The Project Gutenberg eBook of Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 11

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Title: Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 11

Author: Edward Gibbon

Translator: Davide Bertolotti

Release date: March 26, 2014 [eBook #45225]
Most recently updated: October 24, 2024

Language: Italian

Credits: Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso, Barbara
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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DELLA DECADENZA E ROVINA DELL'IMPERO ROMANO, VOLUME 11 ***

STORIA
DELLA DECADENZA E ROVINA
DELL'IMPERO ROMANO

DI

EDOARDO GIBBON

TRADUZIONE DALL'INGLESE


VOLUME UNDECIMO


MILANO
PER NICOLÒ BETTONI
M.DCCC.XXIII


INDICE


[5]

STORIA

DELLA DECADENZA E ROVINA

DELL'IMPERO ROMANO


CAPITOLO LIV.

Origine, e dottrina dei Paoliziani. Persecuzioni che soffersero dagli imperatori greci. Loro ribellione in Armenia ec. Migrazione nella Tracia. Dottrina de' medesimi propagata in Occidente. Germi, caratteri e conseguenza della Riforma.

Il Cristianesimo avea presa l'indole delle nazioni presso le quali a mano a mano allignò. I nativi della Sorìa e dell'Egitto all'indolenza di una divozione contemplativa si abbandonavano: Roma cristiana volea tuttavia governar l'Universo; mentre, discussioni di teologia metafisica, occupavano lo spirito e la loquacità de' popoli della Grecia. In vece di adorar silenziosi gl'incomprensibili misteri della Trinità, o della Incarnazione, si diedero ad agitare con calore sottili controversie che dilatarono la loro [6] Fede, a scapito forse della carità, e della ragione[1]. Incominciando dai giorni del Concilio di Nicea, e venendo sino alla fine del settimo secolo, le guerre spirituali turbarono la pace e l'unità della Chiesa; e tanto operarono sulla decadenza, e la rovina dell'Impero che tale circostanza mi ha anche troppo spesso costretto a tener dietro ai Concilj, ad esaminare i simboli, ad enumerare le Sette di questo burrascoso periodo degli ecclesiastici Annali. Dopo lo incominciamento dell'ottavo secolo, e fino agli ultimi giorni dell'Impero di Costantinopoli, il rumore delle controversie si fece udir più di rado. Sazia era la curiosità, stanco lo zelo, e i decreti di sei Concilj aveano immutabilmente determinati gli articoli del Simbolo cattolico. Lo spirito della disputa, comunque frivolo e pernicioso esser si possa, abbisogna almeno di una certa energia, e tiene operose alcune facoltà intellettuali; ma i Greci avviliti si contentavano, in que' giorni, di digiunare, di orare, e di obbedir ciecamente al loro Patriarca, e al loro clero. La Vergine, e i Santi, le reliquie e le immagini, i miracoli e le visioni, divennero il solo argomento delle prediche de' frati e della divozione del popolo; e sotto nome di popolo possiamo qui senza [7] ingiustizia comprendere le classi primarie della società. Gl'Imperatori della Isaurica dinastia che si accinsero a scotere da questo letargo i loro sudditi, scelsero cattivo istante, e temperamenti aspri anzi che no; e se anche la ragione fece in quel tempo alcuni proseliti[2], molto maggior numero l'interesse, o il timore ne soggiogò: ma l'Oriente difese, o sospirò le sue Immagini un'altra volta, e la loro restaurazione, qual festa trionfale, dell'Ortodossia fu celebrata: in tai giorni di sommessione passiva e uniforme, i Capi della Chiesa si trovarono sciolti dalle molestie, o vogliam dire, privi dei diletti della superstizione. Spariti erano i Pagani; nel silenzio e nella oscurità giaceansi gli Ebrei: le dispute coi Latini, divenute meno frequenti, si riduceano a lontane ostilità contra un nazionale nemico, intanto che le Sette dell'Egitto, e della Sorìa godevano i vantaggi della tolleranza all'ombra dell'arabo califfato[3]. Verso la metà del settimo secolo, la tirannide spirituale elesse a vittime i Paoliziani[4], la [8] dottrina de' quali è un ramo di Manicheismo; e ridotta a stremo la loro pazienza, e spinti alla disperazione che li fece ribelli, si sparsero nell'Occidente, ove per ogni banda i germi della Riforma diffusero. Siami permesso, attesa l'importanza di tali avvenimenti, l'entrare in alcune particolarità sulle dottrine e la storia de' Paoliziani[5]; e poichè questi non sono in istato più di difendersi, mi sia parimente lecito, per servire alla imparzialità, e alla buona fede, il mettere in aperto tutto il bene, l'attenuare il male che gli avversarj loro ne dissero.

I Gnostici che turbata aveano l'infanzia del Cristianesimo, soggiacquero finalmente al peso della potenza e della autorità della Chiesa. Lungi dal pareggiare, o superare i cattolici in ricchezze, sapere, e numero, i deboli partigiani che conservava ancor questa Setta, scacciati dalle Capitali dell'Oriente, e [9] dell'Occidente, confinati vennero ne' villaggi e per mezzo ai monti situati presso l'Eufrate. Il quinto secolo ne offre alcune vestigia di Marcioniti[6], ma tutti i settarj furono compresi per ultimo sotto la sola denominazione di Manichei; eretici che essendosi attentati a voler conciliare le dottrine di Zoroastro, e di Cristo, da entrambe le Religioni una persecuzione del pari accanita patirono. Durante il regno del pronipote di Eraclio, ne' dintorni di Samosato, più celebre per essere stata patria di Luciano, che per l'onore di aver dato il suo nome ad un regno della Sorìa, apparve un riformatore, che i suoi discepoli, i Paoliziani, considerarono bentosto qual missionario eletto dal cielo per annunziare la verità, e degno della confidenza degli uomini. Cotesto riformatore, di nome Costantino, avea ricettato nella sua modesta abitazione di Mananali un diacono che ritornava dalla Sorìa, ov'era stato prigioniero; e ne ebbe in dono il Nuovo Testamento, dono tanto più da apprezzarsi che riguardi prudenziali del clero greco, e forse anche de' gnostici Sacerdoti, già nascondeano con grande cura agli occhi de' volgari questi volumi[7]. A tale lettura si limitarono gli studj di Costantino che ne fece regola di sua credenza; [10] e gli stessi Cattolici, comunque impugnino le interpretazioni da esso date alle sacre carte, non gli negano di avere citati i testi nella loro purezza ed autenticità. Ma le cose, alle quali in siffatto studio volse l'animo più intensamente, furono gli scritti, e gli atti della vita di S. Paolo. I nemici della setta de' Paoliziani fondata dal ridetto Costantino, fanno derivare il nome della medesima, da qualcuno degli oscuri uomini che la predicarono; ma ho per fermo che tal nome i Paoliziani assumessero, come gloriosa testimonianza della loro divozione all'Appostolo dei Gentili. Costantino e i suoi alunni rappresentavano, diceano essi, Tito, Timoteo, Silvano, Tichico, primi discepoli di S. Paolo, e imposero alle Congregazioni che nell'Armenia, e nella Cappadocia instituirono, i nomi delle chiese edificate dagli Appostoli; innocente allusione che riaccese la ricordanza e l'esempio delle prime età della Chiesa. Questo fedele discepolo di S. Paolo, così nelle Epistole di esso come nell'Evangelio, si fe' a rintracciare il Simbolo de' primi cristiani; e qualunque sia stato il frutto di tali indagini, ogni protestante applaudirà, se non altro, alla intenzione che le suggerì. Ma se il testo delle Scritture seguìto dai Paoliziani avea il pregio di essere puro, altrettanto intero non potea dirsi. I lor primi dottori non ammettevano le due Epistole di S. Pietro, riguardandolo come l'appostolo della Circoncisione[8], e accusandolo di avere difesa contra il loro [11] appostolo favorito l'osservanza della legge mosaica.[9] Pari ai Gnostici disprezzavano tutti i libri dell'Antico Testamento, senza por mente che quelli di Mosè e de' Profeti erano stati consacrati dai decreti della Chiesa cattolica. Con non minore ardimento, e senza dubbio, con maggior ragione, Costantino, il nuovo Silvano, rigettava quelle visioni cui pubblicarono in sì pomposi, ed enormi volumi le Sette orientali; que' favolosi componimenti[10] de' Patriarchi ebrei, e de' saggi dell'oriente, quegli Evangelj, quelle epistole, e quegli atti supposti, sotto de' quali nel primo secolo della chiesa, il codice ortodosso andava sepolto; nè facea grazia alla teologia di Manete, nè alle eresie che a questa si riferivano, nè alle trenta classi di Eoni, dalla fertile immaginazione di Valentino creati. I Paoliziani riprovavano con [12] tutta sincerità la memoria, e le opinioni de' Manichei: onde doleansi della ingiustizia de' loro avversarj, nell'attribuire una sì lodevole denominazione ai discepoli di S. Paolo, e di Gesù Cristo.

I Capi de' Paoliziani rompendo molte anella della catena ecclesiastica, si erano fatti più liberi col ridurre a meno il numero de' padroni che la profana ragione alla voce de' misteri e de' miracoli sottomettevano. La setta de' Gnostici era nata prima che si professasse pubblicamente il culto cattolico, e, oltre al silenzio di S. Paolo, e degli Evangelisti, la consuetudine e l'odio preservarono i Paoliziani dalle innovazioni, che, a poco a poco, nella disciplina, e nella dottrina della Chiesa allignarono[11]. [13] Essi pensavano veder sotto forma verace quegli oggetti, che, in lor sentenza, la sola superstizione aveva disfigurati. In una immagine che diceasi scesa dal cielo, essi non iscorgeano se non se il lavoro di un uomo, il cui solo ingegno potea dar valore al legno, o alla tela che egli avea posta in opera; nelle reliquie miracolose, ossa e ceneri inanimate, prive di virtù, e forse non mai appartenute alla persona cui venivano attribuite; la vera croce, l'albero della vita, non era, ad avviso loro, che un pezzo, o sano, o guasto, di legno; il corpo, e il sangue di Gesù Cristo, un minuzzolo di pane, [14] e una tazza di vino[12], dono della natura, e simbolo della Grazia. Essi toglievano alla madre di Dio i suoi celesti onori, la sua immacolata verginità[13], nè davano ai Santi, o agli angeli l'incarico di farsi mediatori per essi nel cielo, o di soccorrerli sulla Terra. Nella amministrazione de' Sacramenti voleano aboliti gli oggetti visibili di culto, e le parole del Vangelo, secondo essi, non additavano che il battesimo e la comunione de' fedeli. Liberissimi nell'interpretare le scritture, ogni qualvolta il significato [15] letterale impacciavali, si rifuggivano ne' labirinti delle figure e dell'allegoria. Molta cura dimostrarono di infrangere i vincoli posti fra l'Antico, e il Nuovo Testamento[14], e riguardando il secondo come la raccolta degli oracoli di Dio, abborrivano il primo, divulgandolo invenzion favolosa ed assurda degli uomini, o dei demonj. Non può recarne maraviglia che essi scorgessero nel Vangelo, il mistero ortodosso della Trinità; ma invece di confessare la natura umana, e i patimenti reali di Gesù Cristo, la costoro immaginazione si dilettava creargli un corpo celeste che si fosse fatto strada per quel della Vergine, siccome l'acqua attraversa un condotto. Un fantoccio sostituito al Redentore sopra una croce, giusta l'opinione di questi settarj, mandò a vuoto il furor degli Ebrei. Un simbolo di tal natura non conveniva nè meno allo spirito ne' tempi d'allora[15], e que' medesimi fra i Cristiani che lamentavano non essere le dottrine religiose ristrette al mite giogo imposto da Gesù Cristo e da' suoi Appostoli, giustamente si offesero che i Paoliziani osassero violare l'unità di Dio, primo articolo della Religion naturale e della Religion rivelata. Perchè comunque i Paoliziani credessero [16] con fiducia e speranza il Padre, il Cristo, l'anima umana e il mondo invisibile, supponeano ad un tempo l'eternità della materia, sostanza ostinata e ribelle, origine di un secondo Principio, di un ente operante, creatore del mondo visibile, e che userà della sua possanza temporale, fino alla consumazione definitiva della morte e del peccato[16]. L'esistenza del mal morale, e del male fisico, avea introdotti questi due principj nella filosofia, e nelle religioni antiche dell'Oriente, d'onde una tale dottrina fra le varie Sette de' Gnostici s'era diffusa. Vennero intorno ad Arimane ideate tante opinioni diverse, quante gradazioni è lecito il fantasticare, fra la natura di un dio rivale dell'altro, e quella di un demonio subordinato; fra l'indole di un ente vinto dalla passione, o dalla fragilità, e quella di un ente per propria essenza malvagio; ma a malgrado d'ogni umano sforzo, la bontà e la potenza di Ormuzd, trovavansi alla contraria estremità della linea, e quanto avvicinavasi all'uno de' due enti, dovea scostarsi dall'altro nelle proporzioni medesime[17].

[17] Le fatiche appostoliche[18] di Costantino Silvano gli moltiplicarono ben tosto i discepoli, segreto compenso alla sua spirituale ambizione. Sotto lo stendardo di lui si raccolsero gli avanzi delle Sette gnostiche, e principalmente i Manichei dell'Armenia. Convertì, o sedusse co' suoi argomenti molti Cattolici, e predicò con buon successo nelle contrade del Ponto[19] e della Cappadocia, da lungo tempo imbevutesi della religione di Zoroastro. I dottori Paoliziani, paghi di un soprannome tratto dalle Scritture, e del titolo modesto di compagni di pellegrinaggio, distinti per austerità di costumi, per zelo o sapere, ed anche per la fama che godevano di avere ricevuti i doni dello Spirito Santo, ma incapaci di desiderare e di ottenere le ricchezze e gli onori dei prelati ortodossi, ne censuravano amaramente le anticristiane vanità, riprovando persino la denominazione di anziani, o di sacerdoti, come istituzione della Sinagoga. La nuova Setta si dilatò grandemente nelle province dell'Asia Minore, situate al levante dell'Eufrate. Sei principali Congregazioni della medesima [18] rappresentavano le chiese alle quali S. Paolo indiritte avea le sue epistole. Silvano pose la sua dimora nei dintorni di Colonia[20], in quella parte del Ponto che rendettero parimente famosa gli altari di Bellona[21] e i miracoli di S. Gregorio[22][23]. Qui venne fuggendo il governo tollerante degli Arabi e qui, dopo ventisette anni di predicazione, perì vittima della persecuzione de' Romani. Que' devoti imperatori, che di rado aveano proscritte le vite d'altri [19] eretici meno odiosi di questi, condannarono senza misericordia la dottrina, gli scritti e le persone dei Montanisti e de' Manichei. Consegnati alle fiamme i lor libri, chiunque osò conservarne o professare le opinioni che vi si racchiudevano, a ignominiosa morte fu condannato[24]. Simeone, inviato dall'Imperator greco a Colonia, vi si mostrò armato del poter delle leggi e della forza militare, per atterrare il Pastore, e ricondurre, se possibile era, lo smarrito gregge in seno della Chiesa. Con atto di raffinata crudeltà, dopo aver fatto collocare l'infelice Silvano a capo de' suoi schierati discepoli, comandò a questi di meritarsi il perdono, e di dar prove di pentimento, col trucidare il loro padre spirituale. Non sapendo eglino risolversi a tanta empietà cadeano i sassi dalle lor mani, nè in tutta quella banda vi fu che un solo carnefice, o secondo il dire de' fanatici, un nuovo David che rovesciò il gigante dell'eresia. Questo apostata nomavasi Giusto, il quale ingannò una seconda volta, e tradì i suoi malaccorti fratelli. L'inviato dell'Imperatore diè a divedere nella propria persona una nuova conformità cogli atti di S. Paolo: simile all'Appostolo abbracciò la dottrina della quale chiarito erasi persecutore, e, rassegnate dignità e ricchezze, acquistò nella setta de' Paoliziani la gloria di un [20] missionario e di un martire. Generalmente però, i ridetti Settarj non correvano in traccia della corona del martirio[25]: ma durante un secolo e mezzo di patimenti, soffersero con rassegnazione tutto quanto lo zelo de' lor persecutori seppe immaginare contr'essi; nè gli sforzi della costanza pervennero ad estirpare i germi, difficilissimi entrambi ad essere spenti, i germi del fanatismo, e quelli della ragione. E predicanti, e congregazioni, uscirono per più riprese dal sangue, e dalle ceneri delle prime vittime. Pure in mezzo alle ostilità esterne cui soggiacevano i Paoliziani, trovarono il tempo per abbandonarsi a querele domestiche. Predicarono, disputarono, soffersero; e sin gli storici del Cattolicismo son costretti a far testimonianza sulle virtù, certamente apparenti, che in un intervallo di trentatre anni Sergio diè a divedere[26]. Un pretesto di religione spronò la crudeltà ingenita di Giustiniano, trattosi nella vana speranza di estinguere con una sola persecuzione il nome e la memoria dei Paoliziani. La semplicità della Fede che professavano i principi Iconoclasti, e la loro avversione [21] alle superstizioni popolari, avrebbero potuto per vero dire renderli più indulgenti sugli errori di alcune dottrine: ma divenuti più indulgenti alle calunnie de' Monaci[27] si fecero i tiranni de' Manichei, per tema di venire accusati lor complici. È questa la taccia da cui fu invilita la clemenza di Niceforo nel mitigare a favor de' suddetti eretici il rigore delle leggi penali; nè l'indole conosciuta di questo principe, permette attribuirgli un motivo più generoso. Ardentissimi nel perseguire i Paoliziani mostraronsi e il debole Michele I, e il severo Leone l'Armeno; ma si meritò palma di divozion sanguinaria l'imperatrice Teodora, quella medesima che restituì alle Chiese d'Oriente le Immagini. I suoi messi trascorreano furibondi le città e le montagne dell'Asia Minore, e al dir persin di coloro che adularono questa femmina, durante un brevissimo regno, centomila Paoliziani perirono, quali sotto la mannaia del carnefice, quali strozzati, quali arsi vivi. Forse i delitti e i pregi di questa Sovrana, vennero esagerati del pari; e se il calcolo fosse esatto, vi sarebbe luogo a presumere che molti, unicamente Iconoclasti, segnalati con più odioso nome, fossero stati avvolti nel crudele bando, o che altri de' medesimi, scacciati [22] dalla Chiesa, avessero contro lor voglia cercato un asilo nel seno dell'eresia.

A. D. 845-880

I Settarj di una Religione perseguitata da lungo tempo, se giungono a ribellarsi, sono i più tremendi, e i più pericolosi di tutti i ribelli. Animati da una causa che riguardano come sacra, non danno luogo nè a timor nè a rimorso; il sentimento di una creduta giustizia, indurisce i lor cuori sin contro i moti dell'umanità; pronti a vendicare sui figli de' loro tiranni le ingiurie che i loro padri soffersero. Tali abbiam veduti gli Hussiti della Boemia, e i Calvinisti della Francia, e tali furono nel nono secolo i Paoliziani dell'Armenia, e delle vicine province[28]. L'uccisione di un Governatore e d'un vescovo, iti fra quelle genti con ordine di convertire o sterminare i ribelli, fu il primo segno della sommossa, e i più interni gioghi del monte Argeo alla libertà e all'odio de' ribellanti offersero asilo. Incendio più vasto e fatale accesero la persecuzione di Teodora, e la diffalta di Carbeas, valoroso Paoliziano che comandava le guardie del general d'Oriente. Il padre di questo Carbeas era stato impalato per ordine degl'inquisitori cattolici: onde la religione, o almen la natura, sembravano autorizzarlo a fuggir lunge da' suoi persecutori, e a voler farne vendetta. Per non dissimili motivi, cinquemila confratelli di Carbeas brandirono l'armi abbiurando ogni spezie di sommissione verso Roma, che chiamavano l'anticristiana; un emiro saracino [23] condusse lo stesso Carbeas dinanzi al Califfo, e il Commendator de' credenti stese lo scettro proteggitore all'implacabile nemico de' Greci; il quale o costrusse, o affortificò nelle montagne situate fra Sivas e Trebisonda, la città di Tefrica[29], abitata anche oggi giorno da un popolo feroce e sfrenato; e le colline di que' dintorni, coperte vidersi di fuggiaschi Paoliziani, che in allora si credettero lecito il conciliare l'uso delle armi coi precetti dell'Evangelo. Disastrata l'Asia per ben trent'anni dai flagelli delle guerre esterna ed interna, i discepoli di S. Paolo, si unirono nelle loro correrie a quelli di Maometto; onde tanti pacifici Cristiani, tanti vecchi padri che insieme alle giovinette loro figlie a crudele cattività tratti si videro, dovettero darne fatale merito alla intolleranza de' lor sovrani. Cresciuti a dismisura e i mali, e la vergogna de' Cristiani greci, il figlio di Teodora, il dissoluto Michele si trovò alla necessità di marciare in persona contra i Paoliziani, e sconfitto sotto le mura di Samosato, accadde il vedere l'Imperator de' Romani fuggitivo dinanzi a quegli eretici che la madre di esso al fuoco avea condannati. Comunque i Saracini combattessero coi Paoliziani, l'onore della vittoria fu aggiudicato a Carbeas, nelle cui mani caddero parecchi generali nemici, e più di cento tribuni; parte de' quali fece liberi per avarizia, e un'altra parte, secondando il [24] suo fanatismo, a crudeli tormenti dannò. A Crisocario, successore di Carbeas, il valore e l'ambizione un più vasto campo di rapine e di vendette dischiusero[30]. Non mai disgiunto dai suoi fedeli confederati i Musulmani, penetrò nel centro dell'Asia, e rotte in più occasioni le truppe poste alle frontiere, e le guardie di palagio, rispose ai bandi di persecuzione promulgati contro di lui, saccheggiando Nicea e Nicomedia, Ancira ed Efeso; nè l'invocato Appostolo S. Giovanni impedì che la città e il sepolcro del Signore[31] non fossero profanati. Convertita ad uso di scuderia la Cattedrale di Efeso, i Paoliziani fecero a prova coi Saracini nel mostrare avversione e dileggio alle Immagini, e alle reliquie. Non duole il vedere la ribellione [25] trionfante sul dispotismo[32] che disdegnò le querele di un popolo oppresso. Basilio il Macedone fu costretto ad implorare la pace, ad offrire riscatto pei prigionieri, ad usare i termini della moderazione, e della carità, nel pregar Crisocario a risparmiare i Cristiani suoi confratelli, e contentarsi di un sontuoso donativo in oro, argento, e drappi di seta. «Se l'Imperatore brama la pace, rispose questo audace fanatico, rinunzii all'Oriente, e sia pago di regnare in pace sull'Occidente: se a ciò non si presta, verrà balzato dal trono per la mano de' servi di Dio». Contro sua voglia, Basilio sospese ogni negoziazione, e accettata la disfida, condusse l'esercito nelle terre de' Paoliziani mettendole a fuoco e sangue. E per vero dire, finchè si stette nelle pianure, questi eretici soggiacquero ai medesimi mali che aveano fatto soffrire ai sudditi dell'Impero; ma quando l'Imperatore non potè più dubitare della forza di Tefrica, della moltitudine di que' Barbari, d'armi e d'ogni genere di munizioni fornitissimi, rinunziò con dolore ad una parte d'Impero, che non poteva più sostenere. Di ritorno a Costantinopoli, col fondar chiese e conventi, cercò assicurarsi la protezione di S. Michele arcangelo, e del Profeta Elia; nè passava giorno che ei non pregasse il cielo di vivere assai lungamente per trafiggere con tre freccie il capo d'un empio nemico. Fu esaudito anche al di là della espettazione: perchè dopo una correria, incominciata per vero con felici auspizj, Crisocario venne sorpreso [26] ed ucciso nella sua tenda, e il capo di lui fu portato in trionfo a' piedi del trono. Ricevuto appena un sì gradito donativo, Basilio chiese il suo arco, e contro quella testa vibrò tre frecce, in mezzo agli applausi de' cortigiani, che la costui vittoria esaltavano. Con Crisocario si dileguò e perì la gloria dei Paoliziani. Onde nella seconda spedizione che Basilio mosse contra cotesti eretici, abbandonarono l'insuperabile loro Fortezza di Tefrica[33]; alcuni di essi implorando il perdono del vincitore, altri rifuggendosi agli estremi confini dell'Oriente. La ridetta città non fu d'allora in poi che un mucchio di rovine; ma lo spirito d'independenza si resse per più d'un secolo fra quelle montagne. I Settarj difesero la loro religione e la lor libertà, spesse volte invasero le romane frontiere, e si mantennero in lega co' nemici dell'Impero, e dell'Evangelo.

