Title: La sposa di Mènecle: Comedia in un prologo e tre atti, con note
Author: Felice Cavallotti
Release date: October 21, 2019 [eBook #60543]
Language: Italian
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FELICE CAVALLOTTI
LA
Sposa di Mènecle
COMEDIA
IN UN PROLOGO E TRE ATTI
CON NOTE
IN ROMA
Presso Forzani e C., tipografi del Senato
EDITORI
1882
PROPRIETÀ LETTERARIA
DEGLI EDITORI-TIPOGRAFI FORZANI E C.
[vii]
Una delle arringhe giudiziarie, a noi pervenute, di Iseo (l'oratore ateniese che fiorì sui principî del IV secolo avanti l'era volgare e fu maestro a Demostene), arringa intitolata: Della eredità di Mènecle, tratta di un caso giuridico che suggerì in germe la idea della presente commedia e il nome del suo protagonista. Ed è curioso che dei tanti grecisti i quali si son degnati di farmi, nelle appendici critiche, la lezione sulla commedia mia, sentenziando non verosimile il caso, nessuno abbia mostrato tampoco di conoscere il buon vecchio oratore Iseo almeno di vista. Mi sbaglio: l'uno di essi, più grecista degli altri, sentendo proferito nella commedia quel nome, mi rimproverò di avere alluso al discorso di Iseo dell'onorevole Zanardelli, e mi ammonì paternamente che queste allusioni non sono roba [viii] di sapor greco! Passiamo oltre... e veniamo al piato giudiziario che dovette decidersi a quei tempi davanti ai giudici cittadini ateniesi.
Un giovine orfano adottato per figlio da certo Mènecle, al quale avea dato la propria sorella in isposa, e divenuto, alla morte di Mènecle, erede di lui, si vede contesa la eredità da un fratello del defunto: il quale afferma in tribunale l'adozione non essere stata legittima, ma carpita al vecchio, già imbecillito dall'età, per mezzo di sua moglie, sorella all'adottato. Iseo scrive l'arringa in favor di quest'ultimo e sostiene legittima la adozione e la eredità, difendendo il giovine dall'accusa. Era questa poi falsa? Era vera? V'ha chi inclina a quest'ultima ipotesi: e scorger vorrebbe nell'arringa di Iseo la perizia di un avvocato abilissimo messa a servizio di due giovani imbroglioni, sfruttanti la imbecillità senile di Mènecle. A me la ipotesi pare molto avventata; dato che le cose stessero a quel modo, bisognerebbe ammettere che causa cattiva di rado fu difesa con migliori e più commoventi argomenti. Checchè ne sia, ecco i fatti, quali l'accusato, nell'arringa che da Iseo per lui fu scritta, innanzi ai giudici li espone: giusta la legge che agli accusati prescriveva di perorare la propria causa in persona:
Due vecchi ateniesi, Epònimo del borgo di [ix] Acarne e Mènecle, erano uniti da intima amicizia. Il primo morì lasciando quattro figli, due maschi (di cui l'uno è l'accusato) e due femmine. La maggiore fu maritata dai fratelli a certo Leucolofo. Quattr'anni dopo, quando la minore era già in età da marito, al vecchio e ricco Mènecle morì la prima moglie: ed egli andò dai due figli di Epònimo a chiedere in seconde nozze la lor sorella, in memoria dell'amicizia antica che lo legava al loro padre defunto. I due fratelli, in reverenza della memoria del genitore e pensando interpretarne il voto, di gran cuore gliel'accordarono. Ed ora lasciamo all'accusato la parola:
«Così collocate entrambe le sorelle, io e mio fratello, essendo giovani, ci demmo alla milizia e partimmo per la Tracia sotto la condotta di Ificrate. Quivi fattoci onore ed arricchitici, tornammo qua e trovammo la sorella maggiore con due figliuoli, e la minore sposata a Mènecle, senza prole. Questi, di lì a due o tre mesi, parlò con noi, e dettoci della sorella nostra un gran bene, si lamentò della propria età e dell'essere senza prole. Disse non dovere essere quello per lui il guiderdone della sua virtù, di invecchiare con lui senza aver figli: era già abbastanza che fosse infelice lui. Questo parlare chiaramente mostrava che egli la rimandava amichevolmente: perchè nessuno prega cui [x] odia. Ei ci pregava di rendergli un segnalato servigio, dando la nostra sorella in moglie ad un altro col consenso di lui. E noi lo esortavamo a persuadere egli stesso la donna; e ove ella avesse acconsentito, noi avremmo appagato il desiderio suo. E quella, sulle prime, non volle saperne; ma poi col tempo, benchè a malincuore, acconsentì. E così la maritammo a Elèo del borgo di Sfetto, e Mènecle le restituì la dote...
«Passato da questo fatto alcun tempo, Mènecle meditava pur sempre tra sè come scongiurare la mancanza di prole, e come avere qualcuno che, lui vivo, avesse cura della sua vecchiaia, e morto gli celebrasse le esequie e i sacrifici ereditarî. Aveva bensì un nipote, il figlio di costui (l'avversario attore): ma essendo figlio unico, riteneva disdicevole, adottandolo in figlio proprio, privar di prole mascolina il fratello. E così stando, non vide altri a lui più prossimi di noi. Quindi ci parlò dicendoci parergli giusto, postochè la fortuna non gli aveva dato procrear prole dalla sorella nostra, avere almeno un figlio dalla stessa famiglia, onde avrebbe amato aver prole per via naturale. Questo udito, mio fratello assai lo ringraziò e lo approvò, dicendo che alla vecchiaia e alla solitudine di lui certo abbisognava qualcuno che di lui avesse cura e con lui convivesse nel borgo: «Per mio conto, [xi] egli disse, tu sai che mi tocca star fuori in viaggio; ma ecco qui mio fratello (me additando) che curerà le tue cose e le mie, se tu vuoi adottarlo». E Mènecle approvò le sue parole, e in questo modo mi ebbe figlio ed erede suo». Iseo, Ered. Mènecl., § 6-12.
È egli strano che, mentre sotto a questo racconto il Lallier non vede altro che tutto un intrigo ordito dai figli di Epònimo, fratelli e sorelle d'accordo, per impadronirsi dell'eredità di un vecchio ricco e senza figli; mentre la stessa renitenza della fanciulla ad accettare in sulle prime il divorzio gli pare aver l'aria di una commedia, e gli strappa un sorriso d'incredulità (Lall., La femme à Athènes, pag. 257 e seg.), al cuore di una donna invece abbia sorriso la poesia dell'accettare questo racconto per vero e credere ad un esempio raro e commovente di abnegazione, di generosità e di virtù? (Clarisse Bader, La femme grecque). Certo non è a dimenticarsi che questo è il racconto di una sola delle due parti, l'accusato, e a noi manca, per dar un giudizio, l'arringa dell'accusatore: e certo il figlio di Epònimo, soccorso dalla consumata abilità di Iseo, non avrà trascurato nel racconto, come qualunque accusato, di esporre i fatti sotto la luce che più gli giovava per muovere i giudici in proprio favore. Ma ammesso anche ciò, tutto [xii] il linguaggio dell'arringa ha pur sempre un accento di verità che colpisce: e le poche parole che Iseo ha posto in bocca al vecchio Mènecle sono tanto belle di semplicità, di naturalezza e di commovente nobiltà d'animo, che l'arte, a cui nulla importa dell'esito, qualunque fosse, di quel piato giudiziario di secoli fa, ancor meno sente il bisogno di giudicarle a priori una invenzione sfacciata, e di credere gratuitamente che il grande oratore che preparava Demostene ai magnanimi impeti e alle glorie della civile eloquenza fosse l'ignobile patrocinatore di una ignobile mariuoleria.
Ora, mutatis mutandis, e messi gli accessorî da parte, intorno a quelle semplici parole di Iseo si svolgono e favola e intreccio della commedia presente. La quale nel pensiero dell'autore mirava a innocentissimo scopo: e non quello già — Dioneguardi! — di scrivere intorno al divorzio una commedia a tesi; genere di roba a cui l'autore professa insuperabile repugnanza e ch'egli volentieri abbandona ai moderni riformatori della società; ma senza tante pretese, fra le cento e cento soluzioni del problema, escogitate in cento e cento drammi, una affacciarne, esempligrazia, già scritta nel diritto e nel costume antico, adatta a moderni casi, e sul teatro moderno non comparsa ancora: e questa, ad argomento [xiii] non di tirate nè prediche filosofico-sociali, ma di una azione comica che ritraesse al vero la vita intima greca del secolo di Menandro e profili e idee e affetti e tipi della nova commedia menandréa. L'autore però non avea pensato ad un guaio: che quella vita intima d'allora, così diversa per chi la guardi alla superficie, studiata dappresso, e minutamente, somiglia in moltissime cose, come due goccie d'acqua si somigliano, alla vita intima d'oggidì: e che molti di que' tipi, di que' caratteri, di quegli affetti della commedia greca del IV secolo, trovano ancora oggi negli affetti e ne' tipi della società nostra riscontro meraviglioso: chè appunto non per nulla fu gloria di Menandro lo avere studiato dentro di sè e intorno a sè ed evocato sulla scena l'eterno umano, tutto ciò che nelle passioni, e nei dolori e nei ridicoli ha di eterno la umana natura: e per dirla con Manilio, «data la vita umana in ispettacolo ai viventi» (Manilius, Astronomicon, lib. V. E già prima di lui, Aristofane il critico esclamava: O Menandro! O vita umana! chi di voi due ha imitato l'altro?).
E così avvenne che la mia povera Sposa trasse seco dalla nascita la condanna sua, al cospetto dei critici... che la sanno lunga: i quali senz'altro, [xiv] lì sui due piedi, con grande sussiego sentenziarono lei non essere che una moderna sposina sotto spoglie mentite; e non avere altro di greco fuor che le vesti ed il nome. Anzi qualcuno dei meno arcigni tra questi andò più in là, e si degnò con indulgenza domandarmi perchè mai, dal momento che la mia era una commedia affatto moderna, avessi ricorso al travestimento e non avessi dato addirittura ai miei personaggi moderni nomi, e messa la scena a Milano od a Cuneo. Eh, Dio buono! i perchè sono tanti: e tra i cento anche questo, che a Milano od a Cuneo, la soluzione pensata dal vecchio Mènecle, e a noi da Iseo testificata, se anche risponde al sentimento nostro, con i codici nostri non sarebbe stata possibile; sebbene anche a Milano ed a Cuneo essa forse sarebbe, pure ai dì nostri, in moltissimi casi desiderabile. E il mio Mènecle non essendo un moralista delle commedie a tesi, non declama su le leggi come sono da farsi, ma si serve delle leggi come sono già. Il che, per questi tempi di verismo, m'è parso anche più vero.
Ma con quei critici sapienti, autorevoli, competenti e consumatori di enciclopedie, dilungarmi in risposte non parmi del caso: e con le loro nozioni profonde della vita greca e del mondo greco, di riuscire ad intendermela dispero. Ai benevoli poi, i quali lessero nello intendimento [xv] artistico dell'autore, e furono larghi alla Sposa ne' teatri d'Italia di accoglienze cortesi, a questi dedico il volume con le note che l'accompagnano: soverchie certo a molti di loro per l'amore che professano a questi studî: non soverchie all'autore per il rispetto che deve all'arte sua.
Felice Cavallotti.
[1]
[3]
L'azione del prologo ha luogo in Atene l'anno 300 avanti l'E. V. (1º della 120ª Olimpiade) ossia 80 anni dopo l'epoca in cui è posta l'azione della commedia.
DICASTERO ATENIESE.[2]
Aula del Tribunale verde (Batràchio).[3] Pareti colorite in verde. Su alcune colonne sono scolpite in tavole le leggi penali.
Verso il boccascena, a sinistra, è disposto il seggio elevato del Tesmoteta, che vestito di bianco e coronato di mirto, presiede. Accanto a lui, dai due lati, si stendono le gradinate o banchi di legno, coperti di stuoie (πίαδια)[4] per i giudici (eliasti) occupanti tutta la sinistra del palcoscenico, e supponentisi continuare in platea. Il recinto dei giudici è circoscritto nello sfondo da steccato o sbarre (δρυφάκτοις), di là dalle quali [6] è lo spazio riservato al publico dei cittadini che frequentan le udienze: e più oltre in fondo, nel mezzo, l'ingresso, chiuso da un cancello (κιγκλίς).[5] Presso l'ingresso, guardato da una sentinella (arciero scìta),[6] sorge la statua o simulacro di Lico[7] ed è issata una piccola bandiera. Di fronte al Tesmoteta, nell'angolo tra lo sfondo e la destra della scena, due tribune elevate (βήματα), quella dell'accusatore (ringhiera dell'implacabilità, ἀναίδεια) e quella dell'accusato (ringhiera della protervia, ὕβρις). Presso alla ringhiera dell'accusato stanno i testimoni da lui citati. Dinanzi e vicino[8] alle due ringhiere, due vasi od urne pei voti, l'una di rame, coperta (urna del voto, κύριος κάδισκος), l'altra di legno, aperta (urna di controllo, ἂκυρος κάδισκος). Più innanzi, ma vicino sempre alle tribune, due tavoli, l'uno del cancelliere o scrivano (γραμματεύς) su cui è il vaso (ἐχιῖνος) contenente i documenti e altri papiri distesi sul tavolo; sull'altro più piccolo la clessidra od orologio ad acqua, regolata da un servo, soprastante alla stessa (ἐφ’ ὕδωρ).[9] Costui ha presso di sè due anfore, una grande contenente l'acqua, e una più piccola per attingerne le misure.
All'alzarsi della tela, i due litiganti son ritti in piedi nello sfondo. Il Tesmoteta (in veste bianca e con la corona di mirto) è già seduto: gli Eliasti entrano e vanno a [7] prendere i posti. Essi hanno tutti in mano un bastone (βακτηρία) verde anch'esso come il color del Tribunale, e terminante in pomo. Man mano entrano, avanti sedersi, ritirano dal Tesmoteta una tavoletta di cera (gettone di presenza, ούμβολον). L'Araldo ch'è sul davanti della scena, in veste bianca, sta bruciando nel tripode dei rami di mirto e dell'incenso.[10]
1º El. (prendendo posto). Neh, Simone, speriamo la tengan corta...
2º El. Spero bene. Un bel piatto di lenticchie[11] m'aspetta a cena. Se l'accusato va per le lunghe, piangerà senza mangiar cipolle...[12]
Tesmot. Araldo, recita la preghiera e le imprecazioni.
Ar. (proseguendo ad ardere l'incenso).[13] «O Giove e Febo Apollo, e Pallade protettrice della rocca, e dèi Pizii, e dee Pizie, e Delìaci e Delìache, assistete al giudizio, illuminate il voto. E se alcun giudice abbia preso danari o doni dalle parti, o non le ascolti entrambe con animo eguale, e non giudichi secondo le leggi e il giuramento,[14] sia maledizione e ruina a lui e alla casa sua.[15] E [8] se alcuno dei contendenti o testimoni inganni i giudici, e asserisca o giuri cose false, sia maledizione e ruina a lui e alla casa sua. Chi osserverà il giuramento, gli sia ogni evento felice. Così piaccia a Giove, e a Nettuno, e a Cerere».
Tesmot. ed Eliasti (in coro). Così piaccia...
Tesmot. Araldo, vedi se vi son giudici ancora fuori. Appena si incominci non entrerà più alcuno.[16]
Ar. (guardando e verso i cancelli e verso la platea). Pare ci sian tutti...
Tesmot. (accennando verso l'ingresso). Sian chiusi i cancelli. Chi dei giudici fosse ancor fuori, perderà la paga...
4º El. e altri Giudici (in ritardo, che vengon correndo mentre la sentinella sta per chiudere i cancelli). Aspetta! aspetta!
1º El. (a quei che vengono di corsa). Oh, oh, Carione! Zantia! Presto, presto! se no, non bevi il latte del questore!...[17]
4º El. (sedendosi cogli ultimi arrivati). Auff!... maledetta la furia!... Buon dì, Simone...
[9]
Tesmot. Silenzio!... (all'araldo) È chiuso? Chiama i litiganti.
Ar. Causa di Beoto, figlio di Blèpiro, del borgo di Tòrico...
Beoto (avanzandosi). Presente!
Ar. Contro Eudemonippo, figlio di Evalce, del borgo di Cefiso...
Eudem. (avanzandosi). Presente!
Tesmot. Cancelliere, recita l'accusa.
Cancel. (leggendo).[18] «Il giorno sei della luna crescente di Munichione,[19] Beoto di Blepiro, Toricese, innanzi all'Arconte accusò con giuramento Eudemonippo, autore comico, di leggi violate e corruzion del costume, perchè nella commedia La Sposa di Mènecle, presentata all'ultima gara delle feste Dionìsie,[20] mise in iscena cittadini col loro nome, disse ingiuria a magistrati, e divulgò idee contrarie alle leggi, alla famiglia, alle cose sante e stabilite della città. La pena sia dieci talenti e il bando dalle gare teatrali.[21] Stia in carcere fin che avrà pagato».[22]
[10]
Tesmot. Giudici, udiste l'accusa. Fu affissa nel termine prescritto, sotto le statue degli eroi.[23] Le parti hanno dato il giuramento.[24] Accusatore Beoto, monta in ringhiera.[25] Silenzio!...
(Beoto sale lento la ringhiera, dispone le carte a sè davanti, ne passa alcune giù al cancelliere con cui scambia sottovoce brevi parole, per mostrargli quelle da tener pronte, poi si mette la corona in testa e si soffia il naso).[26]
3º El. (durante la pausa preparatoria i giudici disattenti van chiacchierando fra loro).[27] Sai, chi ho visto ieri? Alce la sonatrice...
1º El. Come? È qui?
3º El. È tornata da Mileto, dove ha fatto fortuna. E come s'è fatta bella!...
1º El. Dove la sta?...
3º El. Ih, che fretta! Dietro il Pritanèo. Zitto... Sentiam questo chiacchierone...
Tesmot. Fate silenzio... attenti, giudici...[28]
2º El. To' che si soffia il naso per tirar giù le idee! Ah, sì, se crede che per tre oboli io voglia star qui fino a domani... (al servo che [11] sta versando in più riprese l'acqua dall'anfora grande nella piccola che serve di misura, e da questa nella clessidra) Ehi, ehi, quell'anfore tienle scarse![29]
Beoto (dopo messasi la corona, e aggiustate le carte, comincia a parlare, appoggiandosi sul bastone[30] e rivolto al Tesmoteta). O giudici Ateniesi! La accusa testè letta mi dispensa...
1º El. Forte!...
3º El. Più forte!...
2º El. Che voce da chioccia!...
Beoto (alzando la voce) ... la accusa testè letta mi dispensa da lunghe parole, e sarò brevissimo...
1º El. Bravo!
2º El. Bene!...
Beoto. ... brevissimo... e mite: e regalo all'accusato tutta l'acqua che m'avanza...[31]
Eudem. Non so che farne...
Beoto. ... perchè la evidenza dei fatti val meglio di ogni arringa eloquentissima. Nè alcuno di voi creda, per l'olimpico Giove, che privata invidia o rancore m'abbiano mosso all'accusa:[32] chè l'animo nel muoverla mi piange...
[12]
3º El. Poveretto!...
Beoto. ... e pagherei volentieri, perchè i fatti non fossero, la multa dell'accusator soccombente.[33]
2º El. Eh, che generoso!...
Beoto (con accento e gesto di declamatore). Ma in vedere costui farsi giuoco dei patrii magistrati, e sommuovere con funeste massime la città,[34] chiamando complici della iniqua opera le Muse, santo e puro zelo d'indignazione mi prese per la offesa fatta a quelle dee: le quali invoco e gli altri numi ed eroi tutelari di questo suolo, perchè vendichino sè stessi, e voi, e le leggi, e i patrii templi, e i boschi, e i domestici sagrifici...[35]
2º El. (interrompendolo). Tira il fiato!...
Beoto. Che se, per far breve, a poche leggi sole nella accusa mi restrinsi, ben potrei portar qui tutto intero l'archivio di quante leggi e sentenze si conservano nel tempio della gran madre degli dei,[36] perchè questo impudentissimo tutte in una le calpestò. E tu, che tanto osasti, sei ancora vivo? sei qui?
[13]
Tesmot. Neh, oratore, se è qui, mi par inutile domandarglielo. Bada all'acqua...
(Mentre Beoto parla, Eudemonippo è ritto in piedi a lato della propria tribuna, e prende annotazioni.)[37]
Beoto. Ci bado!... non temere, sarò cortese con questo... scelleratissimo. La commedia vi sta, o giudici, davanti: essa vi parli per me. Vietano le leggi nostre, o Ateniesi, sian messe sulla scena persone vere sotto il loro nome e dicasi ingiuria a magistrati: savio divieto, perchè l'onore di questi è onor dei cittadini che li elessero, e l'onor dei cittadini è patrimonio della Repubblica. E pur qui nella commedia si nominano e Fania ed Elèo: e pur non ignorate che il vecchio Mènecle fu eletto due volte tesmoteta, e andò ambasciatore ai Corintj e governatore in Lesbo: giudicate voi, dopo tanta dignità di uffici, qual parte nella commedia gli tocca di fare. Bellissima anzi, vi dirà questo istrion da dozzina:[38] ma voi non sorprenderanno le sue parole, perchè appunto la commedia è intesa a capovolgere ogni concetto e della famiglia [14] e della virtù. Vedo molti fra voi dalla testa calva o canuta, i quali condussero in tarda età giovane sposa...
2º El. (scherzoso al vicino). Neh, senti Glaucone!...
Beoto. ... essi, essi diranno, per gli dei, se la condotta che a Mènecle costui attribuisce, sia imitabile e seria, se degna di un Arconte ella sia! Ad essi, ad essi, se a loro è pur caro sentirsi sui freddi levigati avorî della testa la carezza di mano morbida e tepida, e stringere la fresca dolce compagna fra le braccia antiche e dignitose — ad essi, ad essi[39] io domando se meriti pena costui che dalla scena osa propor simili esempî, e proporli in persona di un magistrato che porta corona, affinchè l'esempio, reso più autorevole, porti più presto, o vecchi giudici, nei talami vostri la solitudine...
(Esclamazioni dei giudici).
1º El. Eh, eh! senti?
2º El. Come, come? La solitudine nei talami nostri? Questo osa quel tristo?...[40]
Beoto (rilevando, con voce vibratissima, la interruzione). [15] Sì... questo osa!... e difendeteli, difendeteli, i vostri talami, per gli dei!...
2º El. Ma anche per le dee, se occorre!... o sta a sentire!...
Beoto. Io non so se io deva... non vorrei...
1º El. Parla! parla! galantuomo!...
2º e 3º El. Sì, sì, segui!... segui!...
Beoto. Non vorrei eccedere nei diritti della accusa, fedele al mio proposito di essere cortese con questo... solennissimo birbante...
1º e 2º El. No, no, non esser cortese!...
Beoto. Ma egli forse vi dirà che nei panni di Mènecle altro partito non v'era da quello che egli inventò: e voi rispondetegli che miglior partito era la morte...
1º El. Sicuro!...
2º El. Sicuro!
Beoto. ... e che in quei panni ognun di voi preferirebbe morire...
1º e 2º El. Cioè, cioè...
3º El. Adagio, un momento...
Beoto. Perchè la legge non vieta a chi versi in tristi impicci nel mondo l'andarsene... [16] (passa un foglio al cancelliere) dilla su, cancelliere... tu (al custode della clessidra) ferma l'acqua...[41]
Cancel. (leggendo). «Chi non voglia più vivere, lo annunzi al Senato: gli esponga le cause: ottenutone il permesso, vada pure...»
3º El. Ah, quando c'è il permesso, è un altro affare... ma io non lo domando...
Beoto. Come vedete, o Ateniesi, la via d'uscita e magnanima vi era: magnanima costui poteva rendere la condotta di Mènecle: ma a lui premeva sovvertir la famiglia, e dare ai vecchi mariti detestabile suggerimento... Or io mi volgo tra voi, giudici, anche a color che son giovani; a voi, che appena in quest'anno avete avuto la tabella e prestato in Ardetto il giuramento:[42] e a voi domando, se baldanza di mogli sia lecita in Atene, quanta costui nelle donne di Cròbilo e di Fània ne pensò... Ben più modesto ufficio, saviamente, o Ateniesi, fra noi si assegna alla sposa del cittadino: poichè abbiam le cortigiane pei piaceri dello spirito e per gli affetti della [17] vita... e abbiam le mogli per crear figli legittimi e per la custodia della casa e della roba.[43]
Eliasti. Bravo! benissimo!
Beoto (segue riscaldandosi e battendo del pugno sulla ringhiera). Questa la legge, questo il costume, questa la base della città: se v'ha chi altra ne sappia, la indichi, salga qua, gli cedo l'acqua.[44] Ma costume, e legge, e città, che diverranno se manderete assolto costui che insegna alle mogli ad alzar la voce, quando parla il marito? O terra, o sole, o dei![45] Così tu, celibe, insidii dei mariti l'autorità, e nulla avendo da far nella tua casa, metti sossopra la loro?
1º e 2º El. Ah, ma la vedremo!...
3º El. Basta, basta! non dir altro!... lo aggiusterem noi!...
Beoto (rasciugandosi il sudore e ripigliando più calmo). Ancora una parola, e ho finito. Fu tempo, o Ateniesi, che le Muse tra voi furon ministre di virtuosa e virile educazione: allora esse crebbero quegli uomini che pugnarono [18] a Maratona.[46] E vanno famosi quelli antichi poeti, perchè insegnarono il vero, onorarono gli iddii, beneficarono gli uomini: e trovarono molte leggiadre parole per dire molte utili cose. Orfeo fondò i misteri, vietò le stragi; Museo insegnò i rimedi delle malattie; Esiodo l'agricoltura e i tempi del seminare e del raccogliere (man mano che Beoto prosegue l'enumerazione degli esempi, gli Eliasti danno in esclamazioni d'impazienza). Omero perchè acquistò gloria? perchè insegnò l'arte di schierar le truppe.[47] Tirteo? perchè insegnò la politica. Così è del poeta ammaestrare gli adulti, come il pedagogo i puttini:[48] per questo ordinammo che i poemi di Omero si cantino nelle sante Panatenee:[49] per questo alzammo alle Muse, come a benefattrici, gli altari. E voi tollerereste che questo sacrilego ricorra ad esse per renderle seminatrici di guai? Ah, se da qui tornando alle case vostre, le mogli o le sorelle vi domandassero:[50] Che cosa avete fatto quest'oggi? risponderete voi: abbiamo assolto [19] un poeta il quale pose in iscena mogli che si immischiano di quel che non devono e che non fanno quello che devono? Ah no, per Giove e per il trofeo e per i sepolcri della Tetràpoli![51] no, per gli eroi che dormono sotto i pubblici monumenti! oggi... tornando a casa, raccontereste la vostra sentenza: domani, tornando a casa... non trovereste la minestra in tavola!... Pensateci!
(Applausi degli eliasti. Beoto si leva la corona e scende pettoruto, con aria trionfante, dalla ringhiera).
2º El. Ah, le mie lenticchie!...
1º El. Questo è parlare!...
3º El. Scusa... stavo scrivendo... che cosa ha detto?...
1º El. Che se diamo a costui fava bianca, domani le donne non ci fan da pranzo...
3º El. Ma glie ne do cento di fave nere...[52]
Tesmot. Accusato, monta in ringhiera: e sii calmo: non mi andare fuor degli ulivi.[53] L'accusatore è stato moderato nei termini e cortese. Vedi di esserlo anche tu.
(Grandi e prolungati rumori e voci fra i giudici, intanto [20] che Eudemonippo monta in ringhiera e si mette la corona).
Eudem. Ateniesi! Giudici!... A Giove...
(Parla fra i rumori ostili).
Eliasti (in coro). No, no!... Abbasso!
Eudem. (tentando fra i rumori, inutilmente, di farsi ascoltare). A Giove che ascolta i giuramenti e le ragioni... io domando...
2º El. Ma che domande!... ma sentilo che parla di ragioni...
Tesmot. Fate silenzio!...
Eudem. (sforzandosi sempre tra i rumori di farsi udire). Io domando che se ingiusti...
1º El. Ingiusti noi?... Oh sfacciato!...
3º El. Noi ingiusti?... Prova mo' a ripeterlo!...
Altri Eliasti. Basta! abbasso! abbasso![54]
(Rumori prolungati, conversazioni clamorose tolgono all'oratore la parola).
Eudem. (a voce fortissima). Una volta due uomini e un asino...
(Si fa silenzio improvviso).
1º El. Ohe, attenti!... una storiella!...[55] ssssss!...
Eliasti. Ssssss! ssssss!
(Silenzio generale completo).
[21]
Eudem. (ripiglia calmo). Un asino e due uomini viaggiavano:[56] l'uno, il padron della bestia, l'altro che l'aveva a nolo: e scottando forte il sole, litigarono i due, a chi l'ombra dell'asino toccasse: l'uno, il padrone, diceva aver noleggiato l'opera della bestia e non l'ombra: l'altro replicava, l'ombra essere parte dell'opera...
(Eudemonippo si arresta con lunga pausa).
1º El. To'! to'! un bel caso da decidere!...
2º El. E così?... (a Eudemonippo che ha fatto pausa) come è andata a finire?...
3º El. (ed altri). Come è finita? come è finita?...
Eudem. È finita che i due han ricorso ai giudici in tribunale, e i giudici li han sentiti imparzialmente tutti e due... quello che voi non fate con me: e voi che state attenti, appena vi parlo di un asino... potreste bene star attenti, or che vi parlo di... un altro!...
(Indica l'accusatore: risate fra gli Eliasti).
2º El. Bravo, per Giove! Sicuro! Ha ragione!...
1º e 3º ed altri El. Sì, sì, parla!...
Eudem. (con voce pacatissima e gesto parco e corretto). [22] Non dubitate, sarò cortese: e se di quante leggi violate ei m'accusò, tante menzogne e stolidaggini gli proverò, bene io confido ei non sia per portar fuori, col quinto dei voti, salve le spalle da qui: perchè sul vostro animo incorrotto non han presa nè i grossi paroloni,[57] nè la truce minaccia onde egli, per ispaventarvi, concluse. Paroloni e minacce a lui dettate, s'intende (ironico), non da odio nè invidia, ma da purissimo zelo dei costumi e dell'arte: così almeno vi assicurò: tu intanto (al cancelliere) chiamami i testimoni.[58]
Cancell. (leggendo la lista testimoniale). Callia di Stefano del borgo di Alopéce, Pànfilo di Arìstide del borgo di Anagìro, Chèrea di Lisìppo del borgo del Pireo... (i testi citati si avanzano; il cancelliere estrae dal vaso[59] la testimonianza e legge) «Attestiamo ch'eravamo in teatro alle feste Dionìsie quando Beoto, figlio di Blepiro toricèse, oggi accusatore, presentò una sua commedia così brutta che non giunse alla fine, perchè il popolo lo cacciò a fischi, e per poco non lo lapidò...»[60]
[23]
Eudem. Basta. Giurate che è vero?
I tre Testimoni (un dopo l'altro stendendo la mano sul tripode).[61] Giuro. Giuro. Giuro.
Eudem. Ebbene, o giudici, io non nego che scevro da invidia e purissimo sia lo zelo di Beoto: perchè la memoria delle sventure purifica, e i fischi a lui toccati nell'arte furon tanti, che nessuno zelo può essere più puro del suo. Ad una sua accusa vo' intanto rispondere: ch'abbia per me sofferto ingiuria il vero. Voi tutti ricordate di Frìnico, il poeta tragico che dilettò i vostri avi: chi sulla scena finse il vero più di lui? Tutta la città egli commosse rappresentando la presa e la distruzion di Mileto:[62] quand'egli mostrò l'orde persiane irruenti al baglior degli incendî per la città devastata, e lo strazio dei feriti e moribondi, e le jonie vergini strappate per i capelli agli altari, le donne trafitte, i poppanti scannati sul seno delle madri, tutti vinse la pietà, e per tutto il teatro fu altissimo pianto: ma gli avi vostri condannarono Frìnico a fortissima multa, per averli fatti [24] piangere,[63] rappresentando troppo al vero quella disgrazia. Giusta e savia condanna! Perocchè a noi le Muse abbiano concesso i celesti doni a disvago e conforto dell'anima, non già ad intristirla nella contemplazione pura e semplice dei mali.[64] E chi non sa che uccisioni, e atti di ferocia, e pietosi casi avvengono tutti i giorni intorno a noi?... Incontrai e vidi, qua venendo, un padre piangere dirotto sul cadavere dell'unico figlio: io vi giuro, o Ateniesi, che egli superava nella verità del pianto ogni istrione, e che nè Sofocle nè Euripide mai non dipinsero un dolor come il suo: ed io non chiedo riveder finto ciò che i miei occhi han visto già così vero! Ma vollero i Numi che, a sollievo de' mali, noi alle Muse sagrificando ci levassimo sopra dei dolori umani: e da dolori e da colpe e da miserie, brutta discordante miscea, fuor balzasse un mondo di forme belle e nascose, parlasse una arcana divina armonia, che i cuori umani intendessero... e pure non fosse di quaggiù!... Questo vollero i nostri poeti: per [25] questo ammirammo la legge di Tebe che punisce l'artista se dalla natura e dal vero non evoca le linee del bello. E tu calunnî, o Beoto, quegli altissimi poeti che nominasti: non da utili verità nè insegnamenti venne a loro la gloria, ma perchè le menti umane, sull'ali de' lor canti leggiadri, sorgendo a più vaste e più lucide sfere, ne ridiscesero migliori[65] e più gagliarde allo studio delle utili cose!...
Tesmot. Accusato, tu divaghi, e l'acqua scorre!..
1º El. Sì, sì, taglia corto!...
Eudem. Grazie, Arconte.... non esco dal tema. Perchè forse è poi vero che io abbia detto cose false e messa a capriccio la mia fantasia nel posto delle leggi e del costume? Vero forse che io insegni nuovi riti coniugali, libertà e diritti di donna e di moglie, a donna e a moglie negati?... Ma, o tristo che m'accusi, perchè non accusi anche l'ombre del vecchio Cràtino e del divino Aristofane, e di Antìfane, e di Alessi, e di Filemone, e di Menandro nostro dai dolcissimi amori, a cui [26] le grazie conservino lunghi anni i geniali estri e la vita? Provami che le mogli delle lor commedie sbugiardino le mogli della mia: o trascinali anch'essi a questa ringhiera, e trascinavi Aristotile e Senofonte, che qui nel suolo dell'Attica il nome di sposa resero augusto e bello di più alti uffici, di cari diritti, di nova dignità.[66] A voi intanto, o giudici, basti la pazienza di udir la commedia, e raffrontarla alle leggi, se alcuna d'esse violai. Tu (al cancelliere) brevemente recita queste: voi appresso giudicherete quella. (Al custode della clessidra) Ferma l'acqua. (Al cancelliere) E di' su.
Canc. (legge). «La donna è dal padre o dal fratel consanguineo o dall'avo paterno data legittimamente in isposa a chi essi credono. L'orfana erede è in balìa di chi n'ha il diritto o n'ebbe podestà dal tutore».[67]
Eudem. Ora la terza di Solone sull'orfane.
Cancel. (legge). «L'orfana potrà reclamare che il parente più vicino la sposi. Questi dovrà condur l'orfana in moglie o collocarla, dandole [27] cinquecento dramme di dote. Se nol fa, l'Arconte potrà obbligarvelo sotto multa di mille dramme, sacre a Giunone».[68]
Eudem. Continua l'altra.
Cancel. (legge). «Anche se la donna fosse già maritata, e le muoia il padre e non le restin fratelli, il prossimo parente la chiederà in moglie, e il precedente matrimonio sarà sciolto».[69]
Eudem. Queste, o giudici, le leggi nuziali, conservatrici delle stirpi. Passa a quelle dei divorzî.
Cancel. (legge). «Il divorzio ha luogo o per mutuo consenso de' coniugi, o promosso dal marito o dalla moglie: se dal marito, è ripudio: se dalla moglie, è abbandono.
«Se il divorzio accade per consenso mutuo o volontà del marito, non esige intervento del giudice. Se è chiesto dalla moglie per incuria o maltrattamenti del marito, la moglie presenta in persona la richiesta scritta all'Arconte».[70]
Eudem. Basta così. Queste savie leggi, o Ateniesi, [28] a noi ha dato Solone: voi direte se ad esse scrupolosamente conforme il tema della commedia e la condotta di Mènecle non sia. Ben vero costui s'alza e vi dice: A Mènecle, ne' panni suoi, per fargli onore, miglior partito era scendere, volontaria ombra, fra i morti. E tu che lo affermi, l'avresti fatto? Tu che adduci la legge, perchè non l'adduci intera?[71] Perchè sapevi che, nel caso di Mènecle, il Senato di andar fra l'ombre anzi il tempo non gli avrebbe data licenza. Leggila tutta... Occhio all'acqua!...
Cancel. «Chiunque a cui siasi fatta grave la vita, lo annunzi al Senato, esponendone le cagioni: privazione di figli, perdita di sostanze, corpo mutilato, o morbo incurabile...
Eudem. Senti?...
Cancel. .... e impetrato dal Senato il permesso, beva la cicuta e vada pure».[72]
Eudem. Hai udito le cagioni che la legge enumera? Mi dirai che l'avere a sessantacinque anni una sposina di venti, sia compreso dalla legge nella rubrica dei morbi incurabili?
[29]
Beoto. Certo.
Eudem. Ammettiamolo. Chi ti dice che lo ammetteranno, per proprio conto, i senatori? E che a tutti poi accomodi di contar in piazza, al Senato, malattie di forma così atroce? E se il permesso è negato, perchè non parli della pena ai trasgressori?... Dilla tu.
Cancel. «Se uno si uccida da sè senza licenza, la mano che questo fece, sia seppellita separata dal corpo».[73]
Eudem. E tu, difensor delle leggi, tu volevi da me sulla scena l'esempio di un Arconte che le leggi offendesse, o scendesse col moncherino alla barca di Caronte, senza la mano per pagar l'obolo e ritirare il resto? Ma tagliati la tua che ha scritto più menzogne sulle tabelle di quanti abbi capelli sulla testa!...
Che resta adunque delle accuse di questo tristo? Una sola. Aver messo in iscena, contro la legge, cittadini Ateniesi col loro nome. Io non dirò che la legge, se tale fosse, fu posta da Làmaco, uno dei Trenta tiranni, quando la tirannide infuriava tra noi, e che le [30] leggi dei Trenta sono a ritenersi abolite...[74] Non dirò che l'attica Musa, nei tempi d'oro della libertà nostra, ripudiò i freni come sacrileghi, e Pericle istesso, provatosi a porne, vi rinunziò.[75] Non dirò...
Tesmot. Neh, accusato, quello che non dirai, lascialo da parte.
Eudem. Ebbene, dirò che la legge, se tale foss'anche, costui non l'ha letta neppure. Dimmela su.
Cancel. (legge). «Làmaco disse e il Consiglio dei Trenta e il Senato decretarono: non sia lecito porre in commedia fatti contemporanei, o cittadini reali e viventi col loro nome. Il trasgressore qualunque cittadino possa citarlo in giudizio, e scriva la pena».
Eudem. Dunque la legge parla di fatti contemporanei: ora invece la commedia risale ai dì della 100ma Olimpiade, quando Atene raccolse i fuorusciti di Tebe, e Pelopida ed Epaminonda prepararono la riscossa. La legge parla di cittadini viventi: ora ecco ben sessant'anni che il buon Mènecle riposa nel sepolcro [31] degli avi; ecco dieci anni che Aglae lo raggiunse, veneranda vecchierella, benedetta dai figli dei figli suoi. E se la legge dà al cittadin nominato facoltà di trarre in giudizio chi lo nomina, io sbaglierò, ma parmi, o giudici, che per far questo egli debba prima di tutto esser vivo... ti pare, o Arconte?...
Tesmot. Sì... mi pare...
Eudem. Perchè ai morti non è data facoltà di querela, e all'infuori di Orfeo, di Teseo e di Ercole non so chi altri fin qui sia tornato dalle porte dell'Erebo. Così Mènecle potesse tornarne!... egli, pel primo, pregherebbe, o giudici, a me propizio il vostro voto! (prende in mano un ramuscello[76] e lo stende verso i giudici) Egli ve ne pregherebbe, o voi giovani, per la memoria dell'atto suo generoso, a cui resero giustizia qui in quest'aula istessa, innanzi a questa effigie istessa di Lico eroe, i padri vostri, quando ad essi la parola eloquente di Iseo la raccontò. Egli ve ne pregherebbe, o vegliardi, non per lo squallore che [32] costui vi minaccia, dei talami solitari, ma per i giorni sereni e consolati di affetti cari, che a lui furono compenso e letizia della tardissima età. Ben vero, egli non morse, il vecchio Mènecle, alla mela cotogna che la legge invita gli sposi a mangiar insieme, la notte delle nozze:[77] ben vero, per lui i bianchissimi graziosi dentini di giovinetta non furono costretti a cercar nella scorza del frutto sacro alla gamèlia Giunone, i solchi di denti gialli e tarlati...
1º El. al 2º. Come i tuoi...
2º El. Eh già... de' tuoi no certo... non ne hai più...
Eudem. Ma egli ebbe il conforto, raro concesso a mortali, nell'ora suprema, di leggere in isplendide pupille il dolore di lagrime vere... Ah no, o giudici, non voi irriderete alla preghiera che di sotterra il buon vecchio vi manda per me: non voi raccoglierete la iniqua accusa di questo furfante...
Beoto (al Tesmoteta). Arconte!...
Tesmot. (a Beoto). Furfante... è un termine di giurisprudenza...
[33]
Eudem. (insistendo) ... di questo furfante, leggi invocando dai tiranni bandite, o la mia Musa incolpando di corrompere il costume. Ah non cambiano i carmi il midollo nelle ossa umane! Da ottanta e più anni dorme la vecchia commedia politica, tace e dorme la satira sfrenata, lussuriosa di Aristofane, e non perciò del suo silenzio la città e i costumi s'avvantaggiarono; oggi sovr'essi il mio collega Filìppide mena di nuovo la sferza,[78] e non perciò delle sue sferzate città e costumi miglioreranno. Poveri costumi, se non bastarono a salvarvi nè la parola di Demostene, nè il sangue dei morti a Cheronea!... Voi tutti le avete vedute le patrie fortune cadute in basso coll'andarsene delle patrie virtù; le avete vedute le apostasie dei caratteri, e le fedi instabili voltarsi al voltarsi dei venti, e i tribuni mutati in cortigiani; e le 360 statue inalzate a Demetrio Falerèo, rovesciate all'indomani per ergere gli altari al Poliorcète; e le supine adulazioni di Stratocle, le bassezze buffonesche di Dromòclide,[79] e la caccia febbrile agli uffici, alle ricchezze, [34] ai vili onori: e la viltà fatta abitudine, la menzogna eretta in legge, la ciarlataneria surta a costume: queste son le cose, dirò anch'io col poeta, queste son le cose, e non già le commedie, che mandano il popolo in rovina![80] Condannatelo il poeta, se offende le leggi della eterna bellezza!... ma voi... voi pensateci per vostro conto a quelle eterne della virtù!...
(Durante l'ultima parte dell'arringa, il Tesmoteta e i giudici danno segni visibili di stanchezza sonnolenta. Il Tesmoteta abbassa più volte la testa sul petto, rialzandola tratto tratto come chi combatte contro il sonno. Quando Eudemonippo ha finito e si leva la corona, il Tesmoteta rialza, scotendosi, vivamente il capo).
