Title: Memorie di Giuda, vol. I
Author: Ferdinando Petruccelli della Gattina
Release date: August 3, 2014 [eBook #46494]
Most recently updated: October 24, 2024
Language: Italian
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F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA
PRIMO VOLUME
Seconda Edizione Italiana
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1883.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Tip. Fratelli Treves.
Fabrizio, che raccolse i codici apocrifi del Nuovo Testamento, non conosceva questo, che fu ritrovato alla fine dell'ultimo secolo tra i papiri d'Ercolano.
Se la forma di questo codice ha qualche volta l'aria moderna, la colpa è mia, che ho voluto mettere alla portata dei miei contemporanei delle cose così vecchie.
P. D. G.
Parigi, gennaio, 1866.
[1]
MEMORIE DI GIUDA
Era il 15 del mese di Thisri, la sera della festa dei Tabernacoli, nel settimo anno del governo di Ponzio Pilato a Gerusalemme.
La città formicolava di forestieri accorsi da tutti gli angoli della Giudea, della Galilea, della Perea e dell'Idumea, sì dalle città greche e romane, che dalle rive del mare e dai confini del deserto. Il movimento raddoppiava da per tutto; la gioja scintillava nelle vie, sulle piazze, sopra le colline che circondano il promontorio della città, e rischiarava tutte le fisonomie.
La raccolta dell'uva era stata abbondante.
La si accalcava dunque sul ponte Xistus per venire da Sion al Tempio sopra il Moriah, e portare l'offerta a Iehovah.
È così facile il ringraziar Dio nella gioja — quando non lo si dimentica!
Ognuno s'affrettava, giacchè il sole segnava l'ora quinta, e bentosto il corno di montone avrebbe suonato sulle terrazze del tempio per annunziare che il sabato era per cominciare.
Una circostanza straordinaria aveva aumentato il [2] concorso degli stranieri. La moglie del procuratore arrivava da Roma. Il governatore della Siria, Pomponius Flaccus, aveva lasciato Antiochia, ed era venuto a Ioppa incontro alla nipote di Tiberio. Pilato aveva ordinato che si preparassero delle feste al Circo in onore di Claudia sua moglie, e del governatore.
La città di Gerusalemme aveva inviato a Ioppa una deputazione a fine di accompagnare la nobile Romana. Pilato nondimeno, che doveva andarvi coi membri dell'aristocrazia e del sacerdozio Ebreo, all'ultima ora era caduto ammalato e li aveva lasciati partir soli. Ciò dava da parlare al popolo; a me ed al Sagan da riflettere. In conseguenza di ciò il solo punto di Gerusalemme che fosse nel silenzio e nella tranquillità, era questa vetta di Sion, ove s'ergevano le tre torri, ed il palazzo d'Erode steso al loro piede.
Eppure i viaggiatori arrivavano all'indomani!
In una camera al secondo piano del palazzo di Hannah quattro persone si trovavano riunite all'istessa ora; Hannah ed io, sadducei; Moab, esseniano; Menahem, l'ultimo dei figli di Giuda e di Gamala. Attendevamo Jesu Bar Abbas, erodiano, e Justus, il fratello della moglie di Gamaliele, fariseo, figlio di Simeone il rettore del gran collegio, figlio egli stesso del famoso Hillel.
Nessuno di noi parlava.
Hannah, sotto sembianza di meditare, sonnecchiava.
Moab, sotto sembianza di pregare, accocolato in un angolo digeriva non so quale disgustoso intingolo di cavallette che aveva inghiottito qualche ora avanti, e che faceva passare sopra la sua faccia tutti i colori dell'arcobaleno.
Menahem calmava la sua impazienza di andar a vedere le donne di Sion alla fontana di Ezechiele, [3] passeggiando pesantemente sopra i quadrelli di granito della sala del Sagan, come se avesse camminato su i sentieri da camelli della Galilea, e faceva levare in soprassalto di tanto in tanto l'ex-gran sacerdote.
In quanto a me, io era in piedi, vicino ad una finestra dirimpetto al tempio, guardando il sole che, discendendo dietro al Moriah, lo spolverava di scintille dorate; e pensavo a Maria.
Eppure, noi ci eravamo riuniti colà per una ragione terribile.
Ma l'uomo non è mai così spensierato come negli istanti in cui il suo destino bilica sopra un abisso. Era colpa mia? Il cielo era così azzurro! Il Golgota, il monte degli Ulivi, il Gareb, il Bezetha si panneggiavano nel loro mantello violetto della sera. Quella montagna di marmo e d'oro che si chiama Moriah, civettava così fastosamente! Il popolo rideva sì forte dalla strada! Il palombo gemeva sì dolcemente nel cielo! Il vento autunnale, ancora sì caldo, accarezzava con tanta grazia il dattero, il sicomoro, l'arancio, l'aloe, l'ulivo, il velo delle donne, le bianche nuvolette — che non dovevano esser altro che le ali dei cherubini di Dio, — ch'e' mi sembrava impossibile di levare lo sguardo da quella festa serena e raggiante, per seppellirlo nel sangue.
Menahem mi venne vicino, e mettendo fuori alla finestra la sua testa abbronzata sclamò:
— Ma non vengono dunque? non vengono?
— Quel galuppo di Bar Abbas ha i calli ai piedi, risposi tranquillamente io.
— Gli è che fra un'ora le porte della città saranno chiuse, riprese Menahem.
— Saresti tu invitato a cena da Pilato?
[4] — No, ma restar fuori, sotto l'aria della notte e la rugiada del mattino....
— Raffreddarsi questa notte, quando si deve esser crocifissi domani sera....
— Domani è sabato, rispose Menahem senza scomporsi.
— Dopo dimani dunque.
— Tu credi che la finirà così?
— Diamine! Tutto dipende da voi.
Hannah mi chiamò.
Menahem restò a riflettere, il dosso appoggiato ad un angolo della finestra, la testa alta, lo sguardo perduto nel cielo. Lo additai ad Hannah che crollò le spalle.
Quella pietra pomice non si commoveva per nulla.
Menahem aveva allora l'età mia: non ancora ventitrè anni. Superava la statura ordinaria degli uomini della Siria, solido come la torre Ippiana. Il sole che tramontava, rischiarando la metà del suo viso, dava dei riflessi dorati alla sua pelle abbronzata. Il suo naso leggermente curvo, le labbra rosee e carnose, i denti bianchi come quelli dei carnivori del deserto, la fronte annegata sotto una foresta di capelli neri come quelli di Giuditta, separati in sul cocuzzolo, alla moda dei Galilei, il suo collo alto, rotondo, liscio come una colonna di porfido, tutto indicava in lui il coraggio, la forza, la volontà e l'amore. Io ammiravo quella figura mezza nell'ombra, e mezza immersa nella luce, quello sguardo che scrutava le profondità. Menahem portava una tonaca color vino, legata al fianco con una ciarpa bianca, e da cui usciva una spada ad impugnatura d'oro, più corta di quelle usate dai Romani. Un mantello nero copriva tutta la persona fino alle ginocchia.
[5] — Eh! diss'io alla fine, torcendo gli occhi da lui, al postutto, e' sarà un pasto reale pei cani della Voragine dei cadaveri.
In quel momento, una voce stridula e dei passi rumorosi si fecero udire alla porta della strada prima, e ben tosto nelle scale e nell'anticamera. Poi la porta s'aprì e Bar Abbas, seguito da Justus, entrò trionfalmente.
— Non è colpa mia, sagan — miagolò egli — non è mia colpa, così Satana mi faccia gran sacerdote! se siamo in ritardo. È una storia graziosa, e ve la racconto come la sta.
Là dove Bar Abbas entrava, entrava il rumore. In ogni sito ove egli si presentava, tutti erano intorno a lui a festeggiarlo. Egli cominciava per far ridere, si finiva col bastonarlo. Le brighe seguivano i suoi passi. Se un giorno non riceveva delle busse, la sera era di un umore da appiccarsi per la tristezza. Per consolarsi, si ubbriacava.
La sua persona andava tutta di traverso. La parte sinistra del suo corpo spingeva avanti ed in alto la diritta: di maniera che i suoi occhi correvano verso le tempie, la bocca verso l'orecchio, il naso, il mento, tutto andava dall'oriente al ponente. Un colpo di cesto di un gladiatore, ricevuto in una rissa, aveva causata questa deviazione sopra la sua faccia. Dei denti, non si parlava più. Una barba grigia, dei capelli grigi, facevano ombra al suo naso rosso, venato d'azzurro, gremito di porri neri e velluto. Era piccolo, membruto e leggermente claudicante.
Bar Abbas aveva servito nelle legioni Romane per vent'anni, a piedi ed a cavallo, poi era ritornato a Gerusalemme, presso sua moglie, la quale, credendolo morto dieci volte, se n'era consolata venti. Nessuno [6] avrebbe potuto dire a che Dio egli credesse, se questo disgraziato pagano non si fosse affrettato di mostrare, dalle sei del mattino alle sei della sera, che adorava Bacco e corteggiava la Dea Stercuzia. Nessuno poi gli aveva mai veduto un mantello o una tonaca che non fossero a pezzi.
Un uomo simile, nato nella Perea, non poteva che arruolarsi fra gli Erodiani e divenire uno dei loro capi.
Entrando, Bar Abbas pestò i piedi nudi di Moab, diede una spinta a Menahem, allungò la mano per staccare la borsa dalla mia cintura, rotolò sul sagan per sedersi presso di lui, e levandosi di un salto immerse il capo nello stomaco di Justus. Aveva già brancolato dovunque, nei capelli di Moab, sul mantello di Menahem, nelle tasche del sagan, sul tavolo per prendere una carta, sopra un armadio per volgere una chiave nella sua toppa. Finalmente sembrò equilibrarsi in mezzo del salone, e dopo aver sbadigliato, com'uomo che ha fame, e fatto scoppiettar la lingua, com'uomo che ha sete — del resto fame e sete aveva perpetuamente — gridò con voce acuta:
— In fede mia, vo' a raccontarvela. Calza così bene all'affare come un letto a dei sposi novelli.
— Fa d'esser corto, sopratutto, disse il sagan.
— Come sempre, o sagan. Sì, m'ero incontrato con Justus sotto il porticato d'Erode ed ero andato con lui al Tempio per portare, come gli altri, la mia offerta al Signore. Io volevo essere splendido, ed offrire un giovine toro. M'avvicino, nel mercato, ad un mercante idumeo, e gliene domando il prezzo. — Venti sicli (100 lire), mi dice egli. — L'hai dunque rubato, gli rispondo io, per vendere un animale così nobile ad un prezzo così vile? venti sicli? è [7] regalato. — Mi scusi, grida il mercante, venti sicli? ho detto venticinque. — Ah! così va bene, rispondo io, e metto la mano nella tasca della tonaca a diritta. Cerco e ricerco, non avevo i venticinque sicli. — Bene, dice Justus, offri dunque un montone. — È vero, dico a me stesso, un montone l'è proprio un'offerta da re! E mi volgo ad un pastore dei monti di Moab che ne aveva in vendita uno di stupendo. — Che prezzo domandi di questa bestia? — Venti denari, capitano, risponde il montanaro. — Vergogna! un montone che ha delle corna da far morire di rabbia Mosè? che ha la lana soffice come i mustacchi del rettore Simeone? Le bestie sono dunque in abbondanza nel tuo paese eh? — E pongo la mano nella tasca sinistra. Non avevo i venti denari. — Va là, disse Justus, offri un capriolo. — Bravo, dico io, un capriolo è ciò che mi va. Io amo il capriolo: perchè il Signore sarebbe più schifiltoso che non mi sono io, vecchio legionario di Augusto e di Tiberio? — Sbircio in un angolo un uomo di Samaria che aveva un superbo capriolo bianco con delle macchie scure e un muso rosa come una vergine del Tempio, degli occhi teneri e velati da una lagrima. Lo si sarebbe mangiato di baci — cotto in punto, e bagnato d'una rugiada di acqua ed olio con un ramo di rosmarino. Non se ne domanda che tre denari (due lire e mezza). Cavo la borsa dalla cintura: i tre denari non c'erano più. — Senti, dice Justus, un colombo è ciò che ti va bene. Comprane uno e finiamola. — Ma l'è precisamente quello che pensavo io fino da questa mattina, rispondo. Un colombo bianco come le ali d'un cherubino.... Sagan, hanno le ali bianche, i cherubini? Ben devi saperlo, tu. Mi decido dunque pel colombo. Non costa che un mezzo [8] denaro. Guardo, frugo, rifrugo in tutte le mie tasche; poi stendo la mano al mio amico Justus, e gli dico: prestami un mezzo denaro. Ah! se aveste veduto che faccia m'ha fatto! Si sarebbe detto che gli avessi domandato un dente.
— Gli è che, ripetè Justus, te ne ho prestati tanti di sicli, denari e mezzi denari....
— Meglio, dico io, vai a ridomandarmeli mo! Finalmente, gettando un sospiro da rovesciare la torre Mariamna, Justus mi pone in mano la moneta che gli ho chiesta. Volete che ve lo dica? non avevo mangiato nulla fino da jeri, e non avevo bevuto niente, all'infuori di alcuni sorsi d'acqua della fontana di Salomone. Il Signore, lui, aveva ricevuto un sì gran numero di bestie d'ogni specie, che appena appena avrebbe più accettato la nobile testa del gran sacerdote Caifa. Mi decidevo dunque a bere il mio colombo, e ponevo il mezzo denaro in tasca, allorchè delle grandi grida si fanno udire dalla parte della porta di Bronzo. Un tafferuglio nella città di Gerusalemme senza di me! dico io: sono rubato! E corro. Era della bordaglia, che avendo trovato una giovine donna nel sobborgo di Besetha, in flagrante delitto d'adulterio con un soldato legionario Romano, la conduceva dinanzi il Sanhedrin perchè la fosse condannata ad esser lapidata.
Moab alzò la testa, che aveva tenuta fino allora appoggiata sulle ginocchia.
— La donna era giovine e bella ancora, continuò Bar Abbas, malgrado lo strazio della miseria che si scorgeva nei suoi tratti e nei suoi vestiti. Io la conosceva già. È di Gerico e si chiama Lia. Suo marito essendosi riunito alla setta degli Esseniani l'ha abbandonata da due anni insieme col suo bambino. [9] Ella vive pettinando lana. Probabilmente il lavoro le era mancato. Gli scribi ed i farisei, che erano nella corte dei Gentili, e le guardie del Tempio, si affollavano intorno al gruppo che trascinava quella donna scapigliata, affogata nelle lagrime e gridante: Oh il mio povero figlio, il mio povero figlio! — To', dice allora un levita: se andassimo a vedere cosa ne dice il Rabbì di Galilea che predica lì abbasso, presso il pozzo di Salomone? — Sì, sì, rispondono in coro tutti i parassiti del Tempio, conduciamola dal Rabbì di Galilea. — Fino dal mattino questo Rabbì era andato di corte in corte, e di portico in portico, facendo capannelli intorno a sè ed indirizzandosi al popolo. Aveva provocato ed irritato i farisei mettendoli in ridicolo e trovandoli in fallo. Aveva parlato contro il Sabato, contro il lavarsi le mani, contro le pratiche esterne del culto: e che so io! di tutto infine. Il popolo diceva: Ma vediamo dunque, questo Rabbì non sarebbe egli un pochino profeta, un bricciolo di messia? Ed egli non avea risposto nè sì, nè no, ma aveva lasciato andare ora una parabola, ora un tale arruffamento di parole, che Satana strangolerebbe chi ne avesse compreso una sillaba. I farisei credevano ora di prenderlo in trappola. La legge di Mosè è chiara come la fontana di Siloam. Si spinge dunque la donna dalla parte ove era il Rabbì, e tutti si affollano per vedere ed intendere. Il caso era grave. La risposta doveva esser precisa. Pilato se ne ride dell'adulterio, che per lui non è nè un delitto nè un peccato. Ma il Rabbì cosa risponderà? Se condanna la donna, si disgusta con Pilato; se l'assolve, si abbaruffa con Mosè. Egli li lasciò venire. — Rabbì, Rabbì, gli si grida da ogni parte, ecco una donna che abbiamo presa sul fatto stesso d'adulterio. È [10] maritata, tutti lo sanno, ed ella stessa lo confessa. — Hum, brontolò il Rabbì senza alzar la testa ed avendo l'aria di continuare a tracciare dei rabeschi sulla sabbia della corte. — Maestro, gridava disperata la povera donna; avevo fame, il mio bambino aveva fame, eravamo digiuni da due giorni. Non una bricciola di pane, non un denaro, il focolare era freddo. Il Rabbì levò gli occhi sopra la donna, e dopo averla considerata per alcuni istanti: — Sì, eh! mormorò continuando a tracciare sgorbi nella polvere. — La legge di Mosè è chiara, osservò Gamaliele che aveva seguito la folla. — Cosa ci comanda codesta legge? domandò con calma il Rabbì. — Di ucciderla a colpi di pietra, si gridò da ogni parte.
Moab che aveva ascoltato questo racconto di Bar Abbas, a questo punto si levò d'un salto, come se avesse camminato sopra una vipera. Era spaventevolmente pallido, ma non disse una parola. Noi lo guardammo, sorpresi. Bar Abbas continuò:
— La povera donna non cessava dal gridare: grazia, grazia! Avevo fame, il mio ragazzo aveva fame; non trovavo più lavoro, non avevo credito, non mi si faceva carità. — Qual è la legge? disse ancora il Rabbì volgendosi a Gamaliele. — Tu che insegni tante cose, rispose il maestro del collegio, dovresti pur conoscerla. — La tua opinione dunque è che ella sia lapidata? insistè il Rabbì. — È la legge, risponde Gamaliele. — Bene allora, grida il Galileo levandosi e dominando col suo sguardo quell'assemblea curiosa, e piena di ansietà. Bene! replica egli, colui in fra di voi che si crede senza peccato le getti la prima pietra.
Questa frase fu come uno scongiuro magico. Tutta la folla restò sorpresa per un istante, non comprendendo [11] nè indovinandone il senso; poi ognuno s'allontanò in silenzio, con la testa bassa, e gli occhi pensierosi. Il Rabbì si avvicina allora alla donna che era caduta quasi svenuta nella polvere, le pone in mano di nascosto una moneta, la sola forse che possedeva, e le dice con soave sorriso: Va, povera donna, va e non peccare più.
Vedendolo levarsi dal posto ove stava seduto, io aveva biascicato: To'! ma gli è mio nipote codesto Rabbì!
Egli non mi aveva forse udito. Mi sono allora avvicinato. Voi lo comprendete. Se io mi potessi attirare un uomo di simile levatura nel nostro progetto, pensava io.... — Nipote, gli dissi, non riconosci più il marito della sorella di tua madre? — Il Rabbì levò lentamente il capo, e fissò il suo sguardo su me. Questo sguardo si rischiarò, si dilatò, divenne infiammato. E' fece un passo indietro.... e mi disse: Vattene, zio!
— Ma no, ma no, interruppe Justus, egli ti ha detto: Indietro, infame, indietro. — E la sua voce, sì dolce un momento prima, rintronava nel Tempio.
— Sì, sì, forse lo ha detto, continuò Bar Abbas. Io lo conosco; quel giovine è sempre stato misantropo e poco rispettoso verso i suoi parenti. Gli è per questo che io non ci feci attenzione, ed ostinato nel mio progetto di metterlo a parte delle nostre idee, gli insinuai a voce bassa una parola, domandandogli di unirsi a noi per liberare Israele dalla contaminazione dei Gentili. Ah sì! egli continuava sempre a gridare: Va....
— Indietro, infame, indietro, ripetè Justus.
— Poichè ti sta tanto a cuore, sia pure, aggiunse Bar Abbas. Allora siamo usciti dal Tempio per la porta Dorata, ed eccoci un po' in ritardo, temo.
[12] Hannah aveva ascoltato questo racconto con pazienza, sclamando soltanto: «Ancora quest'uomo!» allorchè Bar Abbas aveva nominato il Rabbì di Galilea. Ma io l'aveva seguito con interesse; Menahem, con indifferenza. Moab sembrava annientato. Alla fine, Hannah, sollevandosi a mezzo corpo, disse:
— Non abbiamo tempo da perdere. Veniamo alla nostra faccenda. Non c'è nulla da cangiare al piano già stabilito. Ecco ora le istruzioni definitive che voi porterete al Consiglio dei Trentacinque, aggiunse egli presentando a Menahem uno scritto. Dimani essendo Sabato, l'esplosione della sommossa è aggiornata a dopo dimani. Se qualche cosa dovrà essere modificata, lo saprete qui, domani, all'ora quarta.
— Spieghiamoci bene, disse Menahem. Dopo dimani entreremo nella città da tre porte, in tre colonne, senza bandiera e senza armi per non dare sospetto, e gridando: Abbasso l'acquedotto, abbasso l'acquedotto! Rispetto per l'offerta, che è la moneta di Dio e non del popolo o di Cesare.
— Va bene, rispose Hannah.
— Ci presenteremo dinanzi al Pretorio, e domanderemo di veder Pilato....
— Va bene, disse ancora Hannah.
— Allora, quando Pilato uscirà e domanderà che una commissione vada a parlargli, Moab ed io esciremo dalle file del popolo e gli andremo incontro.
— Sì, soggiunse Hannah.
— Presenteremo una carta a Pilato. Egli la prenderà, e, naturalmente, l'aprirà e incomincierà a leggerla; allora Moab da una parte ed io dall'altra ci slancieremo sopra di lui e lo uccideremo.
— Io non lo ucciderò, mormorò Moab lentamente, nel mentre si alzava: io non ucciderò quell'uomo.
[13] — Come! dimandò Hannah, inchiodando sopra Moab i suoi occhi grigio-giallastri spalancati.
— No, ripetè Moab con fermezza, io non ucciderò mai quell'uomo.
Hannah si mordeva coi denti gialli le labbra grige, e non potendo divenir pallido, diventava livido.
— Spieghiamoci, disse egli alla fine con voce tremante dalla collera. I cinque principali partiti dell'antico regno d'Erode il Grande hanno o non hanno eglino nominato quaranta delegati perchè s'intendano sopra il mezzo di cacciare lo straniero dal suolo dei loro padri e del loro Dio?
— Sì, rispose Moab.
— I quaranta delegati non hanno essi scelto un consiglio di cinque dei loro capi, e non sono io il presidente di questo consiglio?
— Sì, è vero.
— Gli Esseniani non ti hanno eglino delegato come loro rappresentante, tu, Moab Bar Samuele di Bethabara? e non hai tu assistito alle nostre conferenze, discusso e approvato i nostri piani?
— È vero, sclamò Moab.
— Il consiglio ha deciso di cominciare dal disfarsi di Pilato, per mettere lo spavento e la confusione fra i Romani, e per poi poterli distruggere più facilmente al grido di Dio e patria!
— Io non nego nulla di tutto questo, disse Moab. I nostri cinque nomi soli sono stati posti nell'urna — poichè non si poteva comunicare un simile secreto a quaranta persone — ed il mio è uscito pel primo, poi quello di Menahem. Sì, è vero. Tuttavia io non ucciderò Pilato. Ella nol vuole.
— Ella, sclamò il sagan, chi è dunque codest'ella?
— Ella, replicò Moab.
[14] — Ma finalmente chi è dessa? è tua madre?
— No.
— Tua sorella?
— No.
— Tua moglie?
— No.
— È la tua ganza, la tua regina, la tua fidanzata? chi è dunque codesta donna?
— No, no, no. È lei. È tutto questo, meglio, più di tutto questo. È lei.
— Quest'uomo è un pazzo o un vile, gridò il sagan.
— No, riprese Moab con calma, comandatemi di uccidere il gran Sacerdote, il tetrarca, il rettore, il governatore della Siria, lo stesso Cesare, ed io mi recherò a Roma immediatamente ed andrò ad ucciderlo. Ma Pilato, no. Ella nol vuole!
— Vediamo un po', disse Menahem inframmettendosi; codesto è un mistero che non sembra troppo vicino a schiarirsi; il Shofa del tempio sarà in breve suonato, quindi le porte saranno chiuse, ed i nostri fratelli attendono nella valle di Josafat le ultime istruzioni. Se Moab dà indietro, io resto sempre pronto, e credo che solo io basterò a compire l'affare. Dio mi ha dato un braccio, che i miei nemici, siano i tiranni del nostro paese o le bestie feroci del deserto, hanno appreso a temere.
— Prendo io il posto di Moab, gridai io allora.
— No, no, interruppe il sagan. Non è di ciò che si tratta. Non è questione di un braccio di più o di meno, d'un uomo piuttosto che d'un altro, per compiere questa santa opera. Si tratta di un giuramento. Ebbene, voi avete tutti giurato sull'Efod, che coloro cui la sorte additasse, compirebbero il sacrifizio del tiranno della Giudea. Ora uno di quegli eletti dalla [15] sorte ci dice: Io non voglio più mischiarmene perchè c'è una donna che non lo vuole. Che mercato facciamo noi dunque di Dio, del nostro giuramento, della nostra parola, del nostro onore? Che sicurezza abbiam noi pel secreto confidato ad un uomo che pone un Ella al disopra del suo dovere?
— Basta così, gridò Moab, avanzandosi verso il tavolo del sagan. Dacchè sorge un sospetto, la questione è sciolta. Era il mio destino che lottava contro il mio dovere. Voi intervenite in nome di Dio; non ho più nulla a rispondere. Ucciderò Pilato, e poi mi ucciderò anch'io sopra il suo cadavere. Addio. Infrangerò il precetto della mia setta che abborre dal sangue[1]; ma espierò il mio fallo uccidendo la mia anima, che era sua, ed il mio corpo, che era vostro. Vado a raggiungere i nostri fratelli.
E ciò dicendo, Moab, il discepolo di Battista, alzò la testa bruciata dal sole del deserto, fiera come le creste del Libano, girò su noi il suo sguardo azzurro come il cielo, aggiustò intorno al corpo la sua tonaca di pel di cammello, strinse la sua cintura di cuoio, scosse la capigliatura nera e increspata come quella di Sansone, ed uscì.
La sua partenza fu seguita da un momento di silenzio triste e doloroso.
Il sagan lo interruppe.
[16] — Allora, tutto è inteso, diss'egli. Non c'è nulla da cangiare, nulla da aggiungere al piano stabilito. Se qualche nuovo incidente accade nella giornata di domani, domani a sera decideremo.
— Va bene, rispose Menahem. Ora corro alla casa di Josafat.
Egli uscì. E nello stesso momento il suono del corno di montone diede il segnale dalla collina del Tempio che principiava il sabato.
Bar Abbas aveva seguito Menahem, fermandosi nelle sale inferiori, e noi lo intendevamo abbaruffarsi coi servitori del sagan, che non lo facevano cenare a suo modo. Justus mi disse:
— Giuda, vai da Maria questa sera?
— Non so, risposi; ho bisogno di trovarmi solo con me stesso.
— Allora non andrò ad attenderti là.
— No.
— A domani dunque.
Il sole era tramontato dietro il Moriah, dietro Modin, nel mare di Joppa e di Tiro. Il silenzio era disceso sopra la città. Hannah, colle folte sopracciglia aggrottate, gli occhi fissi sopra i quadrelli di marmo del pavimento, tenendo afferrato fra le mani il suo caftan, taceva, meditava, — forse non pensava a nulla o meglio, era dietro a calcolare ciò che meglio gli conveniva: di marciare colla cospirazione, o di consegnare i cospiratori nelle mani di Pilato. Io pure taceva, profondamente colpito dalla storia della povera adultera — che mi sembrava certo dover essere la moglie di Moab, — e della creatura misteriosa che aveva una influenza sì potente sopra quell'uomo di marmo, dagli occhi d'aquila. Hannah alla fine mi domandò:
[17] — Sai tu a cosa penso, Giuda?
— Perdinci, alle quattrocento concubine di Salomone.
— Domani arrivano la moglie di Pilato e il governatore della Siria....
— Bisogna forse assassinarli anch'essi?
— Pilato riceve quindi delle nuove coorti.
— Tanto meglio; più se ne ammazza oggi tanto di meno a combattere domani.
— Saremo schiacciati.
— Che monta? altri faranno la prova dopo di noi, e riesciranno forse.
— Hum! brontolò il sagan, egli è che a me importa molto poco che gli altri riescano o no: ma noi saremo esterminati senza dubbio.
— Avresti paura, principe mio?
— No; ma io non mi sono unito ai tuoi progetti per aver l'onore d'essere appeso ad un patibolo sul Golgota.
— Parli d'oro, Sagan, risposi io, ma è troppo tardi ora per indietreggiare. D'altronde tu devi arder di zelo pel Tempio, di cui un pagano saccheggia il tesoro sotto il pretesto di costruire un acquedotto per dar da bere a delle ciurmaglie che muoiono di sete. Poi, una occasione come questa non si presenta tutti i giorni. Ci sono cinquanta mila persone accalcate sopra le colline di Gerusalemme ed in Gerusalemme stessa, venute da tutte le parti della Siria, e che ci daranno aiuto senza fallo.
— Nondimeno, disse il sagan, se quella gente esitasse....
— Anzi tutti e' sarebbero decimati dalle armi dei Romani: ma è così che si alimenta l'odio dei popoli oppressi contro gli oppressori stranieri. Tu avrai, Sagan, [18] un posto nella nostra storia, vicino al mio grande antenato Mattatia il Maccabeo.
— Credo piuttosto, che sarò considerato come un meschino plagiario del mio grand'avo Esaù...
Mezz'ora prima, la città brulicava di vita. Dacchè il Shofa era stato suonato dalle mura del Tempio, il cuore stesso della città aveva cessato di battere.
Il sabato pietrificava l'Ebreo.
Non più un rumore nelle strade, non più lumi alle finestre; il fumo sulle terrazze delle case, il fuoco nei focolari erano cessati. La creazione era ravvolta nel silenzio. Non era più permesso di uscire, di andare a cercar acqua, di cuocere il pane, di accendere il fuoco se si era intirizziti, di rimetter in piedi il ragazzo se cadeva per terra, di abbracciare la giovine moglie, o di accomodarla nel suo letto di dolori. Se la madre stava morendo, il figlio non poteva soccorrerla. Se il suo asino cadeva in un fosso, bisognava lasciarlo divorare dai leopardi e dagli sciacalli. Ciascuno doveva restare dove si trovava e nell'istessa posizione; nè bere nè mangiare. Se l'inimico attaccava, bisognava lasciarsi uccidere; e molte volte, fino a Giuda Maccabeo, i nostri antenati erano stati trucidati così. Era nei giorni di sabato che gli Ebrei avevano quasi sempre perdute le loro battaglie contro gli stranieri, i quali, attaccandoli quando non potevano difendersi, ne avevano facilmente ragione. Non si poteva in quel giorno nefasto abbandonare il campo, continuare un viaggio, mettersi al coperto da un sole omicida, dall'uragano o dalla folgore. Il suono del corno del Tempio cangiava l'uomo in istatua come la moglie di Loth. Eccetto che nel Tempio stesso, che solo continuava il suo traffico ordinario, che riceveva le offerte — doppie di quelle degli altri giorni, — che sacrificava [19] le vittime, e bagnava col sangue le fiamme azzurrastre dei suoi altari: eccetto in questo Tempio — perchè non c'era mai riposo per questi sacri traffici — ovunque altrove, cessavano tutti i sintomi della vita.
Noi altri Sadducei ridevamo bene di tutto ciò, avendo la massima che il sabato è fatto per l'uomo, e non l'uomo pel sabato. Hillel e Gamaliele avevano bensì detto ch'era permesso di fare buone opere durante il sabato; ma i farisei restavano incrollabili. Di maniera che Gerusalemme, a quell'ora, sembrava una città di tombe, ove l'aria stessa era divenuta muta.
Cento mila persone respiravano senza far rumore.
Tutto ad un tratto, dalla parte della porta Giudiziaria e della porta Genath, udimmo un fremito sordo, come uno sciame di api svegliate da un calabrone. Alziamo il capo, tendiamo l'orecchio. Il susurro aumenta, avanza, diviene più distinto. Sentiamo le voci e come uno strepito d'armi. Vediamo, ad onta del sabato, tutte le finestre popolarsi di teste di curiosi. Poi una luce rossastra, come di torcie accese, rischiara il cielo, cui grossi nugoloni cominciavano ad oscurare; e ben tosto dalle nostre finestre vediamo un gruppo di soldati trascinare in mezzo a loro dei prigionieri. Il nostro cuore s'ingrossa. Il corteggio avanza sempre più nel foro e si dirige poi verso le alture di Sion, dalla parte della torre Faselo. Allora diamo indietro spaventati: riconosciamo i nostri complici, ed alla lor testa, legati con delle corde ed insanguinati, Menahem e Moab.
[20]
Durante il mio soggiorno a Roma, io aveva spesso inteso parlare della moglie del procuratore della Giudea, ma non l'aveva mai veduta. Claudia abitava Capri.
Ella era l'ultima figlia di quella Giulia figlia di Augusto, cui questi, dopo averla maritata a Tiberio, aveva esiliata, a causa delle sue dissolutezze. Giulia aveva avuto nell'esilio una figlia da un cavaliere Romano. Ma arrivata all'età di tredici anni ella l'aveva inviata al suo ex-marito Tiberio, il quale addobbava di giovani coppie l'isola di Capri, per rinverdire la sua caducità. Si conosce la storia «di quei piccoli bambini un po' vigorosi, ma ancora alla mammella, ch'egli abituava a giuocar fra le sue gambe, allorchè era al bagno, e che chiamava i suoi pesciolini.... Si raccontava che un cittadino Romano gli avesse legato un quadro di Parrhasius, ove Atalanta era rappresentata con Meleagro nell'istessa posizione di quei bambini con Tiberio. Questo quadro aveva il valore di un milione di sesterzi[2]».
Ora Claudia esercitava con Tiberio la parte di Atalanta.
Claudia era uno degli astri, ed uno dei delitti della corte di Cesare.
[21] Due o tre anni dopo, Ponzio Pilato, spagnuolo, arrivava a Capri. Egli piacque a Tiberio, non si sa in quale maniera. Tiberio aveva tutti i capricci del vizio.
— Che posso io fare per soddisfarti? gli domandò un giorno il vecchio imperatore.
Pilato aveva veduto Claudia. Egli sapeva che funzione ella compiva alla corte imperiale. Malgrado ciò, la domandò in isposa. Tiberio acconsentì. La corte allora era a Baja. Tiberio ordinò che fossero condotti al tempio di Diana, nella sua stessa lettiga, assistette in persona al matrimonio, qual uno dei dieci testimonii richiesti dalla legge, e mise egli stesso la mano di Claudia in quella di Pilato. Il matrimonio compiuto una volta, Claudia, uscendo dal tempio, entrò nella lettiga imperiale; ma al momento che Pilato si disponeva a seguirla, Tiberio lo ritenne, e comandò agli otto schiavi liburniani di partire. Pilato tremò in tutte le sue membra. Tiberio allora tirò un papiro dal suo seno, glielo rimise, e si allontanò. Era l'ordine di recarsi a Gerusalemme in qualità di procuratore della Giudea. Sejano lo attese egli stesso per condurlo al mare, ove una bireme da guerra si dondolava nel porto, pronta a spiegare la vela.
Questo è ciò che si diceva: Dio vedeva forse qualche altra cosa. Scorsero sei anni. Giulia, la madre di Claudia, era morta. Tiberio era forse sazio della sua Atalanta. Pilato inviava dispacci sopra dispacci, che dipingevano quell'angolo della Siria da lui governato come una terra minata da sètte ribelli, sempre pronta alla rivolta[3].
[22] Claudia era perseguitata dall'amore di Sejano.
Essa domandò a Cesare di andare a raggiungere suo marito, e l'ottenne. Di più, egli così avaro, la colmò di regali: cavalli, schiavi, gioielli, denaro, e scrisse a Pomponius Flaccus — lo stesso che egli aveva nominato governatore della Siria, perchè avevano passato insieme a bere due giorni e due notti consecutive — di considerare Claudia come una sua parente, e di obbedirle ed onorarla come tale.
Il viaggio fu prospero.
Claudia non si fermò che pochi giorni a Rodi per riposarsi, poi andò a sbarcare a Joppa.
Pomponius Flaccus l'attendeva di già. Gl'inviati della città di Gerusalemme vi erano arrivati da due giorni.
Gionata, il secondo figlio di Hannah, era il capo di questa deputazione Ebrea.
Il sole si alzava dietro le alture di Efraim, e colorava di porpora la catena delle cime che si stende da Ramah al Carmelo, allorchè le sentinelle, dall'alto del picco intorno al quale si agglomera Joppa, diedero il segnale che indicava l'avvicinarsi della bireme imperiale.
Infatti, una galera a due file di remi, dalla carena dorata e dalle vele di porpora, si avanzava verso la riva, spinta da un dolce e fresco venticello.
Un grande movimento ebbe allor luogo sì nella città che sulla galera. La guarnigione, i soldati che accompagnavano [23] Pomponius Flaccus, questi stesso in persona con una folla di gente componente la sua casa, discesero sulle rive del mare, preceduti dalla commissione di Gerusalemme, e seguiti da tutta la popolazione. Sopra la bireme, i marinai siciliani si affrettavano ad asciugare la rugiada della notte, a stendere i tappeti di Cartagine, e le schiave di Claudia si preparavano a ricever la loro padrona, che si era alzata e si disponeva a venire sul ponte.
Claudia sembrava incantata dalla vista di quella Joppa, alla quale Hiram aveva inviato il suo legno di cedro, di quel porto ove Giona s'era imbarcato per quel terribile viaggio che doveva finire in maniera così insolita e così fantastica; di quella distesa di sabbia, punteggiata da palme, da fichi, melagrani, posto avanzato in quella pianura di Sharon, che i libri sacri hanno profumata di rose; di quella distesa di colline, risplendenti di rose e d'ambra, che si stendevano dinanzi i suoi occhi, e che formano il paese di montagna della Giudea, di Beniamino e d'Efraim. Claudia restò a contemplare tutto ciò fino al momento in cui la bireme approdò e fu tirata sulla riva, e che i marinai appoggiarono alla prora una scalea in legno di cedro incrostata d'argento e di rame. Pomponius Flaccus s'affrettò allora a montare sulla bireme, seguito dalla commissione di Gerusalemme e ch'egli presentò a Claudia.
Gionata, bel giovane, le indirizzò un complimento da parte della nobiltà, della gente del tempio, e del popolo della nostra città.
Scendendo sulla spiaggia, Claudia fu salutata con un grido immenso dal popolo che vi si affollava.
La moglie di Pilato non ascese quella specie di cono intorno a cui, simile ad un grappolo d'uva, è piantata [24] la città. Ella non aveva bisogno di riposo, e quindi la partenza per Ramah fu immediatamente decisa.
Tutto, del resto, era pronto.
Ventiquattro schiavi liburniani circondavano la lettiga, tutt'oro e porpora: otto per tappa. Un camello già bardato; due cavalli, uno di Selinunte e uno della Siria, scalpitavano sulla sabbia, rattenuti a briglia corta da schiavi nubiani. Claudia poteva così alternare di veicolo a suo piacere. Un nuvolo di cavalieri numerosi ed una mezza legione di guardie servivano di scorta.
Una pianura coperta da uno strato leggero di rosea sabbia, sovrapposta ad un altro di nero terriccio, si allargava dinanzi a loro, sparsa di villaggi, di rovine d'antiche città, e di tombe, reliquie della nostra vecchia storia e delle nostre disgrazie — ceneri di centinaia di generazioni d'uomini, Filistei, Ebrei, Macedoni, Romani. Più lungi, ove l'occhio non arrivava, Modin, che risuonava ancora del nome dei Maccabei, e da lato Gaza, Ascalon — ove nacque Erode il Grande — tutta quella regione che vide David abbattere il gigante, e Sansone prendere le volpi.
Claudia montò sul camello, e dietro a lei prese posto una schiava egiziana che teneva aperto un parasole per garantirla dai raggi del sole ancora vigoroso.
Traversarono dei giardini d'aranci e di cedri, ove la vite ed i fichi prosperano frammisti agli ulivi, ai mandorli, ai sicomori, alle palme. L'uva era matura, i pomidoro scarlatti si allineavano a spalliera, le mele della Siria rallegravano gli occhi col loro colore giallo o porpora, il mirto e la rosa selvatica profumavano l'aria. Lo sguardo si riposò sopra questi giardini fino a Beth Dagon — ove si trovano ancora [25] i ruderi di un tempio dedicato a quella divinità marina dei Filistei, per la quale Goliath giurava, nel cui tempio Sansone, cieco ed avvilito, fu ucciso, e che fu rovesciato dall'arca del Signore allorchè i Filistei la misero nel suo tempio stesso, dopo aver vinto Hophni e Phineas, figli di Eli. Al di là di Beth Dagon il paese si allarga, e delle greggie immense di capre, di agnelli, di bufali e di camelli percorrono la pianura.
Il viaggio sembrava andar a genio di Claudia; e Gionata, che cavalcava alla sua sinistra, le rammentava tutte le tradizioni e le istorie della nostra patria, rammemorate dai siti che traversavano.
Ella era sorpresa delle gesta dei nostri padri, così differenti da quelle dei suoi antenati.
Si sostò, per pranzare, a Ramah, la patria di Samuele.
Tutto era stato previsto e preparato dagli ufficiali che Pilato aveva inviati lungo la strada. Si riposò alcune ore, giacchè il viaggio sul camello, che Claudia provava per la prima volta, l'aveva affaticata, tanto come il tramestio del vascello sul mare. All'ora nona, quando il sole tramontava dalla parte di Ascalon, ella montò a cavallo, e sul cader della notte, la piccola tribù cosmopolita di quella bella patrizia romana si fermò ai piedi della collina di Modin, — collina in confronto delle montagne della Giudea che si alzano dietro di essa, montagna in confronto alla valle che chiude.
— Noi calpestiamo coi nostri piedi sito più sacro, ed il più fatale della nostra storia politica, disse Gionata a Claudia.
— Quale? domandò ella.
— Quello che fu consacrato dalle gesta di Mattatia e dei suoi cinque figli, i Maccabei.
[26] — Conosco questa storia, rispose Claudia.
Di fatti ella aveva spesso sentito parlare degli Ebrei, alla corte di Tiberio, allorchè questi li fece tutti cacciare da Roma, e rinchiudere in luoghi malsani, sotto pena, se ritornavano, della schiavitù. Essa ne aveva inteso parlare in seguito dalle lettere di Pilato, che dipingeva con tetri colori quel popolo che non sapendo essere indipendente non si rassegnava a servire[4] e aveva delle costumanze strane: il sabato, la circoncisione, l'orrore degli stranieri e di una quantità di oggetti che considerava come contaminanti; di quel popolo, infine, che adorava un solo Dio, con riti altrettanto atroci che quelli degli infedeli. Claudia si preoccupava di questi tumulti continui, di quelle sètte, di quei messia che si attendevano, ed interrogava ora Trasilio, l'astrologo di Tiberio, ora Seleuco, il grammatico che Tiberio fece prima esiliare dalla corte e poi uccidere, perchè s'informava presso gli schiavi del libro che Cesare aveva letto nella giornata.
Claudia aveva forse un interesse palpitante a conoscere a fondo il carattere e il temperamento del popolo Ebreo.
All'indomani, nondimeno, siccome Modin non è che a tre ore di distanza da Gerusalemme, mentre la scorta a piedi e l'immenso seguito di bagagli e di bestie che accompagnava Claudia si metteva in viaggio, essa, seguita da Flaccus, da Gionata e dalla truppa numida, arrivando alla collina montò a cavallo per visitare il sepolcro di Mattatia. Gionata — dall'alto di quel punto ove si abbraccia la vista magnifica della larga pianura, della fiera vallata d'Ascalon e del lontano mare senza navigatori — indicò a Claudia, rimpetto [27] ad essa, la montagna rude, triste, erta, ove Mattatia si rifugiò coi suoi figli, dopo aver ucciso gli idolatri e rovesciato il simulacro di Giove nel tempio Madin; al disotto, a sinistra, coronata da nuvole, l'alta cima di Beth Horon, ove Giuda Maccabeo distrusse Seron, altro generale d'Antioco — uno contro venti — come aveva già rotto ed ucciso Apollonius, come doveva distruggere Lysias a Emmaus nel piano che si allunga dinanzi ad essi, e Nicanor a Adassa, che si scorge quattro miglia più lungi.
— Battaglie di giganti, gridò Gionata, suolo bagnato da sangue eroico, che illustrò la nazione, la vendicò dei passati oltraggi, la creò a nuova vita, ed alla fine la uccise.
— Come, la uccise? domandò Claudia.
— Ahimè! sì, rispose tristemente Gionata. Quando i Maccabei rovesciarono l'altare pagano a Modin, Israele non esisteva più che nei nostri libri sacri. La fede israelita era morta nell'indifferenza del popolo, per le leggi dei conquistatori stranieri. Il Tempio era profanato, la lettura delle nostre vecchie leggi proibita, la circoncisione posta in dimenticanza, l'osservanza del Sabato impedita sotto pena di morte; la successione dei grandi Sacerdoti era interrotta. Onias, il vero pontefice, aveva emigrato fra gli Ebrei che ormai popolavano Memfi e le rive del Nilo. In mezzo a mille di essi, uno solo forse sapeva leggere l'ebraico. Il caldeo, il siriaco, il greco avevano surrogato la lingua nella quale Mosè aveva comandato in nome del Signore, David aveva cantato e Salomone insegnato. Ma i Maccabei erano più uomini di mondo, politici, soldati, oratori, amministratori, che preti. Essi discendevano dagli esiliati di Babilonia, non già da quel vecchio stipite dell'aristocrazia Ebrea che era [28] restata fedele ai costumi, alle leggi, alle tradizioni, agli usi e all'organizzazione sociale dei nostri padri. Con essi arrivò al potere il partito della nazionalità politica e della riforma. Essi accumularono il doppio potere civile e religioso. Sostituirono la tradizione orale alla legge scritta di Mosè; la teoria personale e variabile — legge vivente del gran Collegio — al patto del grande legislatore. Provocarono e favorirono forse lo scisma, e furono causa che il popolo ebreo si divise in Esseniani, Sadducei e Farisei, laddove Mosè aveva stabilito una fede, un rito, un'arca, un tabernacolo, un patto (ai nostri giorni si direbbe una carta) per tutto il popolo d'Israele. All'unità del sacerdozio di Mosè, si rizzò di fronte lo scisma, che trionfò nel governo civile e s'impose alla credenza religiosa. Mosè, David, Salomone, i giudici che avevano fatto uscire dall'Egitto il popolo Ebreo, al tempo dei Maccabei sarebbero stati come stranieri nel gran Collegio, nella sinagoga, nel sanhedrin, nella scuola di Hillel e Shammai, per quei grandi principi-sacerdoti, pei Samaritani, pegli Ebrei infine. Mosè ormai era divenuto una memoria, una vecchia gloria nazionale, e nulla più. Quella massa di bronzo, rozza, ma compatta e solida, che Mosè aveva fusa e malleata a prova dell'urto di tutti i popoli che circondavano Israele, fu rotta dai Maccabei a fine di meglio lisciarla ed appropriarla alla moda del giorno. E fin d'allora la condanna del popolo Ebreo fu pronunziata. Noi non siamo più noi stessi; noi siamo ora un popolo come un altro a disposizione di tutti i popoli! Volendo creare una nazione, i Maccabei hanno creato uno Stato. Il carattere politico, così mondato, si era sviluppato: l'anima della nazione era franta. A Modin aveva preso principio la reazione contro lo straniero, [29] ma in favore di un solo partito della nazione che esagerò il pericolo, e non comprese l'essenza del carattere del popolo Ebreo. Il rabbì prese il posto di Dio.
Ciò dicendo, sempre camminando, volgendosi ora a Claudia, ora a Flaccus, Gionata entrò il primo nelle strette e nelle gole delle montagne ove principia l'ascesa verso Gerusalemme.
Non c'era strada. L'olivo, il lauro, il mirto, il mandorlo, la ginestra dal fiore d'oro, il frumento, crescono ancora in mezzo a quei gradini di macigno; ma a misura che si ascendeva, il bianco-spino, il leccio, la quercia nana, l'erica, la macchia, il picco nudo delle rocce, il sasso grigio o rossastro, divenivano più frequenti. Seguivano il letto dei torrenti. Non s'incontrava che dei guardiani di capre, dei poveri contadini a piedi, o un rabbì sul suo asino. Un grande silenzio ovunque. All'occidente, volgendosi, si scorgeva ancora il mare; di fronte, alture sopra alture; ai fianchi dei precipizii spaventevoli. Essi non si fermarono punto a Kirjath Jearim, ove i Daniti di Zorah e di Eshtaol piantarono le loro tende avanti di ascendere alla casa di Micah, sopra il monte Efraim, per rubare l'ephod, il teraphim e le imagini di metallo. Là pure, era restata per vent'anni, presso Eleazar, l'arca del Signore dopo che era stata perduta dagli Israeliti, presa dai Filistei, posta prima nel Tempio di Dagon a Asdhot e poi venduta.
All'undecima ora, essi poterono vedere il bel villaggio di Emmaus — a due miglia da Gerusalemme — in mezzo ai giardini verdi, brillanti, profumati, ove il pampino porporino ed il grappolo dorato aspirano all'ombra dell'ulivo, e si arrampicano intorno i fichi. Questa vegetazione, in questo sito, è un fuggevole bacio della natura che diviene sempre più [30] aspra, nuda, dirupata a misura che si ascende verso l'altipiano del monte degli Ulivi e di Sion.
Claudia e Flaccus raggiunsero qui quella parte della loro scorta che li aveva preceduti, e passarono oltre camminando frettolosamente in mezzo a rocce bianche, splendenti, frante e bruciate, per una strada fatta tutta a zig-zag. Il sole del mezzogiorno li opprimeva.
Scorsero finalmente la lunga stesa di muraglie che circonda Gerusalemme, le sue torri, il tempio, i suoi palazzi, il boschetto di datteri che ombreggia la porta dei Pesci, e a diritta il monte degli Olivi.
In quel momento, le vedette che stavano alla porta di Genath, la quale dà nei giardini del palazzo d'Erode, rientrarono per annunziare a Pilato che i viaggiatori erano in vista e si dirigevano verso la porta dei Pesci.
Pilato attendeva questi viaggiatori, o meglio questa viaggiatrice, da sette anni.
Egli aveva stabilito la sua dimora nella torre Mariamna; ma fino dall'indomani del suo arrivo a Gerusalemme, gli appartamenti detti di Cesare e di Mariamna nel palazzo d'Erode, erano pronti a ricevere questa ospite in ritardo. Non era passato un sol giorno, durante tutto questo tempo, senza che Pilato venisse a passeggiare solo e per molto tempo in questa abitazione splendida, ma silenziosa e fredda. Alla fine questo lungo desiderio era per essere soddisfatto, questa sete inestinguibile per essere calmata.
Quando il suo liberto spagnuolo venne ad annunziargli che sua moglie toccava le mura di Gerusalemme, Pilato era terribilmente occupato. Egli aveva ascoltato il rapporto che gli faceva il centurione Cneus Priscus — fratello di quel Cesonius Priscus che era [31] l'intendente delle voluttà di Tiberio — sopra l'arresto dei cospiratori della notte precedente, ed aveva incominciato ad interrogarli. Pilato interruppe sul momento questo interrogatorio, saltò sopra un cavallo che gli si teneva pronto nella corte, e si slanciò di galoppo, seguito da quegli otto schiavi nubiani, la cui faccia, le armi, ed i cavalli erano color della notte, e la cui fronte era cinta da una ciarpa rossa color dell'aurora, che componevano la sua unica guardia, e quasi i soli muti compagni che avesse.
Pilato raggiunse il corteggio alla porta dei Pesci.
La sua faccia bruna sembrava di scarlatto.
Saltò a terra per stringere la moglie fra le sue braccia.
Claudia, che parlava in quel momento con Flaccus, continuò la conversazione; poi si volse, e senza neppur alzare la ricca, di cui s'era coperto il viso lungo il viaggio per tema di abbronzire la pelle, presentò il fronte a suo marito. Pilato divenne pallido come una notte di luna piena, rimontò a cavallo dopo aver salutato il governatore della Siria, e si riprese il viaggio.
Gerusalemme sembrava un sepolcro. Non un uomo nelle vie, non un viso alle finestre, non un soffio umano nell'aria, eccetto il rumore che facevano gli uomini del corteggio che sfilando spaventavano le lucertole, i sorci ed i serpenti che si deliziavano al sole. Si sarebbe udito il ronzio degli insetti, e il gemitìo dei palombi del Tempio.
— È una città questa, o un cimitero? È la capitale della Giudea, o il Mar Morto, questa vostra Gerusalemme? domanda Claudia a Gionata.
— No, Claudia, rispose Pilato, che voleva attirare [32] la sua attenzione, è il Sabato. Il Sabato che preme questo popolo come un mare di bitume.
— È l'animale che digerisce? domandò Pomponius.
— È forse la tigre che è alle scolte e striscia, rispose Pilato.
— Bah! esclamò il governatore di Siria.
— Vedrete domani, aggiunse il procuratore della Giudea.
Ed aveva ragione.
Lo si vedrà domani, e poi ancora, e poi ancora «fino al giorno fatale in cui l'aquila piomberà sul serpente» come hanno profetizzato i nostri veggenti. Pomponius Flaccus si alloggiò in quella parte del palazzo detta di Cesare, Claudia, in quella detta di Mariamna. Pilato ritornò la sera nel suo nido solitario della torre Mariamna.
[33]
Ritorniamo ora sui nostri passi.
Un traditore s'era intromesso in mezzo a noi.
I nostri sospetti si fermarono per qualche tempo sopra Jesus Bar Abbas. Ma la condotta susseguente di questo cinico parassita ci provò che, se aveva tutti i vizii, aveva almeno la virtù del silenzio. Il fatto è, che Pilato fino dalla vigilia conosceva, se non lo scopo, almeno il sito della riunione dei nostri confratelli, nella casa della vallata di Josafat. Egli sapeva forse qualche cosa di più ancora, poichè s'astenne di andare incontro a sua moglie, facendole rimettere una lettera dove si scusava e le annunziava: che, tenendo in mano le fila di una grande cospirazione, la quale metteva in pericolo il governo Romano, egli non poteva allontanarsi dalla città.
La casa della vallata era un gran cubo a due piani, diviso in due stanze e preceduto da un piccolo giardino dinanzi la porta. Due finestre sul davanti, due sul di dietro, casa stillante l'umidità nell'inverno, infetta l'estate da scorpioni, lucertole, serpenti e topi, disabitata da un quarto di secolo forse, poichè il suo proprietario se ne stava a Cipro.
Fino dalla vigilia, una trentina di soldati dei più agguerriti, sotto il comando di quel demonio di centurione chiamato Cneus Priscus, erano usciti verso [34] notte dalla porta del giardino del palazzo di Erode, per non passare per le porte della città, e scorrendo vicino le mura erano andati a prender possesso di quella casa. Avevano passato colà la loro giornata in una mezza oscurità. Eccettuato alcuni caprai che avevano condotto le loro bestie per leccare quel po' d'acqua fetida che viene dalla valle di Hinnom, niun'anima viva si era avvicinata a quel sito. Ma, dal momento in cui il sole principiò a declinare dietro il Moriah, quei soldati avevano osservato verso il monte degli Olivi e lo Scopas, dei piccoli gruppi d'uomini che venivano dalla parte di Goreb, da Bezetha, dal Mizpeh, dall'Akra, gli uni discendendo il fianco della collina, gli altri uscendo dalle porte, e che, stretti alle mura, si avanzavano a passi lenti e misteriosi verso la casa. A certa distanza i gruppi si scioglievano: alcuni si fermavano, mentre altri continuavano, facendo in guisa che mai più d'uno alla volta varcava la siepe bucata del giardino ed entrava nella casa. La porta non aveva serratura e restava semiaperta.
I soldati di Priscus avevano chiuse le imposte e si tenevano ai due lati della porta. Ne accadeva, per conseguenza, che appena uno dei congiurati entrava e spingeva la porta dietro a sè, i soldati gli gettavano un mantello sul capo, e afferrandolo per le braccia, lo trascinavano nella stanza interna, lo legavano, gli sbarravano la bocca, e lo consegnavano alla custodia dei loro compagni. Questa trappola prese così una ventina di cospiratori, fra i più frettolosi. Ma quando il corno del Tempio suonò, e le tenebre divennero più fitte, i cospiratori si avanzarono con minori precauzioni affrettandosi per non essere in ritardo.
[35] Quando Menahem varcò la siepe del giardino, una dozzina dei suoi amici lo seguiva da presso. L'affare nell'interno non andava più coll'istessa precauzione e lo stesso silenzio. Il selvaggiume incalzava il cacciatore. Moab si dibatteva ancora quando Menahem si sentì prendere dalle braccia. Egli comprese subito. Gridò. E siccome era molto forte, cominciò a resistere. Questo rumore mise l'allarme negli ultimi che ponevano già il piede nel giardino. Ascoltarono; non vedendo più chiaro nella casa, sentendo dei gemiti repressi, un rumore d'armi e di lotta, compresero che i loro complici erano caduti in un agguato. Allora si allontanarono. Prisco li vide partire. Ma egli non aveva seco abbastanza forza per inseguirli e nello stesso tempo vegliare sulla preda già fatta.
— La tortura farà il resto, pensò: questi che ho in mano parleranno, e riveleranno i complici.
Comprendendo ch'era ormai inutile di attendere più lungamente, temendo forse che quelli che s'erano messi in salvo ritornassero con altri, in numero sufficiente per liberare i loro complici, Cneus Priscus prese la risoluzione di uscire dalla casa, e rientrare colle sue vittime a Gerusalemme.
Per maggior sicurezza, le aveva condotte nella torre Faselo. La prigione della città poteva essere infedele, o troppo debole per custodirle.
Tale era il rapporto che Priscus aveva fatto la sera stessa a Pilato, e ch'egli aveva la mattina dopo ripetuto alla presenza dei prigionieri. Dopo di che il procuratore aveva dato mano all'interrogatorio degli accusati.
Le istruzioni scritte, che si erano trovate sopra Menahem, semplificavano singolarmente la procedura. Pilato li interrogò uno dopo l'altro a parte; nessuno [36] disse una parola. Alla domanda: Perchè andavi tu in quel sito solitario e remoto? tutti fecero l'istessa risposta: per pregare!
Moab rispose con questa variante: Per pregar Dio che mi liberasse dagli scrupoli di ucciderti, o Pilato!
E Menahem disse: io vi odio tutti, avoltoi romani: noi vi odiamo tutti, e verrà il giorno in cui i nostri fratelli vi schiacceranno come vipere.
Pilato avrebbe dovuto sottoporli alla tortura per farli parlare, per strappare dalle loro labbra il nome dei complici ed il piano della cospirazione. Ma, sia ch'egli credesse ventidue vittime esser bastanti, sia che disdegnasse colpire le altre, sia che conoscesse i nostri progetti, sia pietà o sazietà, egli non ordinò di mettergli all'aculeo.
Egli confessava l'ultimo prigioniero, allorchè il suo liberto gli annunziò l'arrivo di Claudia.
Il resto del Sabato, non si occupò più di quella gente. I doveri dell'ospitalità verso il suo superiore, l'ansietà di trovarsi con sua moglie, gli servirono di distrazione.
La conversazione ch'egli ebbe con lei non fu lunga. Lo si vide uscire dalle stanze di Claudia abbattuto.
Il suo abboccamento con Pomponius Flaccus fu più lungo e più soddisfacente.
Nondimeno all'alba del dì seguente egli discese al pretorio, e dopo aver dato certi ordini in segreto ai capi delle truppe, ricominciò l'interrogatorio dei prigionieri, e la discussione della sentenza coi suoi consiglieri. Era a quel punto, allorchè i suoi emissarii vennero a parlargli in segreto.
Il segreto era del resto inutile. Ciò ch'essi venivano a denunziare si denunziava da sè.
La giornata del Sabato era stata lugubre. L'arresto [37] di ventidue capi dei più considerevoli e dei più arditi di tutti i partiti aveva colpito nel cuore la nazione. Quelli che s'erano salvati, e noi stessi, commissarii superiori, non avevamo potuto prendere nessuna risoluzione, sia che il giorno del Signore ci paralizzasse, sia che temessimo di esser sorvegliati. Noi ci attendevamo anzi di essere arrestati da un momento all'altro. Alla sera le porte erano state chiuse contro l'abitudine del tempo delle grandi feste del Purim, del Peschah e dei Tabernacoli, e i soldati romani avevano surrogato i nazionali. La guarnigione della cittadella Antonia era restata in piedi tutta notte. Tutto insomma indicava che Pilato seguiva le fila dei nostri progetti, e vegliava.
Io m'era nondimeno arrischiato ad andare a vedere alcuni dei nostri capi che abitavano la città. Non ne trovai nessuno. Del sagan e di Bar Abbas non sapevo che farmi. Justus venne a raggiungermi da Maria, come di solito, ma tremava e non sapeva nulla. Io aspettava il giorno con ansia febbrile per andare a vedere quelli di Galilea, Perea ed Idumea, che erano accampati sotto le tende o le capanne di rami sulle colline da cui Gerusalemme è coronata.
All'alba ero in piedi. Uscii dalla mia casa del quartiere d'Ophel e mi avvicinai alla porta della Torre delle donne, che conduce al sobborgo di Bezetha-Gareb, aspettando che il guardiano aprisse.
Avevo meditato tutta la notte sopra la posizione della congiura dopo la sua scoperta e l'arresto dei ventidue capi, ed avevo deciso che, in qualunque evento, bisognava spingere le cose fino all'estremo.
Sapevo fino dal principio che tutto questo non avrebbe fatto progredire d'un pollice ciò che si chiamava la liberazione nazionale, e non me ne davo [38] alcuna pena. Il mio progetto era di compromettere la gente del Tempio, di soddisfarla per attaccarmela, e metterla male sempre più con Pilato. Il sagan che non capiva niente, che non pensava niente, si lasciava condurre, purchè lo si credesse l'anima di tutto il movimento, e che fosse lui quegli che concepiva, che comandava, il padrone, il cuore ed il cervello del popolo ebreo. Anche con me egli recitava qualche volta questa parte. Una volta compita la rottura fra il palazzo d'Erode ed il Tempio, tutto sarebbe andato per bene. Che importavano allora l'insuccesso, le vittime, l'indietreggiare d'un giorno, l'aggiornamento di alcuni mesi, il sangue degli uni o il trionfo degli altri? Io intendevo dunque di andare a spingere avanti le genti di Samaria e di Galilea che sono le più intraprendenti, ed attendevo l'apertura delle porte. Udivo dall'altra parte un rumore più forte che all'ordinario. Vedevo sul fianco della collina un movimento insolito, un mormorio lontano, continuo, che veniva da differenti punti della città e dai suoi contorni, colpiva le mie orecchie. Bar Abbas mi vide e mi venne dappresso.
Egli toccava di già ad un sufficiente grado di ubbriachezza.
— Giuda, mi diss'egli, sai dunque...
— Tutto.
— Ed ora che gli altri sono presi, che dobbiamo fare?
— Andare sempre avanti. T'arresti forse tu, se in un campo di battaglia un camerata ti cade vicino?
— È ciò ch'io mi diceva. Allora ho fatto bene...
— Che cosa hai fatto?
— Perdinci! Ho consigliato d'agire, come se nulla fosse accaduto.
[39] — A meraviglia. Ora bisogna scuotere gl'indolenti, e rinfrancare i dubbiosi.
— Io me ne vado dalla parte del mercato e alla piazza della Legna, e li farò marciare come dei vecchi legionari. Addio; verrò a pranzo da te, perchè ieri, per onorare il Signore, non ho messo nulla nella mia bisaccia.
Le porte si aprivano. Un fiotto di popolo si precipitava nella città. In pari tempo un formicaio d'uomini si svegliava e si animava in quell'alveare di case, che dalla valle dei Cacciai fino alla cima s'addossa al Moriah e al Sion. Vidi passare per quelle immonde straduzze centinaia di giovani e vecchi che si dirigevano verso la piazza del Pretorio. Questa piazza diveniva per necessità il centro del movimento. Io mi ci recai pure. Passai però prima dal sagan. Egli mi attendeva. Caifa era con lui, più scompigliato, più confuso, più pauroso e più indeciso che lo stesso Hannah. Ottenni la loro attenzione, e li decisi, facendo loro considerare che, non potendo più indietreggiare, si doveva lasciar agire gli avvenimenti, che si producevano da sè medesimi.
Caifa uscì per far mettere all'opera la sua gente.
Hannah mi raccomandò d'eseguire strettamente le sue istruzioni.
Nel partire incontrai Justus quasi travolto da una immensa folla, che lo portava in avanti come suo capo. La parola d'ordine era sempre la stessa: Abbasso l'acquedotto! rispetto alle offerte!
I Romani hanno una marcata predilezione per l'acqua e le fontane nelle loro città. Ne fanno un oggetto d'ornamento ed un mezzo d'igiene pubblica. Pilato intendeva illustrare il suo governo a Gerusalemme lasciandovi delle fontane, di cui la città, del resto, [40] aveva ben d'uopo. Egli aveva principiato un acquedotto di venticinque miglia per condurre l'acqua da lontano: monumento d'arte e di pubblica utilità che avrebbe rivaleggiato e forse eclissato l'Acqua-Giulia. Non volendo per quest'opera caricare il popolo di tasse, aveva reclamato ed ottenuto da Caifa, per forza o per amore, quell'imposizione di mezzo siclo che ogni Ebreo è obbligato di pagare al Tempio tutti gli anni, ed il doppio se paga il giorno di Sabato. Questo sacro tributo si chiamava l'offerta.
Mi avvicinai a Justus, e gli dissi a bassa voce:
— Sempre avanti. Nulla è cangiato.
Intanto dalla porta Dorata, che conduce pel ponte sul Cedron alle strade del Giordano e del Mar Morto, dalla porta Giudiziaria, che s'apre sopra le strade di Gaza e di Egitto, dalla porta di Efraim che mena a Samaria, e da quella di Beniamino ove mette capo la via di Anathot e quella di Betlemme, delle onde di provinciali s'ingolfavano nella città, condotti da quei capi che erano scappati al tranello teso nella casa di Josafat da Pilato. Tutti si dirigevano verso il forum di Gerusalemme, la piazza del Pretorio che sta dinanzi al palazzo d'Erode. Io mi diressi da quella parte, toccando la piazza del mercato.
Là, in mezzo ad una folla immensa, vidi Bar Abbas che gridava:
— Dannazione dell'anima mia! Dell'acqua? ancora dell'acqua? Abbiamo noi bisogno d'acqua? a che serve l'acqua? È buona tutt'al più per annegarsi, pelle persone sudicie che hanno d'uopo di lavarsi; e per quei zelanti che non sfiorerebbero le labbra delle loro mogli senza credersi impuri!
— Sì, sì, abbasso l'acquedotto! gridava il popolo.
— Se si facessero almeno delle fontane di vino! [41] allora si capirebbe. Il vino! Vi piace il vino, ragazzi?
— Evviva il vino! vociavano i biricchini: gloria al vino e a chi ne ha!
— Del vino sopratutto, ragazzi, continuava Bar Abbas. Val bene la pena di costruire degli acquedotti lunghi venticinque miglia per fornire d'acqua il popolo di quel Dio che si divertì a fare il diluvio, il popolo che durante quarant'anni ha bevuto dell'acqua nel deserto con Mosè! Anche a Mosè piaceva l'acqua. Ecco perchè era odiato da sua moglie. È dunque deciso. Non vogliamo acqua. Abbasso l'acqua! La pioggia ci bagna già abbastanza, la Dio mercè, quando le nostre case sono bucate.
— Abbasso l'acqua! abbasso l'acqua! rispondeva la folla.
— E rispetto all'offerta, figliuoli. La moneta santa! Per le corna di Mosè! e che cosa farebbero i nostri preti? Vogliamo dunque ch'e' diventino magri come tante cavallette? Si lagnavano già che la tassa santa era troppo leggiera. Figuratevi se la confiscano. Ci metteranno una tassa di un siclo a testa.
— Rispetto all'offerta! gridava la plebe.
— Mi piacciono i preti grassi, a me, seguitava Bar Abbas. Sono contenti, e quindi di buon umore ed umani. Samuele era magro, e inquietò Israele. Geremia era magro perchè non digeriva bene, e fece di Gerusalemme una valle di lagrime. Si andava a nozze piangendo, si mangiavano dei buoni pranzi versando lagrime, si abbracciava la moglie gemendo: si aveva disimparato a ridere. Prendere l'offerta? ma si vuol dunque ridurre i nostri amabili preti a nutrirsi di sterco, come.... rammentatemi un po' il nome di quel profeta maiale...
[42] — Vivano i preti grassi! rispetto all'obolo di Dio! gridava sempre la plebe.
— E poi, ragazzi, i Romani devono forse darci da bere? non è abbastanza che ci prendano quello che abbiamo per mangiare, senza che vogliano ancora condannarci all'acqua per raffreddarci? Se amano l'acqua, vadano a berla a Roma. Noi siamo figli di coloro che si regalarono nella terra promessa di grappoli d'uva grossi come la torre Phasaelus. Non basta dunque ai Romani di prenderci tutto: vogliono far tavola rasa, tavola lavata, tanto che non ci resti più nulla sopra. Vogliamo essere sporchi noi! I nostri profeti lo erano e conversavano con Dio, malgrado ciò.
— Abbasso gli acquedotti! abbasso gli acquedotti! continuava la plebe.
— Sì, agnellini miei, ed andiamo a cercare una spiegazione chiara dal procuratore. Che lasci tranquilli i nostri preti! Quando i preti sono contenti, tutto prospera, principiando dalle vostre donne. Il nostro Dio è già abbastanza povero: lo derubano a chi può meglio. Vorrebbero infine ch'e' si mettesse al servizio dei Romani, per vedere il colore dell'oro? Egli fa dei miracoli: se vuole dell'acqua, come al tempo di Mosè, non ha bisogno di comperarla.
— No, no, che non si tocchi il denaro di Jehovah!
— Ebbene, è questo che andiamo a cantare gentilmente al procuratore. Seguitemi e zitti! Parlerò io per voi: unitemi soltanto alcuni di Galilea e di Samaria. Io so come si parla ai capi. Ho parlato a Tiberio, quando combattevo sotto di lui! Un capo fermo, quello! I vecchi avanti, i giovani in mezzo, le donne ed i bimbi a casa o nel Tempio.
In un batter d'occhio, quella moltitudine immensa [43] si mise in ordine, e Justus ed altri quattro commissari si univano a Bar Abbas, costituitosi oratore dei lagni popolari. Allora, salendo verso il Moriah, lasciando a sinistra il palazzo dei Maccabei e l'Ippodromo a diritta, camminando lungo il Tempio dalla porta Occidentale fino al palazzo degli Archivii, essi traversarono la grande piazza, e si fermarono appiedi dei diciotto gradini che formavano la scala del Pretorio.
Pomponius Flaccus, che era stato avvisato fin dalla vigilia di ciò che doveva accadere in quel mattino, non si stupì nè si commosse per quelle grida del popolo. Egli digeriva ancora, del resto, la cena ed il vino della notte. Poichè Pilato, quantunque non bevesse che acqua pura, aveva una cantina eccellente. Claudia Procula, che ignorava tutto ciò che accadeva, si destò, o meglio, fu destata dalle sue schiave, spaventate dalla sommossa.
Pilato fece avvertire la moglie di non temere di nulla; ma Claudia, coperta ancora da quelle bandelle dell'acconciatura notturna di cui usavano le dame romane per conservarsi la pelle più fresca e più bella, si gettò sulle spalle una specie di pallium incarnato che la copriva da capo a piedi, e salì sopra la terrazza che circondava il palazzo.
Essa dominava la città.
Pilato, all'avvicinarsi della folla, aveva inviato i suoi prigionieri alla torre Phasaelus, temendo non glieli strappassero dalle mani. Aveva appunto finito di scrivere la sentenza di condanna per essi, allorchè il capo della guardia che vegliava alle porte del palazzo entrò per annunziargli che una deputazione del popolo desiderava di parlargli. Pilato esitò un momento fra il riceverla e il farla respingere a scappellotti. Alla fine si decise a lasciarla entrare.
[44] Jesus Bar Abbas si avanzò alla testa dei cinque altri parlamentari, camminando nella sala con passo da re. I suoi stracci facevano spiccare la dignità della sua andatura. Aveva l'intenzione, semplicemente, d'esser sublime. Una mano al petto, l'altra sul fianco, la testa alta e un po' indietro, mentre fissava lo sguardo su Pilato, sembrava ammirare gli intagli in legno di cedro del soffitto. Puzzava d'aglio come tutti gli spagnuoli uniti insieme. E siccome Justus lo incalzava troppo da vicino, egli spingeva di tanto in tanto il piede indietro, affin d'allontanarlo e tenerlo al suo seguito, non al suo fianco. Ond'è ch'ei sembrava zoppicare.
Le sopracciglia di Pilato si aggrottarono, il suo respiro divenne agitato.
— Signor procuratore, son io, disse Bar Abbas, avanzandosi davanti la sedia curule di Pilato.
— Quella bruzzaglia non aveva dunque nulla di meno sporco da inviare come suo ambasciatore? domandò Pilato volgendosi agli altri parlamentari.
— La bruzzaglia sa che io sono un oratore, rispose Bar Abbas, interrompendo Justus che era lì per fare una scusa; ecco, o Pilato, la ragione perchè io varco la soglia del palazzo dei nostri padri.
— Dei tuoi padri? Sì, sì, disse Pilato sogghignando: parla dunque, parla.
— Il popolo d'Israello.... cominciò Bar Abbas.
— La canaglia! interruppe Pilato da focoso spagnuolo ch'egli era.
— Se mi esprimo male in latino, che, per altro, ho parlato per vent'anni nelle legioni di Cesare, ti arringherò in greco. Vedi, Pilato, sono letterato, sai! Ho insegnato ai Galli il passo che David danzava dinanzi l'arca, ed ai tuoi compatriotti il concime di [45] quelle lenti per le quali Esaù vendette la sua primogenitura.
Pilato si contorceva sulla sua sedia, ma Bar Abbas continuò:
— Non ho avuto tempo, o Pilato, di comporre la mia concione. Gli avvenimenti mi hanno sorpreso nella piazza del Mercato, e l'amore pel mio popolo m'ha detto: Va avanti. Mi sono posto alla sua testa, e vengo a dirti a suo nome: Quousque tandem abuteris, Pilate, patientia nostra?
— Non c'è nessuno fra voi che abbia un po' di senso comune per prendere la parola? gridò Pilato battendo col pugno sul tavolo.
— Come, del senso comune! io vengo a nome del popolo ebreo per parlarti dell'acqua e non del senso comune, io che ho avuto l'onore di parlare al divino Tiberio, tuo padrone, e di dirgli: Buon giorno, Cesare!
— Gettami codesto galuppo fuori della porta a pedate, ordinò Pilato ad un decurione di guardia nella sala.
Il decurione obbedì alla lettera; ed intento che eseguiva l'ordine, Bar Abbas sgambettava gridando e grattandosi le parti offese.
— Andiamo, via, Lentulus, a modo, fa da vecchio camerata, più dolcemente, non colla punta, dal lato... Ah, bravo, ora la tunica è forata, ed ecco la mia faccia posteriore esposta agli sguardi del signor Pilato e delle stelle della Siria.
Justus si avanzò allora, e domandando scusa delle buffonerie di Bar Abbas, espose a Pilato i piati del popolo ebreo.
— Sta bene, rispose il procuratore: non ho consigli a prendere dal popolo ebreo, e non ho conti da [46] rendere che a Cesare. So quel che faccio, e quel che faccio è ben fatto. La città ha bisogno di fontane, ed io voglio farle. Se il popolo ebreo trova che agisco male nell'adoperare l'offerta, invece di aggravarlo con un'altra tassa, e fa come l'asino, che, soccombendo sotto il peso, dà delle calciate al padrone, che si affretta ad alleggerirlo. Ecco la mia risposta. Andate.
— Dunque, dimandò Justus, l'acquedotto sarà finito, e l'offerta continuerà ad essere spesa in quella costruzione?
— Sì. Andate.
La deputazione salutò e partì.
La folla rumoreggiava di già al racconto fantastico che Bar Abbas le tratteggiava dell'accoglimento ricevuto. Quando gli altri commissarii vennero ad annunziargli che la volontà di Pilato era incrollabile, che i lavori dell'acquedotto non sarebbero sospesi, la tassa del Tempio non rispettata, un grido immenso partendo dalla piazza del Pretorio, circolò di strada in strada, di fila in fila, da Sion al Moriah, dall'Akra al monte degli Ulivi, risuonò nell'aria, avviluppò la città tutta.
Claudia ne fu spaventata.
Flaccus si risvegliò.
Pilato sorrise. Egli l'aveva di già castigato, questo popolo, allorchè non voleva che girassero per le vie della città le insegne con l'effige di Cesare, la legge ebrea proibendo le immagini come idolatre. Senza dunque commuoversi, fece chiamare Decius Crispus, comandante di tutte le forze romane che occupavano Gerusalemme, e gli disse:
— Prendi le due coorti che stanno nella corte del centro, e, l'arma nel fodero e la frusta alla mano, disperdimi quella marmaglia. Non fate sangue; ma batteteli bene e forte.
[47] Decius Crispus, che Pilato sceglieva perchè lo conosceva per umano e dolce, lo salutò e cinque minuti dopo uscì dal palazzo.
La folla non s'era mossa, gridando sempre: Abbasso l'acquedotto! non toccate l'offerta! Crispus le rivolse alcune parole concilianti, consigliandola di cessare dal rumore e di rientrare nelle sue case. Fu insultato. Allora diede ordine ai suoi di respingerla.
Ai primi colpi di frusta le grida raddoppiarono. Ma quelli che sentivano cincischiarsi la faccia indietreggiarono e spinsero indietro gli altri. Allora principiò la ritirata. Qualche pugno ricevuto dai soldati accrebbe la loro collera e la forza delle loro braccia. Ma accadde per disgrazia che uno dei soldati insanguinò di un colpo di frusta la faccia di Bar Abbas. Il dolore gli strappò un grido terribile. Nello stesso momento cacciò fuori di sotto il pastrano un coltello, e lo immerse nel ventre al soldato. Il Romano cadde gridando: ci assassinano!
Questo fu il segnale.
I soldati che non avevano fatto uso fino a quel momento che delle verghe, sguainarono le daghe e principiarono a ferire. Gli Ebrei erano disarmati: la carnificina non incontrò ostacolo. I soldati di Pilato si aprirono una strada di sangue attraverso quella moltitudine di vecchi e di giovani che erano venuti lì più per supplicare che per rivoltarsi. Essi li abbattevano a dritta e a sinistra come le spighe sotto le mani dei mietitori. Quelli che fuggivano rovesciavano i più deboli e li schiacciavano. Guai a coloro che cadevano: non si rialzavano più. Le botteghe, le porte delle case si aprivano per dare asilo a quei disgraziati; ma il sangue dava la vertigine ai soldati. Il tempio stesso non fu rispettato: la corte dei preti [48] come quella dei pagani, il lishcath ha-Gazith, come il mercato sacro, i chiostri e le camere sante, tutto fu contaminato dal sangue, e coperto di cadaveri. Tremila vittime perirono, fra cui due soli soldati romani!
All'indomani le valli dell'Hinnom, di Josafat e il Cedron erano coperte di cadaveri, per la maggior parte Galilei, sudditi del tetrarca Antipas Erode.
Claudia, durante tutto il primo momento di quella protesta, si era tenuta sul terrazzo ad ammirare lo splendido panorama che la circondava. Ella contemplava il Tempio, il cui frontone, coperto di lamine d'oro luccicanti al sole, l'abbagliava; la valle che sempre scendendo finisce a Betlemme, a Gerico, al Giordano, al deserto, al mar Morto, vasto spazio d'azzurro e d'oro, che chiudeva una parte dell'orizzonte come uno zaffiro termina il rostro di una corona. Essa ammirava i giardini di Silohè, i gruppi argentati degli alberi del monte degli Olivi, gli splendidi giardini del suo palazzo, la catena delle montagne della Giudea e di Beniamino, le quali si riattaccano con un altipiano ai due speroni di Sion e di Akra; e molto lontano, al di là del Giordano e del deserto, le montagne di Moab, che rassomigliavano ad una nuvola violetta pagliettata di oro.
Quando si fece udire il terribile ruggito del macello, Claudia portò i suoi occhi dal cielo alla terra, e seguì, senza impallidire e senza dare indietro, il solco della daga romana a traverso i figli di David. Poi, quando il sole cominciò a darle noia, temendo per la tinta della sua pelle, rientrò lentamente mormorando a Cypros, la schiava gallica che aveva la cura della sua testa:
— Arrivo a tempo!
[49] Flaccus seppe nel suo bagno la notizia della carnificina, mentre i suoi schiavi gli grattavano la pelle con una pietra pomice di Lesbo, dolce come i labbri d'una fanciulla.
— Bah! disse egli, quei birbi se la caveranno coll'aguzzare di nuovo le loro spade domani.
Ed ordinò che si ponesse un'altra pastiglia di mirra nelle cassolette d'oro che profumavano il suo appartamento.
Pilato, invece, alla vista di quella terribile catastrofe si strappò i capelli dalla disperazione. Si gettò di slancio sul primo cavallo che trovò nella corte, e corse dietro agli uccisori, gridando: Fermatevi, fermatevi!
Ma egli, ahimè, s'avanzava lentamente!
I cadaveri, i feriti, i caduti gli ostruivano la strada. Le grida di maledizione che attristavano la via, lo opprimevano. Egli riescì alla fine a calmare il furore dei soldati; ordinò che si ritirassero, e ritornò egli stesso al palazzo col cuore piagato e l'anima piena di dolore e rimorso. Entrò nella sala dei giudizii. Gli fu presentata la sentenza contro i ventidue prigionieri ch'egli aveva condannati il mattino. La rilesse, restò lungamente a riflettere, e domandò ai suoi consiglieri se la era giusta e secondo la legge. Gli risposero affermativamente.
— Allora, disse egli, fate venire i prigionieri.
Davanti le porte del palazzo — gli Ebrei separatisti si credevano contaminati varcando la soglia della dimora di Pilato — si stende una corte aperta, in mezzo alla quale, dacchè il palazzo d'Erode è divenuto il Pretorio Romano, è incrostato un quadrato di mosaico che segna il sito del giudizio. Noi chiamiamo quel luogo il Gabbatha. Nel mezzo del Gabbatha si alza un piccolo banco di pietra, screziato di marmi [50] a varii colori, sopra il quale si metteva la sedia curule del pretore, quando doveva leggere la sentenza dei delinquenti. Si poteva, secondo le nostre costumanze, pronunciare la sentenza nella sala di udienza, ma la si doveva pubblicare all'aria aperta innanzi al pubblico che voleva udirla.
Quando Pilato venne a sedersi al suo posto, i prigionieri, legati in due catene di undici ognuna, lo aspettavano in due file, una a diritta, l'altra a sinistra. Le guardie del Pretorio si stendevano in cerchio intorno ad essi, ma popolo non c'era. La corte era vuota. Malgrado ciò, Pilato passò oltre. Egli domandò ai condannati:
— Avete nulla da aggiungere in vostra difesa?
Nessuno rispose. Alcuni sorrisero sdegnosamente e con ironia.
— Leggi la sentenza, disse Pilato al suo scriba.
Questo personaggio lesse la sentenza in latino. Un interprete la tradusse nella nostra lingua. In sostanza essa decretava così: i ventidue prigionieri incatenati saranno esposti domani nell'anfiteatro alla vista del popolo che non li ha veduti oggi, avanti che principiasse lo spettacolo, e saranno frustati con dieci colpi di verga ciascuno. Dieci di questi delinquenti (di cui la sentenza dava i nomi) saranno crocifissi nella sera stessa. Sei altri (di cui parimente erano scritti i nomi) saranno dati in preda alle bestie feroci nel secondo giorno. I sei ultimi infine, i più vigorosi ed i più giovani, combatteranno il terzo giorno le bestie, armati soltanto di spada corta. Quando la sentenza fu letta, Pilato domandò di nuovo, rivolgendosi al popolo che non c'era in realtà:
— V'è qualcuno che abbia osservazioni a presentare?
[51] Naturalmente nessuno rispose. Allora egli si volse ai condannati, e soggiunse:
— E voi avete niente da opporre? Avete qualche cosa da domandare, che non tocchi la sentenza?
I condannati tacquero. Solamente dopo un minuto di silenzio, durante il quale si avrebbe potuto udire i battiti di tutti i cuori, Menahem gridò:
— Dio che accende i giorni nel cielo maturerà quello della vendetta.
Pilato scosse lievemente il capo, e rispose con calma.
— Se codesto giorno trovasi in un anno qualunque, il tempo non l'ha ancora segnato nel suo libro.
Un minuto dopo, l'usignuolo gorgheggiava nei giardini del palazzo, stesi ai piedi dell'Ophel e bagnati dalle acque deliziose di Enrogel; le tortorelle gemevano, il vento del mezzodì folleggiava con le fragranze della valle di Siloam, le farfalle svolazzavano, spiegando il loro scrigno di gioielli in mezzo ai fiori della corte.
Il pranzo di Pilato e del suo ospite era pronto.
[52]
L'anfiteatro di Gerusalemme era stato costrutto dal re Erode.
Il re sapeva benissimo che la legge proibiva il genere di spettacoli che vi si danno per solito. Ma egli provava questo mezzo di seduzione, come ne aveva tentato tanti altri, nobili, utili, politici, umani, per spezzare quella cerchia di bronzo, ch'estraniava gli Ebrei dalla comunanza degli altri popoli dell'Oriente e dell'Occidente. Egli fallì in questa, come in tutte le sue altre idee, troppo grandi per un popolo così incolto e così rozzo.
L'anfiteatro, al tempo di Erode, era sempre stato popolato, come lo è oggidì quello di Pilato, da spettatori venuti perfino dalla Grecia e dall'Egitto — da Damasco a Memfis, da Gaza a Tiro, — dalle città greche e romane che s'innalzano sopra il suolo dei figli di Jacob, — Cesarea, Gadara, Sephoris, Pella, Scitopoli, Hippos, Phasaelus, Tiberiade. Le città di Samaria si vuotavano, tutti andando a vedere le feste di Pilato, che coincidevano con quelle dei Tabernacoli degli Ebrei. Il vasto circo rigurgitava quindi di popolo fin dalla mattina.
V'erano anche degli Ebrei, ma dei due partiti estremi: l'aristocrazia sadducea, e quella infima plebe che non si classifica, ma si ammonticchia. Siccome da noi [53] non ci sono vestali, il podium era stato riservato alle dame di alto grado, per le quali c'era una sportula apposita di entrata. Le file superiori erano tutte occupate dalle donne, quasi tutte velate; le prime, dagli uomini di condizione più elevata, magistrati, principi, capi di milizia, preti, antichi ufficiali delle sinagoghe. Una inferriata, non molto alta veramente, li proteggeva dalle fantasie di quelle bestie che avessero voluto cercare altrove che nell'arena un sito per rappresentare la loro parte.
Ad una delle estremità di questo ovale, a nove o dieci piedi al di su dell'arena, si trovava la loggia di Pilato — rimpetto al podium — separata dagli altri spettatori soltanto da una corda di seta ed oro, tesa ai due lati, dalla graticola di ferro ai gradini superiori. Sul davanti, sopra due sedie d'avorio incrostate d'oro, siedevano Claudia Procula, con ai piedi dei cuscini di seta azzurra ricamata di argento, e Pomponius Flaccus che li poggiava sopra un tappeto persiano. Dietro ad essi il seguito delle loro corti e degli ufficiali. Pilato occupava un seggio speciale un po' più lungi, come mastro dello spettacolo; poichè a Gerusalemme non vi erano come a Roma edili o direttori speciali per questo oggetto. Un velarium tessuto di bianca lana di Bethania, a righe cremisine di lana di Sion, copriva bene o male tutto il vasto ricinto.
La varietà di costumi degli spettatori allettava lo sguardo. Ma coloro che qualche volta nella loro vita avevano assistito ai circhi romani ed agli ippodromi greci, ove il popolo è sì gaio e rumoroso, avrebbe creduto di vedere, in quella folla così tranquilla e così seria, un'assemblea che assiste ad un processo capitale in una corte di giustizia. D'altronde quei combattimenti al cesto, quei reziarii, quei dimacheri, [54] quegli andabati, che potevano avere di interessante per gente che si era trovata la vigilia presa in quella strana caccia che i soldati romani avevano data al popolo ebreo, trafiggendo petti, dorsi, fianchi, tagliando teste e membra, e correndo sempre innanzi, sempre innanzi, sopra feriti, morenti e cadaveri? Non c'era una famiglia ebrea che non avesse il suo lutto; donde poteva spillare la gioia? Nessuno conosceva quei combattenti, nessuno scommetteva per uno o contro uno di essi; come potevano interessarsene? Il popolo ebreo ha della sensualità per la bellezza, come tutte le razze orientali, ma non il sentimento del bello, come il Greco ed il Romano. Il popolo ebreo teme la forza ed è malfidente della destrezza; egli non l'ammira, non la coltiva, e nemmeno, a mo' dei Greci e dei Romani, l'apprezza. Come si sarebbe egli appassionato per le belle forme dei gladiatori greci, per l'ammirabile abilità di quei dimacheri italiani, i quali, pugnando di spada e di pugnale, senza armi difensive, si uccidevano a vicenda; o per l'agilità di quel reziario, e di quel mirmillone, l'uno ucciso e l'altro ferito a morte? Appena se si rise un po' degli sbagli di quei Galli andabati, di cui uno — camuffati come erano di un elmo di ferro che non aveva aperture che alla bocca ed alle orecchie — dopo diverse balordaggini, ebbe un braccio spiccato fuor netto, e l'altro il ventre squarciato. Tutto questo era accolto con freddezza.
Ma una scena d'altro genere venne ben tosto a destare una dolorosa commozione.
La giornata doveva chiudersi con una pantomima di ballo e di canto di una festa di Sileno, interrotta dall'irruzione di un toro, aizzato da cani che lo cacciavano e che lasciavano il tempo così ai cori ed [55] ai cimbalisti di mettersi in salvo per la sana vivaria e le altre uscite dell'arena. Ma avanti che si rappresentasse questa commedia, Pilato volle che la sua tragedia precedesse.
Le trombe suonarono. Il silenzio del deserto si fece profondo nella festa. Allora un araldo si alzò dietro a Pilato, ed avanzandosi, gridò: Ecco la sentenza dei cospiratori contro Cesare.
Dopo che l'araldo ebbe letto il decreto pronunziato il dì innanzi dal procuratore, questi fece un segno. Allora il vomitorio che stava al disotto del podium si aprì, e apparvero i condannati. Erano divisi in tre file, legati da corde pugno contro pugno. Quelli che dovevano esser crocifissi la sera precedevano gli altri. Erano i più vecchi, i più deboli; li conducevano soldati indigeni. Il secondo gruppo era composto dei condannati alle bestie, in semplice tunica, con un solo pugnale a difesa. Moab era alla testa di questo; dei soldati Romani marciavano dietro a loro. Finalmente venivano i sei condannati alle bestie, ma armati questi di tutto punto, eccetto la corazza e lo scudo. Menahem era fra costoro; i legionarii gli scortavano.
Quando apparvero nel circo, un grido immenso echeggiò in mezzo alla folla: Gloria ai figli d'Israele: coraggio, coraggio! Poi seguì un silenzio che faceva fremere. I condannati non pronunziarono una parola. Tutti avevano il passo sicuro, l'aria calma, l'aspetto dignitoso, quasi andassero a compiere un sacrifizio religioso.
Menahem camminava, la testa alta, lo sguardo perduto nel cielo, come se avesse voluto squarciare il velarium, e incontrare nel firmamento lo sguardo, il sospiro, il bacio forse, ch'e' vi cercava. Moab scorreva degli occhi ansiosi le gradinate dove stavan le [56] donne, visibilmente inquieto, concentrando tutta la potenza della sua vita in quegli sguardi investigatori. Percorsero così tutta l'arena da dritta a sinistra, tenendo il dosso voltato al podium, durante la metà del loro passaggio.
Io stava rimpetto a quella parte dell'anfiteatro. Allorchè i condannati arrivarono sotto la loggia di Claudia, alla vista quindi delle donne che avevano preso posto nel podium, osservai un brusco movimento di una di queste, che era seduta in prima fila, all'istesso livello della moglie di Pilato. Mano mano che i condannati avanzavano verso quella parte dell'arena, la agitazione di quella donna aumentava. Ella si alzò e spinse il suo corpo sì avanti, sì avanti, che un'altra donna seduta vicino a lei, la prese per la vita onde tenerla. Alla fine gettò un grido. Tutti gli occhi si voltarono subitamente di là. Moab lo intese, egli pure, e fu preso da un terribile tremito in tutto il suo corpo. Appena se poteva più camminare; ma arrivato sotto quel sito, gridò egli pure: Addio, Miriam!
— Moab! rispose la conosciuta, e ricadde sopra il suo cuscino, lasciando andare la testa sulle spalle della sua vicina.
A questo movimento, il velo si sciolse. La fu una vista abbagliante per tutti. Si sarebbe detto che il velarium si aprisse, e che il sole inondasse l'arena. Mai non s'era seduta una simile bellezza fra le figlie d'Israello fino da Esther, forse da Eva la figlia di Dio, in poi. Un grido di sorpresa scoppiò in mezzo all'assemblea. Pilato impallidì come un cadavere. Moab era caduto affranto, e lo avevano trasportato svenuto. Claudia disse qualche parola al suo vicino Flaccus, questi le ripetè a Pilato che non rispose. I suoi [57] occhi erano fissi al posto ove sedeva Mirjam. Questa si era alzata precipitosamente ed era sparita sotto il vomitorio che conduceva dalla galleria interna al podium. Io mi precipitai per vedere questa donna che m'era sconosciuta, a me che conoscevo tutte le donne di Gerusalemme. Ma ella erasi deleguata come un soffio d'aria, senza lasciar traccia di sè.
Questo incidente mise un po' di freddo nel resto dello spettacolo.
Uscendo dal circo, il popolo s'incontrò coi condannati che andavano al supplizio.
Il popolo d'Israello, che non aveva assistito al combattimento dei gladiatori, andò ad assistere alla morte dei suoi compatriotti. I contorni del Golgota erano gremiti di gente; ma pareva che quelle migliaia di uomini e di donne fossero pietrificate. Non un grido, non un gesto: si respirava sordamente, ed ogni sospiro conteneva una maledizione.
Mentre gli stranieri si divertivano coi gladiatori ed i mimi di Pilato, i suoi carnefici alzavano la croce. L'operazione fu breve. Essi ne avevano l'abitudine. Un'ora dopo avevano issato i condannati sulla croce, piedi e mani legate; poi, quando tutti pendevano dal patibolo, ruppero loro con una sbarra di ferro le gambe e le braccia, le coscie e gli avambracci.
Al grido straziante dei suppliziati, rispose un grido terribile del popolo: grido inarticolato che non esprimeva nulla e diceva tutto. E fu il solo. Il popolo svignò dagli accessi del Golgota, come l'acqua irrompe da un vaso forato.
La sera era fresca e bella. Io aveva cenato con Maria. Bar Abbas era venuto a sparecchiare gli avanzi. Justus era arrivato un po' più tardi; poichè quel cattivo mobile avrebbe passata tutta la sua vita [58] ai piedi della mia amante. Finita la cena, io li invitai ad accompagnarmi. Maria volle venire anch'essa.
Uscendo dalla porta Giudiziaria, che s'apre sulla strada di Silo e di Gabaon, lasciammo a sinistra la tomba di Anania, ed incominciammo ad ascendere, a dritta, il piccolo cocuzzolo del Golgota. La luna lo rischiarava completamente. Un venticello acuto cacciava dinanzi a sè una peluria di bianco vapore frangiato in piccoli fiocchi, che svolazzavano capricciosamente, lasciando puro e netto un firmamento azzurro come la grotta dell'isola di Capri. La luna avanzava frettolosa.
Una fila di forme bianche che si staccavano sul fondo ceruleo, apparve ai nostri occhi. A misura che ci facevamo più presso, quelle forme prendevano una figura, e vedemmo i corpi nudi dei suppliziati.
Il sito era deserto. Le guardie, dopo aver ferito a morte i condannati, non s'erano curate di udire l'ultima maledizione o l'estrema preghiera. Dei cani vagabondi, che venivano dall'orgiare nel Carniere dei cadaveri, abbaiavano per distrarsi. La civetta rispondeva loro. Un gemito sordo, corto, affogato, rompeva il silenzio notturno.
— Questi infelici non avevano dunque nè sorella nè madre, nè.... mormorava Maria stringendosi a me senza finire la frase: essi muoiono soli!
— Forse, risposi; ma la paura.... D'altronde è più triste il morire senza funestare lo sguardo della vista di una faccia umana?...
Eravamo ai piedi delle croci. I condannati avevano gli occhi chiusi o rivolti al cielo. Nessuno d'essi era ancor morto. I loro petti si sollevavano con uno sforzo che faceva scricchiolare le loro coste. Le ossa delle estremità erano rotte; il corpo contratto e [59] impiccolito projettavasi in avanti. L'agonia era orribile.
Udendo dei passi sotto di sè, una sola voce proruppe da tutte quelle fauci bruciate e soffocate: Sete! sete!
Noi non avevamo acqua, nè scale. Bar Abbas si precipitò dall'altipiano per andar a cercar qualche cosa. Quel buffone era anch'esso addolorato! Io dissi il mio nome. Io ero conosciuto da tutti i patrioti dell'ex regno d'Erode. Allora un'altra parola scappò fuori da tutte quelle labbra infiammate come la bocca di un forno: Vendetta!
— Sì, fratelli, risposi io: morite in pace; voi sarete vendicati.
Due o tre di quei petti avevano cessato di sollevarsi.
Maria piangeva.
Justus, la testa china, sembrava desolato e guardava quella donna.
Io mi torceva, non potendo dar loro nessun soccorso, non potendo nè alleviare nè abbreviare quell'agonia.
Restammo silenziosi, ascoltando quel singhiozzo che straziava l'anima.
La luna continuava la sua ridda scapigliata in mezzo alle nuvole cacciate dal vento; il grillo si lagnava nelle fessure della roccia che cominciava a divenir fredda; il cri-cri chiamava la sua compagna; il cucullo gettava la sua monotona nota al vento che soffiava l'alito appestato dalla valle ai nostri piedi; lo sciacallo più lungi latrava dalla gioia. Mentre le finestre del palazzo d'Erode risplendevano per la festa di Claudia e del governatore della Siria, il respiro dei suppliziati poco a poco si spegneva. E Bar Abbas non arrivava! Non potei più rattenermi.
[60] — Addio, gridai, precipitandomi verso il giù della collina.
— Nel cielo! mi risposero le due ultime voci che restavano ancora distinte.
Quegli infelici credevano quasi tutti alla risurrezione.
Poco dopo, Justus mi ricondusse Maria. Bar Abbas arrivò troppo tardi. Il sacrifizio era consumato.
L'aria ripeteva ancora il grido: Vendetta! vendetta!
— Oh sì vendetta!... Chi era dunque quella donna che avevo veduta nel circo? Come era bella, mio Dio, come era bella!
Il giorno seguente, fino all'alba, quegli ebrei che si erano astenuti la vigilia di andar a vedere i giuochi dei gladiatori stranieri, occupavano quella parte dell'anfiteatro che circonda come due ale la loggia di Pilato, per andare a sollazzarsi del morituri te salutant dei loro martiri. Erano tristi, silenziosi, concentrati; si sarebbe detto che fossero in corruccio.
Lo spettacolo di Pilato non valeva, certo, quello dei suoi padroni di Roma. Egli non dava il combattimento di venti elefanti contro un pugno di Getuli armati di giavellotti che Pompeo presentò nel suo secondo consolato, nè le sessantatrè pantere di Scipione Nasica e di Lentulus, nè i cinque ippopotami opposti ai ventitrè coccodrilli di Sagurus, nè la caccia dei cento leoni organizzata da Silla, nè quella dei trecento e quindici leoni data da Pompeo, o quella di quattrocento data Cesare. Non c'erano i tremila e cinquecento leoni, tigri e pantere d'Augusto, nè finalmente i trecento orsi contro altrettanti leoni e pantere di P. Servilius. Ma il povero spettacolo di Pilato, tal quale era, bastava al gusto poco ancora solleticato di quegli Asiatici.
[61] Pilato faceva uccidere, in quella seconda giornata di feste, dieci tigri, dieci coccodrilli, dodici leoni ed una pantera, che, dicevano, li valeva tutti; e per aguzzare l'appetito, dodici condannati per delitto d'alto tradimento verso Cesare: quarantacinque teste!
Allettato dal sangue della vigilia, il popolo si mostrava oggi di buona voglia. Lo spettacolo non prometteva egli di essere ben atroce? Si udivano qua e là ridere le donne, gli uomini smettevano la loro gravità, e s'imbrattavano la faccia con grappoli d'uva, e là ove trovavasi Bar Abbas era un susurro, uno scattar di lazzi, una gesticolazione animata, un vociare alto, un tale sconcio diavoleto infine che pareva d'essere al mercato dei legumi.
Credetti per un momento che quel monellaccio intavolasse da un capo all'altro del circo una conversazione con me, o con Pilato, o che scoccasse dei baci a Claudia, e dei torsoli di cavolo a Pomponius Flaccus. Bar Abbas aveva portato sotto il mantello un piccolo maiale, che aveva trovato non so dove, poichè quel quadrupede è cosa rarissima ed antipatica nella Giudea ed a Gerusalemme. Lo mostrava di tanto in tanto, lo mordeva all'orecchio, e lo faceva grugnire come un ossesso. È in questa guisa che si era procurato un posto, e molto comodo, avendo messo in fuga tutti i suoi vicini; di maniera che se ne stava tanto comodamente quanto Pilato.
Al tocco, gli abitanti del palazzo d'Erode arrivarono, e si posero nei loro posti come il giorno prima. Qualche minuto dopo, le trombe suonarono per annunziare che lo spettacolo cominciava. Questo fu il segnale per i bestiarii di sollevare le grate di ferro alle bestie feroci, per i guardiani di condurre i prigionieri, e pel popolo ebreo di levarsi come un sol [62] uomo e scappar fuori dall'anfiteatro. Il vuoto più assoluto si fece quindi intorno a Pilato, a sua moglie ed al governatore di Siria, ai due lati dove stavano.
Justus ed io restammo soli, vicinissimi a Claudia. Io sperava di vedere la maliarda del giorno precedente.
Claudia, Pilato e Flaccus si guardarono negli occhi.
L'effetto di quella protesta non durò lungamente. Altri oggetti vennero a far diversione.
I guardiani del circo collocarono al fondo del circo i sei condannati.
Li avevano coperti di una camicia rossa, credo pel decoro dello spettacolo, perchè i loro abiti erano stati ben maltrattati nelle vicende dei giorni precedenti. Moab, questa fiata, era voltato dalla parte di Claudia. Tutti sei, s'erano piantati all'estremità del recinto, dosso contro dosso, serrati, le braccia incrociate al petto, la diritta armata del pugnale in avanti. E' formavano come un pilastro: e non un muscolo del corpo loro, o della faccia, tremava. Soltanto parevano molto pallidi. Con la testa e i piedi nudi — quella panoplia vivente serbava ancora un aspetto formidabile. Gli occhi giravano nelle loro orbite lanciando degli sguardi terribili. Quei denti serrati, quelle bocche semiaperte per respirare un alito potente, quelle narici dilatate promettevano una lotta terribile: la carne morderà forse la bocca che vorrà divorarla.
Ma quelle bocche altresì, erano spaventevoli.
Appena i bestiarii ebbero sollevate le grate, situate non alle due estremità dell'anfiteatro, ma ai lati, ecco da una parte lanciarsi come in un gruppo solo dieci tigri, dall'altra strisciar fuori come un fiotto dieci coccodrilli.
[63] Un fremito di piacere, anzi che di terrore, corse in tutte le fila.
Il silenzio era completo.
Le tigri entrarono prime. I loro sguardi furono all'istante colpiti dalla presenza della folla che siedeva tutta intorno e di quel gruppo rosso ed immobile che era più vicino ad esse. Le loro narici fiutavano un odore forte, acre e pestilenziale. I coccodrilli coi loro occhi piccoli e rossastri scorsero a prima vista le tigri che stavano loro di faccia: e d'uno sguardo di traverso, a dieci passi dalla loggia di Claudia, i condannati. Tigri e coccodrilli compresero immediatamente, per istinto, che il loro più grande pericolo non veniva dagli uomini. Tosto le due bande sostarono per osservarsi reciprocamente. Le tigri si accosciarono ventre a terra, la testa allungata, lo sguardo fisso e come affascinato. I coccodrilli si serrarono in linea, l'uno toccando l'altro, non dando segno di vita che per un movimento inquieto degli occhi. Uno solo fra essi, il più vecchio forse, una bestia enorme, indietreggiò fino alla parete dell'anfiteatro, e col ventre appoggiato contro il muro cominciò a farne lentamente il giro a ritroso.
— Olà, tigri, principi miei signori, gridò Bar Abbas dal suo posto, attenti! attenti! ecco il sagan Hannah che vi minaccia alle spalle.
Un grande scoppio di risa accolse questa giullarata, ed il nome di Hannah restò al coccodrillo della retroguardia.
L'esitazione dei due eserciti non durò a lungo. I coccodrilli si decisero i primi. Essi avevano confidenza nelle loro corazze, come arma difensiva, e nei loro rictus — vere voragini irte di pugnali — come [64] arma offensiva. All'uopo, la loro coda di porco avrebbe servito di clava.
Le tigri compresero che non avevano che a tenersi bene, e si tennero bene. Uno dei coccodrilli, il più giovine, fece un passo avanti, levando il capo radendo col ventre la sabbia, giacche è al ventre ed alla gola soltanto che quei mostri sono vulnerabili. Il movimento audace del primo trascinò gli altri; la banda intera, comprendendo la forza della sua solidarietà, avanzò. Le tigri non lasciarono la loro posizione; solamente da accovacciate che erano si appoggiarono sulle loro piote, come per prendere uno slancio. Questa prudenza sembrò senza dubbio disonorante per uno di essi, che gettando un urlo soffocato spiccò un salto di fianco, isolandosi dai suoi colleghi. Dopo questo primo salto, quel tigre audace ne fece un secondo da un altro verso, tentando una diversione, e con un terzo, si slanciò sopra il coccodrillo dell'estrema sinistra. Esso calcolava forse di piombargli sul dorso, ed impegnar la lotta su quel terreno roccioso. Ma aveva mal calcolato lo slancio. Il coccodrillo minacciato fece un piccolo scarto da parte, e ricevette il tigre nella sua bocca. Fu affar d'un minuto. In un lampo si vide il tigre tagliato in due, e il coccodrillo rovesciato sul dorso, col collo orribilmente lacerato.
— Bravo! gridò Bar Abbas: l'onore è intatto dalle due parti. Se per altro avessero pensato a profumarsi l'alito sarebbe stato migliore.
Infatti l'aria ne era infettata.
Mentre che due membri dei campi opposti avevano impegnato quello sconsigliato duello, il resto dei combattenti, non cessava di sorvegliarsi. Il risultato di quella prova, sembrò per altro impressionare [65] i coccodrilli, che si credevano invulnerabili come Achille. Essi indietreggiarono leggermente. Al contrario le tigri, alla vista del primo sangue, cominciarono ad agitarsi.
Non una di esse stava adesso tranquilla e silenziosa. S'udiva un ruggito sordo come il borbottare lontano del tuono. Il gruppo si ruppe. Mentre quattro o cinque si davano a scambietti fantastici, le altre si tenevano ferme al loro posto.
I coccodrilli non comprendevano niente di quella danza pirrica dei loro nemici. E' si sbrancarono per seguirli cogli occhi, e forse, prenderli al volo. Ma in sul più bello di questa evoluzione sentirono che le tigri danzatrici, piovevano sui loro dorsi come tanti blocchi di granito, mentre le altre facevano un movimento di fianco per assalirli di dietro. La mischia cominciava.
Le tigri s'erano accampate sui dorsi dei loro nemici, e dopo aver provato colle zanne e le unghie, di sdruscirne le dure squame, li abbracciarono, e cominciavano a straziare l'epidermide più tenera del ventre. Così dilaniati, i coccodrilli si rovesciavano, e quelli che non potevano colpire il loro nemico fuori di portata, divoravano l'inimico aggrappato al dorso del fratello vicino. In un volger d'occhi l'arena fu gremita di visceri e di brani di carne. Cinque coccodrilli e quattro tigri erano morti.
Restavano ancora sei tigri, quattro coccodrilli e il solitario che Bar Abbas chiamava Hannah, il quale continuava il suo giro d'osservazione lentamente, non perdendo mai di vista il campo di battaglia, nè staccando mai il suo ventre dai muri del circo. Ogni prudenza era ormai cessata. I combattenti erano in preda al furore. I quattro coccodrilli insanguinati [66] inseguivano le tigri, strisciando rapidamente, presentando sempre il loro rictus formidabile, ghignando atrocemente. Le tigri saltabeccavano con rapidità vertiginosa da ogni parte, il più alto che potevano, di maniera che i coccodrilli obbligati a tener la testa volta in su, lasciavano scoperto il collo ed il fianco. Le tigri attaccarono per di dietro. E l'attacco ebbe luogo ai piedi dei condannati, forzati così ad entrare in battaglia.
Qui avvenne qualche cosa di spaventevole, di impossibile a raccontarsi, perchè gli occhi non ebbero tempo di seguire l'azione.
Vedemmo succedersi due truci gomitoli che rotolarono nell'arena. Il primo delle tigri aggraffate ai coccodrilli, dilacerantili, e ritirantisi esse stesse straziate; il secondo, dei prigionieri gettatisi su ciò che restava di quelle bestie feroci, tigri e coccodrilli, accollacciantisi, e rivolgentisi nella sabbia. Il sangue spruzzava fino a noi. C'era come una pioggia di lembi di carne, che volteggiava nell'aria. I coccodrilli restarono a mezza via, estinti, distrutti. Ma quel gruppo delle tigri aggrappate agli uomini, e di uomini attaccati alle tigri, ora gli uni avendo il disopra ed ora le altre, rotolò a balzi fino all'altra estremità del circo, dove si fermò, come una massa ammadiata di sabbia, di sangue, di pelli, di carne e di stracci.
Un momento si credette che tutto fosse finito, e Bar Abbas già domandava gli onori del trionfo pel prudente Hannah, che s'era tenuto a parte della mischia. Ma ben tosto quel mucchio fangoso si animò nuovamente.
E allora vedemmo una testa spiccar dalle viscere di una tigre, e sollevarsi con una precauzione infinita; poi una mano, tergere il sangue dagli occhi. [67] Il possessore di quella testa e di quella mano guardò da prima il carnaio ove si trovava, poi attorno attorno, come chi si risveglia da un sonno d'ubbriachezza. Questa ispezione non fu lunga. Immediatamente un essere che aveva le forme umane, uscì da quella pozzanghera infetta, e saltò in mezzo dell'arena, avendo cura di munirsi d'un pugnale.
Nessuno a prima visto riconobbe quell'uomo. Era nudo, ferito, e come emerso da un bagno di marciume e di sangue. Raccolse un lembo di clamide, e si rasciugò il viso per vedere. Allora potemmo riconoscere Moab. Egli guardava stupidamente intorno a sè. Ma un grido di Bar Abbas lo riscosse in sussulto.
— Moab, in guardia, in guardia, Hannah entra in battaglia.
Difatti, il vecchio coccodrillo, vedendo che gli restava ancora un pericolo in quel coso vivente che si agitava all'altra estremità del circo, girò rapidamente e andò diritto verso di lui.
Non c'era tempo a riflettere. Il coccodrillo spiegava adesso altrettanta attività, collera e decisione, quanto aveva fin qui mostrato di calma. Moab, ferito, non poteva più correre a sua voglia. Il coccodrillo si spingeva sempre più avanti. Non avendo più la celerità per difesa, non restavagli che l'astuzia. Moab afferrò un blocco di carne e di stoffa in quella pasta sanguinosa che gli stava vicino, prese posizione, ed aspettò.
Il coccodrillo marciò sopra di lui con l'abisso della sua nera gola spalancato. E' si rizzò per inghiottire l'uomo. L'uomo cacciò il suo gomitolo di carne nella voragine. Non avea che un secondo di tregua. La pillola non soffocava il coccodrillo: e' l'inghiottiva. [68] Ma in quel lampo di sosta Moab si gettò ventre a terra, saltò alla gola del mostro, col suo pugnale, lo squartò d'alto in basso e si tenne avvinto al suo collo come ad un albero. Il coccodrillo si dibattè ancora alcuni minuti, poi, nell'ultimo spasimo dell'agonia, slanciò a dieci passi lontano Moab svenuto, tanto per l'orribile fetore della bestia quanto per lo sforzo fatto.
I guardiani del circo accorsero allora, onde spazzare quelle carcasse, e trovarono Moab ancora vivente.
— Grazia, grazia, cominciò a gridare la folla.
Ma avanti che Pilato avesse tempo di decidersi, Claudia aveva alzato la mano col pollice ritto come le vestali romane. La grazia era accordata. Si trasportò Moab per la sanavivaria, e lo si lasciò alle cure dei medici.
In pochi istanti, gli schiavi sbarazzavano l'arena, ed aprirono alcuni vomitorii onde disinfettare l'aria il più presto possibile; poi con dei rastrelli coprirono di sabbia le pozze di sangue. La seconda parte dello spettacolo principiava.
Le trombe suonarono.
Il direttore dei giuochi fece aprire una porta di fianco, e sei cavalieri entrarono nell'arena.
Erano sudditi di Aretas re di Petra. Le loro tuniche gialle armonizzavano coi loro visi bruciati dall'alito del deserto, e coi loro magnifici cavalli neri della Numidia. Portavano sul capo un superbo turbante celeste, colore della loro tribù, ed erano armati di spade, giavellotti, pugnali, e d'uno spiedo. I cavalli non portavano sella nè briglie.
Dal lato opposto del circo, si condussero i sei condannati vestiti di una leggera tunica rossa, la testa [69] ed i piedi nudi, armati soltanto di una daga romana.
I cavalieri fecero il giro del circo, e si fermarono in isquadrone sotto il podium. I sei condannati vennero a mettersi davanti a loro alla testa dei cavalli.
Allora il cancello sotto la loggia di Claudia si alzò, e dodici leoni con lunga criniera irruppero nell'arena.
Passando dalle tenebre dei loro antri alla luce del giorno, sembrarono come abbagliati. Gli uni sbadigliarono, gli altri ruggirono, alcuni si misero a sgambettare, mentre ve n'era che si ruotolavano con voluttà nella sabbia. Cosa era l'uomo per questi re del libero spazio perchè essi dovessero prendersene pensiero o accorgersi della sua presenza? Ma l'uomo non sembrava neppur egli tocco da quel formidabile pericolo. I cavalli soli tremavano, e si ricoprivano di un sudore agghiacciato. Essi allungavano le loro sottili teste sopra le spalle dei condannati allineati dinanzi a loro, come per implorarne protezione. Un nitrito imprudente scappato al più pauroso, li denunziò ai leoni.
In un lampo, e' si rizzarono tutti, orecchie tese, faccia al vento, occhio scrutatore: e scoprirono di rimpetto il nimico e la preda che li attendeva. I leoni per altro non si affrettarono. Alcuni, odorando l'aria o battendosi i fianchi colla coda, sedettero sopra le lacche, mentre gli altri fecero lentamente un movimento in avanti.
Uno dei cavalli, il più spaventato, vedendo avvicinare il pericolo, si slanciò e cominciò a correre pel circo, demente e scapigliato, trascinando il suo cavaliere. Questo fu il segno della caccia e del combattimento.
[70] Tutti i leoni corsero dietro al fuggiasco passando come turbine dinanzi al gruppo dei cavalieri. Questi lanciarono i loro giavellotti in mezzo a quella muta infernale, per attirarla a sè e liberare così il loro disgraziato compagno. Quattro o cinque leoni, feriti, si fermarono di fatti, e vedendo di dove era loro venuto il dolore e l'attacco, fecero fronte gettando un ruggito che incusse sgomento negli spettatori. Il fuggitivo fu raggiunto.
Egli abbattè un leone che aveva abbrancato il collo del cavallo; immerse il suo spiedo nella gola d'un secondo, che gli aveva afferrato la coscia colle sue zampe. Ma due altri leoni avevano azzannato per di dietro il cavallo, che si abbiosciò dal terrore sotto il suo cavaliere. Cavallo e cavaliere perirono. Nondimeno il terribile Siriaco, morendo, ebbe ancora il coraggio di immergere il suo pugnale nel fianco d'un terzo leone.
Dall'altra parte, quattro leoni piombarono sopra la banda che stava ferma sotto il podium. I condannati li ricevettero sulla punta della daga, i cavalieri sui loro spiedi. V'ebbe un istante in cui non si distingueva più nulla. Ad un punto, quattro cavalieri furono travolti dai loro cavalli che nitrivano di spavento. Tre uomini a piedi, un cavallo col suo cavaliere e i quattro lioni, non si alzarono più. Uno dei combattenti, ferito mortalmente, rotolava dalla sua cavalcatura, e arrestava, come il pomo d'oro di Atalanta, le bestie feroci che lo inseguivano. I giavellotti solcavano l'aria del circo. Menahem s'impadronì allora d'uno spiedo, e saltò sul cavallo che volava nel ricinto come un'aquila. Gli uomini a piedi, tutti feriti, corsero sopra i due leoni che facevano strazio del cavaliere caduto. Là s'aprì un combattimento come [71] nell'Iliade sul corpo di Patroclo. I cavalieri, non potendo padroneggiare i loro cavalli, la cui paura sembrava delirio, attirarono fuori della lotta i tre leoni di cui erano inseguiti, aiutandosi dei loro giavellotti e dei loro spiedoni. I due uomini furono messi a brani ed i leoni feriti gravemente, Menahem ne uccise un altro, ma due cavalieri soggiacquero ancora.
Non restava dunque più fra i condannati che Menahem leggermente ferito, ma il cui cavallo era intatto. Cinque dei Siriaci del re Aretas, erano estinti. Otto leoni erano stati ammazzati, e gli altri quattro vagavano feriti intorno al circo. Due uomini dunque contro quattro leoni; partita in equilibrio.
Menahem prese l'iniziativa, ed assalì. Uno dei leoni gli saltò sopra, mentre ch'egli uccideva l'altro conficcando nel suo potente petto la daga che appoggiava sul suo cavallo fino a rovesciarnelo. L'ultimo dei Siriaci lo disimpegnò, uccidendo quel mostro per di dietro, traversandolo da parte a parte. Nello sforzo, per altro, l'infelice Siriaco perdette l'equilibrio, e cadde. E' si trovò fra gli artigli dei due ultimi leoni i quali, feriti mortalmente, ebbero però ancora bastante forza per ridurlo a minuzzoli. Quando Menahem, rialzandosi, accorse in suo aiuto, fu a tempo per finire i leoni ma non per salvarlo. Quindi, di tutto il combattimento, restava solo Menahem ferito, ed un cavallo, il quale era ito a morire a pochi passi da lui, esausto dalla fatica e dal terrore più che dalle ferite.
La prova però di quel disgraziato non era ancora finita. Doveva scontrarsi ancora con quella terribile pantera che si diceva fosse più temibile che tutte le tigri ed i leoni già uccisi.
Ad un segno di Pilato una grata si alza, e la pantera [72] è messa in libertà, innanzi che Menahem abbia il tempo di riaversi. Egli aveva un braccio divorato, il fianco sdrucito, ma la mano diritta intatta, le gambe sane, e ogni specie d'armi a sua disposizione. Gli schiavi non avevano spazzato fuor dell'arena i cadaveri e le carcasse dell'ultimo massacro.
Uscendo dalla sua tana, e trovandosi in mezzo a tutta quella carnificina, la pantera sembrò per un istante sorpresa. Indietreggiò, si postò al muro, o piuttosto si accosciò sotto un fremito vertiginoso che s'impadronì di tutto il suo corpo. L'istinto le rivelava la presenza di un inimico che aveva causato quell'eccidio d'individui della terribile sua razza. Non monta pel cavallo, non monta per l'uomo, ma chi aveva ucciso tutti quei leoni? Tutto quel rosso l'abbagliava o meglio l'affascinava.
Allungò il grugno non pertanto sopra una di quelle pozze di sangue e la leccò. Quella libazione cominciò a inebbriarla. Un giavellotto che la colpì sulle narici la fece balzare. Allora comprese il pericolo, e scoprì l'inimico. Menahem si avanzava. Questa volta era l'uomo che dava principio alla caccia.
Menahem conosceva le pantere, le tigri, i leopardi, gli sciacalli, come i cani ed i gatti della casa paterna. Egli passava le giornate intiere nelle solitudini del deserto, per stanare quei formidabili devastatori delle greggie di suo padre.
Il dolore raddoppiò il fremito della pantera. Si slanciò su Menahem, che si tirò da una parte e la punse dello schidone. Egli si divertiva ora. La pantera si mise a sgambettare pel circo. Menahem la seguì, scoccandole soltanto dei giavellotti. Voleva ucciderla sotto la loggia di Claudia. La pantera balzava urlando orribilmente, si aggrappava alle sbarre della grata [73] delle bestie ed a quella che serviva di riparo agli spettatori della prima fila, i suoi sbalzi erano prodigiosi, ma ovunque trovava degli spettatori che la impaurivano. Menahem la incalzava senza ressa, incrociava i suoi salti, la spingeva, l'incalzava sempre più verso il sito ove voleva ucciderla, sbarrandole la strada, e non cessando di tormentarla coi giavellotti. Il terrore della pantera divenne demenza. Il suolo le sembrò mortale da per tutto.
Essa mirò allora a quella parte dell'anfiteatro, che gli Ebrei avevano lasciata vuota per manifestare a Pilato il loro orrore. Menahem la rigettava verso quel sito. La pantera, ridotta all'estremo, fece un prodigioso salto. Passò al disopra delle sbarre che proteggevano gli spettatori, e venne a cadere a dieci passi da me e da Justus, vicino a Claudia. Un grido di terrore scoppiò in mezzo alla folla, ed un mortale salva chi può cominciò. Claudia si alzò in piedi, e strappò dai suoi capelli quel piccolo pugnale lungo ed affilato, di cui le Romane facevano uso per tenere confitti sulla loro testa il giro di capelli posticci che formavano torre. I centurioni, il governatore di Siria che le stava vicino, suo marito, tutti si disponevano a coprirla del loro corpo. Io mi alzai pure sguainando il mio pugnale.
— È una Romana, disse Justus, tirandomi della falda del mantello.
— È una donna, risposi, collocandomi in guisa che la mia spalla toccasse la persona di Claudia, separati soltanto dal cordone di seta che segnava la demarcazione fra i Romani e la loggia. Claudia udì la parola di Justus e la mia risposta.
In questo mentre la pantera si rialzava. Trovandosi in faccia ad un nuovo pericolo, quando forse si credeva [74] salvata, entrò in furore. Fece un balzo per gettarsi sopra di me o di Claudia. Io l'aspettava al varco, il braccio steso, il tallone sinistro appoggiato solidamente al muro del vomitorio, e la gamba diritta in avanti. La pantera venne a rovesciarsi su me. La ricevetti sul pugnale, ove s'infilzò. Il contraccolpo mi fece piegare sui garretti, e mi respinse così vicino al petto di Claudia, che l'alito ardente della belva ci percosse a entrambi la faccia. Il pericolo era immenso. Con uno sforzo immenso rigettai la pantera nel circo, e Menahem, che alla sua volta l'attendeva, la ricevè sul suo spiedo e la sterminò.