Costantino, che i partigiani delle Immagini soprannomarono Copronimo, condusse, verso la metà dell'ottavo secolo, le sue soldatesche in Armenia; e nella città di Melitene e di Teodosiopoli trovò molta mano di Paoliziani, seguaci di una dottrina poco diversa da quella ch'ei professava. Laonde rimane indeciso, se per punirli, o per conceder loro un distintivo d'imperiale favore, li trasportasse dalle rive dell'Eufrate a Costantinopoli e nella Tracia, migrazione che introdusse e diffuse la dottrina de' Paoliziani [27] in Europa[34]. Se quelli fra essi che si stanziarono nella Metropoli non tardarono a confondersi e mansuefarsi col rimanente degli abitanti, gli altri si radicarono co' loro dogmi sui territorj della nuova lor migrazione. I Paoliziani della Tracia, fattisi forti contra le tempeste della persecuzione, apersero segreta corrispondenza coi lor fratelli di Armenia, e largheggiarono di soccorsi agli appostoli della Setta, i quali si condussero, e non indarno, a tentar la fede de' Bulgari, ancora mal salda[35]. Li crebbe di forza e di numero una poderosa colonia che Giovanni Zimiscè[36], nel decimo secolo, dai colli Calibj alle valli del monte Emo fe' trasmigrare; poichè il clero d'Oriente che vedeva vani i suoi voti per una compiuta distruzione de' Manichei, supplicava almeno che costoro venissero allontanati. Il valoroso Zimiscè tenendo in pregio questa popolazione, le cui armi avea già sperimentate, comprese che non potea, senza proprio danno, lasciarla confinante coi Saracini alla medesima collegati, la che col farla cambiare in tale guisa di patria, o gli sarebbe stata utile contro i [28] Barbari della Scizia, o questi Barbari finalmente l'avrebbero annichilata. Ei procurò nullameno di temperare l'asprezza d'un esiglio in terra lontana, concedendole tolleranza di religiose opinioni. Le ridette genti tenendo Filippopoli, la chiave della Tracia, ridussero in lor soggezione i Cattolici di quel paese, e coi migrati Giacobiti serbaronsi in lega. Occupata inoltre una linea di villaggi e castella nella Macedonia e nell'Epiro, trassero nella lor comunione, e sotto le lor bandiere arrolarono una mano di Bulgari ragguardevole. Fin tanto che le tenne in dovere la forza, e vennero non pertanto trattate con moderazione, le loro soldatesche negli eserciti dell'Impero si segnalarono: onde i pussillanimi Greci parlarono con maraviglia, e quasi in tuon di rimprovero del coraggio di questi cani, sempre ardentissimi per la guerra, e avidi d'umano sangue. Tal coraggio medesimo li rendea talvolta ostinati e arroganti, facili a lasciarsi condurre dal capriccio, o dal risentimento, intanto che i loro privilegi venivano di frequente infranti dalle pietose slealtà del clero e dell'imperiale Governo. Fervendo la guerra coi Normanni, duemila e cinquecento di questi Manichei, abbandonate le bandiere di Alessio Comneno[37], cercarono di bel nuovo l'antica patria. Altamente sdegnatone l'Imperatore, dissimulò finchè gli venisse il destro della vendetta, poi chiamati ad amichevole [29] parlamento i Capi di questa popolazione, nè sceverando i colpevoli dagli innocenti, la punì tutta quanta con prigionie, confiscazione di beni e battesimo. Questo principe, chiamato dalla devota sua figlia il tredicesimo Appostolo, concepì durante un intervallo di pace il pio divisamento di riconciliare i Manichei colla Chiesa e collo Stato, e posti i campi del verno a Filippopoli, trascorse giornate, e notti intere in teologiche controversie. Per dar forza alle sue ragioni, e vincere l'ostinatezza de' Settarj, compartì onori e ricompense ai più chiari fra suoi proseliti, e quanto ai convertiti di minore importanza assegnò ad essi una nuova città che circondò di giardini, e alla quale impose il proprio nome ornandola di privilegi; e con questa leggiadria li privò della rilevante Fortezza di Filippopoli. I recalcitranti poi vennero confinati nelle carceri, o banditi, e se non perderono la vita, il dovettero alla scaltrezza anzichè alla clemenza d'un Imperatore che avea fatto arder vivo, rimpetto al tempio di S. Sofia, un misero eretico, le cui parti nessuno assumeva[38]. Ma non andò guari che l'orgogliosa speranza di sradicare le opinioni pregiudicate di un popolo, fu mandata a vuoto dall'invincibile fanatismo de' Paoliziani, stanchi ben presto di fingere, e all'obbedire restii. Poco dopo la partenza e la morte di Alessio, abbracciarono nuovamente le antiche leggi civili, e religiose. Nell'incominciare del secolo decimoterzo, il loro papa e primate occupava le frontiere della Bulgaria, della Croazia e [30] della Dalmazia, governando per via di vicarj le Congregazioni che la Setta avea istituite nella Francia, e nella Italia[39]. D'indi in poi non sarebbe difficile, a chi vi ponesse attento studio, il seguire fino ai dì nostri la catena non interrotta delle loro tradizioni. Verso il finire dell'ultimo secolo, questa Setta o Colonia abitava tuttavia le valli dell'Emo, vivendo quivi nella ignoranza e nella povertà, e più spesso per parte del Clero greco che dal governo turco soffrendo tribolazioni. I Paoliziani de' giorni nostri hanno perduta ogni ricordanza dell'antica origine e mentre hanno introdotta nel loro culto l'adorazione della Croce, trovasi questo contaminato da diversi sagrifizj di sangue, l'uso de' quali fu portato ai medesimi da alcuni prigionieri venuti dai deserti della Tartaria[40].

In Occidente le voci de' primi predicatori manichei, oltre all'essere mal ascoltate dai popoli, vennero soffocate dai principi. Il favore e i buoni successi che i Paoliziani ottennero nell'undicesimo, e nel duodicesimo secolo, vogliono soltanto essere attribuiti ai motivi di scontento segreto, ma non men vigoroso, onde anche diversi fra i migliori Cristiani sentironsi accesi contro la Chiesa di Roma. Tirannica erane[41] l'avarizia, odioso il dispotismo; men [31] forse invilita dei Greci da un superstizioso culto attribuito ai Santi e alle Immagini, più rapide e scandalose che non fra questi scorgeansi le innovazioni da essa introdotte. Posta in dogma la transustanziazione[42], la credenza ne divenne una rigorosissima legge; [32] più corrotti essendo i costumi de' Preti latini, avrebbe potuto dirsi che i Vescovi dell'Oriente erano [33] i primi successori degli Appostoli a petto di questi poderosi prelati, usi a maneggiare e pastorale e [34] scettro e spada ad un tempo. Tre diverse vie possono avere introdotti i Paoliziani in Europa. Avvi motivo [35] di credere che dopo la conversione dell'Ungheria, que' pellegrini i quali da questo paese a Gerusalemme [36] si conducevano, potessero seguire senza rischio il corso del Danubio: il che essendo, e nella andata, e nel ritorno, toccata avrebbero Filippopoli; e diveniva facile a molti Settarj, ascondendo [37] nome e credenza, il mescolarsi alle carovane francesi e alemanne, e ne' paesi di questo seco loro introdursi. — Venezia estendeva il commercio e la sua dominazione su tutta la costa dell'Adriatico, ed è noto come questa Repubblica ospitaliera ricettasse gli stranieri di qualsisia clima, di qualsisia religione. — I Paoliziani che militavano sotto le bandiere di Bisanzio, ebbero sovente occasione di accampare nelle Province che i Greci Imperatori possedevano nella Sicilia, e poichè, così in tempo di pace come di guerra, conversavano liberamente cogli estranei, e coi nativi del paese, le loro opinioni ebbero campo di tacitamente diffondersi e a mano a mano di pervenire sino a Roma, e a Milano e ne' regni posti di là dall'Alpi[43]. — Non si tardò molto a scoprire che migliaia di Cattolici d'entrambi i sessi, e di ogni ordine, il Manicheismo aveano abbracciato, e dodici canonici di Orleans condannati alle fiamme, contrassegnarono il primo atto di persecuzione. I [38] Bulgari[44] il cui nome, così innocente in origine, è divenuto tanto odioso nelle applicazioni che se ne sono fatte, si dilatarono per tutta l'Europa. Congiunti per comune odio contro l'idolatria e la Corte di Roma, obbedivano ad una specie di Governo episcopale, o presbiteriano; la diversità delle varie Sette consisteva in alcuni punti, più o meno discordanti, della loro scolastica Teologia; ma tutte generalmente convenivano nello ammettere i due Principj, nel disprezzare l'Antico Testamento, nel negare la presenza reale del corpo di Gesù Cristo, sia sulla Croce, sia nel mistero Eucaristico. Gli stessi nemici de' Bulgari confessavano semplice il costoro culto, nè potersi rimproverare ad essi alcuna cosa quanto a purezza di costumi: si proponeano un modello di perfezione tanto sublime, che le loro Congregazioni, il cui numero aumentava ogni giorno, in due classi si dividevano, in quelle che a tal perfezione si conformavano, e in quelle che solamente aspiravano alla medesima. Il Paolizianismo avea poste principalmente profonde radici nel territorio degli Albigesi[45], situato [39] nelle province meridionali della Francia; laonde nel secolo XIII, si rinovarono sulle rive del Rodano quelle vicende di persecuzioni, e vendette che dianzi le terre dell'Eufrate avevano offerte. Fattesi rivivere da Federico II le leggi degl'Imperatori di Oriente, i Baroni, e le città della Linguadoca raffigurarono i ribelli di Tefrica; ma la gloria sanguinolenta di Papa Innocenzo III, superò quella della medesima Teodora; e se vi fu perfetta eguaglianza di crudeltà fra i soldati di questa Imperatrice, e gli eroi delle Crociate, la barbarie de' sacerdoti greci venne superata di gran lunga dai fondatori della Inquisizione[46], Ordine ben più atto a confermare che a confutar la opinione dell'esistenza di un cattivo Principio. Perseguitate dal ferro e dal fuoco le assemblee pubbliche de' Paoliziani, e degli Albigesi, cessarono affatto, e i miseri resti di queste fazioni si videro costretti a fuggire, a nascondersi, o a procacciarsi una sicurezza col fingere di abbracciare la Fede cattolica. Ma l'invincibile spirito di setta non quindi sparve dall'Occidente: ed una segreta lega di [40] discepoli di S. Paolo, che, protestando contro la tirannide di Roma, prendeano la Bibbia per regola di loro credenza, e dalle visioni della gnostica Teologia aveano liberato il loro simbolo, si perpetuò nello Stato, nella Chiesa, e persino ne' chiostri. Gli sforzi di Wiclef nell'Inghilterra, e di Hus nella Boemia, immaturi furono e scevri di frutto; ma i nomi di Zuinglio, di Lutero e di Calvino vengono pronunziati colla gratitudine dovuta ai liberatori delle nazioni[47].

Il filosofo che ha dovere di calcolare il grado di merito di cotesti uomini, e della riforma che le lor fatiche operarono, chiederà saggiamente quai sieno gli articoli di Fede[48] superiori o contrarj alla ragione dal cui giogo sciolsero i Cristiani, perchè una tale libertà è senza dubbio un inestimabile vantaggio, ogni qualvolta colla pietà e colla verità sia conciliabile. Chi si accinge a ventilare, scevro d'imparzialità, un tale soggetto, dee piuttosto sorprendersi della timidezza dei riformatori, che scandalezzarsi del lor ardimento[49]. Non men degli Ebrei ammettevano [41] tutti i lor libri, e tutte le lor maraviglie, incominciando dal giardino di Eden, fino alle visioni del profeta Daniele; si credettero obbligati insieme a' Cattolici, a giustificare contro gli Ebrei l'abolizione d'una legge emanata da Dio[50]. Era, oltre ogni dire, rigorosa l'ortodossia dei riformatori, sui grandi misteri della Trinità, e della Incarnazione; niun dubbio metteano sulla dottrina de' quattro o sei primi Concilj, e fedeli al simbolo di S. Atanasio, bandivano dannazione eterna a tutti coloro che al simbolo della Chiesa cattolica non si uniformavano. Il dogma della transustanziazione, o trasformazione invisibile del pane e del vino, in corpo e sangue di Gesù Cristo[51], mal può sostenersi contro l'armi e dello scherzo e del raziocinio. Ma in vece di consultare la semplice testimonianza de' loro sensi, della [42] vista, del tatto e del palato, i primi protestanti si avvolsero ne' proprj loro scrupoli, e abbagliò le loro menti il prestigio delle parole che profferì Gesù Cristo nell'atto di istituire il Sacramento Eucaristico. Lutero sostenea la presenza corporale di Gesù Cristo nel pane consacrato; Calvino la reale, e solo lentamente prese radice nelle Chiese riformate l'opinione di Zuinglio, che null'altro vide nella Eucaristia, fuor d'una comunione spirituale, d'una semplice ricordanza[52]. Ma la perdita di un mistero fu largamente compensata da sorprendenti dottrine[53] sul Peccato Originale, sulla Redenzione, sulla Fede, sulla Grazia, e sulla Predestinazione che tolte vennero dalle Epistole di S. Paolo. Certamente i Padri e gli scolastici, aveano preparate queste sottili quistioni[54]; ma il merito di averle condotte a definitiva [43] perfezione e ad uso del popolo, è tutto de' Capi della Riforma, che inoltre le divulgarono come articoli di Fede indispensabile alla umana salvezza. E fin qui veramente, e sotto l'aspetto di asserir cose difficili a credersi, lo svantaggio rimane affatto dal lato de' Protestanti, perchè molti Cristiani meglio si adatterebbero a sottomettere la loro ragione all'idea d'un'ostia trasformata in Dio, che a conoscere per loro Dio un tiranno capriccioso e crudele.

Ciò nullameno e Lutero, e i suoi rivali rendettero servigi durevoli e rilevanti alla umanità, e la Filosofia non può negare a questi intrepidi entusiasti,[55][56] un tributo di gratitudine.

[44] I. Eglino tolsero al gigantesco edifizio della superstizione[57] molta parte di assurdità, incominciando dall'abuso delle Indulgenze, e venendo sino alla intercessione di Maria Vergine. Tante miriadi di frati e di monaci, alla libertà ed ai lavori della vita sociale restituirono; per opera dei riformatori, una immensa schiera di Santi, e d'Angeli, spezie di Divinità imperfette, e subalterne, spogliate vennero del lor potere temporale e ridotte a contentarsi dalla sola celeste beatitudine; sbandite le immagini e le reliquie di questi dai tempj, la credulità del popolo, più non si vide di miracoli e giornaliere apparizioni nudrita. Ad un culto che a quello dei Pagani si avvicinava[58], sostituirono un culto spirituale [45] di preghiere, e rendimenti di grazie, più degno dell'uomo, e meno sproporzionato alla Divinità. Rimane però sempre a sapersi, se questa sublime semplicità alla popolare divozione si adatti; e se l'uom del volgo, al quale ogni oggetto visibile di venerazione sia tolto, sentirà più il religioso entusiasmo, o anzi non cadrà a poco a poco nel languore, e nella indifferenza.

II. La Riforma ha rotta quella catena di autorità[59], che impediscono al timorato divoto il pensare da sè medesimo, e allo schiavo il dir quel che pensa: all'atto della Riforma, i Papi, i Padri della Chiesa, e i Concilj non vennero più riguardati come giudici supremi e infallibili della Terra; ed imparò ogni Cristiano a non avere altra legge che la Scrittura, altro interprete che la propria coscienza[60]. [46] Non dee nondimeno tacersi, essere stata questa libertà piuttosto conseguenza che scopo della Riforma. I nostri patriottici riformatori, intendevano a succedere ai tiranni che aveano atterrati, e, non meno imperiosamente di essi, pretendendo che ciascuno al lor Simbolo si sommettesse, sosteneano nei Magistrati il diritto di punir di morte gli eretici. Calvino trascinato da fanatismo, o da astio, punì in Servet[61] una ribellione della quale era egli stesso colpevole[62]. E Cranmer aveva accese per gli Anabattisti, [47] in Smithfield, quelle fiamme che poscia lui medesimo consumarono[63]. Le tigri non avean dunque cambiata natura; ma i principj della Riforma lor limarono gradatamente le unghie e le zanne. Il Pontefice romano possedea un regno spirituale, e temporale ad un tempo; i dottori protestanti non erano che umili sudditi privi di giurisdizione, e di rendite. L'antichità della Chiesa cattolica facea sacri i decreti del Papa; i Riformatori sottomettevano al popolo le proprie ragioni e dispute, appellazione al giudizio di ognuno, che la curiosità e l'entusiasmo ricevettero con più ardore di quanto gli stessi riformatori desiderassero. Dopo i giorni di Lutero, e di Calvino, un'altra riforma si è andata operando tacitamente in seno delle Chiese protestanti, ed ha distrutto immenso numero di errori; sicchè i discepoli di Erasmo[64] diffusero estesamente lo spirito [48] di independenza e di moderazione. La libertà di coscienza[65] venne invocata siccome patrimonio che a tutti gli uomini pertenea, siccome inalienabile diritto[66]. I Governi liberi dell'Olanda[67] e della Inghilterra[68] introdussero in pratica la tolleranza; [49] e la prudenza, e l'umanità del secolo ampliarono i troppo limitati concedimenti della legge. Lo spirito dell'uomo ha ricuperata coll'uso la naturale estensione delle sue facoltà, nè la sua ragione continua ad appagarsi di parole, e di chimere fatte soltanto per intertenere i fanciulli. La polve copre le opere di controversia, e v'è gran distanza fra la dottrina della Chiesa riformata, e la credenza di coloro che ne son membri; sol quindi, o sorridendo, o sospirando, il moderno clero alle forme dell'Ortodossia, e ai simboli già abbracciati si adatta. Ciò nullameno gli amici del Cristianesimo si spaventano[69] di tali illimitati progressi dello spirito di ricerca e dello scetticismo, e avverate veggonsi le predizioni de' Cattolici. Gli Arminiani, gli Ariani, i Sociniani, de' quali non dobbiam calcolare il numero su quello delle loro Congregazioni, hanno abbiurati apertamente tutti i misteri; e vediamo i fondamenti della rivelazione smossi da uomini, che usano il linguaggio della religione senza averne i sentimenti[70], e [50] si fanno lecita una libertà di idee filosofiche, senza avere quella moderazione che alla filosofia va congiunta.

[51]

CAPITOLO LV.

I Bulgari. Origine, migrazioni, e fermate degli Ungaresi. Lor correrie nell'Oriente e nell'Occidente. Monarchia de' Russi. Particolarità sulla Geografia, e il commercio di questa nazione. Guerra de' Russi contro l'Impero Greco. Conversione de' Barbari.

Sotto il regno di Costantino, pronipote di Eraclio, un nuovo sciame di Barbari distrusse per un continuo avvenire quel cancello antico del Danubio che fu poi così spesso atterrato, e rifabbricato. I progressi di questi Barbari, vennero, a caso e senza che eglino stessi se ne avvedessero, favoreggiati dai Califfi. Le legioni romane non mancavano di faccende nell'Asia, e, dopo avere perduto la Sorìa, l'Egitto, e l'Affrica, i Cesari si videro per due volte ridotti al rischio, e al disdoro di difendere contro i Saracini la lor capitale. Se nel narrare diverse particolarità intorno a questo popolo tanto spettabile, io ho deviato alcun poco dalla linea che prefissa erami nel divisamento della mia Opera, l'importanza del soggetto coprirà questa colpa e servirammi di scusa. Tanto nell'Oriente quanto nell'Occidente, così negli affari di guerra come in quelli di religione, o considerando i progressi che fecero nelle Scienze, o la loro prosperità, o la lor decadenza, gli Arabi eccitano sotto ogni aspetto la nostra curiosità. Possono attribuirsi all'armi loro i primi disastri della Chiesa greca, e del greco Impero; e i discepoli di Maometto tengono tuttavia lo scettro civile e religioso delle [52] nazioni dell'Oriente. Ma avrebbe argomento poco degno di un'eguale fatica, la storia di quegli sciami di popoli selvaggi che, nel tempo trascorso fra il settimo, e il dodicesimo secolo, ora a guisa di passeggieri torrenti, or per una sequela di migrazioni[71] dalle pianure della Scizia l'Europa innondarono. Barbari sono i lor nomi, incerta la loro origine: confuso il modo onde son pervenute a noi le lor geste. Governati da una cieca superstizione, e da un valor brutale condotti, costoro non offerivano nella monotonia delle lor vite pubblica e privata, nè le soavità dell'innocenza, nè i lumi della politica. I disordinati loro assalti furono infruttuosi contra il soglio di Bisanzio: la maggior parte di queste bande è sparita senza lasciar vestigio di sè, e i loro miserabili avanzi rimangono, e rimarranno forse ancor lungo tempo, sotto dominazioni ad essi straniere. Mi limiterò a scegliere per mezzo alle antichità, I de' Bulgari, II degli Ungaresi, III de' Russi, quei tratti che meritano essere conservati. IV la Storia delle conquiste de' Normanni, e V della Monarchia de' Turchi mi condurrà alle memorabili Crociate di Terra Santa e alla doppia caduta della città, e dell'impero di Costantino.

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A. D. 680

I. Intanto che movea verso l'Italia, Teodorico[72] Re degli Ostrogoti, gli fu mestieri col debellarli, superare l'ostacolo che i Bulgari gli opponevano. Dopo una tale sconfitta, il nome di Bulgari, e questa popolazione medesima, sparvero per un secolo e mezzo; onde avvi luogo a credere che sol per via di nuove colonie fattesi sulle rive del Boristene, del Tanai, o del Volga, nuovamente si diffondesse in Europa o la stessa denominazione, od una denominazione allo incirca non dissimile. Un re dell'antica Bulgaria[73], giunto agli estremi del vivere, lasciò ai cinque suoi figli un'ultima lezione di moderazione e concordia, che i giovani Principi ricevettero, come d'ordinario soglionsi ricevere dalla gioventù gli avvisi della vecchiezza, e della esperienza. Seppellirono il padre loro, si scompartirono i suoi sudditi e le sue mandrie, i consigli ne dimenticarono. Separatisi indi, o ciascuno postosi a capo della sua truppa, cercarono fortuna, chi da una banda, e chi dall'altra, e troviam ben tosto il più avventuroso di essi, nel cuor dell'Italia sostenuto dalla protezione dell'Esarca di Ravenna[74]; ma il corso della migrazione si [54] volse, o venne trascinato verso la capital dell'Impero. Allora la moderna Bulgaria, acquistando, sulla riva australe del Danubio il nome e la forma che mantiene ancor tuttavia, queste popolazioni ottennero per guerra, o per negoziati le province romane della Dardania, della Tessaglia, e dei due Epiri[75]; tolsero la supremazia ecclesiastica alla città, che fu patria di Giustiniano: e al momento della loro prosperità, la città oscura di Licnido, ovvero Acrida, divenne la residenza del loro Re, e del loro Patriarca[76]. Una prova incontrastabile, e dal loro idioma dedotta, ne assicura che i Bulgari derivano dalla schiatta primitiva dagli Schiavoni, o, per parlare con maggiore esattezza, dagli Slavoni;[77] e che le popolazioni de' Serviani, de' Bosnj, de' Rasciani, de' Croatti, de' Valacchi, venute dalla medesima [55] origine[78] ec. seguirono gli stendardi o l'esempio della tribù principale. Questo diverse tribù tennero i diversi paesi che giaciono fra l'Eussino, e il mare Adriatico, quali in istato di prigioniere o di suddite, quali di confederate o nemiche del greco Impero; e il loro nome generico di Slave[79] che equivaleva a gloria, corrotto dal caso o dalla malivolenza, non indica oggi giorno che servitù[80]. Fra queste colonie i Crobaziani[81] o Croatti, che oggidì fan [56] parte della forza militare degli Austriaci, discendono da un poderoso popolo, già vincitore e sovrano della Dalmazia. Le città marittime, e fra l'altre la nascente Repubblica di Ragusi, avendo implorato il soccorso e gli avvisi della Corte di Bisanzio, Basilio ebbe tanta grandezza d'animo per consigliarle a non serbare al romano Impero che una lieve testimonianza di lor fedeltà, e di calmare, mercè un annuale tributo, il furore di quegli invincibili Barbari. Undici Zupani, o proprietarj di grandi feudi, si scompartivano il regno della Croazia: e le lor forze unite componeano un esercito di sessantamila uomini a cavallo e di centomila fantaccini. Una lunga costa di mare coperto da una catena di isole, frastagliato da ampj porti, e quasi a veggente delle rive dell'Italia, allettava alla navigazione i Latini, e gli stranieri. Le lancie, e i brigantini de' Croatti erano foggiati a guisa delle barche de' primi Liburnj. E per vero dire, cento ottanta navigli offrono l'idea d'una rilevante marineria; ma gli uomini di mare de' nostri giorni non potrebbero rattenere le risa in udendo memorare vascelli da guerra, la cui ciurma non sommava a maggior numero di dieci, venti, o quaranta uomini al più. S'introdusse a poco a poco l'usanza di adoperare più onorevolmente siffatti navigli ai bisogni del commercio: nullameno i pirati schiavoni erano sempre in grande numero e da temersi; e solamente sul finire del decimo secolo la Repubblica [57] di Venezia, si assicurò la libertà e la sovranità del Golfo[82]. Gli antenati di questi re dalmati, peregrini agli usi come agli abusi della navigazione, abitavano la Croazia Bianca, le parti interne della Slesia, e della piccola Polonia, lontani, giusta i calcoli de' Greci, trenta giornate dal Mar Nero.