Tesmot. Finito?... (vede Eudemonippo che si leva la corona). Ah... Passerem dunque, prima dei voti, alla recita della commedia in atti... Or quindi, o giudici, l'arringa che udiste...
Cancell. (udendo un certo rumore si è mosso dal suo stallo e si è appressato ai giudici per vedere che cos'è... poi fa segno maliziosamente all'arconte additandoli, e continuando la frase di lui) [35] ... li ha già persuasi... (addita i giudici) Dormono.
Tesmot. Dormono? (vivamente all'accusato). Recita, ch'è il momento buono!...
(CADE RAPIDAMENTE LA TELA).
[39]
1. Per quanto riguarda i tribunali d'Atene, gli ordinamenti e riti giudiziari, forme del processo, ecc., ecc., rimandasi alle fonti precipue e alle sparse notizie in Demostene, Eschine, Isocrate, Lisia, Iseo, Licurgo e tutti gli altri oratori attici; e in Aristofane e negli Scolii ad Aristof., in ispecie alle Vespe, alle Aringatrici, alle Tesmoforìe, al Pluto. Confr. Schömann, Antich. greche; Antiquitates jur. publ.; De Areopago et Ephetis; De sortitione judicum; De Dicasteriis; Meier e Schömann, Der Attische Prozess; Perrot, Droit public d'Athènes; Matthiae, De judic. athen.; Hudtwalker, De arbitr.; Meursius, Themis attica; Petit, Legg. att., ecc., ecc.
2. All'infuori dell'Areopago e degli altri quattro tribunali speciali dei magistrati detti Efeti (Pritaneo, Delfinio, Palladio e Freatte) giudicanti delle cause di omicidi volontari e involontari in genere (δίκαι φονικαί) giudicavano di tutte l'altre cause civili e penali i giudici popolari o cittadini giurati, 6000 di numero (dicasti od eliasti), scelti a sorte ogni anno fra tutti i cittadini non minori dei trenta anni, e integri di fama e di diritti politici e civili (ἐπίτιμοι). Cinque mila erano giudici effettivi; mille supplenti. Distribuivansi i 6000 in 10 tribunali, ossia sezioni o decurie (δικαστήρια), quant'era appunto il numero delle tribù (Scol. in Aristof., Pluto); e dicastero diceasi non pur la sezione, ma anche il luogo o tribunale a ciascuna assegnato per tenervi i giudizi. Designavansi le 10 sezioni per una lettera dell'alfabeto, dall'Α alla Κ, che veniva scritta in rosso sulla porta del tribunale rispettivo: indi, giudicare nella lettera tale (εν τινι γράμματι δικάζειν) equivaleva essere assegnato a questo o quel tribunale (cfr. Aristof., Plut., V. 277). Così ogni anno, insieme alla estrazione dei giudici cittadini (fatta dai Tesmoteti, per tribù) estraevasi a sorte anche la lettera indicante il dicastero a cui ciascun d'essi era assegnato. Compiuta la sortizione, a ciascun giudice veniva data una tabella di bronzo (πινάκιον) con su scrittovi il suo nome e la lettera del dicastero assegnatogli, e impressovi il gorgònio, stemma della città. Questa tabella era il distintivo della sua carica di quell'anno, e il cittadino giurato la recava seco ogni giorno di giudizi, alle estrazioni mattutine dei dicasteri di quel dì. Perocchè non sempre, e ben rado, tutti e 10 i tribunali simultaneamente sedevano; ma nei giorni che v'erano cause a trattare, tutti i giudici cittadini convenivan la mattina nell'agora, dove l'arconte estraeva dall'urna a sorte tante lettere o sezioni a seconda del numero de' processi di quella giornata, e a sorte assegnava in quali tribunali le sezioni estratte dovessero raccogliersi a giudicare. Poi, siccome ciascun tribunale distinguevasi da un colore suo proprio, così ai giudici delle sezioni estratte per quel dì veniva consegnato un bastone di forma speciale (βακτηρία, σκίπων) terminante in una specie di globulo (βάλανον); bastone dell'uguale colore del dicastero assegnato, e colla lettera del medesimo pure scrittavi sopra (Aristof., Vesp., v. 727; Scol., V. 1105; Scol., Pluto, 277). Oltre questo bastone che serviva ai giudici per sapere a quale dicastero recarsi e per farvisi riconoscere alla porta, il Tesmoteta, presidente del tribunale, consegnava a ciascuno d'essi una téssera (σύμβολον), che l'egregio Mariotti a torto confonde col πινάκιον dinanzi accennato. Quello era il distintivo della carica annua, e ognuno dei 6000 eliasti l'aveva con sè (quel che sarebbe pei deputati nostri la medaglia); il σύμβολον invece era un gettone di presenza che al giudice veniva dato per andare a ricevere la mercede del giudizio.
Quanto al numero dei giudici popolari sedenti in ogni causa, i giudici effettivi essendo 5000, risultava il numero ordinario per ciascun tribunale di 500 giudici. Se però di cause gravi trattavasi, adunavansi anche due, tre o più sezioni in un tribunale solo: e s'aveano così tribunali sedenti di 1000 o 2000 giudici, o magari composto di tutte e dieci le sezioni riunite. Viceversa, per le cause minori, talvolta neppure raccoglievasi una sezione intera. Due o tre centinaia anche bastavano: solo curando dispari il numero per evitare nei voti la parità. E innanzi alle porte del tribunale destinato s'estraeva di giudici o supplenti quanti per quella tal causa bisognavano (Isocr., Areopag., c. 20). Cfr. Schömann, Meier, ecc.
[42]
3. Distinguevansi, come sopra fu detto, ciascuno da un proprio colore, i tribunali ove recavasi volta per volta l'una o l'altra delle 10 sezioni o lettere a giudicare (Scol. in Aristof., Vespe; Polluce, VIII). E pare il lor numero fosse anche più dei 10 (senza contar l'Areopago e i 4 altri degli Efeti); la maggior parte situati intorno a l'Agora o Foro. Due di essi dal colore prendevano anche il nome, come appunto il Verde (Βατραχιοῦν) e il Rosso (Φοινικιοῦν), nominati in Pausania, I, 28. Oltre questi, ricordansi il Trigono o Triangolare, il Metioco o Callio, il Nuovo, il Maggiore, il Medio e il Liceo, presso al tempio di Lico. Anche l'Odeone serviva a giudizi popolari (Aristof., Vespe). Ma il più noto di questi tribunali era l'Eliea, che era un luogo spazioso a cielo aperto, come indica il nome: probabilmente lo si sceglieva a preferenza quand'era il caso di raccogliere più sezioni insieme per i giudizi più gravi; ond'è che il nome di eliasti, particolare ai giudici che andavano a sedervi, passò nell'uso come sinonimo di dicasti, ad indicare complessivamente tutti i giudici cittadini, anche degli altri dicasteri.
Il Batrachio qui nominato fu da taluno per errore confuso col Parabisto, ch'era un altro tribunale ove sedevano gli Undici, magistrato esecutore delle sentenze di morte, e sovrastante al giudizio dei furti.
[43]
4. Cfr. Aristof., Vespe, v. 90. Polluce, VIII, 133.
5. Cfr. Aristof., Vespe, v. 775, 830. «Vuoi tu citare senza che vi siano gli steccati, che primi a noi sogliono apparire tra le cose sacre del giudizio?» ibid.
6. A un picchetto di questi arcieri, per lo più traci o sciti, era affidato, durante l'udienza, l'ordine nella sala, e il mantener la quiete fra il publico numeroso dei curiosi. Polluce, VIII, 131. Meier, Att. Pr.
7. Lico, figlio di Pandione, antico re d'Atene, pare venisse onorato di culto particolarmente come patrono dei giudizî. Sorgeva il suo simulacro all'ingresso della maggior parte dei tribunali e precisamente nel luogo dove i giudici uscendo riscotevano i tre oboli. Cfr. in Aristof., Vespe, l'apostrofe dell'eliasta Filocleone: «O Lico signore, eroe a me vicino, tu al pari di me sempre t'allegri per le lagrime degli accusati e solo degli eroi volesti aver sede appo chi piange», v. 389 seg. Cfr. v. 819. Presso alla statua di Lico radunavansi anche, innanzi al giudizio, gli eliasti che si lasciavan corrompere e che vendevano il voto alle parti, per contrattare colle medesime il prezzo.
8. «Conviene che ognuno di voi, giudici, si faccia vicino alla ringhiera (ἄχρι τοῦ βήματος) per dare un voto santo e giusto...» Demost., Falsa legaz., 441.
9. Polluce, VIII, 113. Esichio, Suida. Cfr. Meier, Att. Pr., 716.
10. Premettevasi alla udienza (che cominciava la mattina per tempo, ogni processo dovendo finirsi nel dì) una purificazione religiosa e una preghiera recitata dall'araldo. Aristof., Vespe. «Ora alcuno porti subito il fuoco e rami di mirto ed incenso, per porgere innanzi tutto le preghiere agli dei» v. 860 seg.
11. Cfr. Aristof., Vespe, 811 seg., v. 906.
12. Aristof., Lisistr., v. 798.
13. Per i criteri da me seguiti nel compilare il testo di questa formula, cfr. Aristof., Tesmof., v. 331-371; Vespe, v. 863 segg. Demost., C. Aristocr., 652-653; C. Timocr., 746-747; Corona, 319, 28. Andocide, Misteri, 13, 23.
[44]
14. V. la formula del giuramento annuo degli eliasti, in Demost., C. Timocr., 746: «Darò il voto conforme alle leggi e ai decreti del popolo ateniese e del Senato dei Cinquecento. Nè voterò per la tirannide nè per l'oligarchia. Nè se alcuno opprimerà la libertà del popolo o parlerà o voterà contro di essa, io lo consentirò, come non consentirò la remissione dei debiti privati nè la spartizione delle terre o delle case. Non richiamerò i fuorusciti o i condannati a morte; nè scaccierò i cittadini residenti in città, contro le disposizioni delle leggi, del popolo e del Senato. Non lo farò, nè consentirò lo faccia altri. Non nominerò a magistrato chi non abbia dato conto di altri uffici esercitati... Nè due volte nominerò pel medesimo magistrato il medesimo cittadino, nè consentirò ch'egli eserciti due ufficj nello stesso anno. Non accetterò doni per il giudizio nè permetterò che altri, me consapevole, ne accetti, nè consentirò artificj o frodi. Non ho meno di trent'anni di età. Ascolterò l'accusatore e il difensore con animo eguale e sentenzierò sulla questione. — Sarà giurato in nome di Giove, Nettuno e Cerere e imprecato la ruina a sè e alla casa sua in caso che siano violate le cose dette. Per contro a chi le osserverà, molte prosperità verranno». Quanta sapienza civile di popolo libero in poche linee! Questo giuramento era prestato al cominciar d'ogni anno, in luogo spazioso detto Ardetto, in riva all'Ilisso, dai cittadini che vi si radunavano per l'estrazione a sorte dei 6000 giudici dell'anno. Cfr. Schöm., Sort. jud.
[45]
15. ἐπαρᾶσθαι ἐξώλειαν ἑαυτᾧ και οἰκήᾳ τῇ ἑαυτου, Demost., C. Timocr., 746. ἐπιορκοῦντι δ’ἐξώλη αὐτὸν ειναι καὶ γένος. Andoc., Mist., κακῶς ἀπολέσθαι τοῦτον αὐτὸν κᾠκίαν, Aristof., Tesmof., v. 349.
16. Cfr. Aristof., Vespe, v. 891. Cominciato il giudizio, (la mattina per tempo), i giudici arrivati in ritardo restavano esclusi, e così perdevan la paga. Cfr. Vespe, v. 775: «E se anche t'alzerai da letto a mezzogiorno, nessun Tesmoteta ti farà più chiudere fuori dei cancelli».
17. Così era detta per celia la paga dei tre oboli, che i giudici pigliavano. κωλακρέτου γάλα πίνειν, Aristof., Vespe, V. 724.
18. Sulle formule di accuse, cfr. gli esempi varî in Demostene e negli altri oratori: e l'accusa contro Socrate in Platone, Apologia, e quella contro Alcibiade, Plut., Alcib. Cfr. Aristof., Vespe, 894.
19. Munichione, il 10º mese attico (dal 15 aprile al 15 maggio). Sul lunario ateniese, cfr. note all'Alcibiade.
20. Cfr. Eschine, C. Ctesif. Demost., Corona.
21. La pena ora era lasciata dalla legge al giudizio dell'Eliea (cfr. Demost. C. Mid. Plat. Apol. Soc.), ora iscritta nella legge stessa che contemplava il reato e nel testo dell'accusa proposta. Cfr. Demost., C. Timarc. Aristof., Vespe, 897.
[46]
22. ἔως δέ τοῦ ἀποτῖσαι εὶρχθήτω. Demost. C. Timarc., 3, 17.
23. Si affiggevano in publico, tempo innanzi il dibattimento perchè ognuno interessato potesse prenderne notizia: «affinchè ognuno leggesse sotto le statue degli eroi: Eutemone Lusiese diè querela di posto abbandonato a Demostene Peaniese». Demost., C. Midia. Quest'affissione era prescritta anche per le leggi che i cittadini proponevano, avanti sottoporle al Senato e all'assemblea: «Se bisogneran nuove leggi, i Tesmoteti le scrivano nelle tavole e le espongano innanzi alle statue degli eroi, all'esamina di ognuno». Andoc., Misteri.
24. Questo giuramento (ἀντομωσία) era dato dalle due parti innanzi al Tesmoteta nell'istruttoria del processo precorrente il dibattimento, l'accusatore giurando della verità dell'accusa, l'accusato della propria innocenza. Cfr. Plat., Apol. Meier, Att. Pr., 624.
25. αίγα, κάθιξε. σὺ δ’ἀναβὰς κατηγόρει. Aristof., Vespe, 905. Era prescritto per legge che ciascuna delle due parti perorasse da sè la propria causa (Quint., Inst., II): gl'incapaci a difendersi da sè, si faceano scrivere da altri o da parenti o da avvocati di grido che ne facean professione (logògrafi) le arringhe che poi per proprio conto recitavano. Cfr. Vite X Or. Demost., C. Leocar. Tutt'al più, a volte concedevasi che la parte limitasse il suo discorso a un semplice esordio, dopo il quale cedeva la parola a un amico od orator di mestiere che parlasse per lui (sinègoro). Così nella orazion contro Neera Teomnesto accusatore, dopo un breve proemio, cede la parola al proprio parente Apollodoro. Gli oratori parlavano dalla ringhiera, in piedi e postasi in capo la corona; quando non era il loro turno di parola, sedevano; e finito di parlare, deponevano la corona. Aristof., Eccles., v. 163. Cfr. Meier, Att. Pr., 707.
[47]
26. «Prima di parlare mettiti in capo questa corona. Fate silenzio, state attenti. Ecco, già si spurga il naso, come usano gli oratori, (χρέμπτεται γὰρ ἤδη, ὃπερ ποιοῦσ’. οἱ ῥήτορες) È probabile che farà un lungo discorso». Aristof., Tesmof., 381, 382. Ecclesiaz., v. 131.
27. Cfr. Barthel., Anac., cap. 18. A dar meglio idea dell'attenzione dei giudici nel corso del dibattimento, Aristofane ti mette in iscena per ischerzo anche il vecchio eliasta che durante le arringhe delle parti sta mangiando la minestra (Vespe, v. 906).
28. Σίγα, σιώπα, πρόσεχε τὸν νοῦν. Aristof., Tesmof., 381.
29. Colla clessidra (che noi chiameremmo orologio ad acqua, benchè non fosse precisamente la stessa cosa, cfr. Meier, Att. Pr., 715) misuravasi, com'è noto, il tempo concesso alle arringhe delle parti nei processi d'importanza. Nei processi inconcludenti e in alcuni di data specie, come la querela di maltrattamento, non s'usava clessidra (cfr. Harpocr.) e la misura del tempo lasciavasi probabilmente al discreto giudizio del presidente. Questi eran detti processi senz'acqua. Secondo la maggiore o minor gravità della causa variava la quantità e misura dell'acqua accordata; tante anfore per la tal causa, tante anfore per la tal'altra. Così per es. nella querela di falsa ambasceria (παραπρεσβείας γ.) eran concesse a ciascuna parte undici anfore (Eschin., Falsa amb.); nelle cause di eredità concedeasi a ogni parte un anforeo, e nelle repliche la metà, ossia tre coe (Demost., C. Macart.) L'acqua veniva fatta misurar dall'arconte all'udienza, come vedi nell'orazione contro Macartato. Nella misura dell'acqua non era compreso il tempo impiegato alla lettura degli atti, leggi, decreti o testimonianze: perciò l'oratore, quando stava per far dare lettura di documenti, o chiamar testi, ordinava al custode della clessidra di fermar l'acqua. (πίλαβε τὸ ὕδωρ, cfr. Demost., C. Stef., 1103; C. Eubul., 1305, ecc. Iseo, Ered. Menec., 221, ecc.)
[48]
30. «Procura di arringare in bel modo, appoggiandoti con decoro sul bastone». Aristof., Ecclesiaz., v. 150.
31. «Se alcuno vuol contraddirmi, venga qua, gli cedo l'acqua». Demost., Falsa legaz. «Quelli che mi affermano menzognero, vengano qua, si servano dell'acqua mia (parlino nella mia acqua, ἐπὶ τοῦ ἐμοῦ ὕδατος) per isbugiardarmi testimoniando». Demost., C. Eubul. «Indichi Eschine le sue proposte in pro della patria; se ci sono, le palesi e io gli cedo l'acqua». Demost., Corona. Cfr. Andoc., Mist.
Per esempio opposto, in altre arringhe demosteniche l'oratore lamentasi spesso che a dir tutto non gli basti l'acqua. «A voler isbugiardare i testimoni l'acqua non mi basterebbe». Demost. C. Stef.; I. C. Neera; C. Macart., ecc.
[49]
32. L'ipocrisia di questi esordî era in voga tra gli oratori, allora come oggi: tanto più frequente e necessaria in città dove l'accusa publica, fatta diritto di ciascun cittadino, allettava gl'ignobili sicofanti a servirsene a lucri e a vendette personali. «Non per desio di litigi, in nome degli dei, introdussi o giudici questa causa contro Beoto». Demost., C. Beot. «Nessuno di voi, Ateniesi, si avvisi che per privata inimicizia io venga qua accusator di Aristocrate». Demost., C. Aristocr. «Non per ruggine nè voglia di litigar con Leocrate ho dato questa accusa contro lui, ma perchè reputavo vergogna lasciar libero nella piazza un tanto vitupero della patria». Licurgo, C. Leocr. Cfr. Lisia, C. Filone, ecc.
33. L'accusatore che ritirava una publica accusa da lui promossa, o che non otteneva nei processi il quinto dei suffragi pagava nelle cause civili un obolo per ogni dramma, ossia la multa del sesto della somma in litigio; nelle cause penali, come questa, era multato in 1000 dramme, più la perdita del diritto di accusare e di star in giudizio. (Demost., C. Teocrine; Corona). Nelle cause religiose era aggiunta anche l'infamia.
34. Cfr. Plat., Apol. di Socr.
35. Su queste invocazioni, cfr. Licurg., C. Leocr.; Demost., Corona; Aristof., Ecclesiaz., v. 171.
36. Il tempio di Cibele (Metròo), nell'agora presso il Senato, era anche l'archivio ove custodivansi le leggi scolpite in pietra e i decreti del popolo. «Ditemi, o cittadini, se un uomo entrato nel tempio della gran madre vi raschiasse una sola legge, non lo uccidereste voi?» Licurgo, C. Leocr. «La sua rinunzia si conserva fra le scritture pubbliche nel Metroo, dove sono affidate alla custodia di un cittadino. Ivi sta scritto il decreto col nome suo». Demost., Falsa legaz., 381.
[50]
37. «Bdelic. Ed io noterò semplicemente per memoria quanto egli dirà». Aristof., Vespe, 540, 559. Così i giudici come gli oratori eran forniti dell'occorrente per prender note. Cfr. Vespe, 529: «tosto qui alcuno mi porti il mio cofanetto» (κθστη, ch'era la cartella con l'occorrente per iscrivere, tavolette e stili, σανίδας καὶ γραφάς, Vespe, 848).
38. τριταγωνιστής, istrione da terze parti, una delle garbatezze più frequenti che gli avvocati tra loro si regalavano, dacchè era venuto di moda, col moltiplicarsi dei giudizi e dei rétori, l'enfasi del declamare e gesticolare. D'altronde (e ciò valga per questo ed altri epiteti delle arringhe di Beoto ed Eudemonippo), gli oratori attici in genere e Demostene in ispecie, non brillavano precisamente per l'eccessiva urbanità. Merita conto di notarlo per coloro che usano spesso a rovescio la parola atticismo e si imaginano che l'atticismo antico consistesse, anzichè nella purezza dell'idioma, nell'uso delle frasi gentili. Basti un esempio per tutti, la graziosa raccolta di paroline dolci che Demostene regala al suo avversario Eschine, tutte di un fiato, in un solo discorso: «Che core, o istrion da dozzina, doveva essere il mio, quando io consigliavo la città?» (Corona, 297); e poi da capo: «Che gli Dei e gli uomini tutti ti annientino, scellerato cittadino, istrione da terze parti!» (Cor., 335); e poi: «Ciarliero, imbroglione, pestifero vasello di frodi, copista che va declamando paroloni a somiglianza d'un tragico» (Cor., 269); e avanti ancora: «Ma può mai darsi un più ribaldo ed esecrabile calunniatore di costui?» (Cor., 298) e seguita: «se andava attorno cogli altri, solenne birbante è costui...» (Cor., 300). E i complimenti non finiscono lì: sebbene per un discorso solo potrebbe parere che bastino.
[51]
39. Superfluo avvertire che l'eloquenza dell'accusatore Beoto (per contrapposto a quella di Eudemonippo) è qui presentata come quella appunto d'un sicofante declamatore e tronfio, giusta la descrizione di Demostene (Cor., 269).
40. Giudici che interrompono l'oratore o interloquiscono nell'arringa — cfr. Demost., C. Stef., I, 1128; C. Macart., 1060; C. Spudia, 1033; C. Beot., 1022, 1024.
41. ἐπίλαβε τὸ ὕδωρ. Demost., C. Stef., I, 1103; C. Eubul., 1305, 7; e altrove. Iseo, Ered. di Mènecle, 221; di Pirro, 21, ecc. Cfr. nota 30.
42. La lettura dei documenti e delle leggi citate in appoggio era fatta all'udienza, non dall'oratore, ma dal cancelliere. V. in Demostene e negli altri oratori. Della tavoletta o πινάκιον, distintivo degli eliasti, V. sopra, n. 2: del giuramento degli eliasti in Ardetto, n. 15.
43. τὰς μὲν γὰρ ἑταίρας ὴδονἦς ἕνεκ’ ἔχομεν.... τὰς δὲ γυναῖκας τοῦ παιδοποιεῖσθαι γνησίως καὶ τῶν ἔνδον φύλακα πιστην ἔχειν. Demost., C. Neera, 1386.
[52]
44. «Chi vuol contraddirmi, sorga e parli nella mia acqua» ἀναστὰς ἐν τῷ ἐμῷ ὕδατι, εἰπάτω. Demost., Falsa leg., 359; Cor., 274.
45. Demost., Cor., 269, 273 e in cent'altri luoghi.
46. Cfr. Aristof., Nubi, v. 986.
47. Cfr. Aristof., Rane, v. 1030-1036.
48. τοῖς μὲν γὰρ παδαρίοισιν — ἔστι διδάσκαλος ὅστις φράξει, τοῖς ηβῶσιν δὲ ποιηταί. Ar., Rane, 1054.
49. «Io voglio citarvi anche i versi di Omero, il qual poeta fu tenuto così eccellente dai nostri padri, che per legge decretarono recitarsi le poesie di lui solo e non d'altri, ogni cinque anni, nelle Panatenee». Licurgo, C. Leocr. Eliano fa autore di questa legge Ipparco, il figliuol di Pisistrato, il primo che portò i poemi omerici nell'Attica. Cfr. Plat., Ipparco.
50. Cfr. Demost., C. Neera, 1382: «τί δέ καὶ φήσειεν ἂν ὒμῶν ἕκαστος εὶσιὼν πρὸς τὴν ὲαυτοῦ γυναῖκα ἢ θυγατέρα... ἐπειδὰν ἔρηται ὑμᾶς ποῦ ἦτε, καὶ εἲπητε ὅτι ἐ δικάξομεν, ecc., ecc.» Cfr. Aristof., Lisistr., V. 512 seg.
51. Cfr. Demost., Corona, 297: ’Αλλ’ ουκ ἔστιν, οὐκ ἔστιν... μὰ τοὐς Μαραθῶνι, ecc., ecc.
52. Si davano i suffragi ne' giudizi in varie maniere, per via di piccole conchiglie, o per lo più di fave o di pietruzze (ψ ῆφοι) bianche per l'assoluzione, nere per la condanna: oppure per mezzo di pallottoline (σπόνδυλοι), le une nere e forate, le altre bianche ed intere; le forate per condannare, le intere per assolvere. Esch., C. Timarc.; Luciano, Apol. Paras.
[53]
53. «Bada che l'ira nel rispondergli non ti porti di là dagli ulivi», ἐκτὸς τῶν ἐλαῶν. Aristof., Rane, 995.
54. «Perchè egli era il primo a parlare, stravolse la lite, e col leggere molte cose e col mentire commosse i giudici di guisa, che non vollero neanche udire la mia voce. Così condannato all'ammenda della sesta parte, senza aver ottenuto di far la mia difesa, me ne andai triste e malcontento». Demost., C. Stefano, I. In simili casi i giudici vociferavano in coro al malcapitato di scendere dalla tribuna, gridandogli: abbasso! abbasso! κατάβα, κατάβα, κατάβα Aristof., Vespe, 979. E così nelle Vespe è preso dal vero perfettamente il bozzetto satirico del vecchio eliasta, impaziente di condannare dopo udita una parte sola: «Bdelic. Per gli dei, o padre, non pronunziar la sentenza prima di aver udite tutte e due le parti. Filoc. Mio caro, la cosa e già chiara e parla da sè». Vespe, 920.
55. «Dimmi un po' quali lusinghe non può un giudice ascoltare?... Chi piange la sua miseria; chi ci narra favole e qualche storiella da ridere di quelle di Esopo; chi fa il buffone affinchè io rida e deponga, nel giudicare, lo sdegno». Aristof., Vespe, v. 564. Cfr. v. 1259.
56. V. Plutarco, Demostene. Cfr. le note al mio Alcibiade, p. 215.
57. «Costui si vanta tanto della sua voce, che confida di far con essa molta impressione su di voi. Ma sarebbe assurdo che, mentre lo scacciaste a fischi dal teatro, qui gli faceste lieta accoglienza soltanto per la sua voce sonora». Demost., Falsa legaz. Cfr. Corona, 269.
[54]
58. Κάλει μοι τοὺς μάρτυρας. Demost., ecc. I testimoni non deponevano all'udienza, ma vi confermavano con giuramento le testimonianze scritte, date da essi nell'istruttoria o quelle loro deferite dall'oratore anche avversario. «A conferma del mio dire addurrò in testimonio Aristofane Olintio. Chiama Aristofane e leggi la testimonianza di lui». Eschine, Apol. «Chiama Egesandro per cui scrissi la testimonianza più modesta che non chiedano i suoi costumi... ma so bene che spergiurerà». Eschine, C. Timarco.
59. ἐχῖνος. (Harpocr.; Scol. in Arist., Vespe, 1427). Era un vaso di terra o di metallo nel quale si deponevano e custodivano i documenti presentati nella istruttoria del processo. Cfr. Meier, Att. Pr., 691.
60. Cfr. Demost., Falsa legaz. «Sarebbe assurdo che mentre voi, giudici, udendo costui (Eschine) rappresentare Tieste e le sventure di Troja, lo cacciaste di teatro a fischiate, e quasi lo lapidaste, tanto ch'egli abbandonò l'arte dello istrione, ora ch'egli, non già sulla scena, ma coi fatti danneggia la repubblica, gli faceste lieta accoglienza» p. 449.
61. «I testimoni parlino senza paura e giurino toccando le cose sacre». Lic., C. Leocr. Il giuramento veniva dato secondo i casi espressamente a voce («giuriamo: eravamo presenti» Demost., C. Stef., 1, 1109), oppure anche tacitamente, confermando col solo gesto la testimonianza scritta o già giurata prima nell'istruttoria: come nell'esempio in Demost., C. Midia, 560.
[55]
62. Anno 498 av. l'E. V. (Olimp., 70, 3). Nell'anno stesso dello avvenimento rappresentò Frinico in Atene la sua tragedia: La presa di Mileto.
63. Erodoto. Cfr. Müller, Ist. Letterat. Gr., II, 35; Becq de Fouquières, Aspasie.
64. Cfr. un passo del comico Similo, ex inc. fab., presso Stobeo, 60.
Rispetto alle teorie estetiche qui svolte da Eudemonippo, giovi confrontare anche tutta la scena della contesa fra Eschilo ed Euripide, nelle Rane di Aristofane. Caratteristico e curioso in ispecie quel passo: «Eurip. Forse che non esposi in iscena la storia di Fedra esattamente vera come stava? Eschil. Sì, per Giove, l'hai esposta come stava. Ma ciò che è turpe il poeta deve celarlo, non esporlo, nè metterlo in iscena» v. 1052-3. Tanto è vero, che certe polemiche di oggidì, e certe teorie veriste nelle quali taluni si credono avere inventata la polvere da sparo, giravano già nel mondo dell'arte qualche secolo prima che nascessero i veristi della giornata.
65. «Esch. Per che cosa si deve ammirare il poeta? Eurip. Perchè prepara cittadini migliori alla città». Aristof., Rane, 1008-9.
66. Vedi in Aristotile, Morale a Nicomaco, VIII. Cfr. Polit., I, cap. 1, 5; II, cap. 2; e in Senofonte, Economico, VII, lo squisito bozzetto della moglie d'Iscomaco. Cfr. fra le molte opere moderne, che trattarono della posizione morale e giuridica della donna di famiglia ateniese, l'eccellente studio di Lallier, La femme dans la famille athénienne.
[56]
67. Demost., II, C. Stef. Cfr. Meursius, Themis Attica, 34.
68. Meursius, Them. Att., 35. Cfr. Terenzio, Phormio; Diod. Sic., XII.
69. Iseo, Eredità di Pirro, § 64.
70. Plut., Alcib., VIII; Cratino, La bottiglia, framm. Petit, Leg. Att.; Schöm., Antiq. Jur. Pub., 343; Meier, Att. Pr., 558; Mariotti, Demost., III, 541.
71. Di oratori travisanti o mutilanti furbescamente il testo delle leggi che citavano, vedi esempio: «Non ti vergogni di accusarmi per invidia e scambiar leggi e smozzicarle, invece di allegarle intere a chi ha giurato di sentenziare secondo le leggi?» Demost., Corona, 268.
72. Libanio, Decl. X. cfr. Meursius, Them. Att., 52.
73. ἐὰν τις αὺτόν διαχρήσεται, τὴν χεῖρα, τὴν τοῦτο πράξασαν, χωρὶς τοῦ σώματος θάπτομεν. Eschine, C. Ctesif.
74. «Le cose operate sotto i 30 e le sentenze date, private o pubbliche, non siano valide». Demost., C. Timocr. Vedi nella stessa arringa anche il testo del decreto di Diocle.
75. Al tempo di Pericle, e mentre più fioriva il poeta comico Cratino, nell'anno 440 av. l'E. V. fu portato primamente un decreto, che frenava la libertà degli scherzi nelle commedie. Questo decreto prese il nome da Morichide, ch'era l'arconte di quell'anno. Ma questo decreto fu abrogato di lì a soli 3 anni, nel 437, essendo arconte Eutimene. Venne posteriormente, a regolare la licenza sfrenata degli attacchi, un decreto così detto di Siracosio, che proibiva attaccare i cittadini direttamente per nome (μὴ κωμῳδεῖν ὀνομαστὶ): ma il divieto proteggeva gli uomini politici come tali, non come privati. E che il decreto, nel fiorire della democrazia ateniese, subisse larghissimi strappi, lo prova ampiamente la virulenza degli attacchi di Aristofane contro il demagogo Cleone, nelle Vespe. Ma allorquando la libertà ateniese cadde, per la disfatta di Egospotamo, e Sparta impose ad Atene la oligarchia dei trenta tiranni, era evidente che la commedia, colla libertà nata e cresciuta, dovesse seguirne per la prima le sorti. E così Lamaco, forse più che altro richiamando in vigore e completando con più rigorose sanzioni quel decreto caduto in dissuetudine, recò alla commedia antica l'ultimo colpo con il decreto ch'ebbe nome da lui e che vietava assolutamente porre in iscena i viventi. Cfr. Cappellina, Pref. ad Aristof.; Schleg., Letter. dram.; Müller, Istit. lett. gr.; Meursius, Them. Att. II, 20; Petit, Leg. Att., 79.
[57]
76. «Vedo qualcuno sedente al tribunale e protendente il ramoscello dei sùpplici». Aristof., Pluto, 382. Tutto era buono agli accusati per cercar perorando d'impietosire i giudici: e se il ramoscello de' supplicanti non bastava, si faceano venir intorno i vecchi parenti, le mogli, i bambini, come vedi in Eschin., Apol. Tutta questa perorazione o digressione supplichevole di Eudemonippo appartiene appunto al genere di quelle di che gli oratori ne' giudizi popolari dell'Eliea facean maggior uso, ma che erano rigorosamente vietate davanti al tribunale dell'Areopago. Cfr. Meier, Att. Pr., 719.
[58]
77. Prescrisse Solone, che «la sposa rinchiusa collo sposo in una stanza, a mangiar abbia con lui una mela cotogna, e sia obbligato il marito della ereditaria di giacere con essa almeno tre volte il mese». Plut., Solone.
78. Il processo, non bisogna dimenticarlo, ha luogo intorno ai tempi di Demetrio Poliorcete nel breve intervallo di respiro lasciato alla democrazia ateniese, fra il cader delle sorti di questo principe e il ristabilirsi definitivo del giogo macedone. A quell'epoca fiorì Filippide, poeta comico della commedia nuova, acerbo flagellatore nelle sue commedie delle smaccate, vergognose adulazioni prodigate a Demetrio dal popolo ateniese, e in ispecie dai demagoghi cortigiani Stratocle e Dromoclide. Vedi i suoi versi riferiti in Plutarco, Vita di Demetrio, c. 12.
79. Plutarco, Vita di Demetrio, c. 26.
80. Ταῦτ ακαταλύει δῆμον, οὐ κωμωδία. Filippide, presso Plutarco, Vita Demetrio, 12.
[59]
[61]
PERSONAGGI DELLA COMMEDIA
L'azione ha luogo in Atene, in casa di Mènecle, nel 379 avanti l'E. V. (2º della 100ª Olimpiade), l'anno che Pelòpida coi fuorusciti tebani liberò Tebe.
[63]
Stanza interna, da lavoro, d'un gineceo ateniese, riccamente decorata. Ingresso nel mezzo, dalla porta e corridoio (μέαυλος), che mette dal gineceo all'appartamento del marito. Da un lato altra porta, che mette alle altre stanze riposte del gineceo.[81]
Aglae e Mènecle.
(Aglae sta seduta a un tavolino di lavoro, con un canestro di fiori accanto, intrecciando una corona. Mènecle dall'altro lato della stanza sta terminando di rotolare un papiro, poi cammina su e giù pensoso e rannuvolato, tenendo il rotolo in mano).
Agl. (dal suo tavolino di lavoro, parlando seduta e intenta al lavoro) Hai terminato?
[64]
Mèn. (passeggiando, e con voce secca) Sì.
Agl. (sempre chini gli occhi sul lavoro) Sei ben triste, Mènecle, stamattina. Si direbbe ti sii imbattuto nell'ombra di qualche eroe taciturno[82], o la Terra questa notte t'abbia mandato qualche infausto sogno...
Mèn. (passeggiando su e giù, le mani di dietro, serio e brontolando fra sè) Sarà...
Agl. Pure hai vegliato ad ora tarda. La vecchia Tratta m'assicurò che alla terza vigilia della notte c'era ancora lume nella tua stanza.
Mèn. (c. s.) E Tratta farà meco i conti, se la colgo a spiare i fatti miei...
Agl. Vedi come sei! Una volta eri cortese. Da qualche tempo non ti si può parlare. Fui io a dirle che scendesse a dare un'occhiata, udendo rumor di passi nella stanza tua. Dubitavo stessi male... ti abbisognasse qualcosa...
Mèn. (sempre passeggiando come assorto in pensieri, e brusco nel parlare) Grazie. E s'anco mi fosse bisognato, dei servigi delle vecchie non so che farne...
Agl. (sempre cogli occhi al lavoro, e con voce [65] calma, quasi indifferente) Ma la mi disse che stavi scrivendo... Se no mi sarei alzata io... Forse quella lettera? (additando il rotolo che Mènecle ha in mano. Mènecle si stringe nelle spalle e non risponde) Qualche affare urgente?
Mèn. (c. s.) Può darsi.
Agl. Del tuo dicastero?
Mèn. Non so.[83]
Agl. E avrai a far molto oggi?
Mèn. Non saprei.
Agl. Eccomi ben informata!... (sollevando il capo dal lavoro) Mi puoi favorire quel libro lassù...
Mèn. (prende un rotolo nel luogo indicatole da Aglae e legge il titolo esterno) Amori di Piramo e Tisbe... (fra sè) (Non sono i nostri...)
Agl. No... l'altro...
Mèn. (c. s. leggendo il titolo esterne) Le Trachìnie... e la Medea.
Agl. Quello.
Mèn. Vuoi rileggere come Dejanira si disperò dell'abbandono di Ercole, e Medea del divorzio di Giasone?... Erano due stupide... (nell'avviarsi [66] verso Aglae col libro in mano, legge macchinalmente quel che gli vien sott'occhio):
«Arse Achelòo per me: come potea
Donzelletta mirar l'orrido aspetto?
Ed io per me chiedea
Aspra ed acerba morte,
Piuttosto che a quel mostro esser consorte».[84]
Un'altra stupidaggine!... (consegna il libro ad Aglae).
Agl. (prendendo il libro) Tanto per ingannare il tempo!... Queste giornate di ecatombèo[85] sono sì lunghe!...
Mèn. (si ferma un momento a guardarla, poi torna a camminare concitato, come combattuto da qualche pensiero, poi le si fa appresso e la chiama) Aglae!...
Agl. (pacatissima, continuando a leggere) Mènecle!...
Mèn. Ti ricordi di quel che tuo padre al letto di morte ci raccomandò, ad entrambi, quando a me ti affidava?
Agl. (senza distor gli occhi dalla lettura e dal lavoro della corona, con voce pacatissima) Me ne ricordo...
[67]
Mèn. Che cosa ci disse?...
Agl. A me disse: sii casta e virtuosa... deferente al marito... pietosa agl'infelici... ossequente agli Dei...; a te... (si arresta d'improvviso).
Mèn. (vivamente) A me... Aglae?...
Agl. A te... non ricordo.
Mèn. Non importa. Me ne ricordo io. A me disse di farti felice.
Agl. (sempre leggendo, e come distratta) Ah, sì!...
Mèn. Aglae!... (dopo una pausa di esitanza) lo sei?
Agl. (alzando il capo) E me lo chiedi? Nulla qui mi manca degli agi della vita: ho servi, cagnolini, fantesche: specchi di Brindisi[86] e tappeti di Babilonia,[87] ed ori e gemme, e vesti milesie e veli di Còo: tu mi provvedi di tutto per le feste di Minerva[88] e per le sante Tesmoforìe; vo per te rispettata fra le donne libere di Atene, ottengo i primi onori nelle cerimonie della gran dea: per te posso adempiere al voto di mio padre, beneficar gl'infelici e dar sagrificj alla sua tomba...
Mèn. (sospirando) E d'altro?
Agl. E se... (si arresta).
[68]
Mèn. (insistendo) E se?...
Agl. E se qualcosa ancora mancasse alla felicità mia, non sarebbe un tentare Adrastea chiedere felicità compiuta, cosa non concessa agli umani? Sola io sarei nata sotto astro sì benigno, io sola avrei avuto a condizioni diverse dagli altri quest'aria che respiro, da raggiungere sulla terra ogni mèta dei desiderj?...[89]
Mèn. (crollando il capo) Ahimè! tu parli come parlerebbe Socrate... ma Socrate, oltre alla molta sapienza, aveva anche il naso rincagnato e gli occhi loschi... e sessantacinqu'anni sulla gobba...: tu non hai nessuno di questi privilegi. E se le donne ragionano colla testa così bene alla tua età, che cosa faranno a sessanta?
Agl. (lavorando) Ragioneranno anche meglio.
Mèn. Eppure, se tuo padre, morendo, avesse portato sotterra il desiderio di una felicità maggiore per te? Se a quella ch'ei per te imaginava, di laggiù vedesse che una parte ne manca, credi che la sua ombra non ne avrebbe dolore... rimorso forse?...
[69]
Agl. Mènecle! che discorsi son questi?... Decisamente la veglia di stanotte non t'ha messo l'umore allegro...
Mèn. (fra sè) (Può essere!) (secco) Che ne sai tu!...
Agl. Io so che mio padre, memore de' tuoi beneficj, mi ha a te affidata, morendo, come a nuovo padre della famiglia:[90] tu hai pensato ai funebri paterni, alla educazione mia: hai sposata l'orfana secondo il rito: m'hai chiesto prima se ero contenta: ho detto sì: se non avevo altre mire in cuore, ho detto no: di che vuoi l'ombra paterna si dolga? chi vuoi m'abbia a compiangere...
Mèn. Eh, a quindici anni se ne dicono tanti di sì e di no... (fra sè, indispettito, con un gesto vivo d'impazienza, picchiando sul tavolo col rotolo che ha in mano e che gli cade per terra senza ch'ei vi badi nè lo raccolga) (Finge... e non c'è verso...) Pure, ieri, ti ho sorpresa con una lagrima...
Agl. Sì, piangevo pensando a quella povera Cesira, di cui è giunta notizia che le è morto, lassù in Tracia, il figlio...
[70]
Mèn. Ma ier l'altro la notizia non era giunta, e, quando rientrai, stavi intrecciando, come oggi, delle rose,[91] e c'eran più nuvole sulla tua faccia, che non sull'Egèo... quando fa nuvolo.
Agl. Pensavo che quanto quelle rose tanto dura la bellezza della donna. Ogni cosa il tempo si porta via presto quaggiù: e a noi non resta che il ricordo delle gioie godute...
Mèn. (fra sè comicamente) (Ne gode molte!)
Agl. ... il resto è polvere: polvere di Pericle, di Codro e di Cimone.[92]
Mèn. Decisamente ti sei data alla filosofia. Io avrò l'umor nero: ma Eràclito il lagrimoso, al tuo confronto, metteva in corpo l'allegria...
Agl. Ma sei tu che vai a cercare certi discorsi... Bel modo di occupar la mattina... E vai oggi al tribunale?...
Mèn. Oggi al Metichèo non c'è seduta... (Finge... non c'è verso!)
Agl. Resti?...
Mèn. No... ho da uscir lo stesso. Addio...
Agl. (dal suo posto) Addio...
[71]
Mèn. (s'avvia, poi torna indietro) Se venisse Elèo, bisogna dirgli che ho avuto lettere da Tebe, da Epaminonda... Poi già gli parlerò io... (ritorna ad avviarsi, poi si sofferma da capo, dinanzi a un tavolo) Ah, è questo lo specchio che t'ha regalato Crìside? (prende dal tavolo uno specchietto di bronzo, a fregi d'oro, e ne esamina il manico intagliato) Graziosa questa piccola Afrodite!... (si specchia, lisciandosi la barba) Che bella luce!... Oh, Aglae!... vieni qua!... (Aglae si alza e va verso lui) Più in qua!... così!... (tenendo dell'una mano lo specchio, dell'altra avvicinando Aglae a sè, e la testa di Aglae a contatto della propria, così che i due volti, l'un presso l'altro, nello specchio si riflettano entrambi) Guarda!... che quadretto!... (porta colla mano lo specchio un po' a distanza, per meglio contemplarvisi; e con l'altra mano libera si liscia la barba bianca poi la ripassa dolcemente sulla chioma bionda di Aglae) Il vecchio Titone ha sposato l'Aurora e l'oro del Pattòlo si è fuso con l'argento del Làurio!... (con gesto ed accento comicamente espressivi) Che [72] bel matrimonio!... (s'avvia) Addio Aglae... Che bel matrimonio!... (esce).
Aglae sola, poi Delfide.
(Uscito Mènecle, Aglae rimane alquanto in piedi immobile dov'ei l'ha lasciata, una mano nell'altra, gli occhi a terra, pensierosa e triste; poi dato un lungo sospiro, a capo chino e passo lento torna al suo posto a sedersi) Eh!... (siede, riprende il lavoro, chiama) Delfide!... (Delfide, giovanetta, entra) Leggimi qualcosa... (Delfide si siede su di uno sgabello a pie' di Aglae).
Delf. Qui al segno?
Agl. Come credi...
Delf. (leggendo)
«Venere è nell'aria,
È nei flutti del mar. Ciò che respira
Tutto nasce da lei: semina e dona
Essa l'amor che a tutti noi diè vita...»[93]
Agl. Lascia! lascia... mi annoia!...
[73]
Delf. (Peccato!... è così bello!...) Qui, nella Medea ci è un altro segno... (leggendo)
«Di quanti esseri mai
Hanno una mente, e un'anima, noi donne,
Siam noi le più infelici...»
Padrona, perchè?...
Agl. Perchè lo dice il libro...
Delf. (scuote, in atto incredulo la testa e prosegue la lettura)
«... ad uom donate
Nel primo fior degli anni... ei, se s'annoia
In sua casa, esce fuori: e fra gli amici
E fra la gente le sue noie oblìa...
Ma noi...»[94]
Dette, e Tratta, poi Elèo
(il resto della scena, Aglae ed Elèo soli).
Tr. (affacciandosi sulla soglia) Padrona...
Agl. Che c'è?
Tr. Elèo ha domandato del padrone... Credevo fosse ancora qui...
[74]
Agl. Non importa. Passi.
Tr. Allora lo richiamo. Partiva già... (Tratta esce).
Agl. (a Delf.) Va pure... (Delfide esce). (Aglae si guarda nello specchio, dandosi una rapida occhiata all'acconciatura, poi va incontro ad Elèo che compare, fermo, serio, sulla soglia) Salute, Elèo... (affabilissima) Ci lasciavi senza pur farti vedere?...
El. (cortese, ma molto serio) Di Mènecle cercavo.
Agl. È uscito or ora...
El. (accennando a ritirarsi) Perdona... Ritornerò.
Agl. (vivamente) Ma se attendi per poco, credo potrai vederlo, perchè oggi non è giorno di giudizî... Non sei più il pupillo di Mènecle, ma la casa di Mènecle è ancora sempre casa di Elèo... Credo anche abbia a parlarti, per lettere avute da Tebe...
El. (inoltrandosi) Da chi?
Agl. Da Epaminonda, mi pare.
El. Ah!...
Agl. (tornando a sedersi al suo posto e ripigliando il lavoro della ghirlanda) È amico di Pelopida... [75] il capo de' Tebani qui rifugiati, questo Epaminonda, n'è vero?...
El. (serio) Credo.
Agl. (seguendo il lavoro) Ne ho udito parlar tanto bene. E perchè resta in Tebe, sotto i tiranni, invece di rifugiarsi qui, coi compagni, a viver libero?...[95]
El. Lo ignoro.
Agl. Vi è qualcosa, qualche impresa per aria?
El. Non so.
Agl. (sorridendo) Ah! Si vede che sei già uomo serio. Anche Mènecle, quando gli parlo, risponde come te. Infatti, noi donne maritate, più in là del fuso e del telaio, e sorvegliar i lavori delle fantesche, per che cos'altro mai saremmo al mondo?...
El. Oh, per molte altre cose!... E poi tu non sei come l'altre...
Agl. (scherzosa) Già! dei complimenti! Mi sovviene Etèocle che sgrida le Tebane: Curi gli affari — l'uomo! E voi donne, bestie insopportabili — state nei vostri lari!...[96]
[76]
El. (serio) Sei ingiusta. Non avevo inteso d'offenderti.
Agl. E nè io di rimproverarti.
El. (imbarazzato, serio, sull'andar via) Se permetti, ripasserò tra breve a veder Mènecle...
Agl. Come credi — già che brami di andartene. Vorresti essere così gentile da passarmi quelle rose e quei mirti, là, in quel canestro... (Elèo eseguisce) Sto intrecciando, come vedi, una corona da appendere ad una cara tomba... là, dove sai; là... fuori porta Diomèa.[97] Lo rammenti che domani ricorre il dì della morte di mio padre?
El. Lo rammento.
Agl. Povero vecchio! Almeno questa l'avrà proprio dalle mie mani: e non comperata là al mercato de' fiori, da quelle ragazze che fanno ghirlande... e tant'altre cose. Oh i morti non san che farne di quelle corone. Li ho colti io tutti questi... sai. Ti ricordi i dì delle feste, quando m'aiutavi...
El. (reprimendo un sospiro) Sì... (accennando novamente di prender congedo) Allora...
[77]
Agl. (continuando la sua frase senza dargli tempo a seguire) Oh, allora anche tu eri molto più allegro... e molto più gentile di adesso... e non facevi quel muso lì, che pare stii consultando qualche vecchia maga di Tessaglia, di quelle che fan di notte con le bacchette gli incantesimi...[98] Rammenti quando si correva per gli orti di Colòno e su per il poggio di Cerere, a cogliere i narcisi delle due dee, da riempire i canestri per la festa? E quella volta che ti sei nascosto, là dietro al monumento di Teseo,[99] e m'hai fatto paura credendo veder l'ombra di Edìpo, aggirarsi nel sito dove la terra lo ingoiò? Come eri allegro!...
El. (serio, sospirando) Allora era un tempo!...
Agl. E adesso è un altro, lo so. Ma non è una ragione per far torto a quelle memorie, (sempre proseguendo il lavoro della ghirlanda). Ecco... a quest'ora m'avresti già dato la baia per la mia poca abilità nell'intrecciar questa ghirlanda... tu che volevi dar sempre il tuo parere e trovavi sempre da dir la tua... «Ohibò, queste rose non son messe bene! Ohibò, qui ci [78] andrebbero viole... così... e qui mirti... così...» — e ohibò! ohibò! e così, così, tanto per insegnarmi a farle, il sapientissimo incontentabile si divertiva a disfarmele... È vero che oggi Elèo, figlio di Leòstene, di corone non insegna più a farne... ma ne conquista...
El. Aglae!...
Agl. Oh, so tutto... Sappiamo, sappiamo delle prove di valore là sull'Ellesponto... Eppure forse in quei giuochi, in quelle corse, quando a cogliermi fiori t'arrampicavi sospeso in aria sul burrone a picco per farmi strillar dallo spavento, là hai fatto allora le prime prove del coraggio che ti rende oggi invidiato fra i giovani d'Atene, e per cui d'averti avuto a pupillo va orgoglioso Mènecle mio...
El. (che ha seguìto con compiacenza mal repressa il discorso di Aglae, all'ultime parole si lascia sfuggire un piccolo movimento di malumore e dispetto) Grazie. Dirai a Mènecle tuo... (in atto di avviarsi).
Agl. Ma Mènecle sarà dolente, e mi sgriderà quando saprà che t'ho lasciato partire come [79] un forestiero dalla casa ov'egli ti crebbe e ti amò come un figlio... Nè Giove Ctèsio,[100] nè gli altri Dei famigliari, custodi della casa di Mènecle, non han molto a lodarsi della memoria tua...
El. Aglae! che ne sai tu?... No, no, non temere, dillo pure a Mènecle tuo che il cuore di Elèo non dimentica... È ancora qui scritto il giorno che Mènecle m'abbracciò e mi disse: Elèo, tu non hai più padre; egli è morto da valoroso a Nemèa;[101] tuoi genitori da oggi avrai la patria e l'arconte...[102] io li rappresenterò...
Agl. Tristi cose richiami... Se non erro, quel giorno tu eri da mio padre... fu là, in casa nostra, che Mènecle ti venne a prendere e ti disse quelle parole... e tu piangevi... e qualcun altro del tuo dolore piangeva... Ma tu decisamente quest'oggi non sei cortese...
El. Aglae!...
Agl. (china sul suo lavoro, senza volgersi ad Elèo e senza guardarlo) Oh sì... se non erro... anch'io ero là... in quella triste sera...
[80]
El. (con accento dolce, affettuoso) E — non piangere, mi dicevi; papà assicura che coloro che cadono in battaglia non muoiono, ma vanno nelle isole dei beati. — Oh là certamente la sua ombra si sarà abbracciata con quella del padre tuo... Aglae, ma tu... (vedendo che Aglae ha dismesso il lavoro ed è rimasta col capo appoggiato fra le mani, pensierosa e triste).
Agl. Io... nulla. Quelle memorie...
El. Perdona...
Agl. Oh anzi... la mia anima trova in quelle memorie una dolcezza amara. Povero papà mio! Non credi che domani egli la udirà, come la udiva or sono cinque anni, la voce della sua piccola Aglae?
El. Aglae... io pure ci sarò...
Agl. ... della sua piccola Aglae (come parlando con sè medesima e seguitando il lavoro: con voce mestissima) che gli verserà acqua lustrale, e fresco latte sulla tomba,[103] e gli dirà: hai fatto male ad andartene, e a lasciarmi qui piccina, sola, sola: tu m'indovinavi fin l'ultimo de' pensieri; ed ora non c'è più nessuno, [81] neppur di quelli a cui volevi bene, che se ne occupi. Adesso sono tutti cittadini illustri... persone serie... e la tua Aglae chi vuoi la prenda sul serio?...
El. (con voce di affettuoso rimprovero) Neppure Elèo...
Agl. Già. Neppure Elèo... (proseguendo a discorrere con sè stessa, e avendo quasi le lagrime nella voce) e quindi non lamentarti, papà mio, se questa corona non è bella come quelle di una volta; mi ci sono ingegnata da sola... ora non abbiam più maestri sapienti... non si corre più per gli orti di Colòno... Ma al cuore si guarda... al cuore... e non al dono... n'è vero, Elèo?... (mentre così parla con voce quasi rotta dal pianto, Elèo ha messo mano ai fiori e ne va scegliendo ed intrecciando alcuni) Ah! non sciuparmeli!...
El. (proseguendo la sua occupazione, senza guardar Aglae) E che cosa domanderai ai Màni di tuo padre?
Agl. Gli domanderò che dia ad Atene, agli amici... propizj gli eventi...[104] a Mènecle... (con lungo [82] sospiro di rassegnazione) lunghi anni di vita... a te...
El. (c. s.) A me...?
Agl. A te mandi una bella sposa che ti torni allegro... e ti faccia perdere quel muso lungo, serio serio... da Anassàgora inciprignito...[105] (Elèo fa un gesto di dispetto e dà uno strappo ai fiori) Ahi! ahi... no, così, che me li rovini!... (ripigliando la frase di prima) e tanti bei piccini che, quando fai quella faccia, si mettano a strillare tutti insieme... A me poi... (sospende il lavoro e s'appoggia coi gomiti sul tavolo in atto di riflettere) vediamo!... A me... (sospirando) A me già... niente piccini... (si arresta improvvisamente per tornar a badare a quello che fa Elèo) Ma hai capito di lasciar stare!... di non buttarmeli sossopra!... Guarda che sgarbato confusionario!... Cattivo!...
El. (con voce insinuante) Ma qui ci andrebbe dell'edera perchè spicchino sul verde cupo le rose...
Agl. Già... (vivamente, prendendo dell'edera e raggiustando la ghirlanda) Così... ti pare?...
[83]
El. E non c'è neppure, tra le rose e l'edera, un corimbo di narcisi... neppur uno dei fiori cari alle due dee sotterranee...[106] Ci starebbero così bene!...
Agl. Grazie della novità. Ma roba comperata non so che farne, e nel giardino, giù, non ne abbiamo. Magari! mio padre li amava tanto...
El. Quei bei narcisi... là... della rupe di Colòno, dove tanti ce n'era...
Agl. E dove c'era, per coglierli, da scavezzarsi il collo. Sicuro che a Colòno ce ne sono!... Anche in Macedonia, anche in Tracia, anche in Persia ce ne saranno!... Però, se è vero che i morti ci leggono nel cuore... (nel volger lentamente l'occhio dal lavoro, verso Elèo, a prima giunta non lo vede più). Elèo!... (Elèo che alle parole di Aglae si è improvvisamente mosso per correr via di soppiatto, trovasi già sulla porta. Aglae si alza vivissimamente) Ah!...
El. (scena muta fra Aglae ed Elèo. Elèo ad Aglae mostrandole la ghirlanda, con voce commossa) Neppure uno... di quelli là... Non sarebbe [84] bello... non sarebbe bello!... (s'avvia ad uscire, poi tornando sui suoi passi vivamente, prende per una mano Aglae, e guardandola affettuoso, le soggiunge con voce lenta, rotta dall'emozione) Se è vero che i morti ci leggono nel cuore... essi lo sanno... che non è un delitto... la memoria! (fugge via).
(Aglae è rimasta un minuto presso la soglia, pensierosa, tristissima; poi s'abbandona su di uno scanno, e cela il volto nelle mani).
Aglae e Crìside.
Crìs. (entra vivissima e gaia, e corre ad abbracciare Aglae) Buon dì, cara Aglae!
Agl. (andandole incontro e baciandola) O mia buona Crìside!...
Crìs. Sempre lavori?...
Agl. Passo le ore.
Crìs. Ho incontrato il giovane Elèo che usciva correndo come un disperato verso porta Ippade, [85] sulla via di Colòno!... (gesto vivo di Aglae) O aurea Venere! altro che quelli che corron lo stadio!...
Agl. È stato qui dianzi a cercar di Mènecle...
Crìs. Che? è andato a Colòno il tuo Mènecle oggi?
Agl. Oh no... ma... (sviando il discorso) ma che grazie dovrò dirti, o mia Crìside, del tuo dono sì caro e gentile? (va a prendere lo specchio) Ma sai che è bello! tanto bello! perfino adulatore!...
Crìs. Ah, nessuno ti adulerà più di quello che Venere ti ha adulato nel nascere... Tranne il cinto d'oro, tutti i suoi doni t'ha dato...[107] Così t'avesse dato... anche di meglio impiegarli...
Agl. (con affettuoso rimprovero) Crìside!...
Crìs. (maliziosa) Ma sai che questo specchio ha anche una virtù tutta sua?
Agl. Davvero?
Crìs. (scherzosa) Esso riflette anche ciò che non si vede: ti svela i più bei contrasti pittorici che mente d'artista possa immaginare...
[86]
Agl. (vivissima) Ah! sì! me ne sono accorta!
Crìs. (con aria di malizia affettuosa) Allora, sai ciò che esso dice in questo momento? Che il sorriso del tuo volto è come il rovescio della tua anima: l'uno vorrebb'essere sereno, come lo sguardo della dea, tua protettrice; l'altra è triste come l'occhio della Parca. È un filo di luce che non sa rompere la nuvola. Questo dice lo specchio, e... nevvero... Aglae, che lo specchio... indovina?
Agl. (dopo una pausa, voltando discorso) E... come sta tuo marito?
Crìs. Tuo fratello... bene... grazie agli dei... ma non è la rispo...
Agl. (interrompendo) E da un po' non si lascia vedere... perchè?
Crìs. Esce così di rado... È tanto occupato in casa...
Agl. Molte aringhe per clienti da stendere?... Molti affari dell'Eliea?...
Crìs. (esitante) Oh sì... molti affari! molti!... fin troppi...
Agl. E ti vuol bene sempre?
[87]
Crìs. Sì... almeno... me lo dice...
Agl. Ah...! quando te lo dice?
Crìs. (con accento ingenuo) Oh varie volte!... La mattina, per esempio, quando apro gli occhi, e prima che mi alzi... poi... mentre mi alzo e mentre le fantesche mi vestono... mentre mi pettinano... e quando offro alla dea le divozioni del mattino... o quelle del vespero... e poi... così... alla sera... quando mi corico... me lo ripete fino a che mi sono addormentata... e poi... quando dormo... nella notte... per isvegliarmi...
Agl. (con serietà scherzosa) Infatti... son varie volte. E... ti bastano?
Crìs. (comicamente ingenua) Sì... sì...
Agl. Ah... proprio...?
Crìs. Ecco... dirò... alle volte... lì al momento... mi pare quasi... sì... che siano come troppe!... Ma poi nel dirmelo (abbassando gli occhi con grazia sorridente ed ingenua) siccome cambia tanto la voce... me lo dice in tante maniere diverse... con negli occhi tante espressioni diverse... così mi pare sempre [88] una cosa diversa... che... insomma... fa piacere...!
Agl. (scherzosamente seria) Ah, già! sicuro!... i discorsi variati piacciono sempre...
Crìs. Oh, sì... tanto! Perchè, sai, quando non sa più come dirmelo in prosa, così per cambiare... anche in versi me lo dice...
Agl. Ah!...
Crìs. L'altra sera aveva studiato tanto... e io, nella notte, tanto di muso!... la mattina, nello svegliarmi, ho trovato questo sotto all'origliere:
Studiai del Meònio le pagine
Per dirti d'amor nova idea:
Quai dolci parole, nell'isola,
Ulisse a Calipso dicea:
D'amore in che accenti Anadiòmene
Col frigio pastor favellò:...
Studiai del Meònio le pagine...
E... t'amo! altro dirti non so.
Frugato ho ne' canti d'Orfeo
Per dirti d'amor novo stile:
Com'egli, fra 'l pianto letèo,
Chiamasse la sposa gentile:...
[89]
Qual voce a' suoi cantici amanti
La selva e 'l leon trascinò:...
Frugato ho d'Orfeo tutti i canti...
E... t'amo! altro dirti non so.
L'ho chiesto di Saffo al lamento
E al vecchio dai brindisi d'oro:
Ognun rispondeami: lo sento...
Ma come insegnartelo... ignoro.
E frugo!... e altre immagini chiamo!...
Ah!... un lampo qui alfin balenò!
Ah!... eccola! eccola!... è: t'amo!...
(battendosi la fronte come chi trova un'idea)
La nova parola ch'io so.
(Mentre Crìside va leggendo questi versi da un biglietto che s'è tolto dallo stròfio, Aglae apre e sfoglia, come rileggendo distratta, il libro che stava leggendo prima).
Ti piacciono?
Agl. Sì...
Crìs. Che cos'hai lì? (guardando) Le Trachinie di Sofocle! Dejanira abbandonata!... Oh che brutti argomenti!...
Agl. (con serietà scherzosa) Ah, sì!... c'è meno varietà che ne' tuoi... E come dicevi... Fania [90] dunque è tanto occupato... Sono queste le molte occupazioni...
Crìs. Già!... anche queste!
Agl. (comicamente seria) Tutto il tempo che avanza è per i clienti dell'Eliea...
Crìs. (comicamente ingenua) Oh, tutto!...
Agl. (c. s.) I clienti sono ben serviti. Sicchè, di quelle preziose notizie che ti dà tuo marito... tu non resti priva... se non quando esci di casa... come oggi...
Crìs. Oh no... mi verrà certo a momenti qui a raggiungere...[108]
Agl. Ah, bravo Fania!... e dimmi... (sorridente con gesto espressivo) quando...?...
Crìs. Oh, quello... (nasconde tra sorridente e vergognosa la faccia sulle spalle di Aglae) quello... vedi... c'è tempo... (vivamente ripigliando) Ma tu che mi fai tutte queste domande, non hai però ancora risposto alla mia. Cattiva! tu scherzi... ma a nasconderti alla tua Crìside non ci riesci...
Agl. Già... lo specchio...
Crìs. No, no, è inutile. Tu non sei allegra... non lo sei mai...
[91]
Agl. Io qui in casa non ho per distrarmi tutte quelle tali novità della giornata...
Crìs. E questo è il male! e qualcuno ne ha colpa; e un po' anche tu — oh sì, per Cerere, anche tu — che per distrarti non fai nulla! Stai sempre chiusa invisibile come la Pitonessa... L'altro mese nè alle feste Scire nè alle Targelie non t'han veduta... all'ultima gara delle tragedie neppure... in casa mia da un mese non metti piede...
Agl. Dovrei venire a disturbare i profondi studî letterari di tuo marito?
Crìs. (affettuosamente corrucciata) Aglae!... (Si sente di dentro la voce di Fania che domanda: È qui da Aglae?) (con gioia) Oh eccolo! la sua voce!
Agl. (con serietà canzonatoria) È un pezzo che non vi vedete?
Crìs. Oh, è già quasi da un quarto d'ora!... (accorgendosi dal volto di Aglae dell'intenzione motteggiatrice) Cattiva!...
[92]
Dette e Fania.
Fania (entrando) Oh sorellina!... Crìside!...
Agl. (cortesemente canzonatoria) Oh fratellino!... Che miracolo!... Dopo un mese! Qualche buon genio m'ha fatto uno sternuto!...[109]
Fan. Cara Aglae... perdona... sai... tanti affari...
Agl. (guardando maliziosamente Crìside) Sappiamo!... sappiamo!...
Crìs. Fania!...
Fan. (ad Aglae) Come stai? Come sta Mènecle?
Agl. Grazie. Benissimo.
Fan. (a Crìside) E tu... così... sei scappata via... senza dirmi niente... brava!...
Crìs. Non la finivi mai...
Agl. Via... non rimproverarla...
Fan. Oh no, ma... (a Crìside, serio) Ma ero ben buono io d'accompagnarti...
Crìs. Già... per il gran viaggio da porta Ceràmica a venir qui...
[93]
Fan. (con paternale serio-amorevole) Non è per questo... ma una moglie giovane non istà bene uscir per Atene in visite senza il marito...[110] n'è vero, Aglae?
Crìs. (con civetteria, parlando ad Aglae) E il marito correr dietro a tutti i passi della moglie come un can segugio di Laconia dietro l'orma della lepre... n'è vero, Aglae, che non istà bene neppur questo?
Agl. (con serietà comica) A meno che la lepre sia contenta...
Crìs. (brusca, con civetteria) Oh questo poi!...
Fan. Crìside!...
Crìs. Zitto là!... per Aglàuro! Siam le nipoti di Teseo...[111] e non siam le schiave dei mariti... noi...
Fan. (sorridente) Lo si vede! Però Solone, veramente ha disposto che la brava moglie ateniese dovrebbe star sotto al marito...
Crìs. (rifacendogli la voce) E Temistocle, ateniese, stava sotto alla moglie,[112] eppure sconfisse i Persiani... ed era quel Temistocle che era...
[94]
Agl. (a parte, li guarda sospirando) Eh! almeno loro si divertono!...
Crìs. ... e mio marito Fania, se fossero verità tutte quelle bugie che mi dice, dovrebbe imparare dal vincitore di Salamina...
Agl. Come si sconfiggono i Persiani?
Crìs. No... come si trattano le mogli. Essere forti contro gli uomini... bel merito!... Essere deboli con noi... quello è il bello!
Agl. (a Crìside) Veramente, sai, mi pare che un po' di Temistocle abbia già imparato...
Crìs. (con civetteria stizzosa) Oh, non abbastanza!... E poi un bravo marito dovrebbe essere anche un bravo fratello... (abbraccia affettuosamente Aglae) e io non voglio, sai, che egli ti trascuri... povera Aglae!... E s'egli ti trascura ancora, io trascurerò lui!... Guardala, Fania, che ciera triste!... (tenendola abbracciata) Oh tuo padre... vostro padre... sia pace alla sua ombra... ma ha avuto un gran torto verso te...
Agl. (con voce di rimprovero) Crìside!
(Fania, alle parole di Crìside, si tira pensieroso e serio in disparte).
[95]
Crìs. Oh, le due dee mi guardino dal dir ingiuria alla sua memoria... Epònimo fu prode e virtuoso, ma sbaglia tante volte su nell'Olimpo Giove, sbagliano anche sulla terra i virtuosi... ed Epònimo (si guarda intorno) — Mènecle non c'è — non fu previdente pel tuo destino... Se egli che ti amava tanto, tornasse dagli Elisi...
Agl. Se tornasse dagli Elisi, vedrebbe che Aglae non chiede e non ha alla sua memoria verun conto da chiedere. (con voce incisiva, a Fania) N'è vero, Fania? (Fania non risponde, e rimane in disparte, pensieroso, a testa china) Mio padre mi affidava, morendo, all'uomo che gli salvò in campo la vita, lo riscattò dalla prigionia di guerra, lo soccorse nella povertà, raccolse il suo ultimo sospiro. Se affidandomi a Mènecle ha consultato il suo cuore, mio padre ha compiuto il debito suo...
Crìs. (seria, fissando Fania) E allora gli altri non han compiuto il loro...
Agl. E perchè? Mènecle, oltre amico, era il solo lontano congiunto che la legge chiamasse a [96] sposar l'orfana... o farle la dote.[113] S'egli non trovò altri degni di me, osservando la legge, Mènecle ha compiuto l'ufficio suo... Non ho ragione, Fania?
Crìs. Già, la legge!... È bello osservar la legge, per iscaldarsi le mani fredde al sole di sedici primavere!...
Fan. No, no, Crìside, ha ragione Aglae. Sono io forse, che il mio ufficio di fratello, nel dar l'assenso, non l'ho compiuto...[114]
Crìs. (a Fan.) Già... lo sapevo... brutto egoista!... Per te però ci hai ben pensato.
Fan. Oh Crìside, ti giuro...
Crìs. (dandogli sulla voce) Zitto là! ne discorreremo. (ad Aglae, con voce affettuosa) Ma dimmi un po'... almeno Mènecle...
Agl. Oh... Mènecle... non ho niente a ridire. Fa quello che è in lui...
Crìs. Quello ch'è in lui!... Non è molto!...
Agl. Ci vediamo del resto, da qualche tempo in qua, così poco... Adesso poi, tra gli affari della Eliea e quei di Tebe, ancora meno...
Crìs. Per cui... sempre sola?...
[97]
Agl. Sola.
Crìs. E il tuo cuore?
Agl. È tranquillo.
Crìs. La tua mente?
Agl. Riposa.
Crìs. I sensi?
Agl. (vivissima, nervosa) Dormono.
Crìs. (alzandosi) Ebbene... alla tua età... con queste belle giornate... con questo sole... io non dormirei...
Agl. Perchè Fania ti sveglia... me l'hai detto.
Crìs. (a Fania, sottovoce) Meriteresti, per l'aurea Venere, che invece di me, ti avessero dato in moglie la vecchia Mìrtala! Provar un po' anche tu... che gusto!...
Fan. Zitta!... (si sente di dentro la voce di Cròbilo) È qui suo marito...
[98]
Detti, Cròbilo, un momento Blèpo.
Blèpo. (annunziando, dalla soglia) Cròbilo di Stefano Colonèo.
Agl. Oh, avanti!...
Fan. (mentre Blèpo esce per introdur Cròbilo, si appressa ad Aglae e le parla in disparte) Però Mènecle dovrebbe anche comprendere certe cose... e trattarti un po' meglio...
Agl. (sorridente) Farmi delle poesie amorose, e pormele, quando dormo, sotto il cuscino?
Fan. Crìside!
(Apostrofa Crìside un po' brusco, e si bisticcia sottovoce con lei, mentre entra Cròbilo).
Cròb. Salve, gentile Aglae!... La bella Venere ti guardi...
Agl. Vicino Cròbilo, sii il benvenuto.
Cròb. Vezzosa Crìside, Fania, buon dì. (vedendoli discorrere a parte) (Bella coppia di tortore di Sicilia!)[115] E il nostro caro Mènecle non è in casa?
[99]
Agl. È uscito da poco. Per lui venivi...?
Cròb. Oh... per lui... per te... e per lei...
Agl. Tua moglie?
(Durante questo dialogo con Cròbilo, Fania e Crìside si bisticciano amorosamente in disparte).
Cròb. Già... la mia caaaaara moglie!... Mi disse che la ti veniva a far visita e che passassi a prenderla, sull'ora sesta. A quel che pare è in ritardo...
Agl. Attendila dunque...
Cròb. Grazie. Avrà lavorato più del solito col minio e coi cosmetici... o si sarà indugiata a fare la sua chiaccheratina solita con le vicine... Ah, quando la comincia... l'è come il disco di bronzo appeso agli alberi dell'oracolo di Dodòna! se appena lo tocchi del dito, diiiinnnnnn!!! ti suona per tutto un giorno: anzi il bronzo finisce prima: ma lei, finito il giorno, la mi va avanti anche la notte!...[116] O Giove miracoloso, che delizia!
Agl. Eppure, bisogna dire che tu avessi gran bisogno di consultarli, gli oracoli, poichè questo disco ci sei andato a picchiare..
[100]
Cròb. Pur troppo. Si fossero i corvi portata via la prònuba che m'ha sedotto a queste nozze!...[117]
Agl. (scherzosa) Senti Fania...
Fan. Che c'è?
Agl. Cròbilo maledice alla prònuba del suo matrimonio... E tu alla tua?
Fan. (guardando Crìside amorosamente e abbracciandola) Io prego i Numi che le donino i beni della terra...[118]
Agl. (a Cròbilo, scherzosa) Senti? questi son mariti!
Cròb. (ad Aglae, scherzoso, additandole Crìside) Vedi...? queste sono mogli...
Crìs. (va ad abbracciar Aglae) Aglae! (discorrono insieme).
Fan. (a Cròbilo, mentre Aglae e Crìside conversano fra loro) E la tua che cos'è?
Cròb. La mia... la mia... come si chiamano quelle che rubarono le cene di Fineo?
Fan. Le arpìe...
Cròb. Bravo! Fa conto... con le ali di meno, e la dote di più.[119]
Fan. È sempre qualcosa. (batte sulla spalla a Cròbilo) [101] Cròbilo, Cròbilo, anche il cavallo scita sprezza la biada che vuol mangiare.[120] Mi dicono che la biada era discreta... Quattro talenti...
Cròb. (continuando annoiato) ... e una possessione nell'isola di Egìna...
Fan. ... vigneti e terreni aratorî...
Cròb. ... che rendono all'anno centodue mine. La mi fa il conto tutti i giorni sulle dita... e si lagna che suo padre li facea rendere di più...[121] O Giove Olimpio!... Felice chi è ricco del suo![122] Per noi altri mariti poveri, i tesori delle mogli son carboni!...[123] Se sapevo di far questa vita, preferivo condur a pascere le capre sul Fellèo!...[124]
Fan. Sei sempre a tempo... corri...
Cròb. Non c'è premura.
Crìs. (interrompendo il discorso con Aglae, e voltandosi a Cròbilo e Fania) E così, Fania, Cròbilo non ha ancor finito di contar tutti i difetti di sua moglie?[125]
[102]
Fan. Pare di no...
Cròb. Tutti!... Ci vorrebb'altro... È il catalogo di Esìodo!...
Crìs. E glie la fai, di', a tua moglie, l'enumerazione del catalogo?
Cròb. A mia moglie?... eh!... quello ci mancherebbe!
Crìs. E perchè?
Cròb. Perchè Giove ha dato agli uomini gli occhi per vederci, e non per farseli cavare dalle mogli...
Crìs. Ma sai, o Cròbilo, che non è molto lusinghiero, a noi mogli tutte quante in generale, saper che gl'incliti mariti ci fanno l'occhio del pesce morto in casa, e fuori di casa se ne vanno... a recitarci que' tuoi panegirici?!... Fania, spero bene...
Cròb. Bella Crìside! ma Venere mi guardi dallo sparlar delle mogli in generale! qui, innanzi ad Aglae e innanzi a te!... ma ti pare?!... Le mogli, eh si sa, ce n'ha di buone e di cattive... La va a chi tocca... Anzi, di regola, le mogli sono una bellissima istituzione: è [103] appunto per confermare la regola che ci sono le eccezioni... e queste non divertono... Del resto, vedi benissimo, non c'è moglie cattiva a cui non si possa contrapporne una modello... Citami, nelle tragedie, Clitennestra... uxoricida fin che vuoi... ma io ti rispondo con Penelope. Fedra era incestuosa... ma Alceste era virtuosissima. Su Medea, cuor di tigre, c'è molto da ridire: ma, dall'altra parte... dall'altra parte... (si interrompe con tutta naturalezza, come chi finge cercar nella memoria e non trova) ora non saprei. Elena! peggio di una civetta!... ma invece... invece... (c. s.) adesso mi verrà in mente... Ermione! tracotante e sanguinaria; Creùsa, egoista e vendicativa; Menalippe, adultera... ma all'opposto... all'opposto... (c. s.) che so io... insomma, se lo dicevo che le eccezioni fermano la regola!...[126]
Crìs. (ironicamente rispondendo all'ironia comica di Cròbilo) E a quel che pare... fermano anche di preferenza la tua memoria...
(Durante questo dialogo, Aglae e Fania discorrono fra loro).
[104]
Cròb. Ah, sicuro!... (sospirando comicamente) perchè è su di esse che faccio un corso di studî pratici...
Crìs. (ironicamente suggestiva) E quelle mogli delle tragedie ti servono poi per i confronti teorici...
Cròb. Precisamente. Una consolazione... come un'altra.
Crìs. Perchè?
Cròb. Perchè di sì... Per esempio, tu, Fania... sei storpio...
Fan. (risentito) Io?... Lo sarai tu.
Cròb. (calmo) Supponiamo che lo sii. Sei storpio... e te ne affliggi... perchè non puoi correr dietro a Crìside... ma vai a teatro, vedi in iscena Filottète, che è più storpio di te, e ti consoli.[127] Tu, Crìside, sei tradita indegnamente da Fania...
Crìs. (furiosa) Eh? tradita? io?! bada a quel che dici...
Cròb. (calmissimo) È un'ipotesi...
Crìs. Ma io non so che farne delle tue ipotesi... intendi?
Cròb. Bene, bene. (con flemma, correggendosi) Tu, [105] Aglae, sei tradita indegnamente da Mènecle... è una ipotesi...
Agl. (pacatissima, con mesto sorriso) Va pur là... non mi arrabbio... io...
Cròb. (a parte) (Poveretta! si capisce!...) sei costernata, disperata del tradimento...
Agl. Oh, questo poi...
Cròb. È un'ipotesi... (tra sè) (sbagliata a quel che pare...)
Cròb. Ma vai a teatro e vedi Medea tradita da Giasone ancor più indegnamente di te... e contemplando la di lei sventura, eccoti confortata della tua. Ebbene anch'io... io... come mi vedi... sono un marito disgraziato... e tutti i giorni mando alle stelle dei sospironi grevi, che Giove, se non fosse sordo, sarebbe obbligato a sentirli: ma vado alla tragedia, e sento Agamènnone, dentro le quinte, che strilla ahi! ahi![128] perchè sua moglie nel bagno gli sta facendo la festa... allora mando un sospiro più leggiero, e dico: pazienza!... fino a qui mia moglie non è venuta ancora... e speriamo non ci venga...
[106]
Detti e Mènecle con Mìrtala.
Mèn. (entrando ha raccolto e frainteso le ultime parole di Cròbilo) Oh altro se ci viene...
Cròb. (dà un balzo, spaventato) Eh!...
Mèn. È già qui. L'ho incontrata sulla porta...
Cròb. (sospirando) Ah!... Che maniera di spaventar la gente!
Mèn. E te la conduco. Non temere... non temere! Oh, Fania! Crìside! che buon vento!
Crìs. e Fan. (rendendo il saluto) Mènecle!...
Mèn. (verso la porta) Avanti, Mìrtala!...
Mìrt. (entrando corre ad Aglae) Oh cara Aglae!...
Agl. (restituendole l'abbraccio) Mìrtala!...
Mèn. (a Mìrtala) C'era qui tuo marito che già s'impazientava credendo tu non venissi...
Cròb. (confermando a denti stretti) Già...
Mèn. Questi son mariti...
Fan. (a Cròbilo sottovoce, canzonatorio, additandogli [107] Mìrtala e rifacendogli le parole di prima) Queste sono mogli. Tienla da conto...
Mìrt. (a Mènecle, accennando Cròbilo) Oh, non lo lodare tanto!... Farebbe anche lui delle sue... se io non lo vegliassi un poco... il mio caro marito...
Cròb. (con compunzione comica) Ma tu mi vegli sempre... un poco... (fra sè) come Argo...
Mìrt. (squadrandolo con diffidenza) Per fortuna... e forse non quanto basta...
Cròb. (vivissimamente) Oh... ti giuro che basta...
Mìrt. Vedremo! vedremo!...
Mìrtala ripiglia il colloquio con Aglae. Cròbilo con Mènecle.
Crìs. (a Fania sottovoce, accennandogli Mènecle ed Aglae) Hai visto? Rientrando... nemmeno l'ha salutata... Poveretta!...
Fan. Oh, ma domani mi sentirà.
Crìs. Eh già... se non ti fai sentir tu... mi faccio sentir io. Non ho peli sulla lingua... io![129]
Fan. Lo so...
Crìs. È una vergogna!... Neppure la guarda!... O cosa crede di avere? Una moglie o un [108] pezzo di legno? Andiamo via. Mi fa male. M'accompagni?
Fan. Certo. (a Mèn.) Addio, Mènecle.
Mèn. Come? arrivo ora, e te ne vai?
Fan. Accompagno Crìside. (fissa Mènecle con volto serio) Ci vedrem domani.
Crìs. (ad Aglae) Cara Aglae, addio...
Agl. Di già?
Mèn. (guardando di sottecchi Fania dopo le parole, seco scambiate) Che cos'ha costui? Mi guarda scuro con certi occhiacci, come guardasse l'erba origano...[130] Uhm!... (va a discorrer con Cròbilo) E dunque...
Mìrt. (a Crìside che sta salutando Aglae) Come, come?! Crisiduccia... ci lasci?
Crìs. Dovrei lasciare andar Fania solo?
Mìrt. Ah questo no... i mariti... brava gente... ma a tenerli d'occhio non si sbaglia... lo so io.
Crìs. (a Mìrtala, sorridendo) Io non lo so... ma per non isbagliare... me lo porto via... (ad Aglae, sottovoce) Dà retta a me... di crucciarti non val la pena... ti verrò a trovare, e a farti cambiar vita.
[109]
Agl. (abbraccia Crìside) La cambierò. Sta tranquilla.
Cròb. (salutando) Vezzosa Crìside...
Crìs. Sta sano, Cròbilo. (sottovoce, ironica) E sii felice... con la tua Mìrtala...
Cròb. Eh?
Crìs. (scherzosa, interrompendolo, e rifacendogli la frase di prima) È un'ipotesi...
Fan. (salutando) Aglae, ci rivedremo.
Mìrt. (sospettosa, a Cròbilo) Che cosa ti diceva Crìside?...
Cròb. Che la felicità umana è un'ipotesi...
Mìrt. L'hai chiamata vezzosa... va là che ho sentito...
Cròb. E non lo è?...
Mìrt. A me però non l'hai mai detto... ch'io ti senta dirglielo ancora una volta...
Crìs. (che si è con Fania avviata ad uscire, torna verso Cròbilo, e gli dice sottovoce, beffarda) Completalo poi quel tuo catalogo... Ermione era arrogante, ma Mìrtala è dolce. Elena era adultera... ma Mìrtala è fedele... (ridendo lo lascia) Ah, ah!...
[110]
Mèn. (vedendo Crìside allontanarsi) Crìside?
Crìs. (a Mènecle) Con te sono in collera, e non ti saluto.
Mèn. (cortesemente scherzoso) La pace quando?...
Crìs. (fissandolo) Quando in Atene non ci saran più egoisti...
Mèn. Ossia, siccome gli egoisti finiranno col mondo, quando per indicarli avran trovata una parola nuova...
Crìs. (a Fania ch'è già sull'uscio) Fania!... (dandogli il braccio, e suggerendogli) Ah, eccola, eccola! è...
Fan. (dandole un bacio e proseguendo subito) «t'amo! — la nova parola ch'io so!...» (escono abbracciati).
Aglae, Mìrtala, Cròbilo, Mènecle.
Mèn. (vedendo il bacio) Eh...! non fan complimenti. Quelli son felici... e sanno l'arte di star al mondo!...
[111]
Mìrt. (a Cròbilo, additandogli Fania e Crìside che s'allontanano) Li vedi?... impara!... Che nozze!...[131] Ah se tu fossi un marito come Fania...
Cròb. (a parte) (Ah se tu fossi una moglie come Crìside!...) Imparerò... (va a discorrere con Mènecle che passeggia pensieroso su e giù).
Agl. (partiti gli sposi è rimasta cogitabonda e triste, poi s'è rimessa lentamente al lavoro) (Elèo fra breve ritornerà...)
Mìrt. (ritorna verso Aglae) E così, t'abbiamo aspettata all'ultima festa delle Scìre...[132] non ci mancavi che tu!... peccato!... c'erano le più belle matrone d'Atene... c'ero io...
Agl. Ah!...
Mìrt. E se avessi visto, sulla strada da Atene a Sciro, che folla!... mio marito, dalla gran gente, poveretto!... corse rischio di perdermi...
Mèn. (a Cròbilo sottovoce, canzonandole) Vai in cerca di rischi...
Mìrt. Se non me l'attaccavo stretto stretto alle costole...
[112]
Agl. (velatamente ironica) Si sarà divertito...
Mìrt. Oh... mezzo mondo!...
Cròb. (Sbadigliando) Tanto! tanto!...
Mìrt. Ma sai chi ci ho visto? (Mìrtala parla colla rapidità delle vecchie chiacchierone) Cleonìce... quella magra, col naso lungo... la moglie di Nìcida, da lui ripudiata tre mesi fa. Sai, dicevano la si fosse ritirata alla campagna, per tôrsi alla vergogna del ripudio...
Agl. Poveretta!...
Mìrt. Ah sì, aspetta!... è ricomparsa alla festa, fresca, fresca, come niente fosse... e si pavoneggiava in gran lusso... con tanto di veste cimbèrica e di stivaletti persiani...[133] E poi i poeti cantano che la moglie ripudiata porta il rossore in fronte!...[134] Oh la sfacciata!... Oh, a proposito di vesti, un favore ti avrei a chiedere... sei tanto buona.
Agl. Ma parla...
Mìrt. Quella tua tònaca bianca di bisso di Amòrgo,[135] con lo strascico... Vorrei farmene una eguale anch'io, per la festa di Venere Colìade...[136]
[113]
Agl. (a parte) (O care Grazie!).
Mìrt. Se non t'increscesse mostrarmela, per copiar le misure...
Agl. Oh già... t'anderan bene... Ma subito!... Se vieni nella mia stanza di là...
Mìrt. Grazie!... Ora, ora, prima di andar via... (con malizia, abbassando la voce) E così spierò anche i segreti del vostro nido...
Agl. Nido?... che nido?
Mìrt. (maliziosamente sorridente) Eh, già... il vostro... (accennandole Mènecle).
Agl. (con indifferenza) Ah! due nidi...
Mìrt. Come?...
Agl. Il mio qui sopra... e il suo... da basso.
Mìrt. (stupefatta) Eh??... non istate insieme?...
Agl. È tanto occupato... sai...
Mìrt. Occupato il giorno... va bene;... ma... e la notte?
Agl. La notte... lui scrive... lavora...
Mìrt. E tu?...
Agl. (con accento vibrato) Io... dormo.
Mìrt. E la mattina?...
Agl. Dorme lui... e lavoro io...
[114]
Mìrt. O Dee santissime!... ma senti, Cròbilo?!
Cròb. Che cosa?
Mìrt. Aglae qui mi conta che Mènecle di notte la lascia sola per lavorare...
Cròb. (fra sè) (Oh, oh!) (con segni adesivi del capo) Benissimo!...
Mìrt. (scrutandolo con faccia scura) Perchè benissimo?
Cròb. Perchè il pensiero di noi uomini, per levarsi su, su, su, nelle alte sfere, ha bisogno del silenzio notturno e della solitudine... e quindi...
Mìrt. (ironicamente suggestiva) E quindi lasciando la moglie sola nel vedovo talamo...
Cròb. ... la moglie se ha sonno, riposa più tranquilla... e il marito ha le idee più lucide.
Mìrt. (con calma simulata) E se sonno la moglie non avesse?...
Cròb. Accende il lume e conta i travicelli del soffitto... esercizio che rinforza la memoria: o va alla finestra a veder il tesmotèta che passa colla ronda...[137] e il golfo e l'Acròpoli illuminati dalla luna...
[115]
Mìrt. (ironica, frenandosi a stento) Infatti... l'altra notte... per esempio... che sei rincasato alla terza vigilia...
Cròb. Non era ancora...
Mìrt. (rincalzando)... alla terza vigilia, l'ho vista anch'io la ronda e l'Acròpoli a chiaro di luna...
Cròb. N'è vero, com'è poetico?
Mìrt. Già! (prorompendo) Provati un'altra volta a tornar a casa a quell'ora, e poi... la ronda e la luna te la do io...[138]
Mèn. Che cosa c'è? Che cosa c'è? Ulisse e Penelope che si bisticciano?
Cròb. Niente niente! si discorreva dell'ora che si alza la luna...
Mìrt. (a Mèn.) E Penelope dimostrava ad Ulisse che è un'ora in cui i mariti potrebbero benissimo tralasciare di pensar tanto e far invece... qualche cosa d'altro. Che già, per quel che [116] fruttano i loro profondi pensieri, la Repubblica non ci perderebbe gran che: anzi l'andava meglio quando i mariti cecròpidi coltivavano le mogli un po' di più, e di giudizî e di decreti ne impasticciavano un po' meno... Quelli eran tempi!... quand'ero fanciulla io...
Cròb. (a parte) ... e i Greci assediavano Troja...
Mìrt. ... e macinavo l'orzo di Minerva, e nelle feste Braurònie rappresentavo l'orsa di Diana...[139]
Cròb. (... al naturale...)
Mìrt. ... allora, ah sì, non c'era pericolo che mio padre tornasse a casa dopo il tramonto e facesse a sua moglie il muso scuro con tanti pretesti di tabelle e palle nere e leggi e processi per la testa... Adesso, a furia di decreti e novità mandano la Repubblica a soqquadro; e guardali lì, che par tornino dall'averla salvata a Maratona!... Ah se governassimo noi donne...
Cròb. (Poveri noi...)
Mèn. (ironico) ... gli uomini filerebbero la lana...
Mìrt. ... e la lana ci scapiterebbe, ma le leggi ci guadagnerebbero. Già anche oggi (parla con [117] Mènecle), al solito, avrete tirato colle vostre unghiaccie delle gran righe lunghe sulla cera[140] e data qualcun'altra delle vostre sentenze storte...
Mèn. Tranquìllati... oggi è vacanza...
Mìrt. Se non è oggi, sarà stato ieri...
Come s'è detto, durante questo dialogo, Aglae è seduta intenta al suo lavoro.
Mèn. Ah, ieri sì...
Mìrt. Sentiamo!...
Mèn. Oh, una causa molto semplice. A Fillide, la giovinetta moglie del vecchio Fràstore Egilièo, è morto il padre due mesi fa. Malgrado tutto l'amor figliale, gli occhi per troppo piangere la ragazza non se li è sciupati, e questo è quel che capita ai padri, quando maritano, per interesse, a controgenio le figliuole. È andata ai funerali col suo vecchio marito, senza troppo graffiarsi il viso, con lui è intervenuta al banchetto funebre dei novendiali,[141] quel tanto insomma che la legge ordina ai figliuoli, e niente più. Che è, che non è, salta fuori un bel pezzo di giovine, [118] certo Màntia, ammogliato alla vecchia Pànfila: e asserendosi solo superstite parente dell'orfana fanciulla, invoca il diritto dalla legge, di pigliarsela in isposa...[142]
Cròb. To' che felice idea!...
Mìrt. Oh, il birbante! già, sarà stato d'accordo con quella civettuola...
Mèn. Fosse d'accordo o di suo capo, vattelapesca. Il fatto è che la ragazza, messi in un piatto di bilancia i sessant'anni del consorte vecchio, nell'altro i ventitrè del cuginetto nuovo, trovò la domanda di quest'ultimo immensamente ragionevole. Non così il venerando marito di lei e la veneranda mogliera del nostro giovanotto: ai quali proprio non entrava in testa che s'avessero a disfare due matrimonî per cavarne fuori un terzo a loro spese...
Mìrt. Per Venere! Se avean ragione!...
Mèn. ... e per farla valere, appunto, si misero insieme, poichè il giovine stette duro a far la lite...
Mìrt. ... quella sfacciatella avrà soffiato sotto...
Mèn. (aderendo) — ... la sfacciatella soffiava sotto — e [119] chiesero all'arconte che la domanda dell'improvvisato cuginetto fosse respinta, contestandone la parentela. Ma sì! il cuginetto era assistito da un avvocato coi fiocchi, il vecchio Isèo, il quale squadernò davanti ai giudici un albero genealogico, in linee rette, oblique, laterali e trasversali, che risaliva sino a Codro per via di femmine e per via di maschi sino a Teseo: un albero rispettabile. Di più, esibì la testimonianza dei servi, i quali, posti ai tormenti,[143] dichiararono aver una volta udito il padre della fanciulla, nel contrattar la compera di un asino, chiamar parente il padre del giovine. Di più, la ragazza interrogata, abbassando gli occhi con molta ingenuità e grazia pudica, confermò anch'ella questa circostanza...
Cròb. Dell'asino?
Mèn. (confermando e battendogli sulla spalla) Dell'asino.
Mìrt. (impaziente) Insomma... la conclusione...
Mèn. La conclusione — ecco... l'albero, veramente, era un po' imbrogliato... ma il vecchio [120] Isèo ci mise tanta eloquenza — «giudici, guardate questo! considerate quest'altro!»...
Mìrt. Che i corvi se lo mangino!...
Mèn. ... e quei due giovani, a vederli, lì insieme, tutti e due, biondi, rosei, mandandosi certe occhiate — dritte, laterali e trasversali — come quelle dell'albero, pareano così fatti l'una per l'altro...
Mìrt. (furiosa) E quindi...
Mèn. E quindi Isèo, in uno slancio oratorio, imposte le mani sulle due giovani teste, le avvicinò (mentre sta dicendo questo con inflessione espressiva di voce, getta occhiate verso Aglae, come volesse fermarne l'attenzione. Aglae infatti, alta la testa, e sospeso il lavoro, pur senza guardar Mènecle, mostra di essere molto attenta)... e citò il verso di Omero che Giove vuol congiunti i simili coi simili; e il tribunale per non far torto nè ad Omero nè a Giove, giudicò ch'eran proprio cugini autentici e che il giovine avea diritto di divorziar dalla vecchia, e di portar via al vecchio la giovanetta. I due vegliardi cascarono ululando [121] nelle braccia uno dell'altro, la giovanetta abbassando gli occhi con molta ingenuità e grazia pudica rivolse all'antico sposo un commovente sguardo d'addio, e sospirando... si rassegnò.
Mìrt. (indignata) E tu o Giove, che cosa fai là sopra, che non punisci queste infamie commesse in tuo nome?
Mèn. (pacatissimo) Vedi, hai torto d'invocar Giove. Forse in quel momento era occupato anche lui colla piccola Ebe... a far dei torti alla veneranda Giunone. Son cose che succedono in cielo e in terra..
Mìrt. Ma tu, tu, come hai votato?
Mèn. Ecco... io ci vedo poco... ma mi hanno assicurato che proprio le linee trasversali andavan bene,[144] e quindi per non guastarle — mancando un voto alla maggioranza — ho dato il mio.
Agl. (con iscatto repentino, vibratissimo di voce) Bravo Mènecle!...
Cròb. (contemporaneamente, sottovoce per non farsi udir da Mìrtala) (Bravo Mènecle!)
[122]
Mèn. (udendo Aglae, con un sospiro) (Volevo dire!...)
Mìrt. (ad Aglae) E tu lo lodi, tu lo lodi! Mettiti nei panni di quella povera moglie abbandonata...
Agl. Mi metto nei panni di quell'altra.
Mèn. Ma che abbandono! che abbandono! Cosa credi, che i giudici abbiano cuor di macigno? Quando Isèo s'accorse che il suo albero sui giudici faceva un effettone e che i due vecchi rischiavano restar soli, per ultimo argomento, tirò fuori... (pausa, segni di attenzione) un altro albero...
Cròb. Ma era una foresta questa arringa!
Mèn. Proprio così... un altro albero, dal quale appariva come qualmente il vecchio abbandonato fosse parente in quarto o quinto grado della vecchiarella derelitta: onde Isèo concluse, e il Tribunale accolse, i lor precedenti matrimonî doversi sciogliere anche per ciò: che la settantenne Pànfila essendo... orfanella, la legge obbligava il vecchietto a sposarla per la perpetuazione della stirpe. E stese le mani [123] sulle due teste venerande, ripetè il verso di Omero: che Giove ama congiunti i simili coi simili!... Ah che oratore! che oratore!
Mìrt. (mal frenando la stizza) Aglae, nei processi di tuo marito ci son troppi alberi... e a viaggiar pei boschi si incontrano i malandrini... Se credi, son da te...
Agl. (alzandosi) Come vuoi...
Cròb. (ad Aglae sottovoce, mentre questa, prima d'uscire, sta mettendo a posto qualcosa sul suo tavolo) Mi raccomando... non le mostrar tutta la guardaroba... perchè poi a me tocca di portarla... e... vesti chiuse... vesti chiuse... riparano dai freddi...
Agl. (a Mènecle, nell'andarsene con Mìrtala) Tu sei a casa oggi?
Mèn. (asciutto) No.
Agl. Sei via a cena?
Mèn. (c. s.) Sì.
Agl. Tornerai presto?
Mèn. Forse. (Aglae s'allontana senza dir parola. Quando ella è già sull'uscio, Mènecle la richiama) A proposito, è stato qui Elèo?
[124]
Agl. (ferma sull'uscio, dopo una pausa, come risovvenendosi) Ah... sì!
Mèn. Perchè non dirmelo...?
Agl. (fredda) Non me l'hai chiesto.
Mèn. Ha detto ove andava?...
Agl. No.
Mèn. Tornerà?
Agl. (imitando il forse precedente di Mènecle, con accento espressivo) Forse! (esce con Mìrtala).
Mènecle e Cròbilo.
Cròb. (comicamente, a parte) (Che tenerezze!) (a Mènecle) Non si può dire che tra marito e moglie sprechiate eccessivamente il fiato... Vi parlate sempre così?
Mèn. Quasi sempre.
Cròb. Non vi anderà giù la voce. E, dimmi, il giorno che l'hai sposata, l'hai almeno avvertita delle tue abitudini di... eloquenza domestica?...
[125]
Mèn. Non ci ho pensato.
Cròb. Eppure, scusa sai, ma mi sembra... era forse il caso di pensarci... essendo tu quel galantuomo che sei... che tutta Atene conosce...
Mèn. (vivissimo) E chi, chi ti dice ch'io non lo sia?...
Cròb. Lo sei! lo sei! per Ercole! l'han fino scritto col carbone sui pilastri del Ceràmico...[145] Appunto...
Mèn. Appunto... se si è galantuomini e si è fatta una minchioneria, non si seguita a sospirarne tutto l'anno e ingrassarci sopra... (parlando, fissa l'occhio su Cròbilo)... Si fa di meglio... Ci si ripara...
Cròb. Eh?
Mèn. (energicamente incalzando) Altrimenti sui pilastri del Ceràmico potrebbero scrivere... di me... o di te... anche questo: Mènecle... o Cròbilo, il tal giorno è stato un imbecille... e adesso ci trova il tornaconto a rimanerlo... E questo, per mio conto, non voglio che lo si dica... non voglio... intendi...
[126]
Cròb. Intendo un bel niente.
Mèn. Intenderai con comodo.
Cròb. Quando?
Mèn. Prima della luna nuova.
Dette queste parole appoggiandovi sopra con accento vibrato, s'avvia ad uscire.
Cròb. (Che diamine sta mulinando?) Te ne vai?...
Mèn. Ho da fare... alla cancelleria dell'Arconte. (si fruga indosso cercando qualcosa che non trova) (Dove l'ho messa?) (torna verso Cròbilo) Però ti avverto di una cosa. Sai che Aglae per via di madre vien dalla famiglia dei Brìtidi;[146] io per via di padre dagli Almeònidi...
Cròb. Lo so...
Mèn. Il padre suo poi era cugino di Cimone, la madre mia cugina di Pericle: il suo proavo paterno combattè insiem col mio a Salamìna... le linee laterali si estinsero...
Cròb. (lo guarda stupìto, senza comprendere) Eh?...
Mèn. Era solo per dirti che le nostre genealogie rispettive sono perfettamente in chiaro: [127] e non c'è pericolo che ci spuntino intorno cugini nuovi, come i funghi sui fusti delle piante...
Cròb. E così?
Mèn. E così... io non sono il vecchio Fràstore che fece giudizio senza suo merito: io sono Mènecle, che so far giudizio da me — e il merito sarà mio — tutto mio: — e non occorreranno cugini in ritardo (lo fissa in volto) che abbiano bisogno di sbarazzarsi di qualche moglie avanzata dal diluvio di Deucalione. E se i vecchi stanno male con le giovani, i giovani che han le vecchie... se le tengano!... (lo saluta e se ne va: durante l'ultima parlata, Mènecle ha continuato a frugarsi in dosso: nell'andarsene, fruga sempre e borbotta fra sè) (Dove l'ho messa, per Ercole!... Ah... che l'abbia lasciata là...) (s'avvia, poi torna bruscamente verso Cròbilo e gli ripete battendogli sulla spalla) I giovani che han le vecchie... se le tengano!... (borbottando sempre esce).
[128]
Cròbilo solo.
(Facendo gesti e segni d'uomo che è riuscito a comprendere). La morale della favola, si direbbe quasi che sia per me... Non importa!... Ah, ah, ora comprendo!... Così... per modo di dire... l'amico Mènecle prepara alla sordina un bel divorzio!... Peuh!... È una soluzione come un'altra... Non è molto onorifica per Aglae, ma è abbastanza onesta per lui... Meglio che farla vivere in quel modo!... E Aglae, si vede, non ne sa ancora niente!... Per quanto sì... non le debba riuscire un complimento, scommetto non le parrà vero di ricuperare la libertà!... E con la dote di Mènecle,[147] e con quel visino, e quei due occhioni, non le sarà difficile trovare chi la faccia discorrere un po' di più. Perchè, infine, è una gran bella ragazza!... Che occhi! che linee! che curve!... Pare la Venere degli [129] Orti! To'! io non ci avevo mai fatto attenzione, ma proprio... più la si guarda dappresso, più è bella!... Mènecle, ad ogni modo, poi che s'è deciso a questo passo, dovrebbe almeno prepararvela. Quasi, quasi, se non fosse... (passeggiando, si ferma, come venutagli un'idea) Ma sì... per Bacco!... e perchè no?
(Aglae e Mìrtala, in questo mentre, rientrano).
Aglae, Mìrtala, Cròbilo, un momento Tratta.
Agl. (rientra discorrendo con Mìrtala). Oh, trattienla quanto vuoi!...
Mìrt. (con un involto in mano). Grazie!..
Agl. (a Cròb.). È già uscito Mènecle?
Cròb. Or ora... (senza por mente a Mìrtala che sta raggiustando il suo involto, contempla di sottecchi Aglae e parla fra sè). (Quel nasino grazioso che guarda in su!).
Agl. Niente lasciò detto?
[130]
Cròb. No... Parea cercar delle carte... (continuando a sbirciar Aglae). Che bei capelli biondi!... Con quella acconciatura oggi par fin più bella del solito!... Sicuro!... è più bella del solito!... Che boccone per quello a cui tocca!...
(Nel volgersi, mentre è immerso in queste riflessioni, si trova faccia a faccia con Mìrtala, che gli pon su le braccia l'involto da portare).
Mìrt. Mi fai piacere di tenermelo...
Cròb. (con una smorfia e un lungo sospiro). E a me ecco che cosa tocca!...
Mìrt. Bada a non la sciupare...
Cròb. No, no... (annasando l'involto) Hu!hu! che profumo!... Ma di' un po', Mìrtala, la ti andrà poi bene?
Mìrt. (accennandogli Aglae). E non vedi, orbo, che abbiam la stessa taglia?
Cròb. Ah sì!... (orbo, quando t'ho preso!) Hu! hu! che odor d'ambrosia!... Che profanazione!...
Agl. (passata presso il tavolo a cui Mènecle era seduto sul cominciar dell'atto, e visto un rotolo [131] caduto per terra, lo raccoglie sorridente). To'!... nel grande accalorarsi per la mia felicità, ha dimenticato fin le sue carte!... Che mi dicevi Cròbilo? che Mènecle cercava delle carte?...
Cròb. Appunto... frugava...
Agl. E allora saran queste che gli son cadute o ha dimenticato qui. Sai dove andava?...
Cròb. Alla cancelleria dell'arconte.
Agl. Le darò a Blèpo che glie le porti...
(Fa per chiamare).
Mìrt. È inutile. Dà qui. Passiamo ora di là noi.
Agl. Grazie allora...
(Le passa il rotolo con indifferenza).
Mìrt. Così gli dirò anche, a quel rusticone, che non è questo il modo di andarsene...
Agl. Non gli dire nulla. È il suo carattere.
Mìrt. Bel carattere!... Anche gli Sciti lo hanno così:[148] ma non isposano donne d'Atene. Se fosse mio marito... vedrebbe! Già, tu sei troppo buona... Vorrei veder io che Cròbilo stesse su la notte a consumarmi l'olio della lucerna, senza neanche saper quel che scrive... E tu ti fidi?...
[132]
Agl. Completamente.
Mìrt. (scrollando il capo). Basta!... contenta tu!... (a Cròbilo, maliziosa, mostrandogli il rotolo). Neh, Cròbiluccio, che avessimo senza saperlo, a far la parte... tu di Mercurio... e io di Iride?...
Cròb. (O Dei! che vaga Iride!) Peuh! Mercurio portator di fagotti...
Mìrt. Vieni dunque. Addio Aglae.
Agl. Addio.
Cròb. (sbirciando sempre Aglae). (Che cara creatura! Eh, se sapesse!...)
Mìrt. (a Cròbilo). Vieni?... (nell'avviarsi ad uscire con Cròbilo, va curiosando nell'interno del rotolo; d'un tratto si ferma esclamando) Oh, cara Venere!... (si volta verso Aglae) Ma voi altri due fate all'amore di nascosto? e invece di parlarvi, vi scrivete?...
Agl. (non comprendendo). Eh?
Mìrt. Ma le carte degli affari non saran queste. Questa è per te.
Agl. (sorpresa). Che cosa?...
Mìrt. Ma sì!... qui nell'angolo dice: Mia cara [133] Aglae!... guarda! guarda!... (Aglae osserva dove Mìrtala le indica). Ma allora, poi ch'è per te, puoi aprirla in coscienza: gli risparmi la fatica...
Cròb. (a parte, avendo seguìto la scena). Volevo ben dire! Capirai prima della luna nuova! È la lettera di partecipazione. Ora ho capito...
Agl. (indifferente, prende il rotolo, lo esamina un minuto esternamente, poi senza aprire lo torna a deporre). Leggerò poi... (fra sè) (Sarà la ripetizione dei discorsi allegri di stamane!)
Cròb. (inquieto, a parte). Ma se non legge... bisognerebbe...
Mìrt. (ad Aglae maliziosamente). Ho capito... segreti fra coniugi... Rispettiamoli!... Vieni, Cròbilo?...
Cròb. Vengo!... (segue lentamente Mìrtala; mentre ella esce, s'appressa rapido ad Aglae e le dice affrettato, sottovoce, con accento drammatico). So tutto. Coraggio. Sei giovane, sei bella. Venere ti proteggerà... (allontanandosi, la torna a guardare) (Che nasino! È più bella del solito!)
[134]
Mìrt. (mentre Cròbilo, già avviato ad uscire, si indugia di soppiatto nella contemplazione di Aglae, Mìrtala sulla soglia si volge amorosamente al marito, e ad un tratto lo abbraccia scoccandogli un sonoro bacio e ripetendo con caricatura amorosa il verso di Crìside). «T'amo!..... È la nova parola ch'io so».
(Cròbilo, strappato improvvisamente alla sua contemplazione dal bacio di Mìrtala, con una smorfia comica lo subisce, e mandando un sospiro di rassegnazione disperata, si lascia da Mìrtala trascinar via).
Aglae sola.
Agl. (Ha accolto con un movimento di dispetto e di fierezza le ultime parole di Cròbilo). Che ha inteso dire?... Ah, già!... qui tutti han preso il vezzo di compiangermi!... Perfin le vecchie! Una vera gara di pietà! Grazie! non so che farne!... (torna lentamente, pensierosa, al suo lavoro e riprende in mano la corona). Qui [135] metteremo i narcisi di Elèo... Povero Elèo!... Fino a Colòno... là sulla rupe... me li è andati a prendere... Dunque la piccola Aglae non è del tutto dimenticata... E voleva fingere! Serbarmi rancore!... Perchè fingere con Aglae?... Che colpa ne ho io?... Ah Mènecle, Mènecle, co' tuoi benefici ti sei preso tutto, è tua la mia vita... ma la memoria del cuore... di questa neppur gli Dei mi possono chiedere conto. Quanto alla mia felicità, di cui Mènecle si prende scrupolo e mi parla e mi scrive... (prende in mano il rotolo e lo svolge macchinalmente) glie ne domando conto forse io?... (spiega e legge) È diretta proprio a me. (la scorre dapprima sbadatamente e indifferente, poi si fa più attenta) Che cos'è questo?... (legge:) «Di casa, la notte al nove della luna calante di Ecatombèo, anno IV della 99ª Olimpiade.» L'ha proprio scritta stanotte! «Mia cara Aglae!... Il giorno che leggerai questa mia, i tuoi rapporti meco saran mutati da quelli dell'ora in cui la scrivo...» (fra sè, interrompendosi) Eh... peggio di quel [136] che sono!... «e forse in quel giorno non ti dorrà il poter dare della condotta di Mènecle giudizio meno amaro di quello che oggi parla segretamente in cuor tuo». Che ne sa? «Il cancelliere ti darà questo scritto, dopo la sentenza dell'arconte che avrà disciolto le nostre nozze... per domanda tua!...» (esclamazion di stupore) Che!... mia domanda?... io domandarlo?... «Depositato da ora presso lui, ti sarà allora documento della verità delle mie parole...» (s'arresta sempre più stupita) Che vuol dir ciò?... (scorre rapidissimamente il resto della lettera, con segni di crescente sorpresa e commozione: terminato, rimane assorta, la testa fra le mani, asciugandosi una lagrima). Povero vecchio!... povero vecchio!... (si alza vivamente e passeggia concitata). Così... io avevo l'orgoglio di credermi generosa verso Mènecle... ed è lui che mi soverchia in generosità!... Tutti, tutti, mi umiliano! Soverchiare Aglae!... Ah! la vedremo!...
(Rinchiude, e va per riporre al posto di prima il rotolo, ma in quel punto si affaccia Tratta).
[137]
Aglae, Tratta ed Elèo.
Tr. (dalla soglia) Elèo!...
Agl. Ah!... (momento di pausa, di perplessità e lotta interna vivissima. Poi risolvendosi) Passi.
El. (entra vivacissimo e reca dei corimbi di narcisi). Aglae!... li ho colti là... dove tu sai... (Aglae non risponde, è triste, pensierosa — Elèo, interdetto, depone i fiori) Che hai?
Agl. (mesta, chinando lo sguardo). Nulla. Leggevo una lettera... di Mènecle... per me. La puoi leggere anche tu... Leggi.... continua pur forte!...
(Elèo, guardandola tra sorpreso ed esitante, prende lentamente la lettera, che ella gli stende, la legge e poi ripiglia a voce forte la lettura al punto che Aglae gli ha segnato. Aglae segue la lettura, profondamente commossa).
El. (leggendo). «Quando tuo padre morente affidavati a me, tu eri fanciulla quattordicenne appena. Accorrevano, allettati dalla dote ch'io t'avrei fatto, i concorrenti: ma pel tuo cuore di fanciulla l'ora della scelta non era suonata: [138] e libera e felice bramavo la tua. Ed io dissi fra me: che tre o quattro anni a te restavano prima d'affacciarti alle soglie vere della vita, e non più di tre o quattr'anni — ero anche malfermo di salute a que' dì — mancavano a me per abbandonarle. Pensai che sposandoti a un estraneo in quell'età, io rinunziavo in mani ignote un incarico sacro; che la mia casa poteva offrirti, pei tuoi anni verdissimi, asilo, fino al dì che la mia morte t'avrebbe trovata, giovane e bella, erede delle mie fortune, padrona della scelta del cuor tuo, e in grado di porne le condizioni...»
Agl. (ad Elèo). Che ti sembra?
El. (triste e serio). È leale. (prosegue la lettura) «... Se in quel mio desiderio sia entrato anche un desiderio egoistico: veder consolata la mia vecchiaia dal tuo sorriso, lo squallore del mio inverno da un ultimo raggio di sole, oh Aglae, io non oso domandarlo a me stesso: non oso cercar tra le pieghe del mio cuore più nascose, in quell'unico mesto desiderio, l'unico mio torto verso di te...»
[139]
Agl. (asciugando una lagrima) Povero vecchio!...
El. (prosegue a leggere). «Ve lo hai letto tu forse? Non so. So che in queste nozze il cuor tuo volle scorgere un debito verso l'ombra paterna: le accettasti prima colla ingenuità della gratitudine; le subisti poi colla abnegazione del sagrificio... Non volli disingannarti. Per la educazione del tuo animo quella prova era troppo bella. Nella Parca liberatrice confidavo perchè fosse breve. Ma ecco, l'ora che io pensavo è suonata; e trova te fatta donna, nello splendore dei doni di Venere; e trova me vecchio e vivo e senza il diritto di prevenire la Parca.[149] Sciupar con un vecchio il tuo aprile, invecchiar senza gioie nè di sposa, nè di madre, non era questo ch'io promisi, non può essere questo il premio alla tua virtù.[150] Ma s'io ti dicessi ora ciò, se pregandoti di recar teco delle mie fortune quel che in mia mente è già tuo, io ti offrissi di sciogliere di mutuo accordo le nozze, la tua fierezza, resa dall'idea del [140] sacrifizio più altera, rifiuterebbe sdegnosamente».
Agl. (a sè). Certo!...
El. (segue a leggere). «... Valermi della legge, e liberar te col ripudio? triste felicità la tua sarebbe, comperata a prezzo del peggior degli affronti.[151] Sola una via mi restava. Scioglierti dagli scrupoli verso di me: obbligarti a ricorrere all'arconte tu medesima. Sei nervosa, impaziente, irascibile: pensai di stancare la tua pazienza. Sei virtuosa e leale: il giorno che il tuo cuore sentirà prepotente il bisogno di vivere, tra l'abbandonarmi lealmente a fronte alta e l'ingannarmi, il tuo cuore, ne sono certo, nella scelta non esiterà. Quando leggerai queste righe avrai scelto, e mi perdonerai questi giorni di tedio e l'inganno dell'esserti parso egoista, duro, scortese. Me lo perdonerai pensando alla triste solitudine che m'attende[152], e in cui non avrò altro conforto che di saperti felice, e aver sciolto la mia promessa alla cara ombra del padre tuo.
«Mènecle».
[141]
Agl. (Elèo lascia cadere il foglio, mestissimo in volto. Aglae ha da qualche minuto in mano e sta contemplando i fiori di Elèo: alle ultime parole della lettera, se gli è già venuta accostando: nel punto in cui egli termina, con atto dolce e amorevole gli ripresenta i ramoscelli di narciso. Elèo vorrebbe rifiutare, ella insiste con gesto muto, amorevole di preghiera; Elèo riprende i fiori ad occhi bassi, senza dir parola. Aglae prosegue con voce lentissima e dolce). Vedi bene che a quell'ombra non potrei più offrirli... (lunga scena muta fra i due). Non sarebbe bello!... Non sarebbe bello!...
(Saluto lungo e silenzioso. Elèo si allontana lentamente ed esce. Aglae ricade sulla sedia, celando il volto nelle mani).
CALA LA TELA.
[145]
81. Per la topografia della casa ateniese, rimandasi alle descrizioni di Vitruvio (Archit., VI) e ai lavori archeologici moderni che le illustrano. Chi non voglia sciupar tempo in minute ricerche, può farsene un'idea abbastanza chiara ed esatta dai disegni topografici, per es., dell'opera di Guhl e Körner, Leben der Griechen und Römer, fig. 90-91, o da quelli aggiunti all'Anacarsi. La stanza da lavoro di questa scena è una, s'intende, dell'appartamento segregato femminile, propriamente detto (γυναικωνῖτις); occupato dalla padrona di casa e dalle sue donne, e generalmente posto nella parte posteriore della casa; appartamento al quale non accedeano gli uomini tranne i parenti, o gli estranei che ne aveano il permesso dal marito. Da queste stanze riposte del gineceo (ove la moglie attendeva alla sua toletta, o ai lavori delle fantesche, o alle occupazioni geniali del ricamo, del tesser ghirlande, della musica ed altre, o riceveva le amiche), da queste un corridoio (metaulo o mesaulo) metteva appunto direttamente alla sala aperta comune (πρόστας o παραστάς) che dava sul cortile o peristilio (ἀυλή), e ch'era destinata ai ricevimenti di famiglia, ai sagrifici domestici o ai pranzi quotidiani. In questa sala comune nella quale era il domestico altare, e la quale segnava come il confine tra il gineceo e gli appartamenti anteriori occupati dal marito (ἀνδρωνῖτις), supporrassi la scena dei due atti successivi.
[146]
82. «Tremo e mi mordo le labbra, per presentimento di disgrazia, come quei che passano allato ad un qualche silenzioso eroe». Alcifr., Lett., III, 58. La antichissima superstizione greca imaginava lo spazio fra la terra e la luna abitato dagli eroi o genj, esseri di sostanza fra l'umana e la divina; i quali talora, siccome mediatori tra gli dei e gli uomini, scendeano in terra a mescolarsi fra questi ultimi, ma senza parlare. E infesti a coloro in cui imbattevansi, era credenza che il loro incontro portasse disgrazia.
83. Cfr. Aristof., Lisistrata: «Lis. Nella guerra e nel tempo passato, voi uomini non ci lasciavate a noi donne aprir bocca...: e spesso in casa vi udivamo prendere cattivi partiti in affari gravissimi. Quindi col dolore nell'anima, ma col sorriso sul labbro, v'interrogavamo: Che avete determinato oggi nell'assemblea? E il marito: Che fa a te questo? Non vuoi tacere? Ed io mi taceva. Provveditore. Saresti stata battuta, se non tacevi. Lis. Ma poi, udendo qualch'altra vostra decisione anche peggiore, domandavamo al marito: Perchè far questo? E quegli, squadrandomi con occhio bieco, dicevami: Se tu non tessi la tua tela, ti dorrà a lungo la testa. Sta agli uomini aver cura della guerra». v. 507-520.
[147]
84. V. Sofocle, Trachinie, v. 9-17.
85. Luglio-agosto. V. il lunario attico nelle note all'Alcibiade.
86. «Ut omnia de speculis peragantur, optima apud majores fiebant Brundusina stanno et ære mixtis». Plin., XXXIII, 9. Questi specchi di Brindisi, lodatissimi, fatti di bronzo e di stagno, finchè, come dice lo stesso Plinio (XXXIV, 17) si usarono d'argento persin dalle ancelle, sono verosimilmente la stessa cosa degli specchi chiamati, forse per error di copista, d'Abrotesio, in Alcifr., Lett., III, 66. Caratteristiche poi, nella toletta delle signore ateniesi, erano di questi specchi certe forme piccole, rotonde, per lo più con manico riccamente lavorato, e raffigurante, il più delle volte, l'effigie di Venere Afrodite. Cfr. Guhl e Körner, p. 217, fig. 227. Mènecle ne parla più innanzi.
87. Calisseno rodio, pr. Aten. Deipnos. — v. Teofr., Caratt., 5.
88. Su la parte grandissima che nella vita della donna di famiglia ateniese aveano le divozioni, le feste e le pratiche religiose d'ogni genere, e su quel che costavano, di occhi del capo, ai poveri mariti, abbondano i tratti nei comici e altrove. «Ogni Iddia di cui si celebra la festa è una maledizione pei mariti: i poveri uomini non ne conoscono neppure i nomi: le Coliadi, per es., e le Genetillidi, e la dea Frigia, e la processione d'infelice amore sul pastore (Adonie)». Luciano, Amori. E in Menandro: «Ahimè — sclama un marito — la mia donna spende dieci mine in profumerie: e le occorrono scatole d'oro per chiudervi i sandali... In casa la mi faceva cinque sacrifici al giorno: e ad ogni sacrificio, sette schiave in circolo, picchiavan ne' cimbali, mentre altre mandavano gli urli rituali. Son soprattutto gli dei che ci rovinano, noi altri mariti: sempre delle feste a cui far le spese!» Men., Mysogin., fr. 3. Cfr. i frammenti di un'altra commedia di Menandro, La sacerdotessa (‘Ιέρεια), ove un marito cerca distogliere la moglie dalla manìa delle pratiche religiose per il culto di Cibele.
[148]
89. «Solo di tutti gli uomini, o Trofimo, tua madre t'ha posto al mondo sotto astro sì propizio che tu possa conseguir co' tuoi sforzi lo scopo di ogni tua brama, e condurre tutte le tue imprese a buon fine? T'ha forse qualche Iddio assicurato con promesse questo privilegio? S'è così hai ragione di indignarti: poichè questo Iddio t'ha ingannato e t'ha usato una ingiustizia. Ma se tu hai ricevuto alle stesse condizioni di noi quest'aria che respiri e che è a noi comune, ti bisogna far uso della ragione e sopportare con più coraggio questa sventura...» Menandro, fram. inc.; Meineke, fr. com. gr., IV, 227.
«Iscrizione: Ai numi soli è dato — ogni successo aver felice appieno — l'uomo quaggiù non ha contrasto al fato. Non odi, o Eschine, che aver prosperi successi è solo degli Dei?» Demost., Corona.
[149]
90. Nel diritto attico «la donna è maritata legittimamente dal padre, dal fratello consanguineo, dall'avo paterno» (Demost., C. Stef., II, 1134) che, succedentisi in ordine di diritto, ponno dar la ragazza a chi loro talenta (cfr. Petit, Leges att., VI, 1). Il padre può dar la figlia in isposa lui vivente (Dem., C. Spud., 1024; C. Neera, 1345) o legarla per testamento. «Demostene mio padre lasciò la sua sostanza di 14 talenti, me di 7 anni, la sorella di cinque, e la madre nostra. In punto di morte, tra sè consigliandosi sul come disporre di noi, affidò tutte queste cose a questo Afobo e a Demofonte nipoti suoi.... A Demofonte poi sposò la mia sorella e diede subito due talenti». Dem., C. Afob., I, 814. Questo diritto del padre, o di quelli che in sua mancanza lo rappresentavano, è subordinatamente esercitato anche dal primo marito, il quale può pur esso morendo designare per testamento il proprio successore nel talamo. Così, nel passo testè citato, Demostene soggiunge che il padre suo legò sua mamma in moglie ad Afobo (C. Afob., I, 814); e così Pasione lega morendo la propria moglie a Formione (Dem., per Form., 946, 953; C. Stef., I, 1110; C. Stef., II, 1133), sempre per disposizione testamentaria. — Cfr. Desjardins, Condition de la femme dans le droit civil athén., mémoires lus à la Sorbonne. — Lallier, La femme dans la famille athénienne.
91. «I nostri mariti tornando a casa ci guardan con l'occhio del porco, tante malizie costui (Euripide) ha insegnato loro: sicchè se una moglie sta intrecciando una corona, subito si crede che la sia innamorata...» (ἐάν τις χαὶ πλέκῃ γννή στέφανον, ἐρᾶν δοχεῖ) — Aristof., Tesmofor. V. 395-401.
[150]
92. σποδὸς δὲ τἄλλα, Περικλέης, Κόδρος, Κίμων — Alessi (poeta comico della commedia di mezzo) nel Maestro di nequizie (’Ασωτσδιδάσκαλος). Mein., fr. com. gr., III, 395.
93.
Φοιταᾴ δ’ἀν αὶθέρ’, ἔστι δ’εν θαλασσίφ
κλύδωνι Κύπρις, πάντα δ’εκ ταύτης ἔφυ.
‘Ηδ’ ἐστιν ὴ σπείρουσα καὶ διδοῦσ’ ἔρον,
οὖ πάντες ἐσμὲν οὶ κατὰ χθόν’ ἒκγονοι.
Eurip., Ippol., v. 447-450.
94. Eurip., Medea, v. 230-247.
95. Fu nell'anno 379 av. l'E. V. (2º della 100ma Olimp.) che lo spartano Febida, d'accordo cogli oligarchici tebani, si impadronì a tradimento della rocca di Tebe (Cadméa) e della città, rovesciandone il governo democratico e instaurandovi la tirannide spartana. I Tebani di parte democratica che poteron salvarsi — circa 400 — rifugiaronsi ad Atene: tra questi fuorusciti «Pelopida, e Ferenico, e Androclide, i quali fuggiti essendo, furono unitamente agli altri condannati in esilio. Ma Epaminonda sen restò nel paese, trascurato venendo come uomo che applicandosi alla filosofia, non si ingeriva punto nelle faccende, e ch'essendo povero non potea far cosa alcuna». (Plutarco, Pelop.) E di questa presunta innocuità avvantaggiandosi Epaminonda, da Tebe mantenea le segrete comunicazioni co' fuorusciti e attendea per il giorno della riscossa «a riempiere di sensi coraggiosi la gioventù tebana e ad addestrarla a lottar coi Lacedemoni». (Ibid.) — Cfr. Senof., Ellen.
[151]
96. Eschilo, Sette a Tebe, v. 181, 200-1.
97. «O Minerva Promacorma! Bramo ch'altri mi calpesti disteso morto sotto un monticello, fuor della porta Diometide o dell'Ippade, anzichè sopportar più a lungo le gran delizie del Peloponneso». Alcifr., Lett., III, 52. Gli Ateniesi non usavano seppellir alcuno dentro le mura. La porta Diometide o Diomea, nel quartiere di questo stesso nome, conduceva al Cinosargo, a levante della città; la porta Ippade (nominata nella scena appresso) metteva a settentrione, sulla via di Colono e di là a Tebe.
98. Cfr. Alcifr., Lett., II, 4.
99. Sofocle, Edipo a Colono.
100. Giove Ctesio (κτήσιος) ossia Giove posseditore o donatore, custode della domestica proprietà; del numero degli Dei penati, principalissimo: aveva altare nelle case, o se ne teneva un idoletto nelle dispense. «Il Dio di Dodona comanda che a Bacco popolare si faccia un sagrificio perfetto; ad Apollo scacciamali si immoli un bue; liberi e servi s'inghirlandino e vachino dai lavori un giorno intero; anche a Giove Ctesio sia sacrificato un bue bianco». Demost., C. Midia. — E in una arringa di Iseo è descritto un vecchio che celebra sacrificio, circondato dai figli di sua figlia. «Alle Dionisie campestri egli ci conduceva con lui, e con lui celebravamo tutte le feste. Quando sacrificava a Giove Ctesio, ed era per lui l'atto religioso più importante, non ammetteva nessuno schiavo nè estraneo; compiva da sè tutte le cerimonie; noi l'aiutavamo, maneggiando gli oggetti sacri, ponendo sull'altare le viscere; ed egli, come a l'avo conviensi, supplicava il Dio di accordarci la salute e un tranquillo possesso della nostra fortuna». Iseo, Ered. di Cirone, § 15-16.
[152]
101. La battaglia sanguinosa di Nemea, dove gli Ateniesi, alleati coi Tebani, Argivi e Corinzî furono sconfitti dagli Spartani, accadeva nel 394 av. l'E. V., ossia 15 anni prima dell'epoca in cui è supposta questa scena. Gli alleati vi erano forti di 24 mila opliti e 1550 cavalli; i Lacedemoni vincitori avevano 13.500 uomini soli: ma la mancanza d'accordo tra i capi portò la disfatta dei primi, che vi perdettero 2500 uomini. I vincitori ebbero 1100 morti.
102. «Comandano le leggi che l'arconte abbia cura dei pupilli». Demost., C. Timarc. — «Legge: l'arconte abbia cura degli orfani e delle orfane ereditarie (epiclére); e delle case vuote; e delle mogli che rimangono nelle case dei mariti defunti, e che dicono di essere gravide». Demost., C. Macart., 1076. — Indi il tutore rappresentava l'arconte, verso il quale rispondeva della tutela; e mancando agli obblighi di questa, poteva esser tratto in giudicio o punito dall'arconte d'ufficio. — Cfr. Schöm., Ant. gr.; Petit, Leg. att., VI, 7; Meurs., Them. att., II, 10.
103. V. Eschilo, Coefore; Sof., Elettra; Euripide, Ifig. in Aul., ecc.
104. «Elettra. I parentali — libamenti spargendo sulla tomba — qual grata prece proferir degg'io? — Come il padre invocar?... Di' pur, come t'ispira — la riverenza alla paterna tomba... Coro. Prega, il licor versando, ai fidi amici — fausti tutti gli eventi... Elettra. Qual altro aggiungerò? Coro. D'Oreste — ti risovvenga ancor che lunge ei sia». — Eschilo, Coef., v. 86-88, 108-115.
[153]
105. «Dicesi che Anassagora di Clazomene (il filosofo che fu maestro di Socrate) non fu mai veduto ridere, e neppur fare il minimo sogghigno: Aristosseno parimenti fu nemico del ridere, ed Eraclito piagneva per ogni cosa della umana vita». Eliano, V. Stor., VIII, 13.
106. «Carico di corimbi in questo loco — il fiorente narciso — ghirlanda delle due gran Dive antica — tuttodì si nutrica — di celeste rugiada...» Sofoc., Edipo a Colono. — Su le due dee sotterranee, Cerere e Proserpina, V. note all'Alcibiade.
107. τὴν μὲν ἅπασι τοῖς ἐαυτῆς φιλοτίμοις κεκόσμηκεν Αφροδίτη, μόνου τοῦ κεστοῦ φεισαμενή. Aristen., Lett., I, 10.
108. «Che cosa vi è di più dolce per un marito che una sposa secondo il suo cuore, che cosa di più dolce, sopratutto nella gioventù?» Antifonte, pr. Stob. Flor., LXVIII. Superfluo avvertire qui, una volta per tutte, quello che Eudemonippo ha già accennato nel prologo: che se la Sposa di Mènecle è stata scritta da lui nella 120ª Olimpiade, vale a dire quando Menandro fioriva, e Aristotile aveva fatto scuola, egli è alla luce dei lavori della commedia nuova e delle pagine più belle dello Stagirìta, che s'hanno a studiare, nei novi costumi e sentimenti di quell'epoca, i novi ideali della famiglia, dell'affetto coniugale e dell'amore; e i richiami alle caste dolcezze amorose, e le scene di tenerezza fra giovani fidanzati e sposi, giunte fino a noi negli sparsi frammenti greci, e nelle pitture più delicate di Terenzio. Fabula jucundi nulla est sine amore Menandri. Nella dignità cresciuta del matrimonio la moglie ritrova al 4º secolo un posto quasi nuovo fino allora per lei: e nella femmina, presa per confinarla nel gineceo a procrear figli, appare per la prima volta la compagna amante dell'uomo. Ed ecco Aristotile dichiarare che «la tenerezza è naturale fra il marito e la moglie, l'uomo essendo da natura ancor più incline alla vita in due che non alla vita sociale; e in questa tenerezza ritrovarsi molto profitto e molte dolcezze insieme riunite». (Ar. Eth. Nicomac., VIII, 14). Che più? Eccolo altrove premunir i giovani sposi contro l'eccesso della tenerezza, contro la intimità spinta al punto da divenire una abitudine tirannica e un bisogno inquieto, sì che poi non diventi loro impossibile di staccarsi un minuto l'un dall'altro; e insegnar loro a padroneggiarsi così da bastare l'uno all'altro, anche colla sola memoria, quando l'un d'essi è lontano! (Aristot., Econom., I, 4). — Però il mio Fània meritava le attenuanti, se i moniti di Aristotile (ch'era in que' giorni un bambino) non eran fatti per lui.
[154]
109. «’Ὀλβιε γαμβρ’ ἀγαθός τις ἐπέπταρεν ἐρχομένῳ τοι». O felice sposo, qualche buon genio a te veniente sternutò. Teocr., Id., 18. — Hoc ut dixit amor, sinistra ut ante — dextra sternuit adprobatione. Catullo. — Sullo sternuto, or buono or cattivo augurio, cfr. note Alcibiade, 157.
[155]
110. Cfr. Schömann. Ant. greche; Lallier, La femme dans la famille athénienne. — Teofr., Caratt., 22.
111. Siam le nipoti di Teseo e non siam le schiave dei mariti. Cfr. in Senofonte le ammirabili pagine (Econom., VII) dove Iscomaco spiega alla sua sposa giovinetta i doveri e i diritti della moglie; e com'ella non dee considerarsi la schiava, bensì la compagna del marito, e avente ella stessa nel domestico governo la sua parte di sovranità. (Econ., VII, 13 e seg.) E con che delicata e viva imagine, Iscomaco paragona questa sovranità della moglie nella casa a quella della regina delle api; e come insiste mostrando alla donna sua gli uffici del marito e della moglie, essere diversi ma grandi del pari, «si da non potersi discernere chi vaglia più la donna o l'uomo!» «E finalmente — ei le soggiunge — cosa sopra tutte le altre dolcissima, quando nel compimento degli uffici tuoi, ti farai conoscere di maggior valore che non son io, tu ti valerai, o moglie mia, dell'opera di me, come di un tuo ministro; nè dubiterai che nel tempo avvenire abbi ad essere meno riverita». Econ., VII, 41-2. Siamo già evidentemente nelle idee ben lontani dalla posizione umiliante e servile assegnata alla donna di famiglia nella antica legislazione ateniese! È vero che al tempo di Senofonte, tra questo ideale e la generalità del costume, del divario ancora ne poteva e ne doveva correre: ma la parola dell'epoca è detta e la nuova missione della donna della famiglia è cominciata. Verrà tra breve Aristotile a paragonare i diritti della sposa coi diritti sacri e augusti del supplice che ha deposto il ramo d'olivo sull'ara domestica, e che acquista con ciò verso il marito i privilegi della inviolabile ospitalità. (Arist., Econ., I, 4). E verranno tra breve i comici della commedia nuova a lamentarsi delle usurpazioni di autorità commesse dalle mogli sui mariti, e a far ridere il pubblico alle spese dei mariti tiranneggiati!
[156]
112. E Temistocle ateniese stava sotto alla moglie. «Diceva Temistocle scherzando che suo figlio, ancora piccino, era il più potente di tutti i Greci. Gli Ateniesi comandano ai Greci; io comando agli Ateniesi; sua madre comanda a me, e lui comanda a sua madre». Plut., Temist., 18; cfr. Plut., Prec. matrim. — E in una commedia di Menandro: «Ecco un uomo di cui ognun vanta la felicità in piazza: ma appena varcata la soglia di casa sua, è il più infelice di tutti. Sua moglie è la padrona di tutto: essa comanda e litiga senza posa». Menandro, Piloti, fr. 2.
113. Vedi la legge citata nel Prologo, pag. 26.
114. Il fratello consanguineo succede in diritto al padre nel disporre della sorte dell'orfana da maritare. V. sopra nota 10. — Cfr. Demost., C. Onetore, 865, 866; C. Eubulide, 1311; C. Beoto, II, 1010. Iseo, Eredità di Mènecle, § 5-9.
115. Colombi di Sicilia, allevati e tenuti in pregio nelle case ateniesi. Teofr., Caratt., 5.
[157]
116.
’Εὰν δὲ κινήσῃ μόνον τὴν Μυρτίλην
ταύτην τις, ἢ τιτθὴν καλᾖ, πέρας οὐ ποιει
λαλιᾶς. τὸ Δωδοναῖον ἄν χαλκίον,
ὃ λέγουσιν ἠχεῖν, ἀν παράψηθ’ ὁ παριών,
τὴν ὴμεραν ὅλην. καταπαύσαι θᾶττον ἢ
ταύτην λαλοῦαν˙ νύκτα γὰρ προσλαμβάνει.
Menandro, La suonatrice di flauto. (’Αῤῤ ήφορος ἤ αὐλητρίς) pr. Stef. Biz. — Mein., Fr. Com. gr., IV, 89.
117. Le arie di alterigia e le pretese che le ricche ereditiere recavan seco insiem con la dote nella casa maritale doveano realmente dar non poco fastidio ai signori mariti ateniesi, se fornirono così larga materia agli scrittori comici della antica commedia e della nuova (le imitazioni di Terenzio comprese): dove si incontrano ad ogni piè sospinto le lamentazioni dei poveri mariti.
Εἴθ’ ὤφελ’ ὴ προμνήστρι’ ἀπολέσθαι κακῶς
ἥτις με γῆμ’ ἐπῆρε τὴν σὴν μητέρα
«Ahi, fosse perita di mala morte la pronuba che m'indusse a sposar la madre tua!» Aristof., Nubi, v. 41. «Oh Dei! che sproposito ho io mai fatto a sposar per i suoi sedici talenti questa Crobila, una donnicciuola alta un cubito! È mai possibile di sopportare una tanta arroganza? Per Giove Olimpo, e per Minerva, ohibò!» Menandro, La collana (πλόκιον), pr. Aul. Gel., II. — Mein., Fr. Com. gr., IV, 189. «Questa vita del matrimonio m'è odiosa! — Perchè l'hai presa per il cattivo verso... Se passi il tempo a lagnarti de' suoi guai, senza mettere in bilancia i compensi, ti desolerai eternamente». Men., L'odiator delle donne (Μισογόνης) pr. Stob., LXIX. — Mein., Fr. Com. gr., IV, 164. «Han fatto bene a dipinger Prometeo inchiodato allo scoglio... È lui che ha creato le donne... Una donna è migliore a sotterrarsi che a sposarsi». Menandro, fram. inc. — Mein., Fr. Com. gr., IV, 228. «Maledetto il primo che inventò di prender moglie! E poi il secondo, e il terzo, e il quarto e tutti quelli che l'imitarono!» Menand., La ragazza bruciata. (’Εμπιπραμένη) pr. Aten., XIII. — Mein., Fr. Com. gr., IV, 114.
E la litania dei lamenti non finisce qui: vedine qui sotto degli altri (note 39, 41, 42): e potrei aggiungerne ancora: ma pare che bastino.
[158]
118. τὰ τῆς γῆς ἀγαθά. — Alcifr., Lett., II, 3.
119. ’Ὲχν δ’ἐπίχληρον Αάμιαν «Ho (sposato) una strega con la dote (esclama lamentosamente in Menandro un vecchio marito): non te l'ho già detto? Non te l'ho già detto? Casa e campi mi vengono da lei: e m'è toccato per averli di prendere anche lei insieme: e questo, o Apollo, è il peggior dei mali!» Men., La collana (Πλόκιον), pr. Aul. Gel., I. — Mein., Fr. Com. gr., IV, 191.
120. Plutarco. Proverbii — E poco diverso dai Greci diciamo anche noi: chi sprezza vuol comprare.
121. Terenzio, Formione: «Nausistrata. In verità mio marito amministra senza una cura al mondo i poderi bene acquistati dal padre mio: chè egli ne ricavava, senza manco, due talenti l'anno d'argento: vedete che differenza da uomo ad uomo! — Demifone. Due talenti! — Nausis. Proprio! due talenti! e sì le derrate non valeano uno per cento d'adesso». v. 788-790. — Cfr. sopra, nota 37, framm. del Πλόκιον.
[159]
122. Πατρῷ’ ἒχειν δεῖ τὸν χαλῶς εύδαιμονα «Fortunato quegli che è ricco dell'eredità del padre! poichè delle cose che entrano in casa colla moglie il possesso non è nè sicuro nè allegro». Men., inc. fab., fr. 54. «Se siete povero e sposate una donna ricca, vi pigliate una padrona e non una moglie: vi riducete alla condizione di essere a un tempo e servo e povero». Anassandride, incert. fab. «O tre volte infelice chiunque essendo povero conduce moglie!» Men., Πλόκιον, pr. Stob., LXVIII. «Alla fronte superba e alle sue arie tutti si voltano a guardar Crobila: poichè è ben nota mia moglie, dalla ricca dote, o piuttosto la padrona che mi possiede!» Men., Πλόκιον, pr. Aul. Gel., II, 23. «La moglie di lui è la padrona di tutto: essa comanda e lo strapazza senza posa». Men., Piloti, (Κυβερνῆται).
123. «Ma il nostro tesoro è stato carboni (ἄνθρακες ὸ θησαυρὸς ἦσαν) come dice il proverbio». Luciano, Zeusi. «Se sapessi ch'ella ha rivolto ad altri il suo amore, tutti i tesori mi diventerebbero cenere». Alcifr., Lett., II, 3.
124. Cfr. Aristof., Nubi, v. 71.
125. Disposizione degli attori in iscena:
Aglae, Crìside — Cròbilo, Fania.
126. V. un frammento dei tempi della commedia di mezzo in Eubulo, Χρύσιλλα. — Mein., Frag. Com. græc., III, 260. — Cfr. in Aristofane, Tesmofor., v. 545-550: ed Euripide, Androm., Jon, Ippolito, Alceste, ecc.
127. V. un frammento di un altro poeta della commedia di mezzo: «L'uomo è animale infelice per natura, ma ha trovato a' suoi dolori questo conforto (il teatro): poichè la mente, dimentica dei propri mali nel compatire i mali altrui, vi si diletta e si istruisce insieme. Vedi prima, se vuoi, i tragici come giovano a tutti! Imperocchè il povero venendo a sapere che vi è stato Telefo più povero di lui, già più facilmente sopporta la mendicità; l'infermo per qualche insania considera Alcmeone; oppur soffre di oftalmia? I figli di Fineo sono ciechi. Morì il figlio al padre? Niobe lo consola. O qualcuno e zoppo? Si specchia in Filottete. O un altro è vecchio e sfortunato? Lo ammaestra Eneo. Qualunque cosa infine uno soffra, maggiori stimando le altrui calamità, meno delle proprie si lagna». Timocle, Le Baccanti (Αιονυσιάξουσαι), pr. Stob., Flor., 124. — Mein., Frag. Com. græc. III. 592. Al quale frammento di Timocle, G. Guizot, nello studio su Menandro (pag. 135), contrappone lo scherzo di Voltaire nella novella Les deux consoles: «Songez à Hécube, songez à Niobé, dit le philosophe — Ah, dit la dame, si j'avais vecu de leur temps, et si, pour les consoler, vous leur aviez conté mes malheurs, pensez vous qu'elles vous eussent ecouté?».
[160]
128. ὢμοι... ὢμοι, Eschilo, Agamenn. v. 1343-5.
129. λίοπη γλῶσσα (Aristof., Rane, v. 826), lingua scortecciata ossia senza pelo dicevano anche i Greci, allo stesso modo nostro, di chi sa bene adoperarla.
130. «Io mi mostrerò forte e coraggioso e guardante l'orìgano» βλέποντ’ ὀρίγανον, Aristof., Rane, v. 602: ossia guarderò torvo e brusco. Modo proverbiale, derivato fra i Greci dall'odor acre di quell'erba.
[161]
131. Su le pretese e il bisticciare e il rimbrottar continuo con che le mogli dotate molestavano i mariti, vedemmo abbondare in Menandro e ne' comici della commedia nuova gli esempi. — Cfr. Lallier, La femme dans la famille athénienne. — Benoit, Sur la Comédie de Ménandre.
132. «A quella di noi donne che partorisse un uomo utile alla città, legislatore o capitano, era giusto le si desse qualche premio, e il primo seggio nelle feste Stenie e nelle Scire, e nelle altre che noi donne sogliamo celebrare». Aristof. Tesmof., v. 834. «Tu lampada sarai a parte dei presenti consigli, che furon presi dalle amiche mie nelle feste Scire». Aristof. Eccles., v. 18. Si celebravano dalle donne in onor di Minerva le Scire o feste dell'ombrella, ai dodici del mese detto appunto sciroforione (giugno-luglio), sulla via da Atene a Sciro ov'era il tempio di Minerva Scirade. Il sacerdote portava nella processione un ombrello bianco.
133. «Che mai di buono farem noi donne, noi che sediamo con chiome tinte di biondo, portiam tuniche color di croco, e siam cariche di ornamenti e vestiam cimberiche a strascico (κιμβερίκ’ ὸρθοστάδια) e peribàridi ai piedi?» Aristof., Lisistr., 45. — τὼ Περσικά, ibid., 230. Eran calzari di gala, alla persiana.
134. Eurip., Medea, Androm. — Anassandride, Inc. fab. Vedi avanti la nota 69.
135. Simili al bisso (ch'era una specie di tessuto di lino) ma assai più fini erano i tessuti rinomati che l'isola di Amorgo forniva per certe tonache o camicie di donna, di straordinaria finezza e trasparenza, e che dal luogo d'origine si chiamavano ἀμόργινα. Aristof., Lisistr., v. 150; Scol. in Eschine, C. Timarco, 97.
[162]
136. Sotto il nome di Colìade (dal borgo attico di Colias ov'era il tempio) e di Genetìllide (come preside agli atti sessuali) avea Venere speciali onoranze di riti lascivi femminili. «Se alcuno le avesse convocate (le donne) nel tempio di Pane, di Venere Colìade o di Genetìllide, non si potrebbe più passare per la gran copia dei timpani». Aristof., Lisistr., v. 1 seg. «Sposatala, giacevo con lei che olezzava di unguento di croco, di baci con la lingua tra le labbra, di ghiottornie, di Colìade e di Genetìllide». Aristof., Nubi, v. 41 seg.
137. Era devoluta ai tesmotéti (gli ultimi sei de' nove arconti) oltre la presidenza de' giudizi, de' comizi elettorali, ecc., anche la sorveglianza dell'ordine e della quiete pubblica. Per che di notte l'uno di essi per turno andava in ronda per la città. Vedi Ulpiano, nei Commenti a Demostene, orazione Contro Midia: e fu probabilmente durante il suo giro di ispezione, che il tesmoteta di cui ivi si parla, per essersi inframmesso in un parapiglia, a soccorso di un suonatore, toccò la sua parte di bastonate.
138. Per brevità, nella recita, da questo punto si ometta il brano di scena che segue, da qui saltando addirittura a pag. 123, alle parole di Cròbilo:
Cròb. (sotto voce ad Aglae che s'allontana con Mìrtala) Mi raccomando non le mostrar tutta la guardaroba, ecc.
139. «Fanciulla di sette anni, portai nella processione di Minerva i sacri arnesi; di dieci, macinai l'orzo di Minerva nostra signora; poi, vestita dell'abito color di croco, simboleggiai l'orsa di Diana nelle feste Brauronie; quindi, fatta fanciulla leggiadra, portai il canestro sacro con un monile di fichi secchi al collo». Aristof., Lisistr., 641 seg. In queste parole della Lisistrata è brevemente riassunta la prima educazione delle fanciulle ateniesi di distinta nascita.
[163]
140. Cfr. Aristof., Vespe, 103-4; 850. Rendevano i giudici, come s'è detto, le sentenze ne' giudizi in varie forme, oltre quelle dei ciottoli neri e bianchi, o delle palline forate ed intere (v. Prologo, nota 52). Era anche uso segnar la condanna col tirar righe lunghe sulla cera delle tavolette. Questo però non toglieva l'uso de' ciottoli o delle pallottole, necessario a ogni modo, per lo scrutinio de' voti: come vedi nel passo citato delle Vespe: «e per severità tirando una lunga riga in segno di condanna, rientra in casa con le unghie impiastricciate di cera: e temendo gli vengano meno i ciottoli, per aver modo di dare il voto, mantiene in casa un litorale». v. 103 seg.
141. Sul banchetto funebre che, in onor dell'estinto, al nono e al trigesimo giorno dalla morte, celebravasi, in vesti bianche di lutto, da' parenti suoi, cfr. Iseo, Eredità di Cirone; Demostene, Corona; Polluce, I, 7, ecc. La trascuranza ne' figli, delle onoranze funebri ai genitori era punita dalle leggi e portava seco interdizione civile. Senof., Memorab.
142. Iseo, Ered. Pirro, § 64. Cfr. Prologo, pag. 27.
143. Le deposizioni degli schiavi nei giudizi, non erano assunte e tenute valide come prove, se non estorte coi tormenti (βασανίξειν) dagli inquisitori a ciò destinati (βασανισταὶ), in presenza dei rappresentanti delle parti che scrivevano il deposto per unirlo agli atti. Ε βάσανος dicevasi, oltre il supplicio, anche la deposizione de' servi col supplicio strappata: a differenza di μαρτυρία ch'era la testimonianza de' liberi. (Potevano in casi eccezionali anche i liberi cittadini esser posti a tortura, ma solo per espresso decreto del popolo: così Mantiteo e Apsefione, senatori, a stento la scansano, abbracciando supplici l'altare. Andoc., Misteri). Quello dei contendenti che vi aveva interesse provocava a ciò l'avversario (πρόκλησις εὶς βάσανον) esibendo di dare ai tormenti i proprî schiavi o disfidando l'avversario a dare i proprî. Accettar la provocazione o richiesta non era obbligo: ma ricusarla induceva presunzione sfavorevole al ricusante. «Voi tutti sapete che le provocazioni furono create per quelle cose che non si possono produrre innanzi a voi. Quando non può farsi investigazione innanzi a voi, ha luogo per via di tormenti la provocazione». Demost., I, C. Stef. «Io gli chiesi pei tormenti tre sue ancelle informate del fatto e dei danari che Afobo e la donna possedevano: acciocchè a dimostrazione del vero, non fossero i soli ragionamenti, ma le prove della tortura. La qual mia proposta, approvata da tutti i presenti, fu ricusata da lui. Ora voi per le pubbliche e le private cose reputate la tortura, fra tutte, la più degna di fede: e ovunque siano servi e liberi e occorra raccogliere indagini, non vi valete delle testimonianze dei liberi, ma tormentando i servi cercate ritrovare la verità. E fate bene, o giudici: poichè dei cittadini testimoni già parecchi furono colti in falso: ma dei tormentati nessuno fu mai convinto di non aver detto la verità durante la tortura». Demost., I, C. Onetore, dove il massimo oratore ripete quasi alla lettera un passo di Iseo suo maestro (Ered. di Cirone). E altrove: «Or come può non essere che questi testimoni abbian deposto il falso? dacchè neanche ora ardiscono concedere il corpo della schiava, che testificarono già offerto da Teofemo, e così confermare col fatto la verità della lor testimonianza. Consegnando della schiava il corpo, non se ne trarrebbero co' tormenti le prove per le quali Teofemo ingannò i giudici?... Sola la femmina trovatasi presente avrebbe detto il vero, non già testificando con la tabella (in iscritto), ma con la più salda e sicura delle testimonianze, coi tormenti cioè. I motivi dunque coi quali (Teofemo) ingannò i giudici appariscono falsi, chè non osa consegnare il corpo della schiava, e invece ama meglio mettere al cimento il fratello e il cognato per falsa testimonianza, anzichè mediante il corpo della schiava scagionarsi». Dem. C. Everg. 7-9. — E Licurgo oratore: «Nell'atto di accusa io aveva citato i testimonî, chiedendo si tormentassero gli schiavi di Leocrate. Ma Leocrate respingendo la provocazione, si accusa traditor della patria. Sì: egli con lo scansare la prova degli schiavi consapevoli de' fatti suoi, confessò la verità della querela. E ignora alcun di voi che nelle controversie l'esame degli schiavi e delle schiave e il tormentarli quando sanno la cosa è tenuto secondo giustizia ed è comune a tutti? Or dunque io fui sì lungi dall'apporre a Leocrate falsa accusa, che a mio carico volevo venire alla prova, tormentando gli schiavi di lui: ma egli per sua mala coscienza nol sofferse. Eppure i suoi schiavi e le schiave avrebbero più facilmente negato che dato falsa accusa al padrone». Licurgo, C. Leocrate. — Ecco invece un esempio di provocazione all'opposto: «Pensai che innanzi tutto convenisse provocar costui (l'avversario) per convincerlo. E in qual modo? Volli dargli (all'avversario) un mio giovanetto, che sapeva di lettere, acciò fosse posto ai tormenti. Or non poteva esso avversario tacciarci di falsatori con l'investigare la verità, tormentando il giovinetto? Ma egli ricusò». Demost., C. Afobo, falsa testim. Cfr. Demost., C. Neera e altrove. Ho citato questi passi, e tralascio citarne altri, degli oratori, a dare un'idea caratteristica e precisa di quel che fosse la tortura de' servi ne' giudizi ateniesi e il valore grande che vi si attribuiva. Certo bisogna riportarsi all'idee antiche sugli schiavi, e al diritto antico che li riguardava come cose e cadaveri, per concepire come tanta crudeltà paresse la cosa più naturale del mondo anco agli animi più miti, e in Atene stessa, ove la legge era ad essi più benigna che altrove, fino a dar loro il diritto di richiamarsi degl'ingiusti maltrattamenti. (Cfr. note all'Alcib.) Che però le deposizioni degli schiavi tormentati meritassero tutta quella fede che Iseo e Demostene sembrano attribuirvi a parole, e che facea dar ad esse maggior peso delle testimonianze de' liberi, pareva già dubbio, nella sua profonda intuizione dell'essere umano, ad Aristotile, il quale nella Retorica discute di questo metodo di prova i vantaggi e i danni: e trova potersi «ad ogni sorta di tormenti obiettar questo: che sforzano a dire tanto il falso che il vero, e che i torturati o stanno forti e non dicono la verità o per impazienza facilmente dicono il falso, affine di uscire più presto dal martirio» (Retor., I, 13). Ancora è ad osservarsi che nelle arringhe pervenuteci, quanto son frequenti le provocazioni a questa prova, altrettanto lo sono (come per esempio in tutti i passi sopracitati) le ricusazioni; e non sembrando verosimile che debban tutte attribuirsi a paura della prova, e che i contendenti potendo giovarsene se ne privassero così leggermente, è a credere che, nel fatto e nella consuetudine, un sentimento più umano correggesse in parte la ferocia della legge, e che la così detta provocazione, così frequente nelle arringhe, fosse il più delle volte, e lo andasse diventando sempre più ai tempi di Aristotile e posteriori, una forma retorica, dagli oratori usata più per ispauracchio e per crescere efficacia alla argomentazione, che per seria intenzione di vederla in atto. E giova il pensarlo, affinchè quel passo truce che Demostene, nell'arringa contro Onetore, ripeteva con le parole stesse di Iseo (quasi farlo interamente suo gli ripugnasse), ci trovi indulgenti verso il sublime oratore: tanto più se si pensi che Demostene, così corrivo a provocare a parole con questa prova gli altri, o per conto altrui, quando vi fu provocato egli stesso nella gravissima lite con Eschine, e accettarla probabilmente gli conveniva, con nobili parole a sua volta la ricusò. «Venga qui il carnefice — grida Eschine — e dia i tormenti innanzi a voi.... Se Demostene si chiarirà mentitore, condannatelo alla pena di confessare innanzi a tutti che egli è maschio-femmina e non libero. Conduci alla ringhiera gli schiavi.... (provocazione); ma Demostene rifiuta l'uso dei tormenti, perchè non vuol dipendere dai tormenti de' servi.» Eschine, Ambasceria. Caratteristiche parole che, forse, già in Demostene adombrano il pensiero di Aristotile, e, molti secoli più tardi, di Beccaria.
[168]
144. Per essere un pretesto umoristico, questo di Mènecle era abbastanza legittimo. Cfr. Demostene, nell'arringa contro Macartato, per l'eredità di Agnia: «Innanzi tutto avevo deliberato, o giudici, di scrivere in una tavoletta i parenti di Agnia per modo che fossero tutti notati ad uno ad uno: ma poi stimai che quella tavoletta non si potrebbe veder bene da tutti i giudici e massime da quelli che siedono più lontani». C. Macart., § 18.
145. Al Ceràmico era la passeggiata del bel mondo ateniese, e le scritte sui pilastri e sui muri vi facevano l'ufficio della cronaca cittadina delle nostre gazzette. Ivi i buontemponi e i maldicenti, con epigrammi ed iscrizioni col carbone, si divertivano a mettere in piazza i fatti del prossimo; e gli innamorati talora vi scrivevano le loro dichiarazioni amorose alle belle, come ce ne restano esempi a Pompei. «Leggi quel ch'è scritto sui muri del Ceràmico, dove i nostri nomi stanno sui pilastri.... E trovai questa scritta là dove s'entra a destra verso il Dìpilo». Luciano, Dialoghi delle cortigiane. «Ho pensato scrivere sul muro del Ceràmico dove Architele suol passeggiare: Aristeneto contamina Clinia». Luciano, ibid.
146. Famiglia dei Britidi, v. Demostene, C. Neera, 1365. Sugli Almeonidi, l'illustre famiglia di Pericle e di Alcibiade. Vedi note all'Alcib., atto I, n. 37.
[169]
147. «E così la maritammo ad Elèo del borgo di Sfetto, e Mènecle le restituì la dote». Iseo, Ered. di Mènecle, § 9. Il divorzio infatti portava seco la restituzione della sostanza dotale alla moglie o alla famiglia di lei. «La legge vuole che se uno ripudia la moglie, restituisca la dote ovvero paghi l'interesse di nove oboli; a chi ha la donna in cura concede facoltà di muover lite nell'Odeone per gli alimenti». Demost., C. Neera, 52. «È obbligato dalla legge a restituir la dote con l'interesse a ragion di nove oboli». Demost., C. Afobo, 17. Questa restituzione era però esclusa (e l'egregio Mariotti omise nel suo Codice ateniese di notarlo) nel caso di colpa della moglie, come si vede dalla stessa arringa contro Neera: «In vederla Frastore nè costumata, nè a lui obbediente, e informato ch'ella non era figlia di Stefano, ma di Neera, e perciò reputandosi ingannato, entrò in ira contro tutti costoro, e mal soffrendo l'ingiuria e l'inganno, scacciò di casa la donna sua gravida, che aveva tenuta circa un anno, e non le restituì la dote». C. Neera, 1362, cfr. 1363. Ma questo di Frastore con la cortigiana Neera non era evidentemente il caso del buon Mènecle mio.
Del resto quest'obbligo della restituzione della dote era in Atene non disprezzabile freno alla estrema facilità e moltiplicazione de' divorzi. Più di un marito bramoso di sbarazzarsi della moglie, e al quale la legge ne apriva cento vie, s'arrestava solo dinanzi al pensiero di ritornar povero o all'impossibilità di fare la restituzione impostagli. Indi la prudente riflessione di un personaggio di Euripide: «Delle ricchezze che la moglie porta in casa non si gode: non servono che a rendere il divorzio più difficile». Euripide, Melanippe, fr. 31.
[170]
148. Cfr. Luciano, Dialoghi delle etére. — Aristeneto, Lettere.
149. Sulle idee dei Greci intorno al suicidio, caratteristica ed eloquente fra tutte la pagina di Plutarco nella vita di Cleomene, ossia le parole ch'ei pone in bocca a questo re. Disfatto in battaglia, perduto il trono, costretto a fuggire da Sparta sua, mentre Antigono è già alle porte, l'eroico re, al suo compagno d'armi, il prode Tericione, che consiglia il suicidio, risponde: «Vile che sei, credi esser magnanimo e generoso perchè insegui la morte che è la più facile delle cose umane e che è sempre in poter nostro? Bisogna che la morte che si elegge non sia la fuga da un'azione, ma un'azione essa medesima: nessuna maggior vergogna del non vivere e non morir che per sè. Quando la speranza di esser utile ancora alla patria nostra ci lascierà, allora soltanto ci sarà facile morire».
150. Οὔκουν ἔφη δεῖν ἐκείνην τῆς χρηστότητος τῆς ἑαυτῆς τοῦτο ἀπολαῦσαι, ἄπαιδα καταστῆναι συγκαταγηράσασαν αὑτῳ Iseo, Ered. di Mènecle, § 7.
151. Per quanto il divorzio in Atene fosse reso dalle leggi e dall'uso un caso affatto ordinario e frequente, esso non colpiva perciò meno duramente l'onore e l'amor proprio della donna, per lo meno nei casi in cui era il marito che di suo proprio impulso lo promoveva. Già abbiam visto (Prologo, pag. 27) che in questi casi il divorzio era nella legge stessa qualificato ripudio (ἀπόπεμψις): e il sentimento pubblico s'accordava colla legge, nella spiegazione umiliante di quella parola. Ed Euripide, ne' cui drammi, sotto la larva delle favole antiche, le idee e i costumi dell'età sua si rispecchiano, per questo fa dire a Medea: «Non onorevoli (ossia vituperosi) sono i divorzj alle donne» (οὐ γαρ εὐκλεεῖς ἀπαλλαγαι γυναιξὶν) Med., 236. E altrove nella Andromaca, fa dire a Menelao, di sua figlia Ermione parlando: «Io non voglio che mia figlia sia privata del talamo: poichè tutte le altre cose, che la donna soffra, sono di minor conto: ma perdendo il marito, perde la vita» (ἀνδρος δ’ἁμαρτάνουσ’ ἁμαρτάνει βιου). Euripide, Androm., 370-4. E il comico Anassandride, dei tempi della commedia di mezzo, nel passo più sopra citato: «Difficile e ripida, aspra (χαλεπὴ καὶ προσάντης), è o figlia la via del ritorno alla casa del padre dalla casa del marito, per qualunque donna costumata: poichè ell'è una via che porta seco l'ignominia» (ὁ γἁρ δίαυλός ἐστιν αισχύνην ἔχων). Anass., Inc. fab., 5.
[171]
152. «Bastare, disse, che fosse infelice lui solo» ἱκανὸς γὰρ, ἔφη, αὐτὸς ἀτυχῶν εῖναι. Iseo, Ered. di Mènecle, § 7.
[175]
Casa di Mènecle. Sala aperta comune (προστάς o παστάσ) che dà sul peristilio; riccamente dipinta e decorata con ricco mobilio. A destra le colonne del peristilio che supponesi aprirsi da questo lato, e immettere per le quinte di destra agli ingressi esterni; a sinistra l'ingresso dal metaulo che immette alle stanze interne del gineceo. Nello sfondo altra porta che mette alla stanza da letto θαλαμος. Nell'angolo a sinistra della sala, il piccolo altare domestico. Una panòplia è appesa alla parete.
Aglae e Tratta.
(Aglae traversa rapidamente la scena, dalla porta laterale di sinistra, quella del gineceo, alla porta di mezzo ch'è nello sfondo: a mezza via si arresta, e chiama forte.)
Agl. Tratta!
Tr. (affacciandosi dalla porta di sinistra) Padrona!
[176]
Agl. Appena vien Fània da mio marito, avvertimi. Va! (Tratta rientra). E dunque... Fània, da fratello affettuoso, compiangendomi, pensa a parlare per me; Mènecle, da marito magnanimo, compiangendomi, pensa a liberar me; Cròbilo, da amico leale, compiangendomi, pensa a consolar me. E se Aglae la compianta li burlasse tutt'e tre? (esce per la porta di mezzo).
Mènecle e Blèpo.
(Mènecle leggendo una carta, seguito da Blèpo, entra dal peristilio a destra).
Mèn. (leggendo) «Scegliere fra essere o non essere. O si è marito o non si è. Se essere non volevi, non dovevi diventarlo». Ma bravo, per Giove, mio cognato Fània! Platone non avrebbe ragionato meglio! (si volge a Blèpo) E che t'ha detto Fània nel darti questa?
Bl. Che ripassava.
Mèn. Che ombra fa?
[177]
Bl. Un piede[153].
Mèn. Oh, oh! quasi mezzodì! Sarà qui a momenti. Va. (lo richiama) Aspetta. Ed è tornato, n'è vero, in mia assenza, Elèo?
Bl. No.
Mèn. Come no? e queste carte? chi te l'ha date?
(Accennando altre carte che ha in mano).
Bl. Lui.
Mèn. Quando?
Bl. Stamattina.
Mèn. Dove?
Bl. Qui.
Mèn. Dunque è venuto, imbecille!...
Bl. Grazie.
Mèn. (impazientito) È venuto sì o no?
Bl. Venuto sì, tornato no.
Mèn. (lo guarda sorpreso) Eh?...
Bl. (con far grave e sentenzioso) Venire non è lo stesso di tornare. E se uno viene, non torna. E se uno torna, non viene. Però si può dire: In questo suol vengo e ritorno, come Eschilo fa dire ad Oreste esule[154].
[178]
Mèn. (guardatolo attonito, se gli appressa, tra serio e canzonatorio) Bravo!... E, dimmi in grazia... dove e quando hai imparato queste belle cose?...
Bl. (con gravità) Ieri, passando dal Liceo, da uno di quei filosofi che ci stanno. E delle altre cose ancora...
Mèn. (ironico) Ah!... sei divenuto un savio... dunque?
Bl. (sentenzioso) No, padrone. Perchè ciò che diviene non è[155], e non può essere nel momento che diviene: altrimenti, se fosse già, non diverrebbe, o, se diviene, diviene un'altra cosa: e quello che è, se potesse divenire, allora l'essere diventerebbe eguale al non essere, mentre il non essere è diverso dall'essere, come dice Ercole in Euripide[156]. E per scegliere quindi fra l'essere...
Mèn. (continuando ironico) ... e il non essere... Ferma un momento. E dimmi un po'... hai scopato le stanze stamane?... e la casa è all'ordine?... è?
Bl. Sicuro che è.
[179]
Mèn. (fissandolo) Ma potrebbe anche non essere, visto come impieghi il tempo. Vedi questo? (gli mostra un grosso bastone) Cosa credi che sia? essere o non essere?
Bl. (tirandosi a rispettosa distanza) Vedo. È un bastone... è...
Mèn. Ne convieni? Ebbene, se ti sento fare ancora di queste scoperte, e bazzicar quei galantuomini che mangiano fichi nel Liceo[157], questo, che è un bastone, ti annunzio che può divenire uno spianatoio per le tue spalle, pur non cessando di essere un bastone. M'hai inteso?
Bl. Perfettamente.
Mèn. Vedi che lo sei, un savio!... Va.
(Blèpo esce, facendo comiche smorfie).
Mènecle solo.
Per gli Dei e per i démoni!... L'amico Isocrate ha ben ragione di pigliarsela con que' maledetti sofisti![158] Ancora un po' e questo mariuolo [180] mi rifaceva la lezion di Fània! (passeggia su e giù) Del resto, mio cognato non potea venir in mezzo più a proposito. Tanta fatica di meno. La cosa va più liscia che non avrei sperato... Oh eccolo!...
Mènecle e Fània.
Fàn. Buon dì, Mènecle...
Mèn. Salute, cognato mio... (disinvolto) Sicchè tu vieni a dirmi che hai scoperto che tua sorella non è felice con me, e a rimproverarmi...
Fàn. (impacciato) Non a rimproverarti... Ma se felice ella sia, domandalo a te stesso, alla tua coscienza...
Mèn. (disinvolto) Ben detto!... E dimmi: perchè non l'hai domandato tu prima... alla gran madre... alla natura?
Fàn. Mènecle!
Mèn. Ah tu credevi che il vecchio Mènecle, un cittadino pieno di meriti...
[181]
Fàn. Oh certamente...
Mèn. Grazie. Vedi che andiam d'accordo... un cittadino pieno di grandi meriti, noti a tutta Atene (si interrompe sospirando comicamente) — da dieci olimpiadi! — avesse a dare, a una giovinetta di diciott'anni, le emozioni che tu dài alla tua Crìside, ammannendo alla di lei fantasia... i suoi grandi meriti per imbandigione!?... Bel pasto!... e sostanzioso... per una mensa coniugale!
Fàn. Questo io non dissi... ma...
Mèn. Ah! c'è un ma...
Fàn. Ma io sperai che non per nulla, sulla soglia della tua casa, il giorno che Aglae vi entrò, stessero appese, in lieto augurio, le ghirlande di antico alloro intrecciate alla giovane édera: e che in quel dì non fossero indarno comparse le due cornacchie all'altare. Vi hanno premure delicate, cure affettuose, conforti... che anche un uomo...
(Fa pausa come cerchi la parola).
Mèn. Tira via... Di' pure... maturo. Sono stato in Sicilia con tuo padre...
[182]
Fàn. Ebbene sì... che anche un uomo... inoltrato sul cammino del tempo...
Men. (Ama le perifrasi!)... Grazie...
Fàn. ... al pari degli altri può, e più degli altri, deve dare ad una giovane compagna; e che potrebbero compensarla...
Mèn. (prosegue ironico la frase) ... di quell'altre che le mancassero. Benissimo. E insomma...
Fàn. (impazientito) Oh insomma io dico che tu trascuri Aglae. Non hai premure per lei. Aglae non è contenta. Aglae non è felice...
Mèn. (a parte sospirando) (Pur troppo!)
Fàn. E non è questo che sperava mio padre, non è questo che speravo io...
Mèn. Già, già! lo so, quello che tu credevi, che tu speravi. Tu speravi che io rinnovassi il miracolo di Jolao, quando nel furor della battaglia ricuperò le forze giovanili[159]. Speravi che Giunone Nuziale non si pappasse i sagrifici a ufo, e bastassero i cestelli di fichi a portar nella casa nostra le gioje, e bastasse la focaccia di sésamo a portarvi la fecondità![160] Speravi che io ti facessi zio di [183] una bella corona di nipotini, di amorini vispi, ricciutelli, paffutelli, per indennizzarti di quelli che ancora aspetti dalla tua Crìside... dopo dieci mesi che l'hai sposata. Uh vergogna! vergogna!...
Fàn. Ma io ti dirò...
Mèn. (interrompendolo) Ma io ti dirò che il padre di Crìside, quando te l'ha data, ha ben pronunciato le parole sacramentali: Ti consegno mia figlia, perchè ne nascano figli legittimi:[161] e tu l'hai promesso e giurato. Aglae, quando io la sposai, era orfana, e quindi io... quella promessa non l'ho fatta a nessuno.
Fàn. (risentito, accorgendosi dell'intonazione comica di Mènecle) Mènecle! ti prego, per Giove! di cessare lo scherzo...
Mèn. Sì, giusto, invoca Giove, ch'è il custode de' giuramenti. Te la darà lui... Ma vedi, bizzarria de' giudizi!... Il buon Mènecle, quell'asino di Mènecle, tra sè e sè, avea pensato: Che cosa mai di bello può fare un marito vecchio in casa di moglie giovane?! Che cosa di bello può mai, se non lasciarle [184] mancare quel meno che è possibile, e starle, quel più che è possibile, fuori dei piedi? O dovrà trastullarsi a provarle indosso la veste color di croco e gli stivaletti regalatile per la festa della Dea? Sarebbe, qui tra noi, amareggiarle il regalo. O farle delle mani arcolaio e reggerle i fili di lana, intrattenendola di quel che s'è discusso nell'assemblea e sotto i portici? Anche Ercole filava per Onfale, ma era giovine, ed era Ercole: e pure Onfale ci si annoiava. Non resterebbe che raccontarle ancora la mia campagna di Sicilia di 36 anni fa, e la battaglia di Catania, e la strage al passaggio del fiume Asinaro, e come innanzi di arrendermi ammazzai quattro nemici, e come fummo rinchiusi nelle Latòmie e come scappai... Ce n'è per tre sere... e poi? a furia di raccontargliela, mia moglie la sa a memoria. Un giorno, per cambiare, mi provai a rifarle la storia, e cominciai: Appena fummo arrivati sulla riva del fiume... lei non mi lascia finire e impazientita tira via: «Appena foste arrivati [185] sulla riva del fiume, le retroguardie avvisarono la presenza di un nugolo di nemici; Nicia passò a cavallo sulla fronte delle schiere, le trombe risonarono...» e patatì... e patatà... la sapeva meglio di me. Ma che stizza, che stizza, ci metteva!... Quando arrivò al punto della fuga dalle Latòmie, ho avuto fin paura che pel dispetto vi appiccicasse una variante e invece di farmi fuggire, la mi facesse prendere e accalappiare!... (pausa, indi sospirando) Eh, forse per lei sarebbe stato meglio!
Fàn. Mènecle, tu sei proprio ingiusto verso Aglae. Io so che ella ti stima... e...
Mèn. (rompendogli la parola in bocca) E gli Dei glie ne daranno merito. Alle corte. (con accento reciso) Tu non puoi dirmi nulla ch'io già non sappia e non vi puoi aggiungere che delle sciocchezze. Io ho fatta una corbelleria, e tu vieni a dirmene cento. Ma io posso disfare la mia, e tu puoi risparmiare le tue. L'arconte pronuncierà il divorzio...
Fàn. (vivissimo, stupefatto) Che?!...
Mèn. Ell'era, per legge, in tua balìa avanti le [186] nozze. Tu sei il guardiano della felicità sua. Aglae da te l'ebbi. Ridomandala tu[162].
Fàn. Io?... mai!
Mèn. E allora... (se gli appressa grave, severo) con che cuore e perchè me la accordasti?
Fàn. (imbarazzato) Perchè tu lo sai... fu l'ultimo desiderio del padre nostro...
Mèn. E perchè Mènecle era ricco e liberava innanzi alla legge te dal peso della custodia e della dote. (moto di Fània che Mènecle calma col gesto) Non siam noi soli vecchi gli egoisti!... E non per nulla i vegliardi ritornan qualche volta fanciulli[163]. Che meraviglia, se anche al povero Mènecle, a cui, con tutta la sua sapienza, passano ancora alle volte, di sotto ai capelli bianchi, certe ubbìe giovanili, che meraviglia se al povero Mènecle un lampo di distrazione... di reminiscenze... in ritardo, abbia offuscato un istante il cervello? Ma tu che fanciullo non sei, tu nella età che sente la voce della natura e i bisogni della gioventù — e ci hai pensato per tuo conto — potevi ben pensarci anche per tua sorella! e [187] difendere lei contro lo sbaglio di tuo padre... e me contro me stesso.
Fàn. Ma ti giuro per gli Dei che se...
Mèn. Non incomodare gli Dei! Aspetta: tu mi giuri che gli Dei vogliono l'obbedienza ai genitori. E per questo, ti sei sposata bravamente la tua Crìside, di cui eri innamorato come un gatto, disobbedendo a tuo padre che voleva accasarti colla figliuola di Eufrànore. Agli Dei certamente ti sei riservato di chiedere della disobbedienza perdono. Poichè, tanto, dovevi domandargliela per una, non disturbavi Giove di più, a far la domanda per due. A questo, allora non ci hai pensato: ora, ti vengono gli scrupoli. E poichè la tua Aglae la vuoi felice, trovi giusto che in premio della sua virtù, ella consumi il caro fiore de' verdi anni con chi felice non la può rendere!...[164]. (con forza) Questo tu trovi giusto... e vai nell'Elièa a far da giudice! Io no! e s'ebbi un torto verso quella fanciulla, saprò ripararlo... per tutti gli Dei! (calmandosi e asciugandosi la fronte) [188] Fai tirar giù dall'Olimpo gli Dei anche a me!
Fàn. (vedendo Mènecle riscaldarsi, impressionato dalle sue parole, gli parla affettuoso e pacato) Mènecle, io sarò stato ingiusto: tu però ora lo sei con te stesso. Se torto vi fu nel passato, in faccia a mia sorella, fu mio: ma tu che di Aglae e della sua felicità ti dai pensiero, pensi tu che ella, così fiera, sarà più felice, il giorno ch'ella vedrassi restituita la sua libertà a prezzo di un affronto al suo amor proprio? e che il divorzio non chiesto da lei avrà dato il suo nome in pasto alla maldicenza della città?...
Mèn. Sì... se non chiesto da lei... Ma e chi... (si appressa a Fània e continua, dopo una pausa, a bassa voce) chi impedisce a lei di chiederlo?... E a te di suggerirglielo?...
Fàn. (esitante e sorpreso, quasi in nube indovinando il pensiero di Mènecle) Che?... e tu credi...
Mèn. Io credo che Giove non m'abbia permesso di salvar Epònimo dal carcere di Siracusa, per far della mia casa un carcere a vita alla sua figliuola. Oh, Fània, la vecchiaia è incresciosa [189] a sè stessa, ma lo è ai giovani doppiamente. Capisco la legge di quei di Ceo[165] che davano ai vecchi la cicuta per fare ai giovani un po' di posto. Io, della cicuta, per ora... faccio anche senza: ma se ai canuti la solitudine è triste, meglio per Mènecle il vivere infelice da solo, senza il rimorso che per sua colpa si viva infelici in due...[166].
(Tanto Mènecle che Fània son commossi).
Fàn. (stringendogli la mano) O Mènecle! Se Aglae sapesse...
Mèn. Aglae non dee saper nulla. Sicchè le consiglierai di andar dall'arconte?[167]. Parlerai ad Aglae?...
Mènecle, Fània e Aglae.
(Aglae si è già affacciata alla soglia verso la fine della scena precedente ed udendo parlar di lei si è ritratta indietro. Si avanza alle ultime parole di Mènecle).
Agl. Di che?...
Mèn. e Fàn. Lei!...
[190]
Fàn. Buon dì, Aglae.
Mèn. (imbarazzato, cercando darsi aria disinvolta) Oh, la nostra Aglae!... (a Fània sottovoce) (Zitto ora!)
Agl. La nostra Aglae, a quanto sembra, vi dava materia a discorrere. Cercavate la pesta del lupo...[168] ed è presente.
Mèn. (scherzoso, cercando sviare il discorso) Eh, se tutti i lupi fossero come te, Atene non li perseguiterebbe tanto...[169].
Agl. (fra sè) (Voltan discorso! Soverchiar Aglae! la vedremo!) Sei gentile, Mènecle, stamattina...
Mèn. Eh, ti pare? Sicchè...
Agl. (a Fània) Sicchè di che cosa avevi a parlarmi?...
Fàn. (imbarazzato, mentre Mènecle gli fa gesto di tacere. Aglae finge di non accorgersene) Oh, cose da nulla...
Agl. (volgesi a Mènecle, con accento vibrato, insistente) Di che aveva egli a parlarmi?...
Fàn. Oh nulla!... Avevo espresso qui a Mènecle il desiderio che tu venissi a teatro nelle [191] prossime feste Lenée. Sai, concorreranno, per le tragedie, Sofocle il giovine e il nipote di Eschilo, Astidamante...
Agl. (ironica) Ah...
Mèn. (confermando) Già...
Fàn. Tuo marito mi faceva delle obiezioni: e che forse per quel giorno non avrebbe potuto...
Mèn. Appunto...
Agl. (interrompendo, con accento vibrato) Non è vero!
Mèn. (per cavar l'altro d'imbarazzo) Ma lascia andare! non vedi che scherza!... Se gli avevo già detto di sì! Lo pregavo a chiederti se volevi andare con lui in compagnia di Crìside...
Agl. (con forza) Non è vero! Ah, insomma volete finirla di infilzar bugie?
Mèn. (fra sè) (Non c'è verso! Saltiamo il fosso!) Ebbene, poichè vuoi saperlo a tutti i costi, tuo fratello, qui presente, mi rimproverava che io ti trascuro un po' troppo...
Agl. Ah!... (guardando alternativamente Fània e Mènecle a cui rivolge la parola) È qui tutto?... E... d'altro?
[192]
Mèn. Che tu meni, per cagion mia, vita triste... che io non sono un marito adatto per te...
Fàn. Oh questo poi!...
Agl. (a Fània) Questo gli hai detto? E fai di queste scoperte? E il dì che seguisti il mio cocchio di nozze conducendomi qui, non hai ordinato di dar di volta ai cavalli?[170] M'avevi allora in tua autorità e non ci hai pensato: oggi più non mi hai... e te ne occupi?...
Fàn. (sorpreso, fra sè) (Così ora parla? Chi più la capisce?)
Agl. (a Mènecle) E tu... che gli hai risposto?
Mèn. Io... io... gli ho risposto che... veramente... come fratello, non ha tutti i torti... che però... il torto mio...
Agl. (energicamente interrompendo) E chi, per le Dee, e con che diritto, ha pensato a fartene? Mio fratello forse?... (a Fània) E chi t'ha incaricato?
Fàn. (impacciato) Nessuno... ma il mio amor di fratello...
Mèn. (passando vicino a Fània, rapido e sottovoce) Bravo! bravo! dài sotto!...
[193]
Agl. Amor di fratello?... Tardi lo senti...
Fàn. Presto o tardi, — è un fatto che non vi vedete quasi mai, peggio che foste due coniugi spartani; che tu stai chiusa, sola, tutto il giorno, lui quasi tutto il giorno fuor di casa...
Agl. E che? è forse mio marito un uomo infermo, un uomo invalido, un uom decrepito...
Mèn. (dà un balzo per sorpresa) (Eh!?... che cosa dice?) (vorrebbe, tra il serio e il comico, objettare qualcosa ad Aglae, che non gliene dà il tempo) Ecco... veramente...
Agl. (rompendogli la parola e proseguendo il parlar con Fània) ... sì... è forse un uom decrepito, che debba serrarsi in casa a far la guardia alla moglie da mattina a sera, come quei mariti imbecilli che rubano ad Argo il mestiere, e trovano così il modo più sicuro di rendersi alle mogli odiosi e insopportabili?[171].
Mèn. (a sè) (Ah! volevo dire! ha gusto ch'io stia via!).
Agl. E credi tu, figlio di Epònimo, che la figlia [194] di Epònimo sarebbe contenta, mentre Atene ha tanto bisogno di lui, di vederselo tutto il dì ai fianchi...
Mèn. (fra sè ribadendo maliziosamente) (Si tradisce!...)
Agl. ... occupato nel gineceo a filar lana o a contar storielle milésie alle fantesche? Credi ch'ella andrebbe superba, mentre i tempi per la città si fan scuri, del vederlo sotto i propri occhi sciupar negli ozî femminili il vigore del braccio e della mente, quel che gli resta del fiore dell'età?
Mèn. (gesto comico di sorpresa) (Eh!) (ad Aglae) Ecco... veramente... puoi dire un fiore... stagionato... Proprio, precisamente, un giovane di primo pelo non sono...
Agl. (interrompendolo) E per questo mi sei caro...
Mèn. (la guarda trasecolato, poi scotendo il capo) (Non capisco più!).
Agl. (rincalzando) Bella cosa, al confronto di costoro, i giovani della giornata! Bella gioventù da innamorar donne libere![172]. Agatòne, Dìnia, Stefano, Dercillo! azzimati, unti, [195] leccati, dinoccolati, cascanti[173], non san far altro che studiar le pose quando camminano e quando stan fermi, e andar in giro con cicale in testa e specchietti indosso e boccettine di Tùrio, che puzzano di profumerìa lontan due stadî; e prendono i bagni caldi e si coprono di pelliccie di Sardi per ripararsi dai primi freddi, e passano tutto il dì e la notte per le bische e nelle case delle danzatrici e suonatrici di flauto; smorti per le lascivie e per le orgie, consunti, fracidi a vent'anni; poi, a sentirli discorrere a teatro o per le vie, impertinenti, presuntuosi, ignoranti come Libétrj, imbecilli più di Margìte che aveva studiato tante cose e non ne sapeva nessuna...[174].
Mèn. (fra sè) (Qui ha ragion da vendere...)
Agl. (proseguendo senza interruzione e con energia) ... E sono i giovani eroi che gloriosamente poi scapparono a Neméa ed a Coronéa! Ma quando Atene fu nel bisogno, e volle salvi i suoi Dei e le sue donne, ci vollero questi (batte sulla spalla di Mènecle) per cacciare i [196] trenta tiranni e gli Spartani, e per liberare la città![175].
Mèn. (fra il comico, il modesto e il commosso) Grazie, grazie! (a sè) (Come parla! proprio figlia di suo padre!... Ed io avere il coraggio di sacrificarla!... Ohibò!).
Agl. (si volge a Fània, parlandogli più calma) Hai visto, o Fània, i nuovi oboli di rame? Son nuovi di conio e biondi, lucidi che sembran d'oro... pur guarda come han pessima la impronta! Osserva invece le vecchie dramme di argento del Làurio: sono usate, ma non adulterate, e serban la impronta stupenda e resistono al suono... La stessa differenza, fa conto, è oggi, in Atene, fra le vostre zazzere bionde... e queste barbe d'argento...[176].
Mèn. (comico, guardando Fània con sussiego d'approvazione) Già!
Fàn. (attonito fra sè) (O sta a vedere che se n'è adesso innamorata!).
Agl. O Mènecle, io ho visto sul tuo petto le tue superbe cicatrici: esse valgono meglio delle bellezze di Antìnoo...
[197]
Mèn. (sorpreso, e pur con comica modestia compiacendosi) Eh? questo poi...
Agl. (proseguendo, a Mènecle) Io ho letto il tuo ultimo discorso all'assemblea: quanto cuore, quanto fuoco, quanto slancio giovanile! Chi di quei giovani sarebbe stato capace di farlo?
Mèn. Oh, Elèo, per esempio...
Agl. (nella foga del dire, resta al nome di Elèo improvvisamente interdetta e lì per lì s'interrompe: poi, padroneggiandosi, ripiglia) Sì... forse Elèo... Intanto oggi tutta Atene, o Mènecle, è piena del tuo nome, ed io ne vado superba, come se parte della tua gloria si riflettesse sopra di me. Oh, grazie (con effusione stringendogli la mano che egli commosso si lascia prendere) per questo conforto che mi dai...
Mèn. (sospirando, e come meditando il senso dell'ultime parole di Aglae) (Conforto! Ah sì, ne ha bisogno! povera fanciulla!...).
Agl. (proseguendo affettuosa e tenendo nella sua la mano di Mènecle) Ti ricordi le parole che ti disse mio padre: «Tu sarai l'olmo che proteggerà la giovane édera...»
[198]
Mèn. (comicamente sospirando e guardando in aria) Un olmo antico!...
Agl. (ribattendo subito) ... e perciò robusto.
Mèn. (sottovoce a Fània, dandogli di soppiatto un forte pizzicotto) Ma parla un po' anche tu...
Fàn. (strillando) Ahi! ahi!...
Agl. (che s'è accorta, sorridendo a Fània) E se robusto non fosse, ti farebbe strillare in quel modo?...
Fàn. (irritato dal pizzicotto e prorompendo) Sì, strillo, perchè tu ti lamenti in cuor tuo e poi qui adesso, in sua presenza, per generosità lo difendi... e al modo ond'ei ti tratta, non lo merita, non lo merita, non lo merita!... E io sono una bestia a pigliarmela a petto e a perdere il mio tempo per buscarmi in compenso delle ramanzine!... Lamentati ancora! (ad Aglae) e aspetta ch'io me ne occupi un'altra volta!...
Agl. Oh, bravo, per Cerere! farai bene!...
Fàn. (ad Aglae stizzito) Tientelo, godilo il tuo Mènecle!... e amatevi sempre così, che gli Dei vi premieranno!... (a Mènecle passandogli [199] vicino) (Già che andate così bene intesi, sbrigatevela da voi!...).
(Esce concitato, liberandosi da Mènecle che vorrebbe trattenerlo).
Mènecle e Aglae.
Mèn. (a sè) (Bravo!... e lascia me nelle peste!... Pure da qui bisogna uscirne. Animo Mènecle, sii onesto! (guardando Aglae, e parlando sempre fra sè) Dopo tutto quel bene che pensa di me, doppio obbligo di essere con lei galantuomo!).
Agl. (a sè) (Ora a noi! soverchiar Aglae!) (a Mènecle che passeggia borbottando) Mènecle!
Mèn. Che c'è?
Agl. Io ho preso le tue parti...
Mèn. (interrompendo, brusco) Hai fatto male.
Agl. Sarà. — ... e non ho voluto dirti nulla di sgradevole in presenza di mio fratello: ma tu sai che egli ha ragione... (accentando anche più) lo sai.
[200]
Mèn. (a sè) (Oh, ci mettiam bene!) Se lo dici, lo saprò...
Agl. (battendo sulle parole) Non saprò: lo sai. Tu fai peggio che trascurarmi...
Mèn. Eh?...
Agl. Tu fai peggio che lasciarmi sola: e il tuo tempo non lo dai tutto alla città.
Mèn. (O sta a sentire!) A chi?
Agl. Ieri fosti con Lisia, l'oratore, e con Neèra, la di lui amica, in casa di Filostrato Colonèo...[177].
Mèn. (È matta!... O sta a vedere, che per distrarsi, la si provasse a far la gelosa!... (fa un gesto vivo, come balenatagli improvvisamente un'idea) Buono!...) (ad Aglae con voce ferma) E che male ci sarebbe!... Può darsi! Si aveva a parlare io e Lisia di affari di Stato...
Agl. Ma Filostrato è scapolo; e Neèra non è uomo di Stato; e con Neèra ci erano due altre di lei compagne...
Mèn. Ah!
Agl. ... venute da Corinto...
[201]
Mèn. (casca dalle nuvole, ma cerca far il disinvolto) Può darsi.
Agl. ... e in casa degli scapoli, e in certe compagnie, è difficile trattar bene gli affari dello Stato; e alla sera ci fu banchetto; e i banchetti dove ci son di quelle donne finiscon tardi... (gesti di Mènecle sorpreso) ... e finiscon male...
Mèn. (disinvolto, c. s.) Può darsi...
Agl. (con forza) Ah? Ma può darsi che Aglae non ne sia contenta...
Mèn. (trasecolato, di sorpresa in sorpresa) (O spiriti! che diamine salta a costei?!)
Agl. (incalzando) Può darsi che Aglae se n'abbia a male! (con accento drammatico) Così impieghi, o Mènecle, i doni che gli Dei ti hanno dato?
Mèn. Eh? (Peccato che me li han dati da un pezzo!)
Agl. (proseguendo incalzante) Ah, lo so che la gloria di un nome ha sempre un fascino per le donne; lo so che le forestiere venute da Corinto sono curiose di conoscere questo [202] Mènecle di cui si parla per Grecia; (continui segni di stupor comico di Mènecle, Aglae prosegue con simulata energia) ma io so anche quale fu il giuramento delle nostre nozze, e ti credevo, se non più fedele verso me che lo ebbi, più religioso verso gli Dei che lo hanno ascoltato!
(Va corrucciata a sedersi).
Mèn. (a parte) (Decisamente, è matta. Elleboro ci vuole.[178] (guardandola di sottecchi) Eppure... come è bella mia moglie quando è in collera!)
Agl. Tu non rispondi? Non rispondi?
Mèn. (a sè) (Tanto fa. Le discolpe le farem poi. È la via che se n'esce).
Agl. Il tuo silenzio... è eloquente. Ah, non basta, o Mènecle, andar illustre nella città, col nome scritto su la colonna![179]. Non bastano i meriti in faccia alla patria, quando in faccia ai domestici lari, oblii la santità delle sue leggi!...
Mèn. (Anche questo!) (si volta risentito, come risoluto a difendersi) Oh questo poi... (si reprime) (Se mi difendo, guasto).
[203]
Agl. (afferrando la sua interruzione) Questo poi è grave — volevi dire! E mentre io traggo sola le lunghe giornate nel ginecèo, pensando a ciò che farà Mènecle per la Repubblica, — Mènecle divide il tempo fra la Repubblica... e l'altre cure: e quando rientra ha sulla fronte le rughe...
Mèn. (a parte, comicamente) (Lo credo).
Agl. (completando la frase) ... le rughe dei grandi pensieri...
Mèn. (a parte, comicamente) (Un'attenuante...)
Agl. ... per nascondere tra le lor pieghe i rimproveri della coscienza: in casa degli altri, per le altre, i sorrisi, le carezze, i calici...
Mèn. (Cosa mi tocca sentire! Pazienza! siamo alla fine!)
Agl. ... le canzoni, le ghirlande convivali; per la povera Aglae non sorrisi, non ghirlande, non carezze: ma la solitudine, l'abbandono, la noia!... (prorompendo) Ah, no! per le due Dee! io non posso più vivere così...
Mèn. (Meno male. Al divorzio ci siamo).
Agl. No!... (proseguendo con più forza) no... io [204] non posso più adattarmi a questa umiliazione...
Mèn. (Ci siamo! Va dall'arconte!...)
Agl. ... e io finirò con...
Mèn. (sospeso alle labbra di lei, aspettando la risposta ansioso) ... con...?
Agl. ... finirò... con... l'ammalarmi!... (Mènecle resta lì di botto, sconcertato) Oh, quanto sono infelice!...
(Dà in pianto, abbandonandosi sopra una sedia).
Mèn. (sorpreso, comicamente imbarazzato) Questa conclusion non m'aspettavo... Ohimè, che imbroglio!... Aglae!...
Agl. (senza rispondere, continuando a singhiozzare) Quanto sono infelice!...
Mèn. (Adesso fa piangere anche me!...) (seguitando a guardarla e parlando fra sè, le si appressa) No... senti Aglae...
Agl. (seguendo a singhiozzare) Lasciami... ho voglia di piangere...
Mèn. (osservandola) (Eppure... com'è bella mia moglie quando piange!...) (dà un sospiro lungo) (Eh! avessi cinque olimpiadi di meno!) (passeggia, [205] poi si ferma, giungendo le mani al cielo) (O Nettuno marino!... Quale strega di Frigia o di Tessaglia mai, tirando il mio oroscopo, m'avrebbe detto: Mènecle, tu passerai per molte prove; scamperai dai campi di battaglia e dalle tempeste; dalle spade dei nemici, dalle calunnie dei sicofanti e dal morso degli oratori[180]; dai mostri del mare, dalle miniere e dalla schiavitù... e quando avrai il crine inargentato e il corpo stanco... farai piangere una donna... di gelosia!...) (seguita a guardarla di sottecchi) (Com'è bella!... Dopotutto, già... lo ha detto lei: appetto ai giovani della giornata...) (si dà un'occhiata alla persona, una guardatina in uno specchio, lisciandosi con compiacenza la barba) (noi possiamo passare per belli avanzi...) (si appressa ad Aglae e le parla amorevole, insinuante) Eppure, Aglae, se tu leggessi qui dentro, vedresti...
Agl. No... no... non voglio veder nulla...
Mèn. (Ma fa sul serio!) (guardandola affettuosissimo, le prende nelle proprie una mano che essa non ritira) Ma e dunque... sarebbe proprio [206] vero... che vorresti ancora un po' di bene al vecchio Mènecle? (parla esitando) Oh se!... (come via cacciasse un pensier lusinghiero) no.. no..
Agl. (ritirando la mano e levando vivamente il capo) Se... cosa? Prosegui... confessa...
Mèn. Ma che confessare!... Volevo dire che sono meno bugiardo, meno... vizioso di quel che credi... (Stavolta dico la verità). Ma che vuoi, la tua affezione, mi pare un sogno... di quei sogni cari e ingannevoli della sera... Sai che essa sarebbe una troppo grande consolazione per questo povero vecchio!... Che io non potrei augurarmi, in questo triste tramonto, una più alta gioia sulla terra, del sapere, che quel giorno che per me sarà l'ultimo... (Mènecle qui parla lento, interrotto, sinceramente commosso) tu sarai là... al mio capezzale... a dirmi l'ultimo addio: che dalle tue labbra, e non da prefiche bugiarde, udrò la preghiera al conduttore dell'anime;[181] che le tue mani mi comporranno nel domestico sepolcro e la mia povera ombra avrà qualcuno sulla terra che si ricordi di lei!...[182]
[207]
Agl. (commossa dalla sincerità dell'accento di Mènecle, si abbandona del capo e della persona sul petto di lui. Mènecle la sorregge amorosamente delle braccia) Oh, Mènecle!
Mèn. (pausa. Mènecle, sorreggendo Aglae, esclama tra 'l mesto e 'l comico) (Cose che capitano ai vecchi!... Qui ci vorrebbe Zeusi a dipingere il quadro!...) E tu Aglae... a questo guerriero cadente...
Agl. (risollevando il capo) Aglae non dimenticherà mai ciò che questo guerriero cadente ha fatto per la sua famiglia, pel padre suo...
Mèn. Ah! (si distacca vivissimamente da Aglae, rabbuiandosi) (L'avevo detto che si sagrificava!... Ed io bestia... stavo per dimenticarlo... Ah, per gli Dei, sarei indegno di aver fatto versare quelle lagrime! Il dado è tratto!)
Agl. Che hai?...
Mèn. (con accento di repentina risolutezza) No, Aglae, la tua gratitudine serbala ad altri. Tra me e tuo padre non ci fu che un ricambio... [208] e il debitore sono ancora io... Tu sei troppo buona e virtuosa... e io... non ti merito... Non ti merito. Avevi ragione. Sono indegno di te. (È fatta!).
Agl. Che? Dunque confessi...
Mèn. (concitato) Sì, sì... confesso... tutto quel che vuoi...
Agl. Ci sei stato...
Mèn. Ci sono stato... (Ora mi mangia...)
Agl. E ci ritornerai...
Mèn. Secondo i casi...
Agl. E tu credi di far subire a me la sorte di Dejanira... la sorte della moglie di Alcibiade... o di quella povera moglie del tuo amico Lisia, con le cui amiche discuti gli affari... Ma io non sono Dejanira; io non sono la moglie di Lisia, che vede, tace e sopporta; io non sono la sposa di Alcibiade che torna indietro dall'arconte insiem con lui...
Mèn. (L'ho detto! Stavolta ci viene!).
Agl. (incalzando) ... io non son nata a tollerare affronti... e io... intendi... (fa una pausa) io...
Mèn. (È fatta!) (vivissimamente, sospeso) E tu...
[209]
Agl. E io... farò come fai tu.
(Sbalzo di sorpresa di Mènecle. Aglae è corsa verso l'uscio che mette alle di lei stanze).
Mèn. Eh?... (correndole dietro per richiamarla) Aglae! Aglae!...
Agl. (dall'uscio, ribattendo con forza sulle parole e sillabandole) Io farò come fai tu... e quello che fai tu!
(Entra rapidamente nelle sue stanze e gli serra a chiave l'uscio in faccia).
Mèn. No... senti...
(Aglae è già sparita. Mènecle resta lì trasecolato. Quadro).
Mènecle solo.
Mèn. Oh santissimi Numi! (passeggia, poi si ferma tentennando il capo) Destini umani! (torna a passeggiare, di tratto in tratto fermandosi) Vi han mariti che si attaccano alle mogli come l'ostriche allo scoglio e se le vedono guizzar via di mano come anguille di Copàide. Provatevi [210] invece a liberarle... ed ecco in che maniera vi rispondono!... Farò come fai tu!... e quello che fai tu!... Peuh! se facesse proprio come me... non sarebbe gran male. (riflettendo torna a passeggiare) Ma pare che colei l'abbia intesa diverso... Pensa di me certe cose!.. Chi diamine gliele ha messe in testa!.. Quello che fai tu! Adagio! e se a me, fin che son suo marito, non convenisse un bel niente che ella faccia... quel ch'ella crede faccia io?... Se non garbasse a Mènecle di diventar la favola d'Atene? Eppure già, se le resto insieme... Non si manda a ritroso nè l'acqua dei fiumi[183], nè l'istinto di donna di vent'anni!... (torna a passeggiare, poi si ferma) Però, quel dirmelo sulla faccia... Generalmente, le donne, quando lo fanno, hanno la delicatezza di non dirlo... E tutte le smanie son venute adesso... perchè sì, fino a ieri, non glien'era importato mai... E tutta quella foga d'accusarmi!... non potrebbe esser maggiore se fosse una giustificazione ch'ella cercasse alla coscienza!... E allora... la filosofia di prima... [211] la sfuriata d'oggi... (di improvviso riscotendosi) Ma qui, per Minerva, c'è sotto qualcosa!
Mènecle ed Elèo.
El. (entra affrettato) Buon dì, Mènecle!... Arrivo tardi?
Mèn. (lo saluta distratto) Oh no... anzi...
El. Ho fatto tutto. Sono stato da Pelopida, da Lisia e da Iseo... Iseo e Lisia parleranno all'assemblea per appoggiarti, i fuorusciti di Tebe confidano in te. Pur troppo la intimazione di Sparta, di espellere i fuorusciti, incontra favore tra gli amici della pace... La lotta nell'assemblea sarà viva...[184].
Mèn. (distratto, seguita a borbottare fra sè) (Farò come fai tu...).
El. ... e per battere gli avversarî non ci vorrà meno dell'autorità della tua parola. Per Giove! da Teseo in poi i diritti della ospitalità furon sempre sacri ad Atene; e questo ingrandirsi minaccioso di Sparta alle nostre porte, e la [212] sventura stessa de' fuorusciti reclama che Atene dia lor soccorso... n'è vero?
Mèn. (distratto, soprapensiero) E dunque bisogna darlo.
El. Pure son tanti che ti parlano dello stato misero della flotta, delle perdite recenti, dell'imprudenza del tirarci addosso una guerra, se diamo ai profughi aiuto... ti pare?...
Mèn. (distratto sempre e assorto ne' suoi pensieri) Allora non bisogna darlo.
El. (risentito e sorpreso) Mènecle!
Mèn. (riscotendosi all'apostrofe di Elèo) Cioè... volevo dire... perdona... non avevo sentito bene. (borbotta fra i denti) «Farò come fai tu...» Dunque dicevi...
El. Dicevo che il soccorrere i fuorusciti, che vennero a noi col ramoscello de' supplici e si sedettero presso le nostre are[185], mi pare un dover sacro...
Mèn. (riscotendosi) Sicuro, mio bravo Elèo!... (gli stringe forte la mano) Per il trofeo di Maratona![186] sicuro ch'è dover sacrosanto...
El. Grazie! La tua parola nell'assemblea deciderà. [213] Oh sì, dopo il voto dell'integro, del virtuoso Mènecle, vedrai che la maggioranza verrà dietro... e tutta Atene farà quel che fai tu...
Mèn. Eh? (con movimento vivissimo, fra comico e irritato) (Non bastava lei! anche quest'altro!... Anche tutta Atene vuol fare quel che faccio io! È un contagio!) Ma dunque...
El. Dunque l'ora scorre e gli amici tebani m'aspettano. Corro a portar loro le parole tue.
Mèn. E non passi a salutare Aglae?...
El. (si fa in volto serio e scuro) No... sono atteso... è tardi...
Mèn. È tanto di cattivo umore stamattina, che...
El. Ragione di più per lasciarla tranquilla. Falle tu i miei saluti. (tra serio e mesto) Passando per la tua bocca, le giungeran meno discari...
Mèn. (Bravo! Se tu sapessi!...) Basta: come vuoi. Siamo intesi. Salutami Pelopida.
El. Addio (esce).
[214]
Mènecle solo.
Mèn. (seguendo dell'occhio Elèo che allontanasi) Bravo giovine!... valoroso e leale! Contrasti bizzarri! Costui nell'età degli svaghi pensa alle cose serie: e Mènecle nell'età... dei raffreddori, trascura gli affari serî, per... per... (non finisce la frase, tornando al corso insistente dei suoi pensieri) Ma colei m'ha messo una pulce qui nell'orecchio... Per Ercole! ne va del mio onore!... Ah, se arrivo a cogliere quel tale... oh, quello, parola di Mènecle, non mangia più aglio nè fave nere...[187].
Mènecle, Mìrtala e Blèpo.
Bl. Padrone. C'è qui Mìrtala, la moglie di Cròbilo Colonèo.
Mèn. Uh, quella seccatura! Anche oggi! Di me o di Aglae cerca?...
[215]
Blèpo. Non so.
Mèn. Bravo asino!...
Bl. (dalla soglia, impassibile) Padrone!...
Mèn. Eh?...
Bl. Poco fa m'hai detto savio.
Mèn. Ho sbagliato. Falla entrare.
Bl. (nell'uscire per introdur Mìrtala, borbotta sentenziosamente fra sè) Essere l'uno... o essere l'altro!...
Mèn. Cosa vuole questa vecchia chiacchierona!
Mìrt. (entra affannata, frettolosa) Buon dì, Mènecle!...
Mèn. (andandole incontro) Giove ti salvi! (Mìrt. è imbarazzata: getta attorno occhiate inquiete, sembra aver qualcosa sull'animo) Della mia Aglae cercavi? Neh, (a Blèpo ch'è rimasto sulla soglia) Blèpo, conducila. (a Mìrtala) Ti vedrà tanto volentieri. È là nelle sue stanze...
Mìrt. Sola?
Mèn. Soletta.
Mìrt. E non l'hai ancora visto... stamattina...?
Mèn. Chi?...
Mìrt. Lui... mio marito...
[216]
Mèn. Da ieri non l'ho visto...
Mìrt. Credevo fosse qui...
Mèn. T'aveva detto che veniva?
Mìrt. No... ma...
(Rimane colla parola sospesa: è visibilmente imbarazzata, agitatissima).
Mèn. Che c'è?
Mìrt. Oh Mènecle!
(Rompe in uno scoppio di pianto e gli casca abbandonata nelle braccia).
Mèn. (trasecolato) (Anche questa! Preferivo l'altra!... Però adesso il quadro è... più intonato).
Bl. (avanzandosi, serio, impassibile, a fianco di Mènecle che non l'ha veduto, e che sostiene nelle braccia la vecchia piagnucolante) Padrone... consolala!
Mèn. (collerico, voltandosi, in vederlo) Tu qui ancora?...
Bl. Vado, vado... (avanti andarsene, gli ripete con accento comico di preghiera) Consolala! (declamando) «Soave è amor, ma troppo acerba cosa!» lo dice Euripide nell'Ippolito[188].
[217]
Mèn. (minaccioso, con la vecchia piangente sempre su le braccia) Te lo do io ora l'Euripide.
Bl. (tranquillo, grave) Vado, vado.
Mìrt. (singhiozzando) Ah, Mènecle, quanto sono infelice!...
Mèn. (Anche lei! Sono il consolatore universale!...)
Bl. (dalla soglia, guardando i due, con far sentenzioso) Ha ragione Eschilo:
Empie i letti di pianto amor di sposa
E fa che dolor aspro il cor le stringa,
Poichè il marito la moglie bramosa
Ahi, disertando, la lasciò solinga[189].
(Mènecle voltandosi, lo vede lì ancora, gli getta un'occhiata minacciosa. Blèpo dall'uscio, sempre tranquillo e grave) Vado! vado!
(Esce, seguitando a declamare, con aria drammatica «Ahi, disertando, la lasciò solinga...»).
[218]
Mènecle e Mìrtala.
Mèn. Via, Mìrtala, calmati...
Mìrt. O Mènecle, io perderò la pazienza con colui...
Mèn. Ed egli dice che tu metti alla prova la sua...
Mìrt. (levando il capo irritata) Questo ha detto? Per Venere, la pagherà!...
Mèn. No, no, lascia star Venere! (Se ti sentisse!) Avrà commesso qualche leggerezza, ma poi... (Via, si difende anche il lupo.)[190].
Mìrt. Leggerezza, dici? Se in due giorni non ha passato due ore nel gineceo?
Mèn. (guardandola, fra sè) (Veramente, basterebbero!) Via...
Mìrt. Ma dove credi sarà andato?...
Mèn. Mah!... al suo tribunale!...
Mìrt. Ohibò! ci sono stata!... oggi è chiuso...
Mèn. All'adunanza della fratria per le iscrizioni delle nascite...[191].
[219]
Mìrt. Ci sono stata!... Oggi adunanza non ce n'è....
Mèn. Alla banca di Pasione, là al Pireo...
Mìrt. Ne vengo ora...
Mèn. (fra sè comicamente) (Fa un giro di ispezione nella Grecia!)
Mìrt. Pasione oggi celebra la festa dei Lari, e non tien banco.
Mèn. E allora... nessun può dir cosa ne fu di Edipo![192].
Mìrt. (piagnucolosa) Oh Mènecle! ho paura che Cròbilo mi tradisca...
Mèn. Ma se è più casto di Melanione... e non può veder l'altre donne!
Mìrt. Oh anche Timone odiava gli uomini, ma le donne di soppiatto le cercava!...[193].
Mèn. (di sottecchi squadrandola) (Non tutte!)
Mìrt. Ma qui proprio non è venuto...?
Mèn. E dàlli!... Doveva venire?...
Mìrt. No... ma... perchè... vedi... io parlo poco...
Mèn. Sappiamo!...
Mìrt. Ma sai... le donne, quando si fissano... (Mìrtala parla esitante; dopo una pausa prende [220] Mènecle a parte e gli parla con far misterioso) Mènecle, Venere mi guardi del pensar male di nessuno. Tu hai, grazie a Giove, una moglie virtuosa. Ma sai, anche a Penelope, quando Ulisse non c'era, i Proci le andavan dietro. Tu non sei Ulisse, ma tua moglie la trascuri... e hai torto...[194].
Mèn. (si è fatto d'improvviso serio e scuro, attentissimo) Va pure avanti...
Mìrt. E il pensarci, fin ch'è tempo, mi par meglio per te... per lei... e per me...
Mèn. (di scatto) Cròbilo?...
Detti e Blèpo sulla porta.
Bl. Cròbilo!
Mìrt. Ah!
Mèn. Furfante, mi fai l'eco?
Bl. No, padrone.
Mèn. Lui qui?...
Bl. (imitando l'eco) Qui.
[221]
Mìrt. (smaniosa) L'ho detto io! Oh il perfido! Non son Mìrtala se...
Mèn. (serio) Calmati. E lascia fare a me. È meglio tu vada.
Bl. (a parte, declamando sentenziosamente) «Meglio è l'andar quando il restar non giova!»
Mìrt. Oh Mènecle, ma tu...
Mèn. Fidati a me... Va, va presto...
Mìrt. Oh, mi raccomando... il mio Cròbilo...
Mèn. Sta sicura. Te lo renderò... Da questa parte... Addio.
(Mìrtala esce dalla parte del gineceo, non dall'ingresso del peristilio).
Mènecle, Cròbilo.
Mèn. (dopo accompagnata Mìrt. e messala fuori, risalendo la scena). Altro se te lo renderò, bella Elena, il tuo Paride... Lui!... Ma il bel Paride stavolta discorrerà col re di Sparta... (a Blèpo) Fallo entrare.
(Blèpo esce ed entra Cròbilo dal peristilio).
Cròb. (entra assai espansivo) Oh Mènecle! salute!...
[222]
Mèn. (Mènecle lo riceve padroneggiandosi, con cortesia forzata, velatamente ironica) Buon dì, Cròbilo.
Cròb. Passavo di qua, venendo dai Portici, e ricordatomi che posdomani c'è assemblea, ho detto: Oh, entriamo dal nostro Mènecle, che sa tutto, a saper che c'è di nuovo...
Mèn. (lo scruta di soppiatto) E a me, ora, il mio démone m'aveva detto: Ecco Cròbilo che passa e che entra...
Cròb. Già, l'amico sente sempre l'odor della pesta dell'amico...
Mèn. (con intenzione ironica, scrutandolo) E un amico come te...
Cròb. Per tutti e dodici gli Dei! Voglio credere!...
Mèn. (proseguendo, suggestivo, velatamente ironico) ... val più d'un tesoro. Grazie[195].
Cròb. E non faccio per dire, sai, ma quando per via mi sento alle spalle: To' quello che passa è Cròbilo Colonèo, l'amico di Mènecle... dell'inclito Mènecle... mi pare di essere più alto un cubito. Cròbilo, l'amico [223] di quel Mènecle che operò tanti prodigi in campo, che fece passar tante leggi nell'assemblea, che governò le isole... per Ercole, sai che tutto ciò empie la bocca!... E dà una certa autorità... certi vantaggi...
Mèn. (con intenzione, ironica) Ah già! molti!...
Cròb. Vedi, iersera ho fin questionato per te. Tu sai che io ho molte idee mie, ma infine, con le tue van d'accordo. È così bello aver sempre coi grandi uomini qualche cosa in comune...
Mèn. Già, già. (Bello e... comodo).
Cròb. Bene, si discorreva degli affari di Tebe e de' profughi. Quell'asino di Eucare pretendeva che Atene faria bene a levarseli da' piedi: e dalla sua eran parecchi. Io gli rispondo come va, e gli espongo... così in breve... giusto le stesse riflessioni che tu mi facevi l'altra sera... il pericolo di una guarnigione spartana qui a due passi, nella Cadmea, l'urgenza di ristabilir in Grecia l'equilibrio compromesso dalla pace di Antalcida, e far di Tebe un antemurale per chiudere [224] a Sparta gli sbocchi del settentrione... eccetera, eccetera... insomma tutti quanti gli astanti si arresero alle riflessioni nostre...
Mèn. (correggendo) Alle mie...
Cròb. Sì, le mie, le nostre!... Ma Eucare, quell'asino, duro: e io «Ti prego a credere che quando io e il mio amico Mènecle esponiamo un parere, ci abbiamo prima studiato sopra...» Ohibò! come soffiar in una rete[196]. Allora mi scappa la pazienza: Senti, gli dico, ci vuole un bel coraggio ad ostinarsi, quando io e il mio amico Mènecle dichiariamo che è così e così: e per aver questo coraggio, bisogna prima aver guadagnate due corone come noi...
Mèn. (correggendolo) Come me...
Cròb. Sì... come te... come noi...
Mèn. (ironico) Ah!...
Cròb. Aver fatto tante leggi come noi...
Mèn. (correggendo ancora) ... Come me...
Cròb. (senza più badargli) ... presieduto giudizii come noi, governate le isole come noi... (Mènecle accompagna i noi, con gesti del capo, di adesione ironica) Ma se ti dicevo che quel [225] poter parlare dei grandi uomini come di noi stessi, aver con essi tutto in comune...
Mèn. Sicuro... sicuro... (Ora capisco...)
Cròb. (terminando la frase) ... è una gran bella cosa!...
Mèn. Fino a un certo punto.
Cròb. (a mo' di conclusione del suo dire, abbraccia forte Mènecle) Qua un abbraccio.
Mèn. (liberandosi) Più adagio. Le costole non sono in comune. Del resto, dici bene, dal momento che l'amicizia è il mettere in comune tutte le cose...[197] (parla velatamente ironico) come dice il proverbio, comune la nave, comune il pericolo...[198].
Cròb. Precisamente.
Mèn. (a parte) (E perciò imbarca sulla nave anche le mogli).
Cròb. Oh, e Aglae come sta? la nostra cara Aglae...
Mèn. (a parte) (L'ho detto!) La mia cara Aglae sta bene... (Bisogna insegnargli il singolare degli aggettivi possessivi!) Sicchè anche tu sei del parere delle Aringatrici di Aristofane! [226] Sai, quella scena dove Prassàgora inaugura il governo delle donne e fa il suo discorso-programma: «Prima di tutto noi donne metteremo in comune la terra, il danaro e ciò che ciascuno ha; tutti possiederanno pani, pesci, focaccie, tonache, vino, corone e lenticchie...»
Cròb. (facendo vivi segni di adesione e proseguendo la citazione a memoria) «se alcuno vede una fanciulla, e gli va a genio, può pigliarsela dalla Comune, senza spesa...
Mèn. (proseguendo) «le donne faran figli per chi ne vuole...»[199].
Cròb. (con ripetuti e vivi segni di adesione) Benissimo! Benissimo!... Oh per me, al sistema di Prassàgora ci sto subito... (maliziosamente a Mènecle) Queste son massime da mettere nell'arche insiem coi pomi!...[200]. E senti: se noi governassimo ancora le isole...
Mèn. (suggestivo) Tu cederesti la tua Mìrtala a chi la vuole...
Cròb. (approvando sempre con calore) Benissimo!
Mèn. (c. s.) Io cedo a chi la vuole la mia Aglae...
[227]
Cròb. Benissimo!... Per la compagnia che le fai...
Mèn. (frenandosi, e proseguendo l'ironia suggestiva) Per Mìrtala mi presento io...
Cròb. Benissimo! E io faccio come fai tu.
(Gesto vivissimo di collera in Mènecle).
Mèn. (Anche lui!) (piantandosi in faccia a Cròbilo, — e fattosi d'improvviso scuro in volto e minaccioso) Ma... e se io... non dividessi le teorie di Prassàgora? E se a noi che abbiamo governato le isole, non piacessero queste teorie di governo?
Cròb. (lo guarda tra attonito e spaventato) Eh? (Che diamine gli è saltato in mente?...)
Mèn. (rifacendosi calmo d'un tratto) Vieni qua.
(Lo conduce a uno scrittoio, tira fuori alcune carte, e le scorre leggendole, con accento pacato e bonario, mentre Cròbilo lo guarda trasecolato, senza comprendere).
Cròb. Che cosa sono?
Mèn. (ritornato calmissimo) Sono carte firmate da me. Alcuni ricordi del nostro governo dell'isole, quand'ero in Lesbo e vi applicavo le leggi di Atene. Guarda qui. (piglia una carta e poi ne spiega, discorrendo bonariamente, [228] a Cròb. il contenuto) Sentenza nella causa di Lisicle. Un bel giovanotto — come te — certo Lisicle, che abitava in Metinna, avea tresca con la moglie di Stefano. Stefano il marito lo seppe e un bel giorno, sul fatto te li colse, là presso la marina, in un bel luogo verde, ombroso, sacro alle ninfe e agli amori: il quadretto era poetico molto, ma a Stefano pare piacesse poco: perchè ricorse a te... cioè a me... cioè a noi. E noi abbiamo condannato Lisicle in via di clemenza alla pena esemplare del rafano[201]. (sbalzo di spavento di Cròbilo: Mènecle finge non accorgersene, e prosegue tranquillissimo) Stette a letto soltanto cinque mesi...
Cròb. (spaventato) Ohimè!...
Mèn. Il medico Dionda, anima pia, lo curò: ed io ho curato il medico con una multa di mille dramme[202]. (Mènecle passa tranquillamente a un'altra carta fingendo non accorgersi delle esclamazioni di spavento di Cròbilo) Altra come sopra. Sentenza per la morte di Eutemòne. Certo vecchio, Nicarco, trascurava [229] la moglie, e il leggiadro Eutemòne se ne approfittava. La notte il marito dormiva al pian di sopra, la moglie al pian terreno, col pretesto di far la pappa al bimbo: quando, una notte, a cucinar la pappa del bimbo, il marito sorprese Eutemòne: e, senza complimenti, te lo ammazzò. Fu processato per omicidio[203] — ed ecco la sentenza di assoluzione, con parole di lode, da me firmata, a incoraggiamento e sprone dei mariti futuri...
Cròb. (spaventato giungendo le mani) O santo Giove, rettor delle stelle!... e tu hai fatto...
Mèn. (correggendolo, ironico)... non io... noi, noi.
Cròb. Che maniera di governare!
Mèn. Questo abbiam fatto noi (accenna sè e Cròbilo, beffardamente appoggiando sul noi) quando governavamo le isole... (battendogli sulla spalla — e con accento minaccioso, vibratissimo) Tieni il ricordo in serbo... E metti anche questo nell'arca, insiem coi pomi!
CALA LA TELA.
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153. Vedi, sul gnomone, note all'Alcibiade, atto II.
154. ‘Ἠκω γὰρ ἐς γῆν τήνδε καὶ κατέρχομαι. — Cfr. Aristof., Rane, v. 1128.
155. Cfr. Platone, dial. Parmenide, Eutidemo, Sofista. — Già abbiamo visto i sofisti in Atene fatti segno alla satira della commedia antica, nelle Nubi di Aristofane, che ebbe il torto di confondere tra i sofisti Socrate, il loro grande derisore. Era però una satira e una celia che volgeva al serio, perchè in fondo era una reazione dello spirito conservatore contro le nuove idee filosofiche, e mirava alla sostanza di queste, attaccandole come novatrici, pericolose e sovvertitrici della religione e de' costumi; onde lasciava tale solco dietro di sè, che a distanza di anni potea tradursi nella accusa di Melito. Al tempo della commedia di mezzo, specialmente rappresentata dal comico Antifane, (e che comincia a fiorire giusto intorno all'epoca dei personaggi della mia Sposa) sofisti e filosofi hanno nella vita e nella società ateniese un posto e un'importanza anche maggiori; e la satira contro di essi sul teatro continua — e i sofisti nella commedia ne fan larghe spese — è però divenuta una celia innocua che si prende spasso delle loro arie d'importanza, delle lor sottigliezze e distinzioni cavillose, come di un tema qualunque di scherzo: e pur non senza riflettere la segreta lenta influenza che le nuove dottrine filosofiche dagli orti di Academo vanno irradiando sui costumi. Di queste satire sui sofisti hai esempio in un frammento del Pitagorico di Aristofane (fr. 3. Mein., Frag. com. græc., III, 362) e in un altro frammento di Antifane, in un dialogo tra padre e figlio — quegli non dotto e questi discorrente nel gergo sofistico — dialogo che ricorda le scene comiche delle Nubi tra Strepsìade e Filippide tornato dalla scuola di Socrate; e col quale hanno riscontro le goffaggini sofistiche di Blèpo in questa scena (cfr. Antifane, Κλεοφάνης; Mein., Fr. com. gr., III, 64). Più acre giudizio de' sofisti al tempo della mia commedia, e cioè non dei veri filosofi ma dei rètori spacciatori di vuote e presuntuose ciancie filosofiche, hai nell'arringa contro i medesimi, del contemporaneo oratore Isocrate. — Vedi poi, circa i sofisti in Atene, anche le mie note all'Alcibiade, att. II, n. 35, 36, 37.
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156. Eurip., Alceste, v. 528.
157. «Che pazzie le son queste? E cosa mi conti, che l'uom savio deva bazzicar nel Liceo co' sofisti, gente magra, che digiuna, vive di fichi?» Antifane, Cleofane.
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158. Vedi le orazioni di Isocrate, Contro i sofisti e l'Elogio di Elena.
159. Sofocle, Eraclidi. — Luciano, Dial. dei morti, 5.
160. Qui e più sopra si accennano alcuni simboli e riti delle cerimonie nuziali fra' Greci, e in particolare nell'Attica. Tali le corone di lauro e d'edera conteste, appese alla porta della casa nuziale, grazioso emblema dell'union coniugale, e della debolezza femminile chiedente protezione alle virili virtù del marito, simboleggiate nella fronda sacra al genio e al valore. Tali, nel sagrificio a Giunone (‘Ἠρητέλεια) e agli altri Dei nuziali (sagrificio che precedeva le nozze) il fausto apparir di due tortore o due cornacchie all'altare; promettenti quest'ultime, come simbolo di longevità e fedeltà, il prolungarsi dell'amore tra gli sposi fino agli anni tardissimi. Tali ancora i cestelli di fichi e d'altre frutta che venivano imposti un momento sul capo degli sposi, al toccar della soglia maritale, in augurio di letizia e di prosperità: e altro augurio di più intime gioie, le gioie della fecondità, era la focaccia di sesamo spartita ai convitati, nella cena nuziale che in casa dello sposo coronava fra canti e danze e suoni e fiaccole la festa.
161. Παίδων σπόρῳ τῶν γνησίων δίδωμὶ σοι τὴν ἐμαυτοῦ θυγατέρα — Cfr. il passo di Demost., C. Neera, 1386, citato nella nota 48 al Prologo: e Alcifrone, nelle Lettere: «Mio padre e mia madre teco, ereditiera qual sono, in matrimonio mi strinsero, per la seminagione di figli legittimi. ἐπὶ παίδων ἀρότῳ γνησίων — lib. I, 6.
162. Vedi nel Prologo della commedia, pag. 26, il testo della legge, ch'è menzionata da Demostene, nell'orazione seconda Contro Stefano, 1134. Il diritto ch'essa dava ai fratelli — venendo a mancare il padre — di disporre della sorella e darla in moglie a chi volessero, non era esaurito neppur da un primo matrimonio. Iseo, Eredità di Mènecle, § 5, 9 — cfr. Dem., C. Onet., I, 865-6. C. Eubulide, pag. 1131.
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163. «Il vecchio torna fanciullo un'altra volta». Platone, Leggi, I, 646, a.
164. Cfr. il passo già citato dell'orazione di Iseo, Ered. di Mènecle, § 7.
165. «Ammiro, o Fània, la legge di quei di Ceo, la quale vuole, che quando non si può più viver bene, non si continui a viver male». Menandro, Framm. inc. Dove il comico ateniese allude alla legge che, al dir di Strabone, nell'isola di Ceo, prescriveva di dar a bere la cicuta ai vecchi che avevano oltrepassato i sessanta, perchè lasciassero agli altri il posto di cui essi non potevano più godere. Strabone, X, 486.
166. ἱκανὸς γὰρ, ἔφη, αὐτὸς ἀτυχῶν εἶ ναι. Iseo, Ered. di Mènecle, § 7.
167. Poteva la moglie, promovendo l'azione per maltrattamento (κακώσεως δίκη) innanzi l'arconte, chiedere essa il divorzio dal marito; come vedi nella legge addotta da Eudemonippo nel Prologo, pag. 27. E s'intende che in questo caso (il solo in cui pel divorzio occorreva l'intervento dell'arconte che lo pronunziasse), esso lasciava immune la riputazione e l'onor della donna. Si comprendevano poi sotto quel titolo di maltrattamento (κακώσεως) in genere le accuse di infedeltà o trascuranza. Come vedi nello scoliaste di Aristofane, al v. 399 dei Cavalieri: «Cratino si suppone maritato alla Commedia: questa vuol divorziare di lui e promovergli un'azione per maltrattamento (κ. δ.). Gli amici di Cratino la supplicano di non agir alla leggiera e le domandano la cagione della sua collera; essa si lamenta amaramente di Cratino perchè la trascurava e si dava all'ubbriachezza». — E Plutarco nella Vita d'Alcibiade: «Ipparete essendo virtuosa e amante del marito, contristata in vedere ch'egli usava con cittadine e forestiere, partitasi da casa, andò dal fratello: di che non curandosi Alcibiade, anzi seguendo il suo costume, bisognò si deponesse la scrittura del divorzio presso l'arconte, non da altri ma da lei stessa. Presentatasi pertanto ella stessa, secondo la legge, sopravvenne Alcibiade, e presala la menò a casa, senza che alcuno osasse di opporsi». Alc., 8. Cfr. Alcifrone, Lett., I, 6.
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168. «Vicina è la moglie. Quando l'orsa è presente, non s'hanno a cercar le pedate». Aristen., Lett., II, 12.
169. Per distruggere i lupi che infestavano l'Attica, Solone stabilì un premio: «a chi portasse un lupo, diede cinque dramme, a chi una lupa, una dramma». Plut., Solone. — Cfr. Scol. in Aristof., Uccelli.
170. Dopo il primo banchetto nuziale in casa della sposa, questa veniva la sera condotta alla casa maritale in corteggio di gala tra canti d'imeneo e suon di flauti, seduta in cocchio tra un parente suo e un paraninfo o padrino dello sposo, ch'era di solito qualche intimo amico o parente dello stesso. Vedi la caratteristica descrizione di un corteggio nuziale, in un frammento di arringa di Iperide, in difesa di Licofrone, framm. 155, § 2-4. La sorella di Diossippo, il celebre atleta, viene data dal fratello in moglie a Carippo; e lungo il corteo, Licofrone, segreto amante, a quel che pare, della sposa, trova modo di appressarlesi e raccomandarle di non aver rapporti col marito e di non lasciarsi da lui toccare. Ma di ciò accusato, Licofrone nega, per bocca di Iperide, il fatto, cercando dimostrarne l'impossibilità: «E qual uomo saravvi in questa città così scempio da prestar fede a un simile racconto? Giacchè era necessario, o giudici, che prima venissero il mulattiere e il conduttor del corteggio innanzi al carro conducente la sposa: poi dietro il carro seguissero i fanciulli che la scortavano e Diossippo (fratello di lei): poichè anche costui (il fratello) la accompagnava, per averla egli collocata in matrimonio... E io sarei giunto a tale grado di pazzia, che in mezzo a tanti uomini che la scortavano, e fra questi Diossippo e il suo compagno negli esercizi di lotta Eufreo, uomini fortissimi, avrei osato far di tali discorsi a donna di lignaggio, e farmi udire da tutti, senza tema di perir lì subito strangolato?»
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171. «Il marito che tien sua moglie sotto catenaccio si crede esser prudente ed è matto: perchè se una di noi ha posto il suo cuore fuor della casa coniugale, essa s'invola più ratta di freccia e di uccello: e ingannerebbe i cento occhi di Argo». Menandro, Framm. inc.
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172. L'appellativo di libera, ἐλευθέρα, corrispondente in questo caso al latino ingenua, designava in genere, quasi titolo nobiliare, la cittadina ateniese avente stato di famiglia, la donna onesta di libera nascita, e come tale circondata di rispetto, e sola ammessa alle sacre Tesmoforìe; per opposto alle cortigiane (ἑταίραι) e alle forestiere (ξέναι) che gli Ateniesi, scapoli e maritati, liberamente e pubblicamente corteggiavano, ma alle quali era proibito, sotto severissime pene, con cittadini ateniesi il matrimonio; ed erano interdette le feste delle Due Dee. — Vedi, p. e., nel passo sopra citato di Iperide: «Che folle temerità sarebbe stata la mia di non vergognarmi di rivolgere di tali discorsi a donna libera?» οὐκ ῂσχυνὀμῃν τοιούτους λόγους λέγων περὶ γυναικος ἐλεμθέρας; Framm., 155, 4. Cfr. per l'antitesi quel passo di Menandro: «È difficile, o Panfila, a donna di famiglia (ἐλεμθέρᾳ γυναικὶ) lottar con una meretrice (πόρνῃ)». Men., Framm. inc., 36. — All'ἐλεμθέρα, passata a nozze, corrisponde anche l'omerico e il tirtaico κουριδίη ἄλοχος indicante la moglie legittima, nata libera da liberi genitori, per contrapposto alle nate di condizione servile (παλλακαὶ). — Cfr. anche le note all'Alcibiade.
173. In questo ritratto della effeminata gioventù ateniese, troppo degenere dagli avi nei tempi che non per niente volgevano rapidamente alla decadenza della libertà e della Repubblica, piacque a parecchi ravvisare allusioni contemporanee. Naturalmente io non sono padrone delle interpretazioni altrui: e se v'ha chi crede si possano applicar le mie parole, si serva. Vuol dire che Clistene, lo svenevole bellimbusto satireggiato da Aristofane, in tutti i tempi ha fatto scuola: e se v'hanno giovani in Italia a cui paia di ravvisare nel ritratto sè medesimi, me ne rincresce e auguro alla mia patria gioventù migliore. Ma che le parole di Aglae siano a ogni modo un ritratto esattissimo di certa gioventù d'Atene de' tempi suoi, su questo non cade dubbio; e rimando chi voglia accertarsene ad Aristofane, specialmente alle Nubi, v. 961 eseguenti; a Isocrate, nell'Areopagitica, e a Teofrasto, Caratteri. — Cfr. Dione Crisost., Regno, pag. 167.
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174. πολλ’ ἠπίστατο ἔργα, κακῶς δ’ἠπίστατυ πάντα (Platone, I, Alcib.) sapeva molte cose, ma le sapeva tutte male — così l'omerico proverbio girava per Grecia intorno a Margìte, protagonista di un poema antichissimo (forse il più antico esempio di poesia comica), non pervenuto a noi, e che Aristotile attribuisce ad Omero. Era il tipo comico di un solennissimo sciocco che presume di saperla lunga; e commette, credendo dar prova di finissimi accorgimenti, stolidaggini d'ogni genere; era forse o senza forse il lontanissimo arcavolo di Bertoldino. — E il nome usavasi, tra' Greci, per antonomasia, a sinonimo d'imbecillità. «Una tal cosa (una così enorme stoltezza) non l'avrebbero commessa neppure Ercole impazzito, e neppure Margite il più stolido di tutti gli uomini». Iperide, Framm., 155, 5. «Credi di parlar con un Margite, per darmela a bere così grossa?» Luciano, Ermotimo.
175. Cfr. Aristof., Nubi, v. 986.
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176. Cfr. Aristof., Rane, v. 718-726.
177. Vedi la orazione contro Neera, che, sia essa o non sia di Demostene, rimarrà sempre uno dei quadri più interessanti e istruttivi della vita privata ateniese nel secolo quarto av. l'E. V. «Prima voglio narrarvi come Neera fosse in balìa di Nicarete (una padrona di postribolo) e come facesse traffico del corpo suo per chi volesse averne diletto. Or convien sapere che Lisia il sofista era amante di Metanira (altra delle ragazze alunne dello stabilimento d'educazione di Nicarete) e volle, oltre i dispendî che faceva per lei, iniziarla nei misteri: pensando che tutte le altre spese andavano a guadagno della padrona, ma i danari della festa avrebbero profittato alla ragazza. A questo effetto pregò Nicarete di condurre seco alla festa dei misteri Metanira, per esservi iniziata. E queste vennero: ma Lisia non le introdusse nella propria casa, per vergogna della moglie che aveva (meno male! che marito prudente!), e ch'era figliuola di Brachillo e nipote sua, e della madre già vecchia che abitava con lui. Condusse invece Metanira e Nicarete nella casa di Filostrato Colonete, giovine scapolo e amico suo. E venne in compagnia di esse questa Neera che già aveva messo la sua persona a guadagno». (Demost., C. Neera, 1351-1352). O non sembra una pagina di costumi odierni, dello Zola?
178. Πῖθ’ ἑλλέβορον, bevi elleboro, Aristof., Vespe, v. 1489. Molto usavano gli antichi l'elleboro per medicina de' matti e de' farneticanti: indi il modo proverbiale tra loro: «Tu sei matto, o Tantalo, e par che davvero hai bisogno di bere una buona dose di elleboro». Luciano, Dial. dei morti, 17. Cfr. ibid., 13. «Perchè con l'elleboro non ti cavi la pazzia?» Demost., Corona. «Di elleboro hai d'uopo, e non di quel vulgare, ma proprio di quello della focense Anticira, tanto sei fuor di te stessa». Alcifr., Lett., III, 2. Anticira nella Focide era nota per la gran copia di elleboro. Tribus Antyciris caput insanabile, Orat., ad Pison.
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179. Scriveansi su le colonne i nomi dei cittadini illustratisi per alte gesta o eccezionali benemerenze, in pace o in guerra; come si legge essersi fatto per Conone «al quale solo fu scolpita nella colonna questa iscrizione: Dopo che Conone ebbe liberato i collegati dagli Ateniesi.» Demost., Contro Leptine. Ma nella stessa orazione è accennata una iscrizione ricordante i beneficî resi alla città da Leucone, governator del Bosforo, per aver soccorsa Atene di granaglie nella carestia, e favoriti i mercanti ateniesi: «e affinchè durasse la memoria in esempio scolpiste le iscrizioni su le colonne nel Pireo e nel Tempio». E ancora iscrivevansi sulla colonna i nomi dei cittadini che per chiari servigi resi alla città con l'armi o col consiglio ottenevano, fra altre ricompense, anche la esenzione dai pubblici incarichi (liturgìe) — come da un decreto di Alcibiade nella stessa orazione ricordato. (Delle ricompense ai benemeriti, semplicissime e rare nei migliori tempi della repubblica, moltiplicatesi e divenute costose col decadere delle antiche virtù, ho parlato già altrove, nella monografia Alcibiade e il secolo di Pericle).
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180. «Giusto mi pare l'antico proverbio: Se vedi un sasso guarda ben sotto che forse non vi sia un oratore che ti morda». Aristof., Tesmof., v. 529. Il proverbio veramente non diceva un oratore, ma uno scorpione: la sostituzione satirica di Aristofane caratterizza la manìa delle pubbliche e private accuse, che invadeva lo Pnice e i tribunali.
181. πομπαῖος, guidatore dell'anime dei morti (Eurip., Ajace, v. 832); altro dei molti appellativi di Mercurio, detto, come tale, anche sotterraneo, κθονιος, Ar., Rane, 1126, 1145.
182. ἐσκόπει ο Μενεκλῆς ὃπως... ἔσοιτο αὐτῷ ὃστις ξῶντά τε γηροτροφήσοι καὶ τελευτήσαντα δάψοι αὐτὸν καὶ εἰς τὸν ἔπειτα χρόνον τὰ νομιξόμενα αὐτῷ ποιήσοι... — Iseo, Ered. di Mènecle, § 10.
183. «Io m'aspetto che i fiumi vadano all'insù, mentre tu alla tua età e con una caterva di figli ti se'invaghito di una suonatrice...» Alcifr., Lett., III, 33. «Tornano all'insù de' sacri fiumi le sorgenti». Eurip., Medea, 410.
184. La ospitalità data da Atene a Pelopida e agli altri profughi tebani ivi postisi in salvo allorchè Tebe venne in mano ai Lacedemoni (v. atto I, nota 15), doveva naturalmente riuscire — anche per la vicinanza di Atene a Tebe — più che sospetta e molesta agli oligarchi tebani ed a Sparta. «Inteso avendo Leontide (un degli oligarchi) che gli esiliati se ne stavano in Atene, cari alla moltitudine e onorati da tutti gli uomini onesti e dabbene, tese loro insidie nascostamente... I Lacedemoni scrissero pur lettere agli Ateniesi, ingiungendo ad essi di non accogliere nè incitar più oltre quegli esuli, ma scacciarli dalla città, come dichiarati per nemici comuni dagli alleati. Gli Ateniesi, e per indole umana e per antichi obblighi di gratitudine, punto a' Tebani ingiuriosi non furono. Peraltro, Pelopida, incitava i profughi e dicea loro come bella nè pia cosa non era che trascurassero la patria in servitù, e paghi solo dell'esser salvi, pendessero dalle determinazioni degli Ateniesi (di scacciarli sì o no), sempre alla mercè di que' parlatori facondi che atti erano a persuadere il popolo...» Plutarco, in Pelopida.
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185. Cfr. Tucidide, I, 26; Eschilo, Supplici; Euripide, Supplici, Eraclidi, ecc.
186. Cfr. Aristof., Lisistrata, v. 285; Demost., Corona, 297.
187. Νῦν προς ἔμ’ ἴτω τις, ἵνα μή ποτε φάγη σκόροδα, μηδὲ κυάμους μέλανας Aristof., Lisistr., 690.
188. «Fedra. Che cos'è questa cosa che dicono degli uomini, amare? — Nutrice. La più soave, o figlia, e la più acerba cosa insieme». Eurip., Ippol., v. 347-8.
189. Eschilo, Persiani, v. 133-139, v. la versione del Bellotti, qui, in bocca di Cròbilo, raccorciata.
190. «È giusto difendere anche la causa del lupo», proverbio. Platone, Fedro.
191. Tutti gli anni, nelle feste Apaturie, uno o più giorni eran consacrati alla iscrizione delle nascite avvenute nel corso dell'anno. I figli nati di giuste nozze (da padre e madre cittadini) venivano introdotti nella fratria o curia del padre, e previo rito sacro, e dato dal padre giuramento della legittimità della nascita, venivano dal capo della fratria iscritti nel registro della stessa; la quale iscrizione era il documento della legittimità ed equivaleva alle nostre dichiarazioni di nascita all'ufficio di stato civile. (Schömann, Ant. Jur. Pub., 193). — Cfr. Demost., C. Eubulide, 1313, 1315. Iseo, per Eufileto, § 3. Questa iscrizione usavasi anche a legittimare gli adottati. (Demost., C. Macartato): e non è da confondere con l'altra iscrizione, sui registri lessiarchici, dei giovani ateniesi pervenuti all'età di 18 anni: che conferiva l'esercizio dei diritti civili e di una parte dei politici.
[245]
192. Sofocle, Edipo a Colono, v. 1655-6.
193. Nella Lisistrata di Aristofane un coro di vecchi, per fare istizzire le donne, racconta: «C'era una volta un giovine di nome Melanione, il quale, fuggendo le nozze, andò nel deserto e sui monti: ivi dava la caccia alle lepri, tendeva le reti e aveva un cane: e per odio contro le donne non fece più ritorno alla sua casa. E noi non siamo men casti di Melanione». Lis., 785 seg. E al coro dei vecchi, nella stessa scena, il coro delle donne, di ripicco, risponde: «C'era una volta un certo Timone, uomo implacabile, avvolto la faccia in ispide spine, progenie delle Furie. Questo Timone se ne fuggì per odio, imprecando molte cose alli uomini malvagi. Così egli odiava voi uomini sempre malvagi... ma delle donne era amantissimo». Lis., v. 808 seg.
194. Superfluo qui osservare, intanto che me ne ricordo, una volta per tutte, con l'autore dell'Anacarsi (v. 28) che la vita ritirata delle donne ateniesi nel gineceo non deve poi intendersi per quella completa clausura che hanno creduto taluni: e non impediva loro di ricevere in casa i parenti e quegli amici del marito ed estranei che dal marito ne aveano il consenso. — Nella Lisistrata di Aristofane c'è anche di meglio: e il provveditore si lamenta che sian gli stessi mariti che procacciano alle mogli certe distrazioni: «Noi uomini abbiamo aiutato le donne a diventar malvagie. Noi andiamo alle botteghe degli artieri e diciamo: orefice, della collana che mi avevi fabbricata, ballando ier sera la mia donna, cadde la ghianda del fermaglio. Io devo navigar per Salamina. Tu se hai tempo fa in ogni modo di recarti da lei verso sera, e riponle la ghianda al luogo suo. Un altro ad un calzolaio giovine... così parla: o calzolaio, la correggia preme alla mia donna il dito mignolo del piede che è tenero assai. Tu va a lei sul mezzogiorno, e rilassala alquanto, sicchè si faccia più larga. E così, da queste cose hanno origine quell'altre somiglianti...» Lisistr., v. 404-420.
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195. «Meglio un amico sulla terra e innanzi ai nostri occhi che un tesoro sotterra e lungi da noi». Menandro, Citarista, fr. 3. «Nulla è più prezioso di un amico sicuro: nè ricchezza, nè regno». Eurip., Oreste, v. 1155.
196. «Quando tu mi parli, tagli la fiamma, soffii nella rete, ficchi un chiodo nella spugna». Aristen., Lett., II, 20.
197. κοινὰ γὰρ τὰ τῶν φιλων Così Pilade a Oreste, in Eurip., Oreste, v. 735 — verso passato in uso proverbiale. Cfr. Alcifr., Lett., I, 7. Enea Sofista, Lett., VI. Procop. Sof., CXIX.
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198. Aristen., Lett., I, 17.
199. Aristof., Ecclesiazuse, v. 597 seg., 605 seg. Cfr. il Pluto.
200. Nei cassettoni e negli armadi delle vesti e biancherie usavano metter pomi, per dar a quelle il buon odore. Indi il coro delle Vespe in Aristofane: «Di que' poeti che studieranno dire e trovar cose nuove, tenete in serbo le sentenze e riponetele nelle arche insiem coi pomi (ἐσβαλλετε τ’ ἐς τὰς κιβωτοὺς μετὰ τῶν μήλων). Se farete ciò per l'anno intero, le vostre vesti avranno odore di senno». Vespe, 1055-59.
201. «E l'adultero perirà con un bel rafano nel di dietro.» Alcifr., Lett., III, 62.
Varie e severe ab antico in Atene le pene che colpian l'adulterio (μοιχεία) consumato e tentato, adultero e adultera in una. Mi limito a qui raccogliere, coordinandole, le disposizioni principali del diritto penale ateniese su la materia — i limiti di queste note non assentendomi più lungo discorso.
Tralascio parlar delle pene circa i mariti adulteri. Dacchè le leggi permettevano ai mariti il commercio con le meretrici e il tener concubine per averne prole, anco legittimabile (Dem., C. Neera, C. Aristocr.): e la domanda di divorzio, fatta dalla moglie in persona davanti all'arconte promovendo azione per maltrattamenti (κακώσεως δίκη), era la sola risorsa e sanzione penale che alle mogli restava contro il marito infedele.
Passo alle donne adultere e ai loro drudi.
UOMINI ADULTERI.
§ 1. Solone con legge «permise uccidere l'adultero a chi lo cogliesse sul fatto» Plut., Sol.
«Fu colto (Agorato) in flagrante adulterio (ἐλήφθη μοιχός) pel qual delitto la legge scrive la morte in pena». Lisia, C. Agor., 66.
Eufileto all'adultero Eratostene da lui sorpreso nella stanza conjugale: «Non io sto per ucciderti, ma la legge della città che tu per lascivia dispregiasti». Lisia, Uccis. Eratost., 26.
§ 2. Adulterio, e come tale punito, non era quello solo commesso colla moglie. «Se alcuno ucciderà un altro cogliendolo presso la moglie, o la sorella, o la concubina mantenuta per averne figliuoli, non sarà reo d'omicidio». (Dem., C. Aristocr., 637).
«All'Areopago è prescritto non condannar per uccisione chi colse l'adultero presso la moglie sua. E questo il legislatore stimò giusto tanto per le mogli legittime quanto per le concubine (παλλακαῖς): certo, se avesse avuto pene più gravi per la violazione delle mogli, le avrebbe poste: maggiori dell'uccidere non avendone, irrogò la stessa per adulterio con moglie o concubina del pari». Lisia, Ucc. Eratost., 30, 31.
§ 3. Adulterio, e come tale passibile di morte, intendevasi quello preceduto da seduzione. Stuprare una moglie, violentandola, era reato minore e punito di sola multa. «La legge comanda che se uno avrà stuprato a forza uom libero o fanciullo paghi multa doppia che se stuprasse un servo: se poi avrà stuprato a forza una donna maritata, sopra le quali è permesso uccidere l'adultero colto in fatto, incorra la multa medesima. Tanto, o giudici, quei che aggrediscono colla forza, il legislatore stimò degni di minor pena di quei che ricorrono alle blandizie persuasive: poichè quelli dannò nel capo, questi con multa sola». Lisia, Uccis. Eratost., 32.
§ 4. Se non ucciso sul fatto, poteva l'adultero essere punito con altre pene e tradotto in giudizio. Esigevasi però sempre per le stesse e per la traduzione in giudizio la flagranza. «έλήφθη μοιχὸς», Lisia, C. Agor., 26. «ἐφ ῇ ἂν μοιχὸς ἄλω». Demost., C. Neera, 1374. — «μοιχὸς ἑάλω... ἄνθρα ἐν ἄνθροις (membra in membris) ἒχων» Luc., Eunuc. — «Et hoc est quod Solon et Draco dicunt: ἐν ἒργῳ». Ulpiano.
§ 5. La flagranza riguardava l'adulterio non solo consumato, ma anche tentato, e non compiuto per circostanza indipendente dalla volontà dell'adultero. «Punisce la legge come adultero non solo chi commise in fatto l'adulterio ma anche chi lo volle o tentò (βουληδέντα)» — Massimo Tir., Diss. II.
§ 6. Il marito che non uccide l'adultero, e intende punirlo d'altra pena, si impossessa della persona dell'adultero legandolo: o rilasciandolo libero, solo dietro malleveria. Su la legittimità della cattura, e quindi sul merito dell'accusa d'adulterio, decide il tribunale. «Se alcuno avrà messo ingiustamente i lacci ad un altro come adultero, questi lo accusi ai Tesmoteti: e se vincerà e apparirà legato ingiustamente, sia libero, e sciolti i mallevadori da obbligo; se invece è chiarito adultero, i mallevadori riconsegninlo all'accusatore». — Dem., C. Neera, 1367.
§ 7. Le pene sussidiarie, in luogo e vece dell'uccisione, sono a piacer del marito o pecuniarie o corporali. Può il marito accontentarsi di una multa. «È legge l'adultero multarsi in danaro». Ermogen., De invent., II, 1. — «È legge l'adultero pagare o morire». — Auct. Probl. Rhet. «E quegli (l'adultero Eratostene) mi prega, mi supplica di non ucciderlo, ma di ricever denaro in componimento». Lisia, Ucc. Erat., 25. «Stefano sorprende Epeneto come adultero e gli estorce trenta mine: delle quali avuti mallevadori, lasciò andar libero Epeneto, tenendosi certo del danaro». Dem., C. Neera, 1367.
§ 8. Le pene corporali, in luogo dell'uccisione, potean essere di vario genere a piacer del marito: e inflitte nello stesso recinto del tribunale giudicante sulla legittimità della cattura. «Se è chiarito adultero, i mallevadori riconsegninlo all'accusatore, il quale, lì nello stesso tribunale può far su di lui, purchè senza spada, ciò che vuole, secondo conviensi ad adultero». (ἄνευ ἐγχειριδιου χρῆσθαι ὄ τι ἄν βουληθῆ ως μοιχῳ). Demost., C. Neera, 1367.
§ 9. Nella antecedente designazione sono comprese le pene:
α. dell'accecamento. «Stabiliva la legge potersi impunemente accecare (τυφλοῦσθαι) l'adultero colto in fatto». Auct., Probl. Reth., c. 58. «Adulteros deprehensos licet excœcare». Cur. Fortunatianus, Rhet. Scol.
β. del marchio rovente. «ἔξεστι στιξειν τοὺς μοιχούς». Hermog., Part. Stat. — νόμος τὸν μοιχὸν στιξειν. Marcellinus.
γ. del rafano (ῥαφανιδωσις). Faceasi star carponi l'adultero e pelategli le natiche con cenere calda, gli si ficcava nel podice un rafano de' più grandi. Suida, alle voci ραφανιδωθὴναι e μοιχὸς. — Alcifr., Lett., III, 62. — In luogo di un rafano si usava anche un pesce detto mugile. Catullo, carm. XV.
§ 10. Il marito che uccide con pene corporali l'adultero non ucciso sul fatto, risponde di omicidio. — ἄνευ ἐγχειριδίου, Demost., C. Neer., loc. cit. «Chi bollando l'adultero, lo uccide, è reo di omicidio». Hermog. e Marcell., loc. cit.
§ 11. È condannato il medico che cura gli adulteri, castigati col marchio o col rafano. «’Ιατρὸς, τὰ τῶν μοιχῶν ίώμενος στίγματα, κρίνεται» Sopater.
§ 12. Vietato è all'adultero l'ingresso ne' templi. Sop., in Hermog.
DONNE ADULTERE.
§ 13. Lecito è uccidere l'adultero (colto sul fatto) e l'adultera insieme. Hermog., Part. St. — Marcellinus, in Cicer., Rhetor., II.
§ 14. Il marito che non uccide l'adultera (colta in fatto) è però obbligato a ripudiarla. «Quando abbia sorpreso in fatto l'adultera, chi la sorprende non potrà più dimorare con la moglie: e se dimorerà con essa, sia punito d'infamia». Demost., C. Neer., 1374.
§ 15. La donna adultera ripudiata non ha dritto alla restituzione della dote. «È legge che la dote dell'adultera resti al marito». Sopater. Divis. Quæst. Cfr. Libanius, Declam., 35. — «Trovando la moglie non costumata e reputandosi ingannato, la scacciò, gravida, di casa e non le restituì la dote». Demost., C. Neera.
§ 16. «Legge dell'adulterio. Nè alla moglie (per adulterio ripudiata) sia lecito entrar nei pubblici templi, se è stata trovata col drudo: e se vi entri, ognuno possa maltrattarla a piacere, tranne che ucciderla». Demostene, C. Neer., 1374. «Perciocchè, se una donna è stata colta con l'adultero, non può più entrare nei templi per vedere e supplicare, come può fare una straniera e un'ancella, a cui lo consentono le leggi. E se le adultere vi entrano in onta alle leggi, ognuno può maltrattarle a suo talento, purchè non le uccida. E se la legge eccettuò la morte, mentre volle impune ogni altro maltrattamento, questo fece perchè non volle contaminati i templi». Demost., C. Neer., ibid. «Solone, dei legislatori il più glorioso, scrisse all'uso antico decreti solenni sul buon costume delle donne. Imperocchè alla moglie presso la quale sia stato sorpreso l'adultero non consente adornarsi, nè entrare nei pubblici templi, affinchè con la sua presenza non corrompa le donne oneste. Che se vi entri e se si abbigli, ordina al primo capitato di lacerarle le vesti e di strapparle gli ornamenti e di batterla, purchè non la uccida nè la ferisca. Così il legislatore vitupera questa donna e le crea una vita peggior della morte». Eschine, C. Timarco, § 183.
§ 17. La moglie accusata d'adulterio può discolparsi dando il giuramento d'innocenza al pozzo di Callicoro. «A Mnesiloco Peanese scopersi le impudicizie di sua moglie: ed egli che aveva ogni modo di appurar la cosa (o uom proprio di zucchero!) ripose tutto nell'affar del giuramento. Pertanto la donna condussero al pozzo di Eleusi detto Callicoro: ivi spergiurò e del delitto purgossi». Alcifr., Lett., III, 69.
SUI LENONI.
§ 18. Ai lenoni era inflitta la morte. «Solone comanda accusarsi i lenoni, e convinti dannarsi nel capo: perchè alle persone desiderose di peccare ma vergognose e dubbiose di trovarsi insieme, danno sfacciatamente e per prezzo occasione ed agio al delinquere». Eschine, C. Timarco.
[253]
202. Vedi nota antecedente sotto il numero 11.
203. Cfr. l'orazione di Lisia, in difesa di Eufileto, sulla Uccisione di Eratostene.
[257]
Scena come nell'atto precedente
Mènecle e Dàmocle tebano.
Dàm. Mènecle, i profughi lasciano questa notte Atene; ma le tue parole di ieri all'assemblea rimarranno scritte nel cuore dei Tebani.
Mèn. Tebe e i suoi profughi nulla mi devono. Tebe accolse me profugo al tempo dei 30 tiranni; ho sciolto il debito della ospitalità. In quanti partite?
Dàm. Pelopida, io ed altri dieci. Il resto dei profughi [258] attenderà, per seguirci, nostre notizie al confine[204].
Mèn. Lo sapete che in Tebe i tiranni son sulle guardie, che la città è ben munita, e che la impresa vostra è temeraria?
Dàm. Le nostre braccia sono gagliarde, i nostri petti sono sicuri, le armi imbrandite per i Lari sono sante. Giove le guiderà.
Mèn. E Giove dunque vi protegga. Bravi figlioli! Vorrei aver vent'anni di meno per essere con voi!... E avrò vostre nuove?
Dàm. O da Tebe liberata... o dagli inferni.
Mèn. (lo abbraccia) Addio. (Dàmocle esce) Moriranno tutti ma moriranno bene.
Mènecle solo.
(Passeggia meditabondo) Ora a colei... Quel maledetto sospetto non mi dà tregua. Poc'anzi la fantesca parea sulle mosse. Blèpo sarà ancora alla guardia... Decisamente non mi riconosco [259] più. È bastato quel sospetto molesto per mandare i miei buoni propositi all'aria!... E Giove scrutatore dell'anime m'è testimonio s'essi eran sinceri!... Ci tenevo tanto alla soddisfazione di poter dire: ho schiuso io nuove gioie, nuovi orizzonti al di lei cuore! Se ella invece ci ha già pensato da sè, la mia diventa una generosità da far ridere Atene alle mie spese...
Mènecle e Blèpo.
Mèn. (ansioso) E così?...
Bl. La vecchia è in trappola.
Mèn. Da quando?
Bl. Ora, ora. Usciva di casa frettolosa: e io salto fuor dal vestibolo: Alto là, gentil comare, arresta il passo, e vieni un momento con me. E lei: Impertinente! Sgombra dai piedi! Devo andar per la padrona! Ed io, prendendola delicatamente: Anderai dopo; intanto (comicamente [260] declamando) inoltra, inoltra Alceste nella reggia d'Admeto! E lei: Se non mi lasci la pagherai! — Io te lasciar? giammai!... Vieni, o fanciulla, e al mio signor rispondi — e dammi il foglio che nel grembo ascondi!
Mèn. (irritato) Ah! la finisci?...
Bl. Ho finito.
Mèn. E il foglio?
Bl. È qua (Mènecle afferra ansioso il foglio).
Mèn. E la vecchia?
Bl. È là.
Mèn. Entri! (passeggia, concitato, stringendo il foglio con mano convulsa) Per i fulmini di Giove! non eran dunque sospetti... (fa per aprire il foglio, poi si arresta) ho paura di aprirlo. Sentiam costei!
Mènecle, Tratta e Blèpo.
Tr. (ancora di dentro, piangente, trascinata da Blèpo) Santissime dee! Mi vuoi lasciare, furfante!...
[261]
Bl. (di dentro, declamatorio) Calma, calma, o fanciulla! Umana cosa è il pianto! (entra, tenendo per un braccio la vecchia) Ecco, o padrone, la vezzosa Tratta...
Tr. (a Blèpo) Scoppia!...
Bl. ... che da un'ora mi tormenta, perchè vuole parlare con te. (a Tratta, con far tragico) Parla! favella!
Tr. (piagnucolando) O padrone! padrone! lo giuro a Venere che non ho fatto nulla e costui mi ha indegnamente maltrattata! (Blèpo fa gesti comici negativi, come scandalizzandosi dell'asserzione) Fammi ragione...
Mèn. Comincia a dar ragione di te mezzana indegna!... Scegli tra lo staffile e il dire la verità...[205].
Bl. (ripetendo con far tragico) Scegli!
Tr. O padrone, sì la dirò, la verità, ma ne attesto le Dee che sono innocente! Io glie lo davo il foglio, e questo sfrontato senza lasciarmi tempo, ha allungato apposta le mani sul mio seno...
Bl. Seno, lo chiama! Non le credere...
[262]
Mèn. (a Blèpo) Taci, furfante. Esci. (imperioso)
Bl. Ecco la ricompensa!... (va via declamando)
E fuor di casa le fantesce indegne
Van del marito a trafficar lo scorno!...[206].
Seno, lo chiama!...
Mènecle e Tratta.
Mèn. Alle corte. E bada a non mentire. Da quanto tempo fai questo ufficio di... Iride messaggiera?
Tr. Che le Furie mi portino via, se non è questa soltanto la seconda volta.
Mèn. Ah!... (frenandosi) E quando... la prima?
Tr. L'altro ieri.
Mèn. (Il cuore me lo diceva!) E, n'è vero... da Cròbilo?
Tr. Sì, padrone.
Mèn. E Aglae t'avrà detto di non dir nulla...
Tr. Oh no! niente la mi disse...
Mèn. Ed ora da Cròbilo ci tornavi...
[263]
Tr. No, no, padrone...
Mèn. Come no? Questo foglio non lo portavi a Cròbilo?
Tr. No.
Mèn. Neghi ancora? A chi dunque, sfacciata? O confessa, o...
Tr. A Elèo.
Mèn. (balzando di sorpresa) Elèo?!! Eh? O quanti ne ha? Elèo?... (lunga pausa. Mènecle si passa la mano sulla fronte, guarda la vecchia, guarda il papiro, fa per isvolgerlo, trema di svolgerlo, s'arresta ancora) No... no... tu menti... non è possibile!
Tr. Buttami dalla torre del Ceràmico[207] se non è vero che ad Elèo lo portavo...
Mèn. (con accento lungo, doloroso) Anche Elèo!... (si copre, angosciato, delle mani il volto: poi, cupo, a Tratta) Va. Più tardi con te aggiusteremo i conti... Blèpo!... (a Blèpo che si affaccia) Tieni costei sotto custodia!...
Tr. Venere santa!
Bl. Non temere... (trascinandola via) Venere ti ascolterà... Io attentare al tuo onore!... (escono [264] continuando la vecchia a lamentarsi e Blèpo a sermoneggiarla).
Mènecle solo.
(Passeggia concitato, stringendo febbrilmente il papiro, e dando in rotte esclamazioni) Eppure l'accento di colei non mentiva... Elèo!... Elèo ch'io credevo il più leale dei giovani!... Ch'io amavo, e da cui mi credevo amato come da un figlio!... Ma a questa mia età, non vi è dunque più un solo volto d'amico, un solo affetto sincero sulla terra?... Povero imbecille!... i giovani hanno fretta e non aspettano che la mano gelida di un vecchio rechi loro la felicità! se la pigliano da sè... (terge una lagrima) Eppure costava loro sì poco l'attendere! Glie l'avrei ritardata di sì poco!... Addio, mio bel sogno! Coraggio!... (apre la lettera) È proprio lui!... (Si butta a sedere e riprende a leggere. Sul principio della lettura, legge forte [265] il GRAZIE DELLA TUA con cui comincia e che gli strappa un'esclamazione e un movimento d'ira: poi riprende convulso la lettura, ma subito alle parole successive la sua fisonomia comincia a rasserenarsi e gli sfugge qualche esclamazione rotta di commozione e di sollievo).
«Elèo!...
«Grazie della tua. Se verrai oggi, sia dunque la tua venuta per dirmi addio, in presenza dì Mènecle nostro... (a sè, commosso) (Sono ancora il loro Mènecle! Meno male!) Sì, io ti ringrazio di avere sentito alla stessa ora, nel cuor tuo, la parola che a me veniva sul labbro. Aglae ed Elèo non devono più incontrarsi sotto lo stesso tetto, fino a che Mènecle vive (fra sè, approvando, con inflessione fra comico e intenerito) (Ciò è onesto!) Ah sì, mio Elèo, noi non possiamo obliarlo ciò che dobbiamo a quella testa canuta. (Mènecle si asciuga una lagrima) Ed io più di te: tu lo sai, tu, testimone della sua astuzia magnanima, per indurmi a riprendere una libertà, che facesse [266] lieti i miei giorni serbando illibato il mio nome... (Come? come?) tu che meco leggesti il suo affettuoso addio... (Oh! i mariuoli!) (Mènecle sorride di gioia e commozione) O Elèo! Vide la Grecia eroi ed eroine, e sagrifici illustri: non mai ne vide di più veri e più nobilmente modesti! È dolce la morte per la patria, sapendo di dare ai secoli il nome: è dolce a vent'anni la morte per la donna amata, sapendo di averne l'amore: nessun Greco dai capelli bianchi affrontò per una fanciulla ciò che è ben peggio della morte: vivere vecchio, solo e sconsolato. (Mènecle vinto dall'emozione, s'asciuga una lagrima e sorride) (Ma come sa scrivere quella birichina!) Oh, io rimarrò con Mènecle fino all'ultimo de' suoi giorni... (Se io lo permetterò!) superba che tu mi approvi... (Ah lui approva! Bravo!) Farò di tutto per consolare quell'anima generosa che ha amato troppo in gioventù per non sentir bisogno di qualcosa che le rammenti il passato. Vedi, ieri, col solo aver dato al suo cuore la occupazione [267] della gelosia... (La briccona!) il povero vecchio pareva tutto cambiato: a quest'ora, scommetto, non pensa già più al suo triste disegno, inseguendo questa piccola cura che lo molesta e lo alletta, gli sveglia il ricordo di emozioni antiche. Forse già sospetta di Cròbilo: e io tollero per ora le visite di quell'imbecille... (Cròbilo fa progressi!...) che anch'oggi verrà... Ma non confondiam la commedia con le cose serie. Addio, Elèo, addio, amico. Gli Dei ti proteggano... e ti serbino un giorno... (Ti serbino...?) (Mènecle che man mano verso la fine è venuto leggendo sempre più rapido e sicuro, con volto ilare e accento concitato per gioia ed emozione, giunto a questa parola, improvvisamente si arresta, ritorna scurissimo in volto e depone il foglio con espressione angosciosa. Una visibile lotta si combatte nel suo animo. Parecchie volte fa atto di padroneggiarsi per continuar a leggere il resto della frase, e altrettante esita. Infine con uno sforzo penoso ma risoluto pone l'occhio sulla carta, e alle parole che terminano la frase e la lettera balza in piedi [268] con un urlo di gioia)... all'onor della Grecia!» Ah! Molto ben detto.
(Mènecle, rasserenato, contento, passeggia su e giù discorrendo seco con vivacità febbrile) Ma non si dirà mai che Mènecle a sessantacinque anni si è lasciato sopraffare in generosità da due fanciulli! E quella birichina che s'intende di burlarmi, la burlerò io!... Bravi figliuoli! Che Giove vi benedica — per il bene che volete a questo povero vecchio... (dopo una pausa, intenerito) e per quello che vi volete tra di voi! Quanto a quella buona lana di Cròbilo — l'imbecille Cròbilo — eh, se stesse a lui, non lo è poi tanto — farà i conti con Aglae... e con sua moglie... (va all'uscio e chiama) Blèpo!
[269]
Mènecle, Blèpo e Tratta.
Mèn. (a Blèpo) Conduci qua la vecchia. (Blèpo esce) Questa lettera a ogni modo è troppo bella e merita che Elèo la veda! Queste cose... a quell'età... fanno bene!... educano il cuore dei giovani!...
Bl. (di dentro) Coraggio! che il padrone è allegro! Tergi l'amaro pianto!...
Tr. (ancora piagnucolosa) Oh mio buon padrone...
Mèn. Non tante smorfie... Riprendi questa lettera e riportala al suo destino. E Aglae non sappia che m'hai parlato.[208]
Tr. Sì, sì, padrone!
Bl. (a lei che se ne va, nell'uscire assieme) Vedi? «dopo le nubi — nella reggia d'Admeto il sol risplende...»
Tr. (a Blèpo nell'andarsene) Lo vedi se ero innocente, o birbante?...
Bl. (fingendo indignarsi, con posa tragi-comica) Fanciulla!...
[270]
Tr. Faccia da gufo!...
Bl. Vezzosa Venere!... io attentare al tuo seno!... (vanno via bisticciandosi, la vecchia collerica e Blèpo gravemente canzonatorio).
Mènecle solo.
Ed ora... Oh! il gnomone segna la nona... Se Cròbilo ha da venire, a momenti sarà qui. Adesso gli lascio più tranquillo il posto... e lo servo io... Ah, eccolo... l'imbecille Cròbilo... (s'avvia ad uscire dalla porta interna, ch'è nel mezzo) Non guastiamogli i progressi!... Quanto ai due ragazzi poi... (Nello andarsene, si arresta ad un tratto, essendosi fermato il suo sguardo sopra una vecchia panòplia appesa alla parete. La sua faccia, dianzi rasserenata, si è rifatta seria, triste, pensosa. Sembra assorto in qualche improvvisa idea. Distacca macchinalmente dalla panòplia una vecchia spada, la sfodera, e l'esamina lungamente) Quanta ruggine!... (cogitabondo, [271] brandisce due o tre volte la spada, squassandola, come per provar la forza del braccio. Poi, come soddisfatto della prova, con gesto rapido, la rinfodera, la rimette a posto, va concitato ad un tavolo, scrive poche righe, poi chiama) Blèpo! (Blèpo compare) Questo a Pelopida!... (gli consegna una tavoletta quindi va via ripetendo con accento di soddisfazione commossa) Quanto ai due ragazzi poi... (esce).
Cròbilo solo.
(Voce di fantesca di dentro) Aspetta qui — verrà a momenti.
Cròb. (si avanza guardingo, pauroso, dal peristilio a destra, in punta di piedi, spiando intorno) La piazza è deserta. (rassicurato) Meno male!... (tentennando il capo) Curiosa! La mi fa venir qui — evidentemente è un convegno — e invece di ricevermi nelle sue stanze, la mi riceve nell'aula comune... Basta! speriamo avrà preso [272] le sue misure... Non ci avrei nessun gusto di incontrar Mènecle. Mi squadrava ieri e mi contava quegli atti di ferocia, con una disinvoltura... Brrrr!... Mènecle sarà un buon amico, ma non è uomo mite nell'arte di governo... e non è quello il sistema di cattivarsi le popolazioni!... Ma già, nelle sue cose è un po' strambo... non l'ho mai capito troppo bene... Quello che capisco benissimo è che Aglae con lui non se la intende... Ah, ella è qui... Numi! come è bella! par Venere che esce dalle spume!
Cròbilo e Aglae.
Agl. (entrando con far cordialissimo, disinvolto) Salute, buon Cròbilo!...
Cròb. (misterioso) Ssssss!...
Agl. (forte, mostrando sorpresa) Che è?...
Cròb. Ssssss! (sottovoce, facendole segno di parlar più piano) C'è del nuovo.
[273]
Agl. Nuovo di che?...
Cròb. (con gesti) Tu non sai...
Agl. Che cosa?
Cròb. Mènecle... (parla esitante, sconcertato dalla tranquillità con cui Aglae lo guarda) ha dei sospetti...
Agl. (disinvolta) Fa benissimo. È il dovere di un marito di averne.
Cròb. (sconcertato) Eh? (Cosa dice?...) E... tu...?
Agl. E il dovere di una moglie è di lasciarglieli.
Cròb. (tentennando il capo, fra sè) (Comincio... a non capire). (ad Aglae) Ah... già...
Agl. (senza darsi per intesa della sua sorpresa) Meglio in faccia a Giove custode dei giuramenti essere moglie sospettata... (moto di compiacenza di Cròbilo) ... anche ingiustamente... (gesto di disappunto di Cròbilo) dal marito, che essere marito ingiusto colla moglie...
Cròb. (rasserenasi) (Ora mi raccapezzo!) Ah sì! Mènecle è ingiusto, più che ingiusto... con te... (E governava le isole in quel modo...! Prudenza! Battiamo largo!...) Però, se egli pensasse a risarcire...
[274]
Agl. Credi tu che gli anni di una fanciulla sciupati nella solitudine si risarciscano?... Tu non sai...
Cròb. So, so!... (Povera ragazza!) Ma tu sola non sei... vi hanno cuori che ti sanno compiangere...
Agl. (con accento vibratissimo, sdegnoso) Compiangere?... Aglae non ha bisogno di compianto. Alla mia età, si sente; alla mia età si ama, intendi?...
Cròb. (guardandola con compiacenza) (Eh! come lo dice!...)
Agl. (incalzando) Alla età mia, c'è qui dentro un cuore che batte, c'è un'anima che ferve, che soffre, che s'irrita, che ha bisogno del suo lembo di mondo e di cielo!... E quando la povera anima piange trovandosi al buio, quando si lagna perchè trovasi al chiuso... la si compiange! Bel conforto! tenetevelo!
Cròb. (Ha ragione!) No... Aglae... senti...
Agl. (non dandogli retta, e in vista di sempre più accalorarsi) No... non è questo che essa chiedeva! Questa oscurità mi intristisce: datemi [275] la mia parte di luce! questo chiuso mi soffoca: datemi la mia parte di aria!... Aprite! aprite! Questo volevo!... (si abbandona come spossata dallo sforzo, su di una sedia: poi dopo una pausa, volgendosi a Cròbilo) Oh, Cròbilo... perdona... mi dimenticavo e ti ho annoiato co' miei lamenti...
Cròb. Annoiarmi! ma va avanti!... ma va avanti! Parlano in tua bocca le Sirene!
Agl. E or che ci penso, ho avuto torto di rispondere alla tua... e di farti venir qui...
Cròb. Perchè?
Agl. Perchè il favore che avevo a chiederti...
Cròb. (fra sè, malizioso) (Pretesti!...).
Agl. ... tu non puoi farmelo...
Cròb. (concitato, insinuante, carezzevole) Ecco... vedi... ciò si chiama essere ingiusti... Aglae, non hai mai udito dire che le anime colpite dalla stessa sventura tendono, per istinto, a ravvicinarsi? Io, dianzi, ti ascoltavo commosso...
Agl. (a parte) (Brutto ipocrita!) E tu...
Cròb. E chi ti dice che anch'io non sia uno [276] spirito sofferente che inseguiva uno splendido ideale, strappatogli dalla triste realtà? Il mio ideale era un'anima che comprendesse la mia... si chiamava: la bellezza, la felicità, l'amore...! la realtà si chiama... (con voce cupa) Mìrtala!...
Agl. (a parte) (Qui ci vorrebbe lei!)
Cròb. Io, vedi, m'ero detto: Ecco, o Cròbilo, gli Dei t'hanno dato la generosità, la virtù...
Agl. (la modestia...)
Cròb. ... tu hai da essi una bella missione nel mondo. Troverai sulla tua strada la menzogna, e la smaschererai; troverai la sapienza, le strapperai i segreti; troverai la gloria, le darai le corone; troverai la virtù, la assisterai; la sventura, la consolerai...
Agl. (... tua moglie, la tradirai...)
Cròb. ... Aglae, tu sei sventurata... e mi vuoi togliere il conforto di esercitare sulla terra... la mia missione?
Agl. Oh no... ma...
Cròb. Ne dubiti...
Agl. No, ma, vedi, è una missione pericolosa [277] la tua. L'ultima volta che fui a Corinto, passando in lettiga dalla piazza del mercato, vidi la casetta di Antifonte l'oratore, quello, sai, che Atene condannò a morte poco tempo prima di Socrate... E mi fermò la scritta che era ancora sulla porta: «Ufficio di consolazioni. Qui dimora Antifonte, il quale ha la virtù di guarire con parole gli addolorati...»[209] La tua missione medesima! e l'umanità glie n'è stata così riconoscente, che lo ha condannato a bere la cicuta...
Cròb. Alla quale noi rinunziamo! L'umanità è stata sempre ingrata. Ma Antifonte guariva con le parole... e non coi fatti...
Agl. (suggestiva, velatamente ironica) E tu invece... uomo di fatti, sei!... Ma da quando questa missione il tuo buon demone t'ha suggerito di esercitarla?... Fino a ieri nulla ne seppi... e poi, Aglae, supposto avesse bisogno di un consolatore, vorrebbe prima accertarsi che sia quello veramente che ebbe quest'incarico dai Numi: che sappia indovinar nella sua anima ogni fremito de' suoi desiderî, ogni [278] sussulto delle sue speranze, ogni lagrima dei suoi dolori... (dopo dette queste parole con voce insinuantissima, mutando a un tratto bruscamente accento) ... vedi bene che tu non puoi essere quello...
Cròb. (vivissimo) E se lo fossi?...
Agl. Se lo fosti anche... non ne troveresti il tempo...
Cròb. (incalzante) E se lo trovassi?...
Agl. (fingendosi perplessa) Se lo trovasti... (con pentimento brusco) E poi no...
Cròb. Mettimi alla prova...
Agl. Davvero? E tu sai...
Cròb. So tutto.
Agl. E acconsentiresti...
Cròb. Se acconsento!... (fra sè, un po' sconcertato) (Consentire??... che diamine?...)
Agl. Oh grazie!... Perchè capisci... dal momento che tu sai tutto...
(Batte su queste parole con insistenza maliziosa).
Cròb. (impaziente, incalzantissimo) Tutto, tutto...
Agl. Non ci sei che tu... E tu dunque gli parlerai?... quando?...
[279]
Cròb. (sbalordito) Parlare... a chi?...
Agl. (con tutta naturalezza) Ma a lui...
Cròb. (sempre più sbalordito) Già... già!... Ma... lui... chi?...
Agl. Ma a Mènecle...
Cròb. Eh?!... (dà uno sbalzo di spavento) (Quella ci mancherebbe!... con quel po' po' di sentenze!...) (sconcertatissimo, e pure sforzandosi nasconder l'imbarazzo) Ah... già, già... Ma...
Agl. (fingendo non accorgersi del suo turbamento) Ma tu vedi che da qui bisogna uscirne, per le Dee!... bisogna uscirne!... Esiti? Ah!... lo sapevo...
Cròb. (con uno sforzo) Ma ti pare?!... Niente affatto!... (facendo la voce risoluta e cercando farsi coraggio) Cròbilo non indietreggia... e se tu lo vuoi... (vorrebbe dir qualche cosa, ma gli manca il coraggio) Ma permetti una parola...
Agl. (impaziente) Cosa?...
Cròb. ... nel tuo interesse... mi pare... non ti pare... parlargli io... fare uno scandalo...
Agl. Scandalo? (fingendo sorpresa) Scandalo il dirgli che fa male a trattare così la sua compagna, [280] sposata innanzi agli Dei patrî ed agli Dei del focolare?... il dirgli, coll'autorità di un amico, che non son questi i giuramenti innanzi all'arconte; scandalo il dirgli che sua moglie soffre...
Cròb. (balzando sbalordito) Eh?!
Agl. ... scandalo il ricondurmelo?...
Cròb. (sbalordito più che mai) (O Febo! o spiriti! lo ama!) E... e... questo era... che volevi?
Agl. (mostrando a tutta prima sorpresa della sua sorpresa) E che altro... dunque... imaginavi?... Ah!... (quasi un pensiero le balenasse, si fa improvvisamente scura in viso, e s'appressa a Cròbilo, figgendogli gli occhi in faccia, e parlandogli con voce lenta, severissima) Che altro imaginavi che il labbro di Cròbilo, marito di Mìrtala, potesse osar di confessare all'orecchio di Aglae, la sposa di Mènecle?...
Cròb. (interdetto, confuso) Io... nulla... nulla... Ma le tue parole... questo invito...
(Da qualche istante è entrata in iscena Mìrtala introdotta adagio da Blèpo, che le fa dei gesti maliziosi, sulla soglia, additandole Cròbilo; vedendo questi, Mìrtala si arresta, e ritraesi alquanto).
[281]
Agl. (seria e dignitosissima) Il mio invito fu un torto... se ebbi torto di crederti amico leale di Mènecle e mio... Ma se Mènecle...
Cròb. (spaventato, supplichevole) No!... no!... (concentrandosi e meditabondo, coll'indice sotto il naso) (Ma dunque... avrebbe quasi l'aria di essere una canzonatura?!...)
Agl. (proseguendo) Ma se tua moglie... fosse qui... (Aglae s'è accorta della presenta di Mìrtala) se ti sentisse... che cosa direbbe di questa tua improvvisa meraviglia?...
Cròb. (prorompendo, con voce risoluta, irritata) O per gli Dei! se mia moglie mi sentisse... le direi...
Detti e Mìrtala (già in iscena da qualche minuto).
Mìrt. (si è avanzata dalla soglia lentamente, e non vista da Cròbilo, le si è posta a lato, senza guardarlo, ritta, la testa alta, le mani sui fianchi) Sentiamo!
[282]
Cròb. (voltandosi con ispavento alla voce di Mìrtala) (Mia moglie! son morto!) (cercando ricomporsi dalla paura, e uscirne, alla meglio, con accento garbato) Niente!... direi che la sposa di Mènecle ha dato a Cròbilo una prova di stima e di fiducia che lo onora... (a denti stretti) (Questa non me l'aspettavo!) Cara Mìrtala, sai... (tenta parlarle con fare sciolto e sorridente, ma lo sguardo minaccioso di Mìrtala, fisso su di lui, lo sconcerta) (Che occhiacci! Giove me la mandi buona!)
Mìrt. (con voce lenta e severa, squadrandolo) So... E spero che l'incarico lo adempirai... (abbraccia Aglae) Grazie, buona Aglae! Non dubitavo di te.[210] Eh, pur troppo noi donne siam sempre circondate di insidie!... Quanto a questo Alcibiade sbagliato... (squadrando Cròbilo) regoleremo i conti a casa...
Agl. A tempo sei giunta, cara Mìrtala. Ma sii buona con Cròbilo. Io gli chiesi un favore che egli meglio d'altri può rendermi... fui forse indiscreta... ma la sua bontà fu maggiore della mia indiscrezione... (a Cròb. cordialissima) [283] Grazie, Cròbilo! (velatamente ironica, affabile) Oh, sì, gli Dei ti hanno data una ben nobile missione! Troverai la sventura, la soccorrerai;... le mogli abbandonate... ai lor mariti le renderai...
Cròb. (con ismorfie) (Nella mia missione questo non c'era...)
Agl. Sicuro, Mìrtala, ei m'ha promesso di rendermi il mio Mènecle... è un'anima bella, il tuo Cròbilo... Sii buona con lui.
Mìrt. Non dubitare, non dubitare. Se non fossi buona, gli avrei portato quattro talenti di dote...
Cròb. (premuroso, tentando ingraziarsela) E la possessione di Egìna... terreni aratorî di prima qualità...
Mìrt. (fissandolo severissima) Precisamente. E che i colòni trascurano e abbisognano molto di sorveglianza. Ci andremo insieme...
Cròb. (con esclamazione comica di angoscia) (Ohimè!... l'esilio!... come Aristide... ma almeno Aristide era solo!...)
Mìrt. Frattanto, in attesa di parlar con Mènecle, ti rincrescerebbe accompagnarmi?
[284]
Cròb. Ma eccomi!... (fra sè, ripetendo dolorosamente) (L'esilio!... come Temistocle!)
Mìrt. Addio Aglae...
Agl. Addio Mìrtala. Grazie, Cròbilo...
Cròb. (con uno sforzo sopra di sè) Nulla, nulla, mio dovere... (Decisamente... era proprio una canzonatura!...) (ad Aglae) Nulla!... (a Mìrtala) Eccomi... (con comica angoscia) (L'esilio!... come Alcibiade!)
(Si lascia macchinalmente condurre via da Mìrtala, con aria di suprema dolorosa rassegnazione).
Aglae sola.
(Seguendo Cròbilo dello sguardo) Imparerai meglio un'altra volta la missione del consolatore... (pausa; poi fattasi triste, pensierosa, sospirando) Eppure, soltanto la povera Aglae lo sa, se il suo cuore avrebbe oggi bisogno davvero di conforto!... Coraggio!... Fra breve egli sarà qui a dirmi addio... Povero Elèo! (leva dallo strofio un piccolo papiro e legge)
[285]
Te fuggo com'esule che disse l'addio...
Ma volge la testa tornando a guardar!...
E fugge... ma il segue più lungo il desio...
E fugge... ma indietro vorrebbe tornar!
Mia triste, mia triste battaglia del core!
Scrutarla non cerchi pupilla di uman!
Lasciatemi questo mio povero amore!
Per viverne solo, lo porto lontan!
Egli è qui!... Venere santa, dammi forza tu!..
Aglae ed Elèo.
Agl. (con effusione triste) Elèo!...
El. Aglae! Ebbi la tua. (commosso, cercando padroneggiarsi e parer calmo) Grazie... Reco gli addii a Mènecle e a te.
Agl. (triste, commossa) E tu parti...
El. Stanotte.
Agl. (vivamente inquieta) Per dove? con chi?
El. Con Pelopida tebano e i compagni suoi. (esclamazione di Aglae) Tebe accolse mio padre esule al tempo dei tiranni: è giusto che [286] nell'ora delle sue sventure, il figlio paghi il debito dell'ospitalità...[211]
Agl. (vivissimamente) E tu...
El. E io seguirò i fuorusciti nella più santa delle imprese.
Agl. (dolorosamente esclamando) O Dee!
(Si abbandona sur un sedile, sopraffatta dall'emozione e piange).
El. Avresti preferito sapermi vivere, da te lontano, una vita oscura, ignava, ingloriosa? Ignavia per ignavia, tanto allora varrebbe la colpa!...
Agl. (asciugandosi gli occhi e cercando padroneggiarsi) No, no! Perdona... hai ragione... Ma tu sei eroe, figlio di eroi, ed io, dopo tutto, non sono che una fanciulla. Perdona. Vedi. Sono forte ora. (parla con voce rotta, reprimendo i singhiozzi) Ti guardino i Numi! Oh nessuna preghiera sarà mai loro salita più fervida delle mie! Ti guardino i Numi! E ricordati di Aglae!..
El. Ricordarmi?! La tua lettera verrà meco come la voce del buon genio mio. Le tue parole mi han fatto triste insieme e superbo. Tutta [287] la mia esistenza, dissi a me stesso, mi parrà spesa bene, se sarà spesa a meritarmele. Quando le ore mi passeranno più tristi, dirò: Coraggio!... la stima di Aglae è con te. Quando la lontananza mi parrà più incresciosa, penserò che è per Aglae che l'affrontai: e che, se al mio nome, tra i Greci, verrà qualche gloria, Aglae lontana lo saprà. Così avrò una ambizione nella mia vita, una luce sulla mia via. E se un giorno sentissi le forze mancarmi, e farmisi uggiosa la luce cara del dì... vorrà dire che Aglae m'avrà dimenticato...
Agl. Oh Elèo! sei cattivo! e non dovresti esserlo con la povera Aglae in quest'ora!... Ecco, io avevo preparato un bel ricordo che avrebbe fatto qualche volta sovvenire ad Elèo la sua piccola sorella d'infanzia: così Aglae, pensavo, fida restando al dover suo, potrà viaggiar senza rossore in compagnia dell'amico de' suoi primissimi dì... (mentre Aglae parla, come fra sè, con voce carezzevole, infantile, ha nelle mani un piccolo ritratto all'encausto, [288] che si è levato dallo strofio, e che va guardando) vedrà con lui altro cielo ed altre città della Grecia: e come egli la vedrà sempre sorridergli così... dello stesso sorriso, fissarlo sempre con lo stesso sguardo, come uguali rimarran sempre queste dipinte sembianze, così uguali per Elèo rimarranno la memoria ed il cuore di Aglae...
El. (vivissimamente, facendo atto di prenderle il ritratto dalle mani) Il tuo ritratto!... Oh grazie!
Agl. (con umore) Grazie niente. Mi hai detto quelle brutte parole...
El. Aglae!
Agl. Ho fatto male a dirti di venire. Era meglio non vederci... Va... lasciami...
El. Ma non prima di aver meco questo pegno, che non darei (glie lo toglie con affettuosa violenza: Aglae se lo lascia togliere, senza guardar Elèo) pei tesori della terra! non prima di averti detto che Elèo parte, ma la sua mente e la sua anima rimangono qui:... qui, presso al piccolo domestico altare, dove orfano appresi ad amare i soli esseri che mi amarono [289] al mondo e ad accettare per essi il dolore... a comprendere, per essi, il sacrificio!... (con trasporto vivissimo) Oh andassi fino agli ultimi confini del mondo ed agli Espèridi... lascierà prima Pallade la nostra rupe, che queste soglie, ove tu vivi, il mio pensiero!...
Agl. No, no, Elèo!... capisco di chiedere troppo... troppo più che io non deva, al tuo cuore ed alla tua memoria... Tu sei bello, sei giovane, e non potrai, non dovrai vivere sempre solo...
El. (con rimprovero) Aglae!...
Detti e Mènecle.
(Mènecle si è affacciato dalla porta nel fondo, mentre Elèo ed Aglae proseguono il lor dialogo sul davanti della scena. Rimane muto, le braccia conserte, il volto tra pensieroso e sorridente, sulla soglia a guardarli).
Agl. No... lasciami dire... Non ti accuso... Il tempo non muterà la tua tempra, ma muterà molte cose intorno a te... Mènecle vivrà, [290] e glielo auguro, buon vecchio! molti anni...
El. (melanconico) Oh... anch'io...
Agl. ... e il giorno che io sarò libera di nozze, io non sarò più una ragazza per te. Breve è la stagion della donna — e s'ella non la coglie — passata quella, se ne sta seduta a consultar gli auguri[212]. Le rose della giovinezza in quel dì saranno svanite, e a te, nel fior degli anni, non resterebbe a sposar che la memoria e l'ombra di colei che fu un tempo la bella Aglae... una brutta vecchia grinzosa... Oh, sarebbe troppo pretendere...
Mèn. (di dietro, tentennando il capo) (Infatti...)
Agl. ... e faresti la figura di Cròbilo. Direbbero che m'hai sposata per godere la mia dote, la eredità di Mènecle. No, no, promettimi solo che il giorno in cui il tuo cuore sarà stanco di attendere... rimanderai ad Aglae questo ricordo...
El. Fino a che tra i viventi mi rischiari il sole, questo ricordo starà con me. Verrà con me nella pugna, poserà con me sotto la tenda. Oh gli anni possono involarci la cara giovinezza, [291] spegnere le febbri, i delirî dei sensi, ma non ispegneranno un affetto reso puro e santo dal sagrificio...
Mèn. (È nato per far l'oratore!...)
El. (con forza) ... prima che io rinneghi la fede di questo affetto, possa Nettuno farmi morire come Ippolito... e casto come lui!...
Mèn. (Povero ragazzo! te ne accorgeresti!...)
Agl. (buttandosi al collo di Elèo) Oh... lasciamo questi giuramenti...
Mèn. (To'! ha più giudizio di lui!...)
Agl. Sia dell'avvenire e del cuor tuo quello che gli Dei vorranno. Io ti ringrazio del conforto che m'hanno dato le tue parole. Esse mi renderanno più forte in questa prova... Che se vi avessi a soccombere... (con voce triste, infantile) dirò a Mènecle che mi faccia un bel sepolcro tutto bianco... bianco... e tu ci verrai...
El. Oh taci! Non parlar di morire; dimmi che in te la memoria di quest'ora non morirà... Me lo prometti?
Agl. (volgendosi all'altare domestico) Qui all'ara del Dio che ci ascolta...
[292]
El. E mi giuri che se Mènecle...
Agl. (senza guardar Elèo, esitante, gli occhi a terra) ... il buon vecchio Mènecle...
Mèn. (Poverina! ci ha aggiunto anche il buono!..)
Agl. (arrestandosi e riprendendo premurosa) ... che noi dobbiamo amare, finchè vive, come fosse nostro padre, n'è vero?
El. (triste, a capo basso) Oh, sì... come un padre...
Agl. (riprendendo esitante il filo della frase) ... se il buon vecchio Mènecle ci venisse un giorno rapito dalla Parca triste...
El. ... inesorabile!...
Agl. ... scellerata!...
Mèn. (c. s.) (Si sfogano colla Parca... meno male...)
El. ... e che io fossi vivo...
Agl. E io anche...
El. E tutti due...
Agl. E tutti due quella perdita... amara... (appoggia la voce sull'amara, quasi volesse correggere un pensiero colpevole: Elèo assente col gesto) ci trovasse ancor giovani... in età da marito...
(Sempre esitante, a occhi bassi, come avesse paura o rimorso di compier la frase)
[293]
Mèn. (Giustissimo!... a maritarsi vecchi, ecco ciò che succede...)
El. Quel giorno dunque...
Agl. Che il buon Mènecle...
(Mènecle si avanza fra i due giovani).
Mèn. (proseguendo la frase, a voce alta) ... andrà all'altro mondo...
El., Agl. (sgomentatissimi entrambi al vederlo) Ah!...
Mèn. ... speriamo, neh, figlioli, che sia lontano — quel giorno piangeremo prima amaramente la sua partenza e poi potremo sposarci senza scrupolo. Ma sentite, neh! (picchiandosi lo stomaco) che polmoni e che cassa di stomaco! Ce n'è ancora per trent'anni!... Se aspettate me state freschi!
Agl. (buttandosi alle sue ginocchia) Oh perdono, Mènecle!...
El. (idem) Perdono... padre mio...
Agl. Ti giuro, per le Dee, che...
Mèn. (rialzandoli entrambi con affabilità affettuosa) Su, su, ragazzi!... ma che giuramenti e che perdoni! So tutto... Grazie a te, Elèo, della [294] tua lealtà; grazie, Aglae, della tua fedeltà al tuo dovere. Soltanto, speriamo (con bonarietà comica) non mi farai più dell'altre scene di gelosia...
Agl. (mortificata chinando gli occhi) Mènecle!...
Mèn. No, no — non ti rimprovero... benchè, per Giove, lo meriteresti, per insegnarti a frugare nelle carte del marito e a leggerne le lettere...
Agl. (sorpresa, mortificata) Ah!...
Mèn. ... e a scriverne dell'altre ai giovinotti, a sua insaputa...
Agl. (mortificata) Come... tu...?
Mèn. (con bonarietà comica e imperiosa) Silenzio!... Sappiamo tutto. Se la moglie fa la curiosa, il marito ha diritto di fare il curioso... (a Elèo) Neh, ricordalo bene anche tu, una volta che sii suo marito...
Agl. (supplichevole) Oh... Mènecle!...
Mèn. Silenzio!...
El. (interpretando anch'egli come ironia le parole di Mènecle) Mènecle, punisci me... ma risparmia a me ed a lei le tue ironie...
[295]
Mèn. Ma che ironie?!! Le tue vuoi dire. È una moglie divisa in due — a me in corpo, a te in effigie — non è un'ironia? E cosa credi, che Mènecle sia feroce come Teseo, da lasciar morir casto il povero Ippolito? Cosa credete (ad entrambi) che Mènecle sia così egoista, così disonesto, così imbecille da accettar la elemosina del vostro sagrificio? (Mènecle, stando in mezzo ai due giovani, ha proferito queste parole con impeto e voce brusca; i due giovani, sotto la sfuriata del vecchio, tengono mortificati la testa e gli occhi bassi; quando al finir delle sue parole s'attentano a levarli furtivamente verso di lui credendolo in collera, s'accorgono che Mènecle sorride del loro inganno, e li guarda affettuoso facendo lor cenno, delle due braccia, di appressarglisi) Voi altri siete così matti che lo avreste anche mantenuto... ma poi... poi, neh? (si volge ad Aglae affettuosamente canzonandola e rifacendole la voce) le forze mancavano... e ci voleva il sepolcro bianco... tutto bianco... (con rimprovero comicamente brusco) farmi far di queste spese!... [296] Ohibò!... Tu... (sempre ad Aglae) in castigo della burla che m'hai fatto, — e tu in castigo (ad Elèo) del non avermi mai detto niente — quando si ama la moglie si avvisa il marito — vi mariterete... E così imparerete.
Agl., El. (gettandosi entrambi commossi al collo di Mènecle) Ah Mènecle, mai!
Mèn. (con voce grave, liberandosi dall'abbraccio dei due, piangenti di commozione) Preferireste vivere, aspettando senza volerlo, senza saperlo, la morte mia?... (ad Aglae) Oggi tu ed io andremo dall'arconte, a deporre la scritta del divorzio insieme: e ci verrai a fronte alta, perchè tu rimani nella mia famiglia... (movimento di Aglae e di Elèo) già, nella mia famiglia... tu sposi mio figlio adottivo...[213].
Agl., El. Ah!...
Mèn. (proseguendo, ad Elèo) ... se non ti rincresce passare dalla tua nella mia tribù,[214] verrai meco dai fràtori del borgo di Alopéce, e sarai iscritto nel registro della fràtria mia, come mio figlio, — erede con lei (accennando Aglae) [297] delle mie fortune, partecipe delle cose sante e sacre[215]. Porterai in nome Làmaco: il nome di mio padre caduto da valoroso a Samo... e nella famiglia di Mènecle al nome non si mente...
El. (abbracciandolo commosso) Padre! padre mio!...
(Aglae piange col volto nelle mani. Elèo vorrebbe dir qualcosa. Mènecle indovina il suo pensiero e lo previene).
Mèn. Quanto al tuo partire... c'è tempo...
El. (sorpreso) Che?
Mèn. Pelopida... gli ho parlato io. Non ne vuol seco più di undici. (con inflessione grave e seria) Li ha scelti già... (gesto vivo di protesta di Elèo) Non temere! Verrà il tuo giorno...
Agl. Oh Mènecle, la tua generosità...
Mèn. No, no, adagio, a parlare di generosità. In questo mondo la si scambia con la imbecillità; ed io invece, andate là, che i miei conti li ho fatti bene. Povero vecchio abbisognante, per i miei tardi giorni, di un affetto che li consoli, dovrei amareggiarmelo col pensiero che il mio vivere impedisce la vostra [298] felicità? E che questa idea vostro malgrado si inframmetterà tra me e voi, vi renderà a vostra insaputa l'affezione a Mènecle un peso? Scambierei questo affetto vostro, così sincero e così puro, col bel conforto di sapere che il dì quando la Parca (sorridendo ad Aglae) — la scellerata Parca! — mi farà quel tal servizio, un sospiro non confessato di sollievo sfuggirà dai petti delle due sole persone che mi voglion bene? E mentre è sì dolce il nome di padre, dovrei vivere tutti i dì fra il dolor di non esserlo... e la tema di divenirlo!... scambiar la paura di avere un figlio con la gioia tranquilla di lasciarne, partendo, qui... due?
El., Agl. (vivissimamente) Partendo?
Mèn. (ad Aglae con voce affettuosa) Non sei più sola... Che resto a far qui? Ricordi le tue parole? «Quando fu il dì del bisogno, ci vollero questi vecchioni per liberare la città e le sue donne!» Laggiù a Tebe ci è bisogno. (con inflessione mesta, solenne, ai due giovani che [299] fan per trattenerlo e lo guardano attoniti, commossi) Ci vogliono questi!... Vivere liberando donne, morire liberando città!
(Quadro).
CALA LA TELA.
[303]
204. Dopo che il tebano Pelopida ebbe persuasi i suoi compagni di esilio all'impresa di partirsi da Atene per muovere alla liberazione di Tebe «mandaron essi nascostamente a Tebe ad avvertire dei loro disegni gli amici ch'eran ivi rimasti: tra questi Carone ed Epaminonda..... Stabilitosi quindi il giorno dell'impresa, parve bene ai profughi che l'un d'essi, Ferenico, raccogliendo gli altri, facesse sosta in Triasio, e che pochi de' più giovani arditamente si arrischiassero di entrare in città: e se a questi incogliesse mai qualche sinistro dalla parte de' nemici, gli altri tutti aver cura dovessero de' figliuoli e de' padri loro. Il primo che si esibì ad andarci fu Pelopida, e poi Melone e Dàmocle e Teopompo, stretti fra loro co' vincoli d'amicizia e di fede, ed emuli sempre della gloria e del valore. Essendo dodici in tutto, dopo aver abbracciato quelli che restavano addietro, e mandato innanzi un messo a Carone, si incamminarono succintamente vestiti... ecc. ecc.» Plutarco, in Pelopida.
[304]
205. Cfr. nell'arringa di Lisia per la uccision di Eratostene, il racconto del marito Eufileto: «Tornato a casa, ordinai alla fantesca di seguirmi in piazza; e condottala ad uno de' miei famigliari, le dissi che sapevo tutto quel che succedeva in casa mia. A te, quindi, soggiungevo, sta lo sceglier fra i due: o passata per le verghe esser condannata a rigirar la mola, tra patimenti senza fine, o confessando la verità andar illesa, e aver da me il perdono de' tuoi delitti. E quella sulle prime negava fermamente e diceva facessi pure di lei quel che volevo; lei non saper nulla: ma quando nominai Eratostene, e dissi che costui era il frequentatore di mia moglie, allora si sbigottì, giudicando che io sapessi tutto. E cadendo alle mie ginocchia, e fattasi da me promettere che non le avrei fatto del male, confessò...» — Uccis. Erat., 18-20.
206. Cfr. Euripide, Ippolito, 645-650.
207. Cfr. Aristof. Rane, 130 seg. — Dalla torre alta del Ceràmico buttavano la face per dare il segnale della corsa delle lampade: di che nelle note all'Alcibiade.
208. Cfr. Lisia, Uccis. di Eratost., 21.
209. Plutarco, Vite dei X Oratori, in Antifonte.
210. Cfr. Alcifr., Lett. 1, 29. Glicera, di Menandro gelosa, scrive a Bacchide: «Conosco, o Bacchide, la reciproca amicizia che passa tra di noi due: ma d'altra parte, o carissima, temo non tanto di te, che ti so di costumi onesti, quanto di lui stesso: chè egli è donnajuolo al sommo. Ma tu mi taccierai di ombrosa... Deh, scusa, diletta amica, simili gelosie da amanti...».
[305]
211. Furono gli Ateniesi benevoli ai profughi Tebani, «ricompensar volendo i Tebani: perocchè questi principalmente contribuito aveano a ristabilirsi in Atene il governo popolare e avean decretato che se alcuno portando l'armi contro i tiranni passasse per la Beozia, nessuno di quelli che ivi abitavano mostrar dovesse di sentire o veder cosa alcuna». Plut., in Pelopida. Cfr. Senof. Elleniche, lib. II.
212.
τῆς δέ γυναικὸς ὁ καιρός, κἂν τούτου μὴ ’πιλάβηται
οὐδείς ἐθέλει γῆμαι ταύτην, ὀττευομένη δὲ κάθηται.
Aristof., Lisistrata, 596-7.
213. Frequenti e legittime erano nel dritto attico le adozioni — permesse però solo a quelli che non avean figli propri (Iseo, Ered. d'Aristarco, 9) — a fine di preservare da estinzione il casato. «Dopo ciò (cioè dopo collocata in matrimonio ad altri la moglie) pensava Mènecle al come evitare la mancanza di figli e aver chi lo curasse nella vecchiaja, e morto gli rendesse le esequie e i sagrifici dovuti in avvenire. Aveva bensì un nipote, il figlio di costui: ma essendo figlio unico, ritenea disdicevole privar di prole mascolina il fratello. E così essendo non vide altri più prossimi di noi... E in questo modo Mènecle mi ebbe figlio ed erede suo». Iseo, Ered. Mènecle, § 10-12. «Tutti quelli che son per morire si preoccupano di ciò, che le loro case non restino solitarie, ma vi sia chi renda ai loro Mani i sacrifici funebri, e le altre giuste cose: per il che se si trovino senza figli, procurandosene per adozione, ne lasciano. Nè già privatamente così stabiliscono, ma la stessa repubblica questo sanci: mandando all'arconte di aver cura che le case non restino solitarie». Iseo, Eredità di Apollodoro, § 30. Lo che voleva dire che se uno moriva senza figli nè proprî nè adottivi, e senza testamento, pensava l'arconte a istituirgli tra i prossimi congiunti, un figlio adottivo ed erede.
Pel rimanente, le adozioni si facevano o appunto per testamento, o inter vivos. In questo secondo caso (ch'è quel del nostro Mènecle e di Elèo) l'adottante procedeva, così come usavasi pei neonati, alla presentazione del figlio nella propria confraternita (fratria) e all'iscrizione sul registro della stessa, formante il documento di legittimità.
«Venuta la festa Targelia, mi introdusse innanzi all'altare tra i fratori. A questi è legge che chiunque introduce un figliuolo o proprio o adottivo, fa fede, in nome delle cose sacre, ch'egli introduce un figlio d'una cittadina, legittimamente nato ed adottato. Compiuto ciò, nullameno i fratori fan lo squittinio: e se essi giudicano alla stessa maniera, allora solamente lo iscrivono nel registro pubblico». Iseo, Ered. di Apollodoro, § 15-16.
214. Il figlio adottato non poteva più tornar nella sua famiglia paterna (così Mènecle nell'arriga d'Iseo, ha scrupolo adottando il nipote di privar del figlio il fratello, Is., Ered. Mèn., 10), ed entrava a far parte della tribù dell'adottante, che gli imponeva a suo piacimento nuovo nome. (Ordinariamente, poi, i figli portavano il nome dell'avo paterno: lo stesso avveniva per gli adottati). «Se uno t'interrogasse: Dimmi, Beoto, come sei venuto nella tribù Acamantide e diventato del demo di Torisio e figliuolo di Mantia ed erede delle sostanze da lui lasciate? Non altro potresti dire, fuorchè: Mi adottò Mantia. E se soggiungesse: dov'è la prova o la testimonianza? — Mi menò tra i fratori — risponderesti. — Con qual nome? — Con quello di Beoto. — Chè con questo fosti introdotto. Ora se il padre tornando a vita ti mettesse al partito o di conservare il nome che ti diè o di non ritener lui per padre, non sarebbe discreto?» Demost., C. Beoto, per il nome, § 30, 31.
[307]
215. Τῶν πατρώων ἒχεις τὸ μέρος. ἱερῶν, ὁσίων μετέχεις Dem., C. Beoto, per il nome, § 35.
[309]
PROPRIETÀ LETTERARIA
DEGLI EDITORI-TIPOGRAFI FORZANI E C.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, in particolare per quanto riguarda gli accenti, alquanto variabili nell'originale. Sono stati corretti senza annotazione minimi errori tipografici.
Per comodità di consultazione è stato aggiunto un indice a fine libro.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.