria di Firenze, con tutte le sue entrate, del 1414 avrebbe messo fuori cavalli 10,000, al presente » 2,000
Il papa s’è veduto del 1414 mettere cavalli 8,000; al presente » 3,000
Il re d’Aragona nel reame di Napoli » 6,000
I principi del reame che sono potenti, in casa sua possono fare » 2,000
La comunità di Genova del 1414 avrebbe potuto tenere cavalli 5,000; ma per le divisioni e le guerre, al presente potrebbe tenere fuori di casa cavalli » 2,000
De’ signori infedeli, il Turco » 200,000
Il Caramano » 30,000
Ussum-Cassan metterebbe cav. 200,000 in servizio di Maometto; fuori » 100,000
Il Corassan » 10,000
Zanza » 100,000
[343]
Tamerlano con tutta la sua potenza dei Tartari » 500,000
Il re di Tunisi, di Granata, e le altre città della Barberia fanno galere fuste a danno de’ Cristiani; in casa hanno cavalli 100,000; fuori di casa » 50,000
Entrata di alcuni principi cristiani.
 
Il re di Francia dell’anno 1414 avea d’entrata ordinaria due milioni di ducati; ma per le continue guerre già d’anni quaranta[219] è ridotto all’entrata ordinaria di duc. 1,000,000
Il re d’Inghilterra avea d’entrata ordinaria due milioni di ducati; le continue guerre hanno disfatto l’isola, e al presente ha d’entrata » 700,000
Il re di Spagna del 1410 aveva d’entrata ordinaria tre milioni di ducati; ma per le continue guerre è ridotto a » 800,000
Il re di Portogallo aveva d’entrata ducati ducentomila; per le guerre è ridotto a » 140,000
Il re di Bretagna del 1414 aveva d’entrata ducati ducentomila; per le guerre è ridotto in » 140,000
Il duca di Borgogna del 1400 aveva di entrata tre milioni; per le guerre è ridotto in » 900,000
Il duca di Savoja, per essere paese franco, ha di entrata » 150,000
[344]
Il marchese di Monferrato, per essere paese franco, ha di entrata » 100,000
Il conte Francesco duca di Milano (del 1423 il duca Filippo Maria aveva di entrata un milione di ducati) al presente per le guerre ha solamente » 500,000
La signoria di Venezia aveva nel 1423 d’entrata ordinaria duc. 1,100,000; per le grandi guerre che hanno distrutte le mercanzie, ha d’ordinario » 800,000
Il marchese di Ferrara in detto anno, aveva d’ordinario ducati settecentomila; per le guerre d’Italia egli, per stare in pace, ha » 150,000?
Il marchese di Mantova aveva ducati cencinquantamila; ora » 60,000
I Bolognesi avevano d’ordinario ducati quattrocentomila; ma per le guerre son venuti in » 200,000
Firenze aveva d’entrata quattrocentomila; ma poi per le grandi guerre è ridotta in » 200,000
Il papa ha d’ordinario, benchè avessene più » 400,000
I Genovesi per le grandi divisioni tra loro sono ridotti in » 180,000
Il re d’Aragona in tutto il suo reame colla Sicilia ha d’entrata, benchè ne avesse assai più » 310,000

Un conto riferito nelle Delizie degli eruditi toscani, vol. XX. p. 170, dà al 1427 le rendite di Milano fiorini ventimila; Novara e Vercelli quattromila; Asti, Pavia, Como, Lodi, Piacenza, Parma, Perugia duemila; Alessandria, Tortona mille; Cremona tremila; Crema quattromila; [345] Bergamo tremila; Genova e Savona seimila; cioè in tutto fiorini cinquantaquattromila al mese.

Or segue il Sanuto a dare le

Entrate di terraferma della Signoria veneta, e spese di quelle terre.
 
  entrata spesa restano
  duc. duc. duc.
La patria del Friuli rende all’anno 7,500 6,330 1,170
Treviso e il Trevisano 40,000 10,100 29,900
Padova e Padovano 65,500 14,000 51,500
Vicenza e il Vicentino 34,500 7,600 26,900
Verona e il Veronese 52,500 18,000 34,500
Brescia e il Bresciano 75,500 16,000 59,500
Bergamo e il Bergamasco 25,500 9,500 16,000
Crema e il Cremasco 7,400 3,900 3,500
Ravenna e il Ravennasco 9,000 2,770 6,230
       
 
Totale 317,400 88,200 229,200
Entrate di Venezia.
 
Governatori delle entrate riscuotono annualmente     duc. 150,000
Uffizio del sale riscuote     » 165,000
Otto uffizj obbligati alla camera degl’imprestiti riscuotono     » 233,500
Uffizj rispondono all’arsenale     » 73,280
Per un pro alla camera degli imprestiti     » 150,000
         
 
        771,780
Spese ordinarie[220] duc. 133,680    
Salariati » 26,500    
Netto     duc. 611,600
Terre marittime rendono annualmente     » 180,000
         
 
        1,020,800

[346]

Altre entrate straordinarie.
 
Entrate di decime di case e di possessioni nel dogato     » 25,000
Pro d’imprestiti che si pagano de’ contanti la metà delle decime, e l’altra si tiene in camera     » 15,000
Possessioni di fuori e case di stazio     » 5,000
Preti per le entrate loro     » 22,000
Giudei da mare per le decime, due all’anno     » 600
Giudei da terra ducati cinquecento per decima, due decime     » 1,000
Decime della mercatanzia     » 16,000
Noli e gioje, cioè entrate     » 6,000
Tanse e cambj     » 20,000
         
 
  1,131,400
 
Nota che s’ha da diffalcare dalla entrata, per le persone impotenti a pagare duc. 6,000}   37,500
Per la metà della decima de’ pro della camera degl’imprestiti » 7,500}  
Pei preti, da essere diffalcati pel patriarca » 2,000}  
Per la mercatanzia, l’entrata » 6,000}  
Per noli e gioje » 4,000}  
Per tanse e cambj » 12,000}  
         
 
Restano 1,093,900

[347]

AGGIUNTE E CORREZIONI

Vol. I, pag. 190, linea 28, aggiungi in nota:

Nel Congresso internazionale geografico del 1875 a Parigi si disputò sopra i Galli, invasori dell’Italia nel V e IV secolo a. C., se provenissero dalla valle del Danubio, o dal centro della Gallia, e si conchiuse per quest’ultima opinione.

Pag. 433, aggiungi in nota:

Nuova luce alla storia civile di Roma hanno recato le scoperte recenti di iscrizioni, di monete, principalmente di tavole, fra cui preziosi i bronzi di Ossuna in Spagna, che fecero comprendere necessario uno studio nuovo e profondo del governo municipale di Roma. Sigonio, Paolo Manuzio, Rosino (De Roszfeld) ne avean dato molte nozioni; poi Everardo Otton si giovò dei lavori di Grutero, Grevio, Gronovio per trattare delle colonie e dei municipj, ma non conobbe la tavola d’Eraclea, trovata solo nel 1732, nè la legge per la Gallia Cisalpina trovata nel 1760, nè se ne giovarono Bimard, Goez, Beaufort. Bensì ne profittò il Mazocchi (1755), sospettando che la tavola d’Eraclea fosse un frammento di legge municipale che attribuiva a Giulio Cesare, ma passò inavvertito, come avviene delle cose italiane, a segno che mezzo secolo dopo il Savigny ritentò gli stessi problemi. Nè lo conobbe Roth (De re municipali Romanorum, 1801) che vi cercò piuttosto il lato politico che le particolarità archeologiche, nè sospettò che la tavola d’Eraclea fosse identica colla legge municipale di G. Cesare, come poi dimostrò Savigny, e della quale non ancora s’è scoperta la totalità.

Sotto nuovo aspetto presentò le colonie e i municipj Niebuhr, e diede la volontà di innovare, per quanto egli sia criticato dal Madvig, colla fredda applicazione dei testi, e dell’epigrafia. Mommsen avanzò l’opera, che ajutata dalle tavole di Malaga e Salpensa e da queste di Ossuna, ci darà la vera condizione del municipio dell’antica Italia, le cui istituzioni ebbero carattere municipale fin sotto l’Impero.

Le cinque tavole di bronzo di Ossuna, cui appena testè se ne aggiunsero altre, portano lo statuto comunale di Giulia Genetiva, fondata da Giulio Cesare nel 710 U. c., 44 a. C. Rivelano [348] esse nelle massime particolarità la costituzione di una colonia, coi magistrati e ufficiali, i littori e uscieri assegnati a ciascuno, e i distintivi: poi il servizio militare, gli stipendj, l’erogazione delle multe, il culto, l’edilizia, le sepolture.

Vedansi Willems, Droit publique romain, 1872.

Camillo Re, Le tavole di Ossuna, Roma 1874.

Ch. Giraud, Bronzes d’Ossuna, 1874. Enchiridion juris romani, 1875.

I lavori dell’Istituto di Francia nel 1874 e nel 1876, pag. 800, poi nel 1877.

Ernesto Desjardins fece uno studio sul Paese gallico e la patria romana, mostrando che non è vero che le provincie fossero assimilate alla metropoli. Roma non pensò distruggere i paesi che assoggettava, ma trasformare il senso della parola patria.

Il senato che organizzava le conquiste, proponevasi di distruggere le antecedenti confederazioni e sostituirvi la città; ruinare la patria nazionale e far prosperare la patria municipale: stabilendo un’autonomia municipale, garantita dalla protezione di Roma, e colla lusinga d’entrare nella cittadinanza romana. A ciò non richiedeasi violenza, ma guadagnare gli spiriti, troppo inclini alla discordia, alle invidie, alla guerra fraterna. Per quelle gelosie, Cesare potè sempre aver alleato qualche popolo gallo contro gli altri.

Vol. II, pag. 322, lin. 12:

territoristi, leggi terroristi.

Vol. III, pag. 33, lin. 5, aggiungi:

In effetto non definisce nè il bene nè il male, nè la legge: per criterio della morale non porge che una natura vaga, ragionevole; non nomina Dio, non l’anima o l’immortalità, non il libero arbitrio: della scienza stessa non tiene conto se non in quanto è pratica; vede unicamente la repubblica, l’onestà politica; l’amor di patria pone al di sopra dell’amor di famiglia. In somma la sua è quella che or dicesi morale indipendente; alla ricerca di questa sono diretti i primi cinque capitoli, e sempre non fa che dimostrare la virtù esser utile[221].

[349]

Vol. III, pag. 211, lin. 13:

Bedriaco, leggi Bebriaco.

Vol. IV, pag. 801, lin. 10:

Papiriano, leggi Papirio.

Pag. 271, aggiungi:

Sulle catacombe lavorarono inoltre Desbassyns de Richemont, Kraus, Northcote, Brownlow, riassunti da Doen Guéranger: e compendiati da Enrico de l’Epinois, Les catacombes de Rome, e W. H. Withrow, The Catacombs of Rome and their testimony relative to primitive Christianity. Londra 1876.

Vol. V, pag. 52, alla fine del capitolo aggiungi:

Una lettera secreta di Sidonio Apollinare ad Agricola ci dà molte particolarità intorno a Teodorico e alle sue abitudini. Levavasi per tempo; adunati i sacerdoti, «li venerava con gran raccoglimento», mentosto per devozione che per costume inveterato. Passava allora all’udienza, sedendo sul trono con a fianco gli armigeri, mentre soldati goti stavano fuori, pronti ad accorrere al bisogno, in qualche distanza per non recare disturbo. A chi veniva, Teodorico rispondeva breve: e dopo due ore levavasi e andava a visitare i tesori e le scuderie. Sedeva poi a pranzo, da solo ne’ giorni ordinarj, nei festivi a sontuoso banchetto, ove le tavole erano coperte di tappeti di Babilonia e vasi cesellati; l’eleganza greca, la copia francica, la prestezza italica, la pompa pubblica, la diligenza privata, il cerimoniale regio risplendevano a gara, mentre i convitati per riverenza parlavano poco: vivande buone ma non costose: impossibile l’inebbriarsi, anzi si lamentava lo scarso bere. Sopradesinare, di rado egli dormiva, e più spesso si poneva a giocare, e posta da banda la gravità reale, [350] invitava alla libertà, agli scherzi, alla familiarità, solo temendo di esser temuto. E come in battaglia, così al giuoco sapea vincere senza imbaldanzirne, e godendo e adirandosi secondo la sorte dei dadi, e spesso filosofando. Il miglior momento di domandargli una grazia era quando il compagno perdesse.

Sull’ora nona le guardie faceano largo, e il re tornava ad occuparsi degli affari di Stato, la turba dei litiganti susurrava fino a sera, quando Teodorico si levava per la cena. Durante questa, usciva in motti piacevoli, sempre tali però da non offendere i convitati.

Terminata la cena, le guardie palatine disponevano per le scolte notturne; gli armigeri metteansi a guardia delle porte del palazzo: e il re vegliava sino a mezzanotte, piacendosi di suoni e canti.

Vol. V, pag. 489, lin. penultima:

Vedasi Domenico Forges Davanzati (Napoli 1791), Della seconda moglie di Manfredi.

Dappoi ne discorsero il De Cesare in una dissertazione apposita, e quelli tutti che ragionarono de’ vespri siciliani.

Vol. VI, pag. 15, lin. penultima, aggiungi:

Ugo vescovo di Parma, nel 1029, ebbe da Corrado il contado della città e del territorio, e in segno della autorità spirituale e temporale ufficiando teneva la mitra al corno destro dell’altare, al sinistro la spada sguainala.

Pag. 72, lin. 7:

Parma, dopo la vittoria su Federico II: Hostis turbetur quia Parmam Virgo tuetur.

Pag. 113, alla nota aggiungi:

Questo poema, sì caro agli umanisti tedeschi, vollero alcuni crederlo finto nel XVI secolo. Ma le recenti disquisizioni del Pannenborg (Forschungen zur deutschen Geschichte, tom. XI, [351] pag. 163 e segg.), e del Paris (Compte rendu des Séances de l’Acad. des Inscriptions, gennajo 1871) accertano che è opera contemporanea, non di Guntero nè d’un pavese imperialista, ma d’un tedesco, addottrinato nell’Università di Parigi, e che verseggiò dietro al racconto di Ottone di Frisinga.

Vol. VI, pag. 501:

Carlo convocò in Napoli due sindaci di ciascuna città, ecc.

Questa asserzione, accettata dal maggior numero di storici, è confutata vittoriosamente dal signor Del Giudice, Il giudizio e la condanna di Corradino, Napoli 1876. Giudici e baroni furono convocati solo per assistere al supplizio.

Pag. 532, alla nota 16 aggiungi:

Il granoturco, in haitiano chiamasi mahis.

Il primo botanico che lo descriva come conosciuto in Europa è Gerolamo Bock, De stirpium Germaniæ nomenclaturis, 1552, Argents: nel 1571 non era ancora coltivato in Ispagna, del che si duole Hernandez, Theatr. mexicanum, pag. 242..

La nota carta d’incisa, pubblicata primamente dal Giuseffantonio Molinari nella Storia d’Incisa, 1810, e accettata dal Michaud e dalla più parte; il De-Candolle sostenne si trattava non del granturco ma del sorgo. Ora poi nella Revue des Exceptions historiques, anno XI, gennaio 1877, pag. 160, Comte Riant dimostra, ciò che altri già avevano dubitato, che quella carta è affatto falsa.

Vol. VII, pag. 34, alla nota 3 si aggiunga:

Sulle origini di Firenze e sui narratori di quelle, non abbastanza lavorarono i nostri, e ancora meno Gino Capponi. Furono gli stranieri che primi repudiarono Ricordano Malespini, Dino Compagni, il Chronicon, Brunetto Latini.

Ultimamente G. Hartwig pubblicò Quellen und Forschungen zur ältesten Geschichte der Stadt Florenz, stampando le Gesta Florentinorum del Senzanome, che come testimonio oculare descrive le lotte dei Comuni contro i castelli e le città, convinse che i primi narratori ebbero alla mano ben pochi documenti, ma si valsero di leggende divulgate, e conclude che Firenze fu fondata dal Romani due secoli a. C., non fu distrutta da Totila, nè rifabbricata da Carlomagno: nel medioevo era di pianta quale al tempo romano: la cerchia antica fu distrutta probabilmente al tempo delle Ordinanze di Giustizia; Fiesole [352] fu distrutta, non nel 1010, ma nel 1125; Firenze ebbe poca importanza nel secolo XI, e nel suo mezzo aveva terreni coltivati. Poi divenne centro del movimento antimperiale in Toscana e alleato principale del papato.

Vol. VII, pag. 265, alla nota aggiungi:

Quali il De Giovanni, Ant. Cappelli, Renzi, Robieri.

Nell’ultima edizione del 1876, grandemente ampliata, l’Amari conchiude ancora che, «cimentato quel gran nome con le forze che ha oggi l’istoria, sen dileguano i vanti della prima congiura; gli resta soltanto la destrezza dei maneggi di Stato, e la infamia del tradimento contro la Sicilia».

Pag. 518, lin. 5:

Francesco Sacchetti, leggi Franco Sacchetti.

Vol. IX, pag. 263.

Uberto Foglietta: poni in nota:

Il sig. Neri nel Giornale Ligustico del novembre e dicembre 1876 pose una estesa memoria sul Foglietta, giudicandolo rigorosamente quanto al concetto politico di irragionevole democrazia, e lodandone molto lo stile, sì del testo latino, sì della traduzione fattane dal Serdonato. Lo rimprovera della sua malevolenza verso gli altri storici, massime il Giustiniani che lo precedette, e il Bizaro che ad Anversa pubblicò contemporaneamente la sua storia (1579).

Vol. X, pag. 476, lin. 12, aggiungi:

Il duca d’Alba nel 1556 assale Veroli, risoluto a distruggerla, e il cavallo gli cade e nega procedere più in là del luogo ove fu trovato il corpo di S. Salome.

Vol. XI, pag. 392, lin. 4, aggiungi:

In mezzo alle sue melanconie talvolta era vivo, chiassoso; ai carnevali di Ferrara danzava, donneava, strabeveva: amava i cibi squisiti e lo zucchero più fino.

Pag. 397, lin. 15, aggiungi:

Il Tasso in prigione era trattato decentemente, poteva passeggiare, ricevea visite di personaggi, fra cui il duca di Mantova: denaro dal duca di Guastalla: doni di libri e manoscritti, come le edizioni di Aldo; leggeva la Somma di san Tommaso e le Storie del Bembo; [353] l’incisore Francesco Terzi lo consultava sui suoi lavori: Giulio Segni gli dedicava i suoi versi: il padre Angelo Grillo veniva a tenergli compagnia; colà stesso voleva esser vestito de’ più bei velluti di Genova e con berretti ricamati.

Vol. XI, pag. 446, alla nota 13 aggiungi:

La regina Cristina ebbe carissimo il cardinale Azzolino di Fermo, che chiamava «il massimo, non meno di tutti i cardinali che di tutti gli uomini», e lo reputava inferiore soltanto all’Oxenstiern.

Pag. 500 in fine:

Pier Giovanni Capriata. I 3 volumi della sua Storia d’Italia pubblicaronsi a Genova il 1638, 1649, 1663, il terzo postumo.

Favorevole agli Spagnuoli, contrario al duca di Savoja Carlo Emanuele, tacciandolo non solo di astuzia e falsa politica, ma di viltà.

Eppure trescò nella sozza congiura del Vachero: la Signoria veneta cercò farlo ammazzare per averne palesato la vergognosa rotta a Valleggio; la Corte romana mosse doglianze dell’averlo lasciato stampare.

Pag. 501:

In un articolo del Giornale Ligustico, 1877 genn. febbr., mi si avverte che il Casoni avea compito anche la seconda sua storia.

Pag. 503, lin. 24, aggiungi:

Pratillo e Tafuri sono cattivissimi inventori di baje, invan difese avvocatescamente dal De Meo, del quale deturparono gli Annali di Napoli dall’800 fino ai Normanni.

Vol. XII, pag. 297, lin. 10, aggiungi:

Carlo Amoretti d’Oneglia, poligrafo e naturalista, uscito di frate, fu professore a Parma, ove era accusato di spargere dottrine empie e dubbj sulla integrità della B. Vergine. Fu secretario della Società Patriotica a Milano, dottore della biblioteca Ambrosiana e membro dell’Istituto (1740-1816).

[354]

Vol. XII, pag. 499, lin. 1:

Zanetti, leggi Zanotti.

Vol. XIII, pag. 535:

Ai viaggiatori vanno aggiunti il Flores, che studiò la mineralogia del Messico; come De Angelis e De Scalzi nel Buenos Ayres: Lavarello scoprì gli affluenti del Parana nella repubblica Argentina.

Pag. 572, lin. 28, aggiungi:

Carlo Barabini rese accessibili le vie di Genova, fece il passeggio dell’Acquasola e il teatro Carlo Felice.

Vol. XV, pag. 5, lin. 27:

Effuschke, leggi E. Husche.

Pag. 12, lin. 4, aggiungi:

Dopo le Tavole Eugubine viene il cippo quadrangolare, scoperto presso Perugia il 1822, etrusco con 656 caratteri, attorno al quale lavorarono il Vermiglioli, il Maggi, l’Orioli, il Canepari ed altri, costretti a confessare di non accertarne il contenuto.

Pag. 15, lin. 5, aggiungi:

Il Tarquinj aieanatus feci levigabat pulcre Phebe: lo Janelli supremus director et custos annonæ.

Pag. 18, lin. 10, aggiungi:

Nel procedere del suo glossario trovò moltissime parole inesplicabili, come ansif, apohtre, arsmatiam, avieholeirs, abetrafe, efurfatu, esariaf, eclacrus, che pur ricorre almen venti volte: oltre le molte dubbie.

Pag. 26, lin. 26, aggiungi:

Die nordetruskischen Alphabete aus Inschriften und Münzen; nei Mittheilungen della Società antiquaria di Zurigo.

Wilhelm Corssen, De Volscorum lingua. Norimberga 1858.

[355]

Vol. XV, pag. 40, lin. 16:

Statetio, leggi Statebio.

Pag. 62, alla nota aggiungi:

Sarebbe importante colmar la lacuna che vi è fra il Dizionario del Forcellini e quello del Du Cange. L’uno dà il latino classico, l’altro il latino barbaro. Ma realmente nei tempi di decadenza, nel IV, V e VI secolo si usavano molte voci che il Du Cange non pone che coll’autorità del IX o X. Resta ancora a compire il lessico di quei secoli, e un buon principio vi diede il signor Quicherat (Addenda lexicis latinis, investigavit, collegit, digessit L. Quicherat. Parigi 1862), aggiungendo al Forcellini circa 7000 articoli, tolti da autori della decadenza.

Ciò toglierebbe la soluzione di continuità.

Pag. 106, lin. 10:

Mezzolombardo, leggi Mezzolambro.

[357]

INDICE ALFABETICO

A

Aborigeni, I. 43.

Accademia del Cimento, XI. 585 — Ercolanense, XII. 517.

Accademie, X. 142.

Acciajuoli Roberto, XI. 254.

Accolti Francesco, VIII. 347.

Accursio, vi. 376; VIII. 346.

Accuse pubbliche a Roma, II. 110.

Acoramboni Vittoria, XI. 347.

Acquedotti romani, III. 411.

Acton, XII. 355.

Acuto Giovanni, VIII. 12. 177.

Addison, XII. 448.

Adriano imperatore, III. 242 — suo eclettismo, 407.

Adriano papa, V. 236.

Adriano VI, IX. 249; X. 370.

Affò, XII. 243. 540.

Agatocle, I. 249.

Agilulfo, V. 87.

Agincourt, XII. 533.

Agiografia cristiana, IV. 256.

Agostino (s.), IV. 260.

Agricola (Giulio), III. 229.

Agricoltura nel Seicento, XI. 304 — primitiva, I. 129.

Agrigento, I. 232. 283.

Agrippa Vipsanio, II. 339.

Alamanni, X. 187.

Alarico, IV. 354-374.

Alba, I. 138.

Albanesi in Italia, VIII. 219.

Albani pittore, XI. 365.

Alberico da Barbiano, VII. 575; VIII. 177.

Alberoni, XII. 115.

Alberti Leon Battista, X. 5.

Alberto d’Austria, VII. 366.

Albertolli, XII. 531.

Albinaggio, V. 392; VIII. 450.

Albizzi, VIII. 239. 243. 253.

Alboino, V. 73.

Albornoz, VII. 550. 562. 567.

Alchimia, VI. 409; VIII. 426; X. 318; XI. 290.

Alciato, X. 130.

Aldo, VIII. 367; X. 125.

Aldrovandi, XI. 536.

Alessandria, VI. 139.

Alessandro e i Romani, I. 268.

Alessandro III, VI. 135.

Alessandro Severo, IV. 31.

Alfieri, XII. 557.

Alfonso il Magnanimo, VIII. 81.

Algardi, XI. 367.

Algarotti, XII. 503. 532.

Allacci, X. 127.

Alleanza (santa), XIII. 293.

Alpi, loro popolazioni, II. 373.

Alpi passate da Annibale, I. 307.

Amalasunta, V. 52.

Amalfi, VI. 105.

Amanuensi, VIII. 355.

Ambasciadori, loro franchigie a Roma, XII. 26.

Ambrogio (s.), IV. 220.

Ammiano Marcellino, IV. 245.

Ammirato, IX. 260.

Amoretti, XII. 297 e aggiunte. [358] Anatomisti, XI. 546.

Ancre (maresciallo d’) XI. 249.

Andres, XII. 539.

Andronico, I. 350; III. 3.

Anguillara, X. 243.

Anichino, VII. 568.

Annibale, I. 303. 339.

Annibale Porrone, XI. 275.

Annio da Viterbo, VIII. 341.

Anno, XV. 227.

Anselmo (s.), VI. 362.

Ansprando, V. 204.

Antioco il Grande, I. 336 — Epifane, 353.

Antiquarj, X. 127.

Antitrinitarj, X. 405.

Antonino Pio, III. 252.

Antonio (s.), VI. 350.

Aonio Paleario, X. 429.

Aosta, VII. 445.

Apollonio Tianeo, IV. 97.

Apologisti cristiani, IV. 115. — X. 363. Apparizioni, X. 475; IX. 382.

Appiani Andrea, XII. 532.

Appio Claudio, I. 176. 275. 324.

Apuleio, III. 379.

Arcadia, XI. 446; XII. 495.

Archi romani, III. 408.

Archimede, I. 255.

Archita, I. 223.

Architetti del medioevo, VII. 178 — toscani, 179 — dell’Alta Italia, 182 — del secol d’oro, X. 2 — del Settecento, XII. 528.

Architettura romana, III. 399 — gotica, VII. 171 — risorgimento, X. 92 — militare, 104.

Arco acuto, VII. 168.

Arduino Giovanni, XII. 584.

Arduino re, V. 369.

Aretino Pietro, X. 255.

Argonauti, III. 363.

Aria (gente), I. 61.

Arialdo, V. 490.

Arianesimo, IV. 174.

Arimanni, VI. 17.

Ariosto, X. 177. 237.

Aristotele, VI. 359.

Armi da fuoco, VII. 578.

Armi mercenarie, VII. 456. 570. 574.

Arnaldo di Brescia, VI. 108. 118.

Arnobio, IV. 214.

Arnolfo di Cambio, VII. 187.

Arrabbiati e Palleschi, IX. 404.

Arte (scrittori di), XII. 532.

Arteaga, XII. 506.

Arti belle a Roma, II. 122; III. 392 — in Sicilia, 430 — nel basso impero, IV. 269 — cristiane, 273 — sotto i Goti, V. 42 — i Longobardi, 143 — i Franchi, 277 — nel medioevo, VII. 160 — nel Quattrocento, VIII. 374 — nel Cinquecento, X. 2 — nel Seicento, XI. 350 — moderne, XIII. 559.

Artisti italiani all’estero, X. 115.

Ascoli, XV. 176.

Asdrubale, I. 304.

Assedio di Genova, XIII. 123.

Assise di Gerusalemme, V. 559.

Assisi, VII. 171.

Asti, VII. 6.

Astolfo longobardo, V. 217.

Astrologia, VI. 401; VIII. 427; X. 318.

Atanasio (s.), IV. 178.

Atti di fede, X. 417.

Attila, IV. 385.

Attilio Regolo, I. 290.

Auguri, I. 413. 415.

Augusto, II. 310. 347-390 — il nome, 349.

Augustolo, IV. 431.

Aureliano, IV. 49.

Aurelio Vittore, IV. 244.

Ausonio, IV. 251.

Austro-Russi in Lombardia, XIII. 99.

Autari, V. 82.

Averroe, XI. 531. [359] Avidio Cassio, III. 262.

Avignone, VII. 522.

Avoux, XV. 325.

Avvocati servili, VII. 425.

Azuni, XII. 267.

B

Baccanali romani, I. 371.

Bacone, XI. 569.

Baglivi, XI. 552.

Bajamonte, VII. 78.

Bajardo, IX. 206.

Balbo Cesare, I. 31; XIV. 62.