A. D. 640-1017

Poco durevole e poco estesa del pari fu la gloria de' Bulgari[83]. Ne' secoli nono e decimo, regnavano ad ostro del Danubio; ma più poderose nazioni che migrate erano dopo di essi, gl'impedirono volgersi di nuovo a settentrione, o di far progressi verso il ponente. Nondimeno nell'oscuro novero delle loro imprese, una ne posson citare, di cui fino a quel momento era stato serbato l'onore ai soli Goti, quella di avere ucciso in battaglia uno fra i successori d'Augusto e di Costantino. L'imperatore Niceforo dopo avere perduta la sua fama nella guerra d'Arabia, perdè la vita nell'altra che contro gli Schiavoni sostenne. Nel principio della stagione campale penetrato era con arditezza, e buon successo, nel cuore della Bulgaria, giunto a metter fuoco alla Corte Reale, che, giusta ogni apparenza, era, e non altro, [58] un villaggio colle case fabbricate di legno; ma intanto che al bottino si affaccendava, ricusando ogni proposta di negoziazioni, i nemici ripresero coraggio, e, riunite le loro forze, posero ostacoli insuperabili alla sua ritirata; per lo che fu udito esclamare tremando: «Oimè! Oimè! A meno di valerci d'ali come gli uccelli, non ci rimane alcuna via di salvezza». Due interi giorni standosi nella inerzia della disperazione, aspettò il suo destino; ma al giunger del terzo, e sorpreso il campo imperiale dai Bulgari, il sovrano, e i grandi ufiziali della Corona nelle proprie tende vennero trucidati. Almeno il corpo di Valente non avea sofferti oltraggi; ma il capo di Niceforo fu esposto sopra una picca, e il cranio del medesimo incastrato in oro, fu spesse volte empiuto di vino in mezzo alle orgie della vittoria. I Greci, benchè deplorassero l'invilimento cui disceso era il trono, dovettero ravvisare in ciò un giusto castigo della avarizia, e della crudeltà. La coppa dianzi accennata facea palese tutte le barbarie degli Sciti; pure innanzi la fine di questo medesimo secolo, i lor costumi selvaggi si ingentilirono per una conseguenza del commercio pacifico che ebbero co' Greci, del colto paese che possedettero, e del Cristianesimo, che fra loro s'introdusse: i nobili della Bulgaria vennero allevati nelle scuole, e alla Corte di Costantinopoli, laonde Simeone[84], giovine [59] principe della reale famiglia fu istrutto nella Rettorica di Demostene, e nella Logica di Aristotile.

A. D. 927-932

Questo Simeone abbandonò la vita monastica per assumere gli ufizj di re e di guerriero; e sotto il suo regno, che oltre a quarant'anni durò, i Bulgari fra le potenze del mondo incivilito presero sede. I Greci, assaliti da questo Sovrano per più riprese, cercarono conforti dal non risparmiargli rimproveri di perfido e di sacrilego. Inoltre si procacciarono con danari i soccorsi de' Turchi. Ma Simeone, dopo avere perduta contro di questi una battaglia, in un secondo scontro il disastro emendò, riportando vittoria in un tempo ove riguardavasi qual ventura l'evitare i colpi di questa nazion formidabile. Vinse, ridusse in cattività, disperse la tribù de' Serviani; e chi trascorse il territorio della Servia, prima che fosse popolato di nuovo, null'altro potè scoprirvi fuor di cinquanta vagabondi, privi di mogli e di figli, e che una sussistenza precaria traevano dalla caccia. I Greci soffersero una sconfitta alle rive dell'Acheloo, presso gli autori classici tanto famose[85], e il corno del Dio dal vigore dell'Ercole barbaro fu messo in pezzi. Simeone strinse d'assedio Costantinopoli, e, in un parlamento avuto coll'Imperatore gli dettò le condizioni della pace. Nel convenire l'uno alla presenza dell'altro, tutte le cautele della diffidenza adoperarono. La reale galea venne legata [60] ad una munitissima piattaforma che a tal fine era stata costrutta; e il Barbaro si mostrò vano di pareggiare in pompa la maestà della porpora. «Siete voi cristiano? Romano gli chiese umilmente: dovete astenervi dal versare il sangue de' vostri fratelli. Fu sete di ricchezze che vi fece rinunziare ai beni della pace? Rimettete la vostra spada nel fodero; aprite la mano, e appagherò i vostri più avidi desiderj.» Una lega domestica fu il suggello della riconciliazione: venne pattuita, o rimessa fra entrambi i popoli la libertà del commercio; i primi onori della Corte retribuiti, per espressa condizione, e a preferenza degli Ambasciatori de' nemici e degli stranieri[86], ai confederati della Bulgaria: i principi bulgari ottennero il glorioso titolo di Basileus o Imperatore, il che fu argomento d'odio e d'invidia. Ma durata per poco questa buona intelligenza, le due nazioni ripresero l'armi alla morte di Simeone, i cui deboli successori, separatisi fra loro, la propria distruzione operarono. Nel principio dell'undicesimo secolo, Basilio II nato nella porpora, meritò il soprannome di vincitore de' Bulgari; e un tesoro di quattrocentomila lire sterline (del peso di diecimila libbre d'oro) che ci trovò nella reggia di Licnido, [61] saziò in qualche modo la sua avarizia. Usò a mente fredda una vendetta raffinata ed atroce contro quindicimila prigionieri, non colpevoli d'altro che di avere difesa la loro patria. Cavati gli occhi a questi infelici, solamente per ogni centinaio d'uomini fatti ciechi, si lasciava un occhio ad uno di essi, perchè potesse scortare gli altri a piedi del vinto loro monarca. Vuolsi che il re de' Bulgari morisse di terrore, e di angoscia al contemplare un sì miserando spettacolo, per cui agghiadando parimente di spavento tutti i suoi sudditi, scacciati vennero facilmente dal lor paese, e in angusto territorio a vivere confinati. Quelli fra i Capi che a tanta calamità sopravvissero, non altro raccomandarono ai loro figli che pazienza e vendetta.

A. D. 884

II. Allorchè il folto sciame degli Ungaresi, si mostrò per la prima volta in atto di piombare sull'Europa, nove secoli incirca dopo l'Era cristiana, le nazioni sopraffatte dallo spavento e dalla superstizione, immaginarono essere queste genti il Gog e il Magog della Scrittura, i segnali e i forieri del finimondo[87]. Poichè la letteratura si è fra essi introdotta, sonosi dati alla ricerca degli antichi monumenti della loro storia con ardore di curiosità patriottica, [62] veramente degna d'encomj[88]. Rischiarati dai lumi di una sana critica, non può omai tenergli a bada una vana genealogia che da Attila dagli Unni li fa discendere; bensì dolgonsi dei primi loro archivj periti nella guerra de' Tartari; in guisa che hanno dimenticato da lungo tempo il significato o vero, o favoloso, delle rustiche loro canzoni; e si vedono costretti a conciliar con fatica gli avanzi di una cronaca informe[89] colle particolarità della loro storia pubblicata dall'Imperatore, che ha scritto intorno alla amministrazione e alla geografia del greco Impero[90]. Magiar era il vero nome degli [63] Ungaresi, perchè così chiamavansi da sè medesimi, e sotto questo nome conosciuti erano nell'Oriente. I Greci li distinguevano dalle altre tribù della Scizia, col nome particolare di Turchi, siccome usciti da quella gigantesca nazione che avea conquistata e governata tutta la estensione di paese situata fra il Volga e la Cina. La popolazione stanziatasi nella Pannonia avea corrispondenza di commercio, o di amicizia coi Turchi che soggiornavano ad oriente verso i confini della Persia; erano scorsi tre secoli e mezzo dopo la migrazione di queste genti, allorchè i missionarj del Re di Ungheria scopersero in riva al Volga, e riconobbero la patria de' loro antenati. Ivi accolti vennero da' selvaggi idolatri che il nome di Ungaresi ancor mantenevano, conversarono con essi usando del loro idioma, e rammentando una tradizione ad essi rimasta della partenza di una mano di loro compatriotti ch'essi riguardavano da lungo tempo perduti, udirono con sorpresa la maravigliosa storia del nuovo loro reame, e della nuova religione che aveano abbracciata. I vincoli di sangue aggiunsero ardore allo zelo del proselitismo. Uno fra i più grandi principi della colonia ungarese d'Europa, meditò il disegno generoso, ma inutile, di trapiantare ne' deserti della Pannonia quella banda di Ungaresi Tartari[91]. Questi vennero scacciati dalla patria de' lor maggiori, e spinti ver l'occidente dalla guerra, dal capriccio di alcune bande, e dalla forza superiore di più lontane tribù che, uscite dal fondo dell'Asia, si impadronivano a mano a mano de' paesi che lungo [64] il cammino trovavano. La ragione, o il caso condusse questi Ungaresi verso i confini dell'Impero romano; e giusta il loro stile, si fermarono alle rive de' grandi fiumi, per lo che sonosi scoperte ne' dintorni di Mosca, e di Kiovia, e nel territorio della Moldavia, le vestigia del soggiorno lor momentaneo[92]. In tai lunghe e variate peregrinazioni non sempre veniva lor fatto il sottrarsi alla dominazione del più forte; la mescolanza di una progenie straniera o migliorò, o viziò la purezza del loro sangue; molte tribù di Chazari, o per forza, o volontariamente, agli antichi loro vassalli si collegarono, introducendo fra essi l'uso di un secondo idioma; e la fama che aveano di valore, ottenne a questi il posto più onorevole nell'ordine della battaglia. Le truppe dei Turchi e de' lor confederati, formavano sette divisioni militari di pari forza: ciascuna delle quali comprendeva trentamila ottocento cinquantasette guerrieri: talchè calcolando le donne, i fanciulli, e i servi, colla proporzione ordinaria, il numero di questi migrati si troverà essere asceso almeno ad un milione. Sette Vevodi o Capi ereditarj conduceano gli affari pubblici; ma le discordie, e la debolezza della loro amministrazione fecero comprendere la necessità del governo più semplice e vigoroso di un solo. Lo scettro ricusato dal modesto Lebedias, ai natali e al merito di Almo, e di Arpad figlio di Almo fu conceduto; e il popolo giurò di obbedire [65] al suo principe, questi di consultare la felicità e la gloria del suo popolo; e l'autorità del supremo Kan de' Cazari un tale patto formò.

Le accennate particolarità potrebbero bastare, se l'acume de' moderni dotti non avesse aperto ai nostri sguardi un nuovo e più vasto campo di cognizioni sulla storia degli antichi popoli. La lingua degli Ungaresi che si distingue sola, e come lingua a parte fra i dialetti schiavoni, ha un'affinità sensibile ed intrinseca cogl'idiomi della schiatta finnica[93], popolo selvaggio che più non conosciamo oggi giorno, e che occupava altre volte le regioni settentrionali dell'Asia, e dell'Europa. La loro primitiva denominazione di Ugri, o Igur, trovasi sul confine Occidentale della Cina[94]; alcuni monumenti tartari provano la migrazione di questi popoli sulle rive dell'Irtish[95]; un nome e un idioma somigliante rinvenivasi nelle parti australi della [66] Siberia[96], e gli avanzi delle finniche tribù rimangono a più distanze sparsi sopra una grande estensione, che incominciando dalla sorgente dell'Oby, va a terminarsi alle coste della Lapponia.[97] Gli Ungaresi, e i Lapponi usciti d'una medesima origine, offrirebbero un segnalato esempio de' poderosi effetti del clima, che fra i discendenti di uno stesso padre pone tanta opposizione, qual la veggiamo tra gli avventurieri che oggidì s'inebbriano col vino delle rive del Danubio, e i miseri fuggiaschi, sepolti in mezzo alle nevi del Circolo polare. Le armi, e la libertà furono mai sempre le passioni dominanti, ma troppo spesso infelici degli Ungaresi, cui la Natura e forza di corpo, e vigor d'animo compartì[98]. L'eccessivo freddo ha impicciolita la statura de' Lapponi, e addiacciate, per così dire, le facoltà loro intellettuali. Fra tutti i figli degli uomini, le solo tribù artiche ignorano che sia guerra, e non mai versarono [67] sangue umano: fortunata ignoranza, se la loro vita tranquilla fosse un effetto della ragione e della virtù[99]!

L'autore della Tattica[100], l'Imperatore Leone, nota che tutte le orde della Scizia si rassomigliavano nella lor vita pastorale, e militare; che tutte usavano dei medesimi modi di sussistenza, e di eguali strumenti di distruzione; ma aggiugne che le due nazioni de' Bulgari e degli Ungaresi, erano superiori alle altre, e si conformavano scambievolmente per certe miglioranze, benchè imperfette, che aveano portate nella loro disciplina, e nel loro governo: affinità che è stata a Leone un motivo di confondere i suoi amici, e i suoi nemici in una [68] medesima descrizione, cui accrescono vivacità alcuni tratti da esso tolti agli autori contemporanei. Eccetto le prodezze, e la gloria militare, cotesti Barbari giudicavano vile, e degno di sprezzo, tutto quanto gli altri uomini estimano: la violenza naturale del loro animo acquistava forza dall'orgoglio di trovarsi in molti, e da un sentimento ingenito di libertà. Aveano tende di cuoio: coprivansi di pellicce: si tagliavano i capelli, e si faceano ferite sul volto; lentamente parlavano; operavano prontamente: violavano con impudenza i Trattati, e, non meno di tutti gli altri Barbari, troppo ignoranti per sentire l'importanza della verità, erano poi troppo orgogliosi per negare, o palliare le trasgressioni che, contro gli obblighi più solenni, a sè medesimi permetteano. Alcuni hanno lodata la costoro semplicità; ma in sostanza si asteneano da un lusso che non conoscevano; ansiosi però d'impadronirsi di tutto quanto fermava il lor guardo; insaziabili ne' lor desiderj, e forniti della sola industria che alla rapina e al ladroneccio appartiene. Questa dipintura di una nazione di pastori, racchiude tutto quanto potrebbe dirsi più partitamente ed estesamente sui costumi, il Governo, il modo di guerreggiare di tutti i popoli allo stesso grado di civiltà pervenuti. Aggiugnerò che gli Ungaresi doveano alla pesca e alla caccia una parte di lor sussistenza, e che, essendo stato osservato che coltivavano di rado la terra, da ciò stesso può inferirsi che ne' loro nuovi possedimenti abbiano tentata qualche lieve ed informe esperienza di coltivazione. Nelle loro migrazioni, e forse nelle loro spedizioni guerriere, scorgeasi al retroguardo dell'esercito un nugolo spaventoso di polvere, sollevata [69] dalle migliaia di pecore e di buoi, che manteneano fra essi una salubre, e costante copia di latte, e di nudrimento animale. Le prime cure del Generale all'abbondanza de' foraggi volgeansi, e quando le mandrie eran sicure del loro pascolo, que' coraggiosi guerrieri non sentivano più nè pericolo, nè fatica. La confusione de' loro campi, ove, sopra un vasto spazio di terreno, sparsi stavano indistintamente gli uomini e il bestiame, gli avrebbe di leggieri avventurati a notturne sorprese, se non avesse guardati i dintorni del campo medesimo la loro cavalleria leggiera, che sempre per esplorare e impedire l'avvicinar del nemico in continuo moto si stava. Dopo avere fatte alcune esperienze sugli usi militari de' Romani, ammisero fra i proprj attrezzi di guerra la spada, e la lancia, l'elmo del soldato, e l'armadura del cavallo; ma l'arco usato nella Tartaria fu sempre l'arma lor principale. I loro figli e schiavi venivano addestrati fin da' primi anni al tiro delle frecce, e al governo de' cavalli; forniti di braccio vigoroso, e d'occhio sicuro, in mezzo a rapidissima corsa sapeano volgersi addietro, ed empir l'aere d'un nembo di dardi. Nè meno formidabili in una battaglia ordinata, o in un agguato, mostravansi terribili, se fuggivano dal nemico, terribili se lo inseguivano. Le prime linee serbavano un'apparenza di ordine; ma spinte avanti dall'impeto delle linee posteriori, scagliavansi con impazienza sull'inimico. Dopo averlo messo in rotta, lo inseguivano a capo chino, e a sciolte briglie, mandando orribili grida: se eglino stessi prendevan la fuga in un istante di terrore o vero, o simulato, l'ardor delle truppe che credeansi vincitrici, venia represso e punito dalle [70] subitanee fazioni che sapeano essi intraprendere, in mezzo anche ad una corsa la più rapida e disordinata. Portarono l'abuso della vittoria a tale eccesso, che ne rimase attonita l'Europa, ancor dolente degli aspri colpi ricevuti dai Danesi, e dai Saracini; rare volte chiedean quartiere, più rare volte lo concedeano: entrambi i sessi venivano accusati di avere un animo inaccessibile alla pietà: credeasi bevessero il sangue, e divorassero il cuore de' vinti, racconto popolare al quale conciliava credenza la loro propensione al mangiar carni crude. Non quindi gli Ungaresi ignoravano affatto que' principi di umanità e di giustizia che la natura indistintamente a tutti gli uomini inspira. Aveano leggi, e punizioni instituite contra i delitti pubblici e privati: il furto, più seducente di tutti i delitti in un campo aperto, ove ogni cosa sotto la tutela della confidenza pubblica posavasi, veniva anche castigato come il più pericoloso; oltrechè trovavansi fra que' Barbari molti individui, ne' quali le naturali virtù, più delle leggi contribuivano a dirozzare i loro costumi, e che provandone tutte le affezioni, i doveri della vita sociale adempievano.

A. D. 889

Le bande turche, dopo avere lungo tempo errato, poste ora in fuga, or vittoriose, si avvicinarono alle frontiere comuni dell'Impero franco, e del greco. Le prime loro conquiste, e i primi paesi ove posero stabil dimora, si estesero lungo le rive del Danubio, al di sopra di Vienna, al di sotto di Belgrado, e oltre ai limiti della romana Pannonia, ossia del moderno regno dell'Ungheria[101]. Su questo vasto e fertile [71] territorio stanziavano i Moravi, tribù di Schiavoni che gli Ungaresi scacciarono, confinandoli entro il ricinto di piccolo territorio. L'Impero di Carlomagno estendeasi, almen di nome, sino ai confini della Transilvania. Ma estinta la linea legittima di questo Monarca, i duchi della Moravia non prestarono oltre obbedienza e tributo ai sovrani della Francia Orientale. Il bastardo Arnolfo si lasciò guidare dal risentimento a chiedere il soccorso de' Turchi, i quali si gettarono a precipizio entro lo steccato che l'imprudenza loro disserrò: onde giustamente questo sovrano della Germania ebbe rimprovero di avere traditi gli interessi della società civile ed ecclesiastica de' Cristiani. Finchè visse Arnolfo, la gratitudine, o il timore tennero in freno gli Ungaresi: ma durante la fanciullezza di Lodovico, figlio e successore di Arnolfo, scopersero ed invasero la Baviera: e tale era la lor prestezza, affatto scitica, che in un sol giorno portavano via, e consumavano lo spoglio di un territorio di cinquanta miglia di circonferenza. Alla battaglia di Haubsburgo, i Cristiani conservarono la superiorità sino all'ora settima della giornata: ma finalmente sorpresi rimasero, e vinti da una simulata fuga della turca cavalleria. L'incendio si dilatò sulle province della Baviera, della Svevia e della Franconia, e gli Ungaresi[102], costringendo [72] i più possenti fra i baroni ad ammaestrare nella guerra i proprj vassalli, e ad affortificare le loro castella, divennero la cagion principale dell'anarchia. A questa epoca disastrosa viene assegnata l'origine delle città murate: non v'era lontananza che guarentisse assai da un nemico, il quale, pressochè nel medesimo istante, il monastero di S. Gallo nella Svizzera, e la città di Brema, situata sulle coste dell'Oceano settentrionale, inceneriva. L'Impero, ossia il reame dell'Alemagna, rimase per più di trent'anni soggetto alla umiliazione del tributo, ed ogni resistenza cedè alla minaccia fattasi dagli Ungaresi di condurre schiavi i fanciulli e le donne, e di trucidare tutti i maschi che oltrepassassero i dieci anni. Nè posso, nè bramo seguir queste genti al di là del Reno: accennerò soltanto, maravigliandone, che le province meridionali della Francia sentirono esse pur la burrasca, e che l'avvicinare di questi formidabili stranieri spaventò la Spagna dietro a' suoi Pirenei[103]. La vicinanza dell'Italia avea eccitate le prime correrie di costoro: nondimeno dal lor campo della Brenta videro con una spezie di terrore la forza e la popolazione apparenti della contrada recentemente scoperta per essi; e la permissione di ritirarsi sollecitarono. Ma il Re d'Italia ne ributtò con orgoglio l'inchiesta; ostinatezza e temerità che a ventimila [73] Cristiani costarono la vita. Di tutte le città dell'Occidente, Pavia, residenza del Governo, era la più celebre pel suo splendore, e in questa fama Roma stessa non la vincea che per le possedute reliquie de' Santi Appostoli. Gli Ungaresi comparvero, e Pavia andò tutta in fiamme: incenerirono quarantatre chiese, trucidarono gli abitanti, nè risparmiarono che circa dugento miserabili, i quali, giusta le vaghe esagerazioni de' contemporanei, pagarono il proprio riscatto con alcune staia d'oro e d'argento, tratte dalle fumanti rovine della lor patria. Intanto che gli Ungaresi partivano ogni anno dal piè dell'Alpi per far saccheggi ne' dintorni di Roma e di Capua, le Chiese non per anco tocche dal ferro de' Barbari, rintronavano di questa lamentevole litania. «Salvateci, e liberateci dai dardi degli Ungaresi;» ma i Santi furono sordi, o rimasero inesorabili, e il torrente barbarico agli estremi confini della Calabria sol si fermò[104]. I vincitori acconsentirono a negoziar pel riscatto [74] di ciascun individuo italiano, e dieci staia di argento vennero nel campo turco versate; ma la falsità è l'arma che suol naturalmente opporsi alla violenza, e i ladri, così nel numero de' contribuenti, come nel titolo de' metalli, si trovarono delusi. Dalla parte d'oriente, gli Ungaresi ebbero a combattere a forze eguali, e con dubbioso successo, i Bulgari, ai quali la loro religione non permetteva il collegarsi co' Pagani, e che, per la lor situazione servivano di antemurale all'Impero di Bisanzio; ma questo antemurale fu rovesciato; e l'Imperatore di Costantinopoli vide sventolarsi dinanzi agli occhi le bandiere de' Turchi, mentre uno de' più audaci fra lor guerrieri, ardiva colla sua azza da guerra percotere la Porta d'Oro. L'astuzia e i tesori de' Greci tennero lontano l'assalto; nondimeno gli Ungaresi, di avere assoggettati a tributo il valore della Bulgaria, e la maestà de' Cesari[105], poteron vantarsi. Le fazioni di questa stagione campale furono tanto rapide ed estese, che fanno parere maggiori ai nostri occhi la forza e il numero de' Turchi; ma tanto più è degno di lode il loro [75] coraggio, perchè un corpo di trecento o quattrocento uomini a cavallo intraprese e sovente mandò a termine le sue corse sino alle porte di Tessalonica, e di Costantinopoli. Epoca disastrosa dei secoli nono e decimo, in cui l'Europa si vide assalita in una volta da Settentrione, da Oriente, e da Mezzogiorno; molte contrade della medesima vennero a vicenda devastate dai Normanni, dagli Ungaresi e dai Saracini, e Omero avrebbe potuto paragonare questi selvaggi nemici a due lioni che ruggiscono sullo sbranato corpo di un cervo[106].