— Il tuo nome, mi disse Claudia, per nulla spaventata di ciò che era accaduto sì vicino a lei.
Io la guardai, poi salutandola con un sorriso, le risposi:
— Sei molto bella, o Romana.
E mi allontanai.
— Seguilo, la intesi dire a Cneus Priscus, che stava dietro a lei.
— Lo conosco, rispose il centurione.
Egli mi conosceva! Bel miracolo!
Chi era io?
[75]
Chi era io?
La storia della mia famiglia si confonde con quella del mio paese.
Due giorni dopo quel macello d'uomini, di donne, di fanciulli e di vecchi, fatto dai soldati d'Antioco nelle caverne del deserto che si stendono dalle vicinanze di Betlemme al Giordano, — perchè gli Ebrei, essendo giorno di Sabato, non si difesero — un adolescente di sedici anni si presentò a Mattatia, il padre dei Maccabei, e domandò di battersi contro il nemico d'Israele. Quell'adolescente si chiamava Gad, e veniva da Kariot. Suo padre l'inviava, ma era troppo povero per dargli delle armi. Mattatia lo provvide di una spada.
— È troppo brutta, disse il giovincello al gran sacerdote, non la voglio.
— Ma allora, ragazzo mio, con che cosa ti batterai?
— Con questo, rispose Gad, tirando di sotto la sua tunica una specie di coltellaccio, un lungo pugnale, fino a tanto che io mi abbia conquistato delle armi che mi vadano a genio.
L'occasione non si fece aspettare.
Mattatia morì poco stante. Giuda gli succedette, e il suo primo scontro con Apollonius, generale dei Samaritani, ebbe luogo. L'esercito nemico fu battuto. [76] Apollonius ed alcuni dei suoi luogotenenti cercarono di arrestare gli Ebrei, ma Giuda Maccabeo e Gad si gettarono sopra di loro come due leoni e li uccisero[5]. Gad prese le armi bellissime d'uno dei capi dell'esercito di Apollonius, che sono sempre state di poi le armi dei miei antenati, e sono tutt'ora le mie.
Da quell'istante, in tutti i campi di battaglia, Gad si trovò alla diritta di Giuda. Egli era con lui allorchè Saron e ottocento dei suoi furono uccisi a Bethoron: quando Gorgias fu sconfitto a Emmaus, ed in seguito fino ad Ashdod, a Jenina e nelle pianure dell'Idumea. Egli era con lui quando Lisias fu battuto a Bethsur, ed ebbe cinque mila uomini uccisi. Gad accompagnò Giuda a Gerusalemme, che fu restituita al culto di Jehovah ed al popolo ebreo. Gad partecipò poscia a tutte le gesta, a tutte le glorie dei figli di Mattatia. Con Giuda egli concorse a domare i discendenti di Esaù, gl'Idumei, a Acrabattene, poi gli Ammoniti, di cui prese e distrusse la città di Jazer, e di cui condusse prigionieri i figli e le donne. Con Simone Maccabeo, Gad prese Tiro e Tolemaide. Aiutò Giuda e suo fratello Gionata a distruggere il paese di Gilead, e percorse il deserto, spianando le città di Bosar, Malle, Casphore, uccidendo tutti, aggiungendo all'orrore del deserto della natura, l'orrore del deserto dell'uomo[6].
Timoteo, il comandante degli Ammoniti e degli Arabi, soccombette, come tutti i generali dei re Siriaci; giacchè Naim ed il suo tempio furono distrutti: tutto fu ucciso. A Ephon i maschi soli furono ammazzati; dopo di che, si ritornò a Gerusalemme cantando [77] salmi! Se a Dio piace lo sterminio, doveva essere ben contento.
Ora si trattava di prendere la cittadella di Gerusalemme ancora in mano dei partigiani di Antioco, che era morto in allora nell'età di cento quarantanove anni, lasciando la corona ad Antioco Eupator, suo giovane figlio. Gli assediati domandarono aiuto al nuovo re. Antioco partì da Antiochia con un esercito di circa 100,000 fanti, 20,000 cavalli e 32 elefanti. Giuda gli venne incontro e si fermò a Batzachaviah, ove si impegnò la battaglia.
Gad era con Eleazar, fratello di Giuda, allorchè, vedendo un magnifico elefante, che egli credette portasse il re, si cacciò sotto il suo ventre e lo uccise. Eleazar ne restò schiacciato. Gad potè salvarsi, e seguì Giuda nella sua ritirata verso Gerusalemme, poichè il numero dei nemici l'aveva spaventato.
Antioco assediò Gerusalemme. Giuda sostenne l'assedio con grande valore e costanza. La fame, — tutto il paese era distrutto ed incolto a causa dell'anno sabatico, — obbligò ben presto Antioco a levar l'assedio ed a ritirarsi, tanto più che le faccende del suo regno lo richiamavano ad Antiochia. Egli fu poi vinto ed ucciso da Demetrius figlio di Seleucus, che s'impadronì del regno, ed inviò Bacchides per abbattere la potenza dei Maccabei.
Bacchides ritornò senza aver fatto nulla contro l'inimico, Demetrio inviò allora Nicanor. Questi tentò di impadronirsi di Giuda col tradimento in un finto convegno. Gad scoprì il tranello da un movimento fatto da Nicanor, ed ambi riuscirono a scampare. Nicanor fu battuto ed ucciso ad Adassa, e il suo esercito fu disperso. In pari tempo Alcimus, il primo gran sacerdote scelto dal re fuori della famiglia di Aron, fu [78] avvelenato dagli altri preti e morì. Giuda fu nominato allora dal popolo a quel posto, riunendo così nella sua persona il potere politico ed il potere religioso.
Gad accompagnò l'ambasciata che Giuda inviò a Roma per invocare l'amicizia e l'appoggio del popolo Romano. Ma Giuda non ebbe il tempo di goderne i beneficii. Demetrio lanciò di nuovo Bacchides sul nostro paese per vendicare Nicanor, ed alla fine Giuda fu vinto ed ucciso sulla montagna di Aza. Gad era stato gravemente ferito. Quando si rialzò dalla sua lunga malattia egli prese per moglie Oldah, la primogenita delle figlie di Simone, terzo fratello di Giuda.
Giuda aveva liberato la nazione dal giogo dei Macedoni, ma la sua opera non era consolidata.
Gionata, che gli succedette nel doppio potere, lo vendicò, battendo Bacchides e obbligandolo a levar l'assedio di Bethagla, dopo varie vicende. Bacchides gli accordò alla fine la pace, ma Gionata dovette rinunziare a Gerusalemme e ritirarsi a Michmash.
L'alleanza di Gionata fu più tardi domandata dai due re rivali: Alessandro Bela e Demetrius, che ambi gli facevano grandi promesse. Gad, che godeva di grande influenza sopra il suocero Simone, lo decise per l'alleanza di Alessandro, ed egli a sua volta decise Gionata in questo senso. Demetrio non ebbe il tempo di vendicarsene; fu ucciso in battaglia essendo caduto col suo cavallo in un fosso. Alessandro permise a Gionata d'indossare la porpora come i re.
Apollonius Daus, governatore della Celesiria per conto di Alessandro, non si rassegnò al vedere Gionata sì libero e sì onorato. Gli cercò briga. Gionata non indietreggiò dinanzi la guerra, e dopo aver maltrattato l'esercito di Alessandro, prese e distrusse Ashdod, Ascalon, ed altre città. Alessandro gli inviò [79] in regalo il bottone d'oro per aver battuto il suo governatore, il quale aveva dichiarato la guerra agli Ebrei contro la sua intenzione.
La Giudea era divenuta un principato teocratico sotto la protezione dei re di Siria, ai quali pagava un tributo di trecento talenti, le tre toparchie di Samaria, Perea, e Galilea incluse. Gionata stette senza decidersi apertamente e con abilità fra i due pretendenti al trono siriaco. Dopo aver aiutato Alessandro Bela, aiutò Demetrius Nicanor suo avversario, e quando Trypho, generale d'Antioco, figlio di Bela, attaccò Demetrius, Gionata l'assistette ancora.
Lo scopo del governatore della Giudea era di sbarazzare della guarnigione straniera la cittadella di Gerusalemme, che dominava il Tempio e la città inferiore. Non ottenendo ciò da uno, sperava nell'altro: egli tentò anche l'alleanza coi Romani; la cittadella era la sua indipendenza. Egli non doveva assistere alla sua liberazione. Trypho aveva concepito il progetto di uccidere Antioco suo padrone ed impadronirsi del trono. Egli vide in Gionata un ostacolo, sapendolo affezionato al re. Marciò quindi verso Gerusalemme. Gionata gli venne incontro con un esercito di 40,000 uomini. Trypho dissimulò, ed ingannò così bene il gran sacerdote, ch'egli licenziò il suo esercito e accompagnò Trypho a Tolemaide con soli mille uomini. Una volta nella città, Trypho ne fa chiudere le porte, uccide i mille uomini di Gionata e lo ritiene prigione insieme con Gad.
Il popolo Ebreo nominò Simone gran sacerdote e successore di Gionata. Trypho, chiamato dalla guarnigione di Gerusalemme assediata, accorse; ma la gran quantità di neve caduta lo forzò a ritornare in Antiochia. Arrivato a Gilead fa uccidere Gionata e [80] Gad. Simone diede ordine che il corpo di suo fratello fosse riunito a quelli di suo padre e di Giuda a Modin, ove eresse il magnifico sepolcro che Claudia volle visitare. Alla fine Simone liberò la cittadella dalla presenza dei soldati stranieri, e redense il popolo Ebreo dal tributo ai Macedoni, dopo cento e settant'anni di dominazione assira[7], da Seleucus Nicanor in poi. La cittadella fu demolita, il Tempio fu riedificato più alto e dominò la città. Il carattere del governo dei Maccabei si delineava sempre più.
Il governo di Simone, l'ultimo dei cinque figli di Mattatia, fu meno turbato che quello di suo padre, ma la sua fine fu altrettanto tragica. Sorpreso in una festa dal suo genero Ptolomeo, Simone fu ucciso, e sua moglie e due dei suoi figli fatti prigionieri. Ptolomeo inviò anche due assassini per uccidere Hircanus, il terzo figlio di Simone; ma avvertito da Nahum figlio di Gad, egli potè salvarsi e rifugiarsi a Gerusalemme, che lo riconobbe come successore di suo padre e rifiutò l'entrata a Ptolomeo.
Hircanus, come i suoi antenati, ebbe lunghe contestazioni con i re di Siria, e profittò dei loro dissensi per saccheggiare Samaria e stendere e consolidare le sue provincie. Egli organizzò una guardia di soldati stranieri, per pagarla mise la mano nel tesoro della tomba del re Davide, fortificò la sua lega coi Romani, ond'essere più sicuro contro i re Siriaci. Hircanus finalmente abbandonò il partito dei Farisei che l'aveva sostenuto fino allora, ed ecco per quale causa.
Hircanus, essendo di buon umore, in un festino disse ai farisei:
— Se mai v'accorgete che io non cammino [81] nella via della legge, avvertitemene, e ritornerò indietro.
Un certo Eleazar, ch'era presente, gli rispose:
— Poichè tu vuoi conoscere la verità, eccola: Se vuoi essere un uomo giusto, rinunzia al gran sacerdozio e contentati del governo civile.
— E per qual ragione dovrei io rinunziare, figlio mio, al gran sacerdozio? domandò Hircanus.
— Perchè, rispose Eleazar, abbiamo udito dire dai nostri anziani che tua madre era stata schiava sotto Antioco Epifanio.
Hircanus, punto da questa rivelazione, divenne malinconico, poichè amava l'eroica madre sua: quella stessa che dall'alto delle torri di Dagon, ove Ptolomeo la flagellava insieme agli altri fratelli d'Hircanus, gli aveva fatto segno di non rallentare l'assedio, di prender la fortezza e di castigare Ptolomeo, dovesse questi ucciderli tutti. Nahum[8] osservò:
— Ciò che Eleazar ti ha detto, gli è stato consigliato dai Farisei.
— È impossibile, rispose Hircanus.
— Ebbene, domanda loro che castigo merita Eleazar per l'insulto che ti ha fatto.
Hircanus seguì questo consiglio. Gli fu risposto: Le verghe. Hircanus, offeso, passò al partito dei Sadducei, e poco dopo morì.
Aristobulo, che succedette a Hircanus suo padre, fece il primo tentativo per cangiare il governo in reame, e cinse la corona, 481 anni dopo il ritorno degli Ebrei dalla cattività di Babilonia. Quest'uomo fu crudele. Egli gettò in prigione i suoi fratelli, fece [82] morir di fame la madre, ed uccise per gelosia politica il fratello Antigono.
Ad istigazione di Alessandra, moglie di Aristobulo, Nahum l'avvelenò. Alessandra era stata minacciata dell'istessa sorte.
Alessandro Inneus, fratello d'Aristobulo, gli succedette.
Questo re non ebbe un sol giorno di riposo. Gli intrighi delle alleanze concluse al mattino e rotte alla sera, le continue guerre coi Parti, cogli Arabi, coi Siriaci e cogli Egiziani, le insurrezioni interne, gli dettero sempre da fare. Egli trucidò più di 30,000 dei suoi sudditi, che durante sei anni sostennero la rivolta. Essi avevano cominciato ad insultarlo a Gerusalemme, alla festa dei Tabernacoli, lapidandolo con dei cedri[9].
Nahum fu una delle vittime di Alessandro Inneus. I Farisei eccitavano il popolo. In una sola esecuzione egli ne fece crocifiggere 800, e fece scannare le loro donne ed i loro figli appiedi di quelle croci, mentre egli s'immergeva nell'orgie del suo palazzo colle sue concubine. Ottomila dei suoi soldati abbandonarono la bandiera e si gettarono nelle montagne per saccheggiare. Finalmente, dopo aver aggiunto diverse città degli Stati vicini al proprio, consumato da una febbre ostinata e dall'eccesso del vino, e' morì, dando il consiglio ad Alessandra, sua moglie, di riavvicinarsi ai Farisei se voleva regnare tranquilla.
Alessandra seguì il consiglio, e col titolo di reggente, ma in realtà lasciando governare i Farisei, tenne il potere per nove anni. Essa aveva investito il figlio primogenito, Hircanus, della dignità di gran [83] sacerdote, conservando la corona pel secondogenito Aristobulo. Ella morì a tempo, giacchè Aristobulo, aiutato dal mio bisavolo Amon, era riuscito a scappare di notte dal palazzo e si era impadronito della maggior parte delle fortezze del regno. L'avrebbe egli deposta, se la non fosse morta a tempo. Il mio bisavolo, sadduceo come i suoi padri, aveva abbandonato Alessandra quando ella si era gettata ciecamente nelle braccia dei Farisei.
Hircanus, che era stato relegato nel Tempio da sua madre, non si rassegnò a lasciare il trono al fratello Aristobulo. Essi principiarono col farsi la guerra, ma poi vennero ad un accordo. Poco dopo però Hircanus si rifugiò presso Aretas, capo dell'Arabia. Essi levarono insieme un esercito, e vennero a mettere l'assedio a Gerusalemme. Essi contavano senza i padroni che erano di già in Asia: i Romani.
Un luogotenente di Pompeo, il quale batteva Tigrane nell'Armenia, fu inviato in Giudea. Scaurus ricevette l'offerta dei due fratelli — quattrocento talenti — ma siccome egli riteneva che Aristobulo, essendo più ricco e più generoso, fosse più solvente, rigettò le proposizioni di Hircanus, e forzò Aretas a levar l'assedio del Tempio, ove Aristobulo si era barricato.
Non era sufficiente l'aver comperato quei pirati Romani, l'essersi in seguito fatta la guerra, e che Aristobulo avesse battuto Aretas e Hircanus. I due fratelli portarono davanti a Pompeo stesso la loro querela. Pompeo si spiegò in maniera ambigua. Aristobulo marciò col suo esercito sopra la Giudea, e Pompeo gli tenne dietro. A Gerico, egli fece prigioniero Aristobulo e salì verso Gerusalemme. Amon, mio avo, e Absalon, zio e avolo di Aristobulo, chiusero [84] le porte della città. Gerusalemme ed il Tempio furono presi d'assalto, e la Giudea divenne tributaria dei Romani, provincia della Siria, e diminuita di tutte le città che i nostri antenati avevano conquistate sugli Stati vicini.
Pompeo si mostrò moderato. Egli ristaurò le città ch'erano state danneggiate dalla guerra. Aristobulo ed i suoi figli furono inviati a Roma. Gabinus, comandante delle forze romane nella Siria, abbattè poco alla volta tutti i partigiani dei due fratelli, e divise la Giudea in cinque provincie, ognuna amministrata da un consiglio.
Hircanus era restato gran sacerdote. Aristobulo riuscì a fuggire di Roma: ma Gabinus lo riprese ben tosto e lo rinviò in ischiavitù. Il mio bisavo Amon divise la sua sorte; mentre che Ozias, il padre di mio padre, restava a preparare la sommossa che fu affrettata da Alessandro, fratello di Aristobulo.
Alessandro si trovò ben presto alla testa di una forza di trenta mila Ebrei. Ma Gabinus lo raggiunse presso il monte Thabor, lo sconfisse e gli uccise dieci mila uomini.
Crassus, che succedette a Gabinus, saccheggiò le immense ricchezze del Tempio, quantunque Eleazar, per salvarle, gli avesse scoperto e consegnato il balsamo d'oro che le valeva tutte.
Cesare, dopo aver trionfato di Pompeo, liberò Aristobulo e l'inviò in Giudea con due legioni. Ma i partigiani di Pompeo lo avvelenarono, e tagliarono la testa ad Alessandro, suo figlio, in Antiochia. La discendenza dei Maccabei si trovava così, se non distrutta, avvilita; e quell'Idumeo Antipater, che era stato l'amico ed il consigliere di Hircanus, e che fu il padre d'Erode, insinuandosi nell'amicizia di Cesare, divenne l'arbitro degli affari della Giudea.
[85] Antipater, per ordine di Hircanus, assistette Cesare nella sua guerra contro l'Egitto. Gli è per questo che alla fine della guerra, Hircanus fu confermato da costui nella sua dignità di gran sacerdote, ed Antipater venne nominato procuratore della Giudea, malgrado le proteste di Antigonus, altro figlio di Aristobulo. Antipater, profittando della sua autorità sopra il debole Hircanus, s'affrettò ad elevare i suoi figli, l'uno, Phaselus, il primogenito, a governatore di Gerusalemme, e l'altro, Erode, il minore, appena quindicenne, a governatore di Galilea.
Questo adolescente esordì coll'impadronirsi di Hezekiah, capo di briganti e dei suoi complici, e col farli sterminare. Il sanhedrin si commosse di questa infrazione alla legge; perocchè, presso di noi, nessuno può essere messo a morte senza essere stato giudicato dal sanhedrin. Hircanus, spinto da questo corpo, citò Erode a venire a render conto della sua condotta. Erode si presentò dinanzi ai suoi giudici circondato da una guardia così forte che li ridusse al silenzio. Nondimeno, alla fine, il sanhedrin avrebbe pronunziato la sentenza di morte d'Erode, se Hircanus non l'avesse salvo, consigliandogli di uscire da Gerusalemme. Il governatore della Siria nominò Erode generale dell'esercito di Celesiria. Ed egli avanzavasi verso Gerusalemme per vendicarsi quando suo padre e suo fratello lo impegnarono a tornare indietro.
La storia della Giudea principia da questo momento ad essere quella di quest'uomo, e fu il più grande della nostra nazione, allato di Salomone e di Giuda Maccabeo. La Siria divenne il campo delle lotte delle depredazioni dei partigiani di Cesare e di Pompeo. Erode non si mise a tutta prima con i partigiani di [86] Cesare. Cassius lo protesse, Marco Antonio lo ingrandì, Antipater era stato avvelenato. Erode lo vendicò facendo uccidere l'assassino. Il mio avolo Oziaz restò fedele alla discendenza dei Maccabei; mio padre si legò ad Erode, sedotto dalla sua audacia. Erode era stato confermato da Cassius nel comando della Celesiria.
Erode si trovava di fronte a tre pericoli: la vendetta di Antonio che aveva vinto Cassius protettore di lui; la gelosia di Hircanus, che altri cercavan sempre di eccitare; e le imprese di Antigonus, figlio di Aristobulus. Erode comperò Antonio, che non solo gli perdonò, ma nominò lui e suo fratello Phaselus a tetrarchi, e diede loro in mano gli affari della Giudea. Erode sposò la figlia di Hircanus, avendo già un'altra moglie della Idumea, Davis, che lo fece padre di Antipater. Egli si preparava a calmare i partigiani di Aristobulus, sposando Mariamne, figlia di Alessandro, uno dei figli di Aristobulus. Tutto ciò, per altro, non stornò la tempesta. Antigonus, aiutato dai Parti, si impadronì di Gerusalemme, prese per tradimento Hircanus e Phaselus, ed obbligò Erode a fuggire in mezzo ai più grandi pericoli, con sua madre, le sue mogli, sua sorella e i suoi amici. Egli li rinchiuse nella fortezza di Masada, a fine di sottrarli alla vendetta di Antigono, che aveva tagliato le orecchie al vecchio gran sacerdote Hircanus, ed avvelenate le ferite che Phaselus s'era fatte battendo della testa contro le mura della sua prigione per suicidarsi. Erode pure si sarebbe data la morte dalla disperazione, se mio padre non l'avesse fatto arrossire della sua viltà, e non avesse rialzato il suo coraggio[10].
[87] Dopo aver messo al sicuro nella fortezza la famiglia, i parenti ed ottocento dei suoi amici, e dato congedo ad altri otto mila ch'egli non poteva proteggere, Erode s'accinse a restaurare la sua fortuna. Mio padre l'accompagnò presso Malchus re d'Arabia, che era stato colmato di favori dal padre di Erode. Malchus gli rifiutò ogni aiuto. Allora Erode si salvò in Egitto, ove Cleopatra si prese d'amore per lui. Mio padre lo strappò dalle braccia di quella sirena, che aveva perduto tanti Romani. Erode s'imbarcò in Alessandria onde andare a Roma, e venne a Pamphilica, di dove una terribile tempesta lo sbalestrò in Rodi.
La città era rovinata dalla guerra contro Cassius. Erode l'ajutò a riedificarsi. Egli si fece costruire una trireme, e approdò a Brundusium, e di là si recò a Roma. Erode, sempre accompagnato da mio padre, restò a Roma sette giorni, e furono bastanti. Egli ricomperò da Marco Antonio il regno di Giudea, come aveva comperato la dignità di tetrarca. Il senato pubblicò il decreto. Ottavio ed Antonio lo colmarono di feste, ma egli partì immediatamente. La sua famiglia era assediata, i suoi amici perseguitati. Sbarcò a Tolomaide, vicino a Joppa, s'impadronì di tutte le città della Galilea, liberò la sua famiglia da Masada, presso Gerico, saccheggiò la piazza, e dopo tre anni di combattimenti, di avventure, di fortune e di rovesci, condusse il suo esercito sotto le mura di Gerusalemme.
Antigonus era stato dichiarato nemico dei Romani, ed Antonio, allora nella Siria, aveva inviato Sosius con diverse legioni per ajutare Erode. Gerusalemme fu assediata dallo stesso lato nord, donde Pompeo l'aveva presa. La resistenza degli assediati fu grande, [88] ma alla fine le truppe di Erode e le romane presero la città d'assalto. La strage fu sì enorme che Erode intervenne, e domandò a Sosius se intendesse non lasciargli che un deserto per regno. Ottenne in fine dai Romani che Gerusalemme fosse risparmiata, pagando una taglia onde liberarsi dal saccheggio e dallo sterminio. Antigonus andò a gettarsi ai piedi di Sosius, che lo chiamò Antigono, ma lo trattò da uomo, ritenendolo prigioniero. Egli lo presentò ad Antonio. Questi lo riserbava pel suo trionfo, ma Erode lo comperò e gli fece tagliar il capo in Antiochia. E così finì, dopo cento e ventisei anni, il regno degli Asamonei — famiglia di preti, illustrata da tanti fatti coraggiosi, lasciando il regno ad un Idumeo, un mezzo ebreo, di nascita volgare, ma di cuor forte.
Parlerò altrove d'Erode.
I Maccabei sono stati dipinti come tipi d'eroi. Cosa hanno fatto essi pel loro paese?
Liberarono gli Ebrei dai Macedoni, e li diedero in mano ai Romani. Si francarono dai re di Siria, per cadere sotto la protezione dei proconsoli imperiali. Ma liberarono essi l'anima della nazione? L'Ebreo restò ebreo — cioè al di fuori del movimento del mondo, suddito d'un prete, allorchè si sarebbe dovuto alzarlo a cittadino libero. Ora il giogo della dottrina farisea abbrutiva il popolo ben più che il giogo della dominazione greca. Poichè si violava la legge di Mosè, non si doveva sostituirle la legge orale delle sinagoghe e del gran collegio. Il patto di Mosè era pesante; lo si fece più grave ancora con un'aggiunta di ridicole ordinanze. I Maccabei avevano cumulate le funzioni di gran sacerdote con quelle di re, ed avevano creato la monarchia teocratica [89] che è una tirannia sovrapposta ad un'altra tirannia. Mosè aveva nel gran sacerdote abbozzato un sorvegliante del re; i Maccabei ne fecero il complice e la ripetizione.
Coi Maccabei, la classe di mezzo trionfò. Questa era ritornata dalla cattività di Babilonia non già istrutta dalla civiltà fastosa, splendida, voluttuosa, attiva degli Assiri, ma turbata, spaventata dall'idea che il popolo, sedotto da quell'esca, potesse sfuggirle di mano, e invidiosa delle classi aristocratiche che tendono a dare al popolo la libertà del benessere e quella della coscienza. L'esiglio per questa parte degli Ebrei — l'aristocrazia sadducea — che godeva e pensava, non era a Babilonia, ma in Gerusalemme. Il Fariseo era il carceriere dell'anima di questo popolo, di cui Mosè aveva voluto fare non lo schiavo di Dio, ma il suo sacerdote. Che aveva guadagnato questo popolo ad essere liberato dai Macedoni? L'intolleranza, la miseria, la solitudine. Il mondo si chiudeva intorno a lui; questo mondo era il peccato, l'inimico, l'impurità, peggio ancora che sotto le leggi del grande legislatore; la riserva che egli aveva imposto, aveva preso sotto i Farisei le proporzioni di un delitto. I Maccabei non emanciparono la nazione ebrea; la fecero soltanto cangiare di giogo.
Ecco da quali antenati io discendeva; ecco a qual setta io apparteneva. La mia famiglia, sadducea e gente da guerra, aveva nelle vene una goccia di sangue degli Asamonei; mio padre le infuse poi una goccia di sangue straniero.
[90]
Io pensava a tutto questo, o per dir meglio tutto questo scorreva nel mio pensiero, come l'acqua d'un fiume passa sotto i nostri piedi, mentre che dall'alto del ponte noi contempliamo un lontano paesaggio perduto nell'ombra. Le due parole di Cneus Priscus «lo conosco» rilevate da un tal tuono amabile, che nella bocca di quel carnefice degli ebrei diveniva sinistro, fiammeggiavano dinanzi al mio spirito, e lo assorbivano.
La mia tempera non è di quelle che piegano sotto la paura. Io creava il pericolo per avere la gioia dell'emozione. Lavoravo da due anni ad infiammare la Giudea come gli altipiani di Puteoli, onde dare la caccia ai miei nemici. Non m'ero per nulla nascosto, nè stato in guardia, senza ostentazione però nè storditezza; in guisa che tutti sapevano che io ispirava ed incoraggiava tutto ciò che aveva forma d'odio contro i Romani. La gioventù di Gerusalemme mi salutava come suo capo, perchè io mi decidessi ad essere tale. La mia nascita, il partito al quale appartenevo, il mio lungo soggiorno a Roma, i miei viaggi in Grecia, in Egitto, nella Fenicia e nella Siria, in tutta l'Asia insomma, i miei gusti, le abitudini della vita, l'eleganza dei miei modi, le mie relazioni, la mia apparente frivolità, le mie avventure, [91] la mia ganza Maria di Magdala, che io aveva messa su come regina di Gerusalemme, tutto, incluso la mia persona, mi faceva risaltare come il punto più saliente e più risplendente della città. Era egli da stupirsi, se Cneus Priscus mi conoscesse? Nulla ostante mi sembrò che nella intonazione dolce della sua voce vi fosse una minaccia, nel suo sorriso una condanna.
Justus mi aveva seguito senza che io me ne fossi accorto. Mi trovai senza avvedermene dinanzi la casa bianca di Maria, nascosta dietro una verde cortina di tamarindi. Passando la soglia della piccola corte scoperta che precede la casa, vidi Justus.
— A proposito, gli dissi io, vieni a cenare con noi stasera. Cerca di trovare quella mala lana di Bar Abbas; ho d'uopo di distrarmi. E se Menahem è in istato di venire, magari in lettiga, conducilo teco.
Mentre dicevo queste parole, Maria, che non era ancora rientrata dal circo, si mostrò sulla porta. Justus, che partiva, si fermò come affascinato. Egli aveva forse ragione.
Quella ragazza era risplendente di bellezza. Si sarebbe detta un raggio d'aurora scolpito a donna. Uno sciame di giovanotti l'aveva accompagnata fino alla sua dimora, raccontandole mille bazzecole, coprendola di fiori, non potendola coprire di baci. Io l'avevo creduta la più bella creatura della Giudea, prima di quel guizzo di donna che m'era apparso nel circo chiamando Moab, e che dominava la stessa misteriosa nebbia in cui Cneus Priscus aveva immerso il mio spirito. Maria non aveva nulla conservato del costume delle figlie della Giudea. La si era foggiata una forma di tunica e di peplum come [92] una cortigiana greca, tagliati in una stoffa di Babilonia. Pareva una Ester acconciata dalle mani di Laide. Allorchè ella penetrò nella corte, mi sembrò che una nuvola cosparsa di stelle argentee mi si sciogliesse addosso. Mi saltò al collo. Ella era stata testimone della mia piccola scena colla pantera, e mentre tutta Gerusalemme credeva che io mi fossi sottratto ai ringraziamenti di Claudia per modestia o per noncuranza, Maria aveva pensato: È per me che egli sfugge la vista dalla superba nipote di Cesare!
— Bravo il mio leone, esclamò ella, colmandomi di carezze. Oh! come eri bello, e quanto t'amo!
Justus si precipitò al di fuori per andare in cerca di Bar Abbas. Rientrammo, ed io mi lasciai cadere sopra i cuscini di porpora. Maria s'accorse allora che ero pallido e distratto.
— Che hai, amor mio? sclamò essa. Si direbbe che t'abbi la febbre.
Raccontai a Maria le mie preoccupazioni. Ella scoppiò dalle risa.
— Abita forse la luna il tuo Romano?
— Mica d'abitudine, io imagino.
— Il bel miracolo allora ch'egli ti conosca! Ve ne sono forse due a Gerusalemme che abbiano questi occhi azzurri come il lago di Genezareth; questa pelle fina e bianca come quella delle figlie della Grecia; i capelli biondi come quelli dell'angelo che tentò Eva; questa lanugine che come un musco dorato sfiora le tue labbra ed il tuo mento; questa bocca ove il bacio nasce come la Venere dei Greci nasce dalle spume del mare; questa fronte, infine, questo tutto insieme che turba il sonno di tutte le fanciulle di Gerusalemme, e brucia il sangue di tutte le donne maritate?
[93] Noto qui per incidenza che mio padre, accompagnando il re Erode nel suo ultimo viaggio a Roma, vi incontrò un oratore brettone di Eboracum (York), e ne sposò la figlia, che alla corte d'Augusto era chiamata la Stella della Bretagna. Io era il ritratto virile di mia madre.
— Sì, risposi a Maria, ma Cneus Priscus non è nè una ragazza, nè una donna maritata: egli è lo sciacallo di Pilato.
— Su via! continuò Maria, ve ne ha dunque un altro a Gerusalemme che faccia del suo mantello un pallium, e se lo panneggi addosso come fai tu? che domi un cavallo come te? che seduca una donna come te? che racconti le sue impressioni di viaggio, che abbia l'epigramma e la spada così pronti, sì l'uno che l'altro, che abbagli, che stordisca per la bizzarria, pel lusso, per l'imprevisto, per la morbidezza quando sei nella tua casa, per l'agilità nel ginnasio, per l'eleganza in pubblico, per lo splendore e l'estro nei circoli.... come te, come te, mio tesoro, cui tutta la gioventù imita o invidia, e cui tutti i mariti temono?
— Sì, risposi io, ma Cneus Priscus non è nè un giovine stravagante, nè un marito geloso; egli è uno dei bracchi di Pilato.
— Oh! l'astuto bracco, sclamò Maria, per iscoprire un uomo che è consultato dai savii del paese, al quale il sagan obbedisce, che i figli d'Israello considerano come la loro anima, i guerrieri come la loro spada, i timidi come la loro voce, i prudenti come la loro audacia, e che risuscita i cuori morti alla speranza per la patria.
— Sì, la mia entusiasta; ma Cneus Priscus non è una pazzerella come te, nè niente di tutto ciò. Egli è il boia di Pilato.
[94] — Che si appicchi dunque al suo patibolo, Pilato! Sai che sua moglie è molto bella?
— Davvero? non me n'ero accorto.
In quel momento Justus e Bar Abbas entrarono. Maria balzò dai miei ginocchi. Le sue donne si facevano vedere alla porta della sua stanza, onde abbigliarla per la cena.
— Ho fame, Maria, fa presto.
— Si parla di fame qui? chiocciolò Bar Abbas: presente! È la sola cosa di questo mondo che mi sia restata fedele.
— E Menahem?
— Sparito. I Galilei l'hanno portato via dal circo.
— E Moab?
— Anche lui sparito. Gli Esseniani l'hanno trasportato nel deserto.
— Nessuna traccia di quella donna che sembra così innamorata di lui?
— Che disgrazia che io non l'abbia veduta! disse Bar Abbas. Guardavo altrove; guardavo mastro Pilato divenuto bianco e verde come una foglia di ulivo. V'è della gente che ha il colorito a molle: io non cangiai la mia tinta di bronzo di Corinto, quando perdetti una scommessa di cinquecento dramme. Quella infame pantera m'ha rubato. Credevo che l'avrebbe ingojato Menahem, per far piacere alla Romana, e per l'onore delle bestie del nostro paese. Niente affatto! s'è condotta vilmente come le altre. Ah! perfino le pantere divengono lepri nel nostro paese. Le tigri adottano i costumi romani.
— Ti spiace dunque che Menahem sia salvo?
— Non pel denaro perduto sulla parola e che del resto pagherò con parole, ma per l'onore degli [95] abitanti del deserto della nostra Giudea. D'ora in poi bisognerà dare la caccia agli Essenii per avere una qualche emozione. Non avremo più di feroce, in quanto agli indigeni, che i grandi sacerdoti.
— E i creditori, credo.
— L'è roba vecchia codesta; quei carnivori hanno finito per consumare financo i motteggi che si fanno sul lor conto. Ma v'è di peggio ancora oggidì, ci son coloro che non vogliono più far credito. Ecco lì gli implacabili.
— Cosa hai, Justus, che sei lì serio come un bue che rumina.
— Egli annasa dietro la porta la tua Maria che si veste, disse Bar Abbas ridendo.
— Non sarebbe certo un famoso cane, risposi io, poichè siamo in mezzo ad un aere pregno di profumo.
— Per conto mio preferisco il profumo della cucina, rispose Bar Abbas. La più bella donna del mondo non vale un quarto di capriuolo bene speziato.... quando si ha fame.
Maria apparve, e nel medesimo tempo uno schiavo egiziano aperse una porta dal lato ove la cena ci attendeva. Nel medesimo tempo altresì udimmo, all'entrata dell'abitazione, un rumore di passi misurati, come quelli di legionarii che passano. Il rumore cessa, ma poco dopo udiamo aprirsi la porta della corte, qualcuno camminare, e parlare allo schiavo all'uscio della casa. Do un'occhiata al balcone. La notte era venuta, la luna piena s'alzava maestosamente dietro la collina di Sion, e tuffava i suoi raggi nel sobborgo di Bezetha.
Cneus Priscus s'era fermato sulla soglia della camera ove eravamo. Sembrava un po' imbarazzato.
[96] Noi ci trovavamo in una sala vivamente illuminata, dove un gruppo di persone si disponeva a dar l'assalto ad una cena, ch'egli avrebbe indovinata al suo profumo, se non avesse scôrto a diritta, per la porta aperta, le tavole preparate ed i domestici all'opera; dall'altra, uno sciame di giovani schiave che portano i cuscini, i ventagli ed i fiori della loro padrona; e ritta nel mezzo della sala, bella come un giorno di primavera, la padrona stessa circondata dai suoi convitati. L'esitazione di Cneus Priscus non durò per altro che un istante. Egli si avanzò con un sorriso sardonico che contraeva i muscoli del suo viso. E' sembrava felice del contrasto di quella gioia con ciò ch'egli aveva a dire ed a fare.
Se Cneus sapeva chi ero io, sapeva altresì ove trovarmi. Lo prevenni. Lanciandogli uno sguardo significante per indicargli quella povera donna, di cui egli stava forse per frangere, od almeno insanguinare il cuore, gli dissi:
— Siate il benvenuto, ospite mio. C'è a tavola un posto che vi aspetta.
Cneus Priscus sembrò comprendere, se pur non era commosso.
— Giuda, figlio di Simone, e' rispose, vengo io invece ad invitarti a cena da parte del procuratore, riconoscente del nobile sacrifizio di te, di cui stamane hai dato prova.
— Codesto bruto non è poi affatto un bruto, dissi in vecchio ebraico a Justus. — Poscia ad alta voce, in greco, lingua ordinaria di tutti quelli che non conoscevano il latino, usato fra gli Ebrei ed i Romani, aggiunsi: — Avevo qui dei convitati; ma essi mi perdoneranno se li lascio per obbedire all'invito del generoso straniero, che me lo invia per mezzo di colui che più sovente è il suo genio della morte.
[97] Maria sembrava nulla comprendere; Justus divorandola dello sguardo, non capiva nulla neppur egli. Bar Abbas rispose:
— Ti auguro che quella cena non ti dia una indigestione romana.
Baciai gli occhi e la bocca di Maria senza rispondere, e seguii Cneus Priscus, che mi precedette senza salutare alcuno.
Alla porta della strada la scena mutò. I soldati che attendevano, dietro un ordine, o piuttosto un segno di Cneus, mi circondarono, ed innanzi ch'io mi avessi fatto un movimento, le braccia e i polsi m'erano legati.
— Dove andiamo? chiesi senza perdere il sangue freddo che mi ero imposto, che non avevo mai perduto e non perdevo mai nelle circostanze pericolose.
— Alla torre Phasaelus, rispose Cneus con un lieve sorriso. Vi sei atteso per cenare.
— È là che Pilato ti manda i resti della tavola dei suoi schiavi? domandai con aria insolente.
Cneus non m'intese forse: e' non rispose.
La città formicolava di popolo perchè le feste duravano ancora. Sotto le tende delle grandi piazze alcuni cantavano, altri giuocavano o passeggiavano al chiaro di luna. Le donne preparavano la cena e venivano a cercar acqua alle fontane, la brocca sulla spalla, chiacchierando dello spettacolo del giorno e del combattimento degli elefanti del domani. Incontrai uno dei figli di Hannah che mi riconobbe e fece un balzo di sorpresa. Gli dissi in vecchio ebraico: Sta calmo!
Dieci minuti dopo eravamo nella corte della torre di Phasaelus. Abbandonandomi nelle mani del carceriere, Cneus osservò:
[98] — Non è precisamente a cena che il procuratore t'invita, ma e' ti offre un riposo tranquillo. In quanto alla cena, siccome qui noi non abbiamo che i resti degli schiavi, non oserei umiliarti facendoteli presentare. Buona notte, e che Venere ti dia in sogno ciò che la tua amante dà al tuo amico in realtà.
— Grazie, camerata. La tua non ha più nulla a dare; la è stata svaligiata. Tu sei più felice di me.
Fui condotto sotto la porta di un sotterraneo che s'addentrava nelle viscere della collina. Mi sentii spinto, rotolai non so quanti gradini, e mi trovai lungo disteso sopra un corpo fetido e molle urtando dei piedi, nelle tenebre, in qualche cosa che mi sembrò una carcassa, e toccando colle mani un non so che di freddo e di viscoso, che spiccò un salto al mio contatto e che doveva essere probabilmente un rospo od una lucerta. A questo senso di ripugnanza balzai, e mi arrampicai di nuovo fino al gradino superiore della scala. Là cercai di restare in piedi il più che potei; poscia, come io sentiva il sangue danzare un'ardente pirrica nelle vene, e la vertigine mi trascinava ad onta della tranquillità perfetta del mio spirito, sedetti.
I sorci, i rospi, le lucerte, che so io? si davano una festa od una battaglia nel torace dello scheletro. Gridavano e si divoravan l'un l'altro. Dei rettili più timidi strisciavano ai miei piedi. I gradini della scala erano lubrici per l'umidità. Tutte queste cose schifose non mi lasciavano dimenticare che avevo fame e sopratutto sete. La mia gola sembrava accesa, la bocca era secca come le foglie del deserto. L'anima fe' prova di domare il corpo; poi vi rinunciò. Io pensava freddamente, mentre tutto il mio individuo bruciava. Cosa strana! nelle situazioni difficili [99] è il passato che ci accascia, e l'avvenire che ci sorride. Io non aveva nulla per altro che dovesse inquietarmi molto, nessun rammarico e nessun rimorso. A ventitrè anni non si hanno a contare che i piaceri gustati. Tutt'al più delle pene d'amore. E io non aveva neppur queste.
Avevo lasciato a vent'anni Roma, ove dei maestri greci avevano perfezionato la mia educazione. Avevo viaggiato, tornando a Gerusalemme, in Grecia, in Egitto, nell'Arabia, nella Fenicia, in tutta l'Asia, infine, a traverso le cortigiane, le feste, le corti, le avventure le più deliziose, avendo un corpo d'acciaio cesellato in forma di donna. A Tiberiade, la mia parente Erodiade aveva fatto delle pazzie per trattenermi. Maria che avevo incontrata a Magdala, mi aveva, dirò quasi, rapito. Tutto ciò era gaio, rosa, trasparente, e ciò nonostante quelle memorie mi opprimevano. Il piacere s'era volto in agro. Mio padre era morto. Mia madre, sempre malaticcia e annoiata del sole della Siria, non si occupava che di sè stessa, e un poco delle mie sorelle. Ma essa fuggiva i dispiaceri come una minaccia di morte, e pensava solo alla sua persona, alla sua vita, alla sua salute, al suo ben essere. Avrebbe torto il collo allo Spirito Santo per farsene una coppa di bibita lassativa. Avrebbe appreso con eroica rassegnazione che io era in prigione.... per la causa del mio paese. Quella povera donna non odiava che i Romani, e non comprendeva che la sua Bretagna.
Maria non aveva che a scegliere la sua consolazione, fra due: oh, povero Giuda! Tutta la gioventù di Gerusalemme le offriva questo alleviamento al suo dolore, compresi i vecchi, ed alla loro testa il sagan.
[100] Perchè dunque io mi sconfortavo al ricordare mia madre e Maria? Le tenebre, la fame e la sete si stemperano e stingono sull'anima: la stoffa resta l'istessa; il colore s'insudicia. Cosa potevo io temere dall'avvenire? La morte sulla croce e nel circo. A ventitrè anni questa sorte era lugubre, quando la società e la natura hanno fatto di tutto per seminarvi la via di felicità. Eppure io non me ne spaventava. Al posto della croce io vedeva quella Romana, di cui avevo salvato la vita, che dettava la sentenza dietro la sedia curule di suo marito; nel circo, io vedeva quella donna misteriosa che si mischiava a tutti i miei sogni e avviluppava le mie memorie e le mie speranze. Ovunque l'anima mia s'apriva, la si urtava a quel fascino. Da quell'immagine principiò la mia corsa a traverso il passato e l'avvenire. Sopra quell'immagine mi addormentai.
Quanto tempo durò quel sonno? Era notte ancora, o il giorno era già spuntato? Non ne sapevo nulla. Un dolore acuto mi risvegliò di soprassalto. Un topaccio cominciava a rosicchiarmi il tallone dopo aver divorato il sandalo. M'alzai. La battaglia sullo scheletro durava ancora. E nessun altro rumore arrivava fino a me.
Diverse ore passarono ancora così. Questa fiata l'anima riposava; il corpo si lasciava andare a tutti gli spasimi. Dico tutti gli spasimi; realmente, uno li assorbiva tutti: la sete! Sentivo il sangue ribollirmi negli occhi.
Alla fine mi parve d'udire un rumore nei corridoi della prigione; poi un passo pesante avvicinarsi, una voce brontolare sordamente, un mazzo di chiavi agitarsi, una chiave entrare nella serratura della porta contro la quale io m'appoggiava, e sentii quell'uscio [101] aprirsi, stridere sui suoi cardini, colpirmi nelle spalle, spingermi con forza e precipitarmi in fondo alla scala.
Allo scarso lume che filtrò da quell'apertura abbracciai in un colpo d'occhio il quadro indefinibile della mia prigione. Tutti i figli della putrefazione saltarono, fuggirono, s'arrampicarono, sguizzarono in ogni senso, ed andarono a profondarsi in una specie di voragine nera ed infetta che s'apriva spalancata in un angolo della prigione. Era uno scheletro davvero che giaceva sopra quella terra nera ed umida come quella di un pantano. Le mura verdastre erano marcate da segni fatti con dei chiodi: forse delle memorie, forse delle maledizioni. In cima alla scala, sulla soglia, nel vuoto della porta, staccandosi in nero per la luce che lo rischiarava di dietro, tenevasi ritto il carceriere. Era un vecchio.
— Hai dormito bene, ragazzo mio? — mi chiese egli con una voce melliflua che mi diede un brivido, voce che rassomigliava al dolce nicchiar della tigre quando giuoca coi suoi piccoli.
Lo guardai, salendo, alcuni gradini, e mi fermai d'un tratto vedendolo indietreggiare di qualche passo.
— Perfettamente, risposi, e voi, babbo?
— Malissimo: una pulce mi ha dato rovello. Ma tu devi aver fame, povero figliuolo, — continuò coll'istesso tuono di voce.
Io avevo preso l'abitudine, trovandomi in situazioni ardue, dinanzi a cose od a persone che non comprendevo bene, di recitare una parte che si presta a tutte le evoluzioni: la fatuità. La fatuità è un terreno neutro da cui puoi prendere qualunque mossa. Un passo in dietro, è la melensaggine: sei Antonio. Un passo avanti, è lo spirito: sei Cesare o Alcibiade. Un [102] passo da una parte, sei uno sciocco: Sansone o Goliath. Uno dall'altra, è l'arguzia pretenziosa, è Salomone. In breve, dal punto centrale della fatuità si può entrare in tutte le altre parti senza sforzo, ed avere il tempo di scandagliare, di comprendere, di decidersi, senza nulla compromettere storditamente. Così, per esempio, alla domanda singolare del carceriere, io risposi:
— Fame? neppur per idea. Finisco di pranzare.
— Come dunque? gridò con voce rauca e tremante dalla collera. Avrebbero forse preso la chiave dalla mia cintura?
— Niente affatto, caro babbo, risposi tranquillamente.
— E dunque allora?
— Allora, ho ucciso con un pugno un sorcio grosso come un lepre, che si divertiva a provare i suoi denti contro questo sandalo, e l'ho mangiato. Era delizioso! Altro che i grilli degli Esseniani del Giordano!
— Corpo di mille saette! gridò il vecchiaccio, e dire che non ho mai pensato ad utilizzare quel selvaggiume per nutrire i miei ospiti! Grazie, ragazzo mio: tu mi fai una rendita. Mi dispiace però che tu abbi pranzato così bene. Avevo l'intenzione di darti un bel palombo arrostito in mezzo a due fette di pane impregnato d'olio ed aceto, con due foglie di lauro.
— Eccellente, babbo mio, eccellente: vi permetto di darlo per cena ad un conduttore di camelli o di dromedarii, al quale andrà certo a genio.
— Te' te'! il re Erode se ne faceva un regalo.
— Il re Erode era il pronipote d'un cammellaio di Ascalon.
[103] — E cosa diresti tu d'un piatto di fegato di capriuolo e di pollo al rosmarino, cotto nel vino, reso più piccante con delle olive o dei funghi, ovvero ancora di una frittura d'azzimi al latte e miele innaffiata da un fiasco di vecchio Cipro?
— Sì, risposi io noncurante, ho veduto qualche volta regalarsene gli schiavi galilei delle mie stalle.
— Ma dunque, il mio principe, cosa ci vorrebbe per incontrare il tuo gusto? fece il vecchio brigante.
— Oh! il mio solito, e semplice; un filetto di tigre arrostito sulle brage con sale e pimento, o delle animelle di coccodrillo bollite nella mirra. Costa poco ed è squisito.
— I tuoi ordini saranno eseguiti, mio signore, disse quell'uomo sogghignando, e se ne andò.
Il carceriere romano è atroce. L'ebreo è orribile. Io principiai ad aver paura delle intenzioni sinistre che intravvedevo. Si mandava quel miserabile per aggiungere al supplizio reale della fame e della sete, quello dell'aspettare, della visione di un desinare che si voleva forse farmi sperare senza darmelo mai. E il mio timore era confermato dalla circostanza che l'ora ordinaria del pranzo degli Ebrei era passata da lungo tempo; poichè alla luce del giorno che aveva intravvista, m'era sembrato che metà della giornata era già scorsa.
La conversazione sul cibo aveva aumentato gli spasimi del mio stomaco. Mi assisi di nuovo sull'alto della scala, e per distrarmi stetti ad ascoltare.
La ronda infernale dei rettili e degli esseri striscianti della mia carcere era cessata. Non c'erano più che le arterie del mio collo e delle mie tempia che battessero, e di cui udissi il rumore nel vuoto. Non avrei mai creduto che fosse così spaventevole per l'uomo [104] il trovarsi faccia a faccia di sè stesso nelle tenebre, nel silenzio e nella solitudine. A forza di fissare la mia attenzione per discernere dei suoni, echi della vita, m'addormentai, o piuttosto m'assopii di nuovo.
Quanto tempo passò ancora? Ero forse caduto dall'assopimento nello svenimento? Non ne so nulla. Ritornai in me stesso al contatto d'una mano che si posava sul mio collo a traverso la porta semichiusa, per impedirmi di rotolare di nuovo al fondo del mio pozzo, ed alla luce affumicata che spiccava la lanterna del mio carceriere. Questi aveva l'aria un po' contrariata.
— Vieni, mi disse ruvidamente.
— Dove? domandai, stendendo le braccia e sbadigliando come qualcuno che si sveglia.
— Dove? replicò egli; dove si va, uscendo da qui? dove si può andare?
— Alla propria casa, per Dio! risposi io, quantunque un brivido percorresse le mie vene.
— Sì, disse la mummia; da suo Padre, certo.
Mi legarono le mani al dosso, e mi spinsero nella corte. Là, Cneus Priscus mi attendeva con soli quattro uomini. Fece un segno. Uno degli uomini mi attaccò sul viso un pezzo di vecchia stoffa, così stretto, che per un momento temetti non mi volessero soffocare.
— Non posso più respirare, sclamai facendo uno sforzo.
— Non è punto necessario, rispose Cneus; è un lusso di cui metà della creazione ha trovato la maniera di fare a meno.
Mi spingevano sempre.
Compresi che bisognava mettersi in cammino. L'aria fresca della sera che aveva sfiorato la mia fronte mi aveva un poco rianimato. Il moto mi faceva bene. [105] La respirazione fuori dell'orribile puzzo della prigione, quantunque non fosse pienamente libera, m'insoffiava la vita. Tutto il creato taceva, eccetto la rondinella laboriosa, che prendeva in iscambio le prime luci rosse della piena luna per quella del sole che tramonta. Io aveva gettato un subito sguardo su quel ritaglio di cielo punteggiato di stelle, che m'aveva incantato. Non sapevo ancora che il cielo fosse così bello a contemplare! Uscendo dalla corte del castello cominciammo a discendere; ma mi avevano fatto fare tanti giri e rigiri, e attraversare tante porte e tanti corridoi avanti di principiare questa discesa che non potei più orientarmi, nè comprendere dove andassimo. Questo mistero a momenti mi spaventava, poi mi consolava.
— Da quando in qua Pilato è egli divenuto così pudico e così pieno di cautele nelle sue esecuzioni? dicevo a me stesso. Da quando in qua, aggiungevo, fa egli giustiziare avanti il giudizio? Questo romano è scuro e severo, ma giusto, o meglio, è schiavo della legalità. L'uomo che l'altro giorno ha trucidato un popolo disarmato, avrebbe del pudore questa notte e civetterebbe col cosa se ne dirà a Gerusalemme? Hum, hum!
Un soffio d'aria profumata che mi carezzò le narici, malgrado la stoffa tesa sul mio viso, m'avvisò ch'eravamo vicini ad un giardino. Ancora una rivelazione. Per farmi cangiare di prigione o condurmi al pretorio o al sanhedrin non c'era giardino da traversare. Penetrammo in un viale. Sentivo sotto i miei piedi la fina sabbia del fiume. L'odore che m'inebbriava non poteva venire che da qualche conserva, poichè l'autunno nei nostri climi non ha di quei fiori. Udii qualcuno della scorta allontanarsi, probabilmente per andar a prendere degli ordini, e ritornare poco dopo, sempre silenziosamente. Nondimeno comprendevo [106] perfettamente ch'eravamo vicini ad una casa, perchè la mia benda non impediva al rumore delle voci e del movimento di arrivare alle mie orecchie. Attendemmo un quarto d'ora forse. Alla fine mi sembrò udire un passo leggero e il fruscio di un vestito di donna. Non m'ingannavo. Udii il passo della scorta che si allontanava, poi una mano di donna prender la mia dicendomi dolcemente: «Vieni.»
Io non risposi. Il mio cuore batteva forte. Quella mano era così soffice e così tepida, quella voce era così vellutata, che per un istante credetti toccare quelle mani delle cortigiane romane che davano il brivido allo stesso Catone, ed udire quella voce delle etaire di Corinto, che turbava la ragione di Socrate stesso.
Seguimmo diversi corridoi e passammo per alcuni atrii, scendemmo per più scale, mentre un delizioso mormorio d'acqua, cadente nelle vasche di porfido, blandiva le mie orecchie, irritava la mia sete. Ci fermammo ancora. La persona che mi accompagnava soffiò all'orecchio d'un'altra alcune parole che non potei comprendere, quantunque io conoscessi il greco. Cinque minuti dopo, la stessa persona ritornò; disse ancora alcune altre parole nell'istessa maniera, e riprendemmo il cammino discendendo alcuni gradini e seguendo un portico; poichè l'aria che sfiorava la mia fronte era fresca. Finalmente penetrammo in una stanza la cui atmosfera calda e densa era soffocante.
— Eccoci arrivati, disse ella, che gli Dei realizzino i tuoi desiderii.
Disparve. Io restai un momento silenzioso. Poi una mano sollevò la mia benda, mentre un'altra tagliava le corde che mi martoriavano i polsi. Le corde si staccarono, la benda cadde. Io vidi. E restai abbagliato.
[107]
In quell'istesso momento, i miei amici, in casa del sagan, mi davano per perduto.
Era l'ultimo giorno della festa dei Tabernacoli, e l'ultimo delle feste del circo date da Pilato. Gli Ebrei delle provincie, venuti a Gerusalemme per la solennità nazionale, stavano per ritornare alle loro case, nella notte o all'indomani. Gli Ebrei di Gerusalemme che avevano preso posto sopra i gradini dell'anfiteatro erano stati ancora in minor numero dei giorni precedenti. Il livello dell'odio della grande città aumentava; il sangue spazzato via aveva lasciato traccie indelebili. I capi partito della Galilea, della Perea, delle due tetrarchie, volevano intendere l'ultima parola onde agire in conformità. La notizia del mio arresto non era conosciuta che da loro, ed aveva irritato la loro collera. Hannah tremava per sè stesso, ed era imbarazzato. L'altezza alla quale io l'aveva condotto gli dava la vertigine.
Si sapeva che io era inghiottito nelle viscere della torre Phasaelus. I bracchi del sagan avevano scandagliato il palazzo d'Erode: e' si taceva. Questo silenzio spaventava ancor più il sagan. Maria credeva che dopo il banchetto di Pilato io avessi fatto una gita a Gerico per vedere mia madre.
Hannah avrebbe voluto evitare di ricevere i nostri emissarii delle provincie, sapendosi sorvegliato da Pilato, [108] e sapendo di più che c'era una spia in mezzo a noi. Ma non poteva non riceverli senza abdicare, senza sollevare i sospetti negli amici, come li aveva risvegliati nell'inimico.
L'ex gran sacerdote si era giusto alzato dal suo sontuoso pranzo, allorchè i cospiratori sfuggiti alla trappola di Josafat, principiarono a fare irruzione nel suo superbo palazzo. Primo fu Jesus Bar Abbas, che dopo aver fiutato tutto il giorno intorno la residenza del procuratore onde buscar notizie, veniva ora dalla torre Phasaelus ove aveva ricevuto, per sola guisa d'indizio, una serie di calci e scappellotti. Decisamente, per essi, Moab era sparito ed io rapito. Bar Abbas entrò grattandosi le parti abbondantemente offese e brontolando:
— Oh no! non si dirà più che Bar Abbas non paga i suoi debiti: questo qui lo pagherò. Credo che ci sia lesione d'ossa nelle mie regioni occipitali. E poi sono stato quasi quasi rapito ancor io. Forse che il pranzo quotidiano mi darebbe una bella cera? Una mariuola, alla vostra porta stessa, si è aggrappata al mio mantello, che non ne poteva più, dicendomi con una bocca rosea, — che odorava deliziosamente di cipolla, — che aveva adornato il suo letto con un tappeto dipinto d'Egitto, che aveva profumata la sua stanza con mirra, aloè e cinnamomo, e che m'invitava quasi che mi fossi il re Salomone[11]. E la tirava il mio mantello da una parte, mentre io, premuroso di arrivar qui, lo tirava dall'altra, ed ecco come la metà del mio copridosso se n'è andata dove avrei voluto veramente andar ancor io. Avreste un mantello di ricambio da prestarmi, sagan?
[109] — Diverresti tu per caso un onest'uomo?
— Giammai. Ciò rimpicciolisce. Io aspiro a divenir gran sacerdote.
— Va a cena, disse il sagan ridendo. Un posto a tavola ti conviene meglio, cred'io, che un posto di gran sacerdote.
Menahem, appoggiato ad alcuni dei suoi amici, entrava in quel momento, e poco dopo arrivarono gli altri.
Il sito ove il sagan riceveva i cospiratori era una camera ritirata, in un angolo remoto del palazzo, che sporgeva sopra un cortile e metteva sulla strada per una porta nascosta in un assito. Le mura erano incrostate di marmo verde, il soffitto di legno di cedro intagliato a rosacci. Rischiarata da un solo candelabro, quella stanza aveva l'aspetto funebre; quell'assemblea, l'aria di una riunione di banditi. Perocchè le fisonomie di quei giovani erano in gran parte fiere e tristi. La luce inondava della sua fiamma rossastra la testa gialla e la barba grigia del sagan; ed i suoi occhi neri, vivi, inquieti brillavano d'un doppio guizzo, aguzzati dalla lunga tunica bianca e da un caftan celeste contornato d'un cerchio d'oro. Egli aveva l'aria grave e tacevasi, giuocando colla sua lunga barba. Hannah era un uomo di poco più della cinquantina. Si aspettavano da lui le spiegazioni sul mio arresto e sulla mia situazione, sulla strage causata dalla richiesta dell'offerta, sull'attitudine presa dagli abitanti di Gerusalemme, sulla condotta che si doveva tenere. Vedendo che Hannah si preparava piuttosto ad ascoltare che a parlare, Menahem disse:
Sagan, noi partiamo questa notte; che dobbiamo dire ai nostri fratelli per consolarli della funebre notizia che ci ha già preceduti e che ha messo il lutto in tanti cuori?
[110] — Dite che bisogna sperare, rispose il sagan. Ove la semente cade, nasce la spica.
— Non basta questo, riprese Menahem. Bisogna che sappiano quando questa spica nascerà; chi la mieterà e di chi sarà l'alimento. Noi non abbiamo tutti le stesse credenze e l'istesso scopo.
— Abbiamo tutti almeno l'istesso odio, spero.
— Sì, ma a chi profitterà l'esplosione di quest'odio? Quando Giuda venne a visitare i nostri villaggi e mettere la mano sui nostri cuori esulcerati; quando egli si inoltrò nel deserto per risvegliarvi delle anime che abborrono il sangue e non hanno per patria che la pupilla di Dio; quando egli legò all'istessa opera lo sdegnoso sadduceo ed il cupido fariseo; egli aveva trovato un terreno neutro, ove della gente che si batteva ieri, poteva darsi domani la mano.
— Egli aveva prefisso il terreno che io gli avevo indicato.
— Ebbene, gli è precisamente di codesto che noi ora dubitiamo. Giuda ci aveva promesso: non più giudici, non più re, non più re-preti, non più re-prefetti dello straniero, non più tetrarca o etnarca. I giudici hanno finito con Samuele che rese il potere ereditario nella sua famiglia, nei suoi figli prevaricatori, avari e crudeli, Joel e Abrà. I re ci hanno condotto a Roboamo che diede occasione alla divisione della monarchia, e ad Osea e Sedecia che causarono la schiavitù del popolo ebreo a Babilonia. I re-preti ci hanno condotti al tiranno Aristobulus, all'imbecille Hircanus, all'intervenzione romana. Il re-prefetto di Roma ci condusse allo spezzamento della nazione in provincie straniere. Non c'è più popolo ebreo. Ora gli è questo popolo ch'è mestieri far rivivere!
[111] — Non sono forse codeste le mie idee?
— Sì; ma a vantaggio di chi questo popolo rinascerà? Ecco ove la questione si complica ed ove le opinioni si separano. Voi, Hannah, vorreste farvi dichiarare nostro re ed investire vostro figlio della dignità di gran sacerdote. E avete già preparata la via facendo occupare questo posto dal vostro genero Caifa.
— Che graziosamente ci tradisce, sclamò entrando Bar Abbas, cogliendo a volo questo nome sospetto.
Hannah lo fulminò di uno sguardo di sprezzo e senza degnarsi di rispondergli, disse:
— Non ho quest'idea.
— Se non l'avete oggi la vi verrà domani, continuò Menahem. I farisei vorrebbero ritornarci a' tempi della regina Alessandra, quando essi eran tutto, regnando sulla regina e sul popolo. I sadducei dicono a sè stessi: Se noi non governiamo il paese, meglio vale avere i Romani che ci danno la pace e la sicurezza. Gli essenii vorrebbero fare una comunità universale, abolendo il matrimonio, ed abbandonando così fra cinquant'anni la Siria in preda ai leopardi ed ai lupi. Noi, figli di Giuda il Golonite, vogliamo il regno del popolo, col popolo, pel popolo.
— Voi vedete dunque che tutto ciò essendo assurdo, interruppe Hannah, bisogna fondere i partiti in una grande idea.
— Bisogna fonderli in un comune interesse, ci aveva detto Giuda, continuò Menahem.
— Ascoltate, figliuoli, interruppe ancora Hannah: il generale Lysius, che veniva ad irrompere sul piccolo esercito di Giuda Maccabeo, conduceva seco dei mercanti di schiavi romani onde vender loro i prigionieri che contava fare: e fu battuto. Non imitiamo [112] quel pazzo. Cacciamo prima i Romani, dopo vedremo.
— Codesto dopo si troverà forse a fronte di una risoluzione già presa.
— La redenzione dei popoli è sempre stata un'opera di fede. Se è discussa avanti, naufraga; se la si discute dopo, la si perde. Il popolo domandò forse a Mosè: Ove ci conduci?
— Ecco la ragione per cui Mosè lo fece passeggiare per tanto tempo nel deserto, nutrendolo di grilli alla salsa di rugiada, saltò su Bar Abbas. Amo meglio le cipolle per conto mio, le quali, fra parentesi, sono eccellenti in Egitto. Ci si dice: Fatevi uccidere, per aver poscia l'onore di un sepolcro, o di mostrare le vostre cicatrici in un paese sottoposto ad un indegno padrone! Grazie tante, papà: gli è un padrone precisamente quello che io non voglio, sia esso Pilato o Hannah. Con questo che si cena bene da te veramente, o sagan!
— Vediamo figliuoli; non è per discutere queste questioni che siete venuti da me a quest'ora, alcuni istanti prima della vostra partenza. Accorciamo. Cosa siete venuti a dirmi? cosa volete sapere?
Hannah sembrava annoiato. Tutti questi ragionamenti erano nuovi per lui. Egli figurava come il capo di una cospirazione di cui perfino il programma gli giungeva come una rivelazione. Egli non vi si riconosceva più. Io non l'aveva mai iniziato allo scopo finale di quest'opera di cui egli appariva creatore. Egli non era altro che un nome: perchè ne avrei fatto un corpo, un pensiero, un essere? Ero stato costretto a spiegarmi coi fratelli di Giuda di Gamala, perocchè costoro erano i soli uomini in mezzo a tutti quei fanciulli che si credevano tali perchè avevano barba. [113] Ecco dunque il sagan imbarazzato e gli altri sviati. Menahem, che era il più giovine dei fratelli di Giuda di Gamala, e che sostenne poi una gran parte nel tentativo di liberazione del nostro paese, rispose:
— Abbiamo una cosa a dirti, sagan, e vogliamo saperne molte. Giuda è caduto nelle mani dei nostri nemici. Bisogna a qualunque prezzo impedire che lo uccidano. Se gli abitanti di Gerusalemme non sono abbastanza forti per opporsi a questo attentato, noi non partiremo, e resisteremo.
— Se Giuda non è già caduto vittima, se Pilato non lo soffoca nel fondo delle sue mude, Giuda sarà salvo, affermò il sagan.
— Lo promettete?
— Lo giuro, disse il sagan.
— Sì, replicò Bar Abbas, ma non ripetere, Hannah, codesto tuo giuramento al tuo Vicario Caifa. Questi te ne farebbe sciogliere da Pilato, effettuando tutto codesto trinceramento di se, di cui hai circondato la tua promessa. Quel gran sacerdote lì, non m'ispira nessuna confidenza. Quella figura appuntita, sopra un corpo frusto, quella faccia gialla come un limone, sopra un corpo festonato di azzurro, d'oro e di gioielli, m'ha l'aria d'essere un serpente rannicchiato nella pelle d'una volpe. Egli vende le pecore ebree ai beccai romani, i quali a loro volta gliene apparecchiano le costolette pel suo pranzo.
— È un'infamia codesta che tu dici, urlò il sagan. V'è nessun altro qui che osi ripeterla?
— Nessuno l'oserà, osservò Bar Abbas, perchè l'infamia ha un privilegio regale: poter dire tutto! Ma molti pensano come me.
— Basta così, sclamò il sagan. Sì, Giuda sarà salvo se Pilato ne ordina il supplizio pubblico. Ma [114] non siamo abbastanza forti per demolire le sue torri. E dopo?
— Ecco ora quello che vorremmo conoscere, sagan, riprese Menahem. Che dobbiamo noi dire ai nostri fratelli della provincia per giustificare Gerusalemme della strage dei giorni scorsi?
— Che non volendo impegnare una battaglia, ma soltanto scandagliare lo spirito pubblico, contarci, riconoscerci, non avevamo preparato nè distribuito armi; che Gerusalemme è stata sorpresa, assalita improvvisamente, e vinta prima che avesse neppur cognizione dell'attacco del nemico; che Gerusalemme ha dato una larga parte di vittime, e che voi l'avete veduta nel lutto, protestare, colla fuga e colla sua assenza dagli spettacoli, contro un padrone straniero.
— E che diremo loro per illuminarli sull'avvenire?
— Che l'avvenire è sovente nelle mani di Dio, ma che l'uomo audace glielo strappa sempre di mano; che bisogna volere, volere, e poi volere. Chi vuole può.
— Noi vogliamo tutti, disse Menahem; ma che bisogna egli fare per potere?
— Avere delle armi, saper servirsene; aver cuore, confidenza, disciplina; non stancarsi mai; non disperare nei rovesci; non inebbriarsi nei successi; credere alla propria forza, al proprio diritto; non indietreggiare davanti nessuna cosa quando si tratta di perdere l'inimico; restar uniti; guardarsi dalle carezze dello straniero, rifiutarne perfino i beneficii, perfino la giustizia, perfino l'amore; non dar mai quartiere; divenire un'idea modellata in un uomo, e fare di questa idea una ostinazione.
— Noi lo faremo, disse Menahem.
— Allora, la vittoria è certa.
[115] — Sono troppe cose che occorrono, brontolò Bar Abbas. Ho veduto gli Spagnuoli, i Brettoni, i Galli, i Germani voler tutto ciò, e malgrado tutto ciò soccombere. I Romani non conoscono che una cosa sola.
— Quale dunque?
— Il momento. Tutto è là. Quegli uomini lì passano la lor vita a osservare la meridiana dei popoli. Varo, che era guercio, fu tagliato a pezzi. Volete schiacciare i Romani? fatevi Romani. Dacchè sono Giudeo, io non ricevo che dei calci; quando ero nelle legioni menavo botte da orbo.
— Continuate, disse il sagan a Menahem.
— Cosa farà Gerusalemme?
— Darà il segnale.
— Hum! fece Bar Abbas. Non ho mai veduto i trombettieri battersi fuorchè nelle rotte, ove ognuno se la cava come può. Preferirei che Gerusalemme facesse qui la sua parte, mentre gli altri la fanno altrove, tutti nell'istesso tempo.
Il sagan si contorceva, perchè, alla fin fine, quel birbo non aveva tutti i torti.
— E poi? domandò Hannah.
— Quando suonerà l'ora dell'azione? In che luogo? A qual parola d'ordine bisognerà dar principio? domandò Menahem.
— Ogni ora è buona quando s'è pronti. Noi vegliamo. Nessun luogo disegnato prima dell'azione. Nessuna parola d'ordine, che può essere male intesa. Nondimeno, venite al prossimo peschah (pasqua) come verreste ad una battaglia: dite addio alle vostre donne, ai vostri figli, ai vostri vecchi, e.... mirate al Tempio. Dio è la forza e la verità.
— Bah! bah! bah! esclamò Bar Abbas. Tutto codesto [116] non è che un bisticcio di coloro che vedono sempre le cose da lontano. Questa Forza e questa Verità ci hanno fatto le più inette burle del mondo. Il popolo ebreo ha sempre mirato al Tempio, e ciò non ha impedito che gli Egiziani, che gli Assiri, che quelli, che questi, che tutti insomma che l'han voluto, l'abbiano condotto schiavo come delle bestie da lavoro. Il Tempio è stato preso, ripreso, bruciato, rifatto, profanato le tante volte; e la Forza e la Verità non si sono mai incomodate per scoccare la folgore la più piccola, la più ridicola, che qualunque Giove di villaggio avrebbe trovato nel suo focolaio. Udite me, cari fratelli, che ho vissuto vent'anni con quei bellimbusti. L'ora ed il luogo per estirpare i Romani dal vostro suolo è quando essi se lo aspettano meno, dove essi se lo aspettano meno, se tuttavia non potete attaccarli in ogni sito nell'istesso tempo. Quanto alla parola d'ordine, non ce n'è che una: Grazia a nessuno! distruzione, dispersione perfino delle ceneri di ciò che avete distrutto. I Romani sono come una cimice, che, risparmiata l'autunno, rinasce legione nella primavera.
Il sagan guardò Bar Abbas con un fulminante aggrottamento di ciglia, urtato, irritato di vedersi contradetto da un uomo simile, e in quella forma. Bar Abbas, fingendo di sbadigliare, gli fe' cenno schizzando l'occhio in modo significante. Menahem domandò:
— È necessario il silenzio?
— La nostra lotta è quella del diritto contro la forza: non abbiamo d'uopo dunque di parlare per giustificarci: abbiamo d'uopo d'agire per riuscire. Il silenzio è la metà del successo.
— Ah! ancora delle parole vuote di senso, saltò [117] su di nuovo Bar Abbas, alzando le spalle. Il silenzio mostra paura. Perchè cangiare in una cospirazione ciò che può, ciò che deve esser guerra? Per abbattere i Romani abbiamo bisogno del numero; tutta la nazione deve metter le mani alla scodella. Ora, se voi vi nascondete, se parlate basso, se non chiamate che gli iniziati e gli eletti, sarete in piccol numero, e schiacciati come lucertole. Se nessuno l'osa, m'incarico io di andare a presentare a Ponzio Pilato — l'uomo dalla faccia livida e dal cuore di sangue — il suo congedo pel 15 di nizam, giorno del peschah dei figli di Giacobbe. Birbo di Vecchio! Fu egli fortunato di avere una moglie che gli guarniva il letto di giovani ganze! Ah! no, non era lui, era suo padre.... ma non fa niente.
— Allora che attitudine dobbiamo prendere di fronte ai due tetrarchi, principalmente di Antipas?
— Il riserbo, disse Hannah. Osservarli, perchè essi non sono più gli amici del popolo ebreo, ma i carcerieri di Roma.
— Questa poi l'è bella! sclamò Bar Abbas. Come! voi volete dunque aumentare il numero dei vostri nemici? Non vi bastano dunque i Romani? Bisogna comprometterli, al contrario, codesti tetrarchi; bisogna sedurli coll'esca della ricostruzione del regno di Erode, ch'essi già ambiscono. Più cacciatori avrete in questa maledetta caccia, e più sarete sicuri d'ammazzare la belva. Vedremo poi chi s'avrà la pelle. Certo, non mi sarò io quegli. Mi contenterò di averne gli avanzi come i cani.
— Ma allora chi sarà il capo che condurrà tutta questa grand'opera? domandò Menahem. I tetrarchi, il sagan, il gran sacerdote, la sinagoga, il sanhedrin, il gran collegio, i figli di Giuda di Gamala, i sadducei, [118] tutti si credono avere il diritto di comandare e di dirigere. A chi dobbiamo noi obbedire?
— La direzione, rispose Hannah visibilmente imbarazzato da quella domanda, spetta al consiglio dei delegati dei partiti. Durante il combattimento, quando l'ora della battaglia sarà suonata, ogni partito sceglierà il suo capo. Dopo il trionfo, tutti concorreranno alla nomina del capo, se tuttavia capi e semplici gregarii non saremo tutti uniti nell'istesso supplizio.
— Ecco un bel caos! obbiettò Bar Abbas. Capisco per altro che non è cosa da potersi decidere prima. Il più ardito, il più fortunato, forse il più ricco, il più astuto o il più intrigante, sarà il capo. Ma egli sorgerà sicuro dagli avvenimenti, non egli s'imporrà ad essi. Supponete che sia io che abbia la fortuna di cacciar via Pilato da Gerusalemme; credete forse, potente sagan, che vi lascerei fare la pioggia ed il bel tempo nella città, come fate ora? Ricordatevi Erode. Ma non tocchiamo questa questione per ora. Si tratta di cacciare i Romani; ci scanneremo dopo fra noi per darci un padrone che scannerà quelli che resteranno. Che volete che faccia un padrone arrivato in questa guisa, se non si mette anche lui a scannare un po'? Non vorrete certo che il vostro nuovo signore muoia di noia. È così dolce il trucidare gli amici della vigilia che diverrebbero sì esigenti all'indomani! Val meglio liberarsene e restar franco.
Un vecchio, tutto vestito di bianco, abbronzato come un camellaio del deserto, che era restato fino a quel momento silenzioso e ritirato, si avanzò allora nel mezzo della sala, e interrompendo e scostando colle mani Bar Abbas, gridò:
[119] — Io ve lo dico: tutto codesto, non è che fanciullaggine. Ci vuole un profeta od un messia[12].
Questo esseniano aveva posto il dito sul cuore della situazione. La sua proposizione riassumeva tutto, risolveva tutte le difficoltà, rispondeva alle circostanze ed alle tradizioni del popolo ebreo. Un profeta è Dio. Dio primeggiava su tutti, aveva diritto di pretendere a tutto, all'umano ed al sovrumano. Un capo poteva imporre ai suoi subordinati dell'eroismo; un profeta esigeva da loro dei miracoli.
Il lungo silenzio che accolse questa proposizione provava che l'esseniano aveva colpito giusto. Tutte le coscienze gli rispondevano: «Sì, è duopo d'un profeta.»
Hannah finalmente disse:
— Ebbene, sia: avrete un profeta.
— Quando? quando? domandarono tutti unanimi.
— Nol so, rispose Hannah. Abbiamo bene nel Tempio ciò che occorre per produrre un messia: ma non possiamo abolire nè il tempo nè lo spazio. Ora la Grecia, l'Egitto, l'India, la Persia, sono lontane: Apollonio di Tiane, Jarchas, i Mitra, gli Orfei, gli Hermes, non si trovano a Gerico. Poi, bisogna apparecchiargli un teatro e degli spettatori, a codesto messia: delle donne ossesse che sputino fuori il diavolo e a tempo; dei catalettici che si risveglino a ora fissa, degli epilettici disciplinati... che so io? La scienza si compera, la fede si costruisce; ma bisogna del tempo. [120] Nondimeno io penso che quando ritornerete pel peschah io vi presenterò un profeta bene ammannito, ben tarchiato, il quale colla sua parola solleverà il popolo, come il vento alza la polve.
— Accettato, replicarono tutti i cospiratori; a rivederci a peschah.
— Infrattanto, aggiunse il sagan, preparate il popolo, e quando verrete, dite addio alle vostre donne, ai vostri figli, ai vostri vecchi, e siate armati. Si verrà qui per morire, forse.
— Avremo delle armi, risposero tutti ad una voce, e verremo per vincere.
— Allora che Dio sia col suo popolo, sclamò Hannah, con un tuono che significava che tutto era stato detto e che l'assemblea era ormai sciolta.
I delegati uscirono poco a poco, alcuni silenziosamente, altri dicendo qualche parola al sagan. Bar Abbas restò per ultimo.
— Ora, miserabile, gridò il sagan furibondo, mi spiegherai alla fine ciò che vuol dire l'attitudine impudente che hai presa stasera.
— Non l'hai indovinato?
— Io non indovino, rispose il sagan con tuono severo, io interrogo.
— Ebbene, ho voluto gettare la confusione in mezzo a degli spiriti che avrebbero potuto principiare a vederci chiaro. Non ci andavi di mano morta, tu, o sagan, a precisare, a scender nei particolari, e spiegare filo per filo tutti i segreti delle nostre operazioni, a svolgere l'andamento della nostra impresa! Diavolo! e non dubitavi tu che lo stesso onest'uomo che ha tradito i nostri fratelli della casa disabitata di Josafath, poteva forse trovarsi anche questa sera in mezzo a noi?
— Hai ragione, disse Hannah riflettendo.
[121] — Ti ho parlato di Caifas: te lo denunzio nuovamente. Bisogna strisciare per vedere nei fondi tenebrosi. Io credo di averlo indovinato. Guárdatene bene. Tu sei minacciato pel primo da quella ambizione infatica, ma persistente ed astuta.
Hannah sorrise e non rispose. Bar Abbas continuò:
— Dopo tutto ciò che ho detto io, quella gente non sa più dove dare del capo, nè ciò che facciamo, nè ciò che faremo, nè ciò che dovrebbero far essi. L'amico di Pilato, anche se vuole denunziarci, ha perduto la pesta. Ti par dunque che quella gente lì debba pensare e sapere? Devon essi forse conoscere per quale strada li conduciamo al macello? Insomma: in tutto ciò che s'è detto questa sera, non c'è stata che una parola di sodo.
— Il profeta?
— Il profeta. Sì, dobbiamo fabbricarne uno. Egli sarà il tuo scudo, o sagan. E' ti covrirà nella lotta e tu t'innalzerai sopra di lui dopo il combattimento. Soccomberemo? Pilato lo sacrifica. Trionferemo? l'avveleni e prendi il suo posto. Tu non hai d'uopo certo che io t'insegni come si fanno queste cose. Un messia! se ne trova a tutti gli angoli delle vie, e sono cose molto utili. Le nostre provincie ne producono a ufo, e la canaglia non crede che in essi perchè parlano in nome di Dio. La canaglia non ha un orizzonte medio. Nel basso ove sta, la non scorge che fango, o, levando gli occhi, che Dio nel cielo. Tu non significhi nulla per essi, e quindi non hai presa su di loro, non hai alcun potere.
— È vero, disse il sagan.
— Allora, facciamo presto, improvvisiamo questo profeta. Ah! che peccato che non siamo nelle Gallie! ne ho vedute tante di drude o druide che non so come le chiamino.
[122] — Ci penserò, disse il sagan riflettendo.
— In questo caso non ho più nulla a dirti. Dammi un mantello, e puoi, senza offendermi, offrirmi anche una tunica. Tuo figlio è della mia statura.
— Sì, fece Hannah. L'hai ben meritato; e questo in più.
E così dicendo il sagan diede a Bar Abbas un pugno di monete d'argento.
— Diavolo, diavolo, urlò Bar Abbas, intascando il denaro. Spero che troverò ancora all'angolo della via quella cialtrona che mi ha rubato la metà del mio mantello.
— Non dimenticar Giuda, disse Hannah.
Bar Abbas assentì col capo.
Justus non aveva assistito a quella riunione.
[123]
Essi mi compiangevano e mi credevano perduto. Ah! se avessero saputo!
Caduta la benda dai miei occhi, mi trovai in un gabinetto ovale, col suolo a mosaico, le mura incrostate di marmo giallo d'Egitto, ed il soffitto di legno di cedro a rosaccie. Delle sedie d'avorio ornate di bronzo di Corinto, s'allineavano intorno al gabinetto, rischiarato vivamente da una lampada d'oro. Quello era l'apodyterium, — sala del palazzo d'Erode, per ispogliarsi prima d'entrare nel bagno — che io conosceva. Al di là, una porta mezzo nascosta da una tappezzeria di Mesopotamia. Scorgevo a me dinanzi il tepidarium, grande stanza quadrata, in mezzo alla quale si apriva un bacino d'acqua tepida, pari ad un piccolo lago, che ripeteva la fiamma dei numerosi candelabri d'argento che lo circondavano come una fila di colonne.
Due giovani schiave galle, addette al mio servizio, s'impadronivano dei miei vestiti, che caddero in un istante ai miei piedi. La vista dell'acqua aveva svegliata la mia sete. Domandai da bere. Mi fu presentata subito una coppa d'oro con due vasi di vino color ambra, ed un'anfora piena d'acqua. Io bevetti dell'acqua appena ingiallita da alcune goccie di quel vino, e sentii ritornar le mie forze. Vedendomi affatto [124] ignudo in mezzo a quelle due belle schiave, arrossii. Una d'esse mi prese per mano e mi condusse nel tepidarium. In quell'istante una dolce musica si fece udire, ed uno sciame di giovani ragazze, tutte nude, incoronate di narcisi e di ninfee, irruppero da una sala laterale, si precipitarono nella vasca, e principiarono a nuotare verso di me, invitandomi in mezzo a loro.
Avevo ventitrè anni. La vista di tutte quelle beltà, tanto più pericolose in quanto il cristallo dell'acqua e il riflesso della luce ne aumentavano lo splendore, mi fece fremere dal piacere. — I colori si alternavano sulla mia faccia. D'un tratto, scorsi in un angolo di quella stanza, quasi nascosta sotto la tappezzeria di una porta, una figura di donna mascherata della sua ricca, e avviluppata in una stola che le scendeva dal collo ai piedi. Un lampo traversò il mio spirito. Mi dissi: Cosa vuole quella donna che si nasconde e che mi getta in mezzo a tentazioni così seducenti? Il cangiamento che s'era operato nella mia posizione mi dava a riflettere. Per uno sforzo di volontà, finsi l'indifferenza, e scendendo nella vasca d'acqua profumata, mi misi a nuotare ed a giocare colle ragazze, assolutamente come se fossi stato coi miei giovani amici nel Giordano, o nelle acque azzurre di Genezareth. Non poterono strapparmi neppure un bacio; e Dio sa che scrigno di bellezza e di gioventù era aperto dinanzi ai miei occhi! Giuseppe ne sarebbe stato vinto. Durante tutto il tempo che io restai a saltellare, a ridere, a cantare perfino, a giuocare con quelle naiadi rapite al Caucaso, alla Gallia, alla Spagna, alla Siria, quella donna non si mosse dal suo posto d'osservazione. Quando uscii dall'acqua, due schiave egiziane s'impadronirono di me e mi condussero al calidarium.
[125] Se io non fossi già stato a Roma, avrei creduto che mi si conducesse in una sala di tortura. I muri erano coperti di una rete di tubi riscaldati a rosso da una fornace esterna, e che erano maggiormente riscaldati dal vapore che si sprigionava dal serbatoio d'acqua bollente che stava nel mezzo di quella stanza circolare. Mi sentii venir meno e mi lasciai cadere sopra uno dei seggi che occupavano le nicchie praticate tutt'intorno.
Immediatamente uno degli schiavi tirò una catena, ed uno scudo d'oro, che coronava il soffitto, s'aprì e mi inondò d'un soffio d'aria fresca e di una sensazione deliziosa. Ogni qualvolta la temperatura diveniva incandescente l'operazione dell'apertura della valvola si rinnovava, ed un soave languore s'impadroniva di me. In quello stato mi avvolsero in un mantello di lana scarlatto, e mi trasportarono in un'altra camera riscaldata in grado minore, ove gli schiavi principiarono l'operazione della frizione. Quando le mie membra furon rimescolate e le mie giunture disarticolate, gli schiavi mi fregarono con olio profumato. Mi sentii rinascere. Mi asciugarono infine con una dolce mussolina d'Egitto, e mi lasciarono godere di alcuni minuti di riposo.
Due schiave italiane mi risvegliarono quasi, presentandomi una bianca tunica ornata di frangie azzurre. Dopo avere pettinato e profumato i miei bei capelli biondi, li cinsero di una corona di rose, come per le vittime destinate al supplizio.
Durante tutto il tempo dell'abluzione e dell'abbigliamento, non rivolsi una sola parola ad alcuno; lasciai fare, come un testimonio o come un padrone.
Quando tutto fu in ordine, le mie unghie tagliate, i miei piedi profumati, un'altra schiava vestita tutta [126] di bianco e celeste con una cintura di porpora, venne a prendermi. Quattro suonatori d'arpa la precedevano. Io conosceva il sito. Traversammo due o tre sale imbalsamate dalle esalazioni degli alberi e dai fiori del giardino, ed arrivammo infine nel triclinium riservato, che il re Erode aveva fatto costruire per le sue cene voluttuose colla bella Mariamne, la più bella e la più amata delle sue nove mogli e delle sue numerose favorite.
Quella sala, di forma ovale, non era molto vasta. Il soffitto era mobile ed alternava secondo le ore e le fasi del pranzo, mostrando ora l'empireo gemmato di stelle, ora dei quadri di dii e di dee ignude, le cui voluttà esaltavano il cervello degli spettatori; altre volte cangiavasi in un nuvoleto bianco e rosato che aspergeva i convitati di una rugiada d'essenze odorose. Questa volta il soppalco rappresentava il firmamento: e' si avrebbe creduto di cenare sotto i raggi delle stelle. Delle colonne slanciate di malachite dai capitelli scolpiti e cesellati come un gioiello della regina Cleopatra, sostenevano la vôlta. Queste colonne facevano spiccare lo splendore delle pareti ricoperte di stoffe bianche di seta della Persia, ricamate a fiori e in oro, inquadrate in cornici pure di oro ornate di pietre preziose. Dieci piccoli quadri, squisitamente voluttuosi, pendevano dall'alto dei muri a cordoni di porpora e di oro. Il mosaico del suolo rappresentava la tavola di Giove in mezzo agli Dei. Le due finestre laterali, aperte sopra i giardini, erano mezzo nascoste da platani vigorosi innaffiati con vino. Tra i frammezzi, nel basso, si trovavano delle tavole di legni differenti incrostate d'argento, di bronzo, d'oro, di pietre preziose, qui rubini, là smeraldi, altrove amatiste o agate, e arricchite da medaglioni maravigliosamente [127] dipinti. Su quelle tavole le schiave posavano i vasi, le ricche dapi — lancula — le vivande.
Non c'era che un sol letto per due persone. Questo letto era di scaglia indiana, che pareva dell'ambra liquida, trasparente come il vetro e tutta venata d'azzurro. Era incrostata di fileti d'oro e di piastre di smeraldi e zaffiri. Questo letto era rimpinzato di piumini di cigno, e coperto d'una stoffa di seta ed oro color porpora. Un monopodium ovale di madreperla, circondato da un cerchio d'oro scolpito ed ingemmato, si stendeva dinanzi al letto, la cui spalliera era leggermente curvata, e le cui braccia erano imbottite sofficemente dai cuscini di stoffa bianco-dorata. Del resto per farsi un'idea della ricchezza di quella tavola d'un re asiatico, si consideri che un semplice avvocato di Roma, Cicerone, aveva pagato la sua, così mi dissero a Roma, un milione di sesterzii (204,500 lire), ed un altro cittadino, Cæthegus, un milione e mezzo. Tutt'intorno a quella magica sala, delle statue d'alabastro, ignude, sostenevano dei candelabri che la rischiaravano come se il sole del mezzogiorno l'avesse inondata della sua luce. Dei vasi di fiori profumavano l'aere e accarezzavano lo sguardo.
Avanti di varcare la soglia, due schiave nubiane, una con un bacino d'oro, e l'altra con una stoffa di porpora, m'offersero a lavare le mani. Alla porta il maestro del banchetto mi ricevette e m'introdusse presso il mio ospite.
Le mie previsioni non m'avevano ingannato. Era Claudia, e Claudia sola, che m'invitava alla sua cena.
La sera dell'avventura della pantera, Claudia, distratta dalla festa che Pilato dava a Pomponius Flaccus, ai capi delle legioni e a diversi personaggi di [128] Gerusalemme, non s'era ricordata di me. All'indomani, avanti di recarsi all'anfiteatro, fece chiamare Cneus Priscus e gli domandò conto della mia persona. Priscus le apprese che, dietro ordine di Pilato, egli mi aveva arrestato il giorno stesso, e m'aveva gettato nei sotterranei della torre Phasaelus.
Pilato nell'interrogatorio dei prigionieri non aveva raccolto elementi sufficienti per condannarmi alla croce od al circo, ma ne aveva saputo abbastanza sopra la mia condotta ed i miei sentimenti per diffidare di me. Egli aveva inviato Priscus da Caifa onde averne delle informazioni, e questi gli aveva risposto:
— Non ne conosco nessuno di più pericoloso a Gerusalemme. Si direbbe una femmina al viso, all'eleganza, alla mollezza, alla frivolità, alla noncuranza, ai gusti: guai a chi vi si lascia ingannare. La sua avvenenza è come le foglie che nascondono l'abisso; la sua eleganza è un'esca; la sua mollezza è l'elasticità dell'acciaio: la sua frivolità maschera l'opera di un Catilina: la sua noncuranza è il riposo d'una attività febbrile: i suoi gusti sono espedienti per riescire. Non principii, non fede, non cuore; dei sensi a suo talento, la parola che perde, il sorriso che uccide; il sangue, le lagrime e le carezze sono per lui semplici mezzi. Se si annoia strazia il cuore d'una donna, o mette a fuoco una provincia.
Questo ritratto astioso, in parte esagerato, in parte ridicolo, colpì Pilato, che diede ordine di sorvegliarmi. Priscus, per sorvegliarmi meglio, mi arrestò. Lo stesso ritratto, ripetuto a Claudia, affrettò la sua curiosità di vedermi. Per suo ordine Priscus mi condusse a lei, che assumeva di dare a Pilato delle convenienti spiegazioni.
[129] Claudia volle mettermi subito alla prova. Assistè mascherata al mio bagno singolare, e ritirandosi mutò le disposizioni della cena, che doveva essere intima e semplice.
La ritrovai già distesa sul letto, bella come l'Ebe greca. I suoi capelli neri come la notte s'intrecciavano in una corona di rose non ancora sbocciate e scendevano in ricci sopra delle spalle ed un seno che si sarebbero detti l'Eden della voluttà. Era vestita di un velo rosa, quel tanto che bastava a rendere appetitosa l'immodestia. La si sarebbe presa per una statua greca che un Dio animava per le sue ore di frenetica ebbrezza. Si vedeva la sua carne palpitare sotto tutte le emozioni. Il suo seno dava la vertigine, meglio ancora dei suoi occhi se fosse stato possibile. Quegli occhi neri, profondi, grandi, vellutati, avevano uno splendore che ammortiva la luce ripercossa da tutto quell'oro e quelle pietre preziose. Le donne non si levavano i sandali per cenare; ma ella s'era lasciata togliere i suoi per mostrare un piede piccolo, bianco, elastico, arcano, delle gambe fine, ed il resto, sotto onde di velo, da dare i brividi a tutti i sensi. Aveva la bocca un po' grande: ma i denti scintillavano fra le sue labbra rosee e carnose, che invocavano i baci. Claudia era una di quelle donne che uccidono e che i morenti salutano con estasi: Cæsar, morituri te salutant.
Vedendola n'ebbi come un abbarbagliamento, e per un momento mi credetti perduto; poichè bisognava esser Tiberio per domare, per rattenere, per fissare quelle belve dell'amore. Un lampo traversò il mio spirito. «Chi sono io per provocare tanto fasto? dissi a me stesso. Cosa vuole ella da me?»
Sì, io mi rivestiva di fatuità, quando ciò stava nei [130] miei interessi; ma non ne avevo poi tanta per credere di avere addomesticato con un solo sguardo quella leonessa, che essa sola avrebbe incendiato un'orgia. Quella donna aveva dunque uno scopo. La sua condotta la denunziava. Avessi io fatto mille volte più che fatto non aveva per lei, fossi io stato mille volte più venusto che non mi era, ella avrebbe potuto ricompensarmi con un sorriso. Perchè dunque questi apparecchi d'una festa frenetica?
Non comprendendola, mi trincerai nella mia finta fatuità, ed attesi.
Vedendomi entrare, Claudia mi fece segno di andare a prender posto presso di lei, e col più grazioso sorriso mi disse:
— Siate il benvenuto, ospite mio, benchè sia la guardia del pretorio che ti ha qui condotto.
— Se mi fosse dato averla fossile, quella guardia del pretorio, le alzerei un cellario e l'adorerei, risposi. Orfeo traversò l'inferno, e al postutto non ritrovò che sua moglie.
Claudia sorrise. Sedetti a lei vicino. La sua testa sfiorava il mio petto.
— Ho un gramo cuoco, disse Claudia. Il mio Labdacus, nondimeno, è scolaro del famoso Mosquion, detto il Fidia dei cuochi, quegli che con i resti dei pranzi d'Atticus comperò due villaggi in due anni.
— Ho inteso parlare di quel povero diavolo a cui occorsero due anni per raggranellare la miseria di tre milioni. Un uomo come lui che dava al maiale il gusto dello storione, alle murene il gusto del cinghiale, che serviva dei ravani per acciughe, che conosceva la geometria, l'astronomia, la medicina, la pittura e la scoltura, mettere due anni per comperare alcune centinaia d'uomini e poche leghe di terra? Era un povero taccagno quell'Attico!
[131] Le schiave che dovevano versarci il vino, presentarci le coppe, aspergerci di foglie di rose e rinfrescarci con le penne di struzzo, erano già al loro posto. Ad un segno dell'eunuco soprintendente al banchetto uno sciame di schiave di tutti i colori, mezzo ignude, come la loro padrona, irruppero nella sala, le une portando dei vasi o dei bacini, le altre sostenendo un immenso vassoio contenente il primo servizio.
— Ho ommesso, disse Claudia, tutte le ostentazioni, i giuochi, le facezie; ho ommesso perfino i due nani che Tiberio ha fatto allevare per me entro dei tubi, e che sono ancora più piccoli di Conopa, il nano d'Augusto, che pure non era alto che due piedi e mezzo. Ti do da mangiare soltanto, non t'invito ad una festa romana. Devi aver fame, a quello che mi fu raccontato.
— Fame! Ahimè! la fame è una voluttà che Dio ha serbata alla plebe, che neppur ne lo ringrazia. Io non principio ad aver fame che al sesto giorno dopo l'ultimo mio pasto.
— È peccato che non l'abbia saputo prima, mormorò Claudia; ti avrei procurato questo piacere, facendoti godere per qualche giorno di più dell'ospitalità della torre Phasaelus.
Il primo servizio era composto d'ova, olive bianche e nere d'Atene, cotogni del Libano conditi con miele e papavero, dei sanguinacci arrosti serviti sopra un letto di prune della Siria, e pasticceti di melogranate, di lattughe, e di garum (il caviale dei nostri giorni) che si paga alla libbra quel tanto che basterebbe a mantenere una legione.
— Ti piacciono le ova? mi domandò Claudia, mentre una schiava egiziana ci presentava un paniere [132] d'argento e ce ne offriva sopra un tondo dell'istesso metallo.
— Sì, risposi io, ma ite in pulcini.
— Peccato, replicò Claudia, perchè eccole lì che se ne vanno in canari.
Infatti, rompendo le nostre ova di pavone, ne volò fuori un piccolo uccellino giallo, nel tempo stesso che una uccelliera s'apriva all'altra parte della sala e la riempiva d'un nuvolo d'uccelli di tutti i colori. Si sarebbe detta una pioggia di pietre preziose. Svolazzarono per un momento e poi fuggirono dalle finestre che davano sul giardino.
Da due giorni, io non aveva nel mio stomaco che due ova; Claudia lo sapeva. Nondimeno mi limitai a sfiorare quelle vivande che avrei voluto divorare.
— Pare che ier sera Cneus Priscus abbia avuto la inaccortezza di arrivare nella tua casa all'ora della cena, e che abbia attristato un bel visino.
— Sì, quel povero Bar Abbas, la cui parte dritta della faccia scappa a furia per non veder la sinistra.
— E nessun altro?
— Ah! quell'ipocrita di Justus, forse, che mi sta sempre alla cintola, striscia sempre a me vicino, arriva sempre avanti di me, e gode le delizie che io mi sono preparate.
— Anche del bel musino color d'ottone.
— D'ottone! Dell'oro purificato e bronzato ai raggi del sole, vuoi dire. Una donna bianca? Andiamo, via! La nera è la schiuma della grande caldaia della creazione; la bianca è la diluzione finale, esausta; la donna dalla tinta del bronzo levigato, l'è il metallo in ebullizione, purificato, vigoroso, ricco di tutta la sua forza, di tutto il suo valore. La donna bianca è la convalescente della specie.
[133] — To', rispose Claudia ridendo, non mi credevo poi tanto ammalata. Una donna color di casseruola deve piacere ai guatteri.
Ci versarono del vino speziato di miele e cinnamomo. Poi, ad un segno dell'eunuco, le schiave si gettarono sulle vivande del primo servizio e tutto sparì in un batter di palpebra. Una schiava gaditana ci presentò del pane sopra un timballo d'argento. Un'altra mano di schiave, ancora meno vestite delle precedenti, entrarono allora nella sala, avendo alla lor testa un uomo con una lunga barba nera, vestito da mago, con una bacchetta d'ebano alla mano. Esse portavano sulle spalle un altro immenso vassoio coperto di una campana d'argento. Seguivale il cuoco Labdacus in persona, tutto vestito di bianco, preceduto da due maghi e seguito alla sua volta da una schiava nubiana che teneva nelle braccia un piccolo burchiello d'oro. Quando le nuove masserizie furono posate sopra le tavole, e che i vassoi furono scoperti, vedemmo servire sul nostro desco dei fagiani, del selvaggiume, una testa di cinghiale contornata da tordi, dei pasticci, dei crostacei; una lepre alata come il cavallo di Pegaso. Nella piccola barca nuotava uno storione in un mare di salse, in mezzo a triglie ed a piccole orate; e sopra una piccola conca a quattro bacini d'oro, quattro satiri accoccolati, che versavano dal ventre, quando era compresso, un liquore piccante ed aromatico, a differenti sapori, onde servir di condimento allo storione. Poi delle ostriche di Bretagna ingrassate nel lago Lucrino, un'anitra a datteri della Tebaide, una lacca di orsacchiotto, dei fegati di beccaccia al tamarindo, delle lingue di capriuolo al comino, una murena alla senape, delle lumache sopra una graticola d'argento, [134] e dei legumi d'ogni sorta. Claudia bevette soltanto qualche goccia di vecchio Cipro, rassomigliante all'oro in fusione, e del secas, ossia succo di palma. Io gustai appena quei vini capitosi, vecchi d'un secolo, di cui i Romani erano altrettanto ghiotti quanto vani.
— Se la danza o la musica possono rallegrare questa cena, ho delle schiave che cantano e suonano così bene, che Tiberio le pagherebbe una provincia ognuna.
— Non conosco nulla di più volgare che il diletto della musica, risposi io, alzando le spalle. La musica è come il pane: tutti ne mangiano. Cosa è al postutto il canto?
— Diamine! il canto...
— Perdio! è l'epilessia del sospiro, il sussulto del grido; mentre che il suono è la contorsione d'una budella di cui si è fatto un Prometeo attaccato ad un pezzo di legno.
— Per altro, credo che la Giudea ebbe un re che suonava l'arpa.
— Per lo appunto. Ma perchè prima d'esser re era stato capraio. Quanto a me, io non conosco che una sola musica: il bacio; e mi vi tengo, fino a quando non potrò regalarmi di quelle canzoni che un re di Siracusa si faceva cantare da dei virtuosi chiusi nel ventre d'un toro di rame arroventato.
— Non contesto punto il gusto del tiranno di Siracusa, replicò Claudia ridendo: aveva del buono sicuramente. Ma non ammetto la musica del bacio. Un bacio l'è un cuac!
— Sarei tentato di provarti il contrario, mi sclamai io.
— Come! e la donna dalla faccia di pentola?
[135] — Non è là che sta il pericolo, dissi sospirando.
— Ci sarebbe dunque una retroguardia? interrogò Claudia.
— Credo che ben presto la formerà tutto l'esercito.
— Davvero! Raccontami come sta questa faccenda.
— Non si raccontano i sogni. Raccontandoli perdono la doratura e non resta che il rame.
— Di' pur su; ti prometto di cambiarti codeste rame in oro.
— Ah! se ti prendessi in parola! risposi appoggiando le mie labbra sopra un riccio dei suoi capelli, che un suo movimento aveva avvicinato al mio viso.
La sentii fremere: impallidì, ma ebbe l'aria di non accorgersene.
Io non aveva commesso che un'imprudenza; avevo gettato uno scandaglio. Ahimè! doveva uscirne una catastrofe.
Ad un segno dell'eunuco che dirigeva la cena, il secondo servizio fu fatto sparire come il primo. Poi s'udì una musica rumorosa di flauti, crotali, castagnette, timballi, tamburini, citare, eseguita da piccoli mori, che precedevano una terza legione di schiave itale e greche quasi nude, o meglio velate da una nube di azzurro e d'argento. Queste schiave portavano il terzo servizio e le bellaria, ossia le ciambelle, le composte, ed i camangiari zuccherati. Sopra dei vassoi d'argento dorato e di porcellana delle Indie, trasparente come il cristallo, e dipinta di fiori ed animali, s'ammonticchiavano i pasticci d'uccelletti, beccafichi, tordi, ortolani, dell'uva di Corinto e di Sicilia, delle noci inzuccherate, dei cotogni [136] irti di chiodi di garofani che parevano tanti porcospini, delle tarte al mele dell'Imetto, dei fichi, delle pesche, delle fragole, mille frutti infine, ed un Priapo in pasta di mandorle, il seno adorno di piccoli fiori e gioielli simulati in zucchero, profumati come una cortigiana ed imitati alla perfezione. Le schiave ci versarono nell'istesso tempo dei vini di Cadice e di Sicilia, fluidi come l'olio, dolci come il mele, e che insinuavano la febbre e la vertigine nelle vene. Quelle bellezze così perfette che mi passavano dinanzi agli occhi, quei tesori di voluttà divine che sfioravano le mie labbra, abbagliavano il mio sguardo, che io sentiva fremere; quella Claudia di cui l'alito mi bruciava quando si voltava verso di me; tutto ciò m'immergeva in una tale ebbrezza, mi ravvolgeva in un tal turbine di passioni, mi dava tali stordimenti, tali spasimi, che io mi sentiva svenire. Le tinte si succedevano sul mio viso come i lampi in una notte di tempesta.
Un momento mi tenni per perduto. Avevo già commesso il fallo mortale di accarezzare colle mie labbra un riccio dei capelli di Claudia.
Servirono tutte quelle leccornie sul nostro tavolo, mentre le schiave si abbandonavano ad una danza sfrenata. Poi ci aspersero di profumi e di foglie di rose, la cui freschezza mi temperò. Di poi, probabilmente dietro un segno di Claudia, tutte sparirono, eccettuata una schiava nera, che si sarebbe detta di marmo egiziano, tanto era bella, e che restò ritta, immobile ai piedi della sua padrona.
Claudia, dopo ch'io le ebbi toccato i capelli colle mie labbra, non mi aveva più indirizzato la parola, non si era neppur volta dalla mia parte. Vedevo che io l'avevo offesa. Ma la confusione delle mie induzioni [137] s'imbrogliava sempre più nel mio spirito. «Perchè quest'orgia e tanto ritegno?» mi chiedeva io. «Cosa mai vuol ella da me?»
Cangiai tuono.
— Questa schiava comprende ella il greco, Claudia?
— No.
— Siamo soli, dunque.
— Sì.
— Allora mi permetti di farti una domanda?
— Secondo. Ma non fa nulla, parla.
— Che cosa sono io qui?
— Ma, il mio ospite, credo, rispose superbamente Claudia.
— E dopo la cena?
— Un uomo che mi ha reso un servigio, ed a cui io lo pago.
— Grazie tante, feci io; io impresto sempre a fondo perduto. Lascierei i tesori stessi della tua bellezza ai miei schiavi, o Claudia, se mi pensassi ch'e' potessero essere un prezzo.
Claudia mi fulminò d'uno sguardo, che credetti mi profondasse nelle viscere della terra. Tacque un momento, poi mi disse:
— Ti dipingono come un uomo pericoloso, ti accusano di cospirare contro Tiberio ed il popolo romano.
— E non s'ingannano. Sì, io cospiro. Sì, io sono il più mortale nemico del tuo popolo, o Claudia, e di tuo marito; e ne ho giurato la perdita.
Claudia sorrise, e soggiunse:
— Ti ho tolto via dalla prigione della torre Phasaelus; devo allora tenerti prigione qui.
— Preferisco la torre Phasaelus.
— Ed io, questa.
[138] — Questa mi disonora come un vile, mi fa forse sospettare come un traditore; quella m'innalza alla grandezza del Bruto del mio paese.
— Hai ragione. Non ci avevo punto riflettuto, disse Claudia con voce commossa. Noi altre donne siamo frivole. Va dunque, sei libero. Però, credimi, lascia Gerusalemme questa notte stessa. Forse non potrei salvarti una seconda volta.
— Io non lascierò punto Gerusalemme, dissi io, tocco dal cangiamento che mi rivelava un altro aspetto del carattere di quella donna.
Ella aveva un cuore. Ma io non lo comprendevo bene ancora.
— Allora resterai qui, replicò con fermezza Claudia. Se gli è per sfidare dei pericoli che tu vuoi partire, sta tranquillo, ne troverai qui, e dei più mortali. Se gli è per vedere i tuoi amici, la tua amante....
— Che m'importa tutto ciò! risposi io allora con un sentimento del più alto disprezzo. Tutto ciò l'è roba che si compra, si paga, s'adopera, e non se ne tien conto.
— Sarebbe forse per quell'essere misterioso?
Tacqui. Le imagini di quelle due donne s'urtarono nel mio spirito come la folgore. Claudia anche ella aveva osservato, ed era stata abbagliata dalla bellezza della donna misteriosa di Moab. Ella corrugò le ciglia cariche di scintille.
— Io resto, dissi alla fine; ma potrò un giorno sperare?...
— Nulla, mai, sclamò Claudia, balzando sul suo letto. Tu cospiri contro Tiberio, dici tu, Giuda, sei implacabile, tu dici.... ebbene le passioni vere sono tiranne. Regnano sole. Resta. Resta.
[139] — Sarebbe possibile? mormorai fra me stesso colpito da un lampo.
— Resta, resta, gridò Claudia. In questo mondo non c'è d'impossibile che ciò che non si vuole, ed il.... bene.
Fece un segno. La negra uscì e ritornò subito con un'altra schiava.
— Cypros, disse Claudia, questo giovane è tuo prigioniero.
[140]
Justus non aveva assistito alla riunione in casa del sagan, perchè era andato da Maria.
Le portava la notizia della mia prigionia nella torre Phasaelus.
Questo colpo, che aveva rallegrato Justus, non abbatteva Maria. Ella non era donna da lagnarsi come una donna, da desolarsi, domandando aiuto al cielo.
Justus non era tale un amico, da non trar partito della disgrazia d'un amico.
Ritornando da Roma, io aveva incontrata quella ragazza sulle rive del lago di Genesareth, al momento in cui aveva perduto il suo ultimo parente, e restava sola nel mondo. Non mi occorse un lusso di seduzioni, per persuaderla a seguirmi a Gerusalemme. Sapendosi bella, la non disperava che un giorno o l'altro io mi sarei deciso a sposarla. Conoscendo il proprio carattere determinato, pronto alle risoluzioni, ricco di espedienti, ella contava far arrivare il più tosto possibile quel giorno. Una settimana dopo che ella aveva preso dimora nella mia casa, Maria aveva già compreso che i suoi progetti di Magdala non si sarebbero mai effettuati. Non esitò molto a decidersi di trarre dalla sua situazione il miglior partito possibile. Mi congedò, tra due dei più ardenti baci della luna di miele dell'amore.
[141] Era troppo tardi, e troppo presto. Troppo tardi, perchè io principiava a sentire per lei dei violenti desiderii; troppo presto, perchè non n'ero ancor sazio. In breve dopo una querela che durò tutta una notte ed una parte del mattino, andammo d'accordo: Maria consentiva a continuare ad amarmi, ma nella sua casa, padrona del suo domicilio, del suo cuore e delle sue azioni, rinunciando a tutti i vantaggi che la legge giudaica le poteva accordare su me. Per contro, io le diedi per abitazione una bella casetta fra due giardini, alle porte della città, nel sobborgo di Bezetha. E siccome io viveva quasi sempre con lei, vi portai tutto il lusso, l'eleganza, i piaceri che avevo osservato presso le dame romane e greche, e ci presi gusto anch'io.
Maria non aveva la tinta, in parte vera in parte presa a prestito dai cosmetici, delle cortigiane romane; ma la aveva nel suo colorito d'oro in fusione una freschezza, uno splendore, un mordente, un vigore, una giovinezza che la rendevano mille volte più seducente. Ella non aveva lo spirito, la coltura, il gusto, la grazia, il fascino morale della cortigiana greca; ma ne aveva tutta la civetteria; tutti i capricci; tutto l'imprevisto, tutte le voluttà, tutta la venustà scultoria delle forme. Era Cleopatra: quella misteriosa e tetra regina che aveva stretto il mondo due volte nelle sue braccia di bronzo, e l'aveva soffocato dei suoi baci. Maria era l'ideale della donna siriaca che possiede la taglia della palma, il color dell'aurora, gli occhi di serpente, la elasticità della tigre, la bocca che contiene un Eden di passione, sia che rida, o che morda. Questa regina di Saba ben presto adottò, dal momento che divenne libera, delle abitudini fantastiche. Sdegnò la moda delle [142] donne ebree, pure così graziose e così semplici, e si compose un costume assiro, il quale le dava lo splendore che la notte ed il cielo azzurro danno alle stelle.
Non occorreva tanto per gettare lo scompiglio in mezzo alla gioventù ricca ed elegante di Gerusalemme. Maria l'ebbe presto tutta ai suoi piedi, mai nelle sue braccia. Giammai donna fu più fedele al suo amante amato, di quel che lo era Maria per me cui ella amava sì poco. Dovunque ella passava, tradita dai suoi profumi, dal suo seguito, dalla sua abbagliante bellezza, dai suoi adornamenti, dalla sua insolenza, dal suo riso che si sarebbe detto una cascata di perle sur un bacino d'oro, un riddare di raggi, dovunque la si mostrava, un vivo commovimento seguivala. Le altre donne impallidivano; gli uomini le si affollavano attorno. I sorrisi, le offerte, le parole amabili, la gaiezza, l'impertinenza, le risse, che so io? tutto scintillava e le turbinava intorno come il delirio.
Justus non aveva resistito a quella seduzione involontaria; tanto più che egli aveva visto Maria più da vicino, con me, nelle ore che la era ella stessa e non s'infingeva per altrui, ed era allora le cento volte più affascinante! Questa Greca di contrabbando era insomma una deliziosa Ebrea. Ella aveva, come io stesso, avvertito l'amore silenzioso di Justus, ma non fece mai nulla per provocarne la confessione; colui, dalla sua parte, non l'osò mai.
Dopo il mio arresto — e si sapeva che gli arresti di Pilato, cui nulla spaventava, erano mortali quasi sempre — Justus sperò; prese coraggio. Maria invece, che fino allora m'aveva impartito un così modesto bricciolo del suo amore, mi si diede con tutte le espansioni della sua anima.
[143] — Ebbene, diss'ella, se Giuda è arrestato bisogna liberarlo.
— Gli è che.... riprese Justus.
— Non ci sono gli è che: lo si deve, dovessi io abbandonarmi nelle braccia del suo carceriere, come Giuditta, per strappargli le chiavi; dovessi mettere fuoco ai quattro angoli di Gerusalemme. Quanto io ho, fino alle trecce dei miei capelli, prendete tutto e comperate la sua libertà.
— Maria, rispose Justus tutto tremante, ti sei mai accorta che io t'amo?
— Sì.
— Allora, puoi comprendere che farò tutto per piacerti.
— Va dunque e ritorna domani, quando avrai notizie più precise sulla situazione di Giuda.
Non vi erano che tre uomini i quali potessero dire alcun che sul mio conto: Pilato, Cneus Priscus, ed il vecchio carceriere della torre Phasaelus. Non c'erano quindi che due uomini i quali potessero andare ad informarsene: Hannah e Bar Abbas. Justus si rivolse ad Hannah, che rifiutò per tema di attirare l'attenzione sopra sè stesso. Bar Abbas accettò senza farsi pregare, perchè aveva già fatto i primi passi, coronati da quella serie di calci che il vecchio carceriere gli aveva regalati.
— Io non mi son mica uomo da aver paura nè di calci, nè di pugni, nè di colpi di daga, rispose egli alla proposizione che Justus gli fece; ma quando si agisce bisogna avere almeno una probabilità di successo; senza di che, l'azione è una follia.
— Certamente.
— Ebbene, per lavorar con efficacia, ho d'uopo di denaro.
[144] — Ti vendi dunque sempre, Bar Abbas?
— Imbecille! gridò il galuppo. Quel denaro non sarà nè per me, nè per compensare i miei sforzi: devo corrompere qualcuno. Conosco il vecchio Ruben. Sono stato il suo pigionale più d'una volta. È chiacchierone, ubbriacone, goloso, infingardo. Ama le baldracche. Gli piace burlare. Tutto ciò, mio caro idiota, si compra e si paga. Se fossi ricco, non domanderei nulla. E non voglio andar a domandare nulla a Maria, perchè ella darebbe tutto, ella.
Justus prese un pugno di sicli, e lo versò nelle mani di Bar Abbas, dicendo:
— Non andar mai da Maria. Quando avrai speso questo denaro, ne avrai dell'altro, poi dell'altro ancora, e così sempre.
— Alla buon'ora! giovine ipocrita. Vuoi monopolizzare tutta la riconoscenza della pulzella. Va, va, fa la tua strada, ma sta in guardia: non si incespica mai che quando si guarda il cielo. Si direbbe che il cielo porta disgrazia.
— Ti metti subito all'opera, non è vero?
— Hai una premura che è sospetta, figliuolo mio. Sarei quasi tentato di domandarti la mia parte.
— Di che cosa? della premura?
— Di ciò che la provoca.
— Tu sai che Giuda è amico mio.
— Ma! appunto per ciò mi stupisco della tua magnanimità. Non si fanno tanti sforzi per un amico, che quando si tratta di perderlo.
Tre giorni dopo, Bar Abbas sapeva tutto.
S'era presentato al vecchio Ruben, per iscontare i calci della sera precedente. Aveva principiato lo scambio, con dei cazzotti, nella taverna ove il carceriere andava a gozzovigliare la sera, dopo di aver coricato [145] i suoi pupilli. La partita saldata, Bar Abbas, da vecchio milite di fronte a vecchio milite — Ruben aveva combattuto contro Pompeo alla presa di Gerusalemme, — gli aveva offerto una riconciliazione.
— Non voglio distruggerti, gli disse egli, preferisco ubbriacarti, vecchio bestione.
La proposta non ammetteva una lunga riflessione, neppure per anomalia di gusti. Ruben accettò, colla riserva di bere ma senza ubbriacarsi. Promessa da beone. Egli bevve, s'ubbriacò, e parlò. Bar Abbas, per saldare i conti, lo fece rotolare con un pugno sotto la tavola dell'osteria, e uscì, mulinando così:
— Che la folgore soffochi il sagan, e Caifa in sua compagnia! Cosa significa tutto ciò? Levato dal carcere di notte, con una benda agli occhi, e condotto al palazzo di Erode per la porta del giardino? Che, che! messer Pilato si darebbe il divertimento di strangolare i prigionieri per suo proprio uso, in privato, senza giudicarli, nottetempo, e di preparare alle sue vittime la sorpresa di sentirsi torcer il collo, senza saper dove? Ciò è possibile. Le idee strane e malinconiche posson venire a cui casca sulla testa una donna che avea lasciata all'altro capo del mondo. Nonostante, gli è così dolce il contemplare i proprii nemici far le smorfie sopra una croce, dall'alto del monte Sion! Pilato è veluttuoso. No, no, egli non si sarebbe mai più giuntato dello spettacolo di Giuda crocifisso, nei suoi deliziosi panorami delle sere di autunno al chiaro di luna. C'è altra cosa. Vediamo un po': l'è quella benda indiavolata che m'imbroglia. Perchè hanno coperto il capo di Giuda di un lembo di drappo? Codesto mistero non indica un concetto d'un uomo, a meno che quell'orco di Priscus non abbia eseguito un ordine irregolare. Ma Bar [146] Abbas mio caro, qual ordine? Per esempio, quello di una persona la quale avesse interesse di veder il prigioniero senza esserne conosciuta, in un sito remoto, e di farlo ricondur poscia nel suo carcere. Hum! Bar Abbas mio bello, tu spazii nella luna. Il vino di Gerico raffredda il tuo cervello. In fede mia, la più corta ancora l'è d'andare ad informarmene.
Sopra questa saggia determinazione Bar Abbas si recò al palazzo di Erode. Giuda non era ancora apparso al pretorio. Pilato adunque era fuori di causa. Quest'uomo di guerra del resto aveva potuto essere sovente aspro, ma non era mai stato soppiattone. Pilato posto da parte, non restavano che Pomponius Flaccus e Claudia, che avessero il diritto di far escire Giuda dalla sua prigione. Il governatore della Siria, perduto nelle sue dissolutezze, passando i suoi giorni nel letto e nel bagno, e le sue notti a tavola o altrove, avrebbe ben dato l'ordine di rapire una ragazza, od un ganimede, per rallegrar le sue feste; ma egli non si mischiava di sottrarre al carnefice le sue vittime. Pomponius quindi pareva innocente. Dunque?
Gli appartamenti di Cesare, abitati da Claudia, sporgevano sui giardini. Giuda era un bellissimo giovane. Le dame romane andavano pazze di orgie misteriose. Claudia arrivava, preceduta da una tetra celebrità, offuscata dall'odio degli schiavi contro i loro padroni. Ella aveva distinto Giuda in quella bella scena, che aveva commosso tutto il circo.... Occorreva altro? Bar Abbas diresse tutte le sue investigazioni nei contorni della bella Romana. Attaccò il segreto dalla parte del giardino e da quella della corte, con gli schiavi e con le schiave. Non potè scovrir nulla. Ma le sue induzioni non ne furono [147] che più corroborate. Ruben mi aveva veduto passare pel giardino, e penetrare nel palazzo; i soldati che avevano accompagnato Cneus lo confermavano. A meno, dunque, che non m'avessero fatto escire di là morto o vivo, morto o vivo dovevo trovarmi in quella parte del palazzo.
Quando questa idea fu entrata nel capo di Bar Abbas, egli ritornò da Justus e gli comunicò le sue osservazioni. A Justus andarono a sangue; perchè egli ci aveva interesse, quand'anche non le trovasse verosimili, avendo in mente di profittarne.
Andò a vedere Maria.
— Ho scoperto il ritiro di Giuda, diss'egli.
— Il ritiro? Non è dunque più nelle segrete della torre Phasaelus? domandò Maria.
— Sarebbe stato meglio per te che vi fosse tuttavia.
— Perchè dunque?
— Perchè? Ami tu Giuda, Maria?
— Rispondi alla mia domanda.
— Ebbene, perchè Giuda è stato condotto al palazzo d'Erode, di notte, cogli occhi bendati, pei giardini, negli appartamenti di Cesare occupati da Claudia.
Maria impallidì.
— Allora....? sclamò essa.
— Non comprendi dunque?
— Ho paura di comprendere.
— Eppure è chiaro. Non c'è più traccia di Giuda. Pilato non sa nulla di tutto questo. La donna dalle orgie di Capri aveva ricevuto un servizio da Giuda. Tu sai se Giuda è bello supremamente. Se dunque non lo hanno ucciso, egli sdilinquisce nelle braccia della Romana che lo ricompensa del suo atto di coraggio.
[148] — L'è una infamia, a codesta donna onesta, di rubare così l'amante di una favorita, per mandato della giustizia.
— Non hai altro da aggiungere?
— L'è una cosa infame, infame, ed andrò a proclamarlo in tutte le piazze di Gerusalemme.
— Ciò non ti restituirà punto Giuda. Claudia d'altronde è così bella! Maria, in tutta Gerusalemme, in tutta la Giudea, in tutta la Siria, non ci sei che tu — in ogni caso ai miei occhi — più bella di Claudia.
Maria restò pensosa alcuni minuti, cangiando ad ogni momento di colore, gli occhi ardenti, fissi, lucenti come una lama di pugnale, le mani increspate. Poi alzandosi con risoluzione:
— Justus, disse, l'altro giorno hai confessato d'amarmi.
— Io mi muoio di questo amore, Maria.
— Non te ne chiedo tanto. Vuoi tu, puoi tu salvar Giuda?
— Maria!... ma io t'amo. Non comprendi dunque tu che io ti amo, e che se Giuda ritorna....
— Bisogna ch'io lo strappi a quella donna, a qualunque prezzo: capisci? bisogna ch'io glielo strappi.
— S'egli fosse nella gabbia d'un leone, sotto le zampe d'acciajo di una tigre, non esiterei un istante. Non ci vedrei nessun pericolo.
— Va, sarai pagato, per Dio, del tuo pericolo, usurajo, poltrone.
— Maria, io t'amo: mi ucciderò dopo, se vuoi.
— Cosa ti occorre dunque? parla, vigliacco, confessa i tuoi desiderii. Vuoi forse che io ti getti il mio amore alla faccia?
— Un giorno, Maria, un'ora, ed io arrischio tutto. [149] Io smuoverò il cielo, abbrucierò il palazzo d'Erode per arrivare fino a lui, per strapparlo dalle braccia, intendi? dalle braccia di Claudia.
— Tutto, tutto: io ti darò tutto, purchè tu riesca a liberare Giuda. M'hai tu compreso? tutto.
Justus era caduto ai piedi di Maria e li baciava con ebbrezza, sclamando:
— Gli è che io ti amo tanto, Maria! Gli è che traverserei il deserto sopra le mie ginocchia per arrivare fino a te, Maria! Un anno, un anno intero, mio Dio, ho sofferto il supplizio di vederti nelle braccia d'un altro, di sentire il rumore dei suoi baci, di sfiorare il soffio delle tue carezze. Mi sono trascinato la notte sotto le tue finestre, come un essere che striscia, per aspirare un profumo che trapelasse dalla tua camera, ed ho inteso.... Dio mio! e non sono ancora pazzo!
— Ma di che hai d'uopo ancora, cosa vuoi? Non ti ho forse detto tutto? La promessa non ti è bastante forse? Vuoi un impegno? un giuramento? Vuoi ch'io t'abbracci per farti partire, che mi getti ai tuoi piedi, per darti fretta? Cosa vuoi altro? dillo, ma dillo dunque! E resti invece lì ancora a leccare i miei sandali.
Justus si levò e sclamò:
— Maria, tu saprai ciò ch'io avrò fatto e giudicherai. Io non voglio giuramenti; tu avrai compassione di me, non è vero, Maria? addolcirai questo amore che mi uccide.
Alla sera, Justus ritornò da Maria. Bar Abbas aveva avuto ulteriori informazioni. Bar Abbas aveva fatto dei progetti di liberazione che Justus si attribuì agli occhi della giovine donna. Egli fomentava la gelosia di Maria, e strappava alla gelosia ciò che l'amore gli aveva rifiutato.
[150] Qual era codesto progetto di Bar Abbas?
Bar Abbas era un vagabondo notturno. Gli restava ancora probabilmente una casupola, ch'egli chiamava la sua magione; ma ordinariamente e' passava la sua vita in casa altrui, o meglio nella casa di tutti: nelle piazze pubbliche, all'angolo d'una via, nel bugigattolo di una di quelle povere disgraziate che la notte sollecitavano i viandanti nelle stradelle remote, o in prigione, raccolto ubbriaco fradicio dalle guardie di notte, o facendo baccano all'uscio delle osterie. Gli accadeva talvolta, pure, di restare fuori delle porte della città, e di vagare lungo le mura a rischio d'esser divorato dagli sciacalli e dai lupi, battendosi coi cani che risvegliava.
In quelle peregrinazioni notturne, gli era avvenuto di esser due volte testimonio di una scena che lo aveva sorpreso. Aveva scoperto a una svôlta di strada, cinquecento passi dai giardini del palazzo di Erode, dalla parte d'Ophel, cinque o sei individui ravvolti nei loro mantelli, in disparte nella corte d'una casa, vicino ai loro cavalli, pronti alla partenza. Poi, più lungi, aveva veduto un'altra persona uscire da una porta secreta dei giardini reali, aprendola per di dietro, richiuderla ed allontanarsi. Quella scoperta gli aveva suggerito un'idea, una bizzarria. L'aveva comunicata a Justus, che l'aveva approvata senza discussione, giacchè gli era mestieri di raccontare a Maria un progetto qualunque fosse. Justus era uno di quegli uomini che hanno del coraggio in mezzo ad una mischia, e che sono poltroni di fronte ad un pericolo isolato. Bar Abbas non gli aveva per altro svolto che lo schizzo del suo progetto. Egli voleva, nella prossima notte, verificare la posizione, ed assicurarsi, se la sortita di quell'uomo che aveva veduto, si rinnovellava.
[151] Difatti nella notte susseguente, mentre Justus alimentava la gelosia di Maria, e insisteva nei suoi tentativi, mentre io filavo con Claudia una passione ben altra che l'amore, Bar Abbas stava in attesa del visitatore notturno dei giardini del palazzo. Egli restò al suo posto, dalla terza fino all'ottava ora (due ore dopo la mezzanotte).
Gli otto uomini nascosti nella corte della casa vicina furono anch'essi al loro posto; ma l'attore principale mancò. Bar Abbas non era uomo da scoraggiarsi per uno scacco, sopratutto quando il suo stomaco era ben soppannato da una buona cena, e da un fiasco poderoso dei colli d'Emmaus. La seconda notte, e' fu più fortunato. Egli vide entrare l'uomo alla quarta ora, ed uscire alla sesta.
All'indomani, il progetto fu fissato con Justus cui un primo bacio rubato a Maria rendeva più audace. Justus riportò alla giovine donna, che la notte seguente avrebbero tentato la mia liberazione. Un secondo bacio rese Justus più che audace, temerario. Di che si trattava, in una parola? Oh! la era semplice come un matrimonio disfatto per mancanza di dote. Ma quella notte pure la buona stella di Justus che favoriva le sue correrie di baci nei miei dominii, gli preparò un insuccesso. Le cattive azioni hanno quasi sempre l'incoraggiamento della provvidenza. Bisogna essere eroico in ogni maniera, per far il bene. La notte seguente però i miei due amici furono ricompensati delle loro pene, e della loro devozione alla mia disgrazia. Quando ci penso, mi sorprendo ad allocchire: quel miserabile Bar Abbas era proprio ammirabile! Rischiava la vita, perchè? Certo, non per dei baci, e neppure per distrarsi.
Alle cinque della notte, un uomo avviluppato nel [152] suo nero mantello rasentò il muro del giardino, senza guardarsi intorno, senza preoccuparsi di essere o non essere scorto, la testa bassa, a passi lenti. Arrivato alla piccola porta, cavò di tasca una chiave, aprì, entrò, e respinse la porta che si chiuse con fracasso. Si sarebbe detto che fosse il padrone di casa. Justus e Bar Abbas, che si trovavano più lungi in un incavo del muro, videro tutto ciò, senza soffiar motto. Poi, quando l'uscio fu chiuso, Bar Abbas afferrò la mano di Justus, che gli parve agghiacciata, e gli disse: — andiamo!
Si appostarono uno per parte alla soglia che l'altro aveva varcata, ed attesero.
La notte era fredda. Un venticello dispettoso si querelava colle foglie degli alberi, colle terrazze delle case, in una maniera piagnucolosa, stridente, paurosa come se qualche demone l'avesse minacciato, e cacciava dinanzi a sè degli immensi nugoli neri, dal portamento maestoso, che navigavano penosamente come navi ferite dalla tempesta. Questi nuvoli venivano dal sud, dal fondo del mar Morto e dal Giordano, e per conseguenza sopraccarichi di temporale. Dalla parte del nord, venendo dalle montagne di Samaria, uno sciame di nuvolette bianche ed impaurite se la svignava in fretta. Qualche stella abbastanza ardita per farsi vedere, rientrava alla presta. Centinaia di cani ululavano in lontananza, del non avere probabilmente trovato neppure una carogna nella valle dell'Hinnom. Il Cedron borbottava; perchè il suo filuccio d'acqua ed i suoi sassi si rincontravano fragorosamente dopo sei mesi d'un'estate secca come il deserto. Tutto dunque faceva prevedere una notte piena di strepito. Si udivano già alcuni sordi movimenti nell'aria, come di un giovine tuono che provasse i suoi primi rulli.
[153] — Felice chi ha una casa ed un letto, borbottò Justus.
— Ed una ganza dentro, aggiunse Bar Abbas.
— Credi che quel facchino ci lascierà intirizzire qui, a lungo, eh?
— Diamine! se quel facchino trova là entro ciò che noi ci auguravamo testè, cioè un letto ed un'amante, ne ho paura.
— Preferirei finirla subito.
— Sei un eroe! se avremo mai una repubblica Ebrea, ti propongo per generale del nostro esercito.
— Ho una grande inclinazione per l'acqua; preferirei esser ammiraglio.
Due ore erano scorse. L'oscurità era completa. Nessun rumore umano annunziava che vi fosse qualche creatura svegliata all'infuori dei cani e dei carnivori, che venivano a cercare nelle immondizie della città il loro incerto pasto. Siccome l'ora della uscita dell'uomo ch'era lì entro, s'avvicinava, Bar Abbas e Justus tacevano, l'orecchia tesa, il naso al vento. Finalmente, intesero nel giardino come una porta che si chiude con precauzione, poi lo scricchiolar della sabbia sotto i piedi, poi il passo lento, pensoso, irregolare, a zig-zag, direi quasi attristato, tanto era pesante ed intermittente. L'uomo si fermò all'uscio.
Restò un momento lì, poi girò sui suoi talloni, guardando probabilmente il palazzo che lasciava in quel punto. S'intese un grosso sospiro precipitarsi fuori dal suo petto, come se avesse temuto di soffocarvi. Questa pausa durò due o tre minuti. Pareva indeciso se ritornerebbe indietro, o se sarebbe partito. Quest'ultima risoluzione la vinse. Girò di nuovo, frugò nelle tasche, prese una chiave, aprì, uscì. Chiudeva [154] già la porta, quando una mano possente afferrò il suo pugno, mentre due braccia vigorose lo stringevano. Mezzo inviluppato nel suo mantello, quel visitatore notturno non avrebbe potuto opporre che una debole resistenza. Egli non ne fece alcuna. Si voltò come un uomo sorpreso, ma per nulla spaventato, come un uomo più maravigliato dall'audacia che commosso da un attentato, e sclamò:
— Cos'è dunque?
Il tuono con cui disse queste parole, fece rabbrividire Justus. Bar Abbas non si lasciò imporre da quel contegno, che ritenne preso a bella posta.
— Niente affatto, o per lo meno poca cosa, rispose egli coll'istesso tuono disinvolto. Ti domandiamo semplicemente quella chiave.
— Per che farne, se ti aggrada?
— Ma, una chiave, io credo, è fatta per aprire o per chiudere, per lasciar entrare o lasciar uscire.
— E per rinchiudere anche.
— Precisamente, ma io, nella mia ignoranza delle finezze della lingua, credevo che chiudere bastasse.
— Allora!
— Non hai ancora capito?
— Perfettamente; quantunque faresti meglio di parlare nel tuo linguaggio, se ne hai uno, piuttosto che scorticare il greco.
— Ah! questa poi è graziosa! io che ho dato delle lezioni di pronunzia ai Brettoni.
— Dunque, tu dici?
— Dammi quella chiave, o me la prendo.
— Siamo intesi. Però non m'hai ancora spiegato per qual ragione vuoi penetrare in quel giardino.
— Per qual ragione ci sei andato, tu?
— Io, l'è ben differente. Sono medico, ed il padrone [155] di casa ha un cane che ha la gotta alle due zampe davanti, e non potrebbe sottoscrivere il suo testamento.
— L'hai guarito, spero.
— In un lampo. Egli ti lega anzi qualche cosa in quel suo testamento, io credo. Tra fratelli, del resto, è naturale.
— Come dunque! come! Un cane! capperi! saremmo noi entrambi dell'istessa famiglia? Sì, davvero un cane è il solo parente che potrebbe, morendo, lasciarmi qualche cosa.
— Egli è per questo che esso ti lascia la corda che domani io ti farò mettere al collo.
— Domani, caro medico, è ancor lontano. Siamo appena a mezzanotte.
— E mezza. Sta bene, ti do la chiave. Ma non puoi dirmi cosa vai a fare in quel sito? Io credo, che è per, per.... vorrei pur addimandar la cosa con una parola pulita.... Ah eccola: per rubare.
— Folgore del Sinai! per chi ci prendi tu dunque, imbecille.
— Ma, vi prendo per delle persone delicate che vanno di notte ad alleviare i ricchi del loro superfluo.
— Ebbene, marrano, t'inganni.
— In questo caso, virtuoso cittadino, te ne faccio le mie scuse. Avresti tu dunque, lì dentro, un intrigo d'amore?
— Ah! e se ciò fosse?
— Allora ti offrirei i miei servizii.
— Tu m'hai l'aria d'un famoso compare. Dopo tutto, vediamo. Sei di casa, tu?
— Un poco.
— Vuoi tu guadagnare... Hai dei bezzi, Justus?
— Sì, una ventina di sicli.
[156] — Senti? vuoi guadagnare dunque una ventina di sicli, lasciando a me, ben inteso, il dieci per cento?
— E perchè no? purchè ciò che mi domandate non sia troppo pesante.
— È leggiero, come l'ordinario mio desinare. Si tratta soltanto di guidarci.
— Dove, se la domanda non è indiscreta?
— Lì dentro.
— Voi siete dunque curiosi di visitar il palazzo dopo mezzanotte?
— Noi siamo curiosi di trovare un amico che si è smarrito in quegli appartamenti.
— L'è una bisogna filantropica. Vediamo, raccontatemi come sta la cosa. Chi è codesto amico? come mai si è desso smarrito colà? Cosa cercava?
— Te lo dirò, camminando.
— Non mi piace conversare camminando. Spiegati prima.
— Avrei dovuto principiare coll'ucciderti, e prenderti la chiave, disse Bar Abbas. È un'idea che mi viene adesso, in ritardo d'un quarto d'ora, la sciocca. Non monta. Che tu sappia o no le nostre faccende, bisogna che io penetri in quella casa infame, che strappa i prigionieri dalle mude onde rischiarare le sue orgie.
— Cospetto! hai la collera virtuosa, mio bel profeta. Va innanzi. Spiegati un po' più chiaramente, e ti prometto, sulla mia parola, ajuto, protezione, ed impunità.
— Hum! sei troppo generoso per crederti solvente. Breve, te l'ho già detto, uno dei nostri amici è stato preso, tolto via dalla torre Phasaelus, dieci giorni fa, di notte, cogli occhi bendati. È stato condotto qui, è entrato per quella porta, ed è là negli appartamenti [157] della moglie del procuratore probabilmente, con lei forse.
— Ascolta, disse l'uomo della chiave, tu verrai meco adesso in quella casa, e se hai mentito, o se ti sei ingannato, non c'è croce abbastanza lunga, non ci sono torture abbastanza atroci, per farti morire.
— Che io sia dannato! sclamò Bar Abbas, sei dunque Pilato, tu? E cosa vieni a rubare di notte qui?
Pilato non rispose. Con una mano aprì la porta, coll'altra spinse dentro i due avventurieri.
Sì, era Pilato in persona, l'uomo che a quell'ora usciva dagli appartamenti di sua moglie, senza vederla, senza parlarle. Egli non si curò di chiudere l'uscio. Afferrando i due accusatori di Claudia per i polsi, come in una morsa, li trascinò seco al fondo del giardino, spinse del piede la porta della conserva dei fiori, vi entrò e prendendo nella sua tasca un'altra chiave, aprì la porta che metteva nella casa. Dei deboli chiarori illuminavano i portici, i corridoj, le scale, e le camere ch'egli percorse coll'impeto dell'uragano, avendo sempre le braccia di Justus e di Bar Abbas chiuse nei suoi artigli di ferro, quantunque al postutto e' non avesse bisogno di loro. Arrivato finalmente ad una porta in cima ad una scala, bussò. La porta s'aprì e nell'istesso tempo la luce rischiarò una giovine donna, Pilato e i due suoi accoliti!
— Cypros, gridò Pilato, mi hai mentito.
Justus tremava; Bar Abbas, malgrado la sua impudenza, sentiva un brivido percorrere la sua colonna vertebrale, all'udire la voce cupa e dannata di Pilato.
— Sono perduta! mormorò Cypros. Oh povera madre mia, tu morrai schiava!
[158]
Dieci giorni erano trascorsi dal mio arrivo al palazzo di Erode.
Io non aveva compreso perchè Claudia mi vi avesse condotto; comprendevo ancor meno perchè mi ci tenesse. Tutte le congetture che avevo fatte su quella donna, eran fallite. Trovai stupida la mia condotta, e più io approfondiva il carattere di Claudia, più ella mi diveniva un mistero.
Non avevo, in tutta la mia vita, incontrato una donna più casta di questa impura, la quale esalava la lussuria come una rosa di Sharon esala l'odore. Non ho conosciuta una donna più fredda di quella cui trovavo recondita nella tempestosa organizzazione di Claudia. Quella civetta, era una matrona. Viveva separata da suo marito; ma io chiesi a me stesso parecchie volte: Amerebbe ella dunque quest'uomo che la fugge? All'impertinenza del primo giorno, era susseguita una familiarità, la quale però intrometteva fra lei e me un mondo. La cortigiana delle feste era figlia di Cesare nell'intimità. La dicevano frivola: ed il suo spirito era ornato di tutte le gemme ed i profumi della poesia greca e romana. A Capri, ella aveva figurato nella mandria di Cesonius Priscus, l'intendente della voluttà di Tiberio, e vi aveva imparato la politica del mondo, maneggiandola con Sejano che le faceva orrore. Claudia aveva certamente [159] uno scopo; io mi perdeva in un dedalo di supposizioni, e non scopriva, dopo tutto, la verità in nessuna di esse. Non avevo più fretta di lasciarla, e oggi ancora, dopo tanti anni, e dopo tanti avvenimenti, cerco nel mio cuore perchè non l'amavo! Io era, certo, in quello stato di spirito, in quell'ora della vita, ove avrei dovuto divenir pazzo per quella donna. Maria passava allo stato di tramonto, nel mio amore. La sconosciuta del circo inviluppava d'una nube luminosa i miei vaneggiamenti; ma tutte due non colmavano il vuoto, che la vita a ventitrè anni scava avidamente nell'anima. Claudia aveva tutto ciò che un uomo elevato può desiderare: ella inebbriava i sensi con la sua bellezza, dava la febbre all'immaginazione con la sua condotta, con la elegante distinzione del suo spirito. Vi sono dei fenomeni psicologici che si spiegano, ma non si comprendono.
Avevamo passato una parte della sera sul terrazzo del Sud, dinanzi al quale si svolge la catena dei monti di Scopas e degli Olivi, e donde, per un appiattamento di questi monti, si vede il mar Morto, come una lama d'oro durante il giorno, come una nube violetta la sera ed il mattino. Passeggiando lentamente, l'uno vicino all'altro; cogliendo qui un fiore, là una foglia dai vasi di majolica azzurra, agli arbusti odoranti schierati sul parapetto, io le aveva modulato quella cosa selvaggia e splendida che si chiama: il Cantico dei Cantici di Salomone. Ella aveva ascoltato distratta, poi mi aveva detto:
— Sì, codesto canto è bello come le armonie del deserto; ma io preferisco l'Odissea.
Mi aveva poi sussurrato alcune elegie che Ovidio aveva scritte per sua madre Giulia, dal fondo dell'esilio, ove il suo amore aveva fatto naufragio. Una [160] grave malinconia ci ravvolgeva. Il cielo era cupo, e il temporale vi si addensava.
— Ho a parlarti, Giuda, mi disse finalmente Claudia. Attendi qui. Licenzio le mie schiave, e ti farò chiamare.
La notte era scesa completamente. Poco alla volta l'assopimento s'era impadronito della città. Io circolavo nelle tenebre, come un'ombra che cerca riposo. Un'ora dopo, Cypros venne ad annunziarmi che Claudia mi attendeva. Aprì infatti una porta che dava sul terrazzo, m'introdusse nella stanza da letto della sua padrona, e si ritirò. Claudia le disse:
— Ti chiamerò forse: veglia.
Era la stanza che Erode aveva fatta costruire per Mariamna. Non c'era nulla al mondo di più ricco e di più suntuoso. Il soffitto era di cedro d'Africa, che valeva più dell'oro, scolpito a spalliera di fiori e di foglie, con dei grappoli in rilievo. I muri erano tappezzati di una stoffa che sembrava tessuta e filata di perle, profumata da viole, da bottoni di rosa ed iridi, rallegrata da un nuvolo di uccelletti indiani come il contenuto di uno scrigno di pietre preziose messe giù. Delle svelte colonne d'oro separavano le pareti in diverse inquadrature e sostenevano il soffitto. Uno spesso tappeto di Bactriana copriva il suolo, di cui faceva un'ajuola di fiori. Il letto era basso, largo, in scaglia di tartaruga del Gange a riflessi d'oro. Aveva la forma di una conca marina poggiata sopra un piedestallo, di avorio di Troglodite e d'oro, che simulava le onde.
Della lanugine di uccelli d'Africa, rinchiusa in una splendida stoffa persiana, riempiva la conca. Un baldacchino di stoffa ricamata di perle del golfo Persico e della Taprobana, di diamanti e di tutte le sorta di [161] pietre preziose, copriva il letto come una tenda. Una coperta di porpora che valeva un milione di sesterzi, si stendeva sopra le lenzuola di tela d'Egitto, e sopra i guanciali di tela delle Indie. Lungo i muri correva una fila di guanciali di seta bianca trapunta a fiori, alcune sedie d'avorio; un immenso specchio racchiuso in un cerchio d'oro cesellato, sostenuto da due schiavi agginocchiati, in bronzo di Corinto, stava dinanzi la finestra; e nel mezzo della stanza, un piccolo letto d'ebano addobbato di cuscini bianchi e rossi ove Claudia si riposava mentre le schiave finivano la sua acconciatura della sera e del mattino. Vicino allo specchio, sopra un zoccolo di lapis-lazzuli si ergevano due vasi murrini della Caramina, di un valore incalcolabile, — regalo di Tiberio — e ripieni di fiori esotici nati e schiusi nelle conserve del palazzo.
La camera era rischiarata da alcuni candelabri d'oro posti ai quattro angoli. Un profumo inebbriante impregnava l'aere. La porta a vetri colorati che dava sui terrazzo fu chiusa; ma quando un lampo infiammava il cielo, si vedeva quella porta cangiarsi in un rabesco di mille colori.
Claudia era sola mollemente coricata sul suo letto di riposo, abbigliamento da notte. Una larga tunica di lana bianca, sottile come il vapore d'una sera d'estate, le inviluppava tutta la persona, eccetto le braccia. Un cordone di seta azzurra le stringeva i lombi. Una rete rossa imprigionava i suoi capelli neri ondati di azzurro, e traversati da un pugnale a testa d'oro, fino come un ago. Nulla di più voluttuoso, e di più casto: quella ricchezza era modesta. Pareva d'entrare in una stufa da fiori. Sopra un tavolo, alla portata della mano brillavano una carafa di cristallo di rocca e due coppe d'oro. Claudia riempì quelle [162] coppe di una deliziosa bevanda agghiacciata, composta di succo di granate ed aranci misto a latte e mele, e me ne offrì una.
— Giuda, mi disse ella allora, demolisco Capua; devi partire.
— Son pronto, risposi sospirando dopo un momento di silenzio. Mi dirai almeno, perchè m'hai chiamato, perchè m'hai introdotto in questo Eden senza il serpente.
— Il serpente vi s'introduce, Giuda; è tempo dunque che tu te ne vada, e che riprenda la strada che il tuo destino ti indica.
— Non è il mio destino che me l'ha indicata, Claudia, sono io stesso, o piuttosto la mia noja. Tu conosci lo scopo che mi sono prefisso.
— Credo di averlo compreso.
— Intravvisto, forse.
— Compreso. Tu vuoi strappare la Giudea a Roma, sterminare i Romani che l'occupano, fare del tuo paese una repubblica aristocratica, sotto l'oligarchia sadducea, annientando i poteri pericolosi e cangianti del Tempio, e la venale ingerenza della plebe.
— Sì, ecco il mio scopo. L'hai indovinato.
— Puoi rivelarmi i tuoi mezzi?
— Semplicissimi forse, forse impossibili: far convergere, in un momento di tregua di Dio, gli sforzi di tutti i partiti che dividono la nazione Ebrea al compimento di questa risurrezione nazionale, uguagliandoli tutti nel costituirli separatamente; dare a questo moto un capo che segua il mio impulso, al quale tutti obbediscano, e cui, una volta compiuta l'opera, io sopprimerò, rientrando io stesso nell'orbita di quella oligarchia dirigente, alla quale appartengo.
— Questo piano è insensato o grande, rispose Claudia [163] dopo alcuni istanti di riflessione. Il successo dirà se l'è una cosa o l'altra. Ma il successo non sta nelle vostre mani.
— Gli è questo che non so ancora e che voglio sapere.
— Prova.
— Sei tu, moglie di Pilato, nipote dei Cesari, cittadina di Roma, che mi dici: Prova!
— Io stessa.
— Ma allora, non m'hai compreso.
— Ho fatto più che comprenderti, sono convinta, e ti porto il mio appoggio.
— Ripeti.
— Ti do il mio appoggio.
Sorrisi e sclamai:
— Che disgrazia, o Claudia, che io non possa trasformarti in Messia: tutta la razza di Giuda cadrebbe ai tuoi piedi come dinanzi a Dio.
— È egli necessario d'esser Messia per concorrere a codesta liberazione, Giuda?
— Non assolutamente. Ma in Asia, ove si son visti Romani distrugger Romani per impadronirsi del potere a Roma e dello imperio del mondo, non si sono ancora visti Romani distruggere Romani per liberare una nazione.
— In Asia ciò non si è veduto; ma in Europa si è veduto un capo di legioni fortunato, un conquistatore marciare su Roma, e proclamarsi dittatore. Perchè non si farebbe, partendo dalla Siria, ciò che si è fatto partendo dalle Gallie?
Fissai gli occhi attoniti sopra Claudia e mi alzai. Ella non si mosse.
— Giuda, mi diss'ella, poichè l'ondeggiare della conversazione ci ha gettati sopra questo terreno, bisogna spiegarci.
[164] — Poichè folleggiamo al paradosso, osservai io, permettimi, Claudia, d'aggiungere: Perchè stancarci ed andare fino a Roma, turbare la quiete del marito di tua madre, poichè abbiamo dinanzi a noi tutta l'Asia da risuscitare: l'impero di Ciro, d'Alessandro, di Dario, di Salomone stesso? Restiamo da questa parte del Mediterraneo ove il clima è così bello, la natura così ricca, l'uomo così vile, la donna così possente; ove lo schiavo obbedisce, il padrone gode, l'oro nasce da sè solo; ove la creazione ebbe la sua aurora, e vi spiega la sua opulenza meravigliosa.
— Giuda, replicò Claudia impallidendo, tu hai ricordato mia madre e Tiberio. Tu hai abitato Roma. Tu sai dunque una parte della mia storia, la parte infame, quella che traboccava da Capri, e si spandeva in fetide onde sopra la città dei sette colli. Hai udito forse raccontare delle mostruosità che la plebe vigliacca ha bisogno di credere per non confessare a sè stessa di non essersi sola imbragata nella poltiglia. L'ho inteso io stessa, codesto racconto, contaminare le mie orecchie, quando mi recavo a Roma e vedevo quel popolo che conduce il mondo prosternarsi dinanzi la mia lettiga, come dinanzi l'altare della Venere impudica. Non mi curai di confutare l'esagerazione di quelle fiabe. Ciò che ne restava di vero era già troppo per l'infamia di tutta una generazione d'uomini. Alla fine, tutto ciò ha fatto sanguinare il mio cuore.
— Claudia, sta in guardia, la memoria ti trascina a parlare di cose, che domani non vorresti mai aver rivelate agli orecchi d'un mortale.
— Poco monta ciò che io mi voglia domani. Credi tu che io ti abbia fatto strappare dalla torre di Phasaelus, che ti abbia provato con delle tentazioni alle [165] quali un giovine di vent'anni avrebbe dovuto inciampare, soccombere mille volte, credi tu che io ti abbia tenuto qui dieci giorni per conoscerti, per comprenderti, che ti abbia fatto udire poco fa una parola che ha risvegliato la tua incredulità; credi tu, dico, che io mi sia lasciata andare a tutto ciò per capriccio, per ozio, e per ricompensarti del colpo di pugnale dato alla pantera?
— Non interamente.
— Ebbene, non vi è nulla che inganni tanto, quanto il conoscere le cose a metà.
— È vero: l'ignoranza completa val meglio.
— Hai tu osservato, Giuda, che io non porto mai su di me che due gioielli: questo anello e questa spilla da capelli?
— In fatti, ciò mi aveva colpito.
— Un giorno, sei anni fa, Cypros arrivò da un'isola del mar Tirreno, e mi presentò questi due oggetti. Sopra l'ametista di questo anello vi è un profilo di Tiberio contornato d'edera con l'esergo si vivet, vivam. Sopra questa spilla è incisa la parola greca: vendetta! Una donna, morente quasi nella miseria e nella solitudine — ella, figlia di Augusto, con questa sola schiava Gallica per compagna di disgrazie, ella, giovine ancora, uccisa dal veleno di suo marito; ella, madre, che sa la sua unica figlia, figlia dell'amore cento volte più cara della figlia d'un marito imposto dalle convenienze, essere condannata ai più infami mestieri — questa donna m'inviava questo triste regalo, la sua ultima memoria per mezzo dell'ultima sua schiava. La donna era mia madre. La schiava era Cypros, la quale in nome della sua padrona, dietro l'ultima volontà della sua padrona, deve ripetermi ogni mattino quando mi risveglio, tutte le sere quando mi corico, la parola: vendetta!
[166] — Principio a comprendere.
— Aspetta. Avevo dodici anni.... Giuda, io ti faccio delle rivelazioni che mio marito stesso, egli più di tutti, ignora.
— Perchè?
— Che t'importa! Avevo dodici o tredici anni, ero il solo sollievo cui si consentiva lasciare a mia madre sulla sua roccia di Pantellaria. La nostra vita era triste, povera, spaventata; ogni uomo che arrivava da Roma poteva essere un assassino, o portare un veleno coll'ordine di Cesare di trangugiarlo. Il nostro sonno, una nelle braccia dell'altra, riassumeva tutti i nostri terrori, tutte le nostre felicità; noi eravamo unite; potevano separarci! A quella povera madre non restavano che le mie carezze. La mia voce le faceva tutto dimenticare. Un giorno, nondimeno, ella prese una risoluzione disperata. Ella mi disse: Domani partirai per Roma. Non la vidi più in tutta la giornata. Scrisse. Scrisse una lunga lettera a Tiberio che io doveva rimettergli. Julia gli si confessava. Ella gli rivelava il nome di mio padre già morto, le circostanze della mia nascita, e domandava grazia per me. Partii. Vidi Tiberio. Gli diedi la lettera di mia madre. Tiberio la lesse da cima a fondo senza che il suo viso tradisse la menoma emozione. Poi la gettò tranquillamente sopra un braciere che riscaldava la sua stanza. Mi guardò fisso, lungamente, e accarezzò il mio mento. — Cosa t'ha ella detto, tua madre? mi domandò finalmente. — Le sue parole sono state queste, risposi io: Tu farai tutto, figlia mia, tutto, intendi bene, per ottenere la mia grazia. — Hum, brontolò Tiberio, tutto! — Tu domanderai questa grazia tutti i giorni, continuai ripetendo le parole di mia madre; non vedrai mai Cesare senza ricordargli [167] la mia grazia; e resterai fino a che non l'avrai ottenuta. — Sta bene, replicò Tiberio, resta e domanda tutti i giorni codesta grazia.
Claudia s'arrestò. Mi parve che fosse vinta dalla commozione. Ciò durò un momento, poi riprese:
— Io feci tutto. Domandai la grazia. Non l'ottenni. Io non vendetti la mia infamia; la mi fu tolta per nulla; quel Cesare mi derubò. Egli sapeva bene, pertanto, che se io mi rassegnava a quegli obbrobri, gli era per ottenere il perdono dell'esiliata. Egli scroccava la mia vergogna. Ciò ch'io soffrii, nessuno lo saprà giammai. Dovevo sorridere in mezzo alle sozzure di Capri, delle quali pensavo fare la redenzione di mia madre. Essa morì. Io restai infame per niente.
— L'è orribile, codesta storia, dissi io inginocchiandomi dinanzi a Claudia e baciando il lembo della sua tunica.
— Alcuni anni più tardi, Cypros arrivò col messaggio della morta, continuò Claudia. Allora mi decisi a partire. Tiberio vi consentì. Ormai e' non poteva più respirare la voluttà di uccidere la madre col disonore della figlia: non poteva più vendicarsi di una madre, immergendo me nella melma. Ma questo non era il mio solo supplizio. Io era maritata. Chi mai conosceva la santa parola che io portavo nell'antro della dissolutezza? chi sapeva che io m'inginocchiava davanti l'altare di Priapo per implorare misericordia per mia madre? Ebbene, m'inzaccherarono dei loro insulti, e la vergogna ricadde altresì sul fronte dell'uomo che avevano associato al mio obbrobrio.
— Povera donna, feci io, è dunque per questo che la tua stanza nuziale è vedova.
Claudia non rispose alla mia interruzione, e continuò:
[168] — Tiberio abbandonava la sua preda. Sejano vi si opponeva. Quel miserabile mi amava con frenesia. Ciò che ci volle di lotta, il mio odio lo sa, e se ne ricorda. Avevo un bel fulminarlo del mio disprezzo, quel Sejano, egli si aggrappò a me come le anime alla barca di Caronte. Dovetti raccontargli ciò che io ti racconto ora. Quel fango ebbe la pietà che Tiberio mi rifiutava. Mi rispettò. Mi lasciò partire. Mi diede un consiglio. Oh! io non sono mica la sola che odii quel Cesare da cloaca!
— Posso io chiederti qual consiglio ti diede il terribile favorito del padrone del mondo?
— Te l'ho detto: prendere l'Impero a rovescio, e detronizzare Cesare. Roma lo deride. L'Italia lo odia. Le legioni lo disprezzano. Le provincie aspettano il primo che osi.... Ebbene, io oserò, io donna oltraggiata; io che odo a tutti gli istanti del giorno e della notte risuonare alle mie orecchie la parola di mia madre: vendetta! io che porto sopra il mio capo il suo pugnale, e che vedo ogni mattina, risvegliandomi, ogni sera, prima di chiudere gli occhi, la schiava fedele che raccolse il suo ultimo alito. Intendi tu adesso, Giuda? Comprendi perchè sei qui? Io ti ho messo alla prova: tu sei forte, hai della volontà e della perseveranza, tu detesti i Romani, tu cospiri contro Cesare: io mi associo a te. Avanti dunque. Se gli Dei sono ciechi, gli uomini devono aprir gli occhi e correggere il destino.
— Claudia, codesta franchezza mi commuove, ma non mi spiega tutto. Vuoi permettermi alcune domande?
— Parla.
— Pilato, conosce egli i tuoi progetti?
— In nessuna maniera. Se li conoscesse, mi darebbe [169] in mano a Tiberio come una delinquente. Egli non sa nulla, e nulla deve sapere. Egli deve essere trascinato dagli avvenimenti.
— Pomponius Flaccus sa ciò che tu mediti?
— Pomponius Flaccus mi ama. Una mia parola, e farà tutto che io voglio: tradirà Cesare, sua moglie, suo padre, la sua coscienza: quell'arnese da crapula, per una notte d'orgia, metterebbe il fuoco al mondo intero. Pomponius Flaccus è l'uomo in tutto l'impero che meno m'imbarazza.
— Pilato allora resisterà.
— Ma voi altri nei vostri piani, non avete voi calcolato sopra questa resistenza?
— Sì, e io conto trionfarne.
— Ebbene, io cercherò diminuire l'urto diminuendo le forze ch'egli potrebbe opporvi.
— Insomma, cosa pensi tu di fare? che parte ci lasci tu in questa tragedia che può forse fallire, ma che mette conto di essere tentata?
— In due parole, ecco ciò che io penso di fare: e rifletti che questo progetto è stato concepito da Sejano. La Giudea si ribella. I Romani lasciano fare o resistono debolmente e la lasciano trionfare. Le legioni della Giudea e gli Ebrei fanno alleanza ed obbligano le legioni della Siria ad ammutinarsi. Questa diserzione sarà d'altronde pagata. Nel vostro Tempio, nel sepolcro di Davide, vi sono ancora degl'immensi tesori benchè in parte già saccheggiati. Noi contiamo su quelle ricchezze. Con questo denaro si comprano le legioni della Gallia, della Spagna, della Bretagna. Da tutte le parti queste legioni incedono su Roma e rovesciano Tiberio, che si ucciderà, o sarà ucciso dai pretoriani, prima che le legioni rimaste fedeli si muovano. Per prezzo del soccorso che la Giudea ci avrà [170] prestato, la staccheremo dall'Impero e sarà emancipata. Ella riacquista la sua indipendenza del tempo di Salomone. Il prezzo che la Giudea pagherebbe ti pare forse esorbitante?
— Per nulla.
— All'opera dunque. Gli avvenimenti correggeranno gli sbagli di questo abbozzo, se ve ne sono.
— Claudia, diss'io alla fine, ho bisogno di crederti. Vi sono in questa trama tante cose misteriose, colpevoli, vere, terribili, grandiose, impossibili, sospette, ch'io vi crederei, anche se fossi sicuro che tutto codesto è falso, che tutto codesto è un agguato. Tu hai scelto bene il tuo istrumento. Il fantastico per me è il vero; l'assurdo è il mio ideale. Dar la mentita alla ragione, gli è il supremo dei miei piaceri. Io sono a te. Ma, confidenza per confidenza. Se tu mi hai indicato lo scopo, lascia a me scegliere la strada, il tempo, gli uomini. Il nostro popolo non è simile agli altri popoli. Noi facciamo una rivoluzione per cangiarlo, ma non lo cangeremmo per fare una rivoluzione. Da domani, io rientro in scena. Ma sai che tuo marito mi sorveglia, e che il suo aguzzino mi ha arrestato per sottrarsi alla noia di sorvegliarmi?
— Io ti domanderò a Pilato, e sarai più sicuro dell'imperatore stesso.
— Sta bene, soggiunsi commosso: io lascio questo palazzo in questa notte stessa. Sono felice. Non mi annoierò più, farò del bene forse, in ogni caso cercherò di piacerti. Avrei potuto vivere, lungo tempo forse, colla Claudia di questa mattina senza amarla e senza desiderarla; non potrei forse vivere due giorni ancora colla Claudia di questa sera senza amarla alla follìa ed adorarla come un dio. Ho il presentimento, direi quasi la certezza, che non riesciremo; che importa? [171] Tu sei stata infelice, o Claudia, la tua vita non è riempita di memorie sorridenti; ti ricorderai di me. Dev'essere così dolce l'avere per tomba il cuore, o il pensiero d'una donna!
— Tu sei un nobile giovine, Giuda, susurrò Claudia, gli occhi brillanti di una lagrima che li dilatava.
— Perdonami, se ti ho mal giudicata.
— Tutti mi giudicano così. Perchè sarei inesorabile con te, mentre io non serbo rancore ad alcuno?
— Addio allora, le dissi, prendendole la mano e portandola alle mie labbra.
Restai un istante colle labbra su quella mano. Alzando il capo, vidi nel vano della porta Pilato in piedi, gli occhi fissi e divaricati, terribilmente pallido, immobile. Lasciai ricadere la mano di Claudia che aveva il dosso voltato a suo marito. Allora Pilato fece uno sforzo sopra sè stesso, e si avanzò.
La tempesta del cielo annunziava le sue prime convulsioni. Un colpo di tuono scosse l'appartamento, un lampo lo rischiarò.
Pilato prese un aspetto sorridente. Venne dinanzi il letto di sua moglie, che lo guardò appena senza dare alcun segno di commovimento.
— Sei tu, diss'ella volgendosi dall'altra parte, a quest'ora?
— Scusami, amica mia, rispose Pilato. Ho incontrato due persone che cercavano codesto giovane, e mi sono indugiato un poco conversando con loro.
Levai gli occhi, in fatti, e scorsi nell'altra stanza, rimpetto alla porta, Justus e Bar Abbas.
Pilato, dopo le parole violente che aveva lanciate a Cypros, s'era subitamente contenuto, ed aveva domandato delle spiegazioni. Sembra che il solitario della torre Mariamna intrattenesse delle relazioni [172] intime colla giovine schiava. Tutte le sere, o quasi tutti i giorni, egli si recava nella stanza della Galla, a quell'ora avanzata della notte, e veniva a conversare con lei. Di che parlava Pilato con quella ragazza? Cosa aveva a dirle, con quell'aria misteriosa? Dio mio! Colla schiava Pilato andava a parlare di sua moglie. Le domandava i menomi particolari della giornata di lei, i suoi pensieri, i suoi desiderii, i suoi capricci, che so io! del vestito, del gioiello, del fiore, del riccio dei suoi capelli non ben fisso, dei vapori, delle collere, di mille nienti, e tante altre cose ancora.
«Questo Argo spia sua moglie, pensava Cypros; dunque non bisogna dirgliene niente!»
E Cypros non gli diceva niente.
Sopra tutto, Pilato era dilaniato dal silenzio assoluto che Claudia osservava sopra la sua persona. Cypros non ebbe mai a raccontargli che sua moglie si fosse occupata di lui, che avesse pensato a lui, o lo avesse nominato.
Cypros era ora côlta in fallo, ed in un fallo che ella stessa riteneva per capitale.
Cypros aveva dei begli occhi, che non risparmiava punto di adoperare. La mia carceriera non avrebbe forse desiderato niente di meglio che alleviare la mia vedovanza. Poteva ella pensare che Claudia ed io vivessimo come fratello e sorella? Tremò davanti Pilato; e confessò che io era nella camera da letto della sua padrona. Pilato ebbe come una vertigine. Poi si rimise, e venne.
— Questi amici hanno troppa fretta, rispose Claudia senza voltarsi. Giuda era per partire. Ma trovo impertinente ch'essi vengano a cercarlo, qui, alla mezzanotte.
— Scusa, amica mia, sono io che li ho introdotti [173] qui onde procurare loro il piacere di vedere il loro amico alcuni minuti più presto.
— Allora fammeli gettare alla porta a colpi di verghe.
— Ti domando grazia per loro. L'affezione è cosa sì rara.
— È vero, fece Claudia. Andate dunque e addio, o piuttosto a rivederci.
Pilato diede un passo indietro per lasciarmi passare.
— Procuratore, gli chiesi, hai ancora tua madre tu?
— E poi?
— Io sono stato arrestato una sera senza ragione, con una specie di tranello, in quel giorno appunto in cui una simile punizione, anche meritata, avrebbe dovuto essermi risparmiata.
— Non l'ho ordinata io.
— Ti credo. Mia madre però è stata informata del mio arresto. Io le dava ogni giorno mie notizie e ricevevo le sue, poichè la povera vecchia è ammalata, gravemente ammalata. Sono già dodici giorni ch'ella ignora la mia sorte.
— Ebbene?
— Ebbene, io vorrei andare a Gerico in questa notte stessa, all'istante.
— Chi vi si oppone?
— Tu.
Pilato ebbe un movimento altero d'impazienza.
— Le porte della città sono chiuse, ed io non potrei partire che domani.
— In fatti, è vero.
— Allora io ti domando, se è possibile, una parola d'ordine onde farmi aprire la porta di Bethlemme, ed uscire.
— Amica mia, disse Pilato riflettendo, hai tu qui ciò che occorre per scrivere una linea?
[174] — No, rispose Claudia.
— Sia, fece Pilato, ecco la parola d'ordine per passare: Claudia!
Claudia si voltò con un vivo movimento udendo pronunziare il suo nome. Non si sarebbe mai aspettata forse, che il suo nome fosse stato dato da Pilato. Questa impressione non durò per altro che un attimo. Claudia si girò di nuovo lentamente dall'altro lato.
— Claudia! osservai io, va bene. Grazie per mia madre, procuratore.
Dissi addio di nuovo alla bella Romana e partii.
Claudia e Pilato restarono soli l'uno rimpetto all'altro.
Ho conosciuti più tardi i ragguagli di questa orribile scena. Poteva egli mai pensare, Pilato, che un giovane di ventitrè anni ed una donna di ventiquattro fossero restati dieci giorni insieme per dirsi dei nonnulla durante tutto questo tempo e finire col cospirare d'accordo?
[175]
Pilato principiò col passeggiare per lungo e per largo nella stanza, osservando ogni mobile, e gli accidenti del letto, e del letto di riposo.
Ahimè! tutto ciò era vergine, in quella camera d'una impura.
Claudia comprese forse, e lo lasciò fare; forse era assorta in un altro pensiero. Infatti, repentinamente, balzò in piedi, corse allo specchio dinanzi al quale era una piccola lama d'oro sospesa fra due colonnine d'agata, e la percosse a diverse riprese, convulsivamente, con un piccolo martello d'acciaio. Poi ritornò al suo posto.
Al tintinnìo di quella piastra metallica, Cypros accorse. Sembrava stravolta dal terrore avendo indovinato da quello strepito la tempesta che agitava l'anima della sua padrona. Cypros si avvicinò tremante, pallida come una landa di neve al chiaro di luna.
— Raccomoda la rete dei miei capelli, disse Claudia con voce sorda e gli occhi fulminanti.
Cypros cadde alle sue ginocchia gridando:
— Grazia, padrona, io sono innocente.
Claudia fissò negli occhi della giovane i suoi occhi carichi di collera, affascinandola, inchiodandola ai suoi piedi, affranta dalla paura. Poi senza aggiungere [176] una sola parola, mise lentamente la mano ai capelli, ne tirò la spilla omicida, alzò il suo braccio e lo abbassò. Pilato vide quel movimento e si precipitò sulla mano di sua moglie. Arrivò troppo tardi. Il gioiello di Claudia aveva pugnalata la schiava delle Gallie. L'infelice Cypros si accosciò e cadde stesa sul tappeto, mormorando:
— Povera madre mia, tu morrai schiava.
Uno spruzzo di sangue saltò al viso di Claudia e lordò il suo bianco vestito. Ella contemplò per un momento quel cadavere, poi alzando lo sguardo sopra suo marito esterrefatto gli ordinò:
— Spingi col piede questa carogna sulla terrazza.
E ricadde sul suo seggio.
Pilato prese nelle sue braccia il cadavere della ragazza. Egli comprendeva ora perchè Cypros gli avesse nascosta la mia presenza presso di sua moglie. Si sovvenne delle ore di gioia che Cypros gli aveva procurate parlandogli di Claudia. Baciò castamente la fronte della povera vittima, e la depose sulla terrazza, ove il sangue fu ben presto lavato dalla pioggia che cadeva a catinelle. Un lungo sospiro che partì dal cuore, più che dal petto di Pilato, riassunse tutti i gemiti che il mondo serbava alla nobile creatura.
Pilato era atterrato.
Quest'uomo, sfuggito a tanti combattimenti, si sentiva soffocare d'orrore e di spavento, alla vista di quel sangue tirato dal cuore d'una donna, da una donna, con un gioiello.
Pilato era d'Hispalis (Siviglia), una delle quattro città della Betica, i cui abitanti godevano del diritto di cittadini romani. Suo padre si chiamava Marcus Pontius. In quella guerra di distruzione che Agrippa inflisse ai Cantabri (Biscaglini), Marcus si segnalò [177] forzando i suoi grandi compatriotti ad uccidersi in parte, tenendo poi mano alla vendita degli altri. Egli comandava quel pugno di rinnegati che volsero le armi contro i loro compagni di schiavitù, gli Asturii. La Spagna sommessa finalmente a Roma, — dopo due secoli di resistenza — Marcus Pontius ottenne come segno di distinzione il pilum o giavellotto, da cui la famiglia trasse il nome di Pilatus[13].
Lucius Pontius Pilatus, suo figlio, si attaccò a Germanico, col quale fece le guerre della Germania, e si trovò alla battaglia di Idistavisus (Hassembeck). Dopo la pace, Pilato ritornò in Ispagna. Ma ben tosto, stanco del riposo, venne a cercare a Roma il piacere, poichè Tiberio vietava la gloria.
Germanicus era perito in Siria per ordine di Tiberio. Ponzio si presentò a costui con una lettera di suo padre, che aveva combattuto con lui, allorchè egli era tribuno dei soldati nella Cantabria, e poscia in Germania. Tiberio l'accolse bene, troppo bene forse; poichè Ponzio era designato a Capri col sopranome di sposo di Tiberio[14]. Occorre però dire che nulla nella persona di Ponzio giustificava l'uffizio ch'egli avrebbe riempito presso il vecchio imperatore, e che forse fu Sejano a spargere quella voce onde screditarlo presso Claudia, di cui ambedue si disputavano i favori.
Ponzio aveva trentacinque o trentasei anni; statura media, l'aspetto severo, il colorito bruno, il corpo [178] magro. I suoi begli occhi neri, come pure la sua barba ed i suoi capelli davan risalto alla sua aria malinconica, e rischiaravano la sua fisonomia, la cui gravità toccava quasi alla durezza. La sua bella bocca dai denti bianchissimi raddolciva questo insieme che ispirava più rispetto che simpatia. Egli aveva, inoltre, maniere rozze e violenti movimenti subitanei, la collera pronta, il colpo spietato. I gusti suoi erano volgari; la sua intelligenza mancava di coltura. Mai, in tutta la sua vita, egli aveva letto un poeta, una storia un filosofo; e nondimeno il suo spirito era poetico, la sua anima triste e pensosa. Aveva delle passioni a sbalzi, passando senza transizione dall'orgia furiosa all'ascetismo d'un esseniano. La era ancora una natura selvaggia, cui la corruzione aveva sfiorata, contrariandola, lasciandole l'istinto del bruto senza darle la pulitura dell'epicureo e dell'effeminato. La sua gelosia raggiungeva la follia. Il riguardo del suo onore si elevava all'idolatria. Generoso quando la passione non tempestava, crudele nell'uragano del suo cuore e dei suoi pensieri. Egli amava la lotta contro il difficile; quella contro l'impossibile lo seduceva. Il sentimento della giustizia lo ispirava sempre; ma egli aveva un criterio della giustizia secondo la sua coscienza piuttosto che secondo il diritto e la legge. Maltrattava volontieri l'uomo; per la donna era rispettoso, galante, condiscendente, tenero anche, e cavalleresco. Uno sguardo di donna lo trasformava. Epperò durante tutto il tempo che restò in Gerusalemme senza Claudia non si disse molto male della sua condotta. Se non fu casto, fu riservato. Non gli si conobbe nessuna relazione amorosa; vivendo anzi molto rigidamente, preferendo stare in una torre, anzichè nel palazzo di Erode, in fra i soldati anzichè [179] fra gli schiavi dei due sessi che ingombravano la sua residenza; lasciandosi andare ai suoi gusti malinconici, evitando la gente, la luce, e correndo di notte pella campagna. Non era cosa rara l'incontrarlo dopo mezzanotte a cavallo, seguito soltanto dai suoi otto schiavi nubiani, muti come il fondo di un pozzo. Regalava generosamente. Rispettava il popolo vinto, più che poteva, quando Cesare o il popolo Romano non erano posti in questione.
Pilato aveva adesso un po' più di quarant'anni; ma il suo colorito bilioso, le rughe precoci, avevano fissato sul suo fronte un'età immobile; non era giovine, ma non invecchiava. Parlava poco ed ordinariamente con tuono secco e duro. Ma si abbandonava volentieri all'ironia, quando era meno triste, o al lirismo d'una imaginazione febbrile, quando era animato da una passione qualunque. Portava un lutto continuo; nessuno seppe mai di chi, nè di che cosa[15].
Eccolo ora di fronte a Claudia, giudice d'una donna che sembrava colpevole, eppure commosso e quasi tremante. Le braccia incrociate al petto, in piedi sulla soglia della terrazza, eccessivamente pallido, lo sguardo profondo immobile sopr'essa, egli attendeva una parola onde uscire dal cerchio magico del silenzio che l'attitudine fredda e sprezzante di Claudia tracciava a lui dintorno.
— Ebbene, sclamò ella finalmente, chiudi quella porta, e vattene. È tardi, sono stanca e voglio dormire.
[180] — Ti chiedo scusa, o figlia di Julia[16], di avere turbato le gioie della tua notte, rispose con calma Pilato. Vi sono stato spinto da quegli uomini.
— Non essere modesto, Pilato, riprese Claudia con un sorriso. Tu avevi cercato una moglie nella pozzanghera di Capri per ambizione; sei stato carnefice del paese che ti si era abbandonato a divorare: ora sei divenuto una spia. Sei perfetto. Sposo di Cesare, sei ormai degno d'uno dei piccoli pesci di Tiberio. Adesso possiamo consumare il nostro matrimonio.
Pilato balzò, e afferrando violentemente sua moglie dal braccio, gridò:
— Che cosa faceva qui, quell'uomo?
Claudia guardò in faccia a suo marito, senza turbarsi, poi colla mano sinistra, tirò lentamente la sua terribile spilla dai capelli, e trapassò il braccio di Pilato. Questi ritirò la sua mano. Claudia rispose freddamente:
— È il mio amante.
Pilato contemplò con aria distratta il suo braccio che sanguinava, e lo avvolse in un lembo della sua toga.
— È il tuo amante, dici? continuò egli. Io trovo un giovane nella stanza notturna di mia moglie, a mezzanotte, soli, baciandole le mani; ho due testimonii che possono affermarlo, ella stessa confessa che è l'amante di quell'uomo. Io potrei ucciderla, potrei divorziarmi da lei, potrei trascinarla dinanzi [181] i giudici e infamarla.... Infamare...! Claudia, io ti perdono.
Claudia tolse lentamente il suo anello dal dito, e mostrandolo a suo marito, gli domandò:
— Conosci questo anello?
Pilato l'esaminò, e gettandolo in mezzo alla camera, osservò con disprezzo:
— L'anello di Tiberio! Claudia aveva dunque mentito quando m'aveva detto che le veniva da sua madre.
Ella rispose:
— Potrei inviarti l'ordine, sopra un pezzo di carta suggellato da questo anello, di disonorarti, di esiliarti, di ucciderti, di abbandonare il posto di procuratore, alla vigilia d'una esplosione terribile di questo popolo, e di farti condannare come un vile o come un traditore.... Io ti lascio vivere. Io lavoro al compimento della tua infamia.
Pilato non l'aveva forse compresa, giacchè riprese come se parlasse a sè stesso.
— Al postutto, egli è giovine, è bello, è effeminato, ha mostrato del coraggio.... Se ella lo ama.... ciò è spiegabile. L'è giovine anch'ella, è bella, il suo sangue le fa violenza, la si annoja.... Dopo ciò che io aveva veduto, dopo quello che sapevo, dopo quel passato.... un amante solo, nel secreto della notte.... Oh, sì, sì, c'è un progresso nel bene, Claudia, perdonami, sono assurdo, sono pazzo.
— N'è vero?
— Che vezzi mi aveva io per sedurti? Straniero, rozzo, triste, senza nessuna di quelle eleganze della corte dei Cesari che abbagliano le donne, senza vizii clamorosi, povero, penetrato della modestia della mia posizione e del mio grado, troppo fiero forse.... oh! [182] io comprendo tutto ciò! un marito di questa qualità ha bisogno d'un complemento. Egli è il masso informe, l'amante è la statua.
— Puoi dire meglio: egli è il vaso, l'amante è il mazzo di fiori.
— Ciò che accadde, doveva accadere, continuò Pilato, passeggiando a passi lenti nella stanza, parlando a sè stesso, non vedendo più sua moglie, nè ascoltandola. Io l'aveva veduta; era un rovo, e come tale produceva delle spine.... Perchè mi stupirei adesso che questo rovo non produca delle viole? Pazzo! L'hai voluto tu stesso, miserabile! Oh! perchè non restai nel mio paese! Hispalis era così bella! Il suo bel fiume limpido come il cielo; il suo cielo trasparente come le pupille delle sue donne; i suoi giardini ove ondeggia la palma, ove s'apre il fiore dell'aloè, ove la rosa canta, l'arancio scintilla dei suoi profumi nelle notti imbalsamate.... era così bella Hispalis, dall'aere pieno di dolci suoni, dai giorni pieni di sogni, dalle notti piene d'amore, d'amore casto, puro, esclusivo, geloso, infinito, intero.... Che mi andai a fare in Roma? Che andai a cercarvi, disgraziato....
— Il favore di Cesare, ed una provincia da saccheggiare, interruppe Claudia con disprezzo.
— No: l'assassinio della mia giovinezza, del mio riposo, del mio cuore, della mia felicità, di tutto. Io non sono ora che l'ombra d'un uomo, ravvolto nel sudario dell'infamia. Mia madre lo diceva pertanto! Ella non avrebbe voluto che io ponessi mai il piede in quel carnaio delle virtù, dei diritti e dell'onore, che si chiama Roma. Ella m'additava per compagna una nobile ragazza, pura come l'alito delle nostre montagne, bella come le serate di Gades (Cadice). Io [183] non l'ascoltai. L'ho voluto. Di che posso ora lagnarmi? Ella ha un amante! Un solo amante, dopo Capri? Tu sei una vestale, o Claudia!
— Perchè non hai tu ascoltato i consigli di tua madre, virtuoso avventuriere?
— L'è il mio secreto e la mia vergogna.
— Te lo dirò io, il tuo secreto; te la farò conoscere io, l'estensione della tua vergogna. Arrivasti a Roma ebbro d'ambizione. Ti presentasti alla corte, che tutti giudicavano come un antro di sangue e di fango. La tua fierezza vi fa contrasto il primo giorno: Sejano se ne stupisce; Tiberio sbadiglia; Cajus Priscus corruga la fronte; Trasilio ne trasecola; Cajus Caligula ne rabbrividisce. Nessuno osa avvicinarsi a quella sconosciuta in quei luoghi, la fierezza! Nonostante il padrone, che osa tutto, la sfiora del soffio delle sue notti; ed il leone si cangia in majale.
— Tu pure, urlò Pilato fermandosi.
— Come tutti. I poeti ti hanno cantato.
— Sono infami.
— Forse. Ora, c'era in quell'antro una ragazza di diecisette anni, d'una bellezza affascinante, la cui influenza si diceva onnipossente sul cuore del padrone; di cui la storia era commovente, e la cui alta nascita condita di mistero. Tutto ciò, ti colpisce e ti esalta. Quella giovinetta aveva nelle vene del sangue d'Augusto. Che importa a te, che quell'imperatore sia stato trattato di effeminato da Sesto Pompeo; che Antonio lo abbia rimproverato di avere comperata l'adozione di Giulio Cesare a prezzo della sua infamia: che Lucio, fratello di Antonio, l'abbia accusato di essersi prostituito in Ispagna a Aulus Hirtius per trecentomila sesterzii; ch'egli fosse adultero, dissoluto, [184] che s'imbragasse nelle orgie delle dodici divinità ignude?... Egli era Cesare[17].
— Io non ci pensava.
— Veramente! Eppure quella ragazza aveva per madre Giulia: gli è tutto dire; e per padre un poco quello schiavo Telefo che cospirò contro Augusto, e un poco quegli altri schiavi Andasius ed Epicade che vollero rapirla da Pantellaria[18]. Che t'importava? La giovinetta era sempre della famiglia di Cesare. Serviva a Capri ai piaceri più vituperosi. Tu lo sapevi; più ancora, lo vedevi coi tuoi occhi. Che monta! la domandasti in isposa.
— Ecco il mio fallo.
— Credi? Ma Sejano la voleva egli pure. Il commediante Accius la domandava; il buffone Trullus, lo schiavo Parthenius, Nisia il mezzano la domandavano altresì. Perfino il grammatico Seleuco, Pansa il parassita, e Ortalus l'ombra, si posero della partita. Tiberio preferì te, o eroe di Hispalis. Quella gente gli sembrò pericolosa troppo per avere in moglie una nipote d'Augusto. Tu lo rassicuravi. Per te, un posto di procuratore nella più ignobile delle provincie Romane, bastava. Questo straniero, che veniva sì da lontano a battere alla porta della fortuna, doveva trovarsi soddisfatto d'intravedere la mano della nipote d'Augusto, e di andare a governare una provincia della Siria, sotto quell'ubbriacone di Pomponius Flaccus, che può a sua voglia licenziarlo come un servo. Tu restasti soddisfatto. Non restavi tu soddisfatto?
[185] — È questo il mio secreto, e la mia vergogna, ripetè nuovamente Pilato.
— Il tuo secreto, te l'ho già detto. Venivi a mendicare un posto, che ti si gettò in fra i regali pelle mie nozze. La tua vergogna ebbe principio da quel giorno. Tiberio non era ancor sazio. Gli piacevo ancora; lo divertivo ancora; io era ancora assai giovane, assai bella, assai abile ed a modo, sempre pronta, alla ricerca delle sue grazie. Io gli era una varietà nei suoi piaceri, a causa della grazia che imploravo a ginocchio, la faccia a terra, torcendomi dalla disperazione, a causa del rifiuto, e sperando sempre! Mia madre viveva ancora. Tiberio paventava un pericolo in quella figlia di Augusto, in quella esiliata che era stata sua moglie, e le cui disgrazie facevano dimenticar le vergogne. Egli mi ritenne. Io non era soltanto un balocco per quell'ignobile vecchio, ero un ostaggio. Ti diede il diploma di governatore, e conservò tua moglie. Tiberio era geloso; non li permise neppure di sfiorare le labbra della tua donna, di dirle addio, di darle uno sguardo d'amore. D'amore! oh ch'e' sarebbe stato bene al suo posto l'amore in fra lo sposo e l'Atalanta di Tiberio! Ti risentisti tu? no. Tu partisti.
— E tu protestasti, tu?
— Io? io ti disprezzava prima di conoscerti. Ma, dopo quel giorno, ti odio. Tu parli di vergogna? Hai ragione: essa sbucciava in tutto il suo rigoglio. Dapprima si era oltraggiata l'orfana, la figlia dell'esiliata, il rampollo sconfessato della dissoluta: oggimai, era la moglie di Ponzio Pilato, era la donna del procuratore della Giudea, che si disonorava. La voluttà era resa più sapida dall'insulto. L'insulto si levava alto, folgoreggiante. Esso non colpiva più una povera giovincella; [186] esso fulminava un rappresentante di Cesare dinanzi i popoli dell'Asia. Io mi meraviglio che Tiberio non t'abbia creato Re in qualche sito onde meglio assaporare le mie carezze! Bisogna ch'egli ti disprezzi molto, molto. Infatti egli mi ti ha dato come uno schiavo. La tua testa è in quell'anello. Ti sei tu ribellato contro i vituperii che t'inflissero? Parla, hai almeno protestato?
— No: ed e' son questi ancora una volta, il mio secreto e la mia vergogna.
— Vuoi ancora della vergogna? Ebbene, Sejano mi ha amata. Comprendi? Il domestico domandava gli avanzi del padrone.
— Basta, Claudia, esclamò finalmente Pilato fermandosi ritto inanzi sua moglie.
— Eppure io era bella, continuò Claudia, avrebbero potuto amarmi, interrogarmi. Chi sa? Mi avrebbero forse perfino stimata. Io valeva bene la pena, mi pare, che l'uomo che aveva ambito alla mia mano senza arrossire, avesse altresì aspirato al mio cuore, il quale non aveva detto verbo in tutto quel fetido mercanteggiare. Io era giovine, avrei forse potuto rialzarmi, riabilitarmi, giustificarmi dinanzi i santi lari famigliari, obbliare lo Stige di Capri sopra la testa pura, negli occhi innocenti dei miei figli. Avrei potuto piangere sur un fallo che non era il mio; espiare un'infamia che era forse una luce celeste, una lagrima di madre.... Dimmi, miserabile, cosa hai tu fatto, che hai tu tentato? Tiberio mi disonorava; tu m'hai infamata. Ti meravigli ora tu se adesso io ti odio? Con qual diritto mi domandi se ho un ganzo?
— Basta, basta, replicò Pilato. Potrei dirti una parola che mi giustificherebbe forse: disdegno di dirla. Sei libera. Non ti domando nulla, e non ti rimprovererò [187] più nulla. Che vuoi di più? Ho provato d'illuminare le tenebre del mio inferno. Non ci sono riuscito. Ho avuto torto di provare. Il raggio che invocavo, mi ha fatto sembrare il mio inferno più lurido, ed ho ucciso il mio diritto di rimproverare. Ed ora, segui la tua strada, o Claudia. Io torno indietro. Sono stato complice fin qui; gli è mestieri, ch'io mi renda ora degno di divenir giudice. Tu non mi troverai più nel tuo cammino. I miei giorni saranno foschi, le mie notti tempestose d'insonnia, la mia solitudine popolata d'una corte più implacabile. Ma io mi preparo il diritto di dirti un giorno: Basta!
— Questo giorno non arriverà mai.
— Lo credi: ma allora, Claudia, ricordatene, guai a te, guai! Non è il tuo anello che ti salva oggi: è la mia coscienza.
Così dicendo, Pilato uscì.
Claudia lo seguì dello sguardo, alzandosi dal suo seggio, poi ricadde mormorando.
— La sua coscienza! Che? la sua coscienza avrebbe finalmente degli occhi per vedere il nostro abisso? insorgerebbe essa alla fine? avrebb'essa risentito la scossa della mia? Tanto meglio. Conoscerà allora quanto io lo disprezzo, e quanto disprezzo me stessa. Amare un tal uomo! amare l'uomo che ha fatto del mio obbrobrio scala alla sua grandezza? Che delitto ho dunque io commesso, io sì giovane per meritare questo implacabile castigo? Sarei io dunque stata scelta per essere l'Ifigenia di tutte le scelleraggini di Cesare e della sua posterità?... O pure la sua coscienza gli rimprovererebbe... che? amore...
Claudia si alzò d'un balzo; era spaventevole nel suo pallore.
— Oh! allora veramente sventura! sventura! come egli ha detto.
[188] La tempesta spaziava a battaglia nel firmamento. Pilato traversò il giardino. Uscì dalla porta secreta, si diresse verso il posto ove i suoi nubiani l'attendevano, si coprì d'un mantello scuro che gli tenevano pronto, montò a cavallo, e facendo loro segno, ordinò:
— Andiamo.
Erano le tre ore dopo la mezzanotte. La città di Gerusalemme sembrava morta. Claudia che era uscita sul terrazzo per rinfrescarsi ai buffi dell'uragano vide passare, e sparire come fantasmi, nove cavalieri. Indietreggiando, urtò nel cadavere di Cypros. Gettò un grido e fuggì.
In quell'istesso momento, io varcava la porta del Gran Sacerdote, ed il ponte sul torrente di Gihon, giravo le mura della città, e lasciavo alla mia diritta la strada che conduce a Gaza e quelle che conducono ad Emmaus e a Joppa.
[189]
Rientrando, avevo trovato in casa una lettera di mia madre linfaticamente inquieta del mio arresto. Ne era stata avvertita con precauzione. Diedi ordine che si preparasse il mio cavallo immediatamente, e partii solo, all'ora istessa, malgrado la bufera che incominciava.
Mia madre mi annunziava che la partiva il giorno stesso per Bethlemme ove era chiamata da mia sorella, maritata in quella città e che si era allora sgravata del suo primogenito. Io seguiva la strada del mezzogiorno che conduce in Egitto, e la cui prima fermata di notte è la città di Dain. Costeggiavo il monte degli Ulivi per la via che lambe la valle del Cedron. Il ruscello era divenuto torrente, tumultuoso, rissoso, sussurrone, urtando come un cieco in tutti gli ostacoli, e trascinando seco tutto ciò che incontrava, alberi, ponti, carogne, roccie e viaggiatori. Al chiarore dei lampi io lo vedeva balzare sotto i miei piedi, bianco di spuma e rapido. Principiai poco dopo a varcare un seguito di colli e di piccole vallate che si succedevano discendendo e che io vedeva finire ai piè della montagna d'Elia la quale chiudeva l'orizzonte. Il mio cavallo, spaventato dai tuoni e dai lampi, non mi permetteva di avanzar rapidamente, quand'anche il cattivo stato delle strade e le tenebre della [190] notte non me l'avessero impedito. I Romani non avevano curato la via di Egitto come quella da Tiro a Damasco.
Avevo camminato circa una mezz'ora fuori della città, quando udii un rumore di cavalieri dietro a me, e me li vidi passare d'accanto come delle ombre scure. Io pensai, vedendoli galoppare così velocemente, che dovevano conoscere per bene la via, ed avere l'abitudine di percorrerla.
Intanto l'uragano infuriava. Non era più la pioggia che cadeva, ma grandine, erano ghiacciuoli larghi come la mano e duri come ciottoli. Il cielo sembrava un grande incendio, celeste e rosso, rischiarante l'universo che crollasse. A quella funebre luce, scorsi, in un incavo della collina, una casa nella piccola valle detta Berachah, ossia valle della benedizione. Riconoscendo l'impossibilità di continuare il mio viaggio a traverso quell'orribile scatenamento degli elementi, mi decisi a domandare colà un'ora di riparo. Io la scorgeva a qualche centinaio di passi da me, o piuttosto vedevo un grande quadrato di alte mura biancastre, guarnite di un torrione, in cima al quale rizzavasi un'ombra bianca. Nelle regioni remote del nostro paese, la sentinella su quella torre tiene il posto dell'hostiarium e del cane in mosaico presso i Romani. Avvicinandomi, distinsi perfettamente il guardiano che stava in alto al terrazzo. Allorchè fui arrivato alla porta, e' mi domandò che chiedessi.
Quella voce non mi sembrò nuova; ma io conosceva tante persone, ch'e' mi riusciva impossibile di precisare alcunchè. Risposi che desideravo pormi al coperto per alcuni istanti.
Mentre la sentinella dava l'ordine di lasciarmi entrare, distinsi sotto una tettoia dall'altro lato del quadrato [191] di muro dinanzi cui mi trovavo, diversi cavalli e cavalieri. Probabilmente erano gli stessi che mi avevano poco prima oltrepassato, e che senza dubbio avevano cercato essi pure un ricovero da quella demenza del cielo. La porta s'aprì e mi trovai sotto una gran vôlta che metteva in una corte.
La corte era scoperta. Una fontana di marmo bianco risuonava nel mezzo, circondata da un'aiuola di mirti e di fiori che potevo distinguere appena. Un largo porticato si sviluppava intorno al muro esterno sopra tre parti, poi questo muro correva lontano, e copriva la facciata di dietro, racchiudendovi così un vasto giardino. Una piccola casetta tutta bianca spiccava nel mezzo, avendo una bella terrazza al disopra del portico che precedeva la porta. Le finestre erano illuminate. Ma il servo che venne ad aprirmi, mi arrestò prendendo il cavallo per la briglia. Intanto la tempesta raddoppiava. Il servo m'offrì da mangiare e da bere. Rifiutai. Domandai a chi appartenesse quella casa, mi rispose:
— A Caius Crispus, comandante la cavalleria della 12.ª legione.
— È egli qui?
— È ad Antiochia.
— La casa per altro è abitata?
— Sì, da sua moglie: ed ecco perchè a quest'ora non si lascia entrar nessuno.
— Come chiami tu la tua padrona?
— Ida.
— È giovane?
Il servo non mi rispose e fu l'ultima domanda che mi permise di rivolgergli. Si vegliava nondimeno nella casa, poichè io vedeva disegnarsi e muoversi delle ombre dietro le finestre. Scorse una lunghissima [192] ora. La tempesta si calmò. Vidi allora passare sul terrazzo una figura di donna che veniva probabilmente ad assicurarsi se la pioggia era cessata. Rientrò presto; e un quarto d'ora dopo vidi un uomo ravvolto in un oscuro mantello, uscire, passare a diritta nel giardino, aprire una porta segreta e partire. Volli andarmene anch'io nell'istesso tempo. Lo schiavo mi trattenne. Cinque minuti dopo, udii lo scalpitare dei cavalli che passavano di galoppo dinanzi alla casa, dirigendosi verso Gerusalemme. Un quarto d'ora più tardi il servo si decise ad aprirmi la porta e lasciarmi partire alla mia volta. Il temporale era cessato.
Ogni sorta di fantasie mi danzava nel capo. Chi era quella donna? chi era quell'uomo? chi mi aveva parlato dall'alto della torricella?
L'aria fresca del mattino, il quale cominciava ad imbianchire, calmò i miei sogni. Io ascendeva il monte d'Elia. Ero intirizzito: ero tutto bagnato dalla pioggia. Quando arrivai alla cima del monte, il sole si alzava. Mi fermai per guardare a me d'intorno. Una folla di ricordi m'assalse, poichè io aveva sotto gli occhi il teatro degli episodi più memorabili della nostra storia.
Io amo risovvenirmi: quest'è un rifugio contro i propri contemporanei che hanno sempre torto. Poi l'è una cosa involontaria. Lo spirito viaggia senza attendere un congedo. D'altronde io ero all'istesso sito, nell'istessa ora forse, ove una moltitudine immensa di soldati, di popolo, di nobili, di sacerdoti, colle loro greggie, i loro servi, i loro schiavi, mogli, ragazzi, vecchi, a piedi sopra queste pietre roventi, sopra asini o sopra cammelli, guardavano per l'ultima volta il monte degli Ulivi, dietro il quale Nabuchadnezzar [193] prendeva il tempio, bruciava la città, saccheggiava e demoliva il palazzo di Sion, cacciando dinanzi a sè i saggi ed i profeti, Gionata e Geremia. La casa di Davide aveva cessato di regnare, Israel era disperso nella Siria, nella Media, al di là del Tigri, gettato in Babilonia. Quelli che restavano, gl'invalidi, gl'impotenti, quelli da cui il padrone straniero non aveva nulla a temere, avevano preso stanza sul Mizpeh, quell'altura al di là di Sion. Ma questi pure, dopo l'assassinio di Gedaliah commesso da Ishmael, videro da questo sito per l'ultima volta il cielo di Gerusalemme, giacchè nè la voce di Geremia nè quella di Baruc ebbero forza di persuaderli a ritornare sui loro passi. La voce del re di Babilonia tuonava più forte di quella dei profeti, e profeti, capitani, figlie del re, tutti andarono a chiudere i loro occhi in Egitto.
I monti di Gedor e di Gibeah mi circondavano. Ai miei piedi stendevasi l'Ephrath d'una volta, il Bethlemme d'oggi. Il torrente Cedron discendeva di gradino in gradino, di cascatella in cascatella, ed andava ad immergersi nel mar Morto, lì, in fondo, in quel piano celeste al di là del quale io scorgeva le montagne violette di Moab, ed il bianco profilo delle torri di Makaur. Da una parte, la pianura di Sharon dalle rose, verso Lod e la splendida baia di Joppa ed Askalun. Dall'altra, il deserto, Gerico, il Giordano dalle limpide acque. Nel basso, Bethlemme — quella verde collina, ancora risplendente ai raggi del mattino, adorna degli ultimi fichi verdi, dei pampini violetti, di cedri ed aranci, un mazzetto di giardini — di cui un labirinto di sentieruoli bianchi forma un delizioso e profumato saico.
All'estremità di questo ammasso di cubi bianchi, e [194] di pochi palazzi chiusi da una seria di catene, si rizza sopra un'altura un po' più lungi dalle altre abitazioni, fuori delle porte, una casa che pare un castello a grosse mura, residenza un tempo di Booz e di Ruth, poi di Davide, poi di Chimham. Ecco l'ancor candida tomba di Rachele. Ecco le grotte ove David si nascose, ove dormì Saul, ove qualche volta ripara la iena, ed ove una folla di pastori e di greggie sfuggono alle morsure del sole. Ecco le colline ove David custodiva gli agnelli di suo padre, apprendeva ad uccidere giganti, a raggiungere i lupi ed i leopardi alla corsa, a suonare l'arpa, e ove s'inebbriava della rugiada dell'empireo, che distillava poi in salmi ed in cantici.
Pare ancora di vedere sopra la marna rossastra delle fessure e dei solchi della roccia, l'impronta dei piedi di Rachele, quando, venendo dalla casa di suo padre, fu sorpresa dai dolori del parto e morì col suo bimbo. Sembra di vedere tutt'ora le traccie di Saul quando andava ad interrogare la maga di Engadi. Ecco il campo di Booz, il quale seguendo i mietitori, guardando le gambe ignude delle spigolatrici, osservò la sua nipote Ruth, che sua suocera introdusse una notte sul suo letto di covoni. «Va dunque, lavati, profumati, metti i vestiti del Sabbato e scendi nei campi.» Ruth, la Moabita, era, come la mia Maria di Magdala, Galilea. Booz la lasciò spigolare, lasciò che si avvicinasse all'ombra ove egli pranzava in mezzo alle sue genti, lasciò che bevesse della sua acqua, permise che inzuppasse il pane nel suo aceto, e.... si risvegliò una mattina nelle sue braccia.
Le notti di Bathlehem hanno risuonato delle canzoni di David, dei gemiti della bella Moabita, dei [195] ruggiti di Saul: i suoi silenzi covano i terrori di Samuele e di Geremia. Gli è dinanzi quella tomba di Rachele che Saul s'inginocchiò, e si rialzò re. Gli è da quella valle di Cedron, che David si salvò dalla ribellione di suo figlio Absalon, il fratello di quell'Amon che amò sua sorella Tamar.
Tutto ciò si agitava nel mio spirito e sotto i miei occhi quando arrivai, a mezzo giorno, nella casa di mia madre.
Mia madre, tutta intenta al bimbo appena nato, si accorse appena della mia presenza. Lasciò sfuggire un oh! lungo come la strada delle Indie, e continuò a preparare non so qual bibita confortante composta di vecchio Chios, latte e miele. M'affrettai del resto a tranquillarla, dicendole fin dalla prima parola, che ero stato arrestato per un equivoco. Tutti i parenti ed amici di mio cognato vennero la sera a bezzicare qualche bricciola di notizie della metropoli, e chiacchierare sopra gli spettacoli del circo, di Claudia, di Pilato, di Flaccus, di Hannah, sulle stragi del giorno dei Tabernacoli, di tutti e di tutto. All'indomani non avendo più nessuno da rassicurare sulla mia sorte, nè notizie da propagare, me ne tornai a Gerusalemme.
La giornata era bella e calda quantunque fossimo già al principio di marchesvan (fine di ottobre). Le api lavoravano ancora. Le farfalle imperlavano ancora il cielo delle loro ali. E il cielo nettato dal temporale del giorno prima, confondeva il suo azzurro profondo con la pupilla divina. Il Cedron cinguettava ancora colla sua striscia argentea, cercando taccoli ai ciottoli candidi e rotondi, ed agli sproni rocciosi delle montagne che lo indicavano. L'aspetto di quei poggi scaglionati a forma di scala, dal piano all'alto [196] di Sion, era tristo, ignudo: si sarebbe detto avessero la calvizie d'una vegetazione perduta. Dalla cima di una di quelle alture, verso mezzogiorno, immersi alla fine lo sguardo nella piccola valle della Benedizione, civetta come una fanciulla da marito.
In mezzo a tutte quelle roccie calcari, grigie e rossastre, quel boccon di verdura e di fiori, che pareva lì preparato sopra un bacino di marmo, rallegrava lo sguardo meglio di una festa. Un'alta muraglia inquadrava e nascondeva il giardino e la casa. Due torricelle fiancheggiavano la porta d'entrata, ma questa volta nessuna guardia vi vegliava. La casa in pietre bianche, si apriva sur un portico di marmo rosso, che si trasformava in terrazzo al dissopra. Il gran porticato a colonne di granito grigio e nero, che si addossavano interiormente su tre lati al muro esterno, mi sembrava lastricato di marmo bianco e rosso. La fontana nel mezzo della corte era in marmo bianco, circondata da un labbro di terra, coperta di fiori a varii colori. Una statua di donna genuflessa portava la coppa di porfido, dal cui centro si slanciava un filo d'acqua molto in alto e ricadeva dagli orli della coppa della vasca come un velo d'argento. Dei vasi di maiolica, con degli arbusti fioriti, coronavano le aiuole. Il giardino era uno spicchio di cedri e di aranci.
Provai tutte le tentazioni del mondo che mi spingevano ad introdurmi di nuovo in quella dimora, così poco conforme ai nostri costumi ed all'architettura giudea. Avevo pensato tutta la notte, tutto il giorno, lungo tutta la strada, a quella casa, alla donna che l'abitava. Avevo immaginato mille pretesti per penetrare là dentro. Arrivato alla porta, trovai tutte le mie ragioni stupide, la mia associazione d'idee [197] assurda. Passai oltre, ma col progetto deciso, che ormai, qualunque fosse lo indirizzo dei miei viaggi a levante o a ponente, al mezzogiorno od al nord, io passerei per quella strada, dinanzi quella casa, in attesa dell'occasione.
Dimenticavo di aggiungere, che, dall'alto del mio osservatorio, avevo veduto passeggiare all'ombra di un boschetto d'aranci, una forma bianca, la quale m'aveva tutta l'aria d'esser una donna. Poi, quei cavalieri della notte precedente m'avevano avuto l'aria di somigliare molto agli otto nubiani di Pilato.
Ruminavo ancora su tutto ciò, allorchè mi trovai senza pensarlo dinanzi la porta di Maria. Appena fui scôrto, le porte s'aprirono, e tutti i domestici della mia amante mi si precipitarono intorno. Avevano l'aria costernata.
— Cosa è accaduto? domandai commosso alla mia volta.
— Egli è che la padrona, disse Sara, è uscita da due giorni e non è più rientrata.
— Non più rientrata?
— L'abbiamo attesa giorno e notte.
— Da due giorni?
— Ha lasciato una lettera per te, o padrone, sopra il tavolo della sua stanza da letto.
Entrai lentamente nella casa, quasi acciecato da un sospetto che mi passò per la mente.
— Ella amava Justus, dissi a me stesso.
Sara m'accompagnava raccontandomi, come il giorno precedente, all'alba, Justus era venuto ad annunziare a Maria che io era libero, e che avevano conversato insieme alcun tempo, che Justus aveva baciato Maria sulle guance, e che si erano lasciati dicendosi: A questa sera!... Poi, che Maria s'era vestita [198] di ciò ch'ella aveva di più vecchio e di più semplice, che aveva preso pochi sicli soltanto, scritta la lettera ed era uscita senza dir nulla a nessuno, sola coperta da un velo nero che la nascondeva completamente, e che non era più ritornata.
Presi vivamente quella lettera, e lessi:
«Addio, Giuda. Tu non mi ami più. Avrei avuto il diritto di lasciarti e di cadere nelle braccia che mi si tendono da lungo tempo per accogliermi e stringermi con delirio. Non voglio macchiare la tua memoria; ciò che avrei forse fatto in un momento di dispetto e di gelosia, se io fossi restata. Tutto ciò che v'ha qui, t'appartiene. Io ti lascio. Non voglio conservare di te altro che il sogno ardente e puro dell'amore che ti ho dato, che avrei continuato a darti, e che tu non potevi più rendermi. Addio!»
Questa lettera così secca, così fredda e così ardente nell'istesso tempo, mi cadde dalle mani. Mi lasciai andare sopra il letto. Se quella lettera mi fosse stata scritta da un'altra donna, l'avrei presa per un tranello. Ma conoscevo il carattere franco, risoluto, spiccato della giovane Galilea. Quelle poche parole di addio mi strinsero il cuore. Restai diverse ore assorto, rimuginando nella mia memoria la storia di questo amore spezzato in modo sì repentino. Io non aveva a fare alcun rimprovero a Maria per consolarmi dei suo abbandono; ne aveva diversi da fare a me stesso. Io perdeva il mio cuore a riposo. Perdevo un sorriso sempre pronto a rallegrarmi, una parola sempre vivace per tirarmi dal dubbio. Quell'amore bravo, disinteressato, leale mi aveva cullato per un anno in una felicità senza enfasi, ma senza parsimonia. La sua gentilezza ingenua, l'affetto, che la civetteria [199] faceva risaltare come fa un color vivo d'uno più dolce, l'attaccamento sì semplice come quello di una sorella.... avevo perduto tutto ciò. E perchè? e per chi?
Il colloquio ch'ebbi la sera stessa col sagan mi ricondusse ad altre idee. Io non gli dissi una parola di ciò ch'era accaduto fra Claudia e me, nè degli accordi presi. Asserii di esser venuto fuori dalla prigione, cui la moglie del procuratore aveva reso clemente, onde ricompensarmi del servizio resole nel circo, e che mi aveva per ciò fatto risparmiare da suo marito. Il sagan mi raccontò la discussione dell'assemblea riunita in sua casa all'indomani del mio arresto, e le risoluzioni che vi erano state prese.
— Il consiglio è buono, gli dissi. Viene da Jeù l'esseniano. Lo conosco, e bisogna ascoltarlo. Io stesso avevo pensato di trovare un uomo adattato, e di farne un messia bene istruito, e ben famigliarizzato con la nostra opera.
— Giuda, figliuolo mio, disse Hannah, tu non sai ciò che proponi. Un profeta è la bestia la più cocciuta dopo il mulo, se dobbiamo credere all'esperienza che ne fecero i nostri padri. Non è difficile d'improvvisarne uno, imbeccato convenevolmente. Ma diviene quasi impossibile di sbarazzarsene quando non se ne ha più di bisogno. Finiscono tutti per lavorare per proprio conto.
— Oh! non aver timore di ciò, risposi io. Se dopo averci servito, il nostro profeta non vuol abdicare volontariamente, prendendo egli stesso l'iniziativa, m'incarico io di farlo sparire. Ma ciò che mi pare più problematico, gli è di trovare un messia a modo, che rappresenti fedelmente la sua parte, e che sia per noi ciò che la favella è pel pensiero. Trovi tu la stoffa di un tal uomo in Gerusalemme?
[200] — Proprio no.
— Ed io neppure. E soggiungo che, quand'anco uomo da tagliarvi un profeta si trovasse nella nostra città, bisognerebbe lasciarlo da parte. Lo si conoscerebbe di primo getto e lo s'indovinerebbe subito. Egli non avrebbe alcun ascendente sopra il popolo. Da ogni parte gli direbbero: Ma io ti ho veduto sacerdote, sarto, mercante, falegname, conciatore di pelli che so io?[19] Bisogna che un profeta caschi dalle nuvole, venga di lontano, ch'egli si faccia passare per figlio d'un agnello, o di Dio, parlando con Dio entro una botte, o sopra una montagna. In breve occorre l'incognito che si diverta ad impanicciar dell'impossibile.
— Ne convengo anch'io, disse il sagan, ma sono dieci giorni che ci penso sopra, e non trovo la strada da uscirne. Vuoi tu farne discender uno dalla luna o farlo arrivare dalle Indie, dall'Egitto, o da qualunque sito meglio ti piace? Io non posso che pagarlo.
— Credo di aver trovata la strada che cercate. Ho in vista qualcosa. I profeti ed i messia non mancano sul suolo della Giudea, ove sono una produzione indigena, e credo quasi esclusiva. Se posso decidere colui a cui miro a divenire un'eco, e cessare d'essere una voce, l'affare sarà buono, non costerà nulla, e non andremo molto lungi per comperarne la semente. [201] Vuoi lasciarmi preparare questa faccenda a mio piacere?
— Non domando di meglio, ragazzo mio, che tu mi liberi da questo incubo di profeta che da qualche tempo turba le mie notti. Io non sogno più che di Samuele che accoltella Abimelech, di Ezechiele che pranza poco pulitamente, di Balaam che parla con le asine.... Oh! chi mi sbarazzerà da questa cattiva società?
— Io. Sta bene: parto domani, e confido di riescire.
— Dove vai?
— Non so ancora. Forse mi spingo fino al Cairo, fino a Rodi, fino a Roma, fino nelle Gallie; insomma, non ritornerò senza condurti per le orecchie un profeta.
— Hai bisogno di denari?
— Sì, e no. Sì, se passo il mare.
— Siamo intesi allora, disse Hannah sorridendo. Procura almeno, onde coltivare il favore delle donne, che il tuo messia non sia troppo brutto. Se le donne si mettono della partita, il tuo messia avrà un successo pazzo.
— Magari! in ogni caso, ne terremo in pronto uno di ricambio.
Rientrando nella mia casa, diedi gli ordini per partire all'indomani, al levar del sole. Ma il sole non era ancor levato che già Bar Abbas arriva da me, tutto bardato come per mettersi in viaggio.
— Da bravo! gli dissi, dove vai tu dunque?
— Lo vedi: alla caccia con te.
— Con me! grazie tante. Non mi piacciono i segugi che abbaiano.
— Tacerò.
— Non amo i cani che azzannano il selvaggiume.
[202] — Guarda: non ho più denti. Appena se posso rosicare i pranzi che mi contrastano e che devo prender d'assalto.
— Allora, lasciami in pace: io vado alla pesca.
— Non potevi cader meglio: ti preparerò gli ami.
— Sai pescare la balena all'amo, tu?
— Non ho fatto altro in tutta la mia vita, per Bacco!
— Avresti fatto meglio a pescare dei sorci, ed educare delle rane pel Tempio.
— To'! l'è un'idea questa: al mio ritorno creerò questa industria. Il Signore deve amare la zuppa di rane, sopratutto quando le rane sono dei rospi svestiti.
— Buon viaggio allora. Noi non prendiamo l'istessa via.
— Precisamente l'istessa.
— Io vado a sacrificare dei conigli al tempio di Girizim in Samaria.
— Vado pazzo per l'intingolo di coniglio; ma non voglio bene a Giove. È brutale: ha dei gusti troppo singolari.
— Finalmente, ove vuoi venirne?
— Ho veduto il sagan ieri sera. Mi ha raccontato la conversazione che avete avuto insieme. Sono anch'io dell'affare. Che diamine vuoi tu ch'io mi faccia a Gerusalemme, quando c'è da trar partito in un altro sito del commercio dei profeti?
— Quella bestia non sa dunque custodire un secreto?
— Come! come! Non ti fideresti di me, forse? D'altronde, io ho appoggiato la proposizione quella sera che la fu fatta. Io me n'intendo di codesta mercanzia. Ne ho praticato poi tanti nelle Gallie: credo [203] anzi d'aver un giorno mangiato un pezzo di profetessa arrosto. Ti racconterò la cosa come avvenne, per istrada. Ti annoieresti a morte, solo, in codesta spedizione. Tu non hai l'istinto del bracco.
— Lo vuoi proprio?
— Ho persino promesso una visita ai figli di Giuda e di Gamala.
— Sia dunque: ma ad un patto.
— Fammelo dolce, codesto patto.
— Che quando io discingerò la mia cintura, in qualunque sito si sia, e con qualunque persona io mi sia, senza dir motto, senza obbligarmi ad aprir bocca, mi lascerai solo.
— Ma se la discingi codesta cintura per causa d'indigestione.
— Non voglio repliche. Io conduceva meco un servo, ne conduco due.
— Ti prendo in parola, Giuda. Dà dunque ordine che mi apparecchino un mulo per metterci in viaggio entro mezz'ora.
— Eh?
— Che si ponga inoltre sul cammello una tenda e tutti gli arnesi necessarii per allestire il pranzo, e per dormire. Traverseremo forse il deserto. Sopratutto del buon vino. E delle armi. Le iene, alla notte, non sono come le damigelle dell'angolo della strada che si lasciano accarezzare. Poi, una pelle dolce per coricarmivi, e delle coperte per guarentirmi dal fresco del mattino. Che mi si prepari inoltre un mantello più caldo. Non so quanto tempo resterò in viaggio: il mese di tevet ha dei giorni piovosi, e delle notti agghiacciate.
— Hai finito, bestione?
— Triplo bestione, se vuoi: ma ascolta i consigli d'un uomo che durante trent'anni ha corso il mondo.
[204] — M'hai capito?
— Io spiego i geroglifici delle Piramidi: vedi un po' se posso capir te!
Un'ora dopo uscivamo dalla porta Dorata, passavamo sul ponte del Cedron, lasciavamo alla dritta la strada che conduce a Engadi ed al mar Morto, prendendo quella che mena a Gerico ed al Giordano.
Incominciammo una discesa interminabile di escrescenze rocciose, scaglionata come i gradini di una scala che va a metter capo al deserto. La vista è squallida, il paese pietroso e selvaggio. Vi si incontrano più sovente le pantere e le iene, che l'erba e gli arbusti. Qualche felce, e qualche ginestro squarciano qua e là le grigie roccie. L'orizzonte immenso, il sole festoso, il cielo scintillante di raggi di oro. Nel basso, la desolazione; in alto, lo splendore.
— Vorrei proprio sapere, diceva Bar Abbas, perchè i nostri padri sprezzarono tanto Babilonia e l'Egitto, per ritornarsene in questa lugubre e sterile solitudine. Puoi tu dirmelo, Giuda?
— Probabilmente, perchè in Egitto vi sono troppi Egiziani color zafferano, ed i nostri padri erano annoiati di vederne tanti.
— Io non trovo ch'e' fosse più divertente il vedere un naso adunco che fa la scolta sopra una lunga barba sotto il dominio d'uno sporco caftan, ed un lembo di cuoio bilioso, spaventato da due avide pupille — ciò che si addimanda un Giudeo. I nostri padri ebbero altre ragioni per abbandonare la cuccagna d'Egitto.
— Allora sarà perchè le donne del paese putivano troppo la cipolla.
— Bisognava mangiar dell'aglio e confondere le due essenze.
[205] — O che avrebbero avuto paura dei coccodrilli?
— Il coccodrillo è l'esagerazione della lucertola. Un coccodrillo, lo si vede sempre; non così una lucertola. E nel nostro paese ce ne son tante, che quando dormo in casa mia, il mattino, svegliandomi, me ne trovo piena la barba, ove son venute a deporre i lor piccoli durante la notte.
— Sarebbe forse perchè i nostri padri erano scandolezzati di veder Dio sotto la semplice attillatura di un cane?
— Avrei preferito, io, di avere un cane dio, piuttosto che averlo così vicino, codesto cane, che se volgo gli occhi soltanto, mi acchiappa il pranzo.
— In questo caso t'incarico d'indovinarlo tu stesso, perchè io non comprendo la preferenza.
— Io non ne trovo che una di buona fra tante ragioni....
— Quale?
— Che Zipporah, la moglie rabbiosa di Mosè, si annoiò di contemplare i trentanove secoli che la contemplavano dall'alto delle piramidi....
— Dev'essere diabolicamente vecchia quella figura di trentanove secoli, arrampicata ed accoccolata là in cima, a sbirciare la gente.
— Appunto, ed ecco la donna civetta volle darsi la distrazione di viaggiare.
— E siccome aveva paura delle tigri del deserto, persuase suo marito di prendere per compagni di viaggio i suoi compatriotti.
— Questo non si trova, in ogni caso, nei nostri libri santi. Ma siccome è Mosè stesso che li ha scritti e' non ismaniava di scoprire i secreti di casa sua.
Verso l'ora sesta, arrivammo all'ospizio del Samaritano, in cima ad una brutta e squallida collina. Era [206] la sosta per la notte, a mezza strada fra Gerusalemme e Gerico. Di là a Gerico occorreva una giornata, dappoichè e' non era punto sicuro, neppure pei viaggiatori a cavallo, di continuare la strada dopo il tramonto del sole, a causa delle bestie feroci che scorazzavano il paese. Queste case di riposo, là dove c'è un villaggio, sono una specie di annesso a quella del capo di questo villaggio, il quale ha il dovere di proteggere l'ospite e lo straniero. A Betlemme per esempio, è nell'antica casa di Booz, di David, di Chimham fuori di città, che i viaggiatori trovano il ricovero notturno, al punto ove s'incrociano le vie di Gerico, Erodion, Engadi e Tekoa. In mancanza di villaggi, ad ogni sette od otto miglia romane, la pietà dei buoni uomini, la previdenza delle tribù, o la magnificenza dei principi hanno fatto costruire questi alberghi che non rassomigliano punto a quelli che s'incontrano sulle grandi strade romane.
Un'immensa cinta di solide mura, fiancheggiata da scuderie, o da tettoie fatte con rami d'albero, per le bestie e pegli uomini, allorchè v'è folla, come al tempo delle feste di Gerusalemme; un gran cortile con un truogolo; una fila di arcate aperte dai quattro lati[20]; talvolta una torre per vegliare sulla sicurezza dei viaggiatori; un uomo che veglia sempre alla porta: ecco i nostri alberghi giudei.
Questo asilo è sacro come una sinagoga. È aperto per ogni sorta di gente, d'ambi i sessi, di tutti i paesi. Non si paga nulla, ma non vi si riceve nulla, all'infuori dell'ombra, del riparo, della sicurezza contro i malandrini. Sotto le arcate, i mercanti s'affrettano a mostrar le loro mercanzie, l'ambra del mar Baltico, [207] lo giojellerie di Alessandria, le spezie dell'Arabia, e le essenze preziose dei giardini di Moab. Qui, dei viaggiatori si lavano le mani; là, degli altri tiran fuori dai loro sacchi gli alimenti belli e preparati, o gli arnesi per prepararli. Da un'altra parte, le persone stanche stendono per terra una pelle di montone, una stuoja, un tappeto, un pugno di foglie o di paglia, ciò che hanno in fine, ed avviluppati nei loro mantelli, o nelle loro coperte, si dispongono al riposo. Altri s'affrettano a caricare sopra i loro asini e i loro cammelli, le loro donne, i figli, le mercanzie e partono. Si va e si viene come si fosse in casa propria.
Trovammo posto in questo asilo abbellito e ristaurato dal re Erode, quantunque affollato ancora a causa di quel resto di popolo che era stato alle feste del Tabernacolo a Gerusalemme, e vi aveva fatto un più lungo soggiorno. Incontrammo pure un gran numero di convalescenti fra queglino che furono colpiti nel giorno del tafferuglio per l'offerta. I pedoni passano quivi la notte. Pranzammo in mezzo al tumulto causato dalla petulanza, l'importanza, e la sfrontataggine di Bar Abbas. Pareva egli un imperatore che viaggiasse incognito.
Finito il pranzo, continuammo a scendere e montare le colline che conducono al Giordano, costeggiammo monti petrosi, e ci riposammo per bere alla fontana Elisha, vicino alla valle limitata dalla via romana che mena a Gerico. Il sole tramontava, ed avevamo sotto gli occhi i sobborghi della città — uno sciame di casuccie bianche in mezzo ai sicomori — e la superba città di palazzi, festosamente adorna di piante balsamiche ed odorose.
Gerico è la città amata da Cleopatra — da Cleopatra che aveva Menfi ed Alessandria; — la città [208] preferita da Erode, che possedeva Gerusalemme, Cesarea, Ptolemaide e ove egli visse ed ove morì. Le torri, le porte, i teatri ricordavano una di quelle belle città d'Italia ove la vita non ha altro scopo che di divertirsi nei circhi, di mendicare il pane presso i padroni, e di andare a saccheggiare il mondo. I giardini d'aranci, di datteri, di melagrani circondavano i bastioni della città; e rose la profumavano. Al di là dei muri, l'anfiteatro; al di dentro, dei portici, delle sinagoghe, un tempio a Zeus, dei palazzi da re. A Gerico non sai più se ti trovi sui Nilo, o nelle isole dell'Arcipelago. Più lontano, c'è quella splendida residenza d'Erode, ch'egli chiamò Erodion (il Versailles di quel Luigi XIV).
A notte fatta, traversando le vie gremite di popolo, discendemmo nella mia casa o meglio in quella di mia madre. Mia sorella maggiore, la vedova, mi ricevette nelle sue braccia.
All'indomani ero alzato col sole. Andai a svegliare Bar Abbas e gli dissi:
— Su, in piedi.
— Di già?
— Che! vorresti farne la tua Capua, di Gerico?
— No, la mia mangiatoja. Io vi stava così bene. Tua sorella prepara così deliziosamente il farsito di coniglio alle olive ed al rosmarino.
— Avrei ancor meglio.
— Cosa dunque?
— Degli intingoli di locuste, delle locuste col sale, delle locuste con olio e aceto, delle locuste col miele.
— Dove andiamo dunque, Dio mio!
— Al deserto: a far visita al Battista.
— L'aveva già pensato. Tu hai il fiuto per stanare i bricconi.
[209]
A pochi kibrat barat (miglia) fuori delle porte di Gerico entrammo nella pianura che è una prolungazione del deserto della Giudea.
Questo deserto che fummo costretti a traversare, principia alle porte di Gerusalemme stessa e di Hebron, si stende al di là ed al disotto di queste città al sud ed all'ovest, e copre i declivi della Giudea, dalla cresta dell'altipiano dell'Ulivo e di Ramah fino alla fonte Elisha, ed alle rive dell'Asfaltide — il mar Morto. Betlemme e Gerico sono rinchiusi in questa regione selvaggia come due sorrisi nella tristezza, e l'Erodion brilla colle sue colonne, i suoi portici, i suoi giardini e coi suoi appartamenti voluttuosi, in cima ad un colle fra le due città, come una stella in mezzo alle nubi. Noi andavamo a Bethabara, al passo del Giordano, o un po' più lungi, a Ænon presso Selim. La pianura che traversavamo, è un mare di sabbia bianca e solforosa che si alzava in polverio sotto i nostri passi e ci avviluppava, affaticando gli occhi colla sua implacabile tinta, ed il respiro per infiltrazione nei nostri petti. Montagne in faccia e montagne ai lati. Le fortunate pioggie dell'autunno avevano rinfrescato l'aria sì pesante di questa valle soffocante. Nessun vestigio di vegetazione, nè un albero nè un'erica, nè un'erba non [210] rallegravano la vista. Degli avvoltoi facevano circolo solennemente sui nostri capi. Lo sciacallo fuggiva spaventato e gemendo.
— Non c'è più dubbio, noi andiamo a vedere quel Johanan il Battista, che i suoi discepoli danno come un essere risuscitato, sclamò Bar Abbas.
— Precisamente.
— E cosa vuoi tu fare di quel bagnaiuolo burbero ed irascibile?
— Proprio nulla. Mi compiaccio a vedere le bestie curiose.
— Guardale, guardale, ma non lasciartene infinocchiare. Le bestie curiose sono sempre pericolose. Il shiloh di cui andiamo a caccia non è mica nella pelle del Battista. Riflettici. Noi altri delle sêtte militari, Goloniti ed Erodiani, non comprenderemmo codesti manipolatori di bisticci. Per noi ci vuole un Giuda Macabeo, un Giuda di Gamala, un Erode che percuota forte, e non si diverta a raccontare parabole. A voi altri, Sadducei, occorrerebbe un Davide od un Salomone, educato alla scuola di Babilonia, incivilito a Roma ed in Atene, che abbia accomodati in versucoli i rozzi libri di Mosè. I Farisei sognano un soldato, un principe, un giudice più valente di Gedeone, più fortunato di Sansone, reso maneggevole alla scuola di Hillel e di Shammai. Tutto codesto, tutti costoro possono combinarsi, accordarsi. Ma che diavolo vuoi tu che facciamo di un negrognolo in camicia di pel di cammello, che si fa chiamare voce nel deserto, e che viene a parlarci di figlio di Dio, d'agnello divino, del verbo della vita? che ci spinge alla penitenza, al pentimento, al battesimo? Penitenza di che? Perchè codesto battesimo? Siamo forse pagani noi?
[211] Bar Abbas aveva completamente ragione. Nondimeno siccome io non voleva dargli l'importanza di un consigliere, nè dirgli che io non cercava un shiloh, ma la stoffa di un profeta per farne una bandiera del nostro colore, un shiloh che ripetesse la nostra lezione, un messia che venisse a prendere il moto d'ordine della sua parola di Dio nel nostro gabinetto, così allargai la mia cintura. Bar Abbas comprese e si tirò indietro brontolando.
Arrivammo sulle rive del Giordano. Ma siccome il suo largo letto è disceso diversi piedi al disotto del suo antico livello, non fu che quando ne fummo ben vicini, che potemmo scorgerne l'allegra frangia di verzura, di canne, di fichi enormi, di tamarindi, d'acacie, e di roveri che ne adombrano le sponde. Il suolo è seminato di sale. Il Giordano si svolge in una fessura del piano e congiunge come un tratto d'unione il lago di Genesareth al mar Morto, quel bacino di smeraldo, a questo Etna ringhiottato e cangiato in una coppa di zaffiro.... Al punto ove eravamo, a Bathabara, vicino a Gilgal, ai piedi d'una montagna, il piano ombroso era seminato di capanne di canne e giunchi coperte di rami d'alberi; ma esse erano vuote. In quel sito — il guado ove Giosuè, le dodici tribù e i suoi quarantamila combattenti passarono dal paese di Moab nella Cananea — la corrente ha formato una sbarra di pietre e di marna sopra la quale l'acqua mormora e scorre in una specie di bacino. È là che Johanan battezzava. Ma l'autunno essendo avanzato, egli aveva abbandonato il fiume. Ne fui contrariato. Bisognava ora traversare il deserto, costeggiare la punta orientale del mar Morto ed andare a cercarlo nella sua caverna del Cedron sotto Betlemme, e forse fino a Jutta nel suo villaggio natìo.
[212] Mentre io visitava le capanne lasciate vuote dai credenti del Battista, — che Bar Abbas chiamava dei bagnanti, — accorsi da Gerusalemme, da Betlemme, da Gerico, da tutte le parti, Bar Abbas preparava il pranzo in una di esse. Egli non aveva alcuna ragione di serbar rancore; e, ne avesse pur serbato, un grasso e grosso pollo arrosto, dell'uva di Betlemme, delle fette di mele del Libano, del pesce fritto, delle olive salate l'avrebbero calmato. Dei lunghi amplessi ad una piccola otre di vino finirono d'annegargli nello stomaco il cattivo umore.
A mezzo giorno eravamo di nuovo in cammino.
Andavamo a traversare il paese abitato dai figli abbronzati di Esaù, ove gli Esseniani dimoravano nelle grotte, in mezzo d'una contrada selvaggia, rocciosa, abrupta, di pozzi disseccati e di caverne di bestie feroci. Seguivamo la traccia battuta dai cammelli e dagli asini, lungo una specie di terrazza sovrapposta a un'altra terrazza, come questa sopra una terza, formando tutte insieme i gradini di un anfiteatro di giganti, intorno alla vasca cerulea dell'Asfaltide che si profonda ad alcune migliaja di piedi sotto la spiaggia di Joppa. Queste terrazze sono dei letti lasciati vedovi da quel mare che si abbassa di secolo in secolo, come se un demone lo bevesse nel fondo dell'abisso. Sulle rive, là ove il Giordano si getta nel mare, una moltitudine di coni dai fianchi rotondi e lisci come i denti della corona di Davide, sbucciano dal suolo all'istesso livello, a guisa di piramidi di cinquanta piedi d'altezza. Che spiriti rinchiudono esse, quelle tombe? Là le montagne d'Abraham, le creste di Gilead, più lungi le città di Loth bruciate. Non una nuvola nel cielo, non un soffio nell'aria, non una ruga sull'acqua, non una [213] voce d'uccello o il ronzìo d'un insetto: la vita era condensata come il ghiaccio sulla cima del Carmelo. La luce acciecava. Una tigre, da lontano, adagiata sul ventre, ci contemplava immobile come se la fosse stata di marmo giallo d'Egitto.
Ben presto lasciammo il piano, che forma come un orlo di verdura a quella splendida coppa, e voltando le spalle al mare di Loth, incominciammo a montare quella serie di contrafforti che si sovrappongono gli uni agli altri fino a Gerusalemme. La volpe, l'avvoltojo, la jena, il leopardo popolavano il paese; ma l'uomo che vi si climatizza e vive, se non è una creatura pia, vi diviene più selvaggio di quelle bestie selvaggie. I pozzi sono secchi, gli alberi bassi e rari, i precipizii ricolmi di pietre e senz'acqua; delle caverne tristi, riparo oggidì di leoni, altravolta di re pazzi, fuggiaschi. Seguivamo ora il letto d'un torrente, ora la costa di un colle, ascendendo sempre e poi sempre.
Il paesaggio cangiava ad ogni istante ed era sempre l'istesso. In un solo sito trovammo una donna quasi ignuda, abbronzita come un vecchio sicomoro, che abbeverava delle magre capre vicino ad un pozzo. Oh! non era Rebekah che diede da bere ad Eleazar al pozzo di Haron, e fu scelta per sposa d'Isaac; non era Rachele che Giacobbe abbracciava presso quell'istesso pozzo, dopo aver dissetata la sua greggia; nè Zipporah e le sue sei sorelle, cui Mosè aiutò ad attinger l'acqua dal pozzo di Madian.
— Ecco lì la serva d'un Esseniano, dissi io, troppo rigoroso per permettersi una moglie, troppo appassionato per far a meno di una femmina.
— Ne dubito, replicò Bar Abbas; ella mi par piuttosto la sorella primogenita delle sue capre, solamente la scabbia le ha fatto perder il pelo.
[214] La notte scintillava già dei suoi milioni di stelle, quando arrivammo alla lugubre frana che si sprofonda nella valle del Cedron, fra Gerusalemme e il mar Morto, a tre ore dai colli di Betlemme. Questa trincea selvaggia, aperta nella roccia, dalle bianche labbra, dal fondo rossastro, è bucata da caverne, come le colline di Betlemme e di Herodion, ove le bestie feroci e gli uomini cercano un riparo dai dardi di sole. Al tempo di Erode, un pugno di Farisei e di Esseniani vi accorreva per isfuggire alla vista della città, dei palazzi, dei teatri, delle terme, dei giardini che sbucciavano sotto gli ordini di quel re, come il mondo sotto il fiat di Dio. Dalle alture circonvicine, essi potevano scorgere le cupole del Tempio e il suo frontone listato d'oro. Ai piedi d'una roccia, zampillava un getto d'acqua dolce e pura, la benedizione di queste contrade ove l'acqua è uno sguardo fluido di Dio.
Il Battista aveva qui la sua residenza, quando lasciava le sponde del Giordano. Un certo numero de' suoi discepoli abitavano con lui nelle grotte della montagna, vestendosi di foglie o di pelli di montone, non cibandosi che di erbe e di radici del deserto, non bevendo nè vino nè alcun'altra bevanda fermentata, non tagliandosi nè capelli nè barba, non toccando a nulla di morto, fosse il cadavere della loro madre. Il loro costume era lo stesso ch'Elijah portava dinanzi il re Achab e la sua regina sidoniana. Questa maniera di vivere, la stessa che diversi profeti avevano adottata onde rendersi altrettanto aggradevoli a Dio che dispettosi agli uomini, era seguita da Johanan e dagli Esseniani e Sabei, che aspettavano il loro trentesimo anno per darsi all'istruzione del popolo.
[215] Mentre Bar Abbas faceva rizzare la nostra tenda sotto quel burrone, nel letto stesso del Cedron, io ascendeva il sentiero e andavo a cercare Johanan. Banù il figlio di Jeù, che più tardi si diede ai Farisei, m'informò che Giovanni era stato chiamato da Antipas, alla casa Dorata, in Tiberiade, che là aveva avuto una viva discussione a proposito di sua moglie Erodiade, e che questa l'aveva fatto rinchiudere nella fortezza di Makaur, ove Jeù s'era recato da alcuni giorni, avendo udito che Giovanni versava in qualche pericolo.
— Giuda, provveditor mio, ascoltami, disse Bar Abbas. Lasciamo su codesti profeti, i quali non sono nemmeno buoni a farsi trovare a posto — vanno alla corte in fede mia! — ed andiamo a vedere i figli del Golonita. Il nostro affare è colà.
— Se sei stanco, ritorna a Gerusalemme.
— Non è per ritornare a Gerusalemme che sono venuto nel deserto. Ma spero, almeno, che non staremo qui ad aspettare quel lavandaio di pelli conce. Se egli è a corte, andiamo a corte. Là sono come in casa mia. Antipas mi pizzica l'orecchio, ed Erodiade mi chiama ruzzone. Siamo della famiglia. Essi sanno che io lavoro per loro, que' rampolli tisicuzzi di un grande avo. Gli Erodiani mi stimano. — Ah tu mi guardi! ebbene, sì, mi stimano. Oh che! tu stimi bene Hannah, tu. Solamente se l'avessi saputo là su, avrei domandato a Pilato di prestarmi una toga. Sarei stato bello eh! in una toga con delle frangie verdi e rosse nel basso.
— Tu conosci dunque abbastanza Pilato, per ciò?
— Eh! sì, sì. Abbiamo fatto un baratto insieme. Un giorno gli ho venduto una colomba. Deve ricordarsene quel bellimbusto.
— Hum! sta bene. Domani partiremo per Makaur.
[216]
Due giorni dopo, mettendo piede nella fortezza di Makaur dissi a Bar Abbas:
— Siamo qui in mezzo ai tuoi amici. Tu hai a dir loro due cose: che si tengano pronti alla prima chiamata; che vengano alle prossime feste del paschah in gran numero, lasciando al paese i vecchi, le donne ed i ragazzi: tutti armati. Gli avvenimenti possono farci prendere delle risoluzioni impreviste.
— Ma per che e per chi dovranno esser pronti ed armati? E' me lo domanderanno, per fermo.
— E tu risponderai, che si dispone della pelle del leone quando lo si è ucciso. In ogni caso non ci sono che i figli di Erode che abbiano diritto all'eredità del loro padre. Il premio della corsa è sempre per colui che arriva primo. Che gli Erodiani si affrettino.
— Che Antipas Erode non dorma, replicò Bar Abbas.
Ora Antipas dormiva, o presso a poco, ed e' non ci conveniva troppo di risvegliarlo.
Antipas era figlio di Erode il grande e di Cleopatra di Gerusalemme, una delle nove mogli di quel re. Alla morte di suo padre, egli aveva avuto in parte la tetrarchia di Galilea, cui egli vagheggiava, fra due sbadigli, di allargare fino ai limiti del regno di suo padre, e cercava, a furia di attenzioni, di adulazioni [217] e di regali, di piacere ai romani, onde ottenerne le provincie date a suo fratello o annesse all'Impero. Egli innalzava dunque delle città e dei monumenti, cui conferiva il nome dei signori di Roma, ed era sempre sulla strada d'Italia.
Il re Erode, tribolato continuamente al suo confine di mezzogiorno dal re Aretas e dai suoi Arabi, sovente battuto mai tranquillo, risolse un giorno, secondo la sua politica, di soffocare l'ambizione fra due baci. Egli maritò dunque Antipas, il suo erede prediletto, a Sara la figlia di Aretas, e si assicurò così la pace, ed un aiuto potente per effettuare un giorno il suo gran progetto di estirpare i Romani dall'Asia e sottomettere questa parte del mondo al suo potere, più grande di quello di Salomone, più grande di quello d'Alessandro, più grande di quello di Augusto, più grande infine di quello di Ciro. Fino a che egli visse, Antipas e Sara furono felici. Sara era molto bella, molto prudente, di costumi puri, piena di dignità, di risoluzione e di coraggio: l'antitesi di suo marito, molle, dissoluto, incerto, ed infingardo. Dopo la morte di Erode, Antipas scosse il giogo morale di questa nobile principessa Moabita.
In uno dei suoi viaggi a Roma egli vide Erodiade, la figlia di Aristobulus e di Mariamne la Maccabea, maritata a suo fratello Erode-Filippo, figlio di quell'altra Mariamne, figlia di Simon, figlio di Boethus, il gran sacerdote della discendenza di Onias della razza di Aaron che era restato in Egitto. Fra le due Mariamne non aveva giammai esistito ombra di accordo. Erano due orgogli, rampolli di due razze, di cui l'una, la Maccabea, aveva esclusa l'altra, l'Aaronniana, dalla successione del gran sacerdozio. La figlia del gran sacerdote cospirava onde assicurare il potere [218] d'Erode, al suo figlio Erode-Filippo, a scapito dei figli della nipote d'Ircanus, il discendente dei Maccabei. Erode, offeso da quell'intrigo di palazzo, se ne sovvenne vergando il suo testamento, ed Erode-Filippo fu diseredato. Non pertanto egli aveva prima tentato di ravvicinare quelle due ambizioni, dando in matrimonio al figlio di Mariamne la betusiana Erodiade, figlia di Aristobulus, figlio di Mariamne la Maccabea. Erodiade era giovine, ardente, bella ed ambiziosa; Erode-Filippo, più vecchio di lei, di carattere indolente, deciso a non forzare il destino, disperando di vincere l'antipatia del padre, rassegnato ad una sfortuna ch'ei non poteva scongiurare.
Antipas vide sua nipote, moglie di suo fratello, e si lasciò abbagliare dalla sua cupa e fatale bellezza. Essi risolsero di maritarsi, ad onta dei costumi, delle leggi, e delle convenienze. Di già Erode aveva insegnato alla sua famiglia che le leggi del matrimonio per i principi non sono le istesse che pel popolo, avendo sposato, per amore o per politica, le sue nipoti, le sue cugine, delle ebree, delle straniere. Messo in un posto appartato, in mezzo a popoli che la legge di Mosè stimmatizzava come impuri, Erode e la sua famiglia non avevano molto a scegliere; si maritarono dunque in famiglia. In attesa del matrimonio, Antipas prendeva le arre dell'amore. Egli invitò Erodiade nel suo palazzo stesso di Tiberiade, ed ivi tramavano come l'uno si sbarazzerebbe della figlia di Aretas, l'altro del figlio d'Erode.
Sara, che aveva già avuto conoscenza di questo amore, e che si sentiva oltraggiata nella stessa sua casa, risolse di abbandonare il tetto di suo marito, onde evitare almeno il veleno, cui Erodiade le avrebbe certamente versato per essere francata dell'ostacolo. [219] Sara finse, nella primavera, di voler andare a godere l'aria della montagna nella residenza di Makaur.
Makaur è una piccola città forte, sopra una collina in mezzo alle aride lande dell'Arabia, un altipiano roccioso, sul quale Erode il Grande aveva fabbricato un immenso edifizio, metà palazzo, metà castello, a fin di tenere in rispetto le tribù arabe. Perocchè Makaur è alle frontiere del paese di Moab, ove i dominii di Aretas cominciano, e la Perea, dominio di Erode, finisce. La città era posta in alto come una vedetta del deserto, merlata, solitaria, avendo dell'acqua, delle solide mura, e qualche ciuffo di verdura.
L'Arabo veniva a frangersi contro questo ostacolo.
Era dunque nel bel palazzo che si alza nel mezzo della fortezza che Sara cercò un rifugio. Ma ella aveva di già avvisato suo padre dell'oltraggio che le si faceva, e del suo progetto di fuga. Uno stuolo di Arabi, posti in agguato al sito opportuno rapirono la figlia di Aretas agli ufficiali e ai soldati di Antipas, i quali l'accompagnavano, e la condussero a suo padre, a Petra, ove era il nido di quell'aquila.
L'aquila poi discese nel piano e principiò la guerra contro Antipas. Ma che gl'importava la guerra a costui? Egli era libero adesso di sposare Erodiade la quale era la sua fatalità. Ella ripudiò suo marito. Questo fatto enorme, sconosciuto nella nostra storia, contrario alle nostre leggi, che pure permettevano al marito di ripudiare la moglie, allarmava i nostri costumi. Il marito vendette sua moglie.
La guerra divenendo ardua sulla frontiera, la coppia amorosa lasciò la Casa d'oro di Tiberiade e si recò a Makaur.
Traversando la Galilea e la Perea, Antipas udì parlare del Battista e dell'influenza che costui esercitava [220] sul popolo. Un profeta è uno degli elementi della vita ebrea[21]. Noi ne usiamo in tutte le circostanze; mischiandolo a tutti gli avvenimenti, ingannandolo e lasciandoci ingannare da lui coll'istessa indifferenza, ma ascoltandolo con interesse, con passione, come un attore della tragedia sociale della nazione.
Erodiade, dimenticando la parte che Natan in una situazione analoga aveva sostenuta con Davide, ed Elijah con Achab, si lusingò di sedurre il nazir del Giordano e di servirsene per calmare l'avversione e pacificare lo scandolo cagionato dal suo matrimonio. Johanan fu invitato, o meglio obbligato, a recarsi a Tiberiade. Johanan, a cui piaceva imitar Elijah col quale i suoi discepoli lo identificavano fino al punto di dirlo Elijah risuscitato, afferrò l'occasione d'imitare quel profeta, ed invece di accarezzare la passione dei due padroni, fulminò contro di essa. Erodiade avrebbe forse soffocato immediatamente quella voce impertinente. Antipas si decise ad aspettare a fine di raddolcire quel zelante predicatore, e di non sollevare dietro a sè i bigotti, avendo già dinanzi gli Arabi.
In questo stato di cose arrivai a Makaur.
Io vi era conosciuto. Erodiade sapeva che io aveva come lei il sangue dei Maccabei nelle mie vene. Antipas sapeva che io cospirava per rovesciare il dominio romano nel nostro paese. Ora chi era il possessore legittimo di queste contrade una volta liberate se non il successore del grande Erode? Erodiade, di cui io aveva delusi altri intendimenti, non nutriva [221] in favor mio l'istessa confidenza. Più astuta, più perspicace di suo marito, ella prevedeva che uomini come Hannah e come me, non si esponevano a pericoli infiniti, supremi, per porre la corona di un sì gran principe sopra una testa così poco degna di portarla. Ciò nondimeno, fui accolto a meraviglia dal tetrarca e da sua moglie. Antipas, in oltre, aveva in quel momento una cagione di rancore di più contro Pilato. Questi aveva fatto trucidare, esporre nel circo e crocifiggere dei soggetti della tetrarchia, sui quali non poteva esercitare alcun diritto. Questo insulto esigeva una vendetta, od una riparazione.
Io mi astenni dal rivelare tutti i miei piani ad Erodiade o ad Antipas. Dissi loro giusto quel tanto che occorreva a deciderli a darmi l'aiuto che loro chiedevo. Toccai dunque la questione che mi consegnassero Johanan, se questo selvaggio rabbì voleva mettersi al nostro servizio. Erodiade protestò.
— Questo insultatore non è l'uomo della situazione, diss'ella. Egli non comprenderà punto ciò che gli si domanda. Codesta gente del deserto hanno la patria delle belve: lo spazio. Codesto Johanan potrebbe forse provocare qualche voce fra la plebe e vomitare maledizioni; egli non solleverà mai un braccio per combattere. Ora a noi occorrono degli uomini d'arme, degli uomini che sentano la dignità della patria, e non mica degli schiamazzatori.
— Lo so, risposi, e per ciò io non accetto il shiloh tale qual è, ma vorrei provare se posso addomesticarlo ad essere ciò che voglio io.
— Non mi oppongo al tuo tentativo, replicò Erodiade. Ma se tu riesci, devi tanto più diffidare d'un istrumento che cangia di tempra per un interesse qualunque, e che può frangersi al primo urto.
[222] Correva l'anniversario della nascita di Antipas. Ci era dunque festa al palazzo, e molti capi militari, governatori di città, ufficiali della tetrarchia erano stati invitati. Il momento dell'abboccamento con il Battista non mi pareva opportuno. Imperciocchè, siccome gli era lasciata una grandissima libertà, egli aveva veduta una grande parte dei suoi discepoli e poteva o non sentire il peso della solitudine, o conoscere gli affari del mondo più che non occorreva. In ogni caso, avrei voluto parlargli da solo a solo, senza apparato, senza quella messa in iscena che poteva stuzzicarlo a rappresentare una parte mentre io aveva duopo di trovare l'uomo. Erodiade che diffidava di me, che aveva tante e così pronte ed ardenti passioni, volle che questo interrogatorio avesse luogo subito, alla sua presenza ed a quella di suo marito. Ella si condusse nel gabinetto ove soleva trattare gli affari e ordinò che il Battista vi fosse introdotto.
Erodiade era seduta dinanzi una tavola di malachite coperta di carte; giacchè era dessa che amministrava le provincie, riceveva i rapporti, e dava gli ordini: mentre suo marito godeva delle voluttà della vita, inventate a Babilonia, esagerate in Roma, abbellite ad Atene. Io mi tenevo in piedi dietro la sua sedia. Antipas, coricato sopra un monte di cuscini, giuocava con dei globuli d'ambra, che palleggiava, sbadigliando, nelle sue mani, e stuzzicava un leopardo addomesticato, accovacciato ai suoi piedi.
Johanan, entrando, girò il suo sguardo sopra la scena e le persone, quello sguardo sospettoso ma perspicace degli abitanti del deserto, i quali fiutano a volo il suolo, l'aria, il cielo, l'acqua, e sospettano ovunque un pericolo od un nemico. Egli poteva avere da trentaquattro a trentacinque anni. Una foresta di [223] capelli e di peli gli copriva il viso, non lasciando scorgere che una piccola lista del fronte, le poma delle guancie bronzate, e due occhi profondi e scintillanti. Un vecchio straccio di pel di cammello, serrato alla vita da una coreggia, gli scendeva fino alle ginocchia, lasciando nudo il collo, il petto, i bracci, le gambe ed i piedi che si sarebbero detti di granito rosso. Le sue labbra livide fremevano di una commozione, che non potendo essere la paura doveva essere la collera o l'ansietà.
— Cosa si vuole da me? disse egli entrando, con voce ruvida come un ruggito, e alta per fierezza.
Erodiade impallidì e tacque. Io non mi credeva autorizzato a prendere la parola, allorchè quei padroni potevano e sembravano volerne far uso essi stessi. Antipas rispose con voce bassa ed indolente:
— I tuoi amici di Gerusalemme t'inviano un messaggio ed un messaggiero. Sta ad udire.
— Ah! fece Johanan, alzando il capo ed inchiodando sopra di me il suo sguardo selvaggio. Ah! codesto giovine viene da Gerusalemme? So dunque quello che e' vuol dirmi. Jeù me l'ha già annunziato. Egli può ritornare là donde è partito. Non ho nulla a rispondere.
Erodiade mi guardò con un'ombra di sorriso sulle labbra, quasi che avesse voluto dirmi: «cosa ne dici di questo essere eteroclito?»[22].
Il tuono rozzo e deciso del Battista abbreviava ma non tagliava corto al colloquio. Domandai dunque ad Erodiade se mi permetteva di continuare la conversazione. [224] Ella mi fece cenno di sì, ed io dissi all'irascibile rabbì:
— Rabbì, il duro messaggio che tu m'imponi di riportare ai nostri amici di Gerusalemme, mi prova che tu sei stato male informato, e che non sai a che cosa rispondi.
— I tuoi amici, prima di tutto, non possono essere i miei. Io arrivo dal deserto; tu sembri giungere da Roma o da Babilonia, effeminato nei tuoi modi, effeminato nella tua lingua, effeminato nelle tue vesti. Ma non temere l'equivoco. Io so benissimo a che mi risponda. Tu vieni a domandare la mia complicità per ristaurare sul trono di Davide gli eredi del capo Arabo; ed io te la rifiuto.
Se fossimo stati soli, avrei disingannato Johanan: in presenza di Erodiade e di Antipas, dovetti mascherare il mio pensiero, e risposi:
— Ma quando ciò fosse, o rabbì, domando io: il popolo d'Israele ha egli avuto dopo Salomone, un re più grande di questo figlio dell'Arabo Antipater, di Erode?
— Allora tu non lo conosci punto, replicò Johanan. Arabo di nascita, Romano di ambizione, Greco nell'anima e nei gusti, Ebreo di necessità, Erode è stato la più grande calamità che abbia afflitto il popol di Dio. Ai grandi sacerdoti che si succedevano ereditariamente, egli sostituì i grandi sacerdoti che si pescano ove si puote, come un ufficiale delle armi o un collettore delle tasse. Ai grandi sacerdoti che stendevano il loro potere sopra Israello, egli ha sostituito dei parassiti, che limitano la loro autorità alla soglia del Tempio. Il gran sacerdote, che torreggiava sul capo del re, non è più che un ufficiale della sua corte. Egli cangiò di gran sacerdoti, uccidendoli, a [225] seconda delle fasi della sua politica. Egli abbattè, con un intrigo del suo serraglio, Ananelus cui aveva cercato in Babilonia; uccise Aristobulus della razza dei Maccabei; inviò a cavar fuori di Egitto Simone. Cominciò ad edificare il Tempio con una mano; con tutte e due cooperò ad alzare il Tempio dei Samaritani a Gerizim, fabbricò quello d'Apollo a Rodi. Sacrificò a Jehovah, e protesse Astharot a Sidon, Moloch per i Sirii, Iside pegli Egiziani, Dagon pei Filistei, Manah pegli Ismaeliti, Artemis per i Greci, e Giove pei Romani. Servitore di Dio, campione degli Dei, il suo vero Dio fu Cesare, pel quale alzò un tempio alla sorgente del Giordano. Eravamo un popolo grave, con leggi severe, separato per avversione d'animo dagli stranieri, che ci circondavano di costumi stranieri, che ci serravano sulle nostre frontiere onde guizzare in mezzo a noi e preparare la strada ai dominatori pagani...
— Ma, rabbì, tocca a noi forse, interruppi io, giudicare un principe, che è stato servito da tutto un popolo, e che ne fu adorato per tanti anni, e che tutti i re d'Asia e d'Europa hanno applaudito?
— Se non istà a te il giudicarlo, giovine Babilonese, replicò il Battista con tuono altero, sta a me. Ora, Erode strappò la corona ai nostri principi maccabei; uccise settanta membri del sanhedrin che l'avevano accusato di omicidio innanzi ad Ircanus; mietè le famiglie principesche e sacerdotali della Giudea; coprì tutti i suoi Stati di palazzi, teatri, terme, ginnasii, circhi, di collegi, di residenze voluttuose, e di giardini. Fabbricò delle città alla greca ed alla romana, con architettura pagana, e stabilimenti pagani. Introdusse fra noi i giuochi olimpici, e le feste oscene. Alzò fortezze da per tutto, perfino alla porta [226] del Tempio, dominando così la città: Sion divenne un quartiere di Roma. Egli fabbricò una capitale pei Samaritani, che erano stati, come empii, maledetti dai nostri padri: sacrificò ai dii pagani. Le nostre leggi ci proibiscono di avvicinarci agli stranieri; Erode sposò le loro donne. Egli aveva già la sua Araba Doride, quando sposò Mariamne la Maccabea, di cui aveva esterminata la famiglia; poi l'Egiziana Mariamne figlia del gran sacerdote Simon; poi la Samaritana Malthacè di Sebaste. Sposò la figlia di suo fratello; poi quella di sua sorella; poi Cleopatra di Gerusalemme, Fedra di Rodi, Elpis d'Antiochia[23]. E chi potè contare le sue favorite, la più svergognata delle quali fu Cleopatra, quella regina d'Egitto ancora calda degli abbracci d'Antonio, il quale l'aveva fatto re? Assiro nei suoi amori, Egiziano nello sposare le sue parenti, fu Parto, uccidendo mogli, parenti ed amici. Cospirò per la morte di Cleopatra; uccise Mariamne la Maccabea ed i due suoi figli, cui aveva fatto educare alla corte di Augusto; uccise suo cognato Aristobulus; uccise la moglie del suo gran sacerdote Ircanus; uccise suo zio Giuseppe ed il marito di sua sorella, Cortobanus; uccise suo figlio primogenito Antipater; uccise la sua ava Alessandra, la quale, per piacergli, aveva torturata la figlia Mariamne strappandole riccio per riccio tutti i suoi capelli d'oro; uccise i suoi amici ed i suoi complici, Doseteo, Gadias, Lisimaco. I suoi Stati furono arrossati dal sangue dei suoi omicidii. Ed egli aveva accumulato nell'anfiteatro di Gerico «gli uomini più eminenti della nazione giudea» per farli uccidere e frecciate, avanti la sua morte, dopo aver tentato di suicidarsi[24]; ma [227] i suoi ordini non furono eseguiti. Ora, son gli eredi di tal mostro, mostruosi come lui, che si vuol far sedere sul trono d'Israello, e si domanda la mia cooperazione?
— Rabbì, gli diss'io, non t'ho interrotto perchè ero curioso di sapere come si apprende la storia nel deserto. Ebbene, rabbì, quella che tu hai tratteggiata può essere la storia saporitamente leccata dai becchi e dalle iene, dai cammelli e dalle asine, ma non è certamente quella di questo gran principe. Se un uomo, che si crede ispirato da Dio, potesse imparare qualche cosa, ti direi ben io cosa fu Erode, e ti abbaglierei dello splendere di questa grande figura del nostro paese. Ma un apprendista profeta non sa che farsene della verità istorica.
— Di' pure, urlò Giovanni: sono curioso alla mia volta, d'imparare come si traveste la storia davanti ai principi.
— Ebbene, continuai, sappi dunque che Erode fu l'Augusto della Giudea. Egli ci portò le arti, le scienze, la tolleranza, la fraternità dei popoli, il rispetto alle altrui credenze. Egli ci apprese a sprezzare le minaccie dei Farisei e degli Esseniani; abbattè quella potenza del sacerdote, che turbava lo Stato ad ogni istante, e demolì i privilegi del Tempio. Erode ci inoculò uno spirito virile, guerriero industrioso, attivo; ci rivelò i poeti ed i filosofi della Grecia i quali valgono meglio delle grida da energumeni dei nostri profeti, pieni di non sensi che passano per bellezze. Fortificò le nostre città, e le portò all'altezza delle città degli altri popoli pei loro pubblici stabilimenti. Innalzò il popolo a spese dei preti e dei principi; tentò fondere quell'ammasso di gente d'ogni fatta che occupa il nostro suolo, onde farne una sola nazione, [228] un solo popolo, e le fuse nella sua famiglia sposando, per amore o per politica, delle donne di tutti i partiti, di tutte le razze. Lo splendore del tempo di Salomone era una notte in confronto di quello che Erode sparse sulla Giudea. Egli rovesciò i partiti dei Maccabei, dei Betusiani, del Tempio, della Sinagoga, del Sanhedrin, e costruì la forza una, la forza per tutti, quella del re: a Sebaste e a Seforis egli era altrettanto potente che a Gerico ed a Gerusalemme. Cesare lo trattava da fratello. Da Damasco ad Alessandria, il suo braccio era temuto, il suo consiglio ascoltato. Ebbe una corte il cui splendore offuscava quella di Tiberio; un esercito di cui si paventava l'urto. Lo si invoca ancora come un Dio. Se gli spiriti limitati, ed i bigotti, e le mummie dei nostri antichi usi, ed i zelanti, ed i più stupidi tra i Farisei non lo compresero e gli fecero la guerra, è egli colpa di quel gran principe che volle ricondurre il suo popolo alla sua epoca, e cancellare questo anacronismo dall'Asia e dall'Europa? Erode era la conciliazione; si volle che fosse il ristoratore dei vecchi riti e delle viete ridicolaggini del popolo d'Israele. Egli si vide contrariato nel suo disegno di fare della Siria una nazione cogli splendori e la civiltà greca, e s'irritò. Gli s'introdusse la cospirazione contro la sua opera nella sua stessa famiglia: e fu obbligato di frangerla.
— E dove ha condotto tanto genio, tanta eloquenza, tanta forza, tanta cortesia, tanto valore e buon gusto? interruppe Johanan: ov'è il regno fondato da codesto principe? Due frammenti ne sono stati lasciati ai suoi figli, affine di ricordarci sempre di maledirlo e di disprezzarlo: il resto è di Roma. Erode abbassò il principe, il sacerdote, il nobile: ov'è il popolo [229] ch'egli creò? Gli mancò qualche cosa al tuo gran re, o giovane Assiro: il soffio che vien da Dio, la fede; il soffio che vien dal popolo, il sentimento di quella libertà che fece sì grandi Roma e la Grecia. Ma se questo gran re era piccolo, cosa sono i suoi figli, i quali contaminano il nostro suolo con tutte le infamie del padre senza avere alcuna delle sue virtù e delle sue grandezze? La casa di Erode è una scuola d'incesti e d'adulterii. Si può dire al popolo: Rispetta il tuo re, difendi il tuo re, quando codesto re sarebbe questo Antipas Erode, e la regina questa Erodiade, cui io ho supplicati colle lagrime agli occhi di tirarsi dal loro delitto, di lavarsi dell'impudicizia?
— Basta così, Giannuzzo, esclamò mollemente Antipas continuando a dare dei buffetti sul grugno del leopardo: tu vaneggi, e biascichi sempre l'istesse cose. Mi piacciono molto i profeti; dopo aver ascoltato tutta una mattina dei buffoni, dei nani, dei parassiti e dei commedianti, dopo essermi cibato di un pranzo prelibato, regalarmi di un'ora di profeta può divertirmi ancora, per diversione, e per prepararmi dolcemente a quel riposo pomeridiano così bene inventato dagli Spagnuoli. Ma se codesto profeta diviene monotono, e rivomita sempre e poi sempre le stesse impertinenze, con meno spirito che i buffoni, allora ciò mi fa sbadigliare. Tu lo vedi, Giannino, io sbadiglio, e ciò mi farà male alle mascelle pel pranzo. L'è una cosa imperdonabile. Masticherò male, e digerirò peggio. Ora io ti perdono di chiamarmi adultero ed impudico; ma di essermi causa d'un'indigestione! alto là, ser colui!
— Non sono io che venni, sei tu che m'hai chiamato.
[230] — Io? no, veramente. Ti ho lasciato venire. Questo giovane, che non dubita di nulla, credeva che i profeti potessero talvolta avere del buon senso. Io era curioso di vedere se ciò fosse vero. Che vuoi? Si vedono così poche cose bizzarre, nuove o miracolose in questo mondo! Come ritardare d'altronde quell'ora del pranzo che arriva sempre quando non si ha fame. Ah! Giovanni, che bella cosa l'aver fame! Io passerei volentieri un paio di giorni con te nel deserto per darmi questa voluttà, se tu avessi però un buon cuoco. Ebbene, t'ho ascoltato. Hai parlato male di mio padre, assolutamente come s'egli ti avesse beneficato fin ch'era vivo e nominato suo erede dopo morto. Tu hai creduto di farmi dispiacere. Ti sei ingannato. È la sola cosa nuova che io mi abbia udito a proposito del grande Erode, dacchè sono tetrarca. Tu sai che non si crede mica agli dii che si fabbricano nella propria bottega. La mia povera Erodiade ne è tutta verde. Capperi! l'hai chiamata impudica alla bella prima[25]! Ella ha udito ciò sì di sovente che ne avrebbe sbadigliato: ma la inghiotte i suoi sbadigli, il che le causa quel pallore che scorgi in lei. Ora, Giannuzzo, ciò che contraria di più un principe è il noioso. Si può egli uccidere un uomo perchè vi fa sbadigliare? Il noioso gli prova che egli non può far tutto. È male Giovanni. È male agire così. Per uno che vuol divenire messia, tu sai poco quel che si deve al rappresentante di Dio sulla terra.
— Posso andarmene allora? sclamò Giovanni bruscamente.
[231] — Un'ultima parola, gli dissi io. Rabbì, tu vedi il levar del sole al nord. Tu guardi la famiglia d'Erode invece di guardar Roma. Non è ciò che occorre nella Casa Dorata, o nel cuore d'una nobile donna, che interessa i destini del nostro paese: gli è ciò che avviene nella corte di Cesare e nel cuore di Pilato. Nè tu, nè alcun altro ha il diritto di contare i baci d'una donna e di scandagliare l'immensità di quell'infinito che si chiama l'amore. Ma noi tutti abbiamo il dovere di protestare contro il dominio straniero, e di infamarne l'obbrobrio e le miserie.
— Io non sono nè profeta, nè messia, rispose Giovanni, nè uomo di guerra, nè uomo di corte. Roma dunque non mi risguarda punto. Quando un popolo soffre simili oltraggi, ne è degno, o li espia. Io sono un uomo giusto, che predica contro il peccato, che spinge alla penitenza, e annunzia il castigo. Ora il peccato è qui: il peccato è questa donna, è quest'uomo, sì alto locati che il popolo li vede, e potrebbe imitarli. Io devo prevenire questo pericolo; ecco perchè io dico: Erode, cessa lo scandolo; rinvia la moglie di tuo fratello; spegni i fuochi della tua lubricità. Erodiade è il tuo delitto; ella sarà la fatalità della discendenza di Erode. Ecco ciò che io sono, ecco ciò che voglio regolare.
— Ma no, Giovanni, no, osservò Antipas con impazienza, non è così che tu devi dir ciò. Occorre che io ti faccia dare qualche lezione dal mio tragico Ajace che ho condotto meco al mio ultimo viaggio di Roma. Vedrai come egli recita codeste cose nell'Oreste di Sofocle. Nel deserto si apprende male a maledire; si squittisce come volpi. Poi, caro te, non venirmi tanto vicino. Puzzi troppo la cipolla. Io non sapeva che nella mia casa si nudrissero così male i [232] profeti. Gli è per questo che tu fai della politica così cattiva. L'ho sempre detto io: la buona politica si prepara nello stomaco, e si formula nella camera da letto. Ma sta tranquillo, Giovanni, m'incarico io d'oggi innanzi del tuo cibo. Se non fossi vestito così sommariamente ti inviterei a pranzo stassera alla mia tavola, in mezzo alla mia corte ed ai capi del mio Stato. Ma i miei buffoni ti tormenterebbero troppo e le donne troverebbero troppo naturali i tuoi vestiti. Non fa nulla, t'invierò, sopra un bel bacino, ogni sorta di buone cose che restano al mio desco, e quando ti avrai mangiato la tua pappa, sono sicuro che ai frutti ed alle bellaria, verrai a bere alla mia salute.
Erodiade non aveva detta una parola durante tutto questo colloquio. Ella aveva affettato di sfogliettare dei rapporti e delle epistole. All'ultima frase di Antipas, ella alzò gli occhi, ed un lampo passò sopra la sua cupa figura, rendendola potentemente raggiante. Un'idea terribile aveva, forse, traversata quell'anima.
— Tetrarca della Giudea e della Perea, riprese Johanan avvicinandosi fino ad afferrar Antipas per il braccio, io ti fo, nel nome di Dio, un'ultima intimazione: licenzia quella donna. Pentiti, ripudia il peccato, cancella il delitto e lo scandalo. Non stancar più la misericordia di Dio: licenzia quella donna, purificati....
— Già, Gianni, vattene, ripetè Antipas afferrando il suo leopardo alla nuca; non ti avvicinare; guarda Cacus che si alza. La sua pelle freme. I suoi occhi s'infiammano. Tu senti troppo il deserto... Egli comprende il suo linguaggio... Vattene, o io non rispondo più di nulla. Cacus potrebbe dimenticare che è qui, e credersi sulle spiagge del mar Morto. Dovreste conoscervi, [233] pure: egli dovrebbe stimarti. Cacus, giù gli zampini, gioia mia. Tu non rosicherai il mio profeta. Ti avvelenerebbe, sai?
Johanan gettò su noi un immenso sguardo di disprezzo e si allontanò lentamente, brontolando, gli occhi rivolti al cielo:
— Signore, tu puoi scatenare i tuoi fulmini ora; tu lo puoi. La tua parola è stata annunziata a questi empi, ed essi l'hanno disprezzata. Il tuo fulmine, o Signore, il tuo fulmine!
Antipas che era grasso, corto, un po' gottoso, si levò dolcemente, come se avesse assistito ad una commedia di Aristofane, e prendendo il mio braccio; disse:
— Vieni, Giuda, andiamo a fare un giro sulle mie terrazze, e cercarvi pel pranzo un po' di quel brigante d'appetito che non viene mai. Voglio mostrarti i due miei poeti, che ho fatto pescare ultimamente in non so quale cloaca di Roma. Li tengo in due gabbie separate per impedire che si divorino, e li nutro di erbe amare onde neutralizzare la loro bile... Diamine! scrivono un poema pel mio matrimonio colla mia cara Erodiade. Mi atteggiano a Giove che cade in pioggia d'oro sopra Danae. «Padrone, mi dice l'un d'essi, piovi dunque un po' su di me, come fai su di Danae.» — «Sopra di te? grida l'altro; padrone, egli non è nemmeno degno che tu gli p.... sopra!» Voglio che tu mi dia un consiglio, Giuda. Bisogna che io stabilisca nel mio Stato un ginnasio per educarvi i profeti. Vedi come si educano male al deserto! I profeti, i messia, i shilok sbucciano spontaneamente nel mio Stato. Vi sono più comuni che i conigli. Se ne incontrano in tutti i [234] crocicchii[26]. Quando li avrò meglio preparati, ne farò un oggetto di esportazione.
E, scilinguando ciò, Antipas baciava sulla fronte Erodiade divenuta pensosa, e noi uscivamo da una porta, nel punto proprio che da un'altra entrava una fanciulla di una quindicina d'anni, ed andava a gettarsi nelle braccia di sua madre la quale le apriva per riceverla.
La giornata passò gaiamente, in attesa della cena e della festa ufficiale della sera.
Più di cento convitati circondavano l'anfitrione reale nella splendida sala costrutta dal re Erode. Erodiade era coricata vicino ad Antipas, ed io seduto come gli altri, vicino a lei. Tutto ciò che si può immaginare di più prezioso in vasellame ed in porpora, tutto ciò che si può concepire di più delicato in cibi ed in vini, copriva la tavola di quel principe sontuoso e voluttuoso. Il deserto, il mare, i fiumi, le stalle, i giardini e le cantine erano stati esauriti per celebrare questa festa che doveva sedurre quelli che facevano la guerra per il loro padrone, e quelli che avevano ripugnanza a favorire i suoi amori. I discorsi allegri, lusinghieri, bellicosi s'incrociavano in mezzo ad un brillante rumorìo da un capo all'altro della sala. I fiori imbalsamavano, il vino inebbriava, gli effluvii misti dei cibi e dei profumi mettevano in fuoco il sangue. Questo splendore di vasi d'oro, di lumi, di stoffe dai vivi colori di cui i convitati si [235] erano pavesati, il sorriso delle donne, le canzoni degli istrioni, i bizzarri motti dei buffoni, le smorfie dei parassiti.... tutto ciò aveva esaltato gli spiriti ad una temperatura infernale. Ad un tratto, una musica dolce ed invisibile irrugiadò il banchetto, come per calmarne la febbre e preparare l'assopimento. Si aspirava questa freschezza di melodie, ciascuno si cullava a quell'ondulazione di suoni profumati d'estasi. Ma ecco che ad un cenno di Erodiade, una porta s'apre, cinquanta schiave nubiane nude si dispongono in fila con candelabri d'oro alle mani, ed una visione simile ad un raggio di sole s'insinua nella sala.
Fu un soprassalto generale. Antipas, mezzo nudo, si rizzò sul suo gomito come abbagliato.
Era Salomè, la figlia di Erodiade e di Erode-Filippo suo primo marito, che faceva invasione nella sala, bella come una collana di stelle del mattino, appena coperta da un velo leggero che scendeva fino alle ginocchia, le sue ciocche d'oro ondeggianti, un cerchio d'oro sul fronte, sormontato da una stella di diamanti, che pareva Vesper. Al suono di una musica lenta ed in sordina ella cominciò ad atteggiarsi in una successione di pose, ove il suo giovine corpo, bianco come la cima del Carmelo nell'inverno, parve più flessibile d'una pantera. Poi, la musica animandosi, Salomè principiò a volteggiare, ed il velo trasparente che la ombrava, ondeggiando con lei, le dava l'aspetto d'una farfalla che gavazza follemente nelle ajuole d'un giardino, nella primavera. Finalmente la musica diviene turbinosa. Fu allora un getto di fiamma che ravvolse tutta la festa. Salomè poggiando sopra un piede, alzando l'altro al livello del suo braccio, girò sopra sè stessa, svelando [236] dei tesori di bellezza e di gioventù, che davano la vertigine. Fuori di sè, come eravamo tutti, Antipas gridò:
— Che io possa divenire povero come Giobbe, se non accordo a questa fanciulla qualunque cosa la mi chiegga, fosse pure la metà dei miei Stati.
Salomè si fermò, ansante, palpitante, gli occhi dolci e brillanti, la bocca semichiusa, respirando non aria, ma baci. Ella scivolò sulla punta dei piedi e venne a cadere sul seno d'Antipas che le sfiorò, colla bocca i capelli.
— Di', Salomè, di', gioja mia, cosa vuoi? Un palazzo?
— No.
— Dei giojelli?
— No.
— Ami qualcuno?
— No.
— Cosa vuoi dunque? Il mio Stato per una delle tue carezze.
Salomè prese allora sovra una credenza un gran piatto d'argento, ove erano stati serviti dei dolciumi, si avvicinò ad Antipas e gli disse una parola all'orecchio. Antipas sembrò stupito.
— Domandami altra cosa, ragazza, diss'egli.
— No, rispose la giovinetta: aspetto.
— Vuoi tu la città di Tiberiade?
— No.
— Vuoi il lago di Genezareth coi suoi cento villaggi?
— No. Voglio quello che t'ho detto: ed aspetto.
Antipas sospirò. Un grido unanime si alzò dalle tavole.
— Accordato, accordato. Tutto ciò ch'ella vuole è accordato. Tu l'hai giurato, o Tetrarca.
[237] Antipas si chinò all'orecchio d'uno dei suoi ufficiali, e gli disse alcune parole. L'ufficiale, senza mostrare la minima esitazione, prese il piatto che Salomè teneva ancora nelle mani, ed uscì.
La dolce musica ricominciò! Il silenzio era profondo fra i convitati: tutti attendevano, ansiosi e curiosi di vedere il dono domandato dalla giovane aurora. Si sarebbe detto che quella bocca, ove l'amore aveva deposto le sue ebbrezze, avesse pronunziato qualche cosa di strano e di terribile.
L'aspettazione non fa lunga. Salomè era andata a mettersi all'uscio, gettando uno sguardo nella sala del banchetto, un altro negli appartamenti ove l'ufficiale era scomparso. Finalmente arrivò. Salomè gli strappò il bacino, e presentandolo a sua madre, lo scoprì.
Conteneva la testa del Battista.
Un fremito corse in tutti i convitati.
Si racconta che una dama romana punse colla sua spilla da capelli la lingua di un avvocato che aveva fatto condannare suo marito. Erodiade, lei, avvicinò la coppa d'oro alle livide labbra di quella testa tagliata, le versò nella bocca una parte del suo vino, o disse:
— Il profeta beve alla salute del Tetrarca Antipas e di sua moglie Erodiade; io bevo alla sua salute!
Un grido immenso, che rianimò il festino, accolse questa atroce facezia della amante di Antipas. I cortigiani ed i soldati si alzarono tutti e bevvero alla salute d'Erodiade. Solo Antipas ed io restammo tristi e muti.
Alla fine Antipas riprese il suo buon umore e mi disse:
— Non affliggerti, Giuda, se ti hanno servito il tuo [238] profeta sopra un piatto. Verrai con noi a Tiberiade dopo domani, ed io ti prometto di offrirti un messia in una gabbia. Ordinerò una caccia di profeta apposta per te.
················
Due giorni dopo, lasciammo Makaur, seguendo il Tetrarca ed Erodiade.
Bar Abbas, che io non aveva più visto dopo il nostro arrivo, mi si avvicinò, e disse ad alta voce:
— Che bell'idea di avermi condotto teco! Ho mangiato come dieci, bevuto come cinquanta, e parlato come cento. Ebbene, tutti i soldati d'Antipas sono nostri! gli Erodiani non aspettano che un segno. Mille giovanotti verranno al prossimo paschah a Gerusalemme, armati di spade. Noi prepareremo loro gli scudi. Al primo segnale, scanneranno i Romani.
— Bar Abbas, gridai furibondo, se continui a chiacchierare in questa guisa, ti farò rinchiudere in una muda, fino a tanto che avrai mangiato, dalla fame, metà della tua lingua.
— Sarà il più ghiotto boccone che avrò fatto nella mia vita, rispose Bar Abbas. Ma non seguire, o Giuda, codesta ispirazione: diverrei dopo troppo difficile da nutrire.
[239]
Noi abbandonammo Makaur all'alba passando sotto quel maraviglioso albero di ruta, grande come un fico, e divergemmo per un momento dalla nostra via verso il nord, a Baaras, nel vallone che circonda la città, per cercarvi quella terribile radice, che brilla la sera come un lampo, che si allontana dalla mano che vuol coglierla, cui non è possibile di prendere se non che inaffiandola o coll'urina d'una donna o col sangue mestruale d'una ragazza, che anche dopo ciò uccide chi la tocca, essa che ha il potere di cacciare il demonio fuori dal corpo degli ossessi[27].
Passammo da presso alle fontane d'acqua calda e fredda che operano delle cure così sorprendenti. Seguimmo una strada frastagliata, costeggiante delle creste ritte sopra abissi, come i lati d'un triangolo, ed entrammo in quel profondo e pericoloso burrone, che [240] aprendosi alla base della fortezza si divarica e scoscende spaventevolmente per sessanta stadii fino alle rive del lago d'Asfalto. Seguimmo la riva meridionale di questo mare, poi la sinistra del Giordano per tutta la sua lunghezza, ora sopra una banchina di verdura ombreggita da canne e tamarindi, ora sopra uno strato di sabbia bianca che abbagliava la vista, e rendeva difficile il respiro alzandosi in polverio, e talvolta lungo i contrafforti e le vecchie montagne di Galaad, ora Perea.
Nel punto ove il Giordano sgorga dal lago di Genesareth, sotto quella collina in forma di gobba di cammello sulla quale è fabbricata la città di Gamala, come appostata sul lago, trovammo la flottiglia del Tetrarca che ci attendeva in un piccolo seno. Erodiade, Antipas, io, i principali ufficiali della corte di quel principe, montammo sopra una bireme bianca come un cigno, dalle vele di porpora; il resto del seguito invase le triremi e biremi da guerra. Bestie e schiavi continuarono la strada lungo la costa. Il sole tramontava dalla parte della Giudea. Il lago sembrava un lembo di cielo stemperato in una coppa d'oro. Il cielo era una cupola azzurra infinitamente profonda. La luce abbagliava del suo sorriso tutta la natura che si svolgeva sotto il nostro sguardo. L'Halin, il Tabor, le montagne di Safed, i precipizii nevosi dell'Hermon, ondeggiavano da lungi d'una luce dorata e violastra.
Al primo piano di questo anfiteatro di basalto — dalla forma di fico, la cui base è all'immissione, ed il peduncolo alle foci del Giordano — si stendevano delle città e dei villaggi che gli ultimi raggi del sole doravano come melaranci. Gli altipiani ondulati della Golonitide e della Perea, aprendosi a mo' di terrazza fino a Cesarea di Filippo al nord, rizzandosi di tanto [241] in tanto in picchi deserti ed inaccessibili, sembravano coperti d'un tappeto di velluto celeste ondato di viole. Il flutto dolce e sonoro baciava la spiaggia, giocando colle piccole conchiglie nel piccolo estuario formato dal fiume salato di Tabiga, perdendosi nelle ajuole di fiori e d'erbe di Tarichea, alla uscita del Giordano e sulle rive della pianura di Genesareth. Dei piccoli promontorii, rivestiti di tamarindi e di capperi spinosi e di oleandri, si disegnavano sulla sabbia. Una vegetazione abbagliante, dalla noce del Caspio al fico della Siria, alla palma del Nilo, al cedro ed all'arancio della Sicilia, fino alla quercia ed al cipresso del Nord, copriva d'ombra i giardini e sfidava i cocenti raggi d'un sole indiano. Dei casali, dei villaggi, delle ville s'addossavano alle colline che circondano il lago: in minor numero, nella costa più arida del mezzogiorno, le cui montagne erte e rocciose caddero in eredità alla discendenza di Manasseh; in più gran numero, sopra le rive occidentali del nord e dell'ovest. Là, Gamala; da lato Tarichea, Hippos, Pella, Gadara città greche; sopra la costa della Galilea, Magdala Delmanutha, Capharnaum, Chorazin e Tiberiade dalla fronte d'oro; sulla costa di Golonite, Bethsaide unita da un ponte a Julia e Gergesa; a nord, Cesarea di Filippo, e quella grotta di Panium, dalle salutari sorgenti, circondata da statue di Pan, da Ninfe, da Eco, ed il tempio che Erode fece alzare ad Augusto. Sopra ogni punto della roccia vulcanica, sopra ogni fessura della montagna, una capanna di pescatore o di battelliero; sopra ogni bricciola di terra, un mazzo di frumento, di viti, d'alberi, di fiori, di verdura. Le acque delle sorgenti e dei ruscelli rivaleggiavano di limpidità, di dolcezza, d'azzurro, colle acque del lago, calme come la pupilla d'una giovine Brettone. [242] Delle nuvole d'uccelli, bianchi e grigi, dalle piume scintillanti, giravano in corona sulla nostra bireme che volava verso Tiberiade come un alcione.
Il sole era scomparso, ma il cielo ardeva ancora, rosso dei suoi ultimi raggi, i quali indietreggiavano dolcemente dinanzi una miriade di stelle, svelantisi gradatamente, quando la bireme si fermò nel porto di Tiberiade.
La capitale d'Antipas si svolgeva ai piedi d'una collina dirupata, presso una sorgente d'acqua calda, sulle rovine d'una città, e di tombe d'un popolo di cui è perduto il ricordo. Tiberiade era una città romana, una Napoli, una Baja, una Pozzuoli, una Siracusa dell'Asia, con tutti gli edifizii pubblici delle città romane, tempii, collegi, ginnasii, stadium, palazzi, forum, teatri, circhi e terme. Un castello coronava la città; e sotto la protezione di quella fortezza, al di sopra della città, sorgeva la Casa Dorata, residenza d'Antipas, il cui tetto era coperto di lamine d'oro, come il Tempio. Un alto muro, scendendo dalla fortezza fino al mare, circondava la città. Un porto, delle gittate, delle porte che davano su l'acqua, delle torri, delle terrazze, nulla mancava. Centinaia di barche, come tante nere bagnanti dalle pezzuole multicolori, si cullavano nelle limpide acque. Volendo popolare rapidamente le belle vie e le belle case della sua città, Antipas ne aveva fatto un asilo pei malfattori, un mercato libero pei commercianti, un sito di delizie per i ricchi, un rifugio pegli impuri, un luogo molto lucroso pegli artigiani e gli artisti, un tesoro pel povero che vi cercava lavoro, un terreno neutro per tutti i popoli. Per ciò, Tiberiade era popolata da cittadini di tutte le nazioni; Italiani, Greci, Asiatici, di tutte le parti. Lo schiavo che ne toccava [243] il suolo diventava libero. Il malato che veniva alle sue fontane se ne tornava guarito. Antipas comperò degli schiavi e diede loro un angolo di casa nella sua città. Tutto vi abbondava: le cortigiane, i divertimenti, le derrate, il lavoro, gli dei, gli uomini d'arme, le fortune da tentare, le scienze da acquistare, la pace dell'anima, l'ebbrezza dei giuochi. Antipas, quantunque sedesse alla sinagoga, andasse al Tempio, e si ragunasse con gli altri al shema, era un Romano pel vizio, un Greco pel gusto, un Egiziano pel piacere. Egli comprendeva tutto, ammetteva tutto, e tutto amnistiava. Dava la mano a Jehovah, un sorriso a Venere, rispettava Iside, e si acconciava in buoni rapporti con tutti gli dei che si importavano nei suoi Stati.
La mia intenzione non era di godere lungamente della vita ardente della Casa Dorata, che m'era tanto andata a genio alcuni mesi prima. Lo scopo della mia escursione era di trovare un capo popolare per la grande sollevazione che io tramava contro il dominio Romano. Il Battista mi era scoppiato fra le mani, bisognava cercarne un altro. Antipas mi aveva già parlato d'uno dei suoi sudditi, ch'egli fece invitare il giorno stesso al suo palazzo. Ma io mi fermava al progetto di ritornare sui miei passi, e d'andare a Gamala per vedervi i figli di Giuda il Golonite, di cui il più giovane, Menahem, ha già figurato fra i delegati dei partiti al consiglio rivoluzionario di Gerusalemme.
Alle terme ove m'ero recato Bar Abbas mi raccontò confusamente di non so quali miracoli d'un rabbì che meravigliava i pescatori della costa di Cafarnaum. Ora, siccome io nei miei viaggi ne avevo veduti tanti di codesti giocolieri delle pubbliche [244] piazze, non feci gran caso della scoperta di Bar Abbas. Per altro essendo l'indomani sabato, e il tempo bello, e le rive dell'acqua deliziose, bisticciando con Bar Abbas, passeggiai dalla parte orientale del lago. Volevo veder da vicino, in cima alla roccia su cui è fabbricata Cafarnaum, quella splendida sinagoga di marmo bianco, che da lungi scintilla al sole sul lago; poi, ritornando, frugare un po' in Magdala onde cercare qualche traccia di Maria che era sparita senza lasciarne alcuna.
Uscii dalla Casa Dorata all'alba, seguii la via romana che corre da Damasco a Tiberiade, passando dinanzi Magdala, traversando il rigagnolo d'acqua salata che zampilla da alcune larghe sorgenti, a pochi passi dal lago, e si getta in mezzo ad uno spesso tuffo di verdura, montando la china tagliata nella roccia, verso la bocca del Giordano, e tagliando la base di quella collina, ove è posta Cafarnaum.
La sinagoga è un'istituzione popolare, come il sanhedrin è un'istituzione aristocratica, del popolo giudeo. Essa rimonta un po' al di là dei Maccabei.
La sinagoga è una casa di riunione per pregare, per cantare i salmi di Davide, leggere il Pentateuco, ascoltare delle lezioni morali e discutere la dottrina: un tempio, una scuola, un palazzo municipale in caso di bisogno.
Quando tutti comprendevano l'ebraico, il Tempio stesso era inutile: ogni focolare era un altare. Mosè aveva ordinato di fare la lettura pubblica dei libri sacri ogni sette anni. Ma dopo il ritorno da Babilonia, l'ebraico era divenuto una lingua da letterati che si imparava come un'altra. Il popolo non parlava più correntemente che l'arameno, dialetto siriaco misto d'ebreo. La lettura dei libri di Mosè non poteva [245] esser fatta dunque che da una classe scelta.... Un po' più ancora, e quei libri sarebbero stati obbliati. Allora Ezra fondò una riunione ebdomadaria per cantare i salmi e leggere i profeti. Questa istituzione divenne popolare: la sinagoga nacque; dieci persone bastavano per costruirla. L'architettura n'era semplice: si imitava la tenda che era stata imitata dallo stesso Tempio. Più tardi se ne fecero dei monumenti.
La sinagoga costrutta dal cittadino romano in cima alla collina di Cafarnaum era splendida, di marmo bianco, che spiccava vivamente sul basalto grigio di cui era fabbricata la città: il frontone ornato di colonne a capitelli corintii, un portico dinanzi la porta ed un magnifico cornicione d'ordine composito.
Era l'ottava ora del mattino. Dei gruppi di conciatori di pelli, tintori, fabbricanti di sapone, mercanti d'olio, venditori di cacio e di frutta, dei pastori, dei marinai, dei pescatori, dei giardinieri facevan capannelli sul piccolo piazzale della casa di riunione, attendendo il momento d'entrare, e in attesa di occuparsi della salute dell'anima, trafficavano fra loro.
Cafarnaum è la prima città, sulla via da Tiberiade a Damasco, che abbia guarnigione romana.
La sinagoga era bagnata di una calda luce che faceva scintillare di rosee tinte i muri di marmo bianco, sotto un cielo azzurro, sopra un lago ceruleo circondato da verzura e da roccie vulcaniche. Passai, ed innanzi di entrare, immersi le mani nella vasca d'acqua presso alla soglia, nettai i piedi alla lama di ferro posta vicino, feci una riverenza all'arca, e mi fermai alla porta rivolta all'occidente. Poco dopo [246] il popolo principiò ad entrare, imitando ciò che io aveva fatto. I dieci del batlanim (oziosi) avevano già preso posto nella piattaforma elevata del mezzo della sinagoga. I ricchi andarono a sedere sui loro alti posti vicino all'arca; i poveri si accalcarono sulle panche di legno coperte da stuoje; i fanciulli mezzo nudi ed intieramente abbronzati al sole, s'accoccolarono sul suolo di nudo marmo, facendo degli sberleffi, pizzicandosi di nascosto, più vogliosi di andar a giuocare sulla piazza, che di stare lì dentro. Le donne occupavano già il loro nido dietro una larga grata nella galleria superiore, vicina al tetto. Il Hazzan, che è il guardiano della sinagoga, vi mantiene l'ordine, e compie certe funzioni, fece il giro della sala per vedere se tutto andava convenevolmente. Gli anziani stavano sulla piattaforma, ed il loro capo aspettava che il Hazzan gli dicesse che tutto era in ordine per dare il segnale del servizio. Il segnale fu dato. Il capo del batlanim bruciò dell'incenso che riempì del suo bianco fumo e del suo forte profumo tutta la sinagoga, ed intuonò un salmo di David che fu cantato dall'intera assemblea. Finito il salmo, il Hazzan andò all'estremità orientale della sinagoga, allontanò, inchinandosi, il velo che copre l'arca, l'aprì e ne tirò fuori il Torah — ruotolo ove sono scritti i cinque libri — lo portò intorno ai banchi del popolo, di maniera che tutti potessero baciarlo, o toccarlo colla mano diritta, ed ascendendo i gradini della piattaforma, lo presentò al Sheliach.
Questo vegliardo, prendendo il ruotolo nelle sue mani, si levò e, mostrandolo aperto alla congregazione la quale si alzò pure, gridò:
«Ecco la legge che Mosè dettò al popolo d'Israello, [247] la legge che Mosè c'impose, l'eredità dei figli di Giacobbe. Le vie del Signore sono perfette. Le vie del Signore sono provate. Egli è lo scudo di tutti queglino che credono in lui.»
Lo Sheliach aprì poi il ruotolo sul leggìo, lesse ad alta voce il capitolo pel parashà, o sermone del giorno. Il popolo seguiva questa lettura cogli occhi, col cuore, le braccia alzate. Ogni sillaba, ogni pausa era marcata. Quando la lettura del parashà fu finita, e la spiegazione fatta, il Hazzan riprese il Torah, lo rimise al suo posto chiudendo il velo che lo ricopre. Il popolo gridò nuovamente:
«Il nome del Signore sia lodato; il suo nome sia esaltato poichè la sua gloria vola nel cielo e sulla terra.»
Allora si cantò un altro salmo, poi il capo degli anziani principiò il suo midrasch, specie di commentario sul capitolo letto dallo Sheliach. Appena ebbe egli finito, un uomo, il quale stava seduto vicino a me sulle panche del popolo, si alzò e domandò di nuovo il Torah.
Io non aveva prestato la minima attenzione a ciò che avveniva nella sinagoga, distratto da prima dal guardare alle finestre il popolo che, non avendo trovato posto di dentro, cercava di fuori di raccapezzare quanto poteva della lettura o del commentario, ed assorto poi dalla grata delle donne.
Quando il canto ebbe principio, credetti intendere una voce che io conosceva, avendo con essa cantato e commentato il Cantico dei Cantici. Quella voce mi aveva colpito. Poi m'era parso distinguere una forma, uno sguardo che si turbava sotto il mio, una persona che si tirava addietro.
Intieramente fisso a quella grata, io non aveva [248] osservata la persona, seduta come me sul banco dei poveri, ma circondata da un certo numero di amici che le parlavano con rispetto, l'ascoltavano con deferenza e spiavano tutti i suoi moti. Avendo domandato il Torah, mentre il Hazzan andava a riprenderlo, quella persona si avanzò sulla piattaforma, e montò al leggìo del lettore. Il rabbì sembrava essere molto conosciuto, poichè il popolo l'accolse con un mormorìo benevolo, ed un movimento d'attenzione si propagò su tutti i banchi. Avendo ripreso il ruotolo, l'aprì, e lesse di nuovo il parashà del giorno, sopra il quale incominciò a dare delle spiegazioni a suo modo. Egli parlava, lo si ascoltava, ed io l'esaminai. La donna alla grata, che s'era tirata indietro, riapparve sul davanti.
Il nuovo lettore era un uomo d'una trentina d'anni, di statura ordinaria, agile e magro. Aveva la tinta biliosa e bronzata, la barba nera, tagliata in punta, i capelli neri egualmente divisi sulla fronte alla moda Galilea, e gettati all'indietro in lunghe ciocche. Il fronte, un po' basso nella parte anteriore, si allargava alle tempie. Non si scorgeva del viso che le pomette un cotal po' accentuate, ed il naso leggermente ricurvo. I mustacchi coprivano le labbra sottili e scolorate, la bocca larga rialzantesi agli angoli e i suoi denti color avorio. Tutto ciò sarebbe stato volgare, se dei grandi occhi neri, colle sopracciglia folte e quasi riunite sull'alto del naso, dallo sguardo potente, vellutato, voluttuoso, dolce o carico di lampi a suo piacere, non avessero rischiarato quella fisonomia mobile, cangiante secondo il pensiero o l'interna passione che l'agitava. La sua voce era dolce, singolarmente melodiosa, sopratutto quando voleva accarezzare. Le sue maniere erano gravi. Una grande dignità risaltava da [249] tutto l'insieme della persona, dal suo portamento, dalle sue parole e dei suoi modi[28].
Io intravidi tutto ciò in un batter d'occhio, poichè ero sempre attratto dalla grata. Non intesi quindi ciò che il nuovo lettore disse, come non avevo udito il parashà dell'anziano che l'aveva preceduto. Una voce, che partiva dalle sedie dei ricchi, mi richiamò alla lezione. Ogni individuo avendo il diritto di fare delle questioni, un ricco mercante di grano gli aveva domandato:[29]
— Rabbì, donde ci vieni tu?
Mi volsi allora verso un giovane che sedeva a me vicino, mostrandomi molto soddisfatto di ciò che il Rabbì andava dicendo, e molto malcontento dell'interruzione, e gli chiesi:
— Qual è il nome del Rabbì che parla ora?
— Da che sotterraneo sbuchi tu per non conoscere il nome del nostro Rabbì?
— Sbuco da un sotterraneo che si chiama Casa Dorata a Tiberiade, e da un deserto che si chiama Gerusalemme; scusa dunque la mia ignoranza.
— Ebbene, gli è il Rabbì di Nazareth. Lo conosci ora?
[250] — Meno di prima. Ma non monta. Chi è codesto tuo Rabbì?
— Quegli che sazia le moltitudini con pochi pani.
— Mi meraviglierebbe se la saziasse con dei ciottoli, o con delle foglie d'alberi, come le vacche. È dunque un figlio di Salomone o d'Erode, il tuo Rabbì di Nazareth?
— Meglio assai, straniero, rispose il giovine con disprezzo: egli è figlio di Dio.
Non ebbi a replicare. L'entusiasta mio vicino, che era discepolo del Rabbì, e si chiamava Giovanni, alludeva ad un fatto accaduto alcuni giorni prima, in cui il Rabbì, avendo condotto seco un certo numero di discepoli in una escursione nelle montagne, aveva loro fatta la gradita sorpresa di distribuire del pane preparato la vigilia, regalo al quale non s'attendevano in quel sito. Questa attenzione li aveva tocchi al punto che paragonavano la generosità del maestro a quella leggenda d'Elijah, che moltiplicò l'olio e la farina della povera vedova di Sarepta la quale gli aveva dato da bere, e ad Eliseo che aveva nutrito gli abitanti di Guilgal in una carestia, con venti pani d'orzo.
Alla domanda del mercante di grano: donde vieni tu? il Rabbì non rispose categoricamente; ma facendo allusione alle voci propagate dai suoi discepoli, disse:
— Sì, sì, voi mi domandate ciò, perchè avete udito parlar d'un miracolo, e perchè vi piace di saziarvi d'un pane che non costa nulla[30]. Ebbene non vi date pena per un alimento che si consuma, ma per quell'alimento che dura sempre, e che il figlio di Dio, solo, può darvi. Dio il Padre vi è garante per lui.
[251] — Tutto questo è molto bello, sclamò un pescatore dai banchi del popolo; ma che occorre egli fare per meritarsi da Dio codesto prezioso alimento?
— Poca cosa, replicò il Rabbì; per piacere a Dio, bisogna credere in colui ch'egli ha inviato.
— Dio ha inviato dei profeti, disse allora un anziano ed essi si sono manifestati con le parole, e gli atti. Ora che segno ci porti tu, pel quale potessimo vedere e credere in te? quali sono le tue opere? I nostri padri mangiarono la manna nel deserto, ciò è scritto, ed essi credettero in Mosè, il quale loro distribuiva così il pane del cielo. E tu, che hai fatto tu? Dov'è la tua manna?
Sfidato a dare questa spiegazione, obbligato a declinare i suoi titoli di parentela con Dio, il Rabbì rispose con un motteggio:
— Voi siete degli sciocchi, e null'altro, credendo alla vostra manna scesa dal cielo per quarant'anni, e sempre a tempo. Mosè non diede del pane del cielo ai vostri padri[31]; ma gli è il padre mio al contrario, il quale vi darà il vero pane celeste. Imperciocchè, gli è il pane di Dio soltanto che piove dal cielo, e dà vita al mondo[32].
— A meraviglia, osservò ironico il capo degli anziani, punto molto che il Rabbì non avesse trovato buono il suo parashà: a meraviglia, maestro, ma dacci dunque di codesto pane miracoloso che non costa nulla, nutre così bene, e viene da così alto[33].
A una domanda così impertinente, ad una derisione così fina, il Rabbì rispose con un'altra dell'istesso calibro.
[252] — Come, anziano mio? tu vuoi di questo pane tu? Ebbene, niente di più facile, e di più alla tua portata. Eccomi. Io sono il pane della vita. Chi mangia di me non ha mai fame, e chi mi crede non ha mai sete[34].
Uno scoppio di riso accolse questo scherzo.
— Ah! fece un fornaio su i banchi dei ricchi: alla buon'ora! così non sarò rovinato, io.
— Io lo mangerei in due pasti, quel magrolino lì, urlò un enorme facchino dietro a me; ma dopo?
— Ne parli a tuo comodo, tu, osservò un altro, tu lo mangeresti in due pasti, e per noi altri, allora?
— Ebbene, mangerete dell'arrosto di montone, perdio! e state zitti voi altri, vociò Bar Abbas, che dalla strada sporgeva la testa in dentro pella finestra.
Per un istante il Rabbì sembrò turbato da quei lazzi, e la sua figura si animò. Era per rispondere vivamente, ma, riprendendosi tosto, affermò con calma:
— Non voglio soggiungere che questo: voi mi avete veduto, e non mi avete creduto. Ma sappiate che tutto ciò che mio Padre mi dà verrà a me, e chiunque verrà a me, non lo respingerò mai, avvenga ciò che vuole; poichè io sono disceso dal cielo, non per fare le mie volontà, ma quelle di colui che m'ha inviato. Ora è volere di mio padre che m'ha inviato, che io non debba nulla perdere di ciò ch'egli mi ha dato, ma che debba renderglielo di nuovo all'ultimo giorno. Gli è ancora volere di colui che m'ha inviato, che chiunque vede il Figlio, e crede in lui, possa avere una vita eterna. Ed io lo risusciterò all'ultimo giorno.
Gli anziani, il Batlanim, il Hazzan, si guardarono in faccia l'un l'altro; al banco dei poveri, si restò [253] stupefatti non comprendendone niente; ai seggi dei ricchi si mormorò; dietro la grata delle donne si udirono dei lunghi sospiri. Bar Abbas insinuò di nuovo la sua testa nella sinagoga ed osservò:
— Nipote mio, nipote mio! tu viaggi nella luna.
— Ma non è egli Gesù il figlio di Giuseppe il falegname e il figlio di Maria? Non conosciamo forse più suo padre e sua madre, noi? Perchè ci viene dunque a cantare che è disceso dal cielo? Per chi ci prende egli?[35]
Gesù fece un movimento d'impazienza e sclamò:
— Non mormorate fra voi[36]. Resistete? Tanto peggio. Poichè nessuno può venire a me, se non vi è spinto dal Padre che mi ha inviato. Ciò è scritto nelle profezie di Isaia, di Geremia e di Micah; ed è Dio che li ispirò. Ogni uomo, quindi, che ha udito ed imparato la volontà di Dio, viene a me. Non già che nessuno abbia visto il Padre; quegli soltanto che è di Dio ha visto il Padre.
— L'hai veduto tu, dunque, o Rabbì? gli domandò un giardiniere.
— È desso grigio o biondo, tuo padre, nipote mio? interrogò Bar Abbas. Lo rinneghi dunque quel povero disgraziato di carpentiere di Nazareth?
— È morto, disse un altro.
— Non lo frastornate dunque, voi altri, gridò il mio giovane vicino: non lo interrompete. Sì, Rabbì, tu hai veduto il Padre e noi ti crediamo.
— E fate bene, rispose Gesù. Sì, sì, ve lo ripeto e ve lo affermo, chi crede in me, avrà una vita eterna.
— Ma, giurabacco, gridò un mendicante, parliamo [254] un po' del pane, e lasciamo da parte il Padre ed il Figlio. M'inquieto io assai di tutto codesto. Hai del pane, Rabbì?
— Io sono il pane della vita, continuò Gesù gravemente e con più forza. I vostri padri hanno mangiato la manna del deserto, e sono morti. Gli è qui il pane sceso dal cielo, affinchè colui che ne mangia, non muoia punto. Io sono il pane vivente; se qualcuno mangia di questo pane, vivrà eternamente; ed il pane che io gli darò, è la carne mia che darò per la vita del mondo[37].
Lo scandalo fu al colmo. Le interruzioni s'incrociarono, partendo da tutti gli angoli d'ogni natura, inette, burlevoli, gravi, irritate[38].
— Ma dicci almeno, nipote, a che condimento dobbiamo mangiarti? brontolò Bar Abbas di nuovo colla sua testa alla finestra. È buono conoscer tutto. Chi sa? in un giorno di fame! Poi, come ucciderti senza farti male? Dovresti, mi pare, occuparti un po' di ciò. Tu sei troppo duro ora, alla tua età, per mangiarti crudo. Occorrerà lasciarti stagionare una coppia di giorni forse?
Tutti rincarivano in queste buffonerie. Ma una interrogazione primeggiava su tutte.
— Come mai può egli dare da mangiare la sua carne?
Gesù, ostinandosi nel suo singolare paradosso, rispose:
— Sì, sì, se voi non mangiate la carne del Figlio dell'uomo, e se non bevete il suo sangue, non avrete più in voi la vita. Quello che mangia la mia carne [255] e beve il mio sangue è in possesso della vita eterna, ed io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perocchè la mia carne è veramente un nutrimento ed il mio sangue una bevanda. Colui che mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me, ed io in lui. Ora siccome io vivo pel Padre che mi ha mandato, così quello che mi mangia vive per me. Ecco il pane che è sceso dal cielo. Questo pane non è come la manna che i vostri padri hanno mangiata, e che non li ha impediti di morire. Colui che mangerà di questo pane vivrà eternamente.
— Traduci ora tutto ciò a portata del senso comune, soggiunse Bar Abbas.
Il Rabbì, stanco di tante obbiezioni, d'avere sì a lungo parlato, egli che aveva la parola corta, d'avere fatto un sì grande imbroglio di parole, egli che per solito era chiaro e pratico, scese dalla piattaforma, e venne a sedere in mezzo ai suoi discepoli. Uno fra essi, pescatore dalla faccia di granito fortemente delineata, profondamente bronzata, mormorava fra sè stesso ad alta voce:
— L'è un po' troppo! l'è un po' troppo! come si fa a sentire tranquillamente simili frascherie?[39]
Gesù l'intese borbottare e gli rispose:
— Ciò ti urta, cuore di macigno! Cosa sarà dunque se io vi dirò che il figlio dell'uomo ascenderà nel cielo, ove egli era prima!
Io sorrisi. Gesù se n'accorse, ed il giovinotto mio vicino mi disse:
— Sei un fariseo, tu che ridi e non ci credi punto.
— È lo spirito, che vivifica, aggiunse Gesù fissandomi: [256] la carne è ottusa. Ora, le parole che ho dette sono dello spirito, ed esse sono la vita. Ma vi è chi non ci crede.
— Tu sei il Cristo, figlio di Dio, gridò il ruvido barcaiuolo.
Intanto la riunione si separava, e tutti uscivano irritati, il viso rosso dalla collera, o composto alla berta. Il Rabbì uscì anch'egli, accompagnato dai suoi discepoli, in mezzo agli sguardi furiosi, stupidi, severi o burlieri. Io m'avvicinai a Bar Abbas e gli ordinai:
— Segui quel Rabbì; ho bisogno di parlargli domani.
— Non ti sfuggirà, va!
Poi, appostandomi ad un angolo della porta, assistei all'uscita delle donne. L'ultima fermò il mio sguardo. Ella si mise a seguire da lungi il Rabbì, ed io, lei.
Gesù camminava lentamente, in silenzio, profondamente contrariato, anzi irritato. Al basso della città, volse coi suoi discepoli a sinistra, mentre la giovine donna prendeva la diritta seguendo la via romana che conduce a Magdala. Non mi avvicinai. Ella non si volse indietro. Per altro la mi aveva osservato, poichè l'avevo veduta abbassare il velo che le copriva la testa, e tremare in tutta la persona.
Non m'ero ingannato: era Maria.
A Magdala, ella penetrò nel villaggio e per una viuzza ascese alla cima della costa, all'ultima casa che s'apriva sui giardini della collina.
Qual cangiamento!
Quella piccola casa aveva la forma oblunga, l'aspetto d'una tenda, le mura nude forate da buchi quadrati, senza cornice, nè camini, la finestra della camera, al secondo piano, nascosta da un pergolato che teneva [257] lontani gli sguardi curiosi. Alla cima, una terrazza circondata da una balaustra merlata di tegole vicine le une alle altre, sopra la quale le donne ebree, col velo alzato e le calzature lasciate nel basso, coi vestiti rialzati, stendono e seccano il formentone, nutriscono le colombe ed i piccioni, ed alla sera si lavano e filano. E' fu sopra una simile terrazza che Betsabea mostrò il suo seno a Davide, che la spiava dall'alto del suo palazzo.
Una domestica che ci aveva preceduti o era restata a casa, ci aprì la piccola porta praticata nel muro di pietre rozze che circonda il giardino, nel cui mezzo sorgeva la casa. La parte anteriore di questo giardino era quasi invasa da un enorme fico; quella posteriore all'abitazione montava l'alto della costa, e guardava sul lago. Dalle due parti c'erano dei legumi. Traversando la porta della casa, passammo per un corridojo a vôlta, che conduceva ad una piccola corte interiore aperta (il patio degli spagnuoli). Due porte che davano nelle due stanze, s'aprivano dalle due parti della corte. L'inverno non era ancor giunto. Maria viveva tutta la giornata in questo sito a cielo aperto. Forse ella vi trascinava la notte il suo materasso e la coperta e vi dormiva sotto lo sguardo delle stelle.
Le famiglie giudee si coricano in quella specie di corte tutti insieme, madre, padre, fratelli, figlie, ragazzi, mogli e mariti, ed i loro bimbi; felici, quando le tenebre coprono i misteri della notte. Allorchè principia il freddo, tutti si rifugiano in una di quelle camere laterali, chiuse da un tappeto abbassato.
I muri erano imbiancati di calce e nudi, il suolo in calce e sabbia battuta. Una panchina che serviva di sedile il giorno, e di letto forse la notte, occupava un angolo del muro, una lampada di terra rossa, [258] due o tre sedie di legno, un piccolo mulino da grano, una brocca di terra cotta per andare ad attingere e conservar l'acqua; ecco tutti i mobili di questa donna, che a Gerusalemme viveva come una cortigiana di Corinto, sopra i tappeti e le piume, circondata di lusso e delicatezze.
Non scambiammo una sola parola lungo la strada. Arrivato nella sua casa, Maria, mi ricevette come se fossi stato suo fratello. Non un'allusione al passato. La mi parve sì profondamente cangiata, sì tranquilla, sì felice, che non osai risvegliare nessuna di quelle memorie che m'erano pur tanto care. Era mezzogiorno: un giorno di sabato. Maria servì una manata di civaie cotte la vigilia, un pezzo di carne fredda, del pane, e avvicinò la brocca d'acqua.
— Io non rispetto scrupolosamente il sabato, mi diss'ella, se avessi prevista la tua visita ti avrei ricevuto meglio. Ma, se pranzi male, spero che cenerai un po' meglio.
— Un buon pranzo, una buona cena sono due eccellenti cose, risposi, ma non sono tutto. Io sono felice di vederti.
— Ebbene, mi vedrai ugualmente, sia che resti seduta, o che mi muova un po' per prepararti qualche cosa da metter sotto ai denti, al tramonto. Dove abiti ora?
— Alla Casa Dorata, a Tiberiade.
— Dev'essere un po' più comodo di qui, credo.
— Non così bene, Maria.
— Tanto meglio. Se tu sapessi che attrattive ha la semplicità!
— Credi dunque molto semplice una casupola che tu riempi dei tuoi sguardi e della tua persona?
Maria lasciò passare tutti i miei complimenti per [259] non rimettermi sulle traccie del passato. Tutt'al più sorrise. Passammo la giornata, fra la corte scoperta ed il giardino, a chiacchierare. Io la seguiva da per tutto. La vidi cogliere i legumi, lavarli, cuocerli, preparare ed arrostire un pollo; impastare il pane, ammadiare la pasta per farne dei pasticcini fritti rimpinzati di mandorli, di latte rappreso e di miele; cogliere i fichi e l'uva ancor fresca nel suo giardino, ed allestire i fiaschi di vino del paese. Poi quando il sole principiò a scendere, la vidi posarsi sulla spalla una brocca ed andar a cercar l'acqua alla fontana nel basso del villaggio. Io chiedeva a me stesso: È dessa l'istessa donna! cosa ha potuto cagionare un simile cangiamento?
Essa portava una tunica bianca, incrociata alle ascelle, ed un'altra celeste sovrapposta che discendeva fino a sotto le ginocchia, stretta alla vita da una cintura di lana nera.
La giornata scorse rapida come un'ora. Il sole tramontava già tutto rosso, le leccornie preparatemi da Maria ingombravano il tavolo, ed eravamo sul punto di sederci nella corte scoperta, quando udii un rumore di passi nel giardino.
— To', disse Maria senza parere sorpresa, quantunque con emozione, gli è forse il Rabbì di Nazareth, che hai veduto questa mattina nella sinagoga.
— Sarei felice d'incontrarlo, diss'io, ma non in questo momento: sono sì felice di trovarmi solo con te.
Eppure era ben desso, il Rabbì, e non era solo. Giovanni, il figlio di Zebedeo, il giovine che era seduto a me da presso nella sinagoga, l'accompagnava; e tre minuti dopo apparve anche Bar Abbas.
Gesù m'imbarazzava; ma al postutto avrei tirato partito dal caso che me lo conduceva sì opportunamente. [260] Gli altri due mi tediavano. Giovanni, vedendo tante buone cose preparate sul tavolo, gonfiava le sue giovani narici, e fiutava il pranzo come un cane da caccia. Il ragazzo si prometteva un piccolo festino. Ma questa non era la mia intenzione. Volevo esser solo fra questa donna ch'io sapeva muta, fedele, prudente, ed il Rabbì a cui volevo parlare. Feci dunque cogli occhi un segno a Bar Abbas, indicandogli il piccolo Giovanni, ed allargai la mia cintura. Bar Abbas comprese, rammentandosi della nostra conversazione. Egli prese dunque pel braccio Giovanni e conducendolo fuori del giardino:
— Vieni, gli disse, voglio regalarti all'osteria. Hai quattrini, ragazzo?
Ahimè! Giovanni aveva compreso il mio segno; s'era veduto frustrato di quell'appetitosa cena, egli che era sì ghiotto, e così permaloso! Non me la perdonò mai più. Nulla potè, nelle nostre relazioni posteriori, raddolcire la reciproca nostra antipatia[40].
La cena fu fraterna e dolcemente gaja. Finita che fu, presi il braccio del Rabbì e lo condussi in quella parte del giardino che era dietro la casa.
[261]
La notte era bella. La luna piena, specchiandosi nel lago, le dava quei riflessi brillanti e vivaci, cui l'aurora dà al tetto del Tempio, irto di lame d'oro. Milioni di stelle volteggiavano nell'azzurro silenzioso del firmamento. Nessuna voce umana arrivava fino a noi: le voci stesse della notte non avevano principiato le loro armonie. Maria, che aveva osservato il segno da me fatto a Bar Abbas per isbarazzarci di Giovanni, ci aveva lasciati soli. Il Rabbì ed io passeggiavamo sotto un pergolato di vite carico ancora di pampini violacei e di grappoli dorati, contemplando in silenzio il grandioso spettacolo del lago e le montagne vaporose della Galilea e della Perea, le piccole ville e i villaggi, che riposavano sulle rive dell'acqua, in mezzo ai giardini profumati.
Il Rabbì sembrava assorto. Evidentemente lo smacco del mattino, lo scandalo, i rumori, le risa, i motteggi che egli aveva suscitati nella sinagoga l'avevano colpito, anzi ferito. Egli, così grave, così positivo, era stato messo alla berlina sur un ribobolo — sfuggitogli per rispondere ad una importuna domanda — vi era stato confitto implacabilmente, e ricondotto a quella sua parola, quando se ne staccava, con una crudele ostinazione. Gli era stato mestieri svolgere una corona di non sensi come parole profetiche, ed [262] alzare un bisticcio al grado di una promessa messianica. Io era stato edificato della sua persistenza del suo sangue freddo, della sua ostinazione, e della sua presenza di spirito. Egli che d'ordinario parlava poco, aveva lungamente dissertato; niente l'aveva scosso. La sua imperturbabilità, anche nel paradosso, m'aveva cattivato. La potenza della sua volontà, per non andare in collera, l'elasticità del suo spirito, per trovare e presentare sempre una nuova faccetta della sua prismatica assurdità, m'avevano sedotto. Dissi a me stesso: ecco il mio uomo, se vuol essere un uomo! L'ardire, la calma, la tenacità, la franchezza, la finezza, la frase misteriosa, l'accento seducente, lo sguardo fascinatore, la poesia.... nulla gli mancava per dare alla plebe un'anima ed un braccio.
Siccome il Rabbì, immerso nei suoi pensieri, continuava a tacere, io gli dissi:
— Rabbì, ero questa mane alla sinagoga. E' sono stati implacabili.
— Bisogna scusarli; non m'hanno compreso, rispose Gesù con dolcezza.
— Non t'hanno compreso, e non era poi molto facile il comprenderti. Ad ogni modo, la cosa è spiacevole, perocchè sono dei malintesi che divengono talvolta fatali. Un mio fido ha vôlto la cosa in ischerzo. Le sue buffonate hanno soffocata e stornata la collera che si accendeva negli occhi di quei sozzi bigotti. Senza ciò, non so' come il tuo parashà avrebbe finito.
— Il popolo principia sempre per mormorare e finisce quasi sempre coll'adorare. Ma chi sei tu che così t'interessi a me?
— Da questa mane, sono tuo discepolo.
— Mio discepolo? Sai tu dunque ciò che occorre [263] per esserlo? La regola è dura: io sono assorbente come la donna.
— Dimmi le prove che esigi.
— Lascierai tuo padre.
— È morto.
— Tua madre.
— Ahimè! la povera donna mi vede sì di raro, e mi desidera così tiepidamente.
— Lascierai tua moglie.
— Non ne ho.
— Lascierai i tuoi fratelli e le tue sorelle.
— Non ho fratelli. La mie sorelle pensano ai loro figli, ai loro mariti.
— Venderai quanto possedi, e lo darai ai poveri.
— Non ho d'uopo di vendere nulla, e farò qualche cosa meglio che dar i miei beni ai poveri. Li metto nella borsa comune, Rabbì, e vi si troverà sempre qualche cosa quand'anche gli altri non vi mettessero nulla[41].
— D'onde vieni, tu?
— Donde vengo? Arrivo da Makaur, Rabbì, ed ho veduto la testa del Battista servita sopra un piatto alla festa anniversario della nascita di Antipas.
— L'hanno dunque ucciso? gridò Gesù vivamente colpito.
— Per piacere ad una giovinetta, che ha danzato un passo voluttuoso.
[264] Gesù si tacque, e restò concentrato per alcuni istanti, poi sclamò:
— Ch'egli abbia la pace nel cielo! Iohanan era un giusto.
— Questa mattina, o Rabbì, ho lasciato la Casa Dorata di Tiberiade. Ci sarai forse invitato domani.
Gesù fece bruscamente alcuni passi verso la porta del giardino. Poi si fermò come vergognoso del suo istinto alla fuga, ed affermò:
— Non vi andrò.
— V'hanno, o Rabbì, degli inviti che rassomigliano ad ingiunzioni. Se tu non ci vai, ti faranno prendere.
— Allora che la volontà di mio padre sia fatta. Seguì un istante di silenzio. Io ripresi:
— Rabbì, Maria m'ha assicurato che tu sei uscito poco al di fuori del raggio di questo bel lago; che al più al più sei andato fino a Tiro ed a Sidone; che non hai mai posto piede in una città greca o romana. Non l'avevo creduto. Ma mi sento disposto a crederlo, vedendo la tua rassegnazione.
— E perchè?
— Tu non conosci il mondo. Gli è proprio qui soltanto che tu vuoi, o Rabbì, restringere e seppellire la tua missione? Hai mal scelto il tuo teatro. Pochi mesi fa, sei quasi stato sul punto di essere precipitato dall'alto d'una roccia, a Nazareth, per esserti dichiarato l'unto del Signore; oggi ti avrebbero lapidato se non avessero riso, perchè ti sei spacciato come il pane della vita. Tu sei in mezzo ad un popolo che aspetta dei fatti, e tu gli annunzi delle verità. Essi domandano di vedere, tu imponi loro di credere.
— Credere, è vedere dell'anima.
[265] — Il popolo non ha anima. L'anima si forma; ed esso non ha il tempo di formarla. Tutt'al più il popolo ha un cuore, per balzi.
— Ecco la mia missione: io porto un'anima a questo popolo.
— L'è molto bella; ma tu non hai ancora sballata la tua mercanzia, ed io credo che questo non sia il mercato conveniente per metterla a partito. La Galilea non è il tuo forum, la tua sinagoga, il tuo tempio, come meglio t'aggrada. La Galilea è il giardino della Siria, un pezzo d'Italia sotto il cielo dell'Asia. Al mormorio delle sue dolci acque, all'ombra dei cedri del suo Hermon, delle quercie del suo Carmelo, delle palme dei suoi colli coperti di mirti, di vigne e di aranci; alle attrattive di questa natura che ricorda le rive del Nilo e di Damasco, si ama, o Rabbì, ma non si crede. Qui, i Romani hanno tracciato le loro strade della Campania; i Greci e gli Egiziani, i larghi sentieri a cammelli di Memfi. Questo angolo della terra racchiude i più bei paesaggi che l'est e l'ovest svolgano con incanto.
— Tu credi?
— Quando gli uomini del mare abbatterono Tiro e Sidon, onde sopra onde di Cipriotti, d'Egiziani, di Macedoni, d'Italiani e di Arabi, da quelle piaggie conquise si sparsero sopra questa provincia, parlando diversi idiomi, vestendo costumi proprii, adorando dei particolari, trascinando con loro nelle città ch'essi avevano fatto sbucar dalla terra, le loro ricchezze, le loro credenze, le loro arti, la loro scienza. La casa ebbe una famiglia, cui il Giudeo ritiene come impura, il tempio ebbe un Dio, cui il Giudeo ritiene come un demone.
— Sì, si confusero insieme, ma non si mischiarono.
[266] — Cosa importa, Rabbì? Il coltivatore cananeo, il vignajuolo giudeo, hanno essi potuto far a meno di frequentare per forza l'artigiano, il commerciante che discendevano forse da quei principi di Tiro e di Sidon cui Alessandro e Pompeo rigettarono dal mare nel centro di queste montagne, o che vennero d'Antiochia, d'Alessandria o da Roma? Nelle città della costa, Tolemaide e Tiro, nelle città forti dell'interno, Sephoris e Gadara, si accumularono gli artisti, gli operai in oro e marmo, i rettori, i pittori, gli oratori, le danzatrici, i poeti lubrici, i professori di tutte le arti, i propagatori di tutti i vizii venuti dalla Grecia, i legionarii, gli avvocati, i gladiatori, le cortigiane, i cocchieri, i procuratori, la polizia... un mondo intero distillato dalle cloache della Gallia, della Spagna e dell'Italia. Ma i figli di Esaù, che vivono sotto le loro nere tende del deserto, e sopra le rudi e nude montagne al sud del Giordano, possono essi far a meno d'incontrarsi, d'intravedersi, di odiarsi anche, se il vuoi? I rivali di questo suolo non si uniscono guari in matrimonio, non vivono nelle istesse città, si evitano il più che possono; ma c'è una corrente che va dagli uni agli altri: c'è un sentimento che non conosce ostacolo, che si slancia dalla tenda dell'Arabo, che passa sulle città murate del Greco, che invade le città aperte del Giudeo, e la capanna del Siriaco — l'odio — e questo legame comune è indissolubile.
— Sì, poichè essi non hanno ancora udito la grande parola che io loro reco: la fratellanza.
— La fratellanza tra la tigre ed il lepre? Rabbì, ciò che la magia dell'arte greca non ha ancor fatto, ciò che la potenza di Roma non ha ancor ottenuto, là dove la grande personalità del re Erode ha naufragato, [267] nessuno riescirà. Nessuno, nè un Samuele, nè un Elia, nè tu, nè Dio stesso. L'argilla di cui l'uomo è impastato, è eterna ed invariabile. L'ebreo e questi stranieri sono separati da una maledizione irrevocabile: l'impurità. Il giudeo è una anomalia nella società umana. Egli non può avere nulla di comune collo straniero; non può toccar nulla di ciò che lo straniero ha toccato; non può bere all'istessa tazza, sedere alla stessa tavola, dormire nella stessa città, passare la soglia dell'istessa casa che il Greco o il Latino passarono. Lo spirito cupo ed insocievole dell'Ebreo non si rischiara all'attrazione raggiante dei popoli europei. La legge ebrea è inesorabile.
— Io vengo per cangiar codesta legge, rispose Gesù con tuono ispirato. Io vengo a cominciare un'altra êra del popolo di Dio. Noi non imiteremo più degli antenati, di cui non dobbiamo che arrossire. Noi non riconosceremo più come padre quell'infame Abramo, che obbliga Sara sua moglie a provvedere il suo letto di concubine, e che la prostituisce per danari ai re Abimelech e Faraone, facendola credere sua sorella. Noi rinneghiamo quell'infame Loth, che dorme colle sue figlie al chiarore di Sodoma bruciante ancora; quell'infame Isacco che trafficò di sua moglie Rebecca e visse di questa prostituzione; quel dissoluto Giacobbe che passa da Rachele a Lia, dalle due sorelle alle loro schiave, l'istesso giorno, l'istessa notte, lordando la religione del matrimonio. Il padre di Giuda, che ebbe un commercio vergognoso con Tamar, vedova dei suoi due figli, la quale si mascherava sotto il vestito delle prostitute e che quel patriarca frequentava, ci fa orrore. Noi ci vergogniamo di Davide che fece uccidere il suo ufficiale Uria per prendergli la moglie, avendone già tante altre; di [268] Salomone che sposa trecento donne, avendo già settecento concubine e delle innumerevoli figlie di re; di quell'Osea, primo fra i profeti, che ebbe dei figli da una donna pubblica, e la rinnegò; di quel traditore Geremia, che profetizzava in favore di Nabuchadnezzar; d'Isaia che passeggiò nudo in mezzo a Gerusalemme; di quell'Ezechiele a cui Dio ordinò delle cose così immonde, e che lo fece parlare così impudicamente. Noi veniamo a rovesciare le leggi di quel Mosè che commise un omicidio, fu ladro in Egitto, ebbe diverse mogli, e fece delle azioni inique. Io porto un nuovo codice che non ha che un precetto: gli uomini sono fratelli.
— Non si tratta punto della tua dottrina, o Rabbì. Che monta che tu abbi del grano d'Egitto, se lo semini sulle roccie di Moab? Sopra un suolo ove sono passate dodici generazioni, vicine le une alle altre senza darsi la mano, senza scambiare la parola del viaggiatore, la fratellanza è una burla, se pure si arrivasse a comprenderla. La Galilea è la terra dei messia, perchè questo popolo attende un vendicatore. Il messia è un generale che giunge dal cielo per condurli alla vittoria con meno fatica; la vittoria è l'espulsione dello straniero. Ecco il messia che la Galilea saluterà con entusiasmo, e seguirà con fede. Ma, d'altra banda, qual'è la sorte che i minacciati preparano a codesti portatori della collera divina?
— Ahimè! terribile.
— Sì, o Rabbì, i messia non ci sono mai mancati. Sakya-Muni, Hillel il babilonese, ebbero la scienza. Erode, Giuda il figlio di Ezechia, Simon lo schiavo, Athrongeus il sacerdote ed i suoi quattro fratelli, Theudas, Giuda di Gamala ed i suoi figli Simone e Giacomo ebbero la spada. Ma essi apparirono e passarono. [269] Gli Ebrei non compresero Erode e la sua missione di fusione, che tu chiami fratellanza. Al di là del deserto, presso Gerico, Gratus schiacciò ed uccise Simone che aveva bruciato i palazzi d'Erode a Gerico e nei suoi dintorni, Theudas che bruciò il palazzo del re ad Amathus ed a Betharemphta presso il Giordano, e Athrongeus che si era incoronato[42]. Là in faccia a noi si rizzò come gigante quel nobile Giuda di Gamala. Devoto alla legge orale, e' predicò la libertà nazionale, l'eguaglianza degli uomini, e che non vi doveva essere nè re nè padroni del mondo all'infuori di Dio. Lo si credette come un profeta, lo si seguì come i fratelli Maccabei. Insegnò il disprezzo della morte, e sancì le sue parole con un sublime eroismo, combattendo. Giuda tuonò contro le imposte esatte dai romani, ordinò al popolo di rifiutarle e di resistere. Il popolo minuto gli si strinse intorno. Un nobile fariseo, Sadok, gli si unì nella missione. Da ogni parte il popolo si sollevò. Cirenius andò incontro a loro, li battè, li schiacciò, mise in croce Giuda e Sadok. Cirenius credette di aver trionfato. Pilato doveva imparare a sue spese che quel trionfo non era stato completo, poichè Giacomo e Simone, figli del martire, non rinunziarono all'opera del loro padre. Giuda lasciò dietro a sè una setta: gli Zeloti; un testamento; mai tregua ai romani! o Rabbì, il popolo attende ancora il suo liberatore.
— È arrivato.
— Se è arrivato, egli comprenda che il suo assunto è terribile, e che il suo posto non è nella Galilea.
[270] Questo suolo è fatale. Jeri periva il Battista; domani perirai forse tu pure, o Rabbì. L'inimico qui è potente; e quand'anco si giungesse a vincerlo, niente è fatto fino a che resta a Gerusalemme. Gli è di là che deve venire il colpo: gli è là che lo si deve portare.
— Gerusalemme divora i profeti.
— Sì, i profeti che piagnuccolano, non quelli che agiscono. Certo, a Gerusalemme il successo è più difficile, il pericolo più grande: perocchè là bisogna contare forse più con i partiti che con i soldati. Ora i partiti sono trincierati dietro a palizzate di bronzo. Bisogna intendersi con loro; bisogna cercare il punto comune di contatto. Esiste esso codesto punto? I Maccabei hanno franto l'antico mondo giudeo; ma essi trovarono aperta la breccia. La breccia era stata fatta a Babilonia. Il povero, incolto e primitivo Giudeo era stato abbagliato in una città, ove l'arte, la ricchezza, il lusso, l'attività, ed il piacere prendevano le sembianze di meraviglie. La loro dottrina mosaica fu scossa da quella di Zoroastro. Due generazioni, che vissero in Babilonia, consideravano ormai la Giudea come una terra di condanna — le classi ricche, le nobili ed istrutte principalmente; giacchè esse erano più al caso di comprendere quelle arti e quella scienza, di godere di quegli splendori. I vecchi libri, la vecchia lingua di Mosè furono dimenticati. Un nuovo partito si formò nella vecchia massa; i Sadducei restarono fedeli, a lor modo, all'ebraismo; i Farisei proclamarono la necessità della riforma. Tutti ritornarono dall'esilio, con Babilonia nel cuore.
— Ecco il fallo.
— Ecco, io credo invece, il progresso. In ogni caso i Sadducei, invaghiti più degli altri di quella civiltà [271] piena di lusso, cercavano di farsi perdonare i loro gusti con una apparenza di più stretto attaccamento al vecchio patto di Mosè; i Farisei, che vedevano la breccia praticata nelle antiche leggi dal contatto dei Caldei, tentarono di legalizzarla e ristringerla, proclamando, come altrettanto sacra, la tradizione degli anziani, detta legge orale.[43] La civiltà caldea importata da quelli che ritornavano da Babilonia s'incontrava con quella che la Grecia aveva soffiata sulle coste di Tiro, di Sidon, di Gaza, di Joppa, o che veniva da Cipro e d'Antiochia. Questa trionfò.
— Ecco la disgrazia.
— No, Rabbì, ecco ancora il progresso. Era però naturale, che quando i Maccabei infransero la potenza macedone, succedesse una reazione. Essi erano stati aiutati nella guerra dai separatisti, che si chiamavano Farisei; questi presero il potere e dettarono la legge. I Sadducei che accettavano tutte le forme esteriori della vita, tutte le trasformazioni della coscienza, ma lasciavano intatta la legge nel tabernacolo, furono messi da parte, come gente strana nei costumi, retriva nello spirito.
— A che setta appartieni tu dunque?
— Alla sadducea.... ed a nessuna. Il gran collegio [272] decise che la legge orale era eguale al patto di Mosè. Da allora quella legge divenne formidabile. Mentre però essa era obbligatoria, mentre discendeva a regolare fino le più piccole azioni dell'uomo, fino alla maniera in cui doveva tener le sue mani, ed a quale temperatura poteva riscaldar l'acqua, era proibito l'insegnarla, e la lettura non ne era permessa che ad uno scarso numero di privilegiati. Gli Ebrei dopo questo nuovo codice divennero un popolo di macchine: l'iniziativa, la libertà, lo spirito furono inutili, furono anzi un delitto. Le più stolide scempiaggini divennero un dovere e furono sacre. La legge di Mosè faceva dal popolo ebreo il primogenito dei popoli; la legge orale ne fece un idiota presuntuoso e barbaro, che respinge la luce, la scienza, la socievolezza, la fratellanza degli uomini.
— So tutto ciò; ecco perchè io condanno i Farisei ed i Sadducei.
— E gli Esseniani?
— Sono fanatici che cangiano, esagerandolo, il bene in male. Io li condanno anch'essi.[44]
— Ebbene, o Rabbì, hai torto di condannarli. Il tuo [273] compito è di conciliare. La separazione uccide la nazione ebrea. Occorre trovare il punto di contatto, il terreno neutro ove tutti i partiti possano darsi la mano, lasciando ad ognuno il movimento libero nel suo proprio cerchio.
— Questo terreno esiste forse?
— Esiste. Gli è l'odio di tutti e di ciascuno contro lo straniero.
— L'odio! sempre l'odio! gridò Gesù dolorosamente. Ed io che sognava di fare dell'amore il codice del mondo.
— Rabbì, hai detto il vero quando dicesti che sognavi. L'amore uccide, Rabbì. È questa roccia dell'odio, è questo amore in rivolta che dà al mondo la energia e la varietà. Dio scacciò Adamo dall'Eden perchè vide la sua creazione in pericolo di sciogliersi; come una perla di neve al sole, in quell'interminabile assopimento dell'amore. Non cercare di renderci tollerabili i nostri oppressori. Tutte le nostre dissonanze si mettono all'unissono in questo grido di esecrazione. Ciò che ci occorre, Rabbì, gli è che Dio pure entri nella partita, e che l'uomo che si dice il suo profeta, il suo messia, od il suo figlio, getti l'istesso grido in nome di Dio.
— Dio anch'egli si metterebbe dalla parte della distruzione? sclamò Gesù commosso.
— Rabbì, ascoltami con attenzione, poichè il caso m'ha posto sulla tua via, e che abbiamo toccato un così grave soggetto. Tu ti sei dato a Nazareth per il Messia che ogni Giudeo accarezza nel suo cuore; e qui, questa mane, per il figlio stesso di Dio. A Nazareth hai eccitato la collera; qui, l'ilarità. Questo angolo del mondo che tu avevi scelto per i tuoi traffichi di divinità è stato da prima mal scelto, ed alla [274] prova, esso ha respinto i tuoi tentativi. Ti è impossibile continuare la tua missione nella Galilea. Soccomberesti, o cadresti al livello di quei fascinatori di serpenti e venditori d'impiastri che servono di distrazione nelle strade. La Galilea attende qualche cos'altro, e gli stranieri che vi sono in gran numero, e potenti, non ischerzano coi messia. La sorte del Battista ti dice abbastanza quella che ti riserva la Casa Dorata, e ciò che nasconde l'invito che sei per ricevere. Occorre dunque lasciare la Galilea, o ritornare modestamente, dopo esserti proclamato figlio di Dio, e non so che altro, a fare delle casse, e allestire dei burchielli. Ti convien essa, codesta caduta, che ti farebbe correr dietro tutti biricchini delle strade? Dopo aver sognato qualche cosa di più grande d'un grande sacerdote, di più potente del re Erode stesso; dopo esserti librato coll'aspirazione al disopra di tutto il paese d'Israello; dopo aver attaccato i Farisei, i Sadducei, i ricchi, i principi ed i sacerdoti; dopo esserti proclamato successore dei profeti del popolo di Dio; dopo aver veduto, nelle estasi delle tue notti insonni, i popoli prosternati ai tuoi piedi, dimmi, o Rabbì, ti convien forse di ritornare alla tua bottega, alle tue tavole, alla tua pialla? E i miracoli che hai fatti? e la parola che hai annunziata come la verità? Ed i discepoli che ti hanno seguito come la face del loro spirito? E quei potenti della terra che ti hanno temuto come un riparatore? E i meschini che avevano posto in te la loro fede, in te, voce d'amore, d'eguaglianza e di carità? Tutto ciò non sarebbe stata che una ciurmeria d'un ciarlatano? Rabbì, ciò è impossibile. Ucciditi, ucciditi piuttosto, ma non cadere. Io te l'ordino in nome della dignità umana.
[275] — Non hai duopo di simili intimazioni.
— Tanto meglio, maestro, tanto meglio; poichè nessuno più di te ha elementi così scelti, così completi, per avere una gran parte in questo mondo. Il mondo, maestro, appartiene ai sognatori perseveranti. Ebbene, lasciando la Galilea, non puoi venire che a Gerusalemme. Se Gerusalemme ti adotta, come adottò Giuda Maccabeo, e' non ci sarà gloria al disopra della tua. Tu passi per figlio di Dio che libera per la terza volta il suo popolo. A Gerusalemme i tuoi nemici sono i partiti. Essi saranno tutti contro di te, se ti proclami un partito. Tu devi invece innalzarti al disopra di tutti: e trar profitto delle loro comuni passioni. Se tu prendi questo posto, tutti cadranno d'accordo per ammetterti come figlio di Dio; perocchè quegli orgogliosi non si rassegnano a sottomettersi che a Dio. Il sagan, il gran sacerdote, il gran collegio, il sanhedrin, le sinagoghe, i Sadducei, i Farisei, gli Esseniani, i Betusiani, gli Erodiani, i Zeloti, tutti crederanno di non abdicare, piegandosi dinanzi la parola che in nome di Dio dirà loro: la vostra patria vi appartiene! Allora i miracoli, sotto la tua mano, si faranno da sè stessi. Il tempio s'aprirà dinanzi a te, come dinanzi l'arca del Signore. Le tue vie saranno coperte di rose; i tuoi giorni un inno continuo; le tue notti una danza d'astri, che risuoneranno del tuo nome come del nome di Dio. Dimmi ora, o Rabbì, di', vuoi tu venire a Gerusalemme?
— Verrò, rispose Gesù con accento profondo e commosso; sì, verrò.
— Ne sono felice, o Rabbì. Ma ricordati che in Gerusalemme non c'è altro posto per te, che o il palazzo di Davide, od il Calvario.
— Che la volontà di Dio si compia!
[276] Uscii.
Ogni altra parola sarebbe stata inutile, inopportuna od imprudente. Traversando la parte anteriore del giardino, incontrai Maria. Ella ci aveva lasciati tranquilli, ma aveva compreso l'importanza del lungo nostro colloquio. Ella conosceva lo scopo della mia vita. Maria mi fermò, e gettandomi le braccia al collo, sclamò con un accento pieno di disperazione:
— Oh! Giuda, non rapirmelo; io l'amo.
Fui tocco da questa parola sfuggita da quel cuore in tumulto, e le risposi baciandola sulla fronte:
— Cara Maria, hai ben ragione. Un cuore come il tuo è degno di quell'amore.
All'indomani, colmo di regali per le mie sorelle lasciai Tiberiade. Antipas convinto che io agiva per lui, mi aprì le casse del suo tesoro, e promise di venire a Gerusalemme pel paschah. Erodiade mi disse:
— Giuda, tutto ciò che una donna possiede, tutto ciò che una principessa può.... disponi di tutto, e rialziamo questa grande casa di Erode che il destino dirupa.
[277]
Io aveva lasciato Tiberiade con l'intenzione di recarmi a Sephoris, per vedere i tre figli di Giuda di Gamala. Un incidente mi fece cangiare di piano. Venni ad urtare in uno di quei piccoli nulla che decidono sempre dei grandi avvenimenti, e che doveva avere una così grande importanza nell'insurrezione del popolo ebreo che io mi ordiva.
Io aveva osservato l'invincibile ripulsione, l'orrore che la voce e la vista di Gesù Bar Abbas svegliavano in Gesù da Nazareth. Camminando all'indomani sulle rive del lago, gli chiesi:
— A proposito, potresti tu dirmi per quale causa il Rabbì di Nazareth ha per te una così profonda antipatia?
— Sei ben curioso, per esempio!
— No. Soltanto, ora ho il dovere di conoscere il più che posso di quell'uomo, onde afferrarne l'intera fisonomia, sotto tutti i rapporti. È altrettanto difficile di penetrare direttamente in queste nature mistiche, che agognano alla consustanzialità con Dio, che di penetrare nei segreti dell'Etna. È mestieri quindi metterli in camicia, a loro insaputa.
— Hai dunque definitivamente fissato le tue viste su quel Rabbì?
— Definitivamente? No. Ma egli ha delle attitudini, dei tratti, che ben diretti, potrebbero farne un porta voce ed un porta bandiera abbastanza conveniente.
— Per me ho contro codestui le istesse prevenzioni [278] che avevo contro il Battista, di cui fortunatamente siamo sbarazzati.
— Che prevenzioni?
— Il Rabbì di Nazareth giuocherà la partita per suo proprio conto servendosi dei nostri dadi puntati — se pure giuoca il nostro giuoco. Ma non darà nella trappola. È così dolce l'essere adorato come figlio di Dio, grattandosi.... le chiappe, raccontando delle storielle morali, e, nell'ozio, dando alle donne isteriche delle pillole per far loro vomitare il diavolo. Codesti biascicatori di frasi vuote, cui nessuno comprende — neppur chi le fabbrica — non arrischiano certo la loro pelle ben grassa, per demolire dei Cesari. Demolire dei Cesari! Mille pesti! bisogna avere più di pelo nel cuore che sulle labbra o sul mento. Vogliamo altra cosa, noi: un messia corazzato.
— Tutto ciò è stato detto, e ripetendolo tu vuoi sfuggire di rispondere alla mia domanda.
— Io non cerco mai di sfuggire, quando ci sono dei colpi da ricevere, o delle vergogne da vantarsi. Io metto al sole le mie piaghe con voluttà — per nauseare coloro che me le hanno prodotte.
— Cospetto! tu m'intenerisci. Saresti tu convertito al regno di Dio, di tuo nipote? T'avrebbe egli promesso un posto in quel regno?
— Avrei preferito che mi avesse dato un posto alla sua scodella, se ne avesse una di ben provveduta. Ma ecco la ragione del nostro disgusto, quella che sembrami probabile almeno, perocchè non so proprio bene perchè egli mi glorifichi sempre del nome d'infame, ogni qual volta mi trova sulla sua strada. Infame! Cosa diavolo vuol dire? Credo che derivi dal latino in fame, o da qualcosa che significa aver sempre fame. Ebbene, a mia fe', bimbo mio, tu hai doppiamente ragione: ho sempre fame io.
[279] — Sei sapiente come Gamaliele figlio di Simone. La tua spiegazione dell'infame è ammirabile. Ma principia un po' questa tua storia.
— Eccola qui in due parole. Io aveva reso un servizio al comandante della quarta legione in Germania; uno di quei servigi che si dimenticano raramente. Ritornato dalla guerra povero come un lebbroso, divenendo di giorno in giorno sempre più mariuolo a Gerusalemme, avevo inteso dire che questo Claudio Pellas, il comandante della quarta, essendosi disgustato con Augusto, era stato esiliato nella Golonitide, e aveva ottenuto di vivere nella Galilea. Gli è quello stesso che ha fatto regalo della loro sinagoga ai marinai di Cafarnaum. Decisi di andarlo a vedere. Vi fui infatti e lo trovai in quel bel villaggio di Nazareth, circondato dalle cure d'una donna eccellente, maritata ad un falegname chiamato Giuseppe. Il mio Romano mi ricevette come un Parto. «Chi sei tu? io non ti conosco, va all'inferno e lasciami in pace.» Lo lasciai in pace, e per sopramercato perdetti la mia, poichè presi moglie. Visitando quel caro Pellas incontrai una vedova, sorella del carpentiere, che possedeva un pezzo di terra presso Betlemme. Sposai la terra, la vedova, ed il suo cattivo temperamento.
— Le vedove hanno sempre torto. Non c'è questione.
— Eppure la mia, posseduta da cinque o sei dozzine di legioni di diavoli, voleva sempre aver ragione. «Gesù, non bere. Gesù, non giuocare. Gesù, non aver sempre delle brighe con tutto il mondo, Gesù, non far la corte alle femmine delle strade. Gesù lavora.» Lavora sopratutto! Era la sua manìa! Lavora! lavora! Come se la fosse stata una festa quel rabberciare dalla mattina alla sera delle ciabatte, e [280] il giorno dopo ricominciare, e ricominciare sempre per settimane e mesi! Mille fulmini di fulmini! Maneggiare la lesina dopo aver maneggiato la lancia e la spada! coprirsi il petto d'un grembiale di pelle di becco, dopo averlo avuto coperto di una corazza d'acciaio! tagliarsi le dita con un trincetto, dopo aver ricevuto delle ferite, e dei colpi di daga alla guerra! Ah! vecchia carogna! va, va, non mi dirai più lavora, lavora....
— È morta dunque?
— Sì, Dio mercè, è morta. Insomma, come vedi, quella donna rabbiosa ed io, vivevamo molto male insieme. La mi aveva nondimeno acchiappato un bamboccio, nella ubbriachezza, in una di quelle notti d'inverno in cui, a mancanza di meglio, la moglie ti serve di stufa. Quel marmocchio era grazioso: non mi rassomigliava punto. A due anni, beveva già del vino, rosicava dei peperuoli intossicati, e mordeva sua madre. Mia moglie era sempre stata malaticcia. Non si pensa ella ora di cadere proprio ammalata? Era cardatrice di mestiere. Obbligata di porsi a letto, fece venire una figlia di suo fratello per assisterla, ed attendere al bimbo. Un giorno, infatti, o meglio una sera, rientrando, trovo una ragazza buona a portare un marito, ed un amante per soprassello, la quale mi accosta timidamente, e mi prodiga dei «barba mio» ad ogni motto. Non osservai punto quella tosa. Ho saputo di poi che il mondo la trovava bella.
— Non la vedesti dunque?
— Io la vidi al contrario, per un anno o due, ma non la guardai mai. Quell'oggetto delicato, bianco, diafano, sfuggiva al mio sguardo abituato ai grossi selvaggiumi notturni. Per finirla, mia moglie morì, e mi lasciò sulle spalle il marmocchio coll'appendice [281] di quella ragazza di cui io non sapeva che farmi. Una circostanza mi cavò d'imbarazzo, e mi porse il modo d'utilizzarla.
— Hai così poca immaginazione tu, di non trovare un mezzo d'utilizzare una fanciulla?
— Non ridere, Giuda: n'ebbi ripugnanza. Vi sono dei pregiudizii che si piantano nell'animo come degli uncini di ferro, e si ha un bel fare, non s'arriva a svellerli. La mia piccola, che come sua madre si chiamava Mirjam, andava tutte le sere a cercar l'acqua alla fontana del Dragone in una giara che portava sulla sua spalla dritta. Pare che fosse incontrata da qualcuno che, trovatala di suo genio, la seguì fino alla mia abitazione e s'informò di lei e di me.
— Sono sicuro che gli si diedero sopra di te delle informazioni rassicuranti e lusinghiere.
— Così lusinghiere e rassicuranti, ti dico, che un giorno.... tu conosci, credo, Cneus Priscus?
— Se lo conosco!
— Ebbene, quell'orso mal leccato m'incontrò un giorno come per caso, e facendomi l'onore di considerarmi come un vecchio legionario romano, m'invitò — all'occorrenza dell'anniversario d'una battaglia perduta da Tiberio cui si festeggiava come se fosse stata vinta — a venire ad un banchetto della sua centuria.
— Non si rifiuta di bere alla salute di Cesare, che diamine!
— È precisamente quello che io dissi a me stesso. Ci vado. Si parla. Si vi riscalda; s'alterca; corrono parole grosse come la torre di Davide, e dei colpi di daga da calibro. E quelli che restano divengono amici. È la storia dei mio banchetto. Abbrevio.
— Non abbadarci, va sempre avanti.
— Dopo delle circonlocuzioni assai goffe, Cneus [282] Priscus mi disse che il comandante di non so qual legione era innamorato cotto di mia nipote. Io era già mezzo brillo a forza di vecchio Chios; nondimeno l'idea di fare una buona speculazione di quel pezzo di carne senza sangue, mi balenò subito dinanzi agli occhi. — Mia nipote si vende e non si dà, risposi io sentenziosamente alla maniera del vecchio Hillel. — E chi ti ha mai detto, brutto muso, che la si volesse gratis, tua nipote? A quanto la libbra la vendi tu? — Io la valuto all'ingrosso. — Quanto? — Ne domando diecimila sesterzii.... — Te ne spippolo quindicimila. Vuoi tu giuocarli adesso, e guadagnarne tre o quattro volte tanto, comperarti una bottega di manichi da coltello e finire la tua vecchiaia in mezzo ai corni di bove e di montone? — Io ti giuoco l'anima, se ne hai una, e se vuoi arrischiarla, per farne delle suole a sandali da prete. — Avanti dunque, ma ai dadi, sai. — Eccoli, guardali. — Sta bene, ma il denaro? — Non mi devi tu quindicimila sesterzii? — E tu, non mi sei tu debitore di tua nipote? — Prendila dunque: o vuoi che te l'imballi con della paglia? — Va bene allora. Andrò a cercarla. Soltanto bisogna andar d'accordo in talune precauzioni. — Quali? — Verrò domani sera a mezzanotte, e avrò una lettiga per riporvela convenientemente. — Abbi tutto quello che vuoi. — Griderà forse? — Ciò ti risguarda. Io ti apro la porta; ti conduco nella sua stanza; tu mi dai il denaro.... e che il diavolo ti porti. — Ci mettiamo a giuocare. Guadagno cinquemila sesterzii. — Ti devo ventimila sesterzii, camerata, disse Cneus Priscus; a domani sera.
— E venne?
— Se venne! esatto come il gnomo del monumento d'Hircanus. A mezzanotte una lettiga portata da quattro [283] schiavi neri si fermò dinanzi la mia porta. Cneus mi rimise una borsa col denaro: ventimila sesterzii! Mentre io li contava, egli entrò nella camera ove Mirjam dormiva col bimbo nelle braccia. Si gettò il bertuccino da una parte, s'inviluppò la testa della ragazza in non so cosa, una coperta credo, la si tolse su come una piuma, e due minuti dopo era sparita. Se il marmocchio non avesse gridato, nulla avrebbe interrotto il silenzio imponente della notte.
— E non sai cosa ne è avvenuto di poi?
— Sono due anni che non ho più inteso parlarne. Ella si è ecclissata, se però è tuttora di questo mondo.
— Ed è il comandante d'una legione romana che te l'ha pagata?
— Codesta l'è un'altra faccenda. Io credetti riconoscere quegli schiavi neri....
— I negri si rassomigliano tutti.
— Ecco precisamente ciò che mi sono poi detto a me stesso.
— Davvero, Gesù, tu hai commesso là una ben infame cosa, poichè l'infamia ti stuzzica.
— Tu parli come gli sciocchi. Vediamo un po'. Un uomo che paga quindicimila sesterzii, — e Cneus me ne ha rubati per certo altrettanti, — un uomo che compera questa leccornia al prezzo con cui avrebbe comperato uno storione del Tirreno, non è certo per ucciderla. Gli è dunque perchè egli ne è stupidamente innamorato. Ora cosa si fa delle donne che si amano? Si diviene loro schiavi. Ebbene! semplicione, cosa poteva sperare quella povera mendicante di mia nipote? Tutt'al più di sposare un vignaiuolo del suo paese. Il bel negozio! io ne ho fatto una piccola regina; io amo la mia famiglia, io, e lavoro alla sua grandezza, al suo splendore.
[284] — Pare, per altro, che gli altri non prendano la cosa da questo magnanimo punto di vista.
— Lo so bene! quel piccolo rozzo carpentiere mio nipote avrebbe forse preferito, lui, di vedere sua sorella serva d'un cammelliere. Dappoichè io suppongo che la piccina ha dovuto scrivere ed informare sua madre della sua posizione, e che il piccolo Gesù ne sa sul proposito più di me. La prima volta che mi vide, mi prese pel collo gridando: «Infame, cos'hai fatto di mia sorella?» e di poi, tutte le volte che mi incontro con lui, mi accoppa sempre di questa ingiuria. «Cosa hai fatto di mia sorella!» Imbecille! o che ne so nulla io?
Questo racconto mi gittò in un inatteso ordine d'idee. La vista di Bar Abbas essendomi divenuta insopportabile, lo inviai solo a Sephoris, ed io presi la via di Gerico e di Betlemme.
O che ne so nulla io? aveva detto Bar Abbas.
— Sono sulle traccie, dissi a me stesso.
Tre giorni dopo, a mezzogiorno, mi presentai alla porta della casa solitaria di Berachah, la valle della Benedizione, risoluto questa volta d'entrarvi ad ogni costo, e di vedere la vedova di Cajus Crispus, la quale doveva probabilmente sapere qualche cosa di Mirjam, amante d'un camerata di suo marito, sorella del Rabbì di Nazareth.
Il mio ad ogni costo fu inutile. Trovai Moab sulla porta semi aperta, che si arrostiva le gambe al sole. La vista di Moab mi richiamò alla memoria la donna del circo, ed il caos per un istante dominò il mio spirito.
Moab era ancora un cotal po' convalescente delle sue ferite. Tuttavia e' mi parve meno impensierito di esse che affetto di profonda tristezza. Aveva l'aria abbattuta, scoraggiata, sudando lagrime da tutta la persona.
[285] — Oh! come sono felice di vederti, Moab, sclamai fermando il mio cavallo e smontando onde esprimergli la mia gioia più da vicino. Tu risusciti, ragazzo mio. Oh come sei bravo, bravo, bravo! Cento come te, e Pilato andrebbe a remigare sur una barca del Tevere! Come stai? Dove sei stato fino ad ora? Non sai, il tuo capo, il Battista, è stato servito alla tavola di Antipas a Makaur come l'agnello del paschah.
— Si tratta bene di lui, si tratta.... gridò Moab sospirando.
— Ma che hai dunque, amico mio? posso io fare qualcosa per te? Non far complimenti, sai. A proposito, Moab, poichè sono qui, bisogna che ringrazii il padrone di questa casa, che dodici giorni fa mi ha dato ricovero una notte in tempesta.
— Non c'è padrone qui, disse Moab con aria ruvida.
— In somma, vi è qualcuno.
— C'è una padrona: ma tu non puoi vederla.
— E perchè? Divoro forse le donne io? o sono un così spaventoso spauracchio da farle partorire se sono incinte, o un brigante da rapirle se sono vergini?
— No, ma essa non riceve in questo momento.
— Aspetterò riposandomi, perchè, amico mio, io vengo da lontano.
— Non è questione d'ore. La mia padrona è stata colpita da una disgrazia e muore di dolore.
— Diamine! ragione di più per presentarmi; un po' di distrazione la solleverà forse dalla sua tristezza.
— To'! difatti, potresti aver ragione. Ma non so se codesta distrazione le possa andar a genio.
— È giovine la tua padrona? E cosa intendi con questa tua «padrona» anzitutto? Sai che....
— Io sono il suo cane, il cane di questa bella e nobile donna.
[286] — Alla buon'ora! Ebbene, Moab, puoi lasciarmi passare. Una vecchia ti sgriderebbe forse; una giovine, essa pure, se io fossi un vecchio savio, noioso, e di quelli che si mischiano di dar consigli. Io invece ti prometto di ridere.
— Oh! se tu potessi darle un po' di gaiezza, Giuda!
— Proviamo, Moab, proviamo.
Entrai. E per paura che Moab si pentisse, gli lasciai nelle mani le briglie del mio cavallo ed in due salti mi trovai sotto il piccolo portico davanti la porta della casa. Non c'era nessuno. Vado avanti, e fo' un po' di strepito. Finalmente scorgo una giovine schiava che mi viene incontro, tutta attonita di vedermi colà.
— Introducimi dalla tua padrona.
— Ma chi sei tu, o straniero?
— La tua padrona lo sa. Precedimi a lei dinanzi.
Noah non replicò, traversò una corte scoperta interna, che i Romani chiamano cavædium; entrò nel tablinum ove si ricevono gli ospiti, aprì una porta invetriata nel fondo di questa stanza, sotto un piccolo portico che conduceva alla parte posteriore del giardino, e mi additò la sua padrona.
Io aveva seguito Noah senza aprir bocca.
— Padrona, disse la giovane, uno straniero che dice esser da te conosciuto, domanda vederti.
— Non ho detto conosciuto, ragazza mia. Ti ho detto: La tua padrona lo sa — supponendo che questa nobile signora fosse stata informata dai suoi schiavi, che una notte, circa dodici giorni fa, un viaggiatore chiese un ricovero dal temporale, e che la porta di questa casa si aperse alla sua preghiera. Quel viaggiatore, nobile dama, sono io, che vengo a porgertene i ringraziamenti.
[287] Queste frasi, cui scrivo qui correntemente ora, ebbero pena a formarsi allora nel mio cervello e ad uscire dalla mia bocca. Io era sbalordito. Aveva dinanzi a me quella donna del circo, che da un mese dominava i miei pensieri, riempiendo i miei sogni, spronando i moti del mio cuore. La mia sorpresa raddoppiò, allorchè, rispondendomi, m'indirizzò la parola in lingua ebrea.
— Io non so che ricovero tu abbi qui trovato. La mia porta s'apre a tutti queglino che vi picchiano. I ringraziamenti sono superflui, per un semplice dovere compiuto.
— È precisamente perchè ciò potrebbe rassomigliare ad un dovere che te ne ringrazio. Il dovere è il più pesante dei balzelli.
— Non mi è stato insegnato codesto.
— Permettimi ora, nobile dama, di esprimere la mia soddisfazione nel trovare in te una compatriotta, dove mi attendevo trovare una straniera.
Ida non rispose. Riprese una ciarpa che aveva cessato di cucire quando io entrai, e continuò il suo lavoro, coll'apparenza di persona che desidera terminare il colloquio. Ma non era codesto che io cercava.
— La vista di questa casa, dall'alto della collina, continuai io, è incantevole. Si crede d'immergere lo sguardo in una cesta di fiori e di verdura. L'è una sorpresa in mezzo a queste desolate montagne.
Stesso silenzio da parte d'Ida. Principiavo ad esserne inquieto.
— Ho creduto vedere delle rose nei tuoi bei vasi di maiolica d'Italia. È un prodigio in quest'epoca dell'anno. Io vengo da Tiberiade; ebbene, alla Casa Dorata non ce n'eran più.
Ida non mi ascoltava. Era assorta altrove, e mi sembrava abbattuta e scoraggiata. Insistetti.
[288] — Hai tu udito parlare di quel bel paese di Galilea, nobile dama?
— Poco.
— Oh! è l'Eden delle Indie, sotto il cielo della Siria. Nulla vi manca. Perfino i messia vi germogliano all'aria aperta.
— Ne hai veduto tu, dei messia?
— Se ne ho veduto! Ne ho anzi fatto provvista.
— Per che farne?
— Capperi! per farne di tutto. È il mio commercio.
— Li rivendi dunque?
— No, li do a nolo.
— Ma a che si può impiegare un messia?
— A che? a cento piccole inezie, ed a mille grandi cose. Prima di tutto, fanno dei miracoli.
— Possono essi render dolce la morte a chi la desidera e ha paura di darsela?
— Meglio ancora! risuscitano ciò che è morto.
— Anche un cuore disseccato?
— Questo oltrepassa i loro poteri.
— Ne dubitavo bene, fece Ida sospirando.
— E avevi ragione. Ma c'è un mago che fa ciò che Dio stesso non tenterebbe neppure.
— Come lo chiami tu codesto mago?
— L'amore.
Ida piegò il capo senza rispondere, e vidi un istante dopo caderle una lagrima sulla mano.
— Vuoi tu vedere, nobile signora, il messia che io ho scritturato per venire a far dei miracoli a Gerusalemme?
— Tu l'hai dunque nei tuoi bagagli?
— Lo aspetto fra poche settimane. Ti assicuro che è molto abile. L'ho visto, sabato scorso, invitare il popolo nella sinagoga di Cafarnaum a mangiarlo ed a beverlo, senza scomporsi.
[289] — E l'hanno mangiato?
— Nemmen per ombra. Hanno avuto paura di rompersi i denti: le donne sopratutto sono fuggite serrando il velo sulla loro bocca. Conosci tu Cafarnaum?
— No.
— Ebbene, quelle belle donne, e quel mucchio di pescatori, di conciatori, di marinai, si son posti a gridare: Chi l'avrebbe mai detto che il figlio del carpentiere di Nazareth ci tenderebbe un simile agguato?
— Come si chiama il tuo messia?
— Gesù il Nazareno, figlio di Giuseppe il carpentiere.
Ida trasalì, e tacque.
— Stavano per lapidarlo. Allora io, e lo zio di quel Messia, Gesù Bar Abbas, ci siamo messi di mezzo; l'abbiamo salvato, e l'abbiamo arruolato nella nostra compagnia santa, per il prossimo paschah.
Ida, di già molto pallida, divenne come una morta. Io non dubitava più che ella non fosse Mirjam sorella del Nazareno; ma volli esserne più completamente convinto.
— Vuoi dunque, bella dama, che te lo conduca qui un giorno, il mio messia? Passo sovente davanti la tua porta: vado a trovar mia madre a Betlemme.
— Grazie, disse Ida, non sono curiosa.
— Di miracoli, lo credo. Gli è più facile fare un miracolo che una nobile azione. Ma il Rabbì di Nazareth non rende soltanto la vista ai ciechi, e le gambe ai paralitici; guarisce anche i cuori ammalati.
— Ne dubito.
— Eppure io sono stato testimonio di un miracolo simile. Conoscevo una giovincella di Magdala che aveva lasciato il suo ganzo a Gerusalemme, ed era [290] fuggita col cuore sanguinante d'amore. L'ho trovata a Magdala, ho cenato con lei e col mio Rabbì, che l'aveva guarita radicalmente.
— Vuol dire che non era ammalata, rispose Ida sospirando.
— Sei ben triste, o giovine donna, ripresi. Perdona la mia indiscrezione. Ma ho veduto cadere una lagrima sulla tua mano, e te ne navigano ancora per gli occhi. Io sono uno straniero: ma sono giovane. Il mio cuore non è indurito verso i disgraziati, ho la gioia sempre a mia disposizione; scusa se io oso dirti: il dolore di una donna è la negazione di Dio. Posso io far qualche cosa per alleviarlo?
— Grazie. Tu t'inganni; io non ho alcun dolore.
— M'era per altro sembrato...
— Ti sei ingannato. Noah, offri a questo straniero dei rinfreschi se lo desidera.
Ida si alzò. Mi congedava.
— Non pensavo di offenderti, nobile dama, replicai. I miei occhi sono stati indiscreti, il mio cuore uno sciocco. Mi ricorderò questa lezione, e forse altri ne soffriranno. Ma tu sei la donna d'uno straniero, mi fu detto. Tu sei ebrea; tu sola hai un aspetto a scorruccio in mezzo agli splendori che ti circondano. Io ho sofferto sul suolo straniero dei dolori che nessuno ha consolato... Se ti ho offesa dicendoti: posso io renderti dei servigi, avendone ricevuto uno da te, — perdonami. Avrei creduto di mancare al mio dovere d'uomo agendo differentemente.
M'era alzato io pure, ed avevo nella voce una tale emozione, ed un'aria così fiera e così compunta, che Ida si fermò, e m'inondò del suo sguardo, pieno come il sole a mezzogiorno. Dio mio! quanto era bella, quella giovine donna!
Portava un lungo vestito viola molto accollato, [291] stretto alla vita da una cintura di seta nera, ed i ricci dei suoi capelli d'oro, gittati all'indietro, ricadevano sulle sue spalle e sul suo seno. Guardandomi, la sua figura così triste si animò per un istante; il sangue corse alle sue labbra, che avrebbero fatto pianger d'invidia i petali di una rosa di Pæstum, e le sue piccole narici si gonfiarono.
— Ti ho detto grazie, replicò, e te lo ripeto. Non hai alcun servigio da rendermi. Se avessi un dolore sarebbe di quelli che durano sempre, anche quando si credono estinti, che straziano, e non uccidono. Ma io non ne ho; sopratutto non ho nessuna indelicatezza a rimproverarti.
— Grazie, nobile dama: non avrei mai perdonato a me stesso d'essere stato così malaccorto.
— Ti aggiungo di più, continuò Ida, se un'altra volta, il temporale, la fatica, il sole, se infine una ragione qualunque ti costringe a cercare un ricovero, non dimenticare di picchiare alla mia porta, fino a tanto che io resto qui.
Era tutto ciò che io voleva sapere; la conclusione che io desiderava di più. La salutai e uscii, ebbro d'amore, pazzo di desiderii, avendo delle vertigini negli occhi e nel cervello.
— Ebbene, ha ella riso? mi domandò Moab venendomi incontro.
— Presso a poco. Non credere già che sia così facile di far ridere una donna in quello stato, come edificare il Tempio quando si posseggono le ricchezze di Salomone. Ridere! Cospetto! avrei voluto che mi avesse chiesto... Oh! lo stordito ch'io sono! Avevo portato questa bella collana, che Erodiade mi ha dato per farne un regalo alla mia amante e l'ho dimenticata. Gli è ch'ella mi ha colpito, Moab, mi ha colpito al cuore. Gliela presenterò nella prossima [292] volta. Ho bisogno, di parlarti, Moab. Io sono pazzo per la tua padrona. L'amo...
— Che! gridò Moab.
— Ebbene! sì, io l'amo; l'amo tanto da morirne.
— Tu puoi morire allora, rispose Moab, freddamente. Tu non passerai più questa soglia, o io ti uccido, o tu uccidi me.
— Sei pazzo?
— Ascoltami, Giuda! Ho lasciato mia moglie ed i miei figli il giorno che ho abbracciato la dottrina esseniana. Ho adottato questa nobile giovanetta di cui tu vedi lo splendore del volto, e non puoi vedere lo splendore dell'anima. Io mi sono dato ad Ida, come la mia mano si è dedicata alla mia vita. Se ella mi chiedesse di demolire il Tempio coi denti, comincierei domani a divorarlo. Ho dunque il dovere di vegliare alla sua pace, al suo onore, alla sua anima. Ami Ida, tu dici? L'ami? Ebbene, non si amano le donne come colei, che quando se ne fa la propria moglie. Tagliami a pezzi se vuoi, ti perdono come ad un maniaco; ma non pensarti di lordare quella donna col tuo amore, neppure in sogno, perchè io ti strappo il cuore come ad una bestia feroce, e ti schiaccio come una bestia immonda.
E così dicendo, mi gettò alla porta e la chiuse dietro a me.
FINE DEL PRIMO VOLUME.
1. Gli Esseniani erano opposti alla guerra. Ma quando il paese era minacciato, spiegavano un coraggio indomabile. Nella guerra contro i Romani essi accorsero alla difesa di Gerusalemme, e diedero un numero indicibile di martiri crocifissi, gettati nelle arene, o torturati dai vincitori. Salvador, I, pag. 166. Giuseppe, Guerra degli Ebrei, lib. II, cap. II. Antichità, lib. XVIII, Cap. II.
2. Svetonio, Tiberio XLIV.
3. Ogni giorno si assisteva nella Giudea a sommosse di popolo, si citavano le provocazioni alla libertà di quelli che pretendevano fare dei miracoli e dei capi che promettevano di realizzare le profezie. Essi trascinavano le masse popolari nei deserti, e là venivano proclamati in qualità di Elia, di Cristo, di Messia.... ed erano inviati al supplizio. Salvador, I, pag. 197.
4. Augebat iras, quod soli Jodæi non cessissent. Tacito.
5. Josephus, Antichità, Lib. XII, cap. VII.
6. Ibid. Lib. XII, cap. VIII.
7. Josephus, Lib. XIII, cap. V e VI.
8. Josephus attribuisce questo consiglio ad un certo Gionata. Lib. XIII, Cap. X.
9. Josephus, Cap. XIII e XIV.
10. Josephus, lib. XIV, cap. XII, XIII e XIV.
11. Proverbi, VII.
12. «Un'altra ragione spiega l'incredulità della Giudea: l'abbandono col quale questo paese si dava in preda al maraviglioso. Era stato assogettato, dall'origine, ad una regola, che autorizza a non scorgere nei più sacri miracoli che una semplice questione di necessità e di costumi.» Salvatore, pag. 399. — Giuseppe, Antichità, XX, cap. II, VI, VI. — Guerra, II, cap. XXIII, — XXIII.
13. Fors'anco questo nome soldatesco veniva dal pilum, pestello, da cui si era fatto il dio Pilumnus nelle stanze da letto, e che, secondo sant'Agostino, personificava un Priapo.
14. Gli si applicava il verso di Marziale:
Tergo fœmina pube vir es.
15. Filone (Ambasciata a Cajus) chiama Pilato pervicaci duroque ingenio, carattere tenace e duro, e gli attribuisce venditas sententias, rapinas, clades, tormenta, crebras caedes indemnatorum, crudelitatem saevissimam.... Non sembrerebbe di leggere il ritratto di Radetzki fatto dagli Italiani?
16. Macrobio racconta che questa figlia di Augusto non si abbandonava alla dissolutezza che allorchè era incinta, e diceva allora: «che non accettava passeggieri a bordo che allorquando il bastimento era carico, navi plena, tolle vectorem.»
17. Svetonio, Vita d'Augusto, LXVIII.
18. Idem, ibid XIX.
19. «Quando egli ritornò nel suo paese e predicò nella sinagoga, il popolo attonito si diceva: Ma donde è venuta la scienza e la potenza a quest'uomo? Non è egli figlio del falegname la cui madre si chiama Maria, ed i fratelli, Jacopo Giuseppe, Simone e Giuda? Le sue sorelle non sono esse con noi? Dove mai quest'uomo ha preso tutto ciò?» Matteo cap. XIII, v. 54, 55, 56.
20. Come la corte dei conventi dei nostri giorni.
21. Era anzi previsto dalle leggi come un delitto. Il Sanhedrin condannava: tr. bus, pseudo-prophetas, sacerdotes magnos. Mischena, t. IV, cap. I.
22. Lo stesso Gesù non giudicava con benevolenza il Battista. Egli lo chiama incostante e leggiero, e gli fa degli altri rimproveri. Vedi S. Luca VII; S. Matteo IX.
23. Josephus, Antiq. XVII.
24. Josephus, Antiq. lib. XVII, C. 6 e 7.
25. «Giovanni Battista non era chiamato, come Gesù, a conquistare il cuore delle donne, ma le nature robuste della sua nazione.» Salvador, pag. 321.
26. «Questa disposizione ad applicare il nome di figlio di Davide e di Cristo era passata in abitudine. Le truppe del popolo si proposero più tardi d'innalzare altresì Gesù, onde farne un gran capo, un re di antica razza, ed opporlo ai principi di razze straniere.» Salvador, pag. 286.
27. Josephus, Guerre Giudaiche VII, cap. VI. Giuseppe che racconta tutto questo, indica però il mezzo di estirparla impunemente dal suolo. Si scava un fosso profondo per isolare la radice, fino alle sue più tenui barbe. Si attacca un cane alle ultime che la tengono al suolo; il padrone del cane parte; la bestia fa uno sforzo per seguirlo, rompe questi ultimi legami, trascina la radice, e muore. L'uomo morrebbe anch'egli se tentasse fare altrettanto. Si tocca poi e si adopera impunemente la pianta.
28. Giuda conferma l'opinioni di Tertulliano, di S. Clemente d'Alessandria, d'Origene, e di S. Agostino che danno a Gesù un viso piuttosto brutto che bello, ed un esteriore sgradevole. Me ne dispiace per Pijart, il quale nel suo trattato: De singulari Christi Jesu D. N. Salvatoris pulchritudine, combatte i santi Padri suddetti; e pel fumoso ritratto che si attribuisce a Lentulus, il quale non fu mai il predecessore di Pilato, essendolo stato Valerius Gracus dall'anno 14 all'anno 25.
29. Questa scena s'avvicina molto a quella raccontata da S. Giovanni, cap. VI.
30. S. Giovanni, cap. VI, vers. 26.
31. S. Giovanni, cap. VI, vers. 32, 33.
32. idem cap. VI, vers. 34.
33. idem cap. VI, vers. 35.
34. S. Giovanni, cap. VI, vers. 36 e seg.
35. S. Giovanni, cap. VI, vers. 41, 42.
36. idem cap. VI, vers. 43 e seg.
37. S. Giovanni, cap. VI, vers. 48 e seg.
38. idem cap. VI, vers. 53 e seg.
39. S. Giovanni, cap. VI, vers. 60, 64. S. Giovanni dice anzi: diversi dei suoi discepoli.
40. Questo, e qualche altro incidente simile, ci spiega l'inetta calunnia del tradimento di Giuda da Kariot, che questo apostolo evangelista inventò e raccontò, che altri ripeterono, e che si è perpetuata nel mondo. Le grandi fortune e le grandi disgrazie derivano sempre da piccole cause.
41. È noto che Giuda era il cassiere degli apostoli i quali prendevano più che non mettessero nella cassa. Essi gironzavano dietro il maestro, e non avevano tempo da lavorare. Nondimeno, mangiavano, ed erano perfino ghiotti di buoni bocconi. Vedi Strauss, Renan e Salvador, vita di Gesù.
42. Vedi Josephus Antiq. XVII, cap. X, e la nota dell'edizione inglese su codesto Theudas, diverso da colui che apparve più tardi e portò lo stesso nome.
43. Questa legge non è come le Decretali d'Isidoro, o la donazione di Costantino ai papi, e si trova rude e maschia nella Mischnà, «Moses accepit legem (oralem seu traditionalem) de Sinai et tradidit eam Ichoschuae; Ichoschua vero senioribus; seniores prophetis. Prophetae tradiderunt eam synagogae magnae. Isti dixerunt tres sententias. Estote moram trahentes in judicio; constituite multos discipulos; et facite sepam pro lege.» Mischnà, t. IV. Capita patr. cap. I. In quanto ai partiti ed alle loro dottrine, vedi Giuseppe, Antich. lib. VIII, cap. I. Guerra Giud. lib. II. cap. VIII.
44. Gesù non fece per altro che incarnare la dottrina di questa setta. Qual era questa dottrina? «La triplice base dell'essenianismo, dice Filone, è l'amore di Dio, l'amore della virtù, l'amore degli uomini. Presso di loro, l'amore di Dio comprende la castità, l'avversione al matrimonio, l'esclusione del giuramento, la certezza che Dio fa tutto pel bene, niente pel male. L'amore della virtù produce la pazienza, il coraggio di soffrire, la semplicità, la frugalità, la facilità nel commercio della vita, l'amore ed il rispetto delle leggi. L'amore degli uomini si manifesta coll'amicizia, coll'eguaglianza — benefizio superiore a tutti — e la comunanza dei beni.» Filone: Che tutti gli uomini giusti, sono liberi.
DEL MEDESIMO AUTORE:
Le notti degli emigranti a Londra | L. 1 — |
Il sorbetto della regina (Seconda Edizione) | 1 — |
Il Re prega | 3 — |
Il Concilio | 1 — |
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (ronzio/ronzìo, sêtte/sètte e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.