Balbo Gaspare, VIII. 559.

Balde, VI. 376.

Baliaggi svizzeri, XIII. 67.

Balilla, XII. 150.

Baluardi, X. 104.

Banchetti, VIII. 393.

Banchi, VII. 110; VIII. 493.

Banchieri, VIII. 482. 488.

Banco di S. Giorgio, VII. 112; VIII. 509.

Bandini, XII. 238.

Barbacovi Vigilio, XII. 267.

Barbari invasori, IV. 65.

Barbaro Ermolao, VIII. 322.

Barbo Mario, VIII. 321.

Baretti, XII. 535.

Barletta Gabriele, VIII. 173.

Barnabiti, X. 483.

Barnabotti, VII. 89.

Barocco, XI. 360.

Baronio, V. 353; VII. 351. 551.

Bartoli Daniele, XI. 429.

Bartolini, XIII. 564.

Bartolo, VI. 376.

Bartolozzi, XII. 526.

Basiliche cristiane, IV. 279.

Bassville, XIII. 12.

Battaglia alle Egati, I. 294 — Canne, 311 — di Zama, 321 — di Magnesia, 337 — del monte Ossa, 341 — di Pidna, 342 — de’ Campi Raudj, II. 31 — di Pistoja, 151 — di Farsalo, 217 — di Munda, 231 — di Azio, 345 — di Teutberga, 375 — di Idistaviso, 375 — di Bedriaco, III. 311 — di Strigonia, 261 — di Pollenza, IV. 349 — di Chalons, 388 — di Legnano, VI. 141 — di Benevento, 488 — di Cortenova, 450 — della Meloria, 450 — di Tagliacozzo, VI. 499 — di Desio, VII. 29 — di Montaperti, 47 — di Campaldino, 53 — della Meloria, 59 — di Altopascio, 387 — di Parabiago, 417 — di Pola, VIII. 43 — di Chioggia, 47 — di Ponza, VIII. 83 — di Arbedo, 93 — di Maclodio, 109 — di Fornovo, IX. 77 — di Agnadello, 192 — di Ravenna, 210 — di Mohacz, 278 — di Pavia, 344 — di Landriane, 380 — di Gavinana, 419 — di Montemurlo, 439 — di Ceresole, 459 — di Lepanto, 536 — di Staffarda, XII. 89 — di Cassano, 103 — di Velletri, 146 — di Marengo, XIII. 125 — Austerlitz, 155 — Wagram, 193 — Lipsia, 253.

Battaglia del 48, XIV. 167. 225.

Battaglia di Lissa, XIV. 360.

Battisteri, IV. 283.

Beatrice Tenda, VIII. 35.

Beaufort, XV. 246.

Beccaria Cesare, XII. 248.

Bedmar (congiura del), XI. 149.

Belisario, V. 54.

Bellarmino, X. 508.

Bellini, pittori, X. 25.

Belve nel circo, III. 126.

Bembo Pietro, X. 137. 265.

Benedetto (s.), V. 161.

Benedetto XII, VII. 525.

Benedetto XIV, XII. 186.

Benevento, suo ducato, V. 245.

Bentivoglio Guido, XI. 509. [360] Berchet, XIII. 445.

Berengario imperatore, V. 330. 339.

Bergamo, antico Comune, VI. 63.

Bernardino (s.) da Siena, VIII, 169.

Bernardo (s.), VI. 96.

Berni, X. 195.

Bernini, XI. 358.

Bertola, XII. 548.

Bertoldo, V. 124.

Bessarione, VIII. 306.

Bettinelli, VII. 354; XIII. 505.

Bianca Capello, XI. 231.

Bianchini Francesco, XI. 518.

Biandrata, X. 410.

Bibbia tradotta, IV. 217; XV. 60 — sua lingua, 255 — volgare, IX. 332 — vulgata, X. 449.

Biblioteca Italiana, XIII. 441.

Biblioteche romane, III. 18.

Biblioteche, VIII. 359; XI. 443.

Birago, IX. 462.

Blasone, VI. 529.

Blocco continentale, XIII. 185.

Boccaccio, VII. 247. 480. 508; X. 169. 495.

Boccalini, X. 149; XI. 433.

Boccanegra, VII. 67; VII. 421.

Bodoni, XII. 351.

Boezio, V. 37. 50; VI. 357.

Bogino, XII. 336. 344. 350.

Bojardo, X. 176.

Bolla in Cœna Domini, X. 505.

Bollario, X. 467.

Bolle papali, X. 120.

Bologna (congresso di), IX. 233.

Bologna repubblica, VII. 14.

Bologne, VII. 407.

Bombarde, VII. 578.

Bonacolsi, VII. 406.

Bonamici, X. 121.

Bonaventura (s.) VI. 370.

Bondi, XII. 214.

Bonifazio di Toscana, V. 499.

Bonifazio VIII, VII. 280. 303. 373.

Bonomo, X. 455.

Borelli, XI. 583.

Borgia, VIII. 273; IX. 23. 121.

Borri Francesco, XI. 341.

Borromei, VIII. 117.

Borromini, XI. 359.

Boschi, VII. 572.

Boscovich, XII. 577.

Botero, XI. 486.

Botta Carlo, XII. 216. 286. 312; XIII. 489.

Boucicault, VIII. 50.

Braccio di Montone, VIII. 77.

Bracciolini, XI. 438.

Bragadino, IX. 534.

Bramante, X. 9.

Bravi romani, XI. 22 — lombardi, 93 — napoletani, 119 — italiani, 278.

Brescia assediata, VIII. 113 — dai Francesi, IX. 209.

Brigantaggio, XIV. 345.

Briganti Filippo, XII. 237.

Brigida (s.), VIII. 153.

Brugnatelli, XII. 587.

Brunelleschi, X. 4.

Brunetto Latini, VII. 240.

Bruno Giordano, XI. 456.

Bruto (Giunio), II. 240. 309. 325.

Buonafede, XII. 277.

Buonaparte Giuseppe, XIII. 197.

Buonarroti il Giovane, XI. 434.

Buondelmonti, VII. 43.

Burchiello, VIII. 416.

Burigozzo, IX. 358.

Burlamacchi, IX. 468.

Busini, IX. 259.

Bussola, VIII, 538.

C

Cabotto, VIII. 550.

Caccia, VII. 146.

Cagliostro, XII. 227.

Cagnola, XIII. 560.

Calendario siciliano, II. 122 — riformato, X. 467.

Calendarj, XV. 227. [361] Caligola, III. 92.

Callicrate, I. 349.

Camaldolesi, VI. 328.

Cambiali, VIII. 490.

Cambisti, VIII. 482.

Camillo, I. 190.

Camillo de Lellis (s.), X. 488.

Campanella, sua congiura, XI. 127 — sua scienza, 465.

Campania antica, I. 108. 198.

Campi, pittori, XI. 375.

Campi Raudj, II. 31.

Canaletto, XII. 513.

Candia, VII. 90; XII. 44.

Canea, VI. 267.

Cangrande, VII. 423.

Canosa (principe di), XIII. 300. 308.

Canova, XII. 570.

Canto de’ Salj e degli Arvali, XV. 30.

Cantofermo, VI. 414.

Canto gregoriano, V. 183.

Capitale trasportata a Firenze, XIV. 351 — a Roma, 363. 376.

Capitolari di Carlomagno, V. 289.

Capponi Gino, VIII. 248.

Capponi Nicolò, IX. 404.

Capua, 311.

Caracalla, IV. 23.

Caracci, XI. 368.

Caraccioli Luigi Antonio, XII. 206.

Caracciolo Domenico, XII. 362.

Caracciolo frà Roberto, VIII. 172.

Caracciolo Galeazzo, X. 423.

Caravaggio Michelangelo, XI. 366.

Carbonari, XIII. 212. 260. 315. 365.

Cardano, X. 324; XI. 561.

Carducci Baldassarre, IX. 405.

Carlalberto, XIII, 360. 400; XIV. 13. 90. 232.

Carli Gianrinaldo, XII. 233.

Carlo Borromeo (s.), X. 352. 440. 450. 569.

Carlo d’Angiò, VI. 472; VII. 262.

Carlo Emanuele di Savoja, XI. 65. 198.

Carlo Emanuele II, XII. 83. 144.

Carlo Emanuele III, XII. 341.

Carlo III di Napoli, XII. 160. 196. 210.

Carlo il Calvo, V. 323.

Carlo il Grosso, V. 327.

Carlo IV, VII. 534.

Carlo Martello, V. 213.

Carlomagno, V. 231. 281 — sua coronazione, 251 — suoi capitolari, 289.

Carlo V, IX. 239. 345. 389. 447. 508.

Carlo VI imperatore, XII. 131.

Carlo VI in Sicilia, XII. 159.

Carlo VIII, IX. 57.

Carlone pittore, XI. 377.

Carmagnola, VIII. 36. 109.

Carneade, I. 329.

Carnesecchi, X. 431.

Carnevale, VII. 150.

Caro (Annibal), X. 159.

Caroli, IX. 116.

Carolina d’Austria, XII. 354.

Caronda, I. 227.

Carrara (i), VII. 424; VIII. 17. 43.

Carta di cenci, VIII. 361 — da giuoco, 442.

Cartagine, I. 280 — distrutta, 387 — parallelo con Roma, 383.

Carte di Comune, VI. 29.

Cartesiani, XI. 477.

Casati romani, XV. 283.

Case romane, III. 416 — del medioevo, VII. 115 — magnatizie romane, XI. 20.

Caserta, XII. 165.

Casistica, XII. 19.

Cassini, XI. 595.

Cassio, II. 240. 325.

Cassiodoro, V. 37. 269.

Casta, VIII. 501.

Castelfidardo, XIV. 337. [362] Castelvetro, X. 162. 395.

Casti, XII. 553.

Castiglioni Baldassarre, X. 289.

Castruccio, VII. 387. 396. 425.

Catacombe, III. 200; iv. 271.

Catari, VI. 330.

Catechismo, X. 449.

Caterina Cornaro, VIII. 233.

Caterina (s.), VIII. 149.

Catilina, II, 137.

Catone censore, I. 373.

Catone uticense, II. 167. 227. 259.

Cattolicesimo trionfa, IV. 225.

Catullo, III. 37.

Cavalieri Bonaventura, XI. 589.

Cavalieri romani, I. 403.

Cavalieri di Malta, IX. 277.

Cavalleria, V. 561; VII. 141.

Cavallette, VII. 97.

Celestino V, VII. 281.

Celio Magno, XI. 381.

Celio Curione, X. 390.

Cellini, X, 109. 271.

Celso, III. 317.

Celti, I. 46.

Cenci Beatrice, XI. 345.

Censori romani, I. 405.

Censura teatrale, III. 10.

Cerati, XII. 287.

Certosa di Pavia, VII. 185; X. 76.

Cesalpino, X. 537. 542.

Cesare, II. 170. 203-242. 330 — storico, III. 22.

Cesari Antonio, XIII. 454.

Cesariano, VII. 184.

Cesarotti, XII. 550.

Cesellatori, X. 109.

Ceva Tommaso, XI. 451.

Chiabrera, XI. 441.

Chiaravalle VI. 314.

Chiari abate, XII. 484.

Chiavenna, X. 396.

Chieri (società di), VI. 205; VII. 444.

Chiese fondate dai discepoli, IV. 86.

Chiese cristiane, IV. 277.

Chiesa e i Barbari, V. 150 — suoi incrementi, 468.

Chiesa e Impero, VI. 416.

Chiesa corrotta nel Cinquecento, IX. 284.

Chinea, XII. 281.

Chirurgia, VI. 399.

Cholera, XIII. 411.

Cia degli Ordelaffi, VII. 563.

Cicerone, II. 111. 131. 183. 227. 313 — storico, III. 27 — filosofo, 29 — sue lettere, 35.

Cicognara, XIII. 562.

Cifre arabiche VI. 412.

Cignaroli, XII. 515.

Cimabue, VII. 197.

Cimarosa, XII. 473.

Cimbri, II. 27 — IX. 197.

Cincinnato, I. 188.

Cino da Pistoja, VI. 377.

Ciompi, VIII. 240.

Cipro (guerra di), IX. 531.

Circo, II. 87.

Circolazione del sangue, XI. 550.

Cistercensi, VI. 314; VII. 96.

Ciullo d’Alcamo, XV. 152.

Civile imperatore, III. 222.

Clarisse, VI. 321.

Classici riprovati, X. 493.

Claudiano, IV. 249. 346.

Claudio imperatore, III. 100.

Clefi, V. 79.

Clemente V, VII. 313.

Clemente VII, IX. 339. 369. 401; X. 373.

Clemente VIII, XI. 42.

Clemente XIV, XII. 206.

Cleopatra, II. 222. 334.

Clodio, II. 189.

Cocchi, XII. 592.

Codice Gregoriano, IV. 304 — Teodosiano, 305 — Giustinianeo, 306 — di Teodorico, V. 33 — di Rotari, 104. 122 — di Napoleone, XIII. 168.

Cognomi, VI. 75. [363] Cola di Renzo, 530. 558.

Cola Montano, IX. 47.

Coleoni Bartolomeo, VIII. 136.

Colombo Cristoforo, VIII. 562.

Colonie greche, I. 206. 230 — cartaginesi, 281 — romane, 421; III. 406.

Colonna e Orsini, VII. 527. 534.

Colonna (frà Francesco), VIII. 338.

Colonna Marcantonio, IX. 533.

Colonna Vittoria, X. 403.

Comendone, X. 444.

Comizj romani, I. 160. 400; II. 299. 351.

Commedia latina, III. 2.

Commedie italiane, X. 210.

Commercio romano, III. 300 — veneto, V. 531; VIII. 93.

Commercio nel Quattrocento, VIII. 446.

Comodo imperatore, IV. 5.

Como (guerra di), VI. 95.

Compagnie di ventura, VII. 449 — bianca, VII. 569 — della stella, 573.

Comunanze mercantili, VI. 22.

Comuni. Origine, V. 362 — milanese, V. 447.

Comuni, persistenza sotto i Barbari, VI. 1 — origine, 23. 61 — di campagna, 51 — paragone coi municipj, 64 — loro governo, 65.

Comuni lombardi, VI. 89 — loro lotte, 91.

Comuni sottoposti a Comuni, VI. 201.

Conche, X. 7.

Conciliatore, XIII. 440.

Concilio Niceno, IV. 177 — costantinopolitano, 225.

Concilio Laterano, VI. 106. 415 — di Lione, 458.

Concilio di Vienna, VII. 316.

Concilio di Pisa, VIII. 187 — di Costanza, 191 — di Firenze, 197.

Concilio lateranense, IX. 318 — di Trento, X. 373. 443 — sua storia, 545.

Concilio di Pistoja, XII. 324.

Concordati, XIII. 320.

Concordato di Worms, V. 517.

Concordato con Pio VII, XIII. 131.

Condottieri, VII. 458; VIII. 88. 114.

Congiura de’ Pazzi, VIII. 281 — de’ Baroni, 293 — molte, 405.

Congiura del Bedmar, XI. 149 — del Vachero, 73 — del Campanella, 127.

Congregazioni romane, XI. 31.

Congressi scientifici, XIV. 57. 126.

Congresso di Vienna, XIII. 276. 285 — di Troppau, 343.

Consolati commerciali, VIII. 480 — marittimo, 481.

Consoli romani, I. 409.

Consoli di Comune, VI. 62. 167.

Consulta di Lione, XIII. 135.

Conti palatini, VII. 560.

Controversie religiose, XII. 169. 179. ecc.

Convenzione colla Francia, XIV. 351.

Copernico, XI. 571.

Cordara, XII. 195.

Corelli, XII. 474.

Corio, IX. 268.

Coriolano, I. 175.

Cornaro Caterina, X. 138.

Cornelio Nepote, III. 26.

Corona ferrea, V. 86.

Coronazione di Gian Galeazzo, VIII. 25 — di Luigi d’Angiò, 70 — di Carlo V, IX. 389.

Corporazione di arti, VIII. 465.

Corradino, VI. 474. 495.

Corrado di Franconia, VI. 107.

Corrado IV, VI. 473.

Corrado Salico, V. 439. [364] Correggio (il), X. 82.

Corsica antica, I. 112; V. 538 — sotto Genova, XII. 373 — insorge, 381-399 — fatta francese, XIII. 7.

Corso Donati, VII. 375.

Corssen, XV. 6.

Cortigiane del Cinquecento, X. 286.

Cosmo De Medici, VIII. 257.

Costantino Magno, IV. 80 — sua tolleranza, 121 — trasporta la capitale, 125 — legislatore, 161 — giudizj su lui, 161 — sua donazione, 171.

Costantinopoli fondata, IV. 127.

Costantinopoli presa dai Latini, VI. 259 — dai Turchi, VIII. 215.

Costanzo (di), IX. 268.

Costituzione Sillana, II. 105.

Costituzioni Egidiane, VII. 567.

Costituzione del 48, XIV. 113.

Costumi delle repubbliche, VII. 114 — nel Quattrocento, VIII. 373 — nel Cinquecento, X. 284.

Crasso, II. 108. 166. 199.

Crasso Licinio, I. 341.

Cremona, suoi artisti, X. 91.

Crescenzi, VII. 506.

Crescenzio, V. 365.

Crevenna, XII. 521.

Crimea, VIII. 501.

Cristianesimo, suoi primordj, III. 193 — cresce, IV. 85 — suoi effetti civili, 165 — sua organizzazione, 167 — influenza sul diritto, 338 — ostacoli alla sua efficacia, IV. 411.

Cristina da Pizzano, VIII. 343.

Cristina di Svezia, XI. 444.

Cristo, III. 189.

Critica, X. 163; XIV. 368.

Crociate, V. 540.

Crociati a Costantinopoli, VI. 260.

Crociata quarta, VI. 231 — quinta, 421 — sesta, 434 — contro gli eretici, 343 — loro fine, effetti, 506.

Crociate contro i Turchi, VIII. 220. — IX. 272.

Cronaca (il), X. 11.

Crotone, I. 216.

Crusca (Accademia), X. 143; XI. 425; XII. 549; XIII. 455.

Curzio (Quinto), III. 385.

D

D’Agincourt, VII. 359.

Damaso, V. 169.

Damone e Pitia, I. 244.

Dandolo Enrico, VI. 253.

Dante, VII. 244. 287. 291. 496 — de vulgari eloquio, XV. 206 — eretico, XV. 325.

Davanzati, X. 150.

Davila, XI. 511.

De Brosse, XII. 445.

Decebalo, III. 230.

Decio, I. 199.

Decio imperatore, IV. 41.

Decretali, vi. 379; X. 466.

Decretali false, V. 472.

De Dominis, X. 548; XI. 591.

De Gregorio Rosario, XII. 491.

Delfico Melchiorre, XII. 547.

Della Casa (monsignor), X, 145. 155.

Della Porta Giambattista, XI. 534. 539. 591.

Delmino, X. 251.

De Maistre, XIII. 18. 323.

Denina, VII. 354; XII. 549.

Dentato, I. 176.

Depravazione imperiale, III. 121.

De Rossi Gian Bernardo, XII. 491.

Desiderio longobardo, V. 230.

Dessaix, XIII. 125.

Devonshire (duchessa di), XIII. 309.

Dialetti, XV. 151. 160. 181.188. [365] Dieci (Consiglio dei), VII. 81; XII. 35.

Diez, XV. 176.

Digesto, IV. 308.

Dino Compagni, VII. 287. 331.

Didio Giuliano, IV. 12.

Diocleziano, IV. 59. 119.

Dione Cassio, III. 389.

Dione, I. 246.

Dionigi d’Alicarnasso, I. 41; III. 15.

Dionigi tiranno, I. 242.

Diritto augurale, I. 413. 415 — latino, 419 — italico, 420.

Diritto romano, sua storia, IV. 286; VI. 372.

Diritto canonico, V. 170; VI. 378. 382 — feudale, VI. 378.

Diritto marittimo, VIII. 481.

Dittatori romani, I. 409.

Dittatura di Silla, II. 72 — di Cesare, 221.

Divertimenti del medioevo, VII. 136.

Divinità etrusche, I. 75 — romane, 153 — nuove a Roma, I. 370.

Divise, X. 309.

Dizionarj, X. 124.

Domenicani, VI. 325.

Domenichi, X. 269.

Domenichino, XI. 364.

Domiziano, III. 228.

Donatello, X. 14.

Donativi di corti, XI. 17.

Doni Francesco, X. 268.

Donne romane, II. 267; IV. 316 — sotto i Longobardi, V. 119.

Donne nel Quattrocento, VIII. 395.

Donne letterate, VII. 507.

Doria Andrea, IX. 385 — e Fieschi, 463.

Dragoni (monsignor), VI. 62.

Dragut, IX. 530.

Drusi, XI. 236.

Duca d’Atene, VII. 471.

Duelli, XI. 272.

Duello giudiziario, V. 113. 119.

Duilio, I, 289.

Duni, XV. 250.

Duomo di Milano, VII. 183; X. 76 — di Firenze, IX. 4.

Durando Giacomo, XIV. 70.

Dürer, X. 25.

Dutillot, XII. 202. 288.

E

Ebrei, loro fine, III. 225.

Ebrei nel medioevo, VIII. 486.

Economia pubblica sotto gli Antonini, III. 272.

Economisti del Seicento, XI. 488 — moderni, XII. 230.

Edda, IV. 69.

Editto perpetuo, III. 246; IV. 296.

Edizioni, VII. 369; X. 124.

Educazione romana, I. 362 — nel Quattrocento, VIII. 334 — nel Cinquecento, X. 493; XIV. 373.

Elagabalo, IV. 27.

Elba antica, I. 112.

Eleatici, I. 224.

Elezioni nei Comuni, VI. 177.

Elisabetta Farnese, XII. 116.

Elisa regina d’Etruria, XIII. 160.

Eloquenza in Roma, II. 106. 302 III. 326.

Eloquenza sacra odierna, XIII. 477.

Emancipazione di schiavi, V. 405. 419.

Emancipazione, VI. 82.

Emanuel Filiberto, IX. 521; XI. 54.

Emo Angelo, XII. 434.

Empedocle, I. 223.

Enciclopedia italiana, XII. 273.

Enciclopedisti, XII. 221. 255.

Enea in Italia, I. 146.

Eneide, I. 38.

Ennio, I. 361; III. 3. 36.

[366]

Ennodio, V. 38.

Enrico VI in Sicilia, VI. 229. 235 — coronato, 233.

Enrico VIII, VII. 365-372.

Enzo, VI. 464.

Epicurei, I. 330.

Epicureismo a Roma, III. 177.

Epifanio (s.), V. 38.

Epigrafi romane, III. 432. 446.

Epopea latina. III. 64.

Erasmo, IX. 323; X. 363.

Ercolano, III. 440 — scoperto, XII. 164.

Eresie, IV. 172. 231; VI. 329 — persecuzioni, 348.

Eriberto arcivescovo di Milano, V. 437.

Erlembaldo, V. 490.

Erminio, II. 375.

Eruditi, X. 133 — del Settecento, XII. 518 — moderni, XIII. 479. 483.

Esarcato di Ravenna, V. 186.

Esattori romani, II. 61.

Eserciti romani, I. 296.

Esercito romano imperiale, II. 367; IV. 3 — sotto Costantino, 145. 243.

Eserciti del Cinquecento, IX. 164.

Este (casa d’), VI. 89; VII. 405. 430.

Etna, I. 230.

Etruschi, origine, I. 63 e segg. — in Scandinavia, 79 — sepolcri, 87 — vasi, 92 — vinti, 201. 299; XV. 5.

Etruria, sue città, II. 38.

Eufemio di Messina, V. 301.

Eugenio Beauharnais, XIII. 162. 251. 266.

Eugenio di Savoja, XII. 53. 100.

Eugenio IV, VIII. 195. 269.

Eumene, I. 346.

Euno, II. 12.

Eusebio (s.), IV. 219.

Ezelini, VII. 17.

Ezio, IV. 380. 387.

F

Fabbriche romane antiche, III. 395.

Fabj, I. 188.

Fabretti Rafaele, XI. 516.

Fabrizio, I. 276.

Fabrizio d’Aquapendente, XI. 549.

Facino Cane, VIII. 35.

Falansteri, VI. 313.

Falaride, I. 232.

Faliero (Marin), VII. 80.

Fallimenti, VIII. 478.

Falloppio, XI. 548.

Fansaga, XI. 374.

Farinacio, XI. 495.

Farinata, VII. 46.

Farinelli, XII. 476.

Farnese Pier Luigi, IX. 471 — Alessandro, 520; XII. 11 — Elisabetta, 116.

Farsaglia, III. 360.

Fatucchieri, VIII. 425; XI. 288.

Febronio, XII. 191.

Federici, XII. 487.

Federico Barbarossa, VI. 112 — e i Lombardi, 130 — a Venezia, 145 — ed Enrico il Leone, 149 — sua fine e storia, 153.

Federico II, VI. 313. 418.

Federico I di Sicilia, VII. 278. 383.

Federico d’Austria, VIII. 136.

Federico di Prussia, XII. 216.

Fedro, III. 46.

Fenicie colonie, I. 110.

Ferdinando I di Napoli, XII. 353. 368; XIII. 85.

Ferdinando II di Napoli, XIV. 18.

Ferdinando III granduca, XIV. 1.

Ferdinando il Cattolico, IX. 135. 195. 331.

Ferdinando I d’Austria, XIV. 36.

Ferracina, XII. 529.

[367]

Ferrara, VIII. 522 — suoi artisti, X. 83; XII. 3.

Ferrari Gaudenzio, X. 73.

Ferrario Giulio Emilio, VII. 339.

Ferruccio, IX. 417.

Feste del medioevo, VII. 148 — veneziane, 153 — del Quattrocento, VIII. 384 — fiorentine, IX. 392.

Feudalismo, V. 373. 444; IX. 4.

Fiamma Galvano, VII. 326.

Fibonacci, VI. 412.

Fiere, VIII. 452.

Fieschi (congiura de’ ), IX. 465.

Filangeri Gaetano, XII. 269.

Filantropi del XVIII secolo, XII. 244.

Filelfo, VIII. 315.

Filicaja, XI. 447.

Filippo II, XI. 4.

Filippo Neri, I. 273 — (s.), X. 484.

Filippo V di Spagna, XII. 116.

Filologia ridestata, VIII. 323.

Filosofia greca e orientale, I. 326.

Filosofia romana, II. 291; III. 28. 305.

Filosofia cristiana, IV. 259 — della storia, 267.

Filosofia del Cinquecento, IX. 309.

Filosofia moderna, XIII. 507.

Filosofismo, XII. 607.

Finanze di Roma repubblicana, I. 434 — imperiale, II. 365 — dei Comuni, VI. 208; IX. 14 — del regno italo-franco, XIII. 182.

Fine del mondo, V. 432.

Fioravanti, X. 106.

Fiorentini, usi nel Seicento, XI. 306.

Firenze, antico Comune, VI. 52. — assediata da Radagaiso, IV. 351 — sua origine, VII. 34 — incrementi, 41 — sue fabbriche, 179 — suoi storici, 333 — ed Enrico VII, 376 — suo commercio, VIII. 524 — sua floridezza, VII. 469 — decadimento, VIII. 234 — suoi stemmi, 438 — assediata, IX, 391 — sotto i Medici, 428 — capitale d’Italia, XIV. 351.

Flagellanti, VIII. 184.

Flaminio Marcantonio, X. 404.

Flaminino T. Quinzio, I. 333.

Flavj, III. 217.

Floro, III. 384.

Folengo, X. 197.

Fontana Domenico, XI. 38. 352.

Fontanini, XII. 540.

Formole giuridiche, I. 182.

Formoso papa, V. 350.

Foro ecclesiastico, V. 159.

Forteguerra, XI. 439.

Foscari Francesco, VIII. 93. 105. 141; XII. 425.

Foscarini Antonio, XII. 37.

Foscarini Marco, XII. 541.

Foscolo, VII, 513; XIII. 421.

Fracardino, XI. 236.

Fracastoro, XI. 542.

Fra Moriale, VII. 460. 550.

Francescani, VI. 321.

Francesco d’Assisi, VI. 316.

Francesco di Lorena, XII. 305.

Francesco di Sales (s.), X. 558.

Francesco I di Francia, IX, 229. 345.

Francesco IV di Modena, XIII. 383.

Francesi ad Ancona, XIII. 409 — a Roma nel 49, XIV, 244.

Franchi, IV. 76.

Franchi, re invocati dal papa, V. 211.

Franchi muratori, VII. 172; XIII. 224 — a Napoli, XIII. 13; XIV. 349.

Francia (il), X. 82.

Francia rivoluzionaria del 48, XIV. 120.

Frangipani, VI. 101.

[368]

Fratelli Arvali, I. 415

Frati, VI. 313 — pacieri, VI. 440.

Fraticelli, VI. 354; VIII. 162.

Fregoso Paolo, VIII. 134.

Friuli sottomesso a Venezia, IX. 186.

Frontone, III. 334.

Frugoni, XII. 499.

Fucili, VI.. 582.

Fuentes governatore, XI. 137.

Fugger, IX. 512.

Funerali, VIII. 444.

Fusione de’ metalli, VI.. 189.

G

Gaeta assediata, XI.. 340.

Gaetano (s.), X. 482.

Gaffurio, X. 215.

Gajo, IV. 300.

Galba, III. 207.

Galee Veneziane, VIII. 515.

Galeno medico, III. 319.

Galiani, I. 233; XII. 503. 235.

Galilei, XI. 563.

Galla Placidia, IV. 375.

Gallerie, XII. 515.

Galli, I. 187. 297.

Gallia Cisalpina, I. 195. 323 — sue città, II. 35. 175.

Gallia conquistata da Cesare, II. 177.

Gallicane libertà, XII. 23.

Galluzzi, XII. 546.

Galuppi, XII.. 507.

Galvani, XII. 589.

Garibaldi sbarca in Sicilia, XI.. 337 — suoi tentativi, 341 — ad Aspromonte, 346 — a Mentana, 362.

Gastaldi, V. 427.

Gastaldi Pamfilo, VIII. 363.

Gattinara, IX. 352.

Gaudenti (frati), V. 566.

Gaufrido Malaterra, VI.. 324.

Gazarra, VIII. 500.

Gazzette, XI. 504.

Gelasio, V. 172.

Gelone, I. 235.

Gelsi, VIII. 470.

Gemelli Carreri, XI. 512.

Gemme, X. 110.

Genova, V. 533.

Genova, antico Comune, VI. 31; VII. 11 — suo governo, 61 — assediata, VII. 389. 421 — suo commercio, VIII. 499 — presa dai Francesi, IX.173 — saccheggiata, 248 — insidiata dai duchi di Savoja, XI. 68.

Genova e Luigi XIV, XII. 74 — bombardata, 76 — oppressa dagli Austriaci, 148 — assediata, XIII. 123 — data al Piemonte, 290.

Genovesi a Galata, VIII. 202.

Genovesi Antonio, XII. 234. 275.

Genserico, IV. 381. 423.

Gentile Alberico, X. 407; XI. 482.

Genti romane, X.. 273.

Geografi romani, III. 315.

Gerarchia ecclesiastica, V. 157.

Gerberto papa, V. 480.

Gerdil, XII. 278.

Germani, IV. 67. 203 — costumi e costituzioni, V. 92.

Gerone, I. 235. 314.

Gesuiti, X. 378. 479 — soppressi, XII. 188 — osteggiati, XI.. 69.

Ghibellini, VI. 89. 289; VI.. 43.

Ghiberti, X. 13.

Ghiottoneria romana, II. 265.

Ghislieri Michele, X. 421. 459.

Giambullari, V. 341; X. 139; X.. 159.

Giannone, IV. 116; VI.. 354; IX. 455; X. 505; XI. 127. 163; XII. 171. 283.

Giano, I. 114.

Giano della Bella, VI.. 55.

Giansenisti, XII. 18 — e Gesuiti, 21.

Giardini, XI. 303.

[369]

Gigli Girolamo, XI. 425.

Gildone, IV. 345.

Ginevra (scalata di), XI. 67.

Ginguené, VII. 359; XIII. 99.

Ginnastica, I. 215.

Gioberti, XII. 197; XIII. 512; XIV. 60. 69. 150. 220.

Giocondo (frà), X. 10.

Gioja Melchiorre, VI. 87; VIII. 563; XIII. 517.

Giotto, VII. 199; X. 19.

Giordani Pietro, XIII. 174. 428.

Giordano (frà), VIII. 170.

Giornali, XII. 536; XIV. 364.

Giornali romani, III. 23.

Giostre, VII. 138.

Giovane Italia, XIII. 403; XIV. 48.

Giovanna I di Napoli, VIII. 59.

Giovanna II, VIII. 74.

Giovanni dalle bande nere, IX. 252.

Giovanni da Procida, VII. 267.

Giovanni da Schio, VI. 445.

Giovanni di Capistrano, VIII. 221.

Giovanni di Luxenburg, VII. 400.

Giovanni d’Oleggio, VII. 565.

Giovanni XII, VII. 415. 521.

Giovanni XXII, VIII. 189. 569.

Giovenale, III. 373.

Gioviano, IV. 200.

Giovio Paolo, IX. 257; X. 123. 244.

Girardo cremonese, VI. 403.

Girolamo Miani (s.), IV. 215. 486.

Giubileo, VII. 285. 547.

Giudizj di Dio, V. 111.

Giudizj fra’ Romani, II. 127. 148. 200.

Giudizj nei Comuni, VI. 191.

Giugurta, II. 22.

Giuliano apostata, IV. 181.

Giuliano da Majano, X. 11.

Giulio II, IX. 179-217. 299.

Giuochi circensi, II. 87.

Giureconsulti romani, IV. 290. 300 — nel Quattrocento, VIII. 347 — del Seicento, XI. 492. — moderni, XIII. 523.

Giuseppe Flavio, III. 388.

Giuseppe II, XII. 298. 332.

Giusti, XIII. 473.

Giustino storico, III. 384.

Giustizia migliorata, IX. 5.

Gladiatori, II. 88.

Goldoni, XII. 485. 497.

Gonzaga nel Monferrato, XI. 196. 201.

Gorani, XII. 450; XIII. 21.

Gordiano, IV. 37.

Goti, IV. 75. 204 — lor regno in Italia, V. 25.

Gotica architettura, V. 43; VII. 171. 176.

Governatori romani tirannici, II. 60.

Gozzi Carlo, XII. 486.

Gozzi Gaspare, XII. 552.

Gracchi, I. 453.

Grandi Guido, XII. 309.

Grano turco, XI. 294.

Gravina, XI. 498.

Graziano, IV. 204.

Grecia Magna, I. 205. 266; II. 40.

Grecia soggiogata, I. 347.

Greci servono, istruiscono, corrompono Roma, I. 358 — lor governo in Italia, V. 68.

Greco studiato in Italia, VIII. 305.

Gregorio Magno, V. 177.

Gregorio VII, V. 483. 507.

Gregorio XIII, X. 465.

Gregorio XV, XI. 45.

Gregorio XVI, XIV. 73.

Grigioni, VIII. 91.

Grimoaldo, V. 196.

Grossi, XIII. 444.

Guarnieri, VII. 459.

Guarnacci, I. 35. 99; XII. 520.

Guastalla, XI. 195.

Guelfi, VI. 89. 289; VII.43.

Guercino, XI. 365. 367.

[370]

Guerra Macedonica, I. 333. 321 — puniche, I. 286. 303. 385 — Servile, II. 14 — Giugurtina, 19 — Sociale, 42 — Cimrica, 28 — Civile, 68. 291. 306 — di Spagna, 78 — di Modena, 314 — di Perugia, 336 — di Castro, XIII. 13 — di Candia, 44 — di Morea, 52 — della successione spagnuola, 95.

Guerra santa del 48, XIV. 143.

Guerrazzi, XIII. 466; XIV. 200.

Guerrieri, IX. 521. 535.

Guerrino Meschino, VII. 248.

Guglielmo il Malvagio, VI. 226 — il Buono, 227.

Guicciardini, IX. 255; X. 149.

Guidi Alessandro, XI. 447.

Guido Bonato, VI. 405.

Guido Guinicelli, VII. 241.

Guisa (duca di) a Napoli, XI. 180.

H

Hayez, XIII. 566.

Hoffer, XIII. 191.

Hutten, IX. 324.

I

Iberi, I. 44.

Iconoclasti, V. 205.

Ignazio (s.), X. 377.

Ildebrando, V. 483.

Imelda de’ Lambertazzi, VII. 267.

Immunità vescovili, VI. 10.

Impero romano antico, II. 350 — sua nuova costituzione, IV. 131 — sua caduta, 392.

Impero d’Occidente rinnovato, V. 231. 252.

Imperatori italiani, V. 322.

Imperatori, loro diritti, VI. 416.

Impero d’Oriente, sua caduta, VIII. 200. 217.

Impostori (i tre), VI. 453.

Imprese, X. 309.

Improvvisatori, XII. 497; XIII. 174.

Incisione, X. 28; XII. 526.

Indice (l’), X. 591.

Indovinamenti, III. 242.

Indulgenze, IX. 291.

Industria romana, III. 295 — nel basso impero, IV. 155.

Ingegni bizzarri, XI. 328.

Inghirami, XIII. 537.

Inglesi in Sicilia, XIII. 210.

Innocenzo III, VI. 242. 313.

Innocenzo IV, VI. 458.

Innocenzo VIII, VIII. 291; IX. 67.

Inquisitori veneti, VII. 84.

Inquisizione (santa), VI. 346 — a

Firenze, VIII. 13; X. 414.

Insegnamento mutuo, XIV. 374.

Intieri Bartolomeo, XII. 247.

Investiture, VI. 274.

Irnerio, VI. 374.

Iscrizioni, X. 18.

Italia, descrizione, I. 9 — il nome, 10; II. 46 — sue fasi geologiche, 13 — sua antichità, 35 — sue primitive istituzioni, 113 — sapienza primitiva, 135 — sua popolazione antica, 301 — nell’impero, 371 — sua geografia a. C., 34 — alla morte di Cesare, 244 — sotto gli Antonini, III. 276 — sotto Costantino, iv. 133 — spopolata, 355 — sotto Teodorico, V. 31 — sotto i Greci, 68 — sotto i Franchi, 283 — feudale, 295 — al tempo di Ottone Magno, 361. — dopo caduti gli Hohenstaufen, VII. 5 — nelle repubbliche, 93 — al fine del medioevo, VIII. 565 — nel Seicento, XI. 6. 257 — costumi del Settecento, XII. 435 — al fine del Settecento, XII. 597 — nel secolo XVIII, XII. [371] 155 — ricomposta nel 1815. XIII. 287.

Italiano (prime scritture in), XV. 140.

Itinerarj, VI. 533.

J

Juvara, XII. 528.

K

Kircher, XI. 543. 554.

L

Labeone, II. 233.

Ladislao di Sicilia, VIII. 69.

Lagrangia, XII. 574.

Lalande, XII. 445.

Lami, XII. 522.

Lampredi, XII. 266.

Lana (arte della), VIII. 467.

Lancellotti, XI. 435.

Lancisi, XI. 552.

Landi Ortensio, X. 253.

Lando, VII. 567.

Lando (Michele di), VIII. 241.

Lanfranco di Pavia, VI. 631.

Lanzicnecchi, XI. 207.

Latina lingua: vernacola, VII. 209 — continua nel medioevo, 229; X. 118 — sue vicende, XV. 18 — differenze dall’italiano, XV. 77.

Latinisti, XII. 488.

Lattanzio, IV. 214.

Laura (madonna), VII. 482.

Lazio, I. 137.

Lebbrosi, VI. 396.

Lega Achea, I. 331. 351 — Etolia, 331 — Lombarda, VI. 135. 430 — Toscana, 248 — di Cambrai, IX. 187 — santa, 207. 354.

Leggendarj, V. 271.

Legge personale, V. 135 — (professione di), 136.

Leggi agrarie, I. 439; II. 132 — Licinia, I. 442 — Toria, 471 — Giulia e Plauzia, II. 50 — Cornelie, 75 — Gabinia, 96 — Manilia, 101 — Suntuarie, 264 — di Cesare, 235 — Regia, III. 79. 281 — Papia, IV. 319 — feudali, V. 393. 445. — Canoniche, 170 — suntuarie, VII. 124; VIII. 383 — X. 308.

Legione romana, I. 296.

Legislazione romana, II. 295.

Leiva (Anton de), IX. 357.

Leonardo da Vinci, X. 51.

Leone iconoclasta, V. 209.

Leone III, V. 249.

Leone X, IX. 223. 237. 299; X. 1. 229. 366.

Leone XII, XIII. 397.

Leon Leoni, X. 78.

Leopardi, XIII. 430.

Leopoldo II granduca, XIV. 3. 196.

Lepido, II. 308-340.

Lesdiguières, XI. 63.

Leti Gregorio, XI. 27. 339.

Letteratura corruttrice de’ Romani, II. 279 — secol d’oro, III. 1 — d’argento, 304 — del basso impero, IV. 236.

Letteratura al Mille, V. 430 — protetta nel Quattrocento, VIII. 328 — IX. 270 — del Cinquecento, X. 222 — nel Seicento, XI. 384 — nel Settecento, XII. 437.

Letteratura imperiale, XIII. 169.

Letteratura abjettita, XIV. 363. 372.

Letteratura legale, IV. 291 — del medioevo, V. 15. 40.

Letteratura paganizzata, IX. 306.

Liberalismo, nasce, XIII. 299 — religioso, 329.

Liberalismo, XIV. 41. 378.

[372]

Liberio papa, IV. 179.

Liberti, II. 9. 272.

Libri Guglielmo, VI. 87. 383.

Libri raccolti, VIII. 300. 311. 331. 353. 368.

Libro d’oro veneto, VII. 89.

Licinio Stolone, I. 185.

Liguori Alfonso, XII. 182.

Liguri antichi, I. 46. 104.

Lingua italiana, VII. 205. 223 — di Dante, 255 — nel Quattrocento, VIII. 336; X. 134 — nel Settecento, XII. 549 — questioni ultime, XIII. 452; XV, 1.

Lingue (studio di), X. 126.

Lippi, XI. 439.

Litta Pompeo, XIII. 500.

Liutprando di Cremona, VII. 323.

Liutprando, V. 209. 213.

Livio Druso, II. 43.

Livorno, VIII. 526 — sue origini, XI. 244.

Lodovico II, spedizione in Calabria, V. 315.

Lodovico il Bavaro, VII. 392. 415.

Lodovico il Pio, sua donazione, V. 291.

Lombardi artisti, X. 69.

Lombardia meridionale, V. 449.

Lombardia sotto gli Spagnuoli, XI. 77 — sotto Maria Teresa, XII. 292.

Lombardo-veneto (regno) dopo il 1830, XIV. 26 — sollevazione, 125 — rioccupata, 171.

Longobardi, V. 70. 90. 131 — convertiti, 85 — loro re, 186 — lor fine, 241.

Lorenzino de Medici, IX. 433.

Lorgna, XII. 578.

Lotto, VIII. 440.

Lotto, XI. 79.

Luca della Robbia, X. 15.

Luca Giordano, XI. 372.

Lucani, I. 109.

Lucano, III. 358.

Lucca, antico Comune, VI. 37. 161. 194; VIII. 255; IX. 468; XII. 370.

Lucca sotto i Borboni, XIV. 9. 103.

Lucca (riformati a), X. 434.

Lucchesini Girolamo, XIII. 152.

Lucrezia Borgia, IX. 138.

Lucrezio, III. 38.

Lucullo, II. 101.

Luigi d’Angiò, VIII. 65.

Luigi II d’Ungheria, VIII. 60.

Luigi XII, IX. 102. 135.

Luigi XIV, XII. 59.

Luini, X. 70.

Lusso romano, II. 255.

Lusso nell’età imperiale, III. 131 — del Quattrocento, VIII. 378 — del Cinquecento, X. 307 — nel Seicento, XI. 298.

Lutero, IX. 325.

M

Macdonald, xiii. 107.

Macedonia vinta, I. 343.

Machiavelli, VII. 350; IX. 121. 145. 147. 163. 262; X. 151. 275.

Madama Reale, XI. 222.

Maderno, XI. 355. 356.

Maffei Pietro, XI. 509.

Maffei Scipione, X. 357; XII. 541.

Maggi Carlo, XI. 449.

Magliabechi, XI. 332.

Magnetismo, XII. 590.

Magone, I. 283.

Mainardino, VIII. 159.

Maj, XIII. 479.

Majoliche, X. 114.

Malacrida, XII. 195.

Maliardi, VIII. 165.

Malpighi, XI. 550.

Manfredi, VI. 476. 487.

Manfredi Eustachio, XII. 579.

Manilio poeta, III. 47.

Manlio Torquato, I. 199.

Mantova, antico Comune, VI. 45; [373] VII. 406 — ultimi suoi duchi, XI. 201 — saccheggio, 216.

Manuzio Paolo, X. 448. 449.

Manzoni, XIII. 445.

Manzoni, sulla lingua, XV. 216.

Maometto II, VIII. 213. 227.

Mappe geografiche, VIII. 537.

Maratta, XI. 372.

Marcantonio oratore, II. 108 — console e triumviro, 308-346.

Marchesi, VII. 17.

Marchi, X. 107.

Marciano Cappella, IV. 239.

Marco Aurelio, III. 258.

Maramaldo, IX. 419.

Mare chiuso, VII. 72.

Maria Teresa, XII. 140.

Maria Vergine, sue lettere, IV. 256 — (culto a), VI. 355.

Marin Sanuto, VI. 519.

Marini poeta, XI. 401.

Mario (Cajo), II. 19. 26. 52.

Marozia, V. 342. 352.

Marsigli (conte), XII. 113.

Marsilio Ficino, VIII. 307.

Martinengo, IX. 277.

Martini G. B., XII. 479.

Martino IV, VII. 269.

Martiri, IV. 106.

Marziale, III. 355.

Masaniello, XI. 170.

Maschere, VIII. 439.

Massenzio, IV. 79.

Massimiliano d’Austria, IX. 109. 239.

Massimino, IV. 39.

Massinissa, I. 385.

Mastino della scala, VII. 427.

Masuccio, X. 80.

Matematiche, VI. 412; XI. 559.

Matematici del Settecento, XII. 573 — moderni, XIII. 539.

Matilde contessa, V. 500. 514.

Matranga, I. 37.

Matrimonio romano e cristiano, IV. 314. 319.

Maurolico, XI. 559.

Mazarino, XI. 216. 183. 225.

Mazocchi, XII. 521.

Mazza Angelo, XII. 555.

Mazzini, XIII. 403.

Mazziniani, XIV. 348.

Mazzolini, X. 362.

Mazzuchelli Gianmaria, XII. 539.

Mecenate, II. 339. 355 — suoi versi, III. 77.

Mecenati del Cinquecento, X. 226.

Medaglie, X. 111.

Medici (Caterina de), XI. 246 — Maria, 250.

Medici (de) Gian Giacomo, IX. 350.

Medici (de), origine, VIII. 253 — Cosmo, 263 — Lorenzo, 265. 285. 294; IX. 218; X. 135 — IX. 396. 402. 423 — Alessandro, 426 — Lorenzino, 433 — Cosmo, 436. 479. 498.

Medici romani, III. 316; IV. 249.

Medici nel Quattrocento, VIII. 350 — del Settecento, XII. 591.

Medici moderni, XIII. 549.

Medici ultimi, XII. 127.

Medicina pitagorica, I. 226.

Medicina, VI. 393.

Medioevo, V. 1 — suoi storici VII. 321 — sua fine, VIII. 562.

Melloni, XIII. 543.

Melodrammi, X. 217.

Melzi d’Eril, XIII. 139.

Mengs, XII. 515.

Menochio, XI. 495.

Meo Patacca, XI. 447.

Mercanti, VIII. 411.

Mercati Micheli, XI. 541.

Mercenarie armi, VII. 456. 570. 574.

Merlin Coccaj, X. 197.

Messalina, III. 105.

Messina in gara con Palermo, XII 66 — sollevazione e danni, 68.

Messi regj, VI. 158.

[374]

Metastasio, XII. 469.

Metelli, II. 21. 25.

Metri italiani, VII. 232.

Mezzofanti, XIII 481.

Micali, I. 102.

Michelangelo, X. 36. 229. 280 — suoi seguaci, 63.

Michelet, IX. 455; XV. 257.

Micheli Pier Antonio, XII. 581.

Milano capitale dell’impero romano, IV. 60 — distrutta da Uraja, V. 58 — rifuggiti a Genova, 76 — suoi arcivescovi, 436 — il Barbarossa, VI. 124 — Comune; VII. 7. 19 — antico Comune, VI. 47 — suoi arcivescovi, VI. 69 — suo governo sotto i Visconti, VIII. 21. 117 — repubblica, 122 — straziato dagli Spagnuoli, IX. 359 — occupato dai Gallosardi, XII 133.

Militari italiani, XII. 112.

Milizie comunali, VII. 450.

Milizia Francesco, XII. 534. 571.

Milone, II. 196.

Milton, XI. 427 — tradotto, XII. 499.

Mimi, II. 233.

Mine, IX. 176.

Miniature, VII. 194; X. 108.

Mino da Fiesole, X. 16.

Miollis, XIII. 225.

Miracoli, X. 475; IX. 382.

Missionari in Oriente, VI. 509.

Missionarj, XI. 46.

Missioni, X. 469. 491.

Mistici, VI. 369.

Misure romane, XV. 259.

Mitra, IV. 185.

Mitradate, II. 59. 98.

Mocenigo doge, VIII. 94.

Modena (riformati a), X. 393 — suoi duchi, XII. 142 — suoi uomini illustri, XIII. 172 — (Francesco IV di), 383.

Monache nel Seicento, XI. 263.

Monaci, origine, IV. 232; V. 161; VI. 313.

Moncalvo pittore, XI. 377.

Monete romane, II. 435; XV. 299. — dei Comuni, VI. 211.

Monferrato, IX. 450; XI. 196.

Monferrato (marchesi di), VII. 434. 441.

Mongoli, VI. 507.

Monluc, IX. 487.

Montaigne in Italia, XI. 322.

Montalembert, XIV. 105.

Montecassino, V. 166.

Montecuccoli, XII. 113.

Monteverde, XII. 463.

Monti di Pietà, VIII. 493.

Monti Vincenzo, XIII. 172. 418. 456.

Moralisti del Cinquecento, X. 154.

Morata, X. 419.

Morellet, XII. 255. 257.

Morelli Jacopo, XIII. 183.

Moretto, X. 92.

Morgagni, XII. 594.

Moro Lazzaro, XII. 585.

Morone Girolamo, IX. 316 — cardinale, X. 395. 445.

Morosini Tommaso, XII. 46.

Morte nera, VII. 474.

Movimenti del 1847. XIV. 80. 119.

Müller Max., XV. 2. 26. 100.

Müller Ottfried, I. 102.

Municipali storie, IX. 268.

Municipj romani, I. 417 — nel basso impero, IV. 148 — greci, V. 69 — sotto i Longobardi, 144.

Murat, XIII. 207. 251. 259. 277. 283.

Muratori, V. 31. 147. 353. 371; VII. 321. 328. 340. 342. 353; XII. 491.

Muro caledonio, IV. 20.

Musaici, VII. 188.

Musica, VI. 413; X. 215. 496 — nel [375] Settecento, XII. 462 — moderna, XIII. 575.

Mussato Albertino, VII. 327.

Muzio, X. 165. 362.

N

Napoleone Buonaparte, XIII. 24 — in Lombardia, 29 — in Egitto, 75 — ritorna, 119 — vince e organizza, 131 — imperatore e re, 145 — in Russia, 240 — detronizzato, 267 — ritorna, 278.

Napoletano conteso fra Austria e Francia, XII. 99.

Napoletano dialetto, XV. 160.

Napoli sotto i vicerè, XI. 97.

Napoli sotto i Napoleonidi, XIII. 194 — sua rivoluzione, 336 — dopo il 1821, XIV. 17 — costituzione del 48, 113. 162 — ribellata, XIV. 339 — scontenta, 344.

Napoli, suoi artisti, X. 79.

Nardi, IX. 258.

Narsete, V. 65.

Naturalisti, XI. 534.

Naturalisti del Settecento, XII. 583.

Naturalisti moderni, XIII. 544.

Negri Francesco, X. 396.

Negroponte perduto, VIII. 227.

Neoguelfi, XIV. 58. 70.

Neri Pompeo, XII. 233.

Nerone, III. 106.

Nerva, III. 235.

Nestorio, IV. 231.

Nexi, I. 170.

Nicolò III, VII. 268.

Nicolò V, VIII. 271.

Niebuhr, I. 102; XV. 253.

Nielli, X. 29.

Nifo, IX. 312.

Nobiltà veneta, VII. 72 — milanese, XI. 89 — toscana, 242 — italiana, 268.

Nobili e plebei nelle repubbliche, VI. 281; IX. 11.

Nomi romani, XV. 273.

Non intervento, XIII. 389.

Normanni, V. 450.

Normanni in Sicilia, VI. 218 — loro fine, 237.

Note musicali, VI. 413; X. 207.

Note tironiane, II. 113.

Novaro, VIII. 349.

Novelle moderne, XIII. 471.

Novellieri, VII. 519; X. 151.

Nudità artistiche, X. 40. 64.

Numanzia, I. 392.

Numismatici del Settecento, XII. 522.

O

Obelisco del Vaticano, XI. 39.

Ochino, X. 388.

Odissea per l’Italia, I. 37.

Odenato, IV. 45.

Odoacre, IV. 131; V. 19.

Omero italiano, I. 37.

Onorio imperatore, IV. 342.

Onorio IV, VII. 273.

Oratoriani, X. 485.

Orazio, III. 49.

Orchi Emanuele, XI. 421.

Ordini monastici, V. 477 — cavallereschi, 565.

Oriani, XIII. 536.

Orientalisti, XII. 490.

Orobj, I. 103.

Orsini Isabella, XI. 346.

Ortensio, II. 116

Ortes, XII. 231.

Osci, I. 105.

Osco, XV. 12. 192.

Ospedale di Milano, XII. 531.

Ossuna governatore di Milano, XI. 79 — di Napoli, 139.

Otone imperatore, III. 209.

Ottaviano, vedi Augusto.

Ottone il grande, V. 355.

[376]

Ottone IV, suo giuramento, VI. 272. 310.

Ovidio, II. 283; III. 42.

P

Pace del principe, VI. 122 — di Costanza. 147 — di Paquara, 446 — di S. Ambrogio, VII. 21 — di Calatabellota, 276 — di Torino, VIII. 48 — di Bagnolo, 289 — di Barcellona, IX. 387 — di Crepy, 461 — di Cateau Cambrésis, 519 — di Cherasco, XI. 217 — dei Pirenei, 228 — di Carlowitz, XII. Passarovitz, 57 — Utrecht, 109 — Vienna, 139 — Aquisgrana, 153 — di Campoformio, XIII. 61 — di Lunéville, 126 — di Firenze, 129 — di Presburgo, 155 — di Vienna, 193.

Pacioli Luca, VIII. 348.

Pacuvio, III. 3.

Padova, VII. 424.

Padri santi, IV. 212. 229. 235. 263.

Paganesimo persistente, IV. 183. 210. 223. 229.

Pagano Mario, XII. 267.

Palagi, XIII. 567.

Palazzi, VIII. 375.

Palazzo ducale, X. 95.

Palecope, I. 24.

Paleologhi, VIII. 205. 220.

Palermo, VI. 219.

Palestrina, X. 497.

Palimsesti, VIII. 356. 372.

Palladio, X. 98.

Pallavicini, IX. 244.

Pallavicino Ferrante, X. 549; XI. 337. 430.

Palleschi e Arrabbiati, IX. 403.

Palma pittore, XI. 379.

Palmira, IV. 45.

Paludi pontine, XII. 328.

Pandette, IV. 307; VI. 373.

Pandolfini, VIII. 414.

Panegiristi romani, IV. 246.

Panigarola. XI. 419.

Panvinio, X. 128.

Paolino diacono, V. 274.

Paolino (s.), IV. 218.

Paoli Pasquale, XII. 390; XIII. 7.

Paolo Diacono, V. 77.

Paolo Emilio, I. 342.

Paolo III, IX. 471; X. 376. 382.

Paolo IV, IX. 514; X. 413.

Paolo V, XI. 44.

Paolo Veronese, X. 89.

Papessa Giovanna, V. 348.

Papi, loro elezione, V. 171 — loro primato, 175 — e gli imperatori greci, 192 — origine della loro signoria, 227 — e gli imperatori franchi, V. 291 — loro età ferrea, 347 — loro ingrandimento, 170 — loro apogeo, VI. 415 — in Avignone, VII. 314. 520; VIII. 145 — lor dominazione, 155 — doppj, 180 — in lotta coi principi, XII. 280.

Parini, XII. 556.

Parma assediata, VI. 464 — signoria dei Bossi, IX. 52.

Parma (Ferdinando duca di), XII. 284.

Parmigianino, X. 85.

Paruta, IX. 266; XI. 483.

Pasquinate, III. 376; X. 391.

Passaggi alpini, I. 27.

Passavanti, VII. 506.

Passeroni, XII. 555.

Patarini, V. 488; VI. 337.

Patrizj e plebei di Roma, I. 397.

Pazzi (congiura de’ ), VIII. 281.

Pedagoghi romani, III. 322.

Pelasgi, I. 50.

Pellegrinaggi, V. 543.

Pellegrini Tibaldi, X. 102.

Pepino, V. 213. 219 — sua devozione, 225.

Pepoli, VII. 408. 553.

[377]

Perfetti, XII. 497.

Pergolesi, XII. 473.

Persecuzioni de’ cristiani, III. 197; IV. 105. 117. 190.

Perseo, I. 340. 345.

Persia, IV. 34.

Persio, III. 373.

Pertinace, IV. 10.

Perugino, X. 50.

Pescara, IV. 346.

Peste, I. 203 — del 1575 e 1630, VI. 210.

Pesto, I. 211.

Petrarca, VII. 423. 481. 530. 544. 557; VIII. 38. 339.

Petrarchisti, X. 165.

Petronio, XV. 50.

Petronio Arbitro, III. 377.

Piazzi Giuseppe, XIII. 336.

Piccinino Nicola, VIII. 111. 282.

Piccolomini Alfonso, XI. 25.

Piccolomini (Enea Silvio), VIII. 198. 271.

Pico della Mirandola, VIII. 308; IV. 313; X. 339.

Piemonte annesso alla Francia, VIII. 95. 153 — rivoluzione del 1821, XIII. 351 — dopo il 1830, XIV. 10 — riforma, 94 — guerreggia l’Austria, 136.

Pier Damiani (s.), V. 475.

Pier della Valle, VIII. 560.

Pieri Mario, XIII. 442.

Piermarini, XII. 530.

Pietro e Paolo (ss.), III. 195.

Pietro eremita, V. 549.

Pietro Leopoldo, XII. 307.

Pietro Lombardo, VI. 363 — D’Abano, 406 — dalle Vigne, 428. 468 — di Aragona, VII. 270.

Pietro martire (s.), VI. 351.

Pigafetta, VIII. 552.

Pignotti, XII. 547.

Pilati, XII. 268.

Pino Ermenegildo, XII. 276.

Pio IV, X. 439.

Pio V, X. 459.

Pio VI, XII. 218. 326. 331.

Pio VII. Ostilità, contro di lui, XIII. 214 — prigioniero, 219 — ristabilito, 275. 374.

Pio VIII, XIII. 383.

Pio IX, XIV. 79. 155. 192.

Pirati, II. 94.

Pirro, I. 272.

Pisa, II. 37; v. 535 — antico Comune, VI. 34. 57 — suoi edifizj, VII. 166. 192 — decade, VIII. 9. 523.

Pistoja (sinodo di), XII. 324.

Pitagora, I. 217.

Pitti, VIII. 263 — Bonaccorso, 418. 450.

Pittori romani, III. 426.

Pittori rissosi, XI. 368 — macchinisti, 371.

Pittura risorge, VII. 194; X. 19 — a olio, 22.

Pitture, lor prezzo, XI. 365.

Plana, XIII. 537.

Platina, VIII. 276.

Plauto, i. 363; III. 5.

Plebisciti romani, I. 407.

Pletone, IX. 308.

Plinio Cecilio, III. 339; IV. 103.

Plinio Secondo, III. 309.

Plutarco, II. 162; III. 389.

Podestà, VI. 170.

Poemi cavallereschi, X. 186.

Poesia pastorale in Sicilia, I. 253.

Poetesse, X. 201.

Poeti antichi di Roma, I. 361.

Poeti erotici, romani, II. 280.

Poeti latini, III. 36. 48 — imitano i Greci, 72 — del basso impero, IV. 247 — cristiani, 252 — scolastici, V. 40 — italiani primi, VII. 239 — latini in Italia, VIII. 335 — del Cinquecento, X. 170 — latini nel Seicento, XI. 452 — odierni, XIII. 468.

Poggio, VIII. 309.

Polibio, I. 358; III. 14.

[378]

Poliziano, VIII. 300. 335; X. 135.

Pollione, III. 77.

Polo Marco, VIII. 531.

Polvere, VII. 576.

Pompej, III. 441 — scoperto, XII. 164.

Pompeo Magno, II. 82. 163-220 — Sesto, 337.

Pomponazzi, IX. 309.

Pomponio Leto, VIII. 341.

Pontida, VI. 134.

Pontifizie autorità, IX. 19.

Popolo sotto il feudalismo, V. 400.

Porcari, VIII. 272.

Porta (G. B. della), X. 328.

Porziuncula, VI. 323.

Possevino, X. 471; XI. 508.

Possidenza in Roma repubblicana, I. 440; II. 130.

Po, suoi cambiamenti, I. 23.

Poveraglia a Roma, II. 251.

Pozzi artesiani, XI. 544.

Predicatori grotteschi, VIII. 172.

Predicatori, IX. 288 — secentisti, XI. 419 — moderni, XII. 510.

Preistoriche antichità, I. 60.

Prestiti, VII. 110.

Pretori romani, I. 411.

Prina, XIII. 184. 269.

Processo inquisitorio, VI. 345.

Professioni di legge, VI. 66. 184.

Prony, suoi studj sull’Italia, I. 24.

Properzio, III. 40. 62.

Proscrizioni, II. 56. 71. 317.

Provenza, II. 20.

Provincie romane, I. 429.

Provincie senatorie, II. 361.

Prudenzio Aurelio, IV. 253.

Publio Siro, II. 233.

Pulci, X. 175.

Punto d’onore, XI. 270.

Q

Quadrio Saverio, XII. 539.

Quintiliano, III. 333.

Quirini Angelo, XII. 518.

R

Radagaiso, IV. 350.

Radicati Alberto, XII. 176.

Rafaello, X. 32 — suoi scolari, 60.

Ragusa, VIII. 521.

Ragusi, XII. 56.

Ramazzini, XI. 544.

Ramorino, XIV. 231.

Rappresaglie, VIII. 451.

Rappresentazioni nel Seicento, XI. 301.

Rappresentazioni teatrali, VIII. 434.

Rasori, XIII. 550.

Ratto delle Veneziane, V. 526.

Ravenna, edifizj gotici, V. 44 — suo esarcato, 186 — presa da Liutprando, 209 — suoi arcivescovi, V. 313 — suoi edifizj, VII, 160. 404.

Re di Roma, I. 137.

Re Filippo, XII. 246.

Redenzione (la), III. 183.

Redi, XI. 545.

Regalie, VI. 155.

Reggio, I. 243.

Regisole, IX. 375.

Regno d’Italia nel medioevo, VI. 98.

Regno d’Italia, XIII. 148. 160. 271 — d’Etruria, 152.

Regno d’Italia nuovo, XIV. 341.

Religione a Roma imperiale, III. 176.

Religioni italiche primitive, I. 120.

Reliquie, V. 541; VI. 527.

Renata, X. 385.

Reni Guido, XI. 366.

Repubblica ambrosiana, VIII. 122.

Repubblica cisalpina, XIII. 36. 63. 135 — ligure, 71 — romana, 83 — partenopea, 89. 104 — italiana, 137.

Repubbliche Italiane, VI. 153 — loro sviluppo, 268.

[379]

Rezia, VIII. 91.

Rezzonico Gastone, XII. 501.

Riccioli, XI. 513. 594.

Ricci Lodovico, XII. 233.

Ricci Scipione, XII. 321 — sua ritrattazione, 617.

Riccoboni, XII. 483.

Ricimero, IV. 427.

Riforma religiosa, IX. 281; X. 661 — in Italia, 385 — a Venezia, 513 — ne’ baliaggi svizzeri, 566.

Rima, VII. 233.

Rinuccini, VIII. 421.

Riso, VIII. 461.

Ritmo di Modena, V. 340.

Ritratti romani, III. 409.

Rivoluzione francese, XIII. 1.

Rivoluzioni del 1831, XIII. 391. 468.

Roberti G. B., XII. 509.

Roberto di Napoli, VII. 384.

Roberto Guiscardo, V. 461.

Roberto il Savio, VIII. 56.

Robertson, IX. 242.

Rodi assediata, VIII. 231.

Rodolfo d’Absburgo, VI. 505; VII. 3.

Roma, sua descrizione, III. 420.

Roma, sue origini, I. 140; XV. 239 — Governo primitivo, I. 165 — incivilita e corrotta, 357.

Roma repubblica, sua costituzione, I. 158. 396.

Roma nel cader dell’impero, IV. 364. 415 — assediata da Alarico, 368 — saccheggiata da Genserico, 423 — presa dai Goti, V. 65 — nel medioevo, VI. 99 — e il Barbarossa, 120 — senza i papi; VII. 527 — nel Cinquecento, IX. 129 — saccheggiata dai Colonnesi e dai lanzi, IX. 365 — restaurata, XI. 37.

Roma (Stato) nel 1600, XI. 16. 34 — XII. 7.

Roma conquistata dai Francesi, XIII. 80 — occupata da Napoleone, 224 — repubblica nel 49, XIV. 193 — difesa e vinta, 247.

Romagnosi, XIII. 520.

Romani in Grecia e in Oriente, I. 325.

Romani sotto i Longobardi, V. 126. 145.

Romantici, XIII. 434.

Romanzi, VIII. 443; XI. 432 — cavallereschi, X. 173 — moderni, XIII. 449. 464.

Romualdo (s.), V. 479.

Roncaglia (diete di), V. 442; VI. 125.

Roscio comico, III. 12.

Rosmini, XIII. 510.

Rosmunda, V. 78.

Rossini, XIII. 576.

Rossi Pellegrino, XIII. 531; XIV. 180.

Rubicone, II. 208.

Ruggero di Flora, VII. 454.

Ruggero di Sicilia, VI. 103.

Ruggero normanno, V. 465.

Russia (campagna di), XIII. 240.

Rutilio Numaziano, II. 38.

S

Sacchetti Franco, VII. 519.

Sacchi Giovenale, XII. 480.

Sacchini, XII. 473.

Saccone Piero, VIII. 245.

Sacerdoti romani, I. 415.

Sacile, IX. 196.

Sagornino, VII. 329.

Sagrifizj umani, I. 124.

Salerno (scuola di), VI. 394.

Sallustio, II. 155. 168.

Salvator Rosa, XI. 369.

Salviano, IV. 407.

Salviati, X. 139.

Salvini, XI. 427.

Sammicheli, X. 103.

[380]

Sampiero, XII. 375.

Sangallo, X. 93.

San Leucio, XII. 369.

San Marino, IX. 139.

San Marino, XII. 124; XIII. 47.

Sannazaro, X. 118.

Sanniti, I. 202.

Sansovino, X. 97.

Sante Bartoli, XI. 381.

Santi Padri, IV. 212. 229. 235. 263.

Santi del Cinquecento, IX. 293.

Santi, X. 479 — fiorentini, 489.

Sant’Uffizio, X. 344; XI. 291; XII. 315.

Santi del XVIII secolo, XII. 182.

Sardegna, V. 535.

Sarpi frà Paolo, X. 518. 525.

Saracini in Sicilia, V. 299. 450 — in Sardegna, 537.

Saracini in Sicilia, VI. 220.

Sardegna, origini, I. 111; XII. 344.

Sassetti, VIII. 558; XI. 515.

Sassoferrato, XI. 373.

Satira latina, III. 36. 54. 368.

Saturno, I. 114.

Sauli (s. Alessandro), X. 483.

Sanfedisti, XIII. 336. 387.

Savoja (conti di), VII. 431 — duchi, 443; IX. 449; XI. 50.

Savoja (ducato) nel Seicento, XII. 82 — incrementi, 110 — invasa dai Francesi, XIII. 11 — ceduta, 43.

Savonarola, IX. 23-101.

Scacchi, VIII. 441.

Scaligeri, VII. 427; VIII. 8; X. 248.

Scamozzi, X. 100.

Scarella, XII. 275.

Scarpa, XII. 596.

Scaruffi, XI. 490.

Schiavi, II. 1; IV. 146. 324; VI. 81 — sotto i Longobardi, V. 122 — sotto il feudalismo, 403 — emancipati, VI. 81; XII. 51.

Schinner Matteo, IX. 203.

Scipione Africano, I. 316. 393 — altri, 357. 379. 463.

Scienze occulte, VI. 400; X. 327.

Scioppio, XI. 510.

Scisma (gran), VIII. 181.

Scolastica, VI. 356.

Scomunica, V. 495.

Scoperte geografiche, VIII. 540.

Scoperte archeologiche, XII. 517.

Scoppa Antonio, XIV. 374.

Scrittori del cinquecento, XV. 220.

Scultori romani, III. 428.

Scultura risorge, VII. 191; X. 15.

Scuole giuridiche, IV. 299.

Scuole romane, IV. 237.

Secentisti, XI. 416.

Segesta, I. 263.

Segneri Paolo, XI. 430.

Segni, IX. 258.

Segretarj, X. 159.

Sejano, III. 87.

Selinunte, I. 261.

Sella Quintino, XI. 542.

Senato romano, I. 401.

Senato di Milano, XI. 81.

Seneca, III. 167 — tragedie, 367 — cristiano, IV. 111.

Sepolcri etruschi, I. 87.

Sepolcri, VII. 175; X. 17.

Serra Antonio, XI. 491.

Serrar del gran Consiglio, VII. 77.

Sertorio, II. 78.

Seta, IV. 54.

Sette Comuni (i), IX. 197.

Settimio Severo, IV. 15.

Sforza Attendolo, VIII. 75 — Francesco, 110. 130 — Galeazzo Maria, IX. 47 — Lodovico il Moro, 52-118 — Massimiliano, 213. 231 — resi a Milano, 245 — ultimi, 445.

Sibari, I. 214.

Sibille, XV. 267.

Sicilia primitiva, I. 229 — sua letteratura, 253 — arti belle, 261 — suo dialetto, XV. [381] 151. — provincia, II. 120 — invasa dai Saracini, V. 299 — sotto Enrico, VI. 236 — sotto gli Svevi, 249. 423 — dopo il vespro; VII. 276 — sotto la Spagna, XI. 129 — nel Seicento, XII. 64 — sotto i Borboni, 361 — nel 1848, XIV. 109. 159. 235 — ribellata, XIV. 338 — sollevata, 361.

Siena (guerra di), IX. 479.

Sigismondo imperatore, VIII. 119. 123. 147.

Signorotti italiani, VII. 10. 404.

Sigonio, VII. 340; X. 128.

Silio Italico, III. 364.

Silla, II. 52.

Silvestro papa, VI. 408.

Simbolo apostolico, IV. 173.

Simmaco, IV. 210. 246.

Sinodo di Parigi, XIII. 230.

Siracusa, I. 237. 315 — sue ruine, 263.

Siri Vittorio, XI. 503.

Sismondi, VII. 355. 361; XIII. 491.

Sisto IV, VIII. 279. 290.

Sisto V, XI. 27.

Smalti, X. 113.

Soave Francesco, XII. 275.

Società commerciali, VIII. 494.

Società secrete, XIV. 50.

Socj latini, II. 41 — italici, 351.

Sofisti, I. 328.

Solino, III. 314.

Solino, X. 409.

Sordello, VII. 227.

Spagna insorta, I. 390.

Spagna (campagna di), XIII. 237.

Spagnoletto, XI. 370.

Spagnuoli scrittori italiani, XII. 197.

Spallanzani, XII. 582.

Spartaco, II. 92.

Specchi ustorj, I. 259.

Speronella, VIII. 399.

Spettacoli del Cinquecento, X. 203.

Spezierie, VIII. 461.

Spinelli Matteo, VII. 325.

Stampa, VIII. 363.

Stancari, X. 411.

Statistiche del medioevo, XV. 335.

Statuti comunali, VI. 185; VII. 443; IX. 7.

Stazio, III. 353.

Stellini, XII. 277.

Stemmi, I. 261; V. 564 — delle città, VI. 71.

Stilicone, IV. 344.

Stipendj di professori, VI. 386. 393.

Stoicismo a Roma, III. 162 — in trono, 235.

Storia del medioevo, VII. 321.

Storia morale e critica, XIII. 503. — universale, 504.

Storici primi, I. 41.

Storici primi di Roma, I. 361.

Storici romani, II. 154; III. 13. 386; IV. 244 — longobardi, V. 203 — siciliani, III. 16.

Storici (raccolte di), VII. 341. 361 — lombardi, 338. 343 — municipali, 345; X. 368 — moderni, 363.

Storici nel Quattrocento, VIII. 342 — del Cinquecento, IX. 255; X. 149 — del Seicento, XI. 483. 500 — del Settecento, XII. 542 — moderni, XIII. 485.

Storie letterarie, XII. 538.

Strada Famiano, XI. 510.

Strade romane, III. 413. 419.

Strade nel Quattrocento, VIII. 454

Streghe, VIII. 165; X. 331; XII. 461.

Strozzi Filippo, IX. 430 — Pietro, 485. 522.

Superstizioni romane, II. 287.

Superstizioni, XI. 287.

Supplizj nel Quattrocento, VIII. 425.

Sutri (privilegio di), V. 511.

Suwaroff, XIII. 99.

[382]

Svetonio, III. 118; 382.

Svevi, loro fine, VI. 472.

Svizzeri, VIII. 88; IX. 50. 203.

T

Tabacco, X. 305.

Tachigrafia, VIII. 357. 371.

Tacito, III. 119. 381.

Tacito imperatore, IV. 55.

Tancredi di Lecce, VI. 231.

Tanucci, XII. 201. 354.

Taranto, I. 213. 270.

Targioni Tozzetti, XII. 238.

Tarlati, VIII. 245.

Tarquinj (padre), I. 62.

Tarsia, X. 112.

Tartaglia, X. 105; XI. 561.

Tartarotti, X. 357.

Tartini, XII. 474.

Tasso Bernardo, X. 189. 242 — Torquato, XI. 385.

Tassoni, XI. 435.

Tattica romana, IV. 243.

Tavola Isiaca, XI. 210. 518.

Tavole (le XII), I. 179 — alimentari, III. 237. — Eugubine, XV. 8 — di Osunna, 347 — di Eraclea, ibid.

Teatri romani, III. 11.

Teatri, X. 205 — loro moralità, 495.

Teatro italiano, VIII. 436 — nel Seicento, XI. 450.

Telesio, XI. 456.

Tempj romani, III. 397.

Templari, VII. 316.

Teocrito, I. 253.

Teodolinda, V. 83.

Teodorico, V. 25.

Teodoro (re), XII. 385.

Teodosio, IX. 205. 344. 379.

Teologi moderni, XIII. 527.

Teosofi, XIII. 323.

Terenzio, I. 364; III. 5.

Testi Fulvio, XI. 440.

Thiers, XIII. 230.

Tiberio, III. 79.

Tibullo, III. 39.

Timoleone, I. 247.

Tintoretto, X. 88.

Tiraboschi, VII. 357; XII. 538.

Tiranni d’Italia, VII. 404. 410.

Tirannie, come nascono, VI. 311.

Tirolo, VII. 9 — sollevato, XIII. 191.

Tirone, II. 113.

Tirreni, I. 43.

Tito imperatore, III. 225.

Tito Livio, II. 157; III. 24.

Tiziano, X. 86. 237.

Toaldo, XII. 587.

Tommasini, XIII. 551.

Tommaso da Kempis, VIII. 344.

Tommaso (s.), VI. 351. 364.

Tonti, VIII. 440; XI. 335.

Torbia, suo monumento, II. 373.

Torino, VII. 5 — assediata, XII. 104.

Torriani, VII. 20. 369.

Torriani Giovanni, IX. 510; XI. 593.

Torricelli, XI. 584.

Torri cittadine, VII. 186.

Toscana nel Seicento, XI. 229.

Toscana, successione disputata, XII. 126 — sotto i Lorenesi, 302.

Toscanelli, VIII. 349.

Totila, V. 61.

Traballesi, XII. 532.

Tragedie romane, III. 9 — italiane, X. 208; XII. 557 — moderne, XIII. 448. 475.

Trajano, III. 235.

Trasea Peto, III. 113.

Tre capitoli, V. 173.

Tregua di Dio, V. 434; VI. 151.

Trenta Tiranni, IV. 110.

Tremuoti di Calabria e Messina, XII. 365.

Tribù romane, I. 159. 398.

Tribuni della plebe, I. 173.

Trieste, VIII. 126.

[383]

Trimalcione, III. 137.

Trionfe, VIII. 158.

Trionfi, I. 343.

Triregno, VII. 285.

Trissino, X. 194.

Triumvirato primo, II. 174 — secondo, 316.

Trivulzio, IX. 113. 231.

Trogloditi, I. 55.

Trovadori, VII. 223.

Troya, VI. 3.

Turamini, XI. 494.

Turchi Adeodato, XII. 511.

Turchi s’avanzano, VIII. 210 — crociata contro, 221 — in Italia, 229; IX. 271. 455. 529.

Turchi (vescovo), XII. 286; 511.

U

Ugo di Provenza, V. 342.

Ugo Falcando, VI. 227.

Uguccione della Faggiuola, VII. 382.

Ulpiano, IV. 301.

Umbria, sue città, II. 38.

Umbri, I. 49.

Umiliati, VI. 314.

Ungheri, V. 334.

Unigenitus (bolla), XII. 22.

Unità italiana, II. 46.

Università, VI. 384; VIII. 326.

Unni, IV. 383.

Untori, XI. 214.

Urbino, IX. 125 — (corte di), X. 290; XII. 5.

Urbano VIII, XII. 1.

Uscocchi, XI. 146.

Usanze del medioevo, VII. 120.

Usura, VIII. 484.

V

Vachero (congiura del), XI. 73.

Vajuolo, XII. 593.

Valacco, somiglianze coll’italiano, XV. 177.

Valdesi, VI. 329; X. 553.

Valentiniano, IV. 201 — Secondo, 207 — Terzo, IV. 379.

Valentino (duca), IX. 140.

Valeriano, IV. 43.

Valerio Flacco, III. 363.

Valerio Massimo, III. 383.

Valla, VIII. 314. 349; XV. 245.

Valtellina, insurrezione, X. 569; XI. 190 — resa all’Italia, XIII. 70.

Vangelo; codice antico, IV. 86.

Vanini Lucilio, XI. 336.

Vanvitelli, XII. 528.

Vapore (battelli a), XIV. 37.

Varano Alfonso, XII. 506,

Varo sconfitto, II. 375.

Varrone, I. 42; III. 19; XV. 24. 52.

Vasari, X. 65.

Vasi etruschi, I. 93.

Vasi murrini, III. 132.

Vaticana (basilica), X. 43.

Vegezio, IV. 241.

Vella Giuseppe, XII. 490.

Vellejo Patercolo, III. 383.

Venanzio Fortunato, V. 41.

Venesino contado, XIII. 10.

Veneti antichissimi, I. 104.

Venezia antica, sue città, II, 37 — primordj, V. 518 — usanze. Dogi, 527 — elezioni, VI. 181 — e i Crociati, 253 — estendesi, VII. 11. 69 — sua costituzione, 57 — sue fabbriche, VII. 165 — suoi storici, 329 — guerre con Genova, VIII. 40. 511 — sue industrie, 475 — sua ricchezza, 518 — suo commercio, VIII. 93 — sua maggior potenza, 128 — nel Cinquecento, IX. 181 — suoi statuti, ix. 8 — architettura, X. 86. 94 — sue feste, 299 — (eretici a), 513 — interdetta, 525 — e i Turchi, XII. 31 — nel Seicento, 33 — contro i papi, 281 — nel Settecento, [384] 400 — tradita, XIII. 49 — unita al regno, 157 — bloccata, 257 — si difende, XIV. 175. 253 — acquistata al regno, XIV. 356.

Veneziani in Grecia, VI. 260 — in Levante, VIII. 512 — loro marina, 515.

Venturieri, VII. 449.

Vercelli, VII. 7.

Verdi, XIII. 576.

Vergerio, X. 399.

Verona. Le pasque, XIII. 51.

Verre, II. 120.

Verri Alessandro, XII. 510.

Verri Pietro, XII. 239.

Vesalio, XI. 547.

Vescovi potenti nel medioevo, VI. 11 — decadono, 68. 163.

Vespasiano, III. 218.

Vespasiano de’ Bisticci, VII. 338.

Vespri siciliani, VII. 270.

Vespucci, VIII. 551.

Vestali, I. 416.

Vesti ecclesiastiche, V. 155.

Vesti nel Quattrocento, VIII. 381.

Vetri, VIII. 475.

Vetriate dipinte, VII. 175.

Viaggiatori, VIII. 530; XI. 512 — loro racconti, 556.

Viaggiatori in Italia, XII. 445.

Viaggiatori moderni, XIII. 355.

Vico, I. 134. 183; VII. 351; XI. 519; XV. 246.

Vida, X. 119.

Vigilio papa, V. 173.

Vignola (il), X. 94.

Villani, storici, VII. 332.

Villars, suoi consigli a don Carlos, XII. 136.

Vindice imperatore, III. 116.

Virgilio, II. 57 — mago, XV. 307.

Viriato, I. 392.

Visconti E. Q., XII. 525.

Visconti Ottone, VII. 27 — Matteo, 371. 390 — Galeazzo, 391 — Azzone, 416 — Lodrisio, 417 — Luchino e Giovanni, 419 — loro dominj, 423 — Bernabò e Galeazzo, 563; VIII. 2 — Gian Galeazzo, 1 — Gian Maria, VIII. 33 — Filippo Maria, 88. 120 — Galeazzo Maria, 401. 431 — protegge le lettere, 327.

Vitellio, III. 211.

Vitige, V. 56.

Vitruvio, III. 426.

Vittorio Amedeo, XI. 218.

Vittorio Amedeo II, XII. 86. 174. 336 — III, 350.

Vittor Pisani, VIII. 46.

Viviani, XI. 586.

Volpato, XII. 526.

Volta, XII. 589; XIII. 541.

Voltaire, VI. 101; VII. 505; XII. 454. 505.

W

Waldstein, XI. 206.

Z

Zaccaria, XII. 493. 537.

Zaleuco, I. 227.

Zamet, XI. 334.

Zanchi, X. 397.

Zappata cardinale, XI. 162.

Zecche, VI. 211.

Zendrini, XII. 579.

Zeno Apostolo, XII. 469.

Zeno, viaggiatori, VIII. 536.

Zenobia, IV. 48. 53.

Zingari, VIII. 430.

Zizim, IX. 67.

Zorzi, XII. 273.

[385]

INDICE

APPENDICE I.
Dei parlari d’Italia.
 
§ Proposizione pag. 1
§ Lingue de’ prischi Italioti 4
§ Origini del latino 18
§ Latino primitivo 30
§ Seconda età del latino 34
§ L’età dell’oro e dell’argento 41
§ La lingua scritta e la lingua parlata: la lingua rustica 44
§ Della pronunzia 54
§ La traduzione della Bibbia 60
§ 10º La lingua latina si sfascia. Età del ferro 65
§ 11º Differenze del latino dall’italiano 77
§ 12º Andamento consimile nelle evoluzioni di varie lingue 91
§ 13º Influenza de’ Barbari. Periodo di scomposizione 98
§ 14º Periodo di formazione dell’italiano nell’età barbara 102
§ 15º Periodo d’organamento 122
§ 16º Prime scritture italiane 140
§ 17º Della lingua romanza e della siciliana 147
§ 18º Del toscano 165
§ 19º Riassunto e paragoni 173
§ 20º Illazioni. Sistema della trasformazione 180
§ 21º Dei dialetti: loro antichità. Il libro del Vulgare Eloquio 188
§ 22º La lingua italiana è patrimonio esclusivo d’una provincia? Sue vicende 211
 
[386]
 
APPENDICE II.
Dell’Anno e de’ Calendarj 227
 
APPENDICE III.
Incertezza della storia primitiva di Roma e fonti di essa 239
 
APPENDICE IV.
Le Sibille 267
 
APPENDICE V.
Nomi e genti romane 273
 
APPENDICE VI.
Monete, misure e valori fra i Romani 299
 
APPENDICE VII.
Favole intorno a Virgilio 307
 
APPENDICE VIII.
Dante eretico 325
 
APPENDICE IX.
Statistica 335
 
Aggiunte e Correzioni 347
Indice alfabetico 357

NOTE:

1.  Max Müller, nella Scienza della religione, vede nelle religioni, come nelle lingue, tre classi: turanica, ariana, semitica. All’ariana spettano il Veda, lo Zendavesta, il Tripitaka, e le religioni di Brama, Budda, Zoroastro. Alla semitica la Bibbia e il Corano. Alla turanica le religioni di Confucio e Lao-tse, coi King e col Tao-te-King. Le otto religioni di cui abbiamo i libri sacri, offrono elementi comuni, e hanno specialità distinte: e più che l’unità di lingua, l’unità di religione mantenne le nazioni. L’antichissima religione della famiglia turanica può dirsi quella degli spiriti, agenti universali. La semitica adorò Dio nella storia, cioè come governante le forze della natura. L’ariana ebbe il culto di Dio nella natura, cioè di Dio manifestantesi dietro i misteri del mondo fisico. Tutte le famiglie hanno comuni i nomi delle principali divinità, e le parole che esprimono gli elementi essenziali d’ogni religione, come preghiera, sacrifizio, altare, spirito, legge, fede: viepiù questa comunanza si riscontra nelle singole famiglie, anteriore alla lor divisione in tanti gruppi.

2.  Possono vedersi Bopp nelle indagini morfologiche, Giacomo Grimm per le leggi foniche; Pott per le etimologhe; e così Pichtet, Ascoli ed altri che crearono la scienza comparativa delle lingue ariane.

3.  Lanzi, Saggio di lingua etrusca, e altre antiche d’Italia. Roma 1789.

Vermiglioli, Antiche iscrizioni perugine, raccolte, dichiarate e pubblicate ecc. Perugia 1833.

Kæmpfe, Umbricorum specimen. Berlino 1835.

Eischhoff, Parallèle des langues de l’Europe et de l’Inde. Parigi 1836.

Doederlein, Commentatio de vocum aliquot latinarum, sabinarum, umbricarum, tuscarum cognatione græca. Erlangen 1837.

Henoch, De lingua sabina. Altona 1837.

Grotefend, De singularum literarum apud Sabinos ratione.

De lingua græca et sabina.

Quæritur quem locum inter reliquas Italiæ linguas tenuerit sabina.

De linguæ sabinæ et latina ratione.

Rudimenta linguæ umbricæ ex inscriptionibus antiquis enodata. Annover 1839. Interpreta le Tavole Eugubine; deriva il latino dall’umbro.

Janelli, Tentamen hermeneuticum in etruscas inscriptiones, ejusque fundamenta. Napoli 1840. Gli contraddice Raimondo Guarini.

Veterum Oscorum inscriptiones latina interpretatione tentatæ. Ivi 1841. Dichiarò ben cinquecento monumenti etruschi scritti, e ne teneva più di cenquaranta altri. Vedi Bullettino di Corrispondenza archeologica. 1843.

Lepsius, De Tabulis Eugubinis. Berlino 1833.

Inscriptiones umbricæ et oscæ quotquot adhuc repertæ sunt omnes, ad ectypa monumentorum a se confecta etc. Berlino 1841.

Avellino, Iscrizioni sannite. Napoli 1841.

Zeyss, De substantivorum umbricorum declinatione. Tilsitt 1847.

Aufrecht e Kirchhoff, Die umbrischen Sprach Denkmähler. Berlino 1849. Vorrebbero connesso l’umbro col sanscrito.

Mommsen, Die unter-italischen Dialekte. Lipsia 1849, con diciassette tavole litografiche e due mappe.

Effuschke, Monumenti di lingua osca e sabellica (1856), raccolse tutti i frammenti di tali lingue, e ne trasse la grammatica e il glossario.

Jansens, Musæi Lugdensis batavensis inscriptiones etruscæ.

Lassen, Dissertazioni nel Museo filologico renano.

William, Etruria celtica. Spiega la lingua etrusca coll’erso.

Edelstand Du Méril, nei Mélanges archéologiques et littéraires (Parigi 1850), ha una dissertazione sulla formazione della lingua latina, valutando i precedenti indagatori.

Donaldson, Varronianus. È un’introduzione all’etnografia italiana, e allo studio filologico del latino.

Tra un’infinità di monografie tedesche, delle quali è assai se pure il nome ci arriva, è a notare intorno ai grammatici latini Hertz, Sinnius Capito, eine Abhandlung zur Geschichte der römischen Grammatik. Berlino 1844; e De P. Nigidii studiis atque operibus. Ivi 1845.

Recentemente applicaronsi a queste ricerche Fabretti, Ascoli, Flechia, ed altri che ci verrà occasione di nominare.

4.  Il Deecke (Etruskische Forschungen, 1876) troverebbe il c finale equivalere al latino q. que; em all’et; l’al esser terminazione del genitivo: zathrum cento; mach uno; ci cinque: lautni liberto. Il gesuita Camillo Tarquini, professore al Collegio Romano, nei Misteri della lingua etrusca svelati (1857) pretende che essa sia semitica, e affine coll’ebrea: nè s’accontenta a spiegar qualche parola, ma tutta la famosa iscrizione di San Manno.

5.  Græca et latina lingua hebraizantes, seu de græcæ et latinæ linguæ cum hebraica affinitate. Venezia 1764.

6.  De latini sermonis origine, et cum orientalibus linguis connexione. Roma 1802.

7.  Asia polyglotta, p. 45.

8.  De utilitate, quæ ex accurata lingua sanscrita cognitione in linguæ gracæ latinæque etymologiam redundat.

9.  Om kjönnet i sprogene isaer i sanskrit latin og graesh. Berlino 1836.

10.  De origine germanica linguæ latinæ. Ratisbona 1686.

11.  Der germanische Ursprung der lateinischen Sprache und des römischen Volks. Breslavia 1830.

12.  Osservazioni sulla somiglianza fra la lingua dei Russi e quella dei Romani. Milano 1817.

13.  De origine linguæ latinæ, cap. I.

14.  Hertz, Sinnius Capito, eine Abhandlung zur Geschichte der römischen Grammatik. Berlino 1844; e De P. Nigidii studiis atque operibus. Ivi 1846.

15.  Nella Grammatica comparata di Bopp sono date per lingue sorelle il sanscrito, lo zendo, l’armeno, il greco, il latino, il lituano, l’antico slavo, il gotico, il tedesco.

Certamente nella lingua sanscrita, nella quale si cercano le etimologie delle europee appartenenti al gruppo che intitolano indo-germanico, può trovarsi l’origine o la somiglianza di molte fra le più usuali e semplici voci del latino, e in conseguenza dell’italiano; di che ci si lasci qui produrre un saggio. Crediamo inutile lo scaltrire che in tali indagini non deve badarsi alle vocali, che sono carattere accidentale, ma alle consonanti, forma costitutiva.

Adja hodie, agnis ignis, aicadaçan undecim, anilas anima, antaras alter, antran antrum, asmi sum, asi es, asti est, bhràtar frater, cadà quando, çatam centum, catur quatuor, idam idem, iti et, ittham item, jalad gelu, kas, ka kad, qui, quæ, quod, kulam collis, màm, me me, masa mensis, mat meus, màtar mater, vàri mare, catvarinçat quadraginta, cva quo, çvas cras, daçan decem, daçamas decimus, dadami, dadasi, dadati do, das, dat (δίδωμι), dhara terra, djana genus, dina, divas dies, dvadaçan duodecim, dvi duo, ad edo, ganitar genitor, vartate vertitur, vas vos, vàtas ventus, vid video, vinçati viginti, viras vir.

Ecco nomi di animali e piante: acvas equus, hansas anser, mar mori, na, nau non, nabhas nubes, nàman nomen, naus navis, mavamas nonus, navan novem, niç nox, nu nunc, palvala palus, pitar, tàta pater, putra puer, prathamas primus, santi sunt, sjàta sitis, saptan septem, sas sex, sastas sextus, saptati septuaginta, sjàm sim, sjàma simus, sjàs sis, sjàt sit, sjus, sint, smas sumus, stha estis, svas suus, suta satus, svanas sonus, tan tendo, tistati stat, tri tres, trinçat triginta, tvan tu, te, tvat tuus, vahati vehit, vamati vomit, muran murus, nidas nidus, patra patera, pulas pilum, ràs res, sala aula (sala ital.), vahas veho (via), vallas vallus, alitas altus, camat amans, anaicas iniquus, candat candens, deiram durus, miçritas mixtus, madhjas medius, maduras maturus, malas malus, malinus malignus, mertas mortuus, avis ovis, calamus calamus, cauchilas cuculus, çvan canis, maxica musca, musas mus, paçus pecus, palas palea, pikas picus, sarpas serpens, stariman stramen, ulukas ulula, varahas verres.

Quanto al corpo: caisaras cæsaries, capalas caput, çiras cranium, cirrajas cirrus (crinis), cucsas coxa, dantas dentes, galas gula, janu genu, jakert jecur, lapas labium, nasa nasus, pad pes, pannas penna, tantus tendo.

E così in altri oggetti: calacas calyx, cùpas cupa (coppa ital.), dhaman domus, matram metrum, tapat tepens, uttas udus, varmitas armatus, yuvan juvenis.

Nelle parole composte, ove i Latini pongono a, in, inter, ab, præ, il sanscrito colloca à, ni, antar, apa, pra; onde: acar accurro, ada addo, alig alligo, antarbhù interfui, antari intereo, apai abeo, apasthà absto, atul attollo, nidic indico, mùcas mutus, navas novus, prativid providus, putas putis, sakias socius, sudin sudus, svàdus suavis, nisad insideo, nisthà insto, pradà prodo, pradic prædico, prasad præsideo, prasthà præsto.

L’a nega in sanscrito come in greco; una di quelle particolarità, che dell’analogia di due lingue fanno prova ben più che cento parole conformi.

16.  Lingua latina, si exceperis ea quæ vel ex primogenia lingua retinuit, vel a vicinis Celtis accepit, tota pene fluxit a Græcis, dice Vossio (De vitiis sermonis, præf.); Scaligero, nel commento su Festo, eamdem pene cum veteri græca veterem linguam fuisse; e Grozio, est veterum Latinorum lingua tota græcæ depravatio. Di Döderlein si ha un commento sulla parentela greca delle voci latine, sabine, umbre, tusche. Walchio, tenuto come il migliore storico della lingua latina, asseriva che, usque ad Numam Pompilium græca lingua magis quam latina viguit, quoniam primi urbis incolæ græci fuerunt.

Neppur oggi difettano eruditi, i quali a tutte le lingue italiche cercano spiegazioni dal greco, e vaglia per altri De Gournay nella dissertazione sul Canto dei Fratelli Arvali. Caen 1845. Ma l’indipendenza del latino dal greco propugnarono recentemente Lassen, Beiträge zur Deutung der eugubinischen Tafeln; Pott, Forschungen auf dem Gebiete der indo-germanischen Sprachen; Kuhn, Beiträge zum ältesten indo-germanischen Völcker, e altri.

17.  Presso A. Gellio, XIII. 9.

18.  Ῥωμαῖοι δὲ φωνὴν μὲν οὔτ’ ἄκραν βάρβαρον οὐδ’ ἀπηρτισμένως Ἑλλάδα φθέγγονται, μικτὴν δέ τινα ἐξ ἀμφωῖν, ἧς ἐστιν ἡ πλείων Αἰολίς. I. 90.

19.  Ottfried Mueller, Die Etrusker, tom. I. 3. nota 21.

20.  Possono aggiungersi κάμμαρος (Epich., 35), κάμπος (Esichio), κλάξ clavis (Theocr., xv. 33), γάρυω garrio (Theocr., viii. 77), νόμος e νοῦμμος (Epich., 92. 93), θήρ ferus (Theocr., xxiii. 10), ῥόγος rogus (Polluce, ix. 45), πεντόγκιον (Epich., 5). E vedi Ahrens, De dial. dor., I.

Alcune parole latine trovansi già nel greco de’ Siciliani. Così essi dicevano μοιτός quel che i Latini mutuus (Mutuum, quod Siculi μοῖτον. Varrone, de L. L., V. 36), dicevano πανός il pane (Ateneo, L. iii) e πόλτος la polta, la quale (secondo Plinio, xviii, 8, 19) videtur tam puls ignota Græciæ fuisse, quam Italiæ polenta.

È notevole che le colonie calcidiche e dorie chiamavano νόμος il denaro d’argento (nummus) ed ἡμίνα la misura che diceasi hemina nel Lazio; e così i nomi di libra, triens, quadrans, sextans, uncia, riferibili a pesi e valori, passarono nel greco di Sicilia, ove diceasi λίτρα, τριᾶς, τετρᾶς, ἑξᾶς, οὐγκία.

21.  Non devono cercarsi le etimologie nelle lingue lontane, finchè non siansi esaurite le ricerche nelle vicine. Ciò viepiù ne fa dolere che sì scarsamente conoscansi le prische lingue italiote. Sarebbe a sperare gran lume dall’opera di Terenzio Varrone, che già ottagenario scrisse i libri De lingua latina, e non si cessa di deplorarli come tesori di filologia; ma se dei quattro perduti argomentiamo dal quinto e sesto che ci rimangono, non troppo dovremmo promettercene. Egli non ne rintraccia le origini nelle anteriori, che pure al suo tempo rimanevano ancora sulle bocche; tutt’al più ricorre al dialetto eolico, che somiglia al latino quanto a questo l’italiano. E mentre negli idiomi non si fa che imprestare e derivare, egli suppone che i Latini creassero o piuttosto componessero il proprio, sicchè d’ogni loro parola trae l’etimologia da altre latine. Pertanto deriva terra da terere, spica da spes perchè è la speranza del ricolto, frater da fere alter, un altro se stesso, legume da legere, perchè si raccoglie ne’ campi, capra da carpere, venus da venire, via da vehere, humor da humus, amnis da ambitus, lectus da legere perchè si raccolgono gli strami su cui dormire, fœnus da fœtus perchè il denaro a interesse ne partorisce dell’altro, quasi fœtura quædam pecuniæ parientis: soror da seorsum perchè le figliuole van fuori di casa; cœlibes da cœlites perchè son beati, vindicta da vim dico, al modo che judex viene da jus dico.

A questo meschino metodo si attennero gli altri Romani: onde Cicerone dice così nominata la legge quia legi soleat, e Neptunus a nando, e la luna a lucendo; Catone deriva locuples dai luoghi che i ricchi possedono, e pecunia dalle pecore che v’erano improntate; Servio, la segale da seco, il libro, corticis pars interior, a liberato cortice, i mantili a tergendis manibus; Plinio deduce vello da vellere perchè le lane si strappavano; Festo, pratus perchè paratus alla mietitura, immolare da mola, idest farre molito; Ulpiano dice il legato così chiamarsi quod legis modo testamento relinquitur, e i liberi quia quod libet facere possunt; e Isidoro, mulier a mollitie, vena quod sanguinem vehit, venenum quod per venas vadit, carmen da carere mente; Minerva da munus artium variarum. Noi pertanto non facciamo gran conto di quelle etimologie che, pel dizionario del Tramater, Pasquale Borrelli andò a ripescare nel persiano. Oltre che bisognerebbe dimostrare donde venne la parentela dei Persi coi Latini, ognun sa che il persiano è lingua relativamente moderna, e ci ritorna ancora alla derivazione comune, cioè al sanscrito. Migliore è il lavoro comparso a Bonn (1855-64) col titolo: Johannis Augusti Vullers, Lexicon persico-latinum etymologicum, cum cognatis lingua sanscrita imprimis et zendica et pehlevica comparatum: ove, oltre l’interpretazione latina, dà le forme più antiche che illustrano il persiano.

22.  Lateinische Grammatik, II. 194. Vedi nello stesso assunto Dorn, Ueber Verwandschaft der persich-germanischen und griechisch-lateinischen Sprachstammes, p. 88.

23.  Storia Romana, I. 184, 193.

24.  Max Müller (Historisch-kritische Einleitung zur nöthiger Kenntniss und nützlichem Gebrauche der alten lateinischen Schriftsteller. Dresda 1847-51) vuole che una lingua che appartenga a due famiglie differenti, non già per le parole ma per la sintassi, è impossibile: nessuna radice fu aggiunta alla sostanza d’una lingua, come nessun atomo al mondo materiale; tutte le modificazioni non furono che di forma, sicchè la storia delle lingue è piuttosto quella della loro decadenza che del loro sviluppo.

Il Corssen, Ueber Aussprache, Vokalismus und Betonung der lateinischen Sprache (Lipsia 1868-70) è ritenuto canone per lo studio scientifico del latino, in relazione coll’osco, coll’umbro.

25.  Rudimenta lingua umbricæ, II. 20. — Vedi E. Funk, De adolescentia linguæ latinæ. C. Damio, Tractatus de causis amissarum linguæ latinæ radicium.

Sanchez, Walchio, Niess, Borrichio, Inchoffer, Cellario, Krebs, Oberlin raccolsero monumenti del primitivo latino, senza critica nè induzioni. Struve e Diefenbach agitarono le quistioni intorno all’origine e natura delle flessioni. Nata ultimamente l’idea di esaminare la costruzione e le ragioni che determinano la disposizione delle parole, Gehl, Bröder, Görenz si attennero alla superficiale considerazione di talune particolarità; nè con bastante ampiezza vi guardarono Raspe (Die Vorstellung der lateinischen Sprache) e Düntzer (Die Lehre von der lateinischen Wortbildung und Komposizion). È prezioso in tal conto Mueller, Historisch-kritische Einleitung zur nölhiger Kenntniss und nützlichen Gebrauche der alten lateinischen Schiftsteller. Dresda 1847-51.

26.  Inst. orat., I. 6. § 40.

27.  Anche nel senatoconsulto de’ Baccanali mostrasi questa prevalenza dell’o, e nelle monete della media e bassa Italia, nelle quali Eckhel (Doctrina numm. vet., I. 127) notò Aisernino, Aquino, Arimno, Caleno, Cozano, Hampano, Messano, Paestano, Recino, Romano, Suesano, Tiano. — Prisciano scrive al contrario: O aliquot Italia civitates, teste Plinio, non habebant, sed loco ejus ponebant U, et maxime Umbri et Tusci. Nelle Tavole Eugubine troviamo colle terminazioni moderne poi per postquam, pane, capro, porco, bue, atro, ferina, sonito.

28.  Vedi Schuelte, De Cnæo Nævio poeta. Wurzburg 1841.

Q. Ennii poetæ vetustissimi fragmenta quæ supersunt ab Hieronymo Columna conquisita, disposita et explicata. Amsterdam 1808.

Orelli, Eclogæ poetarum latinorum. Zurigo 1833.

Egger, Latini sermonis vetustioris reliquiæ selectæ.

È probabile che gli autori, che citavano que’ versi, ne svecchiassero le forme.

29.  Defrudo, audibam, caldus, repostus; sis e sos per suis e suos; periclum, vinclum, seclum.

30.  Volup, facul, luxu, vivtu, sati, priu.

31.  Conia per ciconia, momen per monumentum, dein per deinde.

32.  Stlis, stlocus, stlatus, gnatus — foretis, frucmentum, trabes, ips — exempleu, sale — postidea, mavolo, donicum.

33.  Come anquinæ corde; aplude suono; aqualis gocciolatojo; aquula diminutivo di acqua; axicia forbici; bucco scroccone; bulga borsa; bustirapus chi tutto arrischia per denaro; capronæ il ciuffo; casteria arsenale; carinarius e flammearius tintore in giallo e in rosso; conspicillum vedetta; cordolium cordoglio; dividia dolore; estrix goloso; fala torre di legno; famigerator novellatore; grallator che va sui trampoli; hamiota pescatore coll’amo; legirupa violator della legge; lenulus ruffianello; limbolarius fabbricatore di frangie; linteo tesserandolo; luca bos elefante; mando pacchione; mantellum mantello; mellinia idromele; ocris montagna erta; offerumentum offerta; perduellis nemico; petimen guidalesco; perlecebra allettativo; petro villano; proseda meretrice; sedentarius calzolajo; statutus uomo di gran prosopopea; struix costruzione; suppromus sotteconomo; suras piccolo; sutela furberia; temetum vino; tenus laccio; terginum frusta; trico malpaga; vesperugo stella della sera. Probabilmente dicevasi or e ura per urbs, conservato in subura sobborgo e in Orvieto. Tacio i nomi speciali di abiti, per avventura dismessi, o di mestieri o di storia naturale, che ai successivi non venne occasione di nominare.

34.  Architecton per architectus, batiola da βάτιον, gaulus da γαυλός, alophania da ἀλοφανής bugiardo, horæum da ὡραῖον, incloctor da κλωγμής frustatore, lepada da λέπας, madulsa da μάδαν briaco, ecc.

35.  Argentienterebronides, dammigeruli, dentufrangibula, feritribaces, flagritribæ, gerulifigulus, nucifrangibula, oculicrepidæ, parenticida, plagipatidæ, sandaligerulæ, subiculumfragri, ecc.

36.  Come crucius che crucia, deliquus, dierectus, helleborosus, exsinceratus, gravastellus, inaniloquus, labosus, macellus, malacus, medioximus munis (da cui immunis), oculissimus, privus, stultividus, voluptabilis.

37.  Assiduus significava ricco, non derivandolo da ad-sedeo, ma ab assibus duendis; cupidus desiderabile, curiosus magro, immemorabilis attivamente per chi non vuol parlare, incredibilis che non merita fede, intestabilis senza testicoli, superstitiosus che predice l’avvenire.

38.  Abjugo separo; averrunco averto; alludio alludo; ambabedo circumquaque arrodo; betere ire; cæcultare male videre; calvire frustare; cuperare aggrottar le ciglia; causificari accusare; cette cedite; cicurare mansuefare; collabescere dimagrare; collutulare gettar nel fango; compotire compotem facere; concenturiare colligere; concipilare compilare; convasare, corvitare circumspicere; deartuare smembrare; dejuvare contrario di juvare; delicare indicare; depucere cædere; dispennere exspendere; elevit maculavit; elinguare, esitare, mangiare, exdorsuare, frigullire e vitulari trasalire; fuo sum; gnarigo narro; imbito ineo; inconciliare negativo di conciliare; inforare trarre al foro; lamberare scindere; lapire indurire; lurcare mangiar ingordo; mutire parlare; obscavare essere di mal augurio; obsipare aspergere; obsarduit obsolevit; accentare ingiuriare; paritare parare; præstinare emere; protollere differire; quiritare clamare; redhostire gratiam referre; regrescere crescere; repedare recedere; sordare intelligere; succussare sursum excutere; curvare circumdare; verunco verto.... Oltre alcuni affatto greci, badizare, clepere, parpagare, imbulbitare, patrissare, protelare...

39.  Arbitro, aucupo, auspico, cohorto, congredio, consolo, contemplo, cuncto, digno, elucto, expergisco, ecc.

40.  Ætatem per diu, ampliter, antidhac, assulatim, astu per astute, eccere per ecce, fabre, facul, difficul, furatim per furtim; insanum per valde, minutabiliter, nox per noctu, nullus per non, numero per nimium cito, pauxillisper, perpetem, postidea, præfiscine, prognariter, prossinam, publicitus, quamde, simuli, unose per simul, pollutum, tapper per cito, tuatim, vicissatim.

41.  Adire manum alicui; gallam bibere ac rugas conducere ventri; cædere sermones; colere vitam; quadrupedem constringere; dapinare victum; dare bibere; suum defrudare genium; herbam dare; follitim ductitare; paratim ductare; emungere aliquem argento; ex aliquo crepitum polentarium exciere; exporgere frontem; curculiunculos minutos fabulari; expeculiatus fieri; fraudem frausus est; musa loqui; datatim ludere; obsipare aquulam; obtrudere palpum; ornare fugam; os occillare; percutere animum; sub vitam prœliari; sermonem sublegere; fulmentas suppingere soccis; thermopotro gutturem; pugilice et athletice valere; asyarebolum venire; de symbolis esse; æstive viaticari.

42.  Opus habere, clari genus, animum conversi, lætus animi miles, modicus pecuniæ, canere tibiis, bonus militia son tutti di Tacito, come amare per solere. Aggiungi analogia, barbarismus, hetæria, monopolium, apologare da ἀπολογεῖν per rejicere, malacizo da μαλακίζω, moror impazzare.

43.  Nuove voci sarebbero breviarium, dormitorium, conversatio, gratitudo ed ingratitudo, inquisitio, ligatura, adversitas, nimietas, puerilitas, summitas, superfluitas, voracitas, salvator, sustentaculum, diflugium: gli aggettivi amanuensis, exurdatus, famigeratus, fænebris, fictitius, frigidarius, immaculatus, indubius, inerrabilis, infruitus, intelligibilis, invisibilis, lapsabundus, lychnobius, neutralis, occallatus, præsentaneus, rationabilis, rationalis, rorulentus, sapidus, segrex, spontaneus, stigmosus, superciliosus, valetudinarius, visibilis; i superlativi fidissimus, piissimus, prudentissimus; i verbi adunare, annodare, auctitare, collatrare, columbare, confiscare, corrotundare, crucifigere, explantare, extimare, molestare, nepotari, remediare, restaurare, sagittare; i composti transmutatio, coæqualis, conversari, imprecari, concivis, conterraneus, se pure si ha a leggere così in Plinio. Hactenus si usò anche pel tempo; adhuc, che significa sinora, adoprossi per anche adesso; interim per interdum, subinde per spesso; e nuovi aliquatenus, clamose, exacte, favorabiliter, obiter, recenter, specialiter, insimul, neoterice, adducte per severe, an an invece di utrum..... an.

44.  Tacito, Ann., V. 6; VI. 8.

45.  Audentia, æmulatus, consortium, corporalis, crepax, nutricius, occidentalis, orientalis, perniciabilis, rubeus, sternutatio, superfluus, vaticinium, viror, voluptuosus, ove i precedenti dicevano audacia, æmulatio, consortio, corporeus, crepans, nutricatus, occidens, oriens, pernicialis, rufus, sternutamentum, superfluens, vaticinatio, virilitas, voluptuarius.

46.  Invidere alicui rei per aliquid; versari circa rem per in re; quod me attinet per quod ad me; egredi urbem per urbe; adipisci alicujus rei; adversari aliquid; benedicere quemquam; jubere alicui; pœnitentiam agere assoluto.

47.  Ep. 39. Hæc quæ nunc vulgo breviarium dicitur, olim, CUM LATINE LOQUERENTUR, summarium vocabatur.

48.  Ep. 58.

49.  Asilo, sive tabanum dici placet. Nat. hist., II. 28, 34.

50.  Ad Lucilium, 114.

51.  XIII, 27.

52.  Inst. orat., I. 9.

53.  Isidoro, Etym. I. 32.

54.  Cicerone in Bruto, 58.

55.  De orat., III. 10.

56.  XIII. 6.

57.  De vita beata.

58.  Altri in Cicerone notarono multissimus, tornare, vietum, compromissum, inantediem, indolentia, nigror, rotundare, sequestrium, cancelli, suspiciosus, laboriosus, ordinare, procrastinare, quadrare, ecc. Vedi Cicero a calumniis vindicatus, cap. VII.

59.  XIX, 13.

60.  Major pars Italia ruido utitur pilo. Nat. hist., 18. 10.

61.  Tertulliano ha anche vasit. Il nostro verbo andare, tanto eteroclito, che trarrebbero da ἀντάω vo incontro, ha forse origine dall’adnare, che Papía interpreta per venire, e che derivasi da nare nuotare, come arrivare da riva; e che, in alcuni dialetti e nel provenzale, pronunziasi anare. Potrebbe anche trarsi da ambulare, che nel basso latino usavasi per andare; onde nel Vangelo, tolle grabatum tuum et ambula, e nel Codice longobardo ad maritum ambulare; o meglio da aditare, frequentativo di adire: e che troviamo in Ennio (ad eum aditavere).

62.  Me me adsum qui feci è di Virgilio: e il milanese anche oggi direbbe Mi mi: son staa mi.

63.  Mica per negazione, in qualche volgare negot, negotta, doveano certo vivere nel latino; come flocci facere, non pili facere, così non micæ, non guttæ. Il primo è conservato nel valacco nemic, ne mica; l’altro nel romancio ne gutta. Da questo gutta viene il vergotta lombardo, qualche cosa, dove sentesi la radice di veruno.

64.  Inst. or., I. 5. In un’iscrizione pubblicata dal Marini Gaetano, pag. 193, nº 169 leggiamo Irene defuncta est annorum decedocto.

65.  Totus pene mutatus est sermo. De inst. or., VIII. 3. Il grammatico Diomede parla di scrittori qui rusticitatis enormitate, incultique sermonis ordine sauciant, imo deformant examussim normatam orationis integritatem, positumque ejus lumen infuscant ex arte prolatum. De oratione, lib. I. prol.

66.  

Tityre, si toga calda tibi est, quo tegmine fagi?...

Dic mihi, Dameta, cujum pecus, anne latinum?

Non, verum Ægonis; nostri sic rure loquuntur.

Questa graziosa parodia è riferita da Donato nella vita di Virgilio.

67.  Præcepta latine loquendi puertiis doctrina tradit. — Non tam præclarum est scire latine, quam turpe nescire.

68.  Cum sit quædam certa vox romani generis urbisque propria, in qua nihil offendi, nihil displicere, nihil animadverti possit, nihil sonare aut olere peregrinum, hanc sequamur; neque solum rusticam asperitatem, sed etiam peregrinam insolentiam fugere discamus. De oratore, III. 12.

69.  

Munda sed e medio, consuetaque verba, puellæ

Scribite: sermonis publica forma placet

Ah! quoties dubius scriptis exarsit amator,

Et nocuit formæ barbara lingua bonæ.

Ars. am., III. 489.

70.  

Sic maternus avus dixerit atque avia.

Catullo, 84.

71.  Sexto casu qui est proprius; Latineis enim non est casus alius. De L. L., I. 9. Declinatio inducta est in sermones..... utili et necessaria de causa, I. 3.

72.  N. A., IX. 13.

73.  N. A., XVII. 2 e 7.

74.  XII. 2.

75.  II. 6.

76.  Sopra la duplice lingua dei Latini, dopo Leonardo Aretino che diceva: Pistores et lanistæ et hujusmodi turba sic intellexerunt oratoris verba, ut nunc intelligunt missarum solemnia: (ep. VI. p. 273); e il Poggio nella Dissertazione convivale: Utrum priscis Romanis latina lingua omnibus communis fuerit, an alia doctorum virorum alia plebis et vulgi, vedansi:

Hermann, De latinitate plebeja ævi ciceroniani.

Philman, Romanus bilinguis, sive dissertatio de differentia linguæ plebejæ et rusticæ, tempore Augusti, a sermone honestiore hominum urbanorum.

Hagedorn, De lingua Romanorum rustica.

Fer. Winkelmann, Ueber die Umganzsprache der Römer.

Celso Cittadini, Della vera origine della nostra lingua.

Il dotto Bartio non metteva dubbio sulla differenza del parlare comune dal latino scritto: Veterum Latinorum in loquendo longe aliam linguam fuisse quam quæ a nobis usu frequentatur, dubium minime esse debet. Advers., lib. XIII. c. 2.

In senso contrario l’Orioli nel Giornale Arcadico del 1855 pose un articolo di affettata erudizione, «Che il latino rustico è falsamente creduto essere, con forme poco mutate, lo stesso che il nostro volgare italiano». Nulla vi ho appreso: bensì molto da Maffei Scipione, Verona illustrata, tom. II. p. 540 e segg.; Gio. Galvani, Delle genti e delle favelle loro in Italia (Firenze 1849); Seb. Ciampi, De usu linguæ latinæ saltem a sæculo quinto; Domenico Barsocchini, Sullo stato della lingua in Lucca avanti il Mille (Lucca 1830).

77.  Questo fenomeno si riproduce anche oggi fra gli Arabi, dove la lingua del Corano è sol propria della letteratura, e fra gli Armeni, ove l’haikano si usa solo nelle scuole.

78.  De orthogr., cap. I.

79.  Cerca l’Index del Grutero.

80.  De verb. signif., XVI.

81.  Fra altri vedi Schuchardt, Der Vokalismus des vulgärlateins. Lipsia 1866.

82.  V. Garrucci. Inscriptions gravées au trait sur les murs de Pompei, e Arm. a Guericke, De lingua vulgaris reliquiis apud Petronium et inscriptionibus parietariis pompejanis. Lipsia 1875.

83.  Novus thesaurus, vol. IV. pag. 1829.

84.  Bullett. di archeol. cristiana, anno v. 78.

85.  E nel Corpus Inscript. Græc., nº 6710, vedesi Ζουλιαε per Juliæ in epigrafe pagana: Zesus per Jesus è in Boldetti, pagg. 194, 205, 208, 266.

86.  Bottari, Pitture, tom. II. tav. 112.

87.  Quando il generale La Romana riconduceva verso la patria il corpo di Spagnuoli che Napoleone l’avea costretto menare in Pomerania, i professori di Gottinga vollero festeggiarlo con un’accademia. Recitarongli anche un indirizzo in latino, ma egli dichiarò non poter rispondere, perchè non capiva il tedesco.

La discordanza fra la pronunzia e la scrittura nasce o dal mancare segni che esprimano certi suoni, o dall’essersi alterata la pronunzia. Ciò rende probabile che in Francia si pronunciasse anticamente come ora si scrive: e ciò rendesi più credibile da chi oda in Piemonte proferirsi autr, aut.

88.  È notevole che san Girolamo avverte che la sua traduzione diversificherà dalle precedenti, ma che mal lo appunterebbero quei maligni, che, mentre chiedono piaceri sempre nuovi, sol nello studio delle Scritture prediligono il sapore antico. Editio mea a veteribus discrepant... Perversissimi homines! cum semper novas expetunt voluptates... in solo studio Scripturarum veteri sapore contenti sunt. Pref. ai Salmi.

La traduzione latina della Bibbia anteriore a san Girolamo, detta l’italica, vorrebbe porsi verso il 185 dopo Cristo, cioè imperando Commodo, pontificando Vittore. Alcuni, e particolarmente il Tischendorf nel Nuovo Testamento stampato a Lipsia il 1864, la credono fatta in Africa, atteso che in Italia usavasi comunemente la lingua greca: opinione sostenuta dal Wiseman, dal Lachman, dal Ranch, dal Lahir.

I loro argomenti non mi persuadono.

I. Sant’Agostino, africano, la chiama itala.

II. Il Wiseman ne adduce prove filologiche, perchè quella versione ridonda di modi antiquati, i quali sogliono ritenersi viepiù nelle provincie lontane dalla capitale. Tali sarebbero i verbi deponenti in significato passivo (hostiis promeretur Deus. Hebr., XIII. 16): composizioni di verbi col super; superædifico, superexalto, o coll’in come intentator: i verbi in ifico, come mortifico per uccido, vivifico, clarifico, magnifico ecc.: altre composizioni rozze, come multiloquium, stultiloquium, sapientificat, e terminazioni in osus, come herniosus, ponderosus; inusitate costruzioni di verbi, come dominor col genitivo, zelare coll’accusativo, faciam vos fieri piscatores hominum (Matt., IV 19); mutazioni di tempi, cum complerentur dies pentecostes invece di completi essent, e in san Luca: Ad faciendam misericordiam cum patribus nostris et memorari testamenti sui. Il Maj, il Rancke, il Vercellone, il Cavedoni notarono nella versione itala moltissime voci non usate da classici, e il De Vit le raccolse nella ristampa del Lexicon totius latinitatis:

Retia rete
abiutus  
advenio accadere
ascella  
maletracto  
manna manata
martulus martello
prendo  
regalía  
satullus  
combino congiungere
glorio lodare
scamellum scannello
boletarium catino
altarium altare;

forme grammaticali errate, plaudisti, avertuit, odiet, odiunt, odivi, lignum viridem, demolient per demolientur, sepelibit, eregit, prodiet, prævarico per prævaricor, partibor, metibor, exiam, exies, perient, scrutabitis, abstulitum est. Ma tutto ciò perde valore ove si ammetta con noi la persistenza d’un parlar vulgare, distinto dal letterario, in Roma stessa; aggiungendo che questi modi e queste enallagi riscontransi talora o in Plauto o nei più antichi. Il Cavedoni (Saggio sulla latinità biblica dell’antica vulgata itala. Modena 1860) prova col Simom, col Westenio, col Millio, col Griesbach, col Martianay, coll’Hug, non presentar essa versione alcun carattere che sforzi a crederla africana: al più, concedendo fosse eseguita a Roma da qualche africano.

III. Tertulliano (de Præscript., c. 36) dice che la fede penetrò in Africa in un colle sacre Scritture per opera della Chiesa romana. Occorrerebbero prove più dirette per mostrare che queste Scritture v’andarono in greco, e per dar ragione dell’esser dappertutto chiamata itala quella versione, se fosse venuta dall’Africa. In Africa poi il latino era stato introdotto dai soldati romani, i quali doveano parlar la lingua popolare, anzichè la classica: talchè, se anche potesse provarsene l’origine africana, nulla pregiudicherebbe al nostro assunto. Al quale serve un passo d’oro di sant’Agostino, De doctr. Christiana, l. II. c. 15, n. 21: Tanta est vis consuetudinis etiam ad discendum, ut, qui in Scripturis sanctis quodammodo nutriti et educati sunt, magis alias locutiones mirentur, easque minus latinas putent quam illas quas in Scripturis didicerunt, neque in latinæ linguæ auctoribus reperiuntur. Ecco già allora la distinzione fra il latino classico e il popolare che diveniva ecclesiastico. Esso Agostino nota spesso nella Vulgata espressioni che non sunt in consuetudine literaturæ nostræ, o magis exigit nostræ locutionis consuetudo (De locutionibus Scripturarum). Così appunta il mane simul ut oritur sol manicabis; e dice: Manicabis latinum verbum esse mihi non occurrit. Eppure, nel senso di levarsi di buon mattino, trovasi nell’antico scoliaste di Giovenale. Altrove appunta il florierat e floriet, eppure si trovano senza osservazioni in Ilario (in Psal. 133); e in un’iscrizione metrica di Magonza si legge, Rosa simul florivit et statim perit. Sicchè le attenzioni di sant’Agostino sulla latinità della Vulgata voglionsi intendere come relative al latino classico. Ed egli stesso (contro Fausto Manicheo, IX. 2) vuole si ricorra ad veriora exemplaria della Bibbia, e tali esser quelli della Chiesa romana, unde ipsa doctrina commeavit.

89.  Vedi Dom Martin, Explications de plusieurs textes difficiles de l’Écriture.

Herman Rönsch, Itala und Vulgata. Marburg 1875, mostra la grande influenza di queste due versioni sulla civiltà e gli studj in Occidente, e sulla trasformazione delle lingue.

90.  Allora troviamo acedia e acidia; agon per agonia; angariare per costringere: anathema, anatomia, apocrisarius, blasphemare camelasia carica di mantenere i camelli; blatta per porpora; canceroma per carcinoma; chaos; decaprotia dieci primi, diabolus, elogiare, enlogium, hypocrisis, idolatria, neotericus, plasma, sitarcia provvigione pei vascelli, sitona intendente alla compra dei grani, ecc. ecc., mastigare (μαστιγῶ), come pure abominatio, beatitudines in plurale, burgus, capitatio, cervicositas caparbietà, collurcinatio per comissatio, computus, concupiscentia, consistorium, constellatio, creatura, cuprum, desitudo, desolatio, dominicum per templum, exibitor, figmentum, habitaculum, hortolanus, incentivum, incentor, incolatus, infeminium e fœminal, inordinatio, juratio e juramentum, latrunculator, legulus, localitas, magistratio, matricula, mediator, notoria lettera, partecipatio, prævalentia, protectio, rectitudo, sanctimonium, sufficientia, triumphator, ecc. E ciò oltre le voci cristiane di abyssus, agape, anastasis, apostata, baptizare, cœnobium, catholicus, clericus, eleemosyna, eremita, ethnicus, gehenna, laicus, martyr, monasterium, orthodoxus, papa, propheta, protoplastes primo creato, scandalum, ecc. E sant’Agostino scrive pausare arma josum, posar giù le armi.

91.  Quum ipsa latinitas et regionibus quotidie mutetur et tempore. Comm. in ep. ad Galatas, II. prol.

92.  Volo, pro legentis facilitate, abuti sermone vulgato. Ep. ad Fabiolam.

Sant’Agostino, Et potui illud dicere cum tracto vobis: sæpe enim et verba non latina dico ut vos intelligatis (Enarr. in Psalm., 123, 8). Sic enim potius loquamur; melius est reprehendant nos grammatici, quam non intelligant populi (In Ps., 138, 20. 8).

93.  È a vedere con che ginnasiale compunzione David Runkenio (Prefazione al lessico latino-belgico di G. Sheller. Leida 1789) si lagni dello stile di Tertulliano: Fecit hic quod ante eum arbitror fecisse neminem. Etenim, cum in aliorum vel summa infantia appareat tamen voluntas et conatus bene loquendi, hic, nescio qua ingenii perversitate, cum melioribus loqui noluit, et sibimet ipse linguam finxit, duram, horridam, Latinisque inauditam, ut non mirum sit per eum unum plura monstra in linguam latinam, quam per omnes scriptores semibarbaros esse invecta. Ecce tibi indicem atrum paucorum e multis verborum qua viris doctis non puduit in lexica recepisse: Accendo pro lanista, captatela pro captatio, diminoro pro diminuo, extremissimus, inuxorius, irremissibilis, libidinosus gloriæ, pro cupidus gloriæ, linguatus, multinubentia pro polygamia, multirorantia, noscibilis, nolentia, nullificamen pro contemptus, obsoleto pro obsoletum reddo, olentia pro odor, pigrissimus, postumo pro posterior sum, polentator, recapitulo, renidentia, speciatus, templatim, temporalitas, virginor, visualitas pro facultas videndi, viriosus pro viribus præstans.

94.  Historiographus, psalmographus, antecantamentum, suppedaneum, mundipotens, semijejunus, justificare, glorificare, congaudere e simili; multilaudus, multiscius, multivira e simili; disunire, abbreviare, exambire, compatior, compeccator, confœderatus, superintendens, multimodus, urbicremus, ventriloquus, unigenitus, deificus, ludivagus, parvipendulus, oviparus, blandificus, docticanus, inaccessibilis, incarnatio.

95.  Accessibilitas, calamitas, almitas, antistatus, christianitas, deitas, infinitas, negotiositas, nescientia, nimietas, populositas, possibilitas, secabilitas, summitas, supremitas, ternitas, uniformitas, visibilitas, ecc. Indi adjacentia, allodium, cambium, mansum, benefactor, epistolarius, disciplina corporalis per supplizio, farinarium per mulino, incultio per oratio inculta.

96.  Abecedarius, affectuosus, bestialis, caminatus, carnalis, clericalis, coævus, coætaneus, complex, disciplinatus, doctrinalis, dulciosus, æquanimus, flectibilis, incessabilis, incitator, interitus (perditus), labilis, localis, magistralis, momentaneus, noscibilis, ottatus, partibilis, passibilis, populosus, præfatus passivamente, primordialis, proficuus, pusillanimus, sensatus, sensualis, spiritualis, superbeatus, vassionalis.

97.  Annullare, aptificare, assecurare, augmentare, calculare, captivare, cassare, certiorare, coinfantiare, confortare, contrariare, decimare, deteriorare, deviare, excommunicare, exorbitare, familiarescere, fœderare, fructificare, humiliare, intimare, jejunare, justificare, latinizare, meliorare, mensurare, minorare, propalare, rationare, repatriare, salvare, sequestrare, subjugare, tenebrare, unire, ecc. Dai quali si trassero moltissimi avverbj in iter, oltre medio per mediocriter, e contra per e contrario, quoquam per unquam, non utique per neutiquam, efficaciter per certe, taliter qualiter, ubi per quo, ecc.

98.  Potremmo aggiungere confœderatio, crassedo, creamen, cruciatio, devotamentum, dubietas, dulcitudo, effamen, erratus, exercitamentum, expectamen, favum, honorificentia, humiliatio, gratiositas, indages, infortunitas, interpolamentum, interpretator, interpretamentum, malitas, malum (pomo albero), missa e remissa per missio e remissio, nigredo, noscentia, oramen per oratio, otiositas, pascuarium per pascuum, peccator-trix, peccamen, præconiatio per præconium, profunditas, rationale per ratio, refrigerium, rescula e recula (cosetta), regimentum, scrutinium, sensualitas, signaculum, speculatio e speculamen, vindicium per vindicta, vitupero per vituperator, unio, ecc. E gli aggettivi abominabilis, accessibilis, addititius, æternalis, anxiatus, astreans per astricus, coactius, cœlicus, concupiscibilis, congruus, cordax per cordatus, creabilis, despicabilis, divinalis, dubiosus e dubitativus, fallibilis, illustris, infernalis, infirmis, meridialis, multiplicus, mundialis, notorius, pagensis, participalis, peculiaris, prædicatorius, sapientialis, scholaris, somnolentus, temporaneus per temporalis, urbanicianus, vigilax, ecc.

99.  La lunga dimostrazione che noi abbiamo qui fatta sembra superflua al Diez, poichè dice: «Le lingue romanze hanno la principale fonte dal latino; non già dal classico usato dagli autori, ma dal popolare. Che questo si usasse accanto al latino classico s’è avuto cura di dimostrarlo con testimonianza anche di antichi; ma non che fosse bisogno di prove, s’avrebbe, al contrario, il diritto di chiederne per sostenere il contrario, giacchè sarebbe un’eccezione alla regola». Vedasi pure il suo Etymologisches Wörterbuch der romanischen Sprache. Bonn 1853.

100.  Hisperica famina, tom. V. p. 483.

101.  Leggonsi a caratteri greci in un codice latino di Urbicio, scrittore d’arte militare sullo scorcio del V secolo; donde li copiò il Fabretti, v. 390.

102.  Sta in fine della Diplomatica del Mabillon, e in Terrasson, Hist. de la jurispr. rom. Vedasi anche Francisque Masdeu, Hist. de la langue romaine. Parigi 1840.

103.  Historia, XIV. 6. 9-10.

104.  Τῆ πατρώᾳ φωνῇ, τόρνα, τόρνα, φράτρε. Theophan., Chronogr., fol. 218. — Επιχωρίῳ τε γλώττῃ.. ἄλλος ἄλλῳ.., ῥετὸρνα. Theophilact., lib. II. 15.

105.  Cui ille, non, inquit, dabo. Ad hoc Justinianus respondit daras. Lib. II. 5. Ma la voce appartiene piuttosto al cronista, del X secolo, che all’imperatore. In una lapide pesarese presso il Lanzi leggesi Dono dedro; e in Festo si indica danunt per dant.

106.  Nella preziosa raccolta di iscrizioni cristiane, pubblicate dal De Rossi, incontro altre prove di quanto ho sostenuto.

In una latina con caratteri greci del 269 v’è Consule Kludeio ED Paterno... ED ispeireito Santo... mortova annorum LV ED mesorum XI: cioè coll’i e col d efelcustici all’italiana.

Scompare la differenza tra l’accusativo e l’ablativo; onde a pag. 82 abbiamo un Pellegrinus che vivea in pace cum uxorem suam Silvanam; a pag. 198 Agrippina pone un monumento al marito, cum quem vixit sine lesione animi: a pag. 133 si invita pro hunc unum ora sobolem: a pag. 103 e 133, de sua omnia, e decessit de seculum. Anche nelle iscrizioni delle catacombe giudaiche, pubblicate dal padre Garrucci, leggiamo cum Virginium (pag. 50), cum Celesinum (pag. 52), inter dicais (fra i giusti). Qua su vedemmo mensorum: e altrove pauperorum, omniorum amicus. E così santa per sancta; sesies per sexies; e posuete per posuit, cioè colla coda al modo toscano; come altrove c’è l’iniziale efelcustica, ispiritus, iscribit (pag. 228 del De Rossi); e la h resa pronunziabile in michi, o tralasciata in oc, ic, ilarus, ora, Onoriu, o eccessiva in hossa, hoctobres, hordine. In una delle giudaiche parlasi d’una Venerosa, che ebbe marito per 15 mesi.

107.  Antiq. Medii Ævi, diss. XXXII.

108.  Vedasi Sebastiano Ciampi, De usu linguæ italicæ saltem a seculo quinto, acroasis.

109.  Papiri dipl., p. 124.

110.  Lapo Gianni nella ballata 2 ha

Io non posso leggera mente trare.

111.  Vedasi Obry, Sur le verbe substantif et son emploi comme auxiliaire dans les conjugaisons sanscrite, grecque et latine.

Sur le participe français et sur les verbes auxiliaires (Nelle Memorie dell’Accademia d’Amiens).

112.  Romani vernacula plurima et neutra multa masculino genere potius enuntiant, ut hunc theatrum et hunc prodigium. Curius Fortunatianus in Pithou, Rhetores antiqui, p. 71.

113.  In Prisciano son già citati fabulare, jocare, luctare, nascere, consolare, dignare, mentire, partire, precare, testare; che nei classici son deponenti.

114.  Nel romancio di Coira, invece del passivo laudor, si dice veng ludans; sunt vegnieus ludans.

115.  Nel pronome personale io, tu, noi, voi conservammo dal latino; egli viene da ille, che forse in dativo faceva illui, prima d’essere contratto in illi; e di là il nostro lui; e da eccum illui il colui. Al plurale vi affiggemmo il no, suffisso de’ verbi plurali (ama-no, soffro-no) e s’ebbe eglino, elleno. Loro, coloro, costoro, sono figliati da illorum, istorum; onde si può tacere il segnacaso, e dire il loro consiglio, il costoro piacere, io dissi lui, alma gentil cui tante carte vergo. Voster è analogo di noster e noi lo preferimmo. Gli antichi diceano tui, sui, meo, più analoghi al latino.

Me pro mihi dicebunt antiqui, asserisce ancora Festo, e noi pronunziamo tuttodì me fece, me diede. Anche nis per nobis, donde il ne; ne dissero ecc. La forma fissionale unica del nome italiano non deriva piuttosto dall’ablativo o dall’accusativo, ma è un esito fonetico, nel quale convergevano i diversi casi obliqui del latino casa, ad casa(m), de casa; donu(m), ad donu(m), de dono; nome(n), nomi(na) coi detrimenti fonetici che prima fecero sparire l’m, poi anche l’s, conservata però in tanti linguaggi neolatini (padres, matres, menos spagnuolo: frades, tempus sardo).

116.  Molti esempj siffatti raccolse A. Fuchs nelle Lingue romancie in relazione col latino (Halle 1849).

Nelle iscrizioni abbiamo miles de stipendiist curator de sacra via, oppida de Samnitibus.

Il da non si trova prima del quinto secolo.

117.  Da inde, ama inde convertivansi in dacci, amane.

118.  È degna d’avvertenza l’analogia comune dell’articolo col pronome dimostrativo: in greco ὁ, ἡ, τὸ e ὅς, ἡ, ὁ: in tedesco der, die, das, e dieser, diese, dieses: in inglese the, this, that: in francese il, le, la.

119.  Il sardo ha il futuro aggi’ abè (avrò): a bider l’hamus (a veder l’abbiamo, vedremo): benner hat a innoge (ha da venir qua, verrà): lu deemus bider: hamus a mangicare (vedremo, mangeremo).

Nel Bonvisin, poeta milanese del XIII secolo, leggiamo:

Plu he lusir ka l sol quando ha venir quel hora;

più lucerà che il sole quando verrà quell’ora.

E altrove: Se nu speram in lu el n’ha sempre defende

ni n’ha abandonar in tute le nostre vicende:

cioè difenderà e abbandonerà.

E altrove: Quanto plu tu he scombate alcun meo benvojente

tanto ha lo piu meritar aprovo l’onnipotente:

cioè tanto più meriterà.

Quilli k han esse toi amisi fortemente scombaterò:

cioè saranno.

E nel Bescapè, pur poeta milanese di quel tempo:

Et a lor si fe una impromessa

Ked el no li a abandonare

Fin kel mond si a durare.

Così leggo, dove il Biondelli legge nolia (nolit) e sia: e vuol dire che a loro (agli apostoli) si fe promessa che egli non li abbandonerà fin che il mondo durerà.

Altrettanto avviene del condizionale. Così in Bonvisin:

«Eo gh’heve vontera offende sed eo n’havesse balìa;

io volentieri l’offenderei se n’avessi il potere.

«Ben sope, anze k el te creasse ke tu havissi perire

ke tu per toa colpa havissi dexobedire,

cioè periresti, disobediresti.

«Se l peccador no fosse, segondo ke tu he cuintao

lo fijo dr onnipoente de ti no have esse nao:

non sarebbe nato.

«Quand el saveva dnanze k’um have pur esse perdudi:

sapeva innanzi che noi saremmo perduti.

In Bonvisin trovasi pure spesso il participio del verbo avere col verbo essere, al contrario di quel che usa in francese.

«E s’eo no fosse habindho, tu no havrissi quel honor

«Dond tu serissi habindo d’omiunca godbio plen

«Eo sont habindo trop molle:

fosti avuto, saresti avuto, son avuto, per stato.

I Siciliani dicono anche oggi aju statu, ai statu, annu statu.

120.  Lezione della voce italiana Si.

121.  Thes., 2088. 3.

122.  Mirari Cato se ajebat quod non rideret haruspex, haruspicem cum vidisset. Cicerone, Minus quindecim dies sunt quod minas quadraginta accepisti.

123.  Non è fuor proposito l’accennare che nella pronunzia i Latini pare facessero come i Francesi d’oggi, leggendo chi, chia, chod, ove scrivessi qui, quia, quod. Lo induco da una delle facezie attribuite a Cicerone; il quale, essendo sollecitato dal figlio d’un cuoco pel suo voto a non so quale dignità, gli rispose Tibi quoque favebo; scherzando sulla consonanza di quoque con coche. E Plauto chiama inquilina (in culina) una cuoca; indifferentemente si usava sequutus e secutus, quum e cum, quotidianus e cotidianus.

Anche in lombardo per qui dicesi chi. Il chi italiano invariabile rappresenta le diverse inflessioni del qui latino. Plinio dice: Ex superiori basilicæ parte, qua feminæ qua viri imminebant, e Giovanni Villani: «Federico regnò anni 37, che re dei Romani, e che imperadore. — Con 300 cavalieri, che tedeschi e che lombardi».

Plauto: Quei dixti tu vidisse me osculantem? Che di’ tu?

Terenzio. Invenite, efficite qui detur tibi: ego id agam mihi qui ne detur. È il nostro, Fate che vi sia dato.

Il qui è spesso cambiato in italiano con ci: quinque, cinque: quicumque, chiunque: quisque unus, ciascuno.

In un epitafio del 530 leggesi Petrus filius CONDUM Asclipi. E a vicenda s’una tazza di vetro Dianan (Giona) de ventre QUETI (cheti) liberatus. Vedi Bull. d’archeologia cristiana, 1874, pag. 145, 154; e il De Rossi l’ha per un’altra prova della pronunzia dura del c avanti le vocali e, i, sostenuta dal Corssen, dallo Schuchardt, Der Vokalismus des Vülgarlateins, dal Neumann, Prononciation du c latin. Unde promitto me ego chi supra (qui sopra). Arioald pro me et meos heredes tibi Gaidoaldi vel ad tui heredes ipsa suprascripta terra vidata...ab omni homine defensare. Lupo, i, 599. — Questa formola ego chi sopra ricorre frequentissima nelle carte successive bergamasche in esso Lupo.

124.  A. W. Schlegel argutamente osserva che la voce verbum non fu conservata in nessuna delle lingue neolatine. E ciò forse perchè la teologia le avea dato un senso mistico, che temeasi profanare coll’uso giornaliero. Invece adottarono la voce parabola (in italiano parola, in francese parole, in provenzale paraula, in ispagnuolo palabra, in portoghese palavra), voce di origine greca, e che non potè derivarsi che dai libri santi, dove significa allegoria, similitudine. Observations sur la langue et la littérature provençales. Parigi 1818, p. 109.

125.  Impetratum est a consuetudine ut peccare suavitatis causa liceret — Sæpe brevitatis causa contrahebant, ut ita dicerent, multimodis, vas’argenteis, palm’et crinibus, tecti fractis. Cicerone in Bruto — Ego sic scribendum quidquid judico, quomodo sonat. Quintiliano, Inst., cap. II.

126.  Plutarco, in Temist.; Giustino, XX; Valerio Mass., II, 2; Trifonino, in lib. 48, ff. De re judic.Sant’Agostino: Opera data est, ut imperiosa civitas non solum jugum, verum etiam linguam suam domitis gentibus per pacem societatis imponeret.

127.  Dione, lib. X: all’anno 796 di Roma. Sifilino, in Claudio.

128.  «Dalla magione del meschino gastaldo passato nel palazzo ove stava ad albergo, il conte scôrse nell’alcova il signore in giubba e colla camicia, sopra un sofà bigio ricamato e colla tazza e con un limone, attorniato da gioviale brigata e da paggi; scudieri cogli sproni facevano guardia, e un astrologo spiegava l’almanacco, ecc.». In questo solo periodo paggio, astrologo, sono greci: gioviale, palazzo è latino antico; signore, scudiero, conte, latino basso; sofà ebraico (sophan alzare); almanacco, ricamato, giubba, camicia, meschino, alcova, limone arabo; magione celtico; gastaldo, brigata, sprone, guardia tedeschi; bigio ibero, ecc.

Così nel vivere usuale ci vestiamo di damasco, di mussolina, di indiane, di nankin, di frustagno (fostat), marocchino, cordovano, bulgaro, pantalone, makintosh, kirie, spencer, brandeburgo, pompadour; adopriamo majoliche, bielle, bajonette, pistole, campanelli (campania), crovatte; andiamo in berline, in landau, in brougham; mangiamo persiche, ciriege (kerras), cotogne (da cydon), granoturco, gransaraceno, castagne (castannan nell’Asia Minore), avellane (da avellino), scolopini; adopriamo pasquinate, arlecchinate, i ciceroni, urbanità, palazzi, denaro.....

129.  Max Müller sostenne l’efficienza delle lingue tedesche, in modo che i nuovi idiomi sarebbero il latino, venuto in bocca dei Tedeschi. Non espongo i suoi argomenti, perchè riguardano principalmente il francese; ma la sua teoria vacilla se si ammetta quel che noi sosteniamo, che nel latino scritto ci si conservò solo una parte della lingua; e nel non scritto e parlato poteva essere un’infinità di parole; che noi supponiamo d’origine forestiera; mentre derivavano da quel ceppo che è comune al latino, al greco, al tedesco.

Insistiamo solo su questi punti:

1º I Tedeschi erano piccol numero a fronte degli Italiani: altrimenti e il loro paese natìo sarebbe rimasto spopolato, e nel nuovo avrebbero fatto prevalere il linguaggio tedesco.

2º Con poche parole nuove introdotte, e alcune forme grammaticali impoverite, la lingua italiana, o (per non dare come assentato quel che ora cerchiamo) il latino del medioevo è simile al latino, mentre diversifica grandemente dal tedesco e per le voci e per la costruzione.

3º Questa somiglianza è tanto maggiore quanto più si va indietro, cioè presso all’invasione; mentre dovrebb’essere il contrario se gl’invasori avessero introdotto la nuova lingua.

4º L’accento latino è, generalmente, conservato nell’italiano; e nulla abbiamo di quella proprietà speciale, per cui, in tedesco, la radice mantiene l’accento e nelle derivazioni e nelle composizioni. Ora l’alterazione sarebbe avvenuta naturalmente, se il latino fosse stato trasformato dalla lingua de’ Tedeschi.

130.  Ciò è frequentissimo nel Codice Longobardo; e tacendo quelle che spiegano voci meramente tedesche, vi leggo barbam, quod est patruus (Rot. 164); novercam, idest matriniam (ib. 185); privignum, idest filiastrum (ib.); si quis palum, quod est caratium, de vite tulerit (ib. 298); cerrum, quod est modo laiscum o hiscum (ib. 305). Sulla lingua dei Longobardi e l’influenza di essa sulla latina, vedasi Federico Blühme, Die Gens Langobardorum, ihre Sprache. Bonn 1874.

131.  Nel 730 due notari di Pisa sottoscrivevano, uno Ego Ansolf notarius rogitum et petetum subscripsit et deplevit: e l’altro, Ego Rodualt notarius scripsi et explevi; nel 750 Ego Teofrid notario rogito ad Raculo hanc cartula scripsit; nel 757 Ego Alpertus notarius hac cartula scripsit. Ne’ Documenti Lucchesi, in uno del 765 è soscritto Ego Rixolfu presbitero, Ego Martinus presbiter: in uno del 713 Ego Fortunato religioso presbiter. In una carta del 722, uno sottoscrive Ego Talesperinus eximius episcopus rogatus ad filio meo Ursone testi subscripsi: e un altro, Ego rogatus ad Orsum testi subscripsi.

132.  Anche in sanscrito il pronome dimostrativo è sas, sa, tat.

133.  Vedi Barsocchini, Sullo stato della lingua in Lucca avanti il Mille. Lucca 1830.

134.  Anche nell’impero orientale fu detta romaica la lingua dei Greci; e romancio chiamasi tuttora il dialetto semilatino che parlasi in alcune valli de’ Grigioni. Alberico, nella Cronaca ad an. 1177: Multos libros, et maxime vitas sanctorum et actus apostolorum, de latino vertit in romanum.

San Pier Damiani dice di un francese, vivente in Roma, che, scholatisce disputans (cioè in latino, in parlar da scuole), quasi descripta libri verba percurrit; vulgariter loquens, romanæ urbanitatis regulam non offendit, cioè non lede le grazie del parlare romanzo (Opusc. XLV. c. 7).

Secondo Benvenuto da Imola, la contessa Matilde linguam italicam, germanicam et gallicam bene novit. Antiq. ital., I. 1252; e soggiunge che Gallici omnia vulgaria appellant romantia; quod est adhuc signum idiomatis romani, quod imitari conati sunt. Ib., I. 1229.

Giovanni Mandeville nell’Itinerario: Et sachez que j’eus cest livre mis en latin pour plus brievement diviser: mais pour ce que plusieurs entendent mieu roumant que latin, je l’ay mis en roumant; cioè in francese.

135.  Falso putavit Sangalli monachus me remotum a scientia grammaticæ artis, licet aliquando retarder usu nostræ vulgaris linguæ, qua latinitati vicina est. Martène, Vet. script. ampla collectio, I. 298.

136.  Quando l’arcivescovo Grossolano ebbe dal pontefice il palio, il popolo milanese gridava: Heccum la stola (Landolfo Jun., nei Rerum italic. Script., V. 476). Nella vita del beato Pietro Orseolo (Antiq. ital., II. 1031): Ait abbati lingua propriæ nationis, C abba, frusta me; hoc est, Virgis cede me. Poco poi abbiamo il grido d’arme de’ Crociati Deus lo volt. Nel 1179 Alberto Studense, Data sententia volenti loqui deposito non est data audientia; sed hostiarii clamabant, Levate, andate. Le donne romane all’antipapa Ottaviano davano lingua vulgari il titolo di smanta compagno. Baronio, ad ann. 1154.

I Milanesi contro il messo di Federico Barbarossa gridavano Mora, mora.

137.  Muratori, Ant. estensi, I. c. 36.

138.  Documenti conservati nell’archivio della curia di Milano. 1854. pag. 20. Al Concilio IV lateranense del 1215 Rodrigo di Toledo fece un discorso in latino, e perchè anche i laici lo comprendessero, fu ripetuto in tedesco, spagnuolo e francese.

139.  Alludono all’impresa di Casteldardo, ripigliato dai Bellunesi l’aprile 1196:

Un’iscrizione italiana del 1360, sulla porta della chiesetta di S. Cristoforo a Longarone di Belluno, dice:

MCCCLX fo fata questa glexia al onor de
misier Jexu Χρο e de madona sª Maria e de
misier ser Xροforo e de mis. s. Jachomo,
fata p. Charlo q. maistro Dlavazo (Delavanzio) dotor de
gramadga d. Cividal.

140.  Non ha adunque ragione Scipione Maffei (del quale va utilmente consultato, intorno all’origine della lingua, il vol. II, pag. 540 e segg. della Verona illustrata) quando nella parte IV, cap. 4, adduce una epigrafe veronese, asserendola la più antica, come la più insigne italiana. Sulla iscrizione veronese una lunga dissertazione pubblicò Carlo Cipolla nell’Archivio veneto del 1876, vol. XI, p. II, pag. 277 e segg., dando le varie lezioni di essa, e di altri scritti del tempo. Esso dal marmo la lesse a questo modo:

MERAVEIARTE PO LETORCHE MIRI LAGRANMAGNIFICENCIAEL NOBEL QUARO

QUAL MONDO NONAPARO. NEAN SEGNOR. CUMQUELCHEFE MEYZIRI

OUERONESE POPOL. DALUYSPIRI. TENUTOENPACE. LAQUAL EBE RARO

ITALIANNELKARO. TE SATURO LA GRATIA DEL GRAN SIRI

CANSIGNO FO QUEL CHE ME FECI INIRI. MILLE TREXENRO SETATATRI EFARO

POZONSEEL SOLUNPARO DE ANI CHEL BON SIGNO ME FE FINIRI.

Si interpreta:

Maraveiar te po, lector, che miri,

La gran magnificencia, el nobel quaro

Qu’ al mondo non à paro

Ne an segnor com quel che fe mei ziri.

O veronese popol, da luy spiri

Tenuto en pace, la qual ebe raro

Italian. Nel karo

Te saturò la gratia del gran siri.

Cansignor fo quel che me fece iniri,

Mille trexento setantatri e faro,

Po zonse el sol un paro

De anni ch’el bon Signor mi fe finiri.

Dopo più di 100 pagine il Cipolla chiude esortando a nuova illustrazione.

Poc’anzi a Genova fu trovato un loculo del XIII secolo con epigrafe dei Lercari, scolpita attorno ad un bel bassorilievo di metallo con Maria SS. e il Bambino. L’epigrafe è siffatta:

✠ MCCLVIIII AD . DIES . XVI .

AuGVSTI ANTE TE

RCIAm . TRANSIERV

NT . De . HOC . SeCuLO . DOMIN

A . SIMONETA . et . PRE

CIVARIus LERCARIus . EIus

FRATER: . QuE ANIME . IN PACE . RE

QuIESCANT . ANTE . DEVM . AMEN: .

TU . QI . QI . NE . TrOVI . Per . DE . NO . NE . MOVI.

Questa ultima linea ci sembra in volgare, e noi la spieghiamo così:

Tu che qui ne trovi, in grazia, o per dio non ci muovere.

141.  Monumenta Hist. patriæ, Chart. I. 765.

142.  Ib., 843.

143.  Libro I, c. XI.

144.  

Canto pro quale causa

Gemat Sardinia misera,

De tristi vultu et lacrimas

Mandet inconsolabiles.

Il Madau nel 1778 in lode dell’arcivescovo Melano stampò versi, che sono latini, e insieme sardi del dialetto di Logudoro:

Melani nomen celebre

Cantet superba Calaris,

Et Sarda terra applaudat

Cum jucunda memoria.

Ipse venit de nobile

Et illustre prosapia,

Et veras etiam glorias

Occultat pro modestia

e così segue per 18 strofe. In Sardegna si sente tuttodì claros dies, obscuras noctes, nemos (bosco), pecus. Chi vi ode proverbj come questo, Opus bonu non queret pressa (opera buona non richiede fretta), inclina a credere che la voce pressa vivesse nell’antico latino.

145.  Huillard Bréholles, Cod. Dipl., tom. IV, p. 457.

146.  Sta nella Storia degli Italiani, vol. V. p. 340. Nel ritmo per la cattura di Lodovico II imperatore a Benevento l’871 leggo:

Audite omnes fines terræ orrore cum tristitia

Quale scelus fuit factum Benevento civitas.

Ludhovicum comprehenderunt sancto pio augusto

Beneventani se adunarunt ad unum concilium ecc.

Che vi manca a divenire, e vorrei dire a tornar italiano?

Il Maj (Class. Auctores, v. 492) reca un trattatello sulla medicina, in versi, copiato nel XV secolo da Pier Cennini di Firenze, che al fine scrive: Crispi mediolanensis diaconi ad Maurum mantuensem præpositum explicit: Sed profecto Crispus iste neque poeta est, nec versificator bonus: quippe non ex lege metrorum, sed ad suarum aurium sonum versus composuit, idest rythmum tantum.

147.  È pregiudizio volgare che sia una particolarità dell’Italia l’avere tanti dialetti, mentre, principalmente in Francia, si parli dappertutto una sola lingua. Nulla di più falso, e n’abbiamo una prova recentissima. L’abate Sire, direttore del collegio di San Sulpizio, fa tradurre in tutte le lingue del mondo la Bolla che definisce il dogma dell’Immacolata Concezione. Volle pur farla mettere nei varj dialetti di Francia.

La Francia settentrionale diede cinque traduzioni: in fiammingo, in picardo, in sciampagnino, in vallone, nel vecchio normanno, qual conservasi ancora nel Calvados, nella Manica e nelle isole di Jersey e Guernesey.

La Francia orientale diede nove traduzioni: la Lorena in lorenese tedesco ed in lorenese francese; l’Alsazia nel dialetto del Basso Reno ed in quel dell’Alto Reno; la Franca-Contea in due dialetti dell’Alta Saona, del Doub, del Jura; la Borgogna in borgognone della Côte-d’Or, in maconese di Saona e Loira; in bressino dell’Ain.

La occidentale diede la traduzione bretone nei quattro dialetti di Saint-Pol de Leon, di Tréguies, di Quimper, di Vannes; la poitevina, la vandeana.

La Francia centrale diede la traduzione berrisciona, la nivernese, la borbonese, la limosina, quella delle Marche; in quattro varietà della lingua d’Auvergne; ne’ due dialetti più interessanti del Lionese. Ancor più la Francia meridionale. La Savoja porse tante traduzioni quasi quante le valli. Il Delfinato nei dialetti dell’Isero, della Drôme, delle Alte Alpi. Il Contado nella lingua degli antichi trovadori. La Provenza in quelli di Marsiglia e di Aix; le Alpi Marittime nell’italiano nizzardo; la Corsica nei dialetti di Bastia e di Ajaccio. La Linguadoca nelle lingue antiche delle Sevenne, e nel linguadochese puro di Montpellier e in quel di Tolosa, coltivato nei giuochi floreali; la Guienna nei dialetti di Rouergue e di Quercy, dell’Agenais, segnalato ultimamente da Jasmin; del Périgord, del Bordelese, del Medoc, delle Lande. La Guascogna coi dialetti di Dax, d’Auch, di Bigorre, e col basco del Labour, della Soul, della Bassa Navarra. Il Béarn diede il suo dialetto; il paese di Foix l’ariegese, il Rossiglione quel della Cerdagna.

Le provincie ove non rimase che la lingua nazionale sono la Turena, l’Angiò, il Maine, l’Orleanese e l’Isola di Francia.

148.  Si noti che ne’ Trovadori ci ha i Discordi, componimenti ove si alternano due o tre lingue, e fra esse l’italiana. Così in Rambaldo di Vacchiera, citato dal Crescimbeni, abbiamo

Io son quel ben che ben non ho.

149.  Siam costretti a mettere da banda la canzone e due sonetti di M. Aldobrando da Siena, che vorrebbesi nato nel 1112, morto nell’86. Oltre che si credette error di cifra per 1212, vengono dalla troppo sospetta officina sarda.

150.  Ciera per faccia, rimasto ai Lombardi: gli Spagnuoli dicono cara. Spera specchio. Aulitusa olente, odorosa.

151.  Radice perduta di galante, ringalluzzire ecc. Gallare d’allegrezza fu registrato dalla Crusca.

152.  Vulg. eloq., lib. I. cap. 12.

153.  Præf. ad epist. famil.

154.  Dico dubitando, perchè il Castelvetro sostiene che alla Corte di Federico non si scrisse che provenzale e siculo, nulla d’italiano. Il Trucchi toglie a mostrare che molte delle poesie attribuite a Federico II e a Pier della Vigna (come quella Poi che a voi piace, amore) son di tutt’altri.

155.  Quod si vulgare sicilianum accipere volumus, scilicet quod prodit a terrigenis mediocribus, ex ore quorum judicium eliciendum videtur, prælationis minime dignum est. Si autem ipsum accipere nolumus, sed quod ab ore primorum Siculorum emanat, ut in præallegatis cantionibus perpendi potest, nihil differt ab illo quod laudabilissimum est... Quapropter superiora notantibus innotescere debet, neque siculum neque apulum esse illud quod in Italia pulcherrimum est vulgare; cum eloquentes indigenas ostenderimus a proprio divertisse.

Nei diplomi dei re di Sicilia trovansi i titoli di ρήξ, δοῦκας, πρίνκυπος, φουρεστερίος, κανονίκος, βισκομιτος. In carte siciliane leggiamo στράτα, κολτούρα, κάμπος, φωσσα nel 1091: nel 92 καστέλλος, γρούττα; nel 94 σκάλα; nel 1101 πετζα, nel 1112 υιλλάνοι; e così altrove φούνδακα, φούρνον, πόρτα, δεφενδεύειν, ὀρδινάμος, κογνατοι.

156.  Scrittori del Trecento. L’opinione del Raynouard fu ripudiata da chiunque trattò poi dell’origine delle lingue romanze; ed espressamente da M. Ampère, Formation de la langue française, cap. III, p. 23-34; Ed. du Méril, Introduction à Floire et Blancefort; Fauriel, Leçons sur Dante et les origines de la littérature italienne. Intorno agli errori di fatto del Perticari è a consultare Giovanni Galvani, Dubbj sulla verità delle dottrine perticariane nel fatto storico della lingua. Milano 1845.

157.  Francesco Palermo nell’esaminare i Mss. della già Biblioteca Palatina di Firenze, de’ quali formò il catalogo, si convinceva a molte prove, il toscanesimo che si trova nelle scritture antiche di altri paesi d’Italia esservi stato introdotto da trascrittori toscani. Quindi l’apparenza, abbracciata in luogo di realtà, che in su’ principj fosse spontaneo il parlar toscano per tutta Italia, ovvero vi fosse una lingua nobile italiana, fino dai primi tempi. «I trascrittori toscani, non servili come gli odierni copisti, nello abbattersi a voci e maniere che sentissero del forestiero (e cominciava il forestiero dai confini delle proprie terre), o per necessità di riuscire più intelligibile, o per avversione al disarmonico e al rozzo, lo riducevano nel loro volgare. E anche nella stessa città, quelli che di tempo in tempo trascrivevano lo stesso libro, l’uno riformava più o meno la scrittura dell’altro, cambiando parole e frasi, conformandosi al modo corrente del favellare. Il quale vezzo continuarono anche gli stampatori. E così poi, come gli scrittori e stampatori toscani rintoscanivano le opere di altre provincie italiane, gli amanuensi e stampatori del di là di Toscana imbarbarivan del loro dialetto i libri di questa provincia». Discorso Proemiale, IX. Fra mille esempj ne citerò un solo. In essa Biblioteca Palatina abbiamo una Devozione, cioè una rappresentazione pel venerdì santo, che evidentemente mostrasi scritta in romano, ma copiata nel 1375 da qualche veneto, che trasformò al modo del suo paese assai parole o frasi; talchè le sono scritte or alla romana or alla veneta, p. e. zornata e jornata; e qualche volta ne resta fino tolta la rima. Per es., trovava a mene, e correggeva a mi, e così mancava la rima con pene.

Vedasi pure il Salvini nelle note alla Perfetta Poesia del Muratori.

158.  Diss. XXVIII. Nelle Nuove Effemeridi siciliane 1875 luglio-agosto, Giuseppe Pitré epilogò le ultime opinioni sulla natura e sul tempo del Contrasto di Ciullo d’Alcamo, e conchiude portandolo dopo il 1231, ma travestito dai varj copisti.

159.  V. Morso, Palermo antico, p. 466; Palermo 1827.

160.  Vedi la prefazione del Vigo all’accennata raccolta.

161.  Conspiratio Johannis Prochytæ ex Bibl. script. qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere, a Rosario Gregorio edita; Panormi 1791.

162.  Aggiungono la Vinuta de lu re japica a la gitati di Catania, scritta da frate Atenasio di Aci nel 1287, e la cronaca di frà Simone da Lentini.

Ego frater Simon de Lentinio instandu in Chifalù anno domini 1358 in la quatragesima mi misi in cori incomenzari la conquesta di Sicilia, fatta per li Normandi, la quali era in gramatica (cioè in latino) scrubulosa et grossa, et mali si potia intendiri: secundu lu meu pocu vidiri la volsi traslatari in nostra lingua ecc.

Ne vide una copia nella Biblioteca di Parigi Antonio Marsand (Mss. Italiani della regia Biblioteca Parigina. Parigi 1835), bibliografo lodato e citato da chi vanta e biasima senza aver veduto. Oltre ignorar chi sia questo frà Simone, mentre poteva raccorlo dal Mongitore e dal Di Gregorio, lo crede contemporaneo alla conquista normanna, cioè avanti il 1100, ed «è in lingua siciliana, stranamente barbara: poichè i Siciliani ed i Barbari, cercando allora d’intendersi scambievolmente, ed affaticandosi di pronunciare alcune parole barbare latinamente, ed alcune latine barbaramente, venne così ad introdursi allora fra i Siciliani una terza lingua, che potremmo veramente chiamare la lingua madre di tutte le lingue barbare»!!

Vedasi pure De Giovanni, Cronache siciliane de’ secoli XIII, XIV, XV. Bologna 1865.

Nel vol. III delle Memorie di Sicilia è inserita una dissertazione di Giuseppe Crispi, intorno al dialetto parlato e scritto in Sicilia quando fu abitata dai Greci, corredata d’esempj che scendono fino alla dominazione normanna, cioè al sottentrare dell’italiano. Il dizionario forse più antico a stampa, certo il primo che s’occupasse di dialetti, è il siciliano-italiano-spagnuolo di Cristoforo Scobar. Venezia 1520.

163.  De cathedralis ecclesiæ neap. semp. un.

Pugliese si chiamò sempre il dialetto della bassa Italia, e in quello scrissero molti, nessuno nel napoletano prima che il Sannazzaro l’adoprasse nella farsa lo Glomero. Re Alfonso nel 1442 ordinava gli atti si scrivessero non più in latino, ma in pugliese. Ne discorsero ampiamente il Galeani e Rafaele Liberatore, considerandone l’indole come grandemente diversa da quella degli altri tutti dialetti d’Italia per vocali più aperte, pronunzia più larga e rotonda, sostituire vocali più molli e liquide, mutare il g e il b in v, affiggere i pronomi possessivi (patreto, vitama, casata); a tacer quelle ch’essi dicono gagliofferia e scurrilità, poichè queste tengono piuttosto all’indole dei parlanti che alla parlata.

Vogliono alcuni che le antiche Atellane continuassero nel Napolitano, e fossero quelle che poi si chiamarono farse cavajuole (Vedi Minturno, Poetica, lib. II. p. 169), specie di egloghe o dialoghi contadineschi, probabilmente così dette da Cava, poichè «i popolani di Cava erano stimati in Napoli bizzarri, pronti di mano e feroci», dice il Capecelatro ne’ Diarj, II. 1, 139, 214. Il Partenopeo, cioè Giovan d’Antonio, ha una farsa intitolata Scola Cavajola, che è un chiasso ridicolo, riuscente a zuffe e picchiate. Il Niebuhr vedrebbe nelle Atellane l’origine del Pulcinella.

Il Galiani, con lodi senza misura nè riflessione, sostenne che il dialetto napolitano fu la lingua primitiva d’Italia, usata sul serio fino a mezzo del Cinquecento. È un paradosso, come allora, e come egli principalmente ne usava; e si conosce la lepidissima risposta fattagli da Luigi Serio nel Lo Vernacchio, ma tutte le ragioni che egli adduce appoggiano il nostro assunto.

164.  Raccolta di varie cronache e diarj ed altri opuscoli appartenenti alla storia del regno di Napoli.

165.  È autentico? lo nega affatto Guglielmo Bernhardi, in un lavoro pubblicato a Berlino il 1868, Eine Fälschung des XVI Jahrhunderts. Già faceva senso il vedere alterati i fatti e i tempi: taluno li supponeva tradotti dal latino; il duca di Luynes, che ne fece un commento storico e cronologico (Parigi 1839), suppose avesse lo Spinelli notato gli avvenimenti senza indicar l’anno, e un copista li disponesse come credeva: sul qual dato arbitrario esso Luynes prese a riordinarli poco felicemente, come fece pure il Pabst ristampandoli nel vol. XIX dei Monumenta germanicæ hist. Camillo Minieri Riccio stampò quella Cronaca ridotta alla sua vera dizione e alla primitiva cronologia (Napoli 1865). Il Bernhardi sostiene che sia una contraffazione del XV secolo, probabilmente opera del Di Costanzo, che pel primo ne fe’ cenno nel 1572, e che volle così dare a Napoli la gloria d’aver prodotto il primo storico italiano, e incensar alcune famiglie facendole partecipi agli avvenimenti d’allora. Le ragioni di lui sono confutate dal Minieri Riccio (I notamenti di M. S. difesi ed illustrati, Napoli 1870).

166.  Rer. Ital. Script., VIII. pag. 906 e 927. Recentemente ne parlò Arnoldo Busson, Dier florentinische Chronik des Malespini, und deren Benutzung durch Dante, Inaspruck 1869. Sostiene egli che il Malespini ebbe sottocchio la cronaca di Martin Polacco, sicchè non potette cominciare a scrivere che nel 1278, e forse solo nel 1293, e ancora se n’occupava nel 1299: probabilmente la continuazione di Giacchetto fu dal 1302 al 1309 quando morì Carlo II di Napoli.

167.  Dizionario Geografico ad vocem.

168.  Sul que per che dicemmo a pag. 89. Nella poetessa anglo-normanda Maria del XIII secolo troviamo questo proverbio, bien seit chat cui barbe il loiche: ben sa il gatto cui lecchi la barba.

169.  Vedi Richa, Notizie storiche delle chiese fiorentine, t. IV, part. II. p. 253.

170.  Ap. Emiliani Giudici, Storia della letteratura.

171.  La contropruova l’abbiamo nel francese, senza uscir di casa nostra. Fra le carte angioine conservate nell’Archivio di Napoli, v’ha registri, dove a caso scegliamo, fra i pubblicati da Camillo Minieri Riccio (Napoli 1852): A Raulin de Quilon chatelain du chatel de leuf (di Castel dell’Ovo) militi familiari provisio pro reparatione dicti castri previa extimatione, in qua sint presentes sindici universitatis Neapolis... fol. 102 cujus vigore Johan Buczut et seigneur de Grif de Naple despendeurs deleuvre de reparatio du chatel de salvateur pour la Universitè de Naple, recipiunt quantitatem a Thesaurariis regiis etc. E così via: sono del 1281. Nel dialetto di Cambray, nel 1300 dicevasi: Le sir de Creki adonc ne fut occhi (ucciso)... Ravisez bien, chey my, maugrey tant de misère. (Ravvisatemi bene, son mi, malgrado tante miserie).

172.  Era stato stampato dal Lami. Monum. della Chiesa Fiorentina, tom. I, pag. 75, poi con maggior diligenza da Filippo Brunetti; infine da L. Ferri a Padova nel 1841.

173.  Così bara e feretro; brando e spada; alabarda, partigiana e asta, lancia; forbire e pulire; gonfalone, bandiera e vessillo; flotta e armata; bizzarro e iracondo; laido e brutto; giardino e orto; ricco e dovizioso; guadagnare e lucrare; snello e rapido; guiderdone e premio; magione e casa; e così via. Non mi si oppongano voci tedesche di più antica data, giacchè queste non derivarono dagli invasori, bensì dalla lingua ariana, madre comune del tedesco e del latino; del qual latino, del resto, ripeto che non possediamo se non la piccola parte adoperata dai pochi scrittori che ce ne sopravanzarono.

174.  Il vernacolo di Marsiglia è somigliantissimo a quello di Milano.

175.  Tale è la Nobla Leycon de’ Valdesi, che vorrebbesi del 1100. Appartiene alle poesie valdesi anche la Barca, da cui leviamo questi versi:

De quatre element ha Dio lo mont formà,

Fuoc, ayre, ayga e terra son nommà;

Stelas e planetas sont fey de fuoc;

L’aura e lo vent han en l’ayre lor luoc;

L’ayga produy li oysel e li peyson,

La terra li jument e li om fellon.

La terra es lo plus vil de li quatre element,

De lacal fo fayt Adam, paire de tota gent.

O fanc! o polver! or te ensuperbis!

O vaysel de miseria, or te enorgolhis!

Horna te bene quer vana beota (beltà),

La fin le mostrare que tu aures obra.

Raynouard, Choix des poésies orig. des Troubadours, tom. II, pag. 103.

176.  In Lombardia dicesi rasol della vite, dal sanscrito rasà, cui somiglia più che il greco ῥάξ e il racemus latino. In Calabria si dice piria e piriare, e Petronio ha pyriare per scaldare, da πύρ. E così flaga per un gran fuoco che serve a far lume, da φλέγω.

La Grammatik der romanischen Sprachen di Federico Diez (Bonn 1836-44, in 3 volumi, e 2ª edizione 1856-61) è un vero codice delle leggi fisiologiche e patologiche, secondo le quali i vocaboli si formano e sformano nelle lingue romanze. Esso non ricorre a lingue straniere, ma al solo latino, mostrando le norme con cui una voce di questo si trasforma nell’italiano, nel francese, nello spagnuolo, nel portoghese, nel provenzale. Vedasi anche sir G. Lewis, An essay on the origin and formation of the romance languages, containing an examination of M. Raynouard’s theory on the relation of the Italian, Spanish, provençal and french to the latin. Londra 1863.

G. I. Ascoli, in questo genere facile princeps, nell’Archivio Glottologico italiano (1875 e seguenti) indaga come nessuno mai fece il processo generale della formazione dell’italiano, e del modo di farne stromento o segno dell’unità intellettuale e civile, credendo a ciò conduca ancor più la penna che la lingua, e la fusione idiomatica dipenda dalla civile e intellettuale. Non assentendo a coloro che vanno troppo a cercare le etimologie o derivazioni degli idiomi nostri negli ariani, neppure arride a quelli che la base italica della parola romanza credono affatto aliena dal latino letterario, mentre lo studio rivela più sempre le diversità simultanee o successive, portate dall’evoluzione storica, e le salde e dirette attinenze fra il latino delle scuole e ciascuna delle lingue romanze, e massime il ragguaglio fra quello e queste e l’ampia tela geografica e cronologica in cui la parte latina si trasformò.

Saviamente avverte come facilmente acquisti gloria o nominanza chi si mette a studj nuovi (l’abbiamo visto testè colla geologia)... laonde taluni col pretesto di glottologia negligono la filologia, e vilipendono lo studio dei classici.

Il nostro Saggio è molto anteriore alla propagazione di questi studj, oltrecchè l’intento nostro era puramente storico, come poneva il tema proposto nel 1863 dall’Accademia Pontaniana, al quale noi rispondevamo.

177.  Adduciamone alcune poche, classificandole:

Parentela e affinità. — Fui, fia, fiastru, frate, sora, nepotu, genere, nuora, socra, muiiere, vechiu, june, veduva, amica, vecinu.

Cariche e mestieri. — Principu, principesa, duca, duchesa, capitanu, conte, gubernator, ministru, cancellariu, consiliariu, secretariu, assessor, nobilu, residente, jude, procurator, medicu, doctor, ingenieru, majestru, negotiatoriu, pictor, musicu, comediantu, carbonariu, spreziariu, barbieru, macelariu, caldarariu, funariu, olariu, ciabotariu (ciabattino), fauro, argentariu, ferariu, murariu, pescariu, pastoriu, boariu, vacariu, porcariu, pecurariu....

Abitazione e vestito. — Casa, castelu, corte, palatu, portioriu, fondamenta, pariete, camera, cucina, stala, granariu, armariu, arca, scamnu, candelabru, candela, lumina de cera o de sevu, foca, fumo, esca, caminu, fumariu, carbone, vestamentu, camiscia, calciuni, maneca, colaru, vas, acu, forfeci, scope, fusu, secure, chiae, bastonu, sacu....

Vitto. — Prandgiu, cina, colazie, pastetu, merinda, pane, farina, lardu, untu, aceto, rosol, vinu de doi, dei trei qui; albu, rosciu, muscatu, butelia, ola....

Corpo. — Capu, vultu, facie, fronte, temple, nasu, ochiu, orechie, buca, dinte, umero, dosu, braciu, mana, palmo, degetu, unghie, sinu, latu, costa, stomachu, genunchiu, polpa, nerva, vena, carne, sange, pele, os, cornu....

Azioni. — Stà, sedè, dormè, saltare, avere, vedere, tacere, cadere, auscultare, sonare, fàcere, stringere, arare, jocare, ducere, ardere, armare, cantare, cercare, dare, frangere, figere, fermare, gustare, implere, rinascere, pascere, perdere, piacere, radere, curere, vendere.

178.  In Lombardia dicesi cicion (coccolo), dessedà, impremudà; e possiamo supporre si usassero in latino, giacchè il valacco ha coconu, desceptare, imprumutare.

valacco — quum è? lombardo — comè?
valacco — nòma, numai lombardo — nomà (appena).

179.  Xilander prese ad esame lo skip che si parla dagli Albanesi e dagli Arnauti, e mentre prima credeasi in parentela colle lingue tartare, o misto informe di neo-latine, attestò fosse ramo antichissimo delle indo-europee, derivato dal parlare che si osava colà prima della conquista romana.

180.  Eliade, Parallelismu dal intre limba romena sci italiana. Queste affissioni di particelle, che pajono differenziare la lingua italiana dalla latina, in questa non sono inusitate, avendovi tune, quippe, cuivis, eccum, eccillum, ergone, intellestin’. Forse ce n’aveva altre, più simili alle nostre: forse gli elementi delle nostre non aveano in latino le ragioni eufoniche o anche grammaticali, per cui noi le unimmo. Basti l’accertare che non è un sistema nuovo.

181.  Non voglio dire che la conquista non operi mai sulla lingua d’un paese, ma ci vogliono certe condizioni, di coltura superiore o almeno pari, di numero proporzionato, di spodestamento degli indigeni, di mancanza di precedente letteratura: tutte condizioni che non esistevano per l’Italia, mentre si riscontrano eminentemente nell’inglese, lingua ibrida, dove si combinano due elementi distintissimi, benchè entrambi d’origine ariana; l’anglo-sassone e il franco-normando. Su di ciò vedasi l’opera di Giorgio Marsh (ministro degli Stati Uniti presso il re d’Italia) The origin and history of the english language and of the early literature it embodies. Londra 1862.

Per coloro che nei nostri dialetti gran parte vorrebbero attribuire al celtico, noteremo com’egli riscontri che, in paese di tanta ingerenza celtica com’è quell’isola, pochissimo abbia tal lingua contribuito alla composizione de’ dialetti inglesi, neppure nella Scozia, ove moltissimi resti di cimrico appajono nei nomi geografici e genealogici.

182.  Vedi a pag. 78.

Altra particolarità della nostra lingua è l’accoppiare l’aggettivo singolare al pronome plurale; voi siete stato allegro. Quest’è proprio delle lingue semitiche, come può vedersi nei primi versetti del Genesi.

183.  Queste voci erano perfetti sinonimi nel latino? Il loro passaggio all’italiano potrebb’essere un criterio per determinarlo, e così aggiungere qualcosa al bellissimo trattato di Luigi Döderlein (professore di Colmar morto nel 1863) dei sinonimi e delle etimologie della lingua latina (sei volumi, Lipsia 1826-1838). Egli raccomanda immensamente lo studio delle sinonimie, come lavoro filosofico già accessibile all’ultima infanzia e alla prima giovinezza, e che porge al maestro l’opportunità di famigliarizzare l’intelletto colla luce, arricchire di molte nozioni positive, ampliare anche l’orizzonte del pensiero.

Il Döderlein distingue tre classi di sinonimi:

I. Quelli che hanno una parentela apparente, fondata solo sul tradursi colla stessa voce nella lingua nostra, come liberi e infantes; animal e bestia; hærere e pendere. Il confonderli in latino è un vero solecismo.

II. Quelli tra cui si può stabilire non distinzione sicura, ma che esprimono idee tanto vicine, che fin gli antichi prendeano talvolta l’uno per l’altro: p. e. ater e niger, lascivus e petulans.

III. Quelli la cui differenza non potrebbe assicurarsi sopra testi classici, e che probabilmente neppur gli antichi distinguevano, come fatigatus e fessus, etiam e quoque, pene e prope.

184.  Como. In chiozzoto dicesi «cummodo che può farlo»

185.  De Rossi, Inscriptiones Christianæ ecc.

Anche nel materiale potrebbero mostrarsi infinite somiglianze di idiotismi nostri coi greci. Per nè più nè meno diciamo a capello; e il greco προς τρικα: noi allevarsi la serpe in seno, ed essi οφιν εν τῳ κολπῳ θαλτειν: noi per bevere molto, alzare il gomito, ed essi μασχαλην αιρειν: noi amarsi come il lupo l’agnello, ed essi ως λυκος αρνα φιλει: noi alzar le mani per dare busse, ed essi αιρειν τας χειρας: noi andare secondo la corrente, ed essi κατα ρουν φερισθαι: noi aver a mano per avere in pronto, ed essi δια χειρας εχειν: noi aver il ventre di pollo per non essere mai satollo, ed essi κοιλιαν εχειν αλεκτρυονος: noi aver in bocca alcuno per parlarne, ed essi εχειν εν στοματι: noi comperar le brighe, ed essi πριάσθαι πραγματα: noi dar il cane ad uno per canzonarlo, ed essi λυειν κυνα ετι... noi a chi è affiochito diciamo vedesti il lupo, ed essi λυκον ειδες. Il nostro cantar a sordi è il greco κωφῳ αειν: il nostro dir un carro di villanie è il greco αμαξην βρασφημιον κατασκεδαζειν: il nostro tutto da capo a piedi è il loro παντα εκ των ποδων εις την κεφαλην: d’uno scemo diciamo non ha sale, e i Greci αλμην ουκ ενεστιν αυτῳ: d’un seccante m’empie le orecchie, e i Greci πληρει μοι ωτα.

Anche i Greci dicono bocca (στομα) per foce d’un fiume, e cielo della bocca ουρανος: belare (βληχισθαι) per piangere: accasarsi per maritarsi (συνοικειν): essere in istrada (εν τῃ ωδῳ ειναι) per esser incamminato: star fra l’incudine e il martello (μεταζυ του ακμονος και σφορας): esser in pensiero per alcuno (ειναι εν φροντιδι περι τινος): gettarsi nel fuoco (δια πυρος ριττειν εαυτον) per esser pronto a far di tutto: nè anche per sogno (ουδ’οραν): mettere le mani addosso (την χειρ επιβαλειν) per catturare: scommettere la testa (περι της κεφαλης τεριδοσθαι): stuzzicare il vespajo (τας σφηκιας ερεθιζειν): temere della propria ombra (την αυτον σκιαν φοβεισθαι).

I nostri proverbj «chi va collo zoppo impara a zoppicare — chi troppo tira, la corda si strappa — far d’una mosca un elefante — metter il carro innanzi a’ buoi — il lupo cangia pelo non natura — il ventre non ha orecchi — insegnar nuotare ai pesci — lavar il capo all’asino — tenere l’anguilla per la coda — una rondine non fa primavera» equivalgono ai Greci ανχωλῳ περοικησεις υποσκαζειν μαθασῃς: πορραγησεται τεινομενον το καλωδιον: ελεφαντα εκ μυιας ποιειν: ἠ αμαξα τον βουν ελαυνειν: ο λυκος την τριχα, ου την γνωμην αλλαττει: γαστρην ουκ εχει ωτα: ικθον νηκεσθαι διδασκειν: ονου κεφαλην πλυνειν: απ’ ουρας την εγχελην εχειν: μια χελιδων εαρ ου ποιει.

Chi s’aspetterebbe di trovar in Tucidide il latte di gallina, ορνιθων γαλα? e così mangiar cipolle (κρομμυα εσθιειν) per piangere: e voler mangiare uno (φαγειν τινα) per isbranarlo: e mostrare le calcagna (το κοιλον του ποδες δειξαι) per fuggire: e menare per il naso (της ρινος ελκειν): e un chiodo caccia l’altro (ο πατταλος εξεκρουσε πατταλον).

186.  Thesauro, templo, clarezza, judicio, tene, pensero...

In principio si tenne la preposizione a nel valore del latino: onde in frà Guittone abbiamo «Lungiando a se peccato e villania» (Rime, 1, 59): «Io non posso o non voglio a femina astenere... buono scernendo a male e male a buono» (Lettera 35); e nel Bencivenni (Esposizione del paternostro, 75): «Chi vuole ordinatamente fare, elli dee cominciare a se medesimo». (Fior. Virtù, 24). «Insino a ora (da ora) chiunque di voi chiederà, io adempirò la sua domanda». Questo segno dell’ablativo facea confusione con quello del dativo, onde si sostituì da.

Molte volte è usata dai primi scrittori dove i latini metterebbero ad; non imitati dai successivi. Così frà Giordano da Rivalta, nella pred. 139: «Maria era povera, e non si pur parea; ed elessela in così grande stato a far vergogna alla prima reina»: e Giovanni Villani, 467: «Partita sua masnada a più bandiere»; Ott. comm. di Dante, 3. 639: «Alla memoria si è da sapere» (quo ad).

187.  Vollero dare come padovanismo la frase del libro I, § 39, ove dice che gli Albani vengono trasportati a Roma, raptim quibus quisque poterat elatis. Ma questo è piuttosto un ellenismo, χρῶμαι ὧν ἔχω. Morkof ha una dissertazione De patavinitate liviana. Questi provincialismi sono tanto più notevoli, in quanto il commentatore di Virgilio, pubblicato dal Maj (Classicorum auctorum fragmenta, tom. VII, p. 269), scrive: Dicunt Patavini gentiles se Romanorum.

188.  Sumpto cultu gallico, non ignarus linguæ fugiebat, pro Gallo habitus. Val. Max., lib. III.

189.  Latine loqui a Latio dictum est, quæ locutio adeo est versa, ut vix ulla ejus pars maneat in notitia. De verb. signif.

190.  A. Gellio, xi. 7.

191.  Lib. XXXII. c. 21. Fin al tempo di Cicerone la lingua latina in Spagna pareva pingue quiddam atque peregrinum sonare (Pro Archia, 10); e san Girolamo esortava una madre a insegnare presto a suo figlio la latina lingua, quæ, si non ab initio os tenerum composuerit, in peregrinum sonum lingua corrumpitur, et externis vitiis sermo patrius sordidatur. Ad Laetam, ep. 107.

192.  Livio, xl. 42.

193.  Festo ad vocem Oscum.

194.  Nelle Veterum Oscorum inscriptiones (Napoli 1841), Jannelli pretende dichiarare da 300 monumenti scritti.

195.  Inscriptiones umbricæ et oscæ quotquot adhuc repertæ sunt omnes ecc. Berlino 1841.

196.  A. Gellio, XVII. 17. Le iscrizioni osche sono le più facili a intendere, come aasas aras, dolud dolo, ligud lege, genetai genitrici, kvaisstur quaestor, regaturei rectori, aikdafed ædificavit, deicum dicere, fefacust fecerit, herest volet, prufatted probavit, set sit, alttram alteram, pùs qui, amaricatud immercato, malud malo, anter inter, contrud contra, inim enim, nep neque ecc.; — mentre le etrusche danno etera altera, clan natus, phuius filius, avils ætatis, turce donum, tece posuit. Nella tavola osca di Banzia Suve pis contrud exeic fefacust si quis contra hoc fecerit: PIS CEUS BANTIUS FUST qui civis Bantinus fuerit. Esso Fabretti conchiude: «La fratellanza dei vetusti dialetti sparsi in Italia, riconosciuta dai segni alfabetici, si dimostra meglio coi ripetuti raffronti delle voci umbre ed osche ed etrusche in tra loro o coll’idioma latino; così l’osco deded e con etruschi caratteri tetet, era tez nell’Etruria, e forse dede nell’Umbria, e dedet e dede (dedit) nelle bocche del popolo romano. Con gl’idiotismi ed arcaismi che occorrono spesso nella latina epigrafia, si avranno argomenti per discorrere fondatamente intorno alla origine della lingua italiana, più remota di quel che generalmente non credesi: moltissime forme popolari verranno innanzi, raccolte dai monumenti de’ più bei tempi di Roma repubblicana, e dai modesti funebri ricordi dei primi martiri della Chiesa». Vedi qui sopra, a pag. 160.

197.  Braich diceva l’antico gallo, e i lombardi brasc; come dicono cadenn al modo del bretone e dell’irlandese; provecc (Ciascun fait gran provecc qui bien tient ce qu’il oie) come nel francese antico; fioeu come nell’Anjou; ciao come nel gallese; uss come in altri francesi dialetti. Il milanese bagai risponde al bugale in bretone, come smorzà per ispegnere: sango de mi, dove te cascet sentesi nel Berry come nel Milanese: cova per gallina nel Delfinato. Moltissime voci lombarde sono identiche colle provenzali. Alcune vennero dal greco senza attraversare il latino, come toma (πτῶμα), usmà (οσμᾗ) annusare, peston (πιστὸν), trabescà (τρέπω), rud (ῥύπος), magàri (μάκαρι): altre dal latino che non furono adottate dall’italiano comune, quali sidella (situla), offella (offa), mica (mica panis); medina per zia, cogoma per bricco, prestin per forno, pasquèe per piazzuolo erboso, sbergnà per canzonare da spernere, e assai altre, massime nella montagna. Navascia diciamo la bigoncia in cui si pigia l’uva; e Festo definisce nevia lignum cavatum ut navis, quo in vendemiis uti solent. Illò per in quel luogo dicono i villani, e Festo ci avverte pure che pro huc, HOC veteres dicere solebant, sicut pro illuc, ILLO.

198.  Vedasi Il Vangelo di S. Matteo volgarizzato in dialetto cosentino... del principe L. Luciano Bonaparte. Londra 1862.

199.  Per brevissimo saggio di dialetti di paesi lontani accenniamo:

Friulano Milanese Reggino  
 
sang sang sangu sangue
madonne madonna madonna suocera
diaul diavol diaulu diavolo
ligrie legria lligria allegria
brazz brazz brazzu braccio
trezzis trezz trizzi treccie
mollar mollà mollar lasciarsi cadere di mano
ven ven veni vieni
lusive la luna lusiva la luna dduciv’a luna splendea la luna.

200.  Vedi Mazzoni Toselli, Origine della Lingua Italiana, p. 120. Egli parla d’un poema del 1360 in dialetto bolognese.

201.  Vedi Scorsa d’un Lombardo negli Archivj Veneti, per C. Cantù. Milano 1855. Nell’archivio notarile di Venezia è un testamento di Maria vedova Gradonio de Troja del 1297 settembre, che dice:

«Questo sie lo testamento de Maria, relicta de gradonio de troja. Ordeno soldi XVI de grossi per mese (messe). Eba mio fio Antonio adeso soldi XXX de grossi che lo voi andar a lo pasazo per mi quando elo andera: ese elo non andase, sia tegnuto un altro per mi mandar. Per congregacion grossi VII simbolo per zascuna. Laso ad almengarda soldi vi de grossi. A nida soldi vi de grossi cheo li de dar. A dona lena grossi VII simbolo A sor Margherita soldi II de grossi. A lo nodar che fa lo testamento mio grossi XXII questo cheo e ordenato si sia trato delo fito dela casa e si sia pagato quelo che lago per lanema mia eo elagato ecc.». V. Atti dell’Ist. Veneto, 1862, p. 363.

In un poema in terza rima di Francesco di Carrara il vecchio, pubblicato dal Lami nelle Delizie, occorrono idiotismi veneti; impazzo, fiòlo, maraveia, angossa, fazza. Nelle carte di Emanuele Cicogna è un poema sulla vita di Gesù Cristo, copiato nel 1420, dove si trova, fra tant’altre bizzarrie, stagno per fermo, qual si usa tuttora in Lombardia; e «dumente che de la catolica fede sia zelatore» invece di purchè, come anche oggi dicesi in Lombardia domà. Per quanto l’amor patrio la ripudii e la critica la appunti, non si può con certezza asserire falsa la lettera di Dante a M. Guido da Polenta, scritta da Venezia il 30 marzo 1313. In essa egli lamenta che il Consiglio veneto non intendesse il latino. «Giungendo alla presenza di sì canuto e maturo collegio, volsi fare l’ambasciata vostra in quella lingua, la quale, insieme con l’impero della bella Ausonia, è tuttavia andata ed anderà sempre declinando: credendo forse ritrovarla in questo estremo angolo sedere in maestà sua, per andarsi poi divolgando, insieme collo Stato loro, per tutta Europa almeno. Ma ohimè! che non altramente giunsi nuovo ed incognito pellegrino, che se testè fossi giunto dall’estrema ed occidentale Tile: anzi io poteva assai meglio qui ritrovare interprete allo straniero idioma s’io fossi venuto dai favolosi antipodi, che non fui ascoltato colla facondia romana in bocca. Perchè, non sì tosto pronunciai parte dell’esordio, ch’io mi avea fatto, a rallegrarmi in nome vostro della novella elezione di questo ser Doge, che mi fu mandato dire o ch’io cercassi di alcuno interprete, o che mutassi favella. Così mezzo fra stordito e sdegnato, nè so qual più, cominciai alcune poche cose a dire in quella lingua che portai meco dalle fasce; la quale fu loro poco più familiare e domestica che la latina si fosse».

Ciò attesterebbe che fin d’allora usavasi il dialetto veneto anche in materie gravi e di Stato. Del qual dialetto abbiamo nuovi documenti nelle parole e frasi che il signor Luigi Pasini racimolò in carte dell’Archivio generale, dove fin nell’XI secolo abbiamo i nomi Valentino de pantano, Orso Zorzi Gambaserica, Stephanus de Calle, Dominicus Zane, e i luoghi de Dorsoduro, da Cavanna, patriarcado, i fondamenti dananti ripa, e bene repremere et sapare l’uva e pigiarla a pede coverto. Questa messe cresce ne’ secoli seguenti, ma è a dolere ch’egli ce ne dia le voci staccate, anzichè la frase stessa. Il documento del 1223 porta la denunzia e stima di alcune proprietà, dove troviamo:

la casa et la terra de loponte de albrigeto et cognato ejus, libre CCCC

la casa et la terra de tomao ferrario, libre CXIJ ecc.

e nell’anno seguente:

illi de ca viadro laboraverunt domum suam da riauto sine parabola

illi de ca zorzo laboraverunt domum suam da rialto sine parabola

matheo barbani de san paulo gita motiglioni IIJ per far atana (altana?) super rivo.

Oltre le carte già addotte da me e dal Romanin, n’è del 1260-61, dove si legge: Ancora fo ordenado che se alcun frar de la scuola sera infermo, lo gastoldo coli degani sia tegnudo de visitar quelo do fiade alla domada, o alcun delli a saver le soe condicion e farli ogni consolacion per si e per li suoi frari.

Più n’abbondano in appresso. Un bando del 1374 in lingua padovana comincia: «De comandamento del magnifico segnor messer Francesco de Carrara, de la cità de Pava e del destreto imperial vicario, per uno trombeta sia fato publica crida in gi logi uxè (usati) en la forma enfrascrita ecc.». E segue l’enumerazione de «zascheduna generazion e qualitè de delito del quale, secondo raxon o ver statuti de le dite citè de Verona o de Vicenza o de i so destriti, o de zascheduni altri logi subieti al magnifico predicto Cansignore, encora en pena personale, o ver se cum arme ree atrocelmente avesse ferio o empiagò alguno ecc.».

Dov’è a notare la caratteristica de’ dialetti veneti di scempiar, le consonanti; e quel che Dante già avvertiva che «i Padovani in tutti i participj in tus e i denominativi in tas fanno brutta sincope, come è mercò e bontè».

202.  Questa prova fu testè con maggior ampiezza e diligenza rinnovata dal signor Giovanni Papanti: I parlari italiani in Certaldo alla festa del V centenario di monsignor Giovanni Boccaccio. Livorno 1875.

203.  Alo nom del nostr segnor Yhu Xpst amen. A lan de lassoa natività Mcccxxi ala quarta indicion en saba a XXV dì del meis de loign en lo pien e general consegl de la compagnia de messer saint Georz de Cher a son de campana et a vox de crior. En la caxa de lo dit comun de Cher al mod uxà e congregà el fu statuì e ordonà per col consegl e per gle consegler de lo dit consegl e per gle rezior de la dita compagnia gle quai adonch gli eran en gran quantità e gnun de lor discrepant fait apres solemn parti che gli infrascript quatrcent homegn de la dita compagnia seen et debien esser perpetuarmeint e se debien nominer un hospicii co e hospicii de la compagnia de sein Georz. I quagl homegn debien e seen entegnu perpetuarmeint consegler a drit e learmeint la ditta compagnia e i consol e gli homegn de colla compagnia a bona fay, non declinand a alcuna voluntà se no alchuna utilità del corp de colla compagnia.

204.  Che mi cercate di ciò.

205.  Vi fossi anche a peso, vi dispiacessi.

206.  Che ho un bel marito, che voi non siete, ben lo vedo.

207.  I documenti più antichi de’ varj dialetti sono raccolti in molti lavori recenti. Scritture in modenese del XIV e forse XIII secolo stanno nel fascicolo VIII degli Opuscoli religiosi, letterarj e morali di Modena, t. III. p. 211; sono laude de’ Battuti, esistenti in un codice, finito di scrivere il 17 luglio 1377; ma i cui componimenti sono forse da riferire al tempo che quelle Compagnie vennero istituite, cioè verso il 1260.

208.  Vulg. El., I. 11 e 10.

209.  Vulg. El., I. 1.

210.  Vulg. El., II. 17. Manzoni esaminò quest’opera per confutare il Perticari e il Trissino (1868); e meglio il D’Ovidio nell’Archivio Glottologico, 1873: tutti dunque posteriori al nostro lavoro e con altri intenti.

211.  P. E. del lombardo burla quella frase Inte l’ora del vesper ziò fu del mes d’october, che gli par rea più del vero. Non è qui il luogo a discutere le bizzarre dottrine di Dante in quest’opera, sol noteremo alcuni punti:

«Il vulgare italiano antico illustre cortigiano (egli dice) è quello il quale è di tutte le città italiane, e non pare che sia di niuna; al quale i vulgari di tutte le città d’Italia s’hanno a misurare, ponderare, e comparare».

Sembra voglia dire che la lingua che si scrive è una che non si parla in nessun luogo. Chi s’adagerebbe a tale sentenza? Rimproverando i Fiorentini perchè «arrogantemente si attribuiscono il titolo del vulgare illustre», rinfaccia loro due vocaboli, introque e manicare. Or bene; questi due vocaboli egli stesso adopera nella Divina Commedia:

Sì mi parlava, ed andavamo introcque. Inf., XX.

E quei pensando ch’io ’l fessi per voglia Di manicar. Inf., XXX.

Ma il suo scrivere, quanto alle parole, è identico con quel dei toscani suoi contemporanei, sicchè, s’egli asserisce d’aver usato lingua diversa, «ciò tanto gli si dovrebbe credere (dice il Machiavelli) quanto ch’ei trovasse Bruto in bocca di Lucifero».

Del toscano fa altrove grandi elogi, e dice essersi valso del vulgare fiorentino, propriamente quello che parlavano suo padre e sua madre. «Questo vulgare fu congiungitore delli miei parenti, che con esso parlavano... perchè manifesto è lui esser concorso alla mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere... e così è palese e per me conosciuto esso essere stato a me grandissimo benefattore... Se l’amistà s’accresce per la consuetudine, manifesto è in me sommamente cresciuta, che sono con esso vulgare tutto mio tempo usato». Convivio, Trattato I, cap. 13.

212.  Questo partito sembrerebbe opportuno anche per un dizionario etimologico italiano, dove s’abbandonassero le voci derivate più o meno direttamente dal latino e dal greco, e si esaminassero quelle che hanno origine diversa: p. e. ammiccare, astio, avello, avventare, baccello, bagliore, balza, berlina, bieco, bigoncia, bilenco, bisbiglio, bolso, boria, broncio, brutto, bufera, bussare, caffo, ceffo, ciacco, cimento, covone, crusca, dileggiare, elsa, foggia, frasca, gara, gire, gozzo, masso, minestra, melma, nastro, pazzo, pentola, pergamo, peritarsi, pezzente, pignatta, salassare, schiaffo, ticchio, tomajo, topo, tralcio, vetta, vizzo, vuoto, zolla, zuffa.

Molte voci abbiamo derivate dal greco, che non trovansi in latino, come

masticare da μασταζειν zio θεἳος
spata σπάθη liscio λισσός
tomba τύμβος mustacchi μύσταξ
ballare βαλλίζειν piatto πλαύτς
botte βύτις pitocco πτωχός
borsa βύρσα tapino ταπεινός.

Girare, che è in Plinio, Nat. Hist., viene da γῦρος, donde noi traemmo giro. Magari!, che i Latini diceano utinam, è dal greco μακάριος, e trovasi già in Ciullo d’Alcamo (macara se dolesseti), e in altre lingue romanze, come nel romancio di Coira, magari ca ei fuss bucca ver, così non fosse vero! e nel valacco màcar cë: nel serbo makar; nell’albanese màcar.

In Calabria si dice tuttora crai, poscrai per domani e posdomani; velte per tronco; vertola per bisaccia.

I grammatici ne dicono che gli Etruschi chiamavano καῶρα la capra: come i Siculi καγχαλος il ganghero.

Il napoletano dice strata, più vicino al latino che strada; e annare, comannare, siccome nel latino primitivo imbattiamo innulgentia, verecunnus, e in Plauto, tenno, distenno, dispenno.

213.  Veramente le poesie del Meli, a cambiar ben poco, riduconsi italiane, dal che sono troppo lontane quelle degli altri:

Già nni invita, già nni chiama

Primavera ’ntra li ciuri (fiori):

Ogni frunda nni dici, ama;

L’aria stessa spira amuri.

Vola un zefiru amurusu

’ntra na nuvola d’oduri;

Chi suavi e graziusu

Scherza e ridi cu li ciuri.

Manna lampi d’alligria

Lu pianeta risplennenti,

Chi rinnova, chi arricria,

Chi abbellisci l’elementi.

214.  Anche il Boccaccio dice che «molti uomini savj moveano generalmente una quistione che, conciossiachè Dante fosse in iscienza solennissimo uomo, perchè a comporre così grande, di sì alta materia e sì notabile libro com’è questa sua Commedia, nel FIORENTINO IDIOMA si disponesse?».

215.  Purg., VII. 17: Di rimpatto Virgilio domanda a Ciampolo: «Conosci tu alcun che sia latino sotto la pece?» cioè italiano: e altrove dice a Dante: «Parla tu, questi è latino»; ed era Guido da Montefeltro, cui poi, nel Convito, Dante chiama «il nobilissimo nostro latino»; e terra latina l’Italia.

216.  Cicco Simonetta scrive nel suo taccuino: 1476 die lunæ XXI octobris, ivi ex Mediolano ad S. Mariam de Gratiis de Modœtia, ibi audivi duas missas ab fratribus loci, et ibi vovi non comedere in die veneris de pinguedine sive de grasso. E tale è l’andare di tutto il latino d’allora.

217.  Archivio storico italiano, nº 29 del 1862. Anche adesso, ma più pochi anni fa, i Piemontesi mescolavano moltissime parole prettamente francesi al loro idioma; e aveano sempre in bocca cependant, jamais, ce matin, désormais, en attendant, vite, c’est à dire, à mon tour, au pis aller, voilà, c’est ça, ecc. L’aristocrazia non avrebbe mai detto altrimenti.

218.  Il Cesari e il Puoti cercarono nella lingua l’eleganza ma non ne spiegarono la natura. — Fr. H. Jacobi diceva che ogni filosofia, in ultima analisi, non è che lo studio sempre più profondo dell’invenzione del linguaggio.

219.  Questa lista sarebbe dunque stata scritta verso il 1454; non nel 1423, come porta ordinariamente.

220.  Questa cifra manca nell’originale: io l’ho posta presuntivamente. Nel 1490 la rendita totale fu di ducati 1,149,400; le spese ordinarie, d. 211,400; i salariati d. 37,570.

221.  Sotto nuovo aspetto considerò Cicerone il sig. D’Hugues professore di Tolosa, cioè come proconsole in Cilicia (Une province romaine sous la république, Parigi 1876), mostrando in che orribile servitù fossero le provincie sotto la sfrenata podestà dei proconsoli, che cambiavansi ogni anno con tutti gl’impiegati; colonia di aristocratici affamati che succedeva alla colonia dei satolli.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.