A. D. 934

L'Alemagna e la Cristianità andarono debitrici di lor salvezza a due Principi Sassoni, Enrico l'Uccellatore, e Ottone il Grande, che in due memorabili battaglie, fiaccarono per sempre la possanza degli Ungaresi[107]. Il prode Enrico che giacea infermo, allora quando intese la notizia della invasione, dimenticando il suo debole stato, si pose a capo delle soldatesche, perchè l'animo suo conservava intero il proprio vigore; e il buon successo alle provvisioni che egli diè corrispose. «Miei colleghi, egli diceva ai soldati nella mattina della pugna, ognun di voi stia fermo [76] sulla sua linea: i vostri scudi ricevano le prime frecce de' Pagani, e prima che costoro vengano ad una seconda scarica, colle lancie in resta correte rapidamente sovr'essi». I soldati obbedirono, e furono vincitori. In un secolo d'ignoranza, Enrico ricorse alle Belle Arti per far perpetuo il suo nome, e le dipinture istoriche del castello di Merseburgo, ci hanno trasmesse le sue geste, o almeno quegli atti della sua vita che meglio fanno scorgere l'indole di un tanto monarca[108]. Venti anni dopo, i figli de' Turchi caduti sotto i colpi di Enrico, invasero gli Stati del figlio del vincitore, e giusta i calcoli più moderati, il costoro esercito a centomila uomini a cavallo sommava. Sollecitati dalle fazioni dell'Impero Alemanno, e, profittando de' passi che loro vennero aperti dai traditori, spintisi oltre il Reno e la Mosa, penetrarono sin nel cuor della Fiandra. Ma il vigore e la prudenza di Ottone la congiura dispersero. I Principi del Corpo germanico avendo compreso, come, non rimanendo fedeli gli uni agli altri, perderebbero inevitabilmente la loro religione, e la loro patria, le forze di tutta la nazione sulla pianura di [77] Augusta assembraronsi. Marciò questo esercito, e combattè distribuito in otto legioni, proporzionate al numero delle province e delle tribù. Le tre prime erano composte di Bavaresi, di Franconj la quarta; la quinta di Sassoni comandati dal lor monarca in persona: la sesta e la settima di Svevi; l'ottava di mille Boemi che militavano al retroguardo. I soccorsi della superstizione, che in siffatte congiunture possono aversi per onorevoli, e salutari[109], a quelli della disciplina e del valore si collegarono. Venne prescritto ai soldati purificarsi con un digiuno; il campo ringorgava di reliquie di Santi, e di martiri: e l'eroe cristiano cignendo la spada di Costantino, e armato dell'invincibile lancia di Carlomagno, fece sventolare la bandiera di S. Maurizio, prefetto della legione tebana. Ma soprattutto affidavasi alla santa lancia[110], la punta della quale era stata fatta coi chiodi della vera Croce, lancia che il padre di Enrico avea tolta al Re di Borgogna minacciandolo di guerra, e presentandolo di una provincia. Credeasi che gli Ungaresi assalirebbero di fronte; ma questi, valicato segretamente il Lech, fiume della Baviera che mette foce al Danubio, intrapresero di fianco [78] l'esercito cristiano, ne devastarono le bagaglie, e portarono confusione fra le legioni della Boemia e della Svevia. I Franconj riordinarono la battaglia; il loro Duca, il valoroso Corrado, fu ferito da una freccia nel momento che ritirato erasi del campo della pugna per gustar breve riposo. I Sassoni sotto gli occhi del loro Re combatterono, e tal vittoria ottennero, che per difficoltà superate, e per le conseguenze che ebbe, ogni trionfo de' due trascorsi secoli oltrepassò. Gli Ungaresi perdettero ancora più gente nella fuga che nel durare dell'azione, perchè trovavansi rinserrati fra mezzo ai fiumi della Baviera, nè le passate lor crudeltà lasciavano ad essi alcuna speranza di ottenere misericordia. Tre Principi ungaresi caduti nelle mani de' vincitori vennero appiccati a Ratisbona, gli altri prigionieri o strozzati, o privi di qualche lor membro; que' fuggitivi che osarono tornarsene fra i loro compatriotti, il rimanente di loro vita nella povertà, e nel disonore[111] condussero. Però un tale disastro depresse il coraggio, e l'orgoglio di questi Pagani, che munirono di fosse e di baluardi i passi più accessibili dell'Ungheria. L'avversità inspirò loro sentimenti di moderazione e di pace: i devastatori dell'Occidente si rassegnarono a vita sedentaria, e un saggio Principe insegnò alla futura generazione quai vantaggi ella potesse ritrarre dall'agricoltura, e dal commercio delle produzioni di quel fertilissimo suolo. La schiatta primitiva, il sangue turco, o finnico si mescolò con quello di nuove colonie d'origine scitica o schiavona[112]: [79] migliaia di prigionieri robusti, e industriosi vennero colà trasportati da tutte le contrade europee[113]. Geisa, dopo essersi stretto in nozze con una principessa di Baviera, concedè dignità, e dominj ai Nobili della Alemagna[114]. Il figlio di Geisa assunse il titolo di Re, e la dinastia di Arpad diede leggi all'Ungheria per tre secoli. Ma non abbagliati dallo splendor del diadema que' Barbari, nati liberi, accadde che il popolo facesse valere il suo diritto di scegliere, di rimovere e di castigare il servo ereditario dello Stato.

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A. D. 839

III. Nel nono secolo, all'occasione di un'ambasceria che Teofilo, Imperator d'Oriente inviò all'Imperator d'Occidente, Luigi, figlio di Carlomagno, il nome di Russi,[115] cominciò per la prima volta ad essere conosciuto in Europa; perchè i Greci erano accompagnati dagli Ambasciatori del gran Duca o Sciagan o czar de' Russi. Questi ambasciatori, nel trasferirsi a Costantinopoli, aveano dovuto toccare il territorio di molte popolazioni nemiche al lor paese, e speravano sottrarsi ai pericoli di cui li minacciava il tornare addietro, coll'ottenere dal francese Monarca i modi a fine di restituirsi in patria per mare. Un attento esame fece scoprire l'origine di costoro: discendevano dalla schiatta degli Svevi, e de' Normanni, il cui nome erasi già fatto odioso e formidabile ai Francesi; laonde, nè a torto, si paventò, che questi ambasciatori russi fossero altrettanti esploratori, sotto colore d'amicizia colà venuti. Gli Inviati greci partirono, ma altrettanto non si permise ai Russi, perchè Luigi volea nuovi schiarimenti, prima di risolversi ad attenersi per riguardo loro o alle leggi della ospitalità, o a quelle della prudenza, giusta quanto l'interesse di entrambi gli Imperi avrebbe [81] indicato[116]. Gli Annali moscoviti e la storia generale del Nort provano con molte dilucidazioni questa origine scandinava del popolo, o almeno de' Principi, della Russia[117]. I Normanni, per sì lungo tempo sepolti in una impenetrabile oscurità, furono d'improvviso infiammati dallo spirito delle avventure così marittime, come terrestri. Le vaste regioni, e, a quanto è stato detto, popolosissime, della Danimarca, della Svezia, e della Norvegia, abbondavano di Capi independenti, e di forsennati venturieri, che incresciosi degli ozj della pace, fra le angosce della morte sol sorrideano. I giovani Scandinavi altra professione non avendo che il corseggiare, in questa unicamente ponevano [82] la loro gloria e la loro virtù. Stanchi di un clima addiacciato, e d'un paese fra stretti limiti chiuso, brandivano l'armi all'uscir d'un banchetto, suonavano il corno, salivano sui lor navigli, e trascorreano tutte le rive, che di bottino, o di miglior soggiorno li lusingavano. Primo teatro delle loro imprese marittime fu il mar Baltico; e col nome di Varagi o Varangi[119], o Corsari, approdando alla costa orientale, oscura dimora delle tribù finniche, e schiavone, ricevettero dai Russi del lago Ladoga un tributo di pelli di scoiattoli bianchi. Superiori ai nativi e per maestria nelle armi, e per disciplina, e per celebrità, timore e rispetto a quelli ispiravano: e quando portarono la guerra fra i Selvaggi dimoranti nelle parti più interne di que' paesi, i Varangi non dissentirono dal combattere con loro, come collegati, e ausiliari, e fosse per elezione de' Russi, o per conquista, pervennero a poco a poco a dominar sopra un popolo che in istato erano di proteggere. Per praticata tirannide si fecero poi discacciare, e pel valore che li rendea necessarj, richiamati furono di bel nuovo. Intanto che Ruric, Capo scandinavo, divenne fondatore di una dinastia che più di settecento anni regnò, i fratelli di Ruric ne dilatarono la possanza: solleciti di secondarlo i suoi compagni d'armi, ne imitarono anche la usurpazione nelle province australi della Russia; e le diverse loro conquiste, consolidate, giusta l'uso, dalla guerra e dagli assassinj, [83] in una possente Monarchia per ultimo si congiunsero.

I discendenti di Ruric vennero lungo tempo riguardati come stranieri e conquistatori. Governando eglino colle armi de' Varangi, presentavano di dominj e di sudditi i fidi lor capitani, e nuovi venturieri venendo dalle coste del Baltico, aumentavano ad essi il numero de' partigiani[120]. Ma poichè la dominazione de' Capi scandinavi ebbe acquistata stabilità, essi alle famiglie russe s'imparentavano; ne assunsero la religione e la lingua; e Valadimiro I ebbe la gloria di liberare da mercenarj stranieri la patria. Costoro lo avean posto sul trono; ma le ricchezze del Principe, non bastando alle loro pretensioni, egli giunse accortamente a persuaderli a cercarsi un padrone, non più grato di lui, ma più dovizioso, e di veleggiare alle greche rive, ove il loro valore troverebbe compenso, non di pelli di scoiattolo, ma d'oro e di seta. In questo mezzo, il Principe russo avvertiva l'Imperator di Bisanzo di disperdere qua e là, di tenere in faccende, di ricompensare, ed anche frenare questi impetuosi figli del Settentrione. Gli Autori greci contemporanei descrivono questo arrivo dei Varangi; da essi sotto questo nome additati, e ne danno a conoscere l'indole. Il fatto è che ogni giorno si acquistarono maggiore stima e [84] confidenza, e raccolti a Costantinopoli, ebbero ivi l'incarico della guardia del palagio; accresciuti di poi da una banda numerosa di loro compatriotti, gli abitanti di Thule; denominazione di paese generale e vaga, che in tal circostanza alla Inghilterra si riferisce. Erano pertanto i nuovi Varangi una colonia di Inglesi e Danesi al normanno giogo sottrattisi. La consuetudine del migrare e del corseggiare avea riuniti i diversi popoli della terra: questi esuli, ben ricevuti alla Corte di Bisanzo, ivi conservarono, sino agli ultimi anni dell'Impero, una lealtà immune da taccia, e l'uso delle lingue inglese e danese. Armato l'omero della loro larga azza da guerra a due tagli, accompagnavano l'Imperatore al tempio, al senato e all'Ippodromo; alla fedele loro guardia ei doveva la tranquillità de' suoi sonni e de' suoi conviti; fra le lor mani, sicure del pari e coraggiose, le chiavi del palagio, dell'erario e della Capitale si stavano[121].

Nel decimo secolo le geografiche cognizioni che si aveano sulla Scizia erano assai più estese di quelle degli Antichi; e la monarchia dei Russi tiene una importante [85] sede nel ragguaglio offertone da Costantino sulle diverse nazioni del globo[122]. Il figlio di Ruric dominava la vasta provincia di Wolodimir o Moscovia, e se i Russi da questo lato aveano per impedimento ad estendersi di più le orde orientali, verso occidente il loro Impero fino al mar Baltico e alla Prussia si dilatava. Verso tramontana, oltrepassava il sessantesimo grado di latitudine di quelle regioni iperboree che la nostra immaginazione ha empiute di mostri, o di una notte eterna coperte. Dalla parte di ostro seguivano il corso del Boristene fino in vicinanza all'Eussino. Le tribù dimoranti, o errabonde in questa vasta contrada, allo stesso vincitore obbedivano, e a poco a poco una medesima nazione formarono. La lingua russa attuale non è che un dialetto della schiavona; ma nel decimo secolo, questi due idiomi erano ben distinti l'uno dall'altro, e poichè lo schiavone ha prevalso ne' climi australi, v'è luogo a credere che i Russi boreali, soggiogati sulle prime dal General de' Varangi, alla schiatta finnica appartenessero. Le migrazioni, le unioni, o le separazioni [86] delle tribù erranti, hanno cambiato continuamente il quadro mobile del deserto della Scizia; pur trovansi nella carta più antica della Russia tai luoghi che non hanno mai cambiato di nome. Novogorod[123], e Kiovia[124], le due Capitali, fin dai primi tempi della Monarchia hanno esistenza. Novogorod però non veniva ancora intitolata la Grande; non per anche erasi confederata colla Lega anseatica, che le ricchezze e i principj della libertà ha diffusi in Europa. Kiovia non superbiva ancora de' suoi trecento tempj, di quella innumerevole popolazione, di quel grado di magnificenza e splendore, onde la paragonavano a Costantinopoli coloro che non aveano mai veduta la residenza de' Cesari. Le due città non erano sulle prime che campi, o fiere, soli ritrovi che s'avessero i Barbari per concertarsi sulle bisogne della guerra, o [87] del commercio. Pure queste assemblee annunziano alcuni progressi nella civiltà. Venne tratta dalle province del Mezzogiorno una razza di animali, gli animali cornuti; e lo spirito di commercio, per terra e per mare, si dilatò dal Baltico all'Eussino, dalla foce dell'Oder al porto di Costantinopoli. Sotto il regno del Paganesimo e della barbarie, i Normanni aveano arricchita la città schiavona di Giulino, dalle loro cure ridotta a ricettacolo di commercio[125]. Da questo porto situato alla foce dell'Oder, i corsari e i mercatanti giugnevano in quarantatre giorni alle coste orientali del Baltico. Quivi le popolazioni più rimote si mescolavano fra loro, e i boschi sacri della Curlandia vedeansi, narrano, ornati dell'oro della Grecia, e della Spagna[126]. Una comunicazione facile, [88] fra Novogorod e il mare, venne scoperta: durante la state attraversavansi un golfo, un lago, un fiume navigabile: nel verno la superficie solida di una immensa pianura di diaccio offeriva ai viaggiatori il cammino. Dai dintorni di questa città, i Russi calavansi per li fiumi che vanno a cader nel Boristene; le loro navicelle formate di un solo albero portavano schiavi d'ogni età; pellicce d'ogni specie, il mele delle loro api, le pelli de' loro animali, e tutte le derrate del Settentrione, condotte venivano, e raccolte trovavansi ne' magazzini di Kiovia. Il mese di giugno era per ordinario il tempo in cui la navigatrice carovana partivasi. Il legno di quelle navicelle serviva indi a fabbricar remi, e tavole per battelli più ampj, e di maggiore durata; e questi nuovi navigli scendeano senza ostacolo giù pel Boristene, fino a sette o tredici catene di roccie, che, opponendosi al letto del fiume, ne mandano precipitando le acque. Se di minor conto erano queste cateratte, bastava l'alleggerire i battelli; ma le più rilevanti essi non potevano superare; i navicellai allora vedeansi costretti a trasportare per terra le barche e gli schiavi, e durante questo penoso viaggio di sei miglia, stavano in continuo pericolo di essere assaliti dai malandrini del deserto[127]. Alla prima isola che trovavano [89] al di sotto delle cateratte, i Russi celebravano con una festa la buona sorte che dal rischio gli avea campati; ad una seconda isola più vicina alla foce del fiume, risarcivano i battelli per metterli in istato di ricominciare più lunga e più perigliosa corsa che aspettavali sul mar Nero. Costeggiando in appresso, raggiugneano senza fatica la bocca del Danubio; e se il vento li favoriva in trentasei o quaranta ore approdavano alle rive della Natolia, d'onde a Costantinopoli si trasferivano. Di ritorno nella Russia, vi portavano un abbondante carico di biade, vini, olj, lavori della Grecia e aromi dell'India. Alcuni de' loro compatriotti si stanziavano nella Capitale e nelle province dell'Impero greco, e la persona, i beni e i privilegi del mercatante russo dai negoziati fra le due nazioni veniano guarentiti[128].

Ma non andò guari che si abusò, convertendola a danno dell'uman genere, di una comunicazione apertasi col fine di vantaggiarlo. In un intervallo di cento [90] novanta anni i Russi tentarono per quattro volte di saccheggiare i tesori di Costantinopoli: e benchè queste spedizioni navali non ottenessero tutte un eguale successo, i motivi e i fini ne erano sempre stati i medesimi, e i modi dell'imprenderle eguali[129]. I maravigliosi racconti de' mercatanti russi che aveano veduta la magnificenza e assaporato il lusso della città dei Cesari, alcuni saggi di queste ricchezze che essi portavano in patria, destarono la cupidigia de' lor selvaggi concittadini. Incominciarono questi ad invidiare quelle beneficenze che la natura ricusava al lor clima, e a vagheggiare que' lavori dell'arte che, nè attesa la lor dappocaggine poteano imitare, nè attesa la lor povertà, procacciarsi. I Principi varangi innalzarono bandiera di corsari, e trassero i migliori loro marinai dalle nazioni che abitavano le isole settentrionali dell'Oceano[130]. Abbiam veduta nel trascorso secolo una immagine di tale armamento nelle flotte de' Cosacchi che uscirono fuori del Boristene per correre i mari colle intenzioni medesime[131]. Il [91] nome greco monoxyla, barca di un solo pezzo, ben addiccasi alla chiglia de' lor navigli, che era un lungo tronco di faggio o di betulla incavato; e su questa leggiera e stretta base, continuata col mezzo di assi, lunghe fino a sessanta piedi, si alzavano gli orli della navicella, alti in circa dodici piedi. Privi di ponte questi navigli aveano due governali, ed un albero, e movendosi col ministero di remi e di vele, portavano fra i quaranta e i settanta uomini, forniti delle armi necessarie, e provveduti di acqua dolce, e di pesce salato. Nella prima loro spedizione, i Russi non adoperarono più di dugento di questi battelli; ma quando tutte le forze di lor nazione spiegavano, poteano condurre e mille, e mille dugento navigli sotto le mura di Costantinopoli. La loro flotta non era per nulla inferiore a quella di Agamennone; i Greci spaventati la supponeano, dieci, o quindici volte, più forte e più numerosa. Con qualche previdenza e vigore, non sarebbe stato difficile agli Imperatori il chiudere con una flotta la foce del Boristene. Ma, mercè alla loro indolenza, le coste della Natolia furono in preda a' corsari, che più non s'incontravano da sei secoli sul Ponto Eussino; e sintanto che la Capitale fu rispettata, i disastri di una remota provincia sfuggirono all'attenzione de' Principi e degli Storici. Finalmente poi la procella, che devastata avea le rive del Fasi e di Trebisonda, scoppiò sul bosforo Tracio, stretto di quindici miglia, ove un avversario più abile avrebbe potuto arrestare e distruggere l'informe naviglio de' Russi. Nella prima loro intrapresa condotti dai Principi di Kiovia[132], [92] non trovarono ostacolo alla loro navigazione, e mentre l'Imperatore Michele, figlio di Teofilo, era lontano, occuparono il porto di Costantinopoli. Il ridetto principe, dopo avere affrontati mille pericoli, pervenne finalmente a sbarcare alla scala del palagio, trasferitosi tosto ad una chiesa consacrata a Maria Vergine[133]. Per consiglio del Patriarca fu tolta da quel Santuario una reliquia preziosa, l'abito della stessa Madonna; e tuffatolo indi nel mare venne divotamente attribuita alla protezione della madre di Dio una tempesta che, giunta a proposito, persuase ai Russi la ritirata[134]. Il silenzio de' Greci fa nascere dubbj sulla verità o certamente sull'importanza del secondo tentativo operato da Oleg, tutore dei figli di Ruric[135]. [93] Una sbarra ben affortificata e guernita di soldati, a que' giorni, il Bosforo difendea: i Russi superarono un tale ostacolo, come a ciò erano soliti, trascinando le loro barche al di sopra dell'istmo, e le Cronache nazionali parlano di questo semplicissimo espediente, come se la flotta russa, protetta da un vento favorevole, avesse navigato per terra. Igor, figlio di Ruric, comandante della terza spedizione, avea scelto un momento di debolezza e d'impaccio pe' Greci, allorchè le armate navali stavano difendendo l'Impero dai Saracini; ma ove non manca il coraggio, rare volte mancano i modi della difesa. Vennero arditamente lanciate contro il nemico quindici galee disordinate ed infrante; ed invece di una sola bocca di fuoco greco che collocar solevasi sulla prora, furono abbondantemente provveduti di questa fiamma e i fianchi e le poppe di tutti quindici i navigli. Abili erano gli artefici, propizio l'aere. Migliaia di Russi che preferirono l'annegarsi al cader vittima dell'incendio, si gettarono in mare: tutti quelli che alle coste della Tracia si ripararono, vennero inumanamente trucidati dai soldati e dai contadini. Nullameno, un terzo di naviglio russo si sottrasse alla distruzione, guadagnando le basse acque, e nel successivo anno Igor si apparecchiò a vendicare la ricevuta sconfitta[136]. Dopo una lunga pace, Jaroslao [94] pronipote di Igor, avendo tentata una quarta invasione, il fuoco greco rispinse nuovamente all'ingresso del Bosforo una flotta che il figlio di Iaroslao comandava. Ma l'antiguardo de' Greci dato essendosi ad inseguire senza cautela i fuggitivi, fu preso in mezzo da una moltitudine di barche russe; forse in quel punto il fuoco greco mancò di alimento; e ventiquattro imperiali galee, vennero quali prese, quali mandate a fondo, quali in altra guisa distrutte[137].

Più spesso colle negoziazioni che colle armi l'Impero greco cercava sottrarsi ai pericoli, o ai disastri del guerreggiare coi Russi. E per vero, in queste marittime ostilità stava contro i Greci ogni svantaggio. Doveano battersi con un popolo feroce, di cui non era stile il conceder quartiere, povero sì che speranza di bottino non offeriva; e affidato per le sue ritratte ad inaccessibili asili, che ogni speranza di vendetta al vincitore toglievano. Laonde, fosse orgoglio, o debolezza, prevalse una opinione che il continuarsi a cimentare con questi Barbari, non potea far crescere, nè sminuire di gloria l'Impero. Costoro posero sulle prime partiti immoderati, e non ammissibili, qual si era quello di pretendere tre libbre d'oro per ogni soldato o marinaio della loro flotta. La gioventù russa ostinavasi nella brama delle conquiste, mentre i saggi vegliardi raccomandavano loro la moderazione. «Contentatevi, essi diceano, [95] delle grandiose offerte di Cesare. Non è egli meglio ottenere senza combattere l'oro, l'argento, i drappi di seta e tutto quanto è scopo dei nostri desiderj? Siam noi sicuri della vittoria? Possiamo noi conchiudere un trattato col mare? Noi non camminiamo per terra, ma galleggiamo sull'abisso delle acque, e la morte ai capi di ognun di noi sovrasta egualmente[138]». La ricordanza di queste artiche flotte che dal Cerchio polare pareano scendere, profonda impressione di terrore lasciò nella Capitale degli Imperatori. Il volgo di tutte le classi assicurava, e credea, che una statua equestre, posta sulla piazza del Tauro, predicesse, con misteriosa iscrizione, dover finalmente venir giorno, in cui i Russi diventerebbero padroni di Costantinopoli[139]. Son pochi anni che una squadra russa, in vece di uscir del Boristene, ha fatto il giro d'Europa: abbiam veduta la Capitale degli Ottomani, minacciata da grandi e forti vascelli di linea, de' quali un solo, e per l'abilità de' suoi marinaj, e per la forza delle sue terribili artiglierie, avrebbe bastato a mandare a fondo, o disperdere cento navigli simili a quelli che gli antenati de' Russi adopravano: onde i Turchi hanno ogni ragion di temere che la generazione presente, non veda compirsi una tal profezia; profezia che si [96] toglie dalle ordinarie perchè lo stile non ne è equivoco, nè può esserne rivocata in dubbio la data.

A. D. 555-673

Men formidabili per terra che sul mare, erano i Russi; soliti quasi sempre a combattere a piedi, avvi motivo per credere che le irregolari loro legioni sieno state sovente rovesciate, e dalla cavalleria delle orde scitiche poste in rotta; ma le nascenti loro città, comunque in uno stato di imperfezione si ritrovassero, offerivano asilo ai sudditi, ostacolo tremendo al nemico. La monarchia di Kiovia, sintanto che non venne smembrata, a tutto il Settentrione diè legge; e Swatoslao[140] figlio d'Igor, figlio di Oleck, figlio di Ruric, le nazioni poste tra il Volga e il Danubio, ora rispinse, or debellò; perchè le fatiche di una vita militare e selvaggia, in questo principe il vigore dello spirito e dell'animo fortificarono. Vestito di una pelle d'orso, sul terreno ignudo per lo più coricavasi, e guanciale ad esso era una sella; nel nudrirsi di cibi semplici e grossolani agli eroi di Omero non la cedea[141], e tai cibi erano per lo più carne di cavallo arrostita, o sugli ardenti carboni abbrustolata. La consuetudine della guerra addestrava [97] e istruiva il suo esercito, ed è credibile che non fosse permesso a quelle soldatesche lo sfoggiare d'un lusso ignoto al loro generale. Un'ambasceria venutagli per parte dell'imperatore Niceforo indusse Swatoslao ad intraprendere la conquista della Bulgaria, intanto che un donativo di millecinquecento libbre d'oro servivagli alle spese già fatte, o che per quella spedizione far si dovevano. Imbarcati sessantamila de' suoi che, usciti dalla foce del Boristene a quella del Danubio volser le vele, alle coste della Mesia approdò, ove dopo sanguinosa battaglia le spade russe sulle frecce della cavalleria de' Bulgari ebber trionfo. Il Re vinto scese nel sepolcro; i figli di lui caddero in potere del vincitore; e i nortici guerrieri, sino alle falde dell'Emo, i suoi Stati devastarono o saccheggiarono. Il principe varangio, anzichè abbandonar la sua preda e mantenere le date promesse, più propenso a maggiormente innoltrarsi che a retrocedere si mostrava; onde se il buon successo avesse coronato il fine della sua impresa, già nel decimo secolo la residenza dell'Impero russo sarebbe stata sotto un clima più temperato e più fertile trasferita. Swatoslao divisò godere de' moltiplici vantaggi che ben sentiva essere al suo nuovo stato inerenti, potendo già, sia col commercio, sia colla rapina, attrarre a sè le diverse produzioni di tutta la Terra. Una facile navigazione gli arrecava le pellicce, la cera e l'idromele della Russia. Di cavalli e delle spoglie d'Occidente l'Ungheria lo forniva, la Grecia abbondava d'oro, d'argento, e di tutti quegli arredi di lusso, de' quali, in sua povertà, disdegnoso ostentavasi il vincitore. Numerose bande di Patzinaciti, di Cozari, e di Turchi accorreano da ogni lato [98] sotto le bandiere di un principe vittorioso. In questo mezzo, l'ambasciatore di Niceforo, tradendo il suo padrone, vestì la porpora, e promise ai nuovi confederati dell'Impero di spartirsene seco loro i tesori. Il principe russo continuò intanto la militare sua corsa dalle rive del Danubio sino ad Adrianopoli; e quando intimato vennegli di sgomberare la provincia romana, diede una disdegnosa risposta aggiugnendo che la stessa Costantinopoli dovea fra poco aspettarsi l'arrivo del suo nemico e padrone.

A. D. 970-973

Niceforo non era più in istato di riparare ai danni che egli medesimo all'Impero avea procacciati, allorchè il trono e la moglie di lui vennero nelle mani di Giovanni Zimiscè, che sotto piccola statura il coraggio e la mente di un eroe nascondea[142]. La prima vittoria riportata dai Luogo-tenenti di Zimiscè, tolse ai Russi i loro confederati stranieri, ventimila de' quali furono o uccisi, o trascinati alla ribellione, o costretti per ultimo al partito di abbandonar le bandiere. Già libera era la Tracia; ma settantamila Barbari rimanevano sotto l'armi, e le legioni che erano state richiamate dalle nuove conquiste della Sorìa, si accigneano, giunta la primavera, a correre sotto gli stendardi di un principe guerriero, che l'amico e il vendicatore de' Bulgari si [99] chiariva. Avendo il nemico lasciate scoperte le gole del monte Emo, gli Imperiali le occuparono tostamente. L'antiguardo romano era fatto dagli Immortali, superbo nome assuntosi ad imitazion de' Persiani; l'Imperatore conducea un corpo di diecimila cinquecento fantacini; e il rimanente delle sue forze, le bagaglie e le macchine da guerra con lentezza e cautela venivano appresso. Per sua prima impresa, Zimiscè ridusse in due giorni Marcianopoli o Peristlaba[143]. Scalate ne furono a suon di tromba le mura, e mentre ottomila cinquecento Russi venivano passati a fil di spada, i figli del principe di Bulgaria liberati da carcere ignominioso, furono insigniti del titolo vano di Re. Dopo queste moltiplicate sconfitte, Swatoslao si ritrasse nel ben munito campo di Dristra in riva al Danubio, fin dove perseguillo un nemico abile nel valersi a vicenda, e secondo l'uopo, della celerità e della lentezza. Intanto che le bizantine galee risalivano il fiume, le truppe compieano le loro fazioni di circonvallazione; onde il principe russo, che teneasi riparato dietro le fortificazioni del suo campo e della città, rimase d'ogni intorno avvolto, assalito, e condotto ad ultima [100] stremità. Per molte azioni valorose, per molte disperate sortite si segnalarono i Russi, e sol dopo un assedio di sessantacinque giorni, Swatoslao cedè alla fortuna, ottenendo tale capitolazione che valse a dimostrare la prudenza del vincitore, e quanto questi apprezzasse la prodezza, e temesse la disperazione di un guerriero, il cui animo domar non poteasi. Con solenni giuramenti che sapeano d'imprecazione, il Gran Duca della Russia obbligossi a mettere da un lato tutti i divisamenti concetti contra l'Impero, al qual patto ottenne la permissione di rivedere i suoi Stati. Dovette inoltre convenire, perchè la libertà al commercio e alla navigazione venisse restituita; si concedè una misura di biada ad ognuno de' suoi soldati, nella qual circostanza il numero di ventiduemila misure distribuite nel campo, diè a divedere quanti soldati perduti aveva il duce russo, e quanti ancora gliene rimanevano. Dopo un disastroso viaggio i Russi raggiunsero la foce del Boristene; ma privi di vettovaglie e da avversa stagione tribolati, passarono il verno sul diaccio, e prima di potersi rimettere in cammino, Swatoslao fu sorpreso, ed oppresso dalle confinanti tribù, colle quali i Greci avevano avuta l'accortezza di intavolare utili corrispondenze[144]. Ben altro di Zimiscè fu il ritorno, che venne accolto nella sua Capitale come l'antica Roma, Camillo e Mario, suoi liberatori, accogliea; il devoto Imperatore però dando laude della sua vittoria alla Madre di Dio, l'Immagine [101] della Madonna che si tenea il bambino fra le braccia, venne collocata sul carro trionfale cui gravavano le spoglie dell'inimico, e decoravano i reali arredi della bulgara monarchia. Mentre l'Imperatore facea il suo ingresso a cavallo, ornato di diadema la fronte, e portandosi fra le mani una corona d'alloro, Costantinopoli era ammirata di dover celebrare le virtù guerriere di cotest'uomo[145].

A. D. 864

Fozio, patriarca dì Costantinopoli, nel quale l'ambizione pareggiava la brama del sapere, si congratula colla Chiesa greca, e con sè medesimo, di avere convertiti i Russi[146]. Egli avea di fatto indotti questi uomini truci e sanguinolenti a riconoscere Gesù Cristo per loro Dio, i missionarj Cristiani per loro maestri, e i Romani per loro amici e fratelli. Ma fu di breve durata questo trionfo: non era difficile, che cedendo alla varietà degli avvenimenti collegatisi alle successive loro imprese, alcuni duci russi acconsentissero a ricevere l'acqua del Battesimo: potea un vescovo greco sotto nome di metropolitano amministrare, [102] nella Cattedrale di Kiovia, i Sacramenti ad alcune congregazioni composte di schiavi e di nativi del paese; ma la semenza del Vangelo sopra ingrato suolo cadea: considerabile fu il numero degli apostati, scarsissimo quello de' convertiti. Il battesimo di Olga contrassegna la vera epoca del cristianesimo introdottosi nella Russia[147]. Una donna, forse delle ultime classi della società, che come Olga, avea saputo vendicare la morte di Igor suo marito, e dello scettro del medesimo impadronirsi, non potea mancare di quell'operoso vigore atto ad inspirar temenza ne' popoli barbari e ad indurli a sommessione. Ella scelse un momento di pace generale interna ed esterna de' suoi Stati per trasferirsi da Kiovia a Costantinopoli, ove la ricevè nel suo palagio l'Imperatore Costantino Porfirogeneta, che ha descritto egli medesimo minutamente tutto il cerimoniale di questo ricevimento: fin quanto il rispetto dovuto alla porpora lo permettea, vennero regolati gli ufizj dell'etichetta, i titoli, i saluti, i conviti, i donativi in modo che potesse chiamarsene soddisfatta la vanità della principessa straniera[148]. Al fonte battesimale [103] ella assunse il nome venerato fra i Greci dell'imperatrice Elena: e a quanto apparisce la conversione di lei fu preceduta da quella di suo zio, di due interpreti, di sedici matrone, di diciotto donne di minor conto, di ventidue servi o ministri, e di quarantadue mercatanti, in che stavasi il suo corteggio. Di ritorno a Kiovia e a Novogorod, rimase ferma nella nuova sua religione; ma infruttuosi furono gli sforzi della medesima per propagare l'Evangelo, e fosse ostinatezza, o indifferenza, la sua famiglia e il suo popolo si mantennero fedeli alle divinità de' loro antenati. Swatoslao, figlio di Olga, temè il disprezzo e la derisione de' suoi coetanei, e Valadimiro pronipote della ridetta regina, diedesi con tutto l'ardore proprio della giovinezza alla cura di moltiplicare e illustrare i monumenti dell'antica religione de' Russi. Con umani sagrifizj continuavano tuttavia i popoli del Nort a voler placare le feroci loro divinità, e nella scelta della vittima, il cittadino preferivasi allo straniero, il cristiano all'idolatra; un padre che avesse voluto ritogliere il proprio figlio al coltello de' Sacerdoti, periva insieme con esso, vittima del furore di quella fanatica moltitudine. Ciò nullameno le lezioni e l'esempio della pietosa Olga, aveano fatta impressione segreta, ma profonda sugli animi del giovine principe, e d'una parte di popolo; i missionarj greci continuavano a predicare, a disputare fra loro, e a battezzar convertiti, intanto che gli ambasciatori e i negozianti russi che dimoravano a Costantinopoli, raffrontavano la truce loro idolatria col più allettevole culto dei Greci. Ammirata aveano la chiesa di S. Sofia, le animate tele, ove effigiate vedeansi le vite de' Santi [104] e de' Martiri, le ricchezze dell'altare, la molta quantità dei preti, e i magnifici loro apparati, la pompa e il buon ordine delle cerimonie; edificati da quegli armoniosi cantici, dopo de' quali un silenzio religioso veniva, si lasciarono persuadere facilmente che un coro d'Angeli scendesse ogni giorno dal Cielo per unirsi alla divozion de' fedeli[149]; ma l'eccitamento più forte alla conversione di Valadimiro si fu la brama di congiungersi in nozze ad una donna romana. Il Pontefice cristiano gli amministrò il battesimo, e il matrimonio ad un tempo, nella città di Cherson, città che Valadimiro restituì all'imperatore Basilio, fratel di sua moglie. Questa città avea le porte di bronzo che vennero, dicesi, trasportate a Novogorod e poste dinanzi alla chiesa qual monumento del trionfo e della fede di Valadimiro[150]. Ad un cenno di questo sovrano, Perrun, il Dio del tuono, da lui medesimo adorato sì lungo tempo, atterrato venne e trascinato nel fango; l'informe statua della divinità fu posta in pezzi a colpi di mazza [105] da dodici robusti Barbari, che la gettarono indi con indignazione nel Boristene. Un editto di Valadimiro avendo chiariti nemici di Dio e del principe, e minacciato di trattarli siccome tali, tutti coloro che ricuserebbero il battesimo, i fiumi della Russia ricevettero migliaia di sudditi che alla sacra cerimonia prestaronsi, gareggianti in riconoscere la verità, e l'eccellenza di una dottrina dal gran Duca, e da' suoi Boiardi abbracciata. La generazione successiva vide sparire ogni avanzo di paganesimo; ma i due fratelli di Valadimiro essendo morti senza avere ricevuto questo segno caratteristico del Cristianesimo, ne vennero disotterrate le ossa e purificate con un battesimo postumo ed irregolare.

A. D. 800-1100

Ne' secoli nono, decimo e undecimo dell'Era cristiana, il regno dell'Evangelo e della Chiesa, si estese sulla Bulgaria, l'Ungheria, la Boemia, la Sassonia, la Danimarca, la Norvegia, la Svezia, la Polonia e la Russia[151]; e rinovatisi i trionfi dell'appostolico zelo in questa età di ferro del Cristianesimo, le contrade settentrionali e orientali dell'Europa, si sottomisero ad una religione, la quale più nella parte teoretica, che nella pratica dal culto degli idoli differiva[152]. Una lodevole ambizione conduceva i monaci [106] dell'Alemagna e della Grecia per mezzo alle tende e alle capanne dei Barbari. La povertà, la fatica, i pericoli furono il retaggio di questi primi missionarj della Fede: armati di operoso e paziente coraggio, le loro intenzioni erano pure, e degne di stima: nè miglior ricompensa poteano aspettarsi fuor della testimonianza della loro coscienza e della venerazione di un grato popolo. Ma gli orgogliosi e ricchi prelati de' tempi posteriori, il frutto di queste missioni raccolsero. Volontarie furono le prime conversioni, nè i missionarj aveano altr'armi, che la santità de' costumi, e l'eloquenza de' loro discorsi: per via di miracoli e di visioni combatteano le favole domestiche dei Pagani: e a meglio sedurre i governanti ne lusingavano la vanità, e agli interessi dei medesimi davano opera. I Capi delle nazioni, ai quali i titoli di re e di santi largivansi[153], credevano opera legittima e pia il sottomettere alla Fede cattolica i loro sudditi e i lor vicini. La costa del Baltico, dall'Holstein sino al golfo di Finlandia, a nome e sotto la bandiera della Croce fu invasa: la conversione della Lituania operata nel secolo decimoquarto al regno [107] della idolatria pose termine. Un riguardo di verità e buona fede ne costrigne a confessare che la conversione del Nort, molti vantaggi agli antichi e ai nuovi cristiani produsse. Se i precetti del Vangelo, che raccomandano la carità e la pace, non poterono estinguere il furor della guerra connaturale alla specie umana, e se l'ambizione dei principi cattolici ha nondimeno rinovate in tutti i secoli le calamità che a questo flagello si uniscono, almeno l'avere ammessi i Barbari nel seno della civile ed ecclesiastica società, liberò l'Europa dai devastamenti che per mare e per terra operavansi dai Normanni, dagli Ungaresi e dai Russi, e appresero questi a rispettare il sangue umano, e divennero coltivatori[154]. Aggiugnendosi la prevalenza del clero ad istituir leggi e a consolidare il buon ordine, i popoli selvaggi conobbero gli elementi delle Arti e delle Scienze. Mossi da una saggia pietà i Principi russi, ebbero l'intendimento di chiamare al proprio servigio i più abili fra i Greci, affinchè abbellissero la città, e ne ammaestrassero gli abitanti. Vidersi, benchè informemente, imitati e copiati nelle chiese di Kiovia e di Novogorod la cupola e i quadri di S. Sofia; gli scritti dei [108] Padri vennero tradotti in lingua schiavona, e trecento nobili giovani si trovarono sollecitati, o costretti a frequentare le lezioni del collegio di Jaroslao. Parrebbe, che quanto ai progressi nelle cognizioni, i Russi avessero dovuto ottenere grandi vantaggi dagli speciali vincoli per cui stretti erano alla Chiesa e allo Stato di Costantinopoli, che in que' tempi, nè a torto, dell'ignoranza de' Latini rideansi. Ma la nazione greca vivea nella schiavitù, isolata, e in uno stato di rapido scadimento: dopo la caduta di Kiovia, la navigazione del Boristene fu trascurata; e intanto che i Sovrani della città di Volodimir e di Mosca si trovavano disgiunti dal mare e dal rimanente della Cristianità, i Tartari fecero soffrire a quella Monarchia divisa in parti il vergognoso giogo della barbarie[155]. I regni degli Schiavoni e degli Scandinavi, convertiti dai missionarj latini, trovavansi per vero dire sottomessi alla giurisdizione spirituale e alle pretensioni temporali de' Papi[156]. Ma avendo abbracciata la stessa lingua e lo stesso culto di Roma, assunsero lo spirito libero e generoso della Repubblica europea, e a poco a poco dalla luce del sapere che splendè in Occidente, anch'essi furono rischiarati.

[109]

CAPITOLO LVI.

I Saracini, i Franchi e i Greci in Italia. Prime avventure de' Normanni, e colonie poste da essi in questa parte dell'Europa. Indole e conquiste di Roberto Guiscardo duca della Puglia. Liberazione della Sicilia operata da Ruggero, fratello di Guiscardo. Vittoria sugl'imperatori dell'Oriente e dell'Occidente da Roberto riportata. Ruggero, re di Sicilia, invade l'Affrica e la Grecia. L'imperatore Manuele Comneno. Guerra tra i Greci e i Normanni. Estinzione de' Normanni.

A. D. 840-1017

Le tre grandi nazioni dei mondo, i Greci, i Saracini e i Franchi, venute fra loro a scontro, sul teatro dell'Italia si combatterono[157]. Le province [110] meridionali che formano oggidì il regno di Napoli, erano quasi per intero sottomesse ai duchi Lombardi principi di Benevento[158], sì formidabili in guerra, che il genio di Carlomagno per un momento arrestarono, e pel progresso delle cognizioni fervorosi tanto, che nella loro Capitale un'accademia di trentadue filosofi o grammatici mantenevano. Dalle rovine e dallo smembramento di questo Stato, un giorno sì florido, sorsero i principati di Benevento, di Salerno e di Capua, rivali fra loro; e l'ambizione o la sete della vendetta accecò tanto le diverse fazioni, che a chiamar s'indussero i Saracini, onde videro per lor colpa il proprio retaggio divenir preda degli stranieri. Due secoli di calamità oppressero l'Italia, tribolata da una sequela di crudeli disastri, che gli oppressori della medesima non valevano a ristorare con quella unione e tranquillità, cui solamente da una conquista ben assodata è lecito lo sperare. I vascelli de' Saracini soventi volte, e quasi ogni anno dal porto di Palermo salpavano: con troppa indulgenza gli accoglieano i Cristiani di Napoli. Più spaventosi armamenti la costa d'Affrica somministrava; e non rare volte accadea che persin gli Arabi dell'Andaluzia venissero or per soccorrere i Musulmani, or per rispingerli, se per professata Setta da lor differivano. Nel corso delle terrene vicissitudini, le Forche Caudine ebbero la seconda volta il destino di nascondere un aguato. Il sangue [111] degli Affricani una seconda volta i campi di Canne innaffiò, e nuovamente per variate vicende, il Sovrano di Roma, ora assalì, ora difese le mura di Capua e di Taranto. Una colonia di Saracini stanziata erasi a Bari, che domina l'ingresso del golfo Adriatico, e devastando costoro, senza distinguere nè popoli, nè persona, i paesi de' Greci e de' Latini, entrambi gli Imperatori irritati, per la vendetta comune, si collegarono. Basilio il Macedone, primo della sua stirpe, e Luigi pronipote di Carlomagno[159], sottoscrissero una lega offensiva, ove ciascuna delle due parti obbligossi a fornire le cose all'altra mancanti. Ma l'Imperator greco non potea, senza commettere un atto d'imprudenza, inviare in Italia le sue truppe che campeggiavano nell'Asia, nè i Latini guerrieri bastavano di per sè stessi a difendersi, a meno che il navilio bisantino l'ingresso del golfo padroneggiasse. La fanteria dunque de' Franchi, la cavalleria e le galee de' Greci, il Forte di Bari assediarono: e l'Emiro arabo, dopo essersi difeso per quattro anni, alla clemenza di Luigi, che le fazioni dell'assedio comandava in persona, si sottomise. Mercè una tal lega, i due Imperatori questa rilevante piazza possedeano in comune; ma non andò guari che lamentele, eccitate da scambievole orgoglio e gelosia, il lor buon accordo turbarono. Attribuendosi i Greci il merito della conquista, e la gloria del trionfo, e vantando la grandezza delle proprie forze, derideano l'intemperanza, e la dappocaggine di una mano di Barbari che militava sotto le bandiere del principe [112] Carlovingio. La risposta che ai costoro motteggi egli fece, spira tutta l'eloquenza della indignazione e della verità. «Noi confessiamo la grandezza de' vostri apparecchi, dicea il pronipote di Carlomagno; i vostri eserciti di fatto erano numerosi, come que' nugoli di locuste che oscurano un giorno della state, ma dopo corto battere d'ali, e poca estesa volata, estenuate e sfiatate cadon per terra. Simili a questi insetti, dopo un debole sforzo siete caduti; vinti per colpa di vostra infingardaggine, avete abbandonato il campo di battaglia per affrontare e spogliare i Cristiani della costa di Schiavonia, che son nostri sudditi. Il numero de' nostri guerrieri, voi dite, era scarso; e perchè ciò? perchè stanco io d'aspettarvi, avea licenziato il mio esercito, nè conservai che pochi scelti soldati per continuare le fazioni dell'assedio di Bari. Se alla presenza del pericolo e della morte, si sono abbandonati ai diletti de' lor conviti ospitali, cotali feste hanno forse il vigore delle loro imprese scemato? È forse la vostra frugalità che ha rovesciate le mura di Bari? Non son questi i prodi Franchi, che, comunque scemati di numero, dalle fatiche e dalle infermità, posero alle strette e debellarono i tre più possenti emiri dei Saracini? Non è la rotta di questi emiri che ha affrettato l'arrendersi della città? Bari è caduta. Lo spavento si è impadronito di Taranto; la Calabria sarà liberata; e padroni noi del mare, non sarà difficile il ritogliere la Sicilia dalle mani degl'Infedeli. Mio fratello, aggiugneva (e nulla eravi di più atto a trafiggere la greca vanità, quanto questa denominazione di fratello), affrettate i soccorsi marittimi che [113] mi dovete somministrare; rispettate i vostri confederati, e degli adulatori fidatevi meno[160]».

A. D. 890

Ma la morte di Luigi, e la debolezza della dinastia de' Carlovingi, le sublimi speranze de' Franchi mandarono a vuoto; e qual che si fosse quella delle due nazioni, cui l'onore di avere soggiogata Bari si appartenea, certamente gl'imperatori greci, Basilio, e Leone figlio di lui, tutto il frutto ne colsero. O per amore o per forza, la Puglia e la Calabria li riconobbero per sovrani; una linea ideale condottasi dal monte Gargano alla baia di Salerno, dà a divedere, come la maggior parte del regno di Napoli fosse all'Impero d'Oriente soggetta. Oltre questa linea stavano i duchi, o le repubbliche di Amalfi[161] e di Napoli, le quali non avendo mai trasgrediti i doveri del vassallaggio, godeano i felici effetti di aver vicino il lor Sovrano legittimo; e soprattutto Amalfi arricchivasi pel commercio che delle produzioni e de' lavori dell'Asia, aperto avea colla Europa; ma i principi lombardi di Benevento, di Salerno e di Capua[162], fecero spesse volte a lor malgrado [114] causa separata dalle province greche, e violarono la promessa di sommessione e tributo che aveano pattuita. La città di Bari, fattasi più ricca e più grande, divenne la metropoli del nuovo tema, ossia della nuova provincia della Lombardia: l'ufiziale posto a comandarla, ottenne il titolo di Patrizio, indi la singolare denominazione di Katapan[163]: l'amministrazione della Chiesa e dello Stato, regolate vennero in guisa, che dal trono di Costantinopoli dovettero affatto dipendere. Gli sforzi operati dai principi d'Italia per contendere ai Greci questa possanza, di vigore e d'accordo mancarono; e quanto agli sforzi delle soldatesche alemanne, che capitanate dagli Ottoni scendeano l'Alpi, i Greci a rispingerli, o a mandarli a vuoto pervennero. Il primo, e il più grande di cotesti imperatori sassoni, si vide costretto ad abbandonare l'assedio di Bari; il secondo, dopo avere perduti i più coraggiosi fra i suoi vescovi e baroni, ebbe a ventura il potere ritirarsi con onore dopo la sanguinosa battaglia di Crotone. Trionfò [115] de' Franchi il valore de' Saracini, comunque le squadre di Bisanzo avessero dianzi proibite le Fortezze e le coste dell'Italia a questi corsari; ma l'interesse sulla superstizione o il risentimento la vinse: e il califfo di Egitto spedì in soccorso del suo confederato cristiano quarantamila Musulmani. I successori di Basilio II[164] si lasciarono persuadere che la conquista e la conservazione della Lombardia doveano unicamente alla giustizia delle proprie leggi, alla virtù de' proprj ministri, alla gratitudine di un popolo liberato per essi dall'anarchia e dall'oppressione. Una sequela di ribellioni non potè a meno però di portar qualche lume sul vero stato delle cose alla Corte di Costantinopoli, sinchè poi la rapidità de' buoni successi ottenuti dai venturieri normanni dileguasse affatto gli abbagli che l'adulazione aveva nudriti.

[116] L'instabilità delle umane cose in trista guisa apparisce dall'instituire un confronto tra lo Stato della Puglia e della Calabria nel decimo secolo dell'Era cristiana, e tra quel che erano state queste province ai tempi di Pitagora. Nella più remota di queste due epoche, la costa della Magna Grecia (così nomavasi allora l'Italia) abbondava di città libere, opulenti, e piene di soldati, di artisti e filosofi, intanto che le forze militari di Taranto, di Sibari, di Crotone, in nulla cedeano a quelle di un poderosissimo regno. Nel secolo di cui scriviamo la storia, le stesse province erano in preda all'ignoranza, tribolate dalla tirannide, spopolate dalla guerra co' Barbari; nè forse abbiam luogo di apporre troppo severamente la taccia di avere esagerato ad un autore di quei tempi che ne le dipinse «vaste e fertili regioni, devastate, come la Terra dopo il diluvio universale lo fu[165].» A conoscere quali devastazioni gli Arabi, i Franchi, e i Greci nell'Italia meridionale operassero, sceglierò due o tre fatti opportuni parimente a dimostrare i costumi degl'invasori.

A. D. 875

I. Non contenti i Saracini di spogliare i monasteri e le chiese, voleano ancora profanarle commettendo sacrilegi. Durante l'assedio di Salerno un Capo Musulmano avea posto nel luogo della Mensa eucaristica il proprio letto, ove ogni notte la verginità di [117] una monaca sacrificava. Mentre sforzavasi a superare la resistenza che una di queste Religiose opponevagli, una trave, o per arte altrui, o per accidente staccatasi dal letto gli cadde sul capo, onde la morte dell'impudico Musulmano venne attribuita alla collera di Gesù Cristo che assumea finalmente la difesa della fedele sua sposa[166].

A. D. 874

II. I Saracini teneano strette d'assedio le città di Benevento e di Capua: i Lombardi dopo avere chiesto indarno soccorso ai successori di Carlomagno, la clemenza e l'aiuto dell'imperator greco implorarono[167]. Un intrepido cittadino che venne calato dall'alto delle mura, attraversò le nemiche trincee, ed eseguì la propria incumbenza; ma mentre stava per ritornare alla città, e rincorarne gli abitanti narrando loro il buon esito delle operate cose, cadde fra le mani dei Barbari. Costoro gli prescrissero di favorire la loro impresa ingannando i suoi concittadini. Ricchezze e onorificenze state gli sarebbero guiderdone di frode: la veracità all'opposto gli avrebbe [118] fruttata una morte pronta e sicura. Mostrò di rendersi: ma giunto in tanta vicinanza d'essere udito da que' che stavano sui baluardi, ad alta voce gridò, «Amici miei, miei fratelli, coraggio e pazienza! continuate a resistere: il vostro Sovrano sa a quale stremo siete ridotti; i vostri liberatori avvicinano: mi è noto il destin che mi aspetta; confido alla gratitudine vostra la cura di mia moglie, e de' miei figli». Il furore degli Arabi confermò la verità delle cose dette da questo generoso cittadino, che cadde trafitto da mille colpi; ma egli merita di vivere mai sempre nella memoria degli uomini virtuosi. È però da osservarsi che un'azione di tal natura viene applicata a diverse occasioni ed epoche, così antiche, come moderne, onde è lecito dubitare alcun poco sulla realtà della cosa[168].

A. D. 930

III. Il terzo fatto può in mezzo agli orrori della guerra movere al riso. Tebaldo, marchese di Camerino e di Spoleto[169], difendendo le parli dei ribelli [119] di Benevento, manifestava nella sua condotta una tranquilla crudeltà, che a que' giorni non era inconciliabile coll'eroismo. I prigionieri, o Greci, o partigiani de' Greci, che gli cadeano fra le mani, perdeano gli organi della virilità; e rincalzando l'oltraggio con atroce motteggio, «io spero, aggiugnea, di poter presentare al greco Imperatore un esercito di quegli eunuchi, che fanno il più prezioso fra gli ornamenti della Corte bisantina». Il presidio d'un castello essendo stato disfatto in una sortita, stava per eseguirsi la solita fazione sui prigionieri. Ma le cose vennero interrotte da una donna, che, lanciatasi a guisa di forsennata in mezzo ai carnefici, colle sue grida sforzò Tebaldo a porgerle ascolto. «In questa guisa, o magnanimo eroe, ella esclamò, tu intimi guerra alle donne, alle donne che non ti hanno mai fatta veruna ingiuria, e che non hanno altr'armi fuor della loro rocca e del loro fuso?» — Tebaldo negò il fatto, asserendo che non avea mai udito favellare di guerra guerreggiata contra le donne, dai giorni delle Amazzoni in poi. « — Come? riprese a dire infuriata costei: potevate voi assalirne in un modo più immediato? potevate voi trafiggerci in una parte più sensibile, quanto col privare i nostri mariti della cosa, che in essi amiamo maggiormente, della sorgente de' nostri diletti; e della speranza della nostra posterità? ci avete tolte le nostre mandrie; l'ho sofferto senza lamentarmi: ma questa fatale ingiuria, questa perdita irreparabile, ha stancata la mia pazienza, e chiama sui vostri capi la giustizia del cielo, e quella degli uomini». Fu applaudito all'eloquenza di questa femmina, non senza molto scrosciar di risa: e i Franchi, comunque selvaggi, [120] comunque poco accessibili alla pietà, rimasero commossi da una disperazione, ragionevole, quanto comica; per cui oltre alla liberazione de' prigionieri, la restituzione de' proprj beni ella ottenne. Mentre tornava trionfando al castello, un messo mandatole da Tebaldo, le chiese, qual punizione dovrebbe pronunziarsi contra suo marito, se per l'avvenire fosse nuovamente colto coll'armi alla mano. «Se tal fosse il suo delitto, e la sua sfortuna, rispose l'oratrice senza titubare, egli ha occhi, ha naso, ha mani e piedi: queste cose gli appartengono, e può meritar di perderle co' suoi delitti; ma prego il mio Signore, e mio degno padrone a risparmiare ciò che la sua debole serva osa richiamare, come sua particolare e legittima proprietà»[170].

A. D. 1016

Le colonie di Normanni venute a stanziarsi in Napoli e nella Sicilia[171], fin dalla loro fondazione, [121] diedero origine a conseguenze rilevanti per l'Italia, e per tutto l'impero dell'Oriente. Le province dei Greci, de' Lombardi, e de' Saracini, discordi fra loro, erano in pericolo di divenir preda del primo che avesse voluto occuparle: in questo medesimo tempo, gli audaci pirati della Scandinavia tutte le terre, e tutti i mari dell'Europa empievano di devastazione e spavento. Dopo una lunga sequela di saccheggi e uccisioni, i Normanni accettarono e tennero un vasto e fertile paese della Francia, cui diedero il proprio lor nome, e abbandonati i loro Dei pel Dio de' Cristiani[172], i duchi di Normandia si riconobbero vassalli de' successori di Carlomagno e di Capeto. Quella feroce energia che aveano portata con sè dalle addiacciate rupi della Norvegia, sotto un più mite clima si ammansò, non si corruppe; i compagni di Rollone a poco a poco coi nativi del paese si mescolarono; essi adottarono i costumi, la lingua[173], e l'audacia cavalleresca de' Francesi: sicchè, [122] in quel secolo guerriero, i Normanni la palma del valore e delle militari imprese si meritarono. Fra le superstizioni d'uso in allora, quelle cui più ardentemente si diedero furono i pellegrinaggi di Roma, dell'Italia, e di Terra Santa: genere di operosa divozione che le forze de' loro animi e de' lor corpi aumentava. Sprone era ad essi il pericolo, il diletto di veder cose nuove, la ricompensa; la meraviglia, la credulità, la speranza ai loro occhi la scena del mondo abbellivano. Collegati essendosi per mutua difesa, si scontraron sovente ne' malandrini dell'Alpi, che adescati dal vestire de' pellegrini, sotto di essi trovavano spesse volte il braccio punitor del guerriero. In uno di questi santi viaggi alla caverna del Gargano, montagna della Puglia, santificata da un'apparizione dell'Arcangelo S. Michele[174], si fece ad essi incontro uno straniero, vestito alla greca, che non tardò a manifestarsi per un ribelle fuggitivo, e mortal nemico dell'Impero di Bisanzo. Costui, Melo di nome, nobile di Bari, dopo una congiura infelicemente tentata, costretto a fuggire, cercava altri colleghi, e vendicatori della sua patria. Il contegno ardito de' Normanni riaccese in lui la speranza, [123] e il persuase confidarsi ad essi, che ne ascoltarono le lamentazioni, e più ancora le promesse[175]. La prospettiva di ricchezze che offerse loro, serviva a dimostrar giusta la costui causa, ed un fertile territorio oppresso da effeminati tiranni, parve ai Normanni un retaggio dovuto unicamente al valore. Di ritorno in patria, vi eccitarono e dilatarono l'amore delle lontane spedizioni, e una banda di venturieri, poco numerosa ma intrepida, volontariamente per liberare la Puglia si collegò. Attraversate in separati drappelli le Alpi, e nascosti sotto abiti di pellegrini, trovarono nelle vicinanze di Roma Melo, che dopo avere somministrati cavalli ed armi ai più poveri, li condusse immediatamente alla pugna. Nel primo scontro il loro valore trionfò; ma nel secondo, costretti a cedere ai Greci, superiori di numero, e di macchine belliche ben provveduti, si ritirarono indispettiti, senza però voltar mai le spalle al nemico. L'infelice Melo occupò il rimanente del viver suo sollecitando soccorsi della Corte Alemanna; e i Normanni, postisi per lui in cimento, esclusi dal paese che loro era stato promesso in guiderdone, errarono pei gioghi e per le vallate d'Italia, ridotti a conquistarsi [124] colla spada il vitto giornaliero. Questa formidabile spada giovò a vicenda ai principi di Capua, di Benevento, di Salerno, e di Napoli che avean contese fra loro; e il valore, e la disciplina de' Normanni, faceano sempre piegar la vittoria a favor della causa che eglino difendeano. E aveano pur anche l'intendimento di mantenere l'equilibrio di potere fra questi diversi Stati, per tema che la preponderanza di un de' medesimi non rendesse men rilevanti e men utili i loro aiuti e i loro servigi. In un campo affortificato, posto in mezzo alle paludi della Campania, sulle prime poser dimora, ma non andò guari che un soggiorno più agiato e durevole dalla liberalità del Duca di Napoli ottennero. Egli edificò per essi, lontano otto miglia dalla sua Capitale, la città di Aversa, che fece inoltre munire, perchè fosse contro Capua il lor baluardo. Divennero per ducale concedimento gli usufruttuarj de' campi, de' verzieri, delle praterie, delle foreste di quel territorio ubertoso[176]. [125] Quivi la fama de' buoni successi ottenutisi dai nostri venturieri conduceva ogni anno nuove bande di pellegrini e soldati; i poveri spinti dalla necessità, i ricchi incoraggiati dalla speranza: e quanti eranvi uomini valorosi e intraprendenti nella Normandia, venivano a cercare ivi gloria e fortuna. Oltrechè la città independente di Aversa offeriva asilo a quegli abitanti de' vicini paesi che posti eransi fuor della protezione delle leggi, e a chiunque avea potuto sottrarsi alla ingiustizia o alla giustizia de' suoi superiori; ben tosto questi rifuggiti, i costumi, e la lingua della gallica Colonia adottarono. Il Conte Rainolfo fu il primo Capo de' Normanni, nè v'ha chi ignori nella origine delle società essere il maggior grado, la ricompensa e la prova del maggior merito[177].

A. D. 1038

Dopo che gli Arabi conquistata aveano la Sicilia, gl'imperatori greci ad altro non aveano pensato, che ai modi di ricuperare questa bella provincia: [126] ma la lontananza e il mare, ai loro sforzi i più vigorosi opponeano insuperabili ostacoli. Le spedizioni più dispendiose, dopo avere offerti alcuni lampi di buon successo, non giovavano per ultimo che ad aggiugnere nuove pagine di calamità e di umiliazioni agli Annali di Bisanzo. Basti il dire, che una sola di queste imprese costò alla Grecia ventimila de' suoi migliori soldati; e i Musulmani vincitori si risero di una nazione che commetteva agli eunuchi non solamente la custodia delle sue donne, ma il comando ben anche de' proprj eserciti[178]. Dopo avere regnato due secoli, i Saracini colle loro discordie perdettero sè medesimi[179]. L'Emiro negò riconoscere l'autorità del Re di Tunisi: il popolo contra l'Emiro si sollevò; i Capi occuparono le città; l'infimo fra i ribelli, il suo villaggio, o il suo castello a grado suo governava, e fra due fratelli che si guerreggiavano, il più debole si volse ai Cristiani per implorarne soccorso. Ovunque rischi offerivansi, i Normanni erano pronti ad accorrere e a rendersi utili. Arduino, agente e interprete de' Greci, arrolò cinquecento cavalieri o guerrieri a cavallo sotto lo stendardo di Maniaces, governatore della Lombardia. Quando questi sbarcarono nella Sicilia, i due fratelli erano riconciliati; rimesso fra la Sicilia e l'Affrica il buon accordo, truppe comuni difendeano la costa. I Normanni conduceano l'antiguardo: onde gli Arabi [127] di Messina fecero trista esperienza del valore di un nemico nuovo per essi. In una seconda azione campale, l'Emiro di Siracusa venne tratto d'arcione e passato da banda a banda da Guglielmo d'Altavilla, soprannomato Braccio di Ferro. In una terza battaglia, gli intrepidi soldati di questo capitano misero in rotta un esercito di sessantamila Saracini, non lasciando ai Greci altra fatica, fuor quella d'inseguire le vinte truppe: luminosa vittoria, benchè non debba tacersi che la penna dello Storico nel descriverla ha voluto entrare a parte di merito colla lancia normanna. Nondimeno ella è cosa certa che i Normanni in modo essenziale contribuirono al buon successo di Maniaces, il quale con questa vittoria, tredici città, e la più gran parte della Sicilia, al greco Imperatore sommise. Ma costui la propria gloria militare, con atti d'ingratitudine e tirannide, deturpò; nel divider le spoglie, non fece caso del merito dei suoi valorosi ausiliari, i quali, per tanto ingiurioso trattamento, videro offesi e il loro orgoglio, e la lor cupidigia. Giovandosi del loro interprete le proprie lagnanze innoltrarono; ma queste disdegnate, l'interprete fu frustrato. Benchè i patimenti della flagellazione riguardassero il solo che fu sottoposto alla pena, l'oltraggio feriva tutti quelli che lo aveano inviato: deliberarono vendicarsi; accorti però nel dissimulare fino all'istante che, o fosse di consenso de' Greci, o fuggendo, ebbero raggiunto il continente dell'Italia: i Normanni d'Aversa, non men si sdegnarono per l'oltraggio ricevuto dai loro fratelli; e la provincia della Puglia[180] fu invasa come pegno di [128] un credito che i Normanni aveano, sin vent'anni dopo la prima lor migrazione. Il loro esercito non sommava allora a più di settecento cavalieri, e cinquecento fantaccini, mentre sessantamila uomini, a quanto narrasi, erano la forza dell'esercito di Bisanzo, poichè furono richiamate in Italia le legioni, che nella Sicilia avevano guerreggiato[181]. Un araldo propose ai Normanni l'alternativa della battaglia o della ritirata. «La battaglia!» — sclamarono questi ad unanime voce, e un de' lor più robusti guerrieri atterrò con un colpo di pugno il cavallo del greco messo, che con nuovo cavallo fu rimandato. I Generali bisantini ebbero grande cura di nascondere il sofferto affronto alle truppe imperiali; ma due combattimenti che si succedettero, più segnalatamente a queste mostrarono quai fossero la forza e il valor de' Normanni. Nelle pianure di Canne gli Asiatici fuggirono all'aspetto degli avventurieri di Francia, e il duca di Lombardia cadde in potere de' vincitori. Gli abitanti della Puglia ad una nuova dominazione si assoggettarono, e l'Imperatore greco non salvò dal disastro che le quattro piazze di Bari, di Otranto, di Brindisi, e di Taranto. Da quest'epoca [129] incomincia il Governo de' Normanni in Italia, Governo che la nascente colonia di Aversa ben tosto oscurò. Il popolo elesse dodici Conti[182], e in queste scelte l'età, la nascita, il merito, regolarono i suffragi. Le contribuzioni distrettuali assegnate a questi ripartimenti, servivano ad uso particolare dei Conti, e ognun di essi innalzò nel mezzo delle sue terre, una Fortezza, che tenea in dovere i vassalli. La città di Melfi, residenza comune dei Conti, e situata nel mezzo della provincia, divenne la metropoli e la Fortezza dello Stato. Ognuno di questi dodici Capi avea per sè una casa, e un separato rione; il qual Senato militare la cosa pubblica amministrava. Il primo di essi, presidente e Generale della repubblica, ricevè il titolo di Conte della Puglia, dignità conferita a Guglielmo Braccio-di-Ferro, che, nello stile di quel secolo, veniva dipinto come un lione nella battaglia, un agnello nella società, un angelo ne' consigli[183]. Un [130] autore normanno vissuto a quei giorni, descrive con tutta ingenuità i costumi e l'indole de' suoi compatriotti[184]. «I Normanni, dice il Malaterra, sono un popolo astuto, e vendicativo: l'eloquenza e la dissimulazione sembrano ereditarie fra loro: sanno abbassarsi all'adulazione: ma se la legge non li tiene in freno, a tutti gli eccessi delle lor passioni abbandonansi. I Principi normanni son gelosi di mostrarsi verso il popolo liberali; il popolo tiene la via di mezzo, o piuttosto unisce gli estremi dell'avarizia e della prodigalità; avidi d'arricchire e di dominare, disprezzano tutto quel che possedono, sperano tutto quello che bramano; le armi, i cavalli, il lusso degli abiti, e l'esercizio della caccia e della falconeria, formano le delizie de' Normanni[185], ma all'uopo i [131] rigori di qualsisia clima, le fatiche e i sagrifizj di una vita militare con incredibile pazienza sopportano[186]».

A. D. 1046 ec.

I Normanni della Puglia, trovavansi dunque ai confini de' due Imperi di Alemagna e di Costantinopoli, e seguendo la politica dell'istante, riceveano l'investitura delle loro terre, or dall'uno, or dall'altro, de' due Imperatori. Ma la conquista era il più saldo diritto che armar potessero questi venturieri: nessuno amavano, di nessun si fidavano perchè nessuno gli amava, e nessuno fidavasi di essi; al disprezzo che verso di loro ostentavano i Principi, il timore si frammettea, e allo spavento che ai nativi inspiravano, l'astio e il risentimento erano uniti. Desideravan costoro un cavallo, una donna, un giardino? se ne impadronivano tosto[187]; e i Capi aveano soltanto l'arte di colorare cogli speciosi nomi di ambizione e di gloria la lor cupidigia. I dodici Conti alcune volte, per commettere qualche ingiustizia, si collegavano; se aveano contese domestiche, erano [132] queste per disputarsi le spoglie del popolo; le virtù di Guglielmo spariron con esso, e Drogone, fratello e successore di lui, più atto a condurre il valore che a reprimere la violenza de' suoi eguali si dimostrava. Sotto il regno di Costantino Monomaco, il gabinetto di Costantinopoli, mosso meno da riguardi di beneficenza che da politica, imprender volle a liberare l'Italia da tal permanente calamità, più che un torrente di Barbari disastrosa[188]. Argiro, figlio di Melo, incaricato di porre in opera questo divisamento, di splendidissimi titoli[189], e di esteso potere venne insignito. La memoria del padre suo, dovea renderlo accetto ai Normanni: egli già, assicurato erasi il volontario servigio loro, per ispegnere la sommossa eccitata da Maniaces, e per vendicare ad un tempo e le ingiurie particolari che questi lamentavano, e quelle che avea sofferte lo Stato. Costantino avea in animo di snidiare dalle province italiane questa [133] colonia di guerrieri, e sul teatro della guerra persica trapiantarla; laonde, per primo contrassegno dell'imperiale munificenza, il figlio di Melo cercò profondere fra i Capi l'oro della Grecia, o i preziosi lavori dell'industria di questa nazione; ma l'arte di Argiro, il senno e il coraggio de' vincitori della Puglia sventarono. Ricusati i suoi doni, o certamente i partiti da esso posti, protestarono con un unanime voto di non voler cambiare i presenti possessi, e le più prossime speranze, colla rimota fortuna che lor nell'Asia offerivasi. Andate a vuoto le vie della persuasione, Argiro di sottometterli o distruggerli deliberò, invocando contra il comune nemico i soccorsi delle potenze latine, e stringendo una lega offensiva fra il Papa e gl'Imperatori di Oriente e di Occidente. La Cattedra di S. Pietro era in quel tempo occupata da Leone IX, un Santo[190], giusta il più semplice significato che suole a questo vocabolo attribuirsi, uomo fatto per ingannare sè medesimo, e gli altri[191], opportunissimo pel rispetto che erasi conciliato [134] a consacrare sotto il nome di pietà, le provvisioni alle vere pratiche della religione più opposte. L'umanità di questo Pontefice erasi lasciata commovere dalle querele, e fors'anche dalle calunnie di un popolo oppresso; gli empj Normanni aveano interrotto il pagamento delle decime, nè mancarono decisioni, che chiarissero atto legittimo il brandir la spada temporale contra sacrileghi masnadieri, che le censure della Chiesa sprezzavano. Leone, nato in Alemagna, di famiglia nobile, e collegata colla famiglia regnante, oltre all'avere libero accesso alla Corte, in grande confidenza coll'Imperatore Enrico III vivea; ardente di zelo il trasse, in cerca di guerrieri e di confederati, dalla Puglia alla Sassonia, dalle rive dell'Elba a quelle del Tevere. Nel durare di tali apparecchi, Argiro di colpevolissime armi segretamente valeasi. Grande copia di Normanni agl'interessi dello Stato, o a particolari vendette venne sagrificata, e tra questi il prode Drogone trucidato entro una chiesa. Il fratello di lui Unfredo, terzo Conte della Puglia, ereditonne il coraggio. I traditori ebber castigo. Lo stesso Argiro superato e ferito, corse lungi dal campo della battaglia, e nascose la sua ignominia dietro le mura di Bari, aspettando ivi i tardi soccorsi de' confederati.

[135]

A. D. 1053

Ma all'Impero di Costantino, la guerra contra i Turchi maggiori tribolazioni arrecava: debole e perplesso mostravasi Enrico; e il Pontefice che dovea rivalicar le Alpi, scortato da un esercito di Alemanni, sol settecento soldati della Svevia, e alcuni volontarj della Lorena condusse. Nel cammin tardo che ci fece da Mantova a Benevento, ricevè sotto il santo stendardo un pugno d'Italiani, tolti dalla scoria di tutti gli ordini[192]. Il sacerdote e lo scorridore sotto una medesima tenda posavansi: e si vedeano nelle prime file un miscuglio di piche e di croci, e il guerrier santo conduttore della falange nel regolare le fazioni, gli accampamenti, le scaramuccie, andava ricapitolando le lezioni militari che in sua giovinezza avea ricevute. I Normanni della Puglia non poterono mettere in campo che tremila uomini a cavallo, e un picciol numero di fantaccini. La diffalta de' nativi li privò di viveri e di ritratta; un superstizioso rispetto[193] agghiacciò un istante la lor prodezza, ignara per solito di timore. Al primo veder Leone che avvicinavasi come nemico, non sentiron [136] ribrezzo di prosternarsi dinanzi al loro padre spirituale. Ma inesorabile il Papa si diè a divedere: i suoi Alemanni, superbi della loro alta statura, la piccola de' loro avversarj derisero, e fu a questi chiarito, che tra la morte o l'esiglio doveano scegliere. Disdegnando i Normanni una fuga, e dall'altro lato, molti di loro essendo stremi per non avere da tre giorni preso alcun cibo, s'attennero al partito di una morte, la più pronta e la più decorosa. Dal colle di Civitade ove erano ascesi, calarono nella pianura, d'onde partiti in tre divisioni sulle truppe pontifizie fecero impeto. Riccardo, Conte di Aversa, e il famoso Roberto Guiscardo, che alla sinistra e al centro si ritrovavano, assalirono, ruppero, sbaragliarono, inseguirono quel gregge di raunaticci Italiani, che combatteano senza ordine, nè del fuggire arrossivano. Più ardua bisogna toccava da sostenere al Conte Unfredo, che conducea la cavalleria dell'ala destra. Vengono generalmente rappresentati gli Alemanni[194], come poco abili nell'adoperar lancie e cavalli; ma scesi a terra opposero una impenetrabile falange, cui nè uomo, nè cavallo, nè armadura poteano resistere, a motivo della gravezza delle enormi loro sciabole che piombar faceano a due mani [137] sull'inimico. Così ostinatamente si difendeano, allorchè la cavalleria che tornava addietro, dopo avere inseguita la parte vinta da Riccardo, e da Roberto Guiscardo, gli accerchiò, e morirono nelle loro file, stimati dagli stessi avversarj, e col conforto di aver vendute care le proprio vite. Il Papa, datosi alla fuga, trovò chiuse le porte di Civitade, e cadde fra le mani dei devoti suoi vincitori, che, baciandogli i piedi, chiedeano essere benedetti ed assoluti per la rea vittoria che aveano riportata. In questo nemico prigioniero i soldati non vedeano che il Vicario di Gesù Cristo: e benchè tai contrassegni di rispetto, quanto ai duci almeno, possano a ragioni di politica attribuirsi, vi è anche luogo a credere che i medesimi duci alle superstizioni del popolo non fossero peregrini. Nella calma del ritiro, il Pontefice, di cui buone erano le intenzioni, deplorò tanto sangue umano sparso per sua cagione, sentì essere egli stato l'origine de' peccati e degli scandali commessi, e poichè mal tornata era l'impresa, vedea scopo del biasimo universale la sconvenevolezza del contegno che avea tenuto[195]. Tali idee tenendo l'animo suo, [138] non ricusò il vantaggioso negoziato che veniagli proposto, e abbandonando una lega, da lui medesimo predicata, come divina, le conquiste passate e future de' Normanni ratificò. Qual che si fosse il modo, onde erano state usurpate, le province della Puglia e della Calabria faceano sempre parte del dono di Costantino e del Patrimonio di S. Pietro, onde il dono e l'accettazione poteano le pretensioni del Pontefice e quelle dei Normanni conciliare nel medesimo tempo. Di fatto si promisero scambievolmente il soccorso delle armi loro spirituali e temporali; i Normanni in appresso si obbligarono pagare alla Corte di Roma un tributo, ossia una onoranza di dodici danari per ogni spazio di terreno che un aratro arava in un anno; dopo la qual memorabile convenzione, vale a dire, dopo sette secoli all'incirca, il regno di Napoli è rimasto feudo della Santa Sede[196].

[139] Chi vuole Roberto Guiscardo[197] disceso da un contadino, chi da un Duca normanno gli concede l'origine: l'orgoglio e l'ignoranza si univano in una principessa greca[198] per invilire la nascita di Guiscardo, l'ignoranza e l'adulazione nei suoi sudditi italiani si univano per innalzarla[199]. Nato nella seconda classe, ossia nell'ordine medio della [140] Nobiltà[200] usciva di una famiglia di sotto-vassalli o vessilliferi della diocesi di Coutances nella bassa Normandia, i quali nel nobile castello di Altavilla abitavano. Tancredi, padre di Guiscardo, segnalato si era alla Corte e nel ducale esercito, cui dovea somministrare dieci soldati o cavalieri. Due maritaggi con donne, che di nobiltà non cedeangli, fecero Tancredi padre di dodici figli, tutti allevati nella casa paterna, e con egual tenerezza amati dalla seconda moglie dello stesso Tancredi. Ma un mediocre patrimonio non bastava a sì numerosa ed intraprendente figliuolanza, per lo che i dodici fratelli, vedendosi imminenti le funeste conseguenze della povertà e della discordia, risolvettero nelle straniere guerre cercar fortuna. Incaricatisi due soli d'essi di mantenere la loro prosapia, e di assistere alla vecchiezza del padre, gli altri dieci si partìan dal castello a mano a mano che l'età virile toccavano; e attraversando le Alpi, i Normanni della Puglia raggiunsero. I primi di questi non secondarono che il proprio valore: i lor buoni successi divennero sprone ai più giovani, onde Guglielmo, Drogone, e Unfredo, l'ultimo di questi maschi, meritarono essere Capi di lor nazione, e della nuova repubblica fondatori. Roberto, il primo dei sette figli, nati dalle seconde nozze, possedea, nè le negavano i suoi nemici medesimi, tutte le qualità di [141] un capitano e di un uomo di Stato. La statura sua, quella de' più alti uomini del suo esercito superava: tali ne erano le proporzioni del corpo, che gli davano grazia e vigore ad un tempo; fino anche nel declinar de' suoi anni gli rimasero, robusta salute capace di sopportare qualunque fatica, e nobiltà di contegno fatta per comandare ad ognuno. Vermiglio in volto, largo di spalle, fornito di lunghi capelli e lunga barba del colore del lino, gli occhi suoi sfavillavano; e la voce, siccome quella di Achille, potea, in mezzo al tumulto d'una battaglia, mantenere l'obbedienza, e diffondere il terrore. Ne' secoli barbari della cavalleria, troppo rilevanti erano siffatti vantaggi, perchè sfuggir potessero all'attenzione dello Storico, e del poeta. È stato osservato che Roberto usava ad un tempo, e colla stessa maestrìa, e della spada che colla destra mano brandiva, e della lancia che la sua sinistra tenea; che tre volte, venne tratto d'arcione nella battaglia di Civitade, e che, riassunte per tre volte le forze, nel finire di quella memorabil giornata, riportò il premio del valore su tutti i guerrieri di entrambi gli eserciti[201]. Non mai sazia la sua ambizione, sulla coscienza della propria superiorità la [142] fondava. Nella scelta delle vie per innalzarsi, gli scrupoli della giustizia non mai lo arrestarono, rade volte il sentimento dell'umanità: e quantunque lo allettasse il goder buona opinione, le sue azioni erano indifferentemente o secrete, o palesi, secondo che o l'uno, o l'altro metodo all'interesse del momento pareagli più adatto. Fu dato il soprannome di Guiscardo[202] a questo grande mastro della saggezza politica, troppo spesso confusa colla dissimulazione e colla furberia. Il poeta pugliese gli dà lode di avere superati, Ulisse nell'astuzia, nell'eloquenza Cicerone. I suoi artifizj nullameno sotto un'apparenza di militare franchezza si mascheravano: nell'apice di sua fortuna fu nondimeno accessibile e affabile verso i soldati, e benchè indulgente alle costumanze de' nuovi sudditi si dimostrasse, le antiche consuetudini del suo paese, nell'abito e ne' modi con ostentazione serbò. Saccheggiava avidamente per largire con profusione. L'essere stato povero in giovinezza, alla frugalità lo avvezzò; i profitti mercantili non credè indegni delle sue cure; sottometteva a lunghi e crudeli tormenti i prigionieri per costringerli a scoprire le nascoste loro ricchezze. Al dir de' Greci, abbandonò la Normandia, da soli cinque cavalieri e trenta fantaccini seguìto, calcolo che sembra tuttavia esagerato. Perchè questo sesto figlio [143] di Tancredi di Altavilla passò sotto spoglie di pellegrino le Alpi, e fra i venturieri italiani fece i suoi primi soldati. I fratelli e i compatriotti di lui, spartiti essendosi fra loro le fertili campagne della Puglia, conservavano ciascuno colla gelosia dell'avarizia la propria parte. L'ambizioso giovine occupò le montagne della Calabria, e nelle prime imprese da esso operate contra i Greci, e contra i nativi, non è sì agevol cosa il discernere lo scorridor dall'eroe. Sorprendere un castello o un Convento, trarre qualche ricco cittadino in aguato, rapire le derrate in circonvicini villaggi, tai furono le oscure fatiche in cui da prima si adoperarono la forza e le intellettuali facoltà di Guiscardo. I volontarj della Normandia sotto le sue bandiere si ascrissero, e i contadini della Calabria, da lui comandati, assunsero nome ed indole di Normanni.

A. D. 1054-1080

Roberto, la cui ambizione colla fortuna si dilatava, eccitò la gelosia del suo fratel primogenito, che in una passeggiera querela minacciò i giorni dell'altro, e alla libertà di lui pose impaccio. Alla morte di Unfredo, i figli di questo, in tenera età, si videro esclusi dal comando, e a vita privata ridotti per l'ambizione del loro tutore e zio. Guiscardo sollevato sopra uno scudo, venne chiarito conte della Puglia e generale della Repubblica. Più possente in allora, e di un'autorità più considerabile insignito, volle terminare la conquista della Calabria, e meritarsi un grado che lo collocò per sempre al di sopra dei suoi eguali. Il Papa avealo scomunicato per alcuni atti, o di rapina fossero, o di sacrilegio; ma non fu difficile il fare intendere a Nicolò II, che non tornava a due amici il mettersi in mala intelligenza [144] fra loro; essere i Normanni difensori fedelissimi della Santa Sede, la lega di un principe offrir sicurezza maggiore che non la condotta capricciosa d'un Corpo aristocratico. Un sinodo di cento Vescovi essendosi a Melfi assembrato, il Conte interruppe una rilevante impresa per vegliare in persona alla sicurezza del romano Pontefice e per eseguirne i decreti. Questi, mosso da gratitudine e da politica, concedè a Roberto, e alla posterità di Roberto, il titolo di Duca[203], coll'investitura della Puglia e della Calabria, e di tutte le terre dell'Italia e della Sicilia, che dallo stesso Roberto ai Greci scismatici e agl'Infedeli saracini verrebbero tolte[204]. Il consenso del Papa potea ben giustificare le conquiste di Roberto, ma non compartirgli la facoltà di ordinare le cose a suo grado e senza consultare i voleri di un popolo libero e vincitore. Guiscardo non pubblicò la nuova sua dignità, che dopo avere colla presa di Cosenza e di Reggio illustrate nella successiva stagione campale le proprie armi. In mezzo all'entusiasmo che il suo trionfo inspirava, adunò le truppe, [145] chiedendo alle medesime confermassero col lor suffragio un giudizio pronunciato dal Vicario di Gesù Cristo: i soldati con acclamazioni di gioia, salutarono Duca il valoroso lor capitano: e i Conti, statigli fino allora eguali, pronunciarono il giuramento di fedeltà col sorriso sulle labbra, e colla indignazione nel cuore. Da quel punto, Roberto assunse i titoli di Duca della Puglia, della Calabria e della Sicilia, per la grazia di Dio e di S. Pietro, ma dovette adoperarsi vent'anni per meritarli e consolidarli; la qual tardanza di buoni successi in un paese sì poco esteso, può sembrare inferiore all'alto ingegno del Duca e al valore delle sue genti. Si osservi però essere stati pochi di numero i Normanni, impacciati inoltre da parecchi ostacoli; volontarj e precarj i loro servigi. I vasti disegni del Duca alcune volte arrenavano per le opposizioni delle Assemblee baronali; i dodici Conti eletti dal popolo, contro la autorità del Capo ordirono trame: e i figli di Unfredo, denunziando la perfidia del loro zio, chiesero giustizia e vendetta. L'abile Guiscardo le loro trame scoperse, estinse il fuoco della sommossa, i colpevoli all'esiglio o alla morte dannò; ma spese inutilmente gli anni, e le forze della nazione in siffatte intestine discordie. Dopo che egli ebbe disfatti gli esterni nemici, i Greci, i Lombardi e i Saracini, a questi le città marittime affortificate offersero asilo. Eccellenti erano nel munire e difender le piazze; mentre i Normanni, avvezzi a combattere solamente a cavallo e in aperta campagna, l'arte degli assedj non conoscevano, e la sola perseveranza potea farli padroni delle Fortezze. Salerno resistè più di otto mesi; durò oltre quattr'anni l'assedio, o il [146] blocco di Bari. Primo a mostrarsi in tutti i rischi il Duca normanno, l'ultimo era a stancarsi; nè nella pazienza del soffrire alcuno lo superava. Intantochè strignea d'assedio la rocca di Salerno, un masso enorme lanciato dalle mura avendo fatta in pezzi una delle sue macchine, una scheggia di legno gli ferì il petto. Sotto le mura di Bari, ei soggiornava sotto una cattiva baracca, fatta di rami secchi e coperta di paglia, sito pericoloso, esposto da ogni lato alla intemperie delle stagioni, e alle frecce dell'inimico[205].

Le province conquistate in Italia da Roberto son quelle che fanno oggidì il regno di Napoli; nè il volgere di sette secoli ha potuto disgiungere le contrade che dall'armi di Guiscardo furon congiunte[206]. Tale monarchia formarono le province greche della Calabria e della Puglia, il principato di Salerno, sottomesso ai Lombardi, la Repubblica d'Amalfi e i Cantoni interni del vasto ed antico Ducato di Benevento. Tre soli di questi Cantoni dalla dominazione del vincitor si sottrassero, il primo per sempre, i due altri fin verso la metà del secolo successivo. L'Imperatore di Alemagna avea conferito al Papa, fosse a titolo di dono, o di cambio, la città e il territorio immediato di Benevento: e benchè questa sacra terra alcune volte sia stata invasa, il nome di S. Pietro [147] finalmente sulla spada de' Normanni ebbe trionfo. La lor prima colonia di Aversa avendo soggiogato, e conservato lo Stato di Capua, i principi di questa città si videro costretti a mendicare il vitto, nanti alla soglia del palagio de' loro antenati. I Duchi della città di Napoli, la libertà popolare mantennero sotto apparenza di sommessione all'Impero di Bisanzo. Per mezzo alle conquiste di Guiscardo avvi due cose degne di eccitare la curiosità del leggitore, le dottrine salernitane[207], il commercio di Amalfi[208].

I. Una Scuola di giurisprudenza suppone leggi e proprietà, e una religione chiara abbastanza, onde l'evidenza della ragione renda men necessario il ministerio della Teologia; ma in qualunque epoca dell'umana civiltà, i soccorsi dell'arte medica son necessarj; e se per una parte, il lusso rende più frequenti le malattie acute, lo stato di barbarie moltiplica il numero delle contusioni e delle ferite. I tesori della greca medicina fra le colonie arabe dell'Affrica, della Spagna [148] e della Sicilia si eran diffusi: e in mezzo alle corrispondenze della pace e della guerra, una scintilla di sapere splendè, e si mantenne a Salerno, città commendevole per l'onestà de' suoi uomini, per l'avvenenza delle sue donne[209]. Una Scuola, la prima che siasi veduta sorgere in mezzo alle tenebre onde era ingombrata l'Europa, all'arte di guarire vi si consacrava; i frati ed i vescovi, a questa salutare e lucrosa professione si accomodarono, e innumerevoli infermi, distintissimi per grado, e nati nelle più remote contrade, or chiamavano a sè, or venivan cercando i medici di Salerno. Una tale scuola i vincitori normanni protessero; e Guiscardo, benchè allevato nel mestier dell'armi, il merito e il valore di un filosofo sapeva discernere. Dopo trentanove anni di peregrinazione, Costantino, cristiano di Affrica, riportò da Bagdad la conoscenza della lingua e delle arti degli Arabi; e della pratica, delle lezioni, degli scritti di questo scolaro di Avicenna, Salerno trasse profitto. La sua scuola di medicina, sonnecchiò molto tempo sotto il nome di Università: i suoi precetti, nel duodecimo secolo, vennero ridotti in una serie d'aforismi indicati in versi leonini, o versi latini rimati[210].

[149] II. La città di Amalfi, situata sette miglia a ponente di Salerno, e trenta ad ostro di Napoli, un tempo oscura, pompeggiava allora di possanza e di tutti que' vantaggi che dell'industria son conseguenza. Ricca di fertile territorio, benchè poco estesa, i suoi abitanti profittarono della loro situazione posta in una spiaggia di mare delle meglio accessibili; primi ad incaricarsi di provvedere il Mondo occidentale de' lavori e delle derrate dell'Oriente, questo utile commercio divenne fonte della loro opulenza e della lor libertà. Godeva Amalfi di un Governo popolare sotto l'amministrazione di un Duca, e sotto la supremazia del greco Imperatore: cinquantamila cittadini entro le sue mura si racchiudevano; nè alcun'altra città eravi, egualmente copiosa di oro, di argento e di suppellettili appartenenti alla ricercatezza del lusso. Peritissimi essendo nello dottrine teoriche e pratiche della navigazione e dell'astronomia i marinai che nel suo porto abbondavano, la scoperta della bussola, che ne ha offerto il modo di trascorrere il globo con sicurezza, alle lor ricerche o alla lor buona sorte è dovuta. Il commercio di Amalfi alle rive dell'Affrica, dell'Arabia e dell'India estendendosi, o le produzioni di queste tre contrade almen comprendendo, i suoi possedimenti in Costantinopoli, in Antiochia, in Gerusalemme e in Alessandria, le aveano [150] acquistati i privilegi delle colonie independenti[211]. Dopo tre secoli di prosperità, Amalfi venne soggiogata dai Normanni, e devastata per l'opera che la gelosa repubblica di Pisa diede a tal uopo. Ella non contiene più oggidì che un migliaio di pescatori, i quali, avvolti nella miseria, possono unicamente inorgoglirsi degli avanzi di un arsenale, di una Cattedrale e dei palagi degli antichi loro trafficanti[212].

A. D. 1060-1090

Ruggero, duodecimo ed ultimo tra i figli di Tancredi, rimase più lungo tempo in Normandia, trattenutovi prima dalla sua giovine età, poi da riguardo alla decrepitezza del padre. Chiamato indi in Italia affrettossi ad approdar nella Puglia, ove meritò la stima, e ben tosto, in appresso, la gelosia di Guiscardo eccitò. Eguali per valore e per ambizione, Ruggero avea sovr'esso il vantaggio di giovinezza, avvenenza, e leggiadri modi, che l'affetto de' soldati e [151] del popolo gli conciliarono. Era sì povero egli, e le persone del suo seguito, in tutto quaranta, che dalla vita di guerriero passò a quella di scorridore, e da quella di scorridore all'altra di ladro domestico. Si avevano in allora tanto imperfette nozioni sulla proprietà, che lo storico stipendiato di questo Ruggero, e per ordine di lui medesimo, racconta certa impresa del suo eroe quando rubò cavalli in una scuderia di Melfi[213]. Il valore, il coraggio gli giovarono ad uscir presto fuori della povertà e dell'ignominia; e queste vili pratiche abbandonò per meritarsi gloria in una guerra contra gli Infedeli; in che lo zelo e la politica del fratello Guiscardo, promotore della Spedizione siciliana, lo secondarono. Dopo la ritirata de' Greci, gli idolatri (con questo nome i Cattolici chiamar soleano i Saracini), ristorate le loro perdite, rientrati erano negli antichi possedimenti. Ma una picciola banda di venturieri operò la liberazione della Sicilia, dalle congiunte forze dell'Impero di Oriente invano tentata[214]. Incominciò Ruggero dal [152] disfidare sopra uno scoperto palischermo i pericoli reali e favolosi di Cariddi e di Scilla; e sbarcato con sessanta soldati sulla nemica costa, e incalzati i Musulmani fino alle porte di Messina, ritornò sano e salvo in Italia, carico del bottino fatto nei dintorni di quella città. Il suo coraggio operoso e paziente nell'assedio della Fortezza di Trani si fa manifesto: onde a vecchia età pervenuto, dilettavasi in narrando che nel durar dell'assedio, egli e la Contessa sua moglie, si videro ridotti ad un solo mantello, del quale a vicenda si ricoprivano; e narrava parimente, come essendogli stato ucciso il cavallo, in compagnia d'esso i Saracini lo trascinassero; come col valore della sua spada se ne spacciasse, riportando sul dorso la sella del corridore per non lasciar tra mani infedeli il menomo trofeo di sè stesso. Nell'assedio di Trani, trecento Normanni arrestarono e respinsero le forze di tutta l'Isola. Nella battaglia. di Ceramio, cinquantamila uomini, tra que' di cavalleria e d'infanteria, vennero sconfitti da centrentasei soldati cristiani, senza contare S. Giorgio che combattè a cavallo nelle prime file. Al successore di S. Pietro vennero serbati i nemici stendardi e quattro cammelli; le quali spoglie de' Barbari, se fossero state esposte non in Vaticano ma in Campidoglio, avrebbero potuto ricordare i trionfi riportati sul popolo di Cartagine. Questo calcolo che riduce a sì picciol numero i Normanni dovea forse applicarsi ai [153] cavalieri soltanto, ossia nobili guerrieri che combattevano a cavallo, e che aveano ciascuno un seguito di cinque o sei uomini[215]. Pure ammettendo ancora una tale interpretazione, e concedendo ai Cristiani quanti vantaggi il valore, la bontà dell'armi e la fama aggiunger potevano, la sconfitta di un esercito sì numeroso, mette tuttavia un prudente leggitore nella alternativa di credere tutto ciò o miracolo, o favola. Gli Arabi della Sicilia riceveano possenti soccorsi dai lor compatriotti dell'Affrica; ma le galee di Pisa veniano parimente soccorritrici alla normanna cavalleria nell'assediare Palermo, e nel momento della pugna la gelosia de' due fratelli di Altavilla, il nobile carattere d'una emulazione generosa e invincibile assumea. Dopo una guerra di trent'anni[216], Ruggero acquistò unitamente al titolo di Gran Conte, la sovranità della più grande e della più fertile fra le isole del Mediterraneo; e l'amministrazione di lui, dà a divederlo uom d'animo liberale e di mente istrutta più di quanto il secolo, e l'educazione che ricevuta avea, comportassero. La libertà della religione e il godimento delle loro proprietà ai Musulmani [154] lasciò[217]. Un filosofo arabo, medico di Mazara, e discendente dalla stirpe di Maometto, che avea arringato il vincitore, venne chiamato alla Corte: ove nel latino idioma trasportò la sua Geografia de' Sette Climi, che Ruggero, dopo averla letta attentamente, agli scritti del greco Tolomeo preferì[218]. Un avanzo di nativi cristiani che ai buoni successi de' Normanni avea contribuito, n'ebbe in compenso il vedere la Croce trionfante nell'Isola, la quale sotto la giurisdizione del Romano Pontefice ritornò. Nove Vescovi vennero creati nelle città principali della Sicilia, e il clero dovette esser contento delle magnifiche doti alle chiese, o ai monasteri largite. Ciò non pertanto l'eroe cattolico i diritti della civile magistratura con gran fermezza sostenne. Anzichè rinunziare alla investitura de' benefizj, ebbe l'accorgimento di volgere a suo pro le pretensioni del Papa, onde la singolar Bolla che i principi della Sicilia chiarisce Legati ereditarj e perpetui della santa Sede[219], consolidò ed estese il primato della Corona.

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A. D. 1081

La conquista della Sicilia era stata più gloriosa che utile a Roberto Guiscardo; nè i possedimenti della Puglia e della Calabria all'ambizione di cotest'uomo bastando, deliberò afferrare, o far nascere l'occasione d'invadere, e soggiogar forse l'Impero dell'Oriente[220]. Un divorzio, ottenuto sotto pretesto di consanguinità, lo avea separato dalla prima moglie, statagli compagna nell'umil fortuna, e Boemondo nato da queste prime nozze, si trovò alla condizione di imitar piuttosto il suo chiaro padre che di succedergli. La seconda moglie di Roberto, essendo figlia de' Principi di Salerno, i Lombardi acconsentirono a riconoscere per erede di lui Ruggero, nato dalla medesima. Cinque figlie parimente dalla Principessa di Salerno ebbe Viscardo, tutte onorevolmente accasate[221], e una di esse fu promessa ancor fanciulla [156] al giovine ed avvenente Costantino, figlio ed erede dell'Imperatore Michele[222]. Ma una rivoluzione crollò il trono di Costantinopoli: la famiglia reale di Duca nel palagio o nel chiostro fu confinata: e Roberto, trafitto l'animo dalla sciagura della figlia, e dall'espulsione del confederato, pensò a vendicarsi. Un Greco che diceasi padre di Costantino, mostratosi ben tosto a Salerno, mise insieme una novella di trono rassegnato per forza, e di fuga. Il Duca maravigliosamente pronto a ravvisare in quest'uomo il suo amico infelice, pomposamente lo accolse, e come verso persona della dignità imperiale insignita addiccasi. Questo Michele[223] dunque trascorse in trionfo la Calabria e la Puglia fra le lagrime e le acclamazioni de' popoli: e il Papa Gregorio VII esortò i vescovi ad adoperarsi coi lor sermoni, i Cattolici col lor braccio, a ritornare questo principe in trono. Roberto e il Greco in famigliari e spessi colloquj vedeansi, e noti egualmente, [157] il valor normanno e i tesori del greco Impero, pubblica fede alle reciproche promesse lor procacciavano. Nondimeno, a confessione de' Greci e de' Latini, cotesto Michele non era che un fantasma, un impostore, un frate scappato dal suo convento, o un servo della greca Corte. Lo scaltro Guiscardo immaginò questo artifizio, sperando che dopo aver dato un'apparenza di giustizia alle sue armi, il falso imperatore tornerebbe nella sua oscurità ad un cenno di chi da questa l'avea ritratto; ma sol la vittoria potea costringere la credenza de' Greci, nè l'ardor de' Latini per tale impresa la credulità de' medesimi pareggiava; i soldati normanni voleano godersi in pace il frutto di lor fatiche, e gl'Italiani fremevano alla sola idea di pericoli cogniti ed incogniti che ad una spedizione oltremare si congiungevano. A fine di far soldati, Roberto non risparmiò donativi, o promesse; nè minacce, così per parte dell'autorità civile, come per parte dell'autorità ecclesiastica; che anzi alcuni atti di violenza hanno dato origine al fattogli rimprovero di avere arrolati, senza distinzioni nè pietà, e vecchi, e fanciulli. Dopo due anni impiegati senza posa in tali apparecchi, l'esercito di terra e le forze navali si adunarono ad Otranto, ultimo promontorio dell'Italia, situato all'estremità del calcagno dello stivale. Roberto si trasferì, accompagnato dalla moglie che ai fianchi di lui combattea, dal figlio Boemondo, e dal greco impostore. Mille trecento cavalieri normanni[224], o alla scuola de' Normanni educati, [158] formavano il nerbo di questo esercito composto di circa trentamila uomini d'ogni arma[225]; cencinquanta navi vennero caricate di truppe da sbarco, di cavalli, di armi, di macchine da guerra, e di torri di legno coperte di cuoio non concio; navilio che era stato allestito in Italia, e la repubblica ragusea, divenuta confederata di Roberto, le galee aveva fornite. All'ingresso del golfo Adriatico le coste dell'Italia e dell'Epiro si avvicinano l'una all'altra. Lo spazio che disgiugne Brindisi da Durazzo, conosciuto sotto il nome di Passaggio Romano, non è largo più di cento miglia[226]. Rimpetto ad Otranto si restringe di cinquanta[227], angustia che suggerì a Pirro, e a Pompeo l'idea sublime, o stravagante di unire con un ponte entrambe le rive. Roberto, prima di imbarcare [159] le sue truppe e le sue munizioni, mandò innanzi quindici galee comandate da Boemondo, affine di soggiogare o minacciare l'isola di Corfù, riconoscere l'opposto lido, e assicurare ne' dintorni di Vallona un buon porto alle sue truppe. Boemondo compiè la sua traversata e il suo sbarco, senza accorgersi di nemici. Sperienza fortunata pe' Normanni, e che diè a divedere a quale scadimento l'incuria de' Greci avesse ridotta la loro marineria! Le isole e le città marittime dell'Epiro all'armi di Roberto, o al terror del suo nome cedettero, e poichè ebbe toccate le coste di Corfù (la quale isola accenno col suo nome moderno) condusse la sua squadra e il suo esercito ad assediare Durazzo. Cotesta città, dal lato di Occidente, chiave dell'Impero greco, dalla sua antica fama, da recenti fortificazioni, dal patrizio Giorgio Paleologo vincitore di diverse battaglie nell'Oriente, da un presidio tolto dalle province di Albania e di Macedonia, in ogni età vivai di eccellenti soldati, era difesa. Pericoli e sciagure d'ogni genere nel durar di questa impresa provarono l'animo di Guiscardo: nella stagione la più propizia dell'anno, la flotta di lui che stavasi lungo la costa, venne d'improvviso assalita da una fortuna di mare; e piogge miste a neve, e furiosi venti d'ostro ingrossarono l'Adriatico, talchè un nuovo naufragio la sinistra fama degli scogli Acroceraunj riconfermò[228]. Andati in pezzi o portati lontano e vele, [160] e alberi, e remi, si videro coperti il mare, e le rive di frantumi di navigli, d'armi e cadaveri, e la maggior parte delle munizioni le acque inghiottirono o danneggiarono. Sottrattasi con grande stento al furore dell'onde la ducale galea, Roberto si fermò sette giorni sul vicino promontorio per raccogliere gli avanzi della sua flotta, e rianimare il depresso coraggio de' suoi soldati. I Normanni non erano più quegli audaci piloti che aveano scoperto nuove acque sull'Oceano, dalla Groelandia al monte Atlante, que' piloti che erano stati veduti sorridere sui perigli da poco che offre l'onda mediterranea. Piansero nel durare della procella, e tremarono all'avvicinare de' Veneziani, che mossi dalle preghiere e dalle promesse della Corte di Bisanzo venivano ad assalirli. Le pugne del primo giorno mal non tornarono a Boemondo, giovine imberbe[229] che i legni del padre suo comandava, ma le galee veneziane rimasero tutta notte ferme sull'áncora, a guisa di mezza luna, ordinate. La maestria di loro fazioni, il modo vantaggioso onde collocati aveano i proprj arcieri, la forza delle lor chiaverine, il fuoco greco somministrato ad essi dall'Imperatore, li fecero nel secondo giorno padroni della vittoria. I legni pugliesi o ragusei alla costa si ripararono: molti videro tagliare le gomene, e in poter cadettero del vincitore; oltrechè, la guernigion di Durazzo, con una abile sortita, portò fin nelle tende di Roberto la strage [161] e il terrore: vennero introdotti soccorsi entro la piazza, e appena gli assedianti più non padroneggiarono il mare, si videro privi de' tributi, e delle vettovaglie, che dianzi le isole, e le città marittime ad essi inviavano. Si arroge, che un contagioso morbo travagliò ben tosto l'esercito dei Normanni, onde perirono privi di gloria cinquecento cavalieri; e la perdita delle genti di Guiscardo non ascese a meno di diecimila uomini, sol che si voglia dedurla dal registro de' funerali, e supponendo che tutti i morti l'onor di esequie ottenessero. Solo, imperterrito, in mezzo a tante calamità, il Duca normanno, intantochè nuove forze dai lidi pugliesi e siculi ritraeva, conquassava colle sue macchine d'assedio, e tribolava, ora dando scalate alle mura, ora adoperandosi contro le fondamenta di queste, Durazzo. Ma la solerzia e il valore di lui, in un valore eguale, e in una solerzia superiore, scontraronsi. Avendo egli condotto a piè del baluardo una torre mobile che racchiudea cinquecento soldati, mentre stava per abbassarne la porta, o il ponte levatoio, una enorme trave lo arrestò nell'impresa, e il fuoco greco in un istante la sua torre gli consumò.

Intanto che i Turchi dal lato orientale, le truppe di Guiscardo dall'occidentale, il romano impero invadeano; il vecchio successore di Michele rassegnava lo scettro nelle mani di Alessio, illustre Generale e fondatore della dinastia de' Comneni. Anna, figlia di questo Alessio, e famosa per avere scritta la Storia del padre, dal suo stile ampolloso non rimovendosi, osserva che lo stesso Ercole alla doppia pugna non avrebbe saputo resistere, e su tal base fondandosi, approva la precipitosa pace che il ridetto Alessio concluse col Turco; la qual cosa il trasferirsi in persona [162] a soccorrer Durazzo gli agevolò. Egli avea ben trovato vuoto di soldati il suo campo come di danari l'erario; ma tai furono il vigore, la sollecitudine delle sue provvisioni, che in sei mesi radunò un esercito di settantamila uomini[230], e fece compiergli un cammino di cinquecento miglia. Ei tolse soldati dall'Europa e dall'Asia, dal Peloponneso infino al mar Nero; ostentava la pompa del grado imperiale nella magnificenza della guardia composta di cavalieri ricchi d'armadure, e di arredi d'argento, e nel numeroso corteggio di nobili e di principi che lo accompagnavano; e più d'uno di questi principi (il che prova una mansuetudine de' costumi di Bisanzio in que' tempi) nelle vicissitudini del palagio imperiale aveano vestita un istante la porpora, e ciò nulla meno vivean ricchi e insigniti di cariche ragguardevoli. Tutti i predetti Grandi, animati la più parte dal fuoco della giovinezza, avrebbero dovuto col loro esempio farsi sprone alla moltitudine: ma l'eccessivo amor de' piaceri, il disprezzo di ogni subordinazione, furono origine di disordini e di mali. Voleano questi essere condotti subito alla battaglia, e con importuni clamori [163] misero a cattivo partito la prudenza di Alessio, che avrebbe potuto prendere in mezzo e tribolar colla fame l'esercito degli assedianti. L'enumerazione delle province greche a' que' giorni, offre un triste raffronto tra quel che furono gli antichi limiti dell'Impero, e quello che erano divenuti. Raccolti in fretta, e in mezzo al comune terrore, i nuovi soldati, non fu possibile il ritrarre dalla Natolia o Asia Minore le sue guernigioni, se non se col cedere ai Turchi le città che da queste istesse guernigioni erano custodite. Il nerbo dell'esercito greco stavasi ne' Varangi, e nelle guardie scandinave, il cui numero avea poco prima ricevuto rinforzo da una truppa di esuli e di volontarj venuti dall'isola di Tule, o della Gran Brettagna. I Danesi e gl'Inglesi parimente, sotto il giogo de' Normanni gemeano; laonde molti giovani venturieri vennero nella risoluzione di abbandonare una terra di schiavitù, e abbracciando lo scampo che ad essi il mare offeriva, peregrinarono lungamente a tutte le coste, ove qualche speranza di libertà e di vendetta allettavali. Il greco Imperatore a sè gli assoldò, e primieramente in una nuova città della costa d'Asia stanziarono; ma non andò guari che Alessio chiamatili al servigio immediato del suo palagio, e della imperiale persona, nella lor fedeltà e prodezza un bel retaggio preparò ai suoi successori[231]. Rammentando [164] con indignazione questi guerrieri tutto quanto eglino pure aveano sofferto dai Normanni, marciarono contra un nemico di lor nazione, e giubilanti, e impazienti di ricuperar nell'Epiro la gloria che alla giornata di Hastings aveano perduta. I Varangi erano inoltre sostenuti da alcune bande di Franchi o Latini; tutti coloro che, per sottrarsi alla tirannide di Guiscardo, riparati eransi a Costantinopoli, agognavano l'istante di segnalare il loro zelo, e appagare in uno la sete della vendetta. In così ardue circostanze l'Imperatore non aveva avuti a schifo gli impuri soccorsi de' Paoliziani, o de' Manichei della Tracia e della Bulgaria; i quali eretici all'intrepidezza de' martiri l'operoso valore e la disciplina di eccellenti soldati aggiugnevano[232]. Un negoziato col Sultano avendo procurato all'Imperatore un rinforzo di mille Turchi all'incirca, si videro insieme in contrasto le frecce della cavalleria scitica, e le lance della normanna. Udite le prime voci del formidabile esercito che incontro venivagli, Roberto raunò un consiglio da' suoi primarj uffiziali composto. «Voi vedete, lor disse, in qual pericolo vi trovate: esso è incalzante, inevitabile. Le colline sono coperte di guerrieri e di stendardi: l'Imperator greco è accostumato alle guerre e ai trionfi. La disciplina e l'unione solamente ci possono far salvi, e sono pronto a cedere il comando ad un Generale più abile di me». Le acclamazioni generali, e persino de' suoi segreti nemici, avendolo in sì periglioso momento fatto certo della stima e della confidenza d'ognuno; «contiam dunque, esclamò, sui [165] frutti della vittoria, e se vi è un vile, impediamogli ogni strada alla fuga, abbruciamo il nostro navilio e le nostre bagaglie, e combattiamo su questo suolo, come se fosse il luogo della nostra nascita, e del nostro sepolcro.» Approvata unanimamente siffatta risoluzione, Guiscardo che disdegnò cautelarsi fra mezzo alle file de' suoi soldati, si pose a capo dell'esercito ordinato in battaglia aspettando ivi di piè fermo il nemico. Un fiume poco largo gli guardava le spalle, l'ala destra prolungandosi sino al mare; la sinistra terminava alle falde delle colline: e Guiscardo forse ignorava che in questo campo medesimo Cesare e Pompeo disputati eransi l'Impero del Mondo[233].

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Alessio avendo risoluto, contro il parere de' più saggi suoi capitani, di commettersi all'evento di una battaglia, insinuò alla guernigione di Durazzo il contribuire con una sortita a tempo operata alla liberazione della città. Con due divisioni egli marciò per sorprendere i Normanni innanzi lo schiarire del giorno, onde da due lati vedeasi la cavalleria leggiera dei Greci tener la pianura; la seconda linea era composta di arcieri, i Varangi serbarono a sè medesimi l'onore di combattere all'antiguardo. Al primo scontro, le azze da guerra degli stranieri portarono terribili botte all'esercito di Guiscardo, a soli quindicimila uomini allora ridotto. I Lombardi e i Calabresi, dandosi a vergognosa fuga, corsero, chi alle rive del [166] fiume, chi a quelle del mare; ma il ponte era stato distrutto, per togliere un varco ai soldati della piazza, se tentavano una sortita; la costa vedeasi cinta di galee veneziane che fecero prova delle lor macchine da guerra in mezzo a questa disordinata moltitudine; la quale sarebbe inevitabilmente perita senza il valore e la condotta ammirabile de' suoi Capi. I Greci ne descrivono Gaita, moglie di Roberto, come una amazzone e una seconda Pallade, men abile nelle arti, ma non men della dea degli Ateniesi terribile nella guerra[234]. Benchè ferita da una freccia, rimase sul campo di battaglia, e colle esortazioni e coll'esempio le soldatesche disperse riordinò[235]; la sua femminile voce venia secondata dalla voce più forte e dal braccio più vigoroso di Guiscardo. Intrepido [167] in mezzo all'azione, quanto magnanimo ne' consigli: «Dove fuggite voi, esclamò? avete che fare con un nemico implacabile, e la morte è meno crudele della servitù». Il momento era decisivo; i Varangi, nell'avanzarsi troppo, lasciarono scoperti i lor fianchi; gli ottocento cavalieri del corpo di battaglia del Duca, che non erano stati intrapresi, colla lancia in resta si precipitarono sul nemico, e gli Storici greci non rimembrano senza dolore l'impeto della cavalleria franca, cui non val resistenza[236]. Alessio non trascurò alcun dovere di generale e soldato; ma allorchè vide la strage de' Varangi e la fuga de' Turchi, e in niun conto avendo i proprj sudditi, della fortuna sua disperò. La principessa Anna, che versa una lagrima su questo infausto avvenimento, è ridotta a vantare la forza e l'agilità del cavallo di suo padre, e il vigore onde questi si difese contra un cavaliere che con una percossa di lancia aveagli fatto in pezzi il cimiero. Con disperato valore, si aperse varco per mezzo a uno squadrone di Normanni che la fuga impedivagli, e dopo avere errato due giorni e due notti in mezzo alle montagne, potè godere di qualche riposo, non d'animo, ma di corpo, entro le [168] mura di Licnido. Si dolse Roberto delle sue truppe che, troppo mollemente e lentamente inseguendo Alessio, una tanto luminosa preda sfuggirsi lasciassero: ma nel confortarono i trofei e gli stendardi tolti al nemico, la ricchezza e il lusso del campo greco, e la gloria di aver distrutto un esercito cinque volte più numeroso del suo. Molti Italiani rimasero vittima del proprio spavento; pur questa memoranda giornata non costò a Guiscardo più di trenta de' suoi cavalieri. L'esercito imperiale perdè, fra Greci, Turchi ed Inglesi, cinque o seimila uomini all'incirca[237], fra i quali si noverano molti nobili e guerrieri di sangue reale; l'impostore Michele trovò nello spianato di Durazzo una morte più onorevole che nol fu la sua vita.

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Ella è cosa molto probabile che Guiscardo non si affliggesse gran fatto della perdita di questo fantasma d'Imperatore, costatogli molto caro, nè con altro pro che di avventurarlo alla derisione de' Greci. Disfatti questi, la guernigione continuò nel difendersi: l'Imperatore aveva avuta l'imprudenza di richiamare Giorgio Paleologo, intanto che un Veneziano comandava nella città: le tende degli assedianti vennero cambiate in baracche, atte ad offerire riparo contra il rigore del verno; e ad una disfida fattagli dalla Fortezza, Roberto rispose che la sua perseveranza, l'ostinazione degli assediati almen [169] pareggiava[238]. Già forse ei fondavasi sopra una lega segreta da lui stretta con un nobile Veneziano, che sedotto dalla speranza di un luminoso e ricco maritaggio, ebbe la viltà di tradire i confederati della sua patria. Nel più cupo della notte, furono gettate dall'alto delle muraglie le scale di corda, per le quali saliti tacitamente gli snelli Calabresi, sol dal nome, e dalle trombe del vincitore, i Greci furono desti. Ciò nullameno per tre giorni difesero le strade contra un nemico già padrone de' baluardi; si rendettero finalmente dopo un assedio di sette mesi, calcolati dal momento che la piazza fu circondata. Penetrò indi Roberto nelle parti interne dell'Epiro, o dell'Albania, e attraversate le prime montagne della Tessaglia, trecento Inglesi nella città di Castoria sorprese, a Tessalonica si avvicinò, fece tremare Costantinopoli. Ma un più incalzante dovere, il corso dei suoi ambiziosi disegni interruppegli. Già distrutti due terzi del suo esercito dal naufragio, dai morbi contagiosi e dal ferro nemico, e allorchè aspettavasi dall'Italia nuove reclute, dolorosi messaggi lo ragguagliarono delle sciagure, e de' pericoli ai quali, per la lontananza di lui, la stessa Italia era in preda, della ribellione delle città e de' Baroni della Puglia, dello stremo a cui trovavasi il Papa, dell'avvicinamento, [170] o piuttosto dell'invasione di Enrico Re di Alemagna. Egli osò immaginarsi che la presenza sua basterebbe a rendergli sicuri gli Stati, e sopra un sol brigantino, rivalicò il mare, lasciando l'esercito sotto il comando di suo figlio e dei Conti normanni; e con esortazioni a Boemondo, di rispettare la libertà de' suoi eguali, ai Conti di obbedire l'autorità del lor Generale. Il figlio di Guiscardo sull'orme del padre suo camminò. I Greci paragonano questi due guerrieri al bruco e alla locusta, l'uno de' quali divora tutto quanto non fu sterminato dall'altro[239]. Dopo avere vinte due battaglie contra l'Imperatore, scese nella pianura della Tessaglia e assediò Larissa, capitale del favoloso regno di Achille[240], ove l'erario e i magazzini del greco esercito si racchiudevano. Del rimanente debbonsi encomj alla prudenza e alla fermezza di Alessio, che contro la infelicità de' tempi coraggiosamente lottò. In mezzo alla penuria che disastrava lo Stato, ardì valersi degli arredi superflui delle chiese, provvide alla diffalta dei Manichei, col sostituir loro alcune tribù della Moldavia; [171] settemila Turchi assunsero il luogo degli estinti fratelli e l'incarico di vendicarli; intanto i soldati greci, addestratisi nel cavalcare e nel lanciar frecce, si fecero abili al giornaliero esercizio delle fazioni militari e delle imboscate. Sapendo Alessio per esperienza che i cavalieri franchi, tanto formidabili sui lor corridori, non poteano nè combattere, nè quasi moversi a piedi[241], ordinò ai suoi arcieri di far bersaglio de' loro dardi il cavallo anzichè il cavaliere, e seminava di punte di ferro ed altri impacci il terreno d'onde potea paventare un assalto. La guerra venne protratta ne' dintorni di Larissa ove i successi de' due eserciti, dubbiosi rimasero. In tutte le occasioni il coraggio di Boemondo in guisa luminosa, e sovente con fortuna, si dimostrò; ma i Greci immaginarono uno stratagemma per cui il normanno campo fu saccheggiato. Inespugnabile essendo la città, i Conti o disgustati, o corrotti dall'inimico, le bandiere del loro duce abbandonarono, e consegnati ai Greci i lor posti, le parti dell'Imperatore seguirono. Alessio riportò a Costantinopoli il vantaggio, anzichè l'onore della vittoria. Quanto al figlio di Guiscardo, rinunziando ad un territorio che non potea più difendere, veleggiò verso l'Italia [172] ove ben accolselo il padre, che ne conoscea il merito, e ne compiagnea l'infortunio.

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Di tutti i principi latini confederati di Alessio, e nemici di Roberto, il più poderoso e zelante era Enrico III, o IV Re d'Alemagna, e d'Italia, che divenne in appresso Imperator d'Occidente. La lettera che il Principe greco indirissegli[242], abbonda di sentimenti di verace amicizia e del desiderio onde ardea di consolidare la scambievole lega con vincoli di famiglia, e politici. Congratulatosi con Enrico pei buoni successi da esso ottenuti in una giusta e santa guerra, querelasi perchè le audaci imprese de' Normanni, la prosperità del suo impero hanno turbata. La nota de' donativi inviatigli dalla Grecia ai costumi del secolo corrisponde: una corona d'oro guarnita di raggi, una croce da petto adorna di perle, una scatola di reliquie coi nomi e titoli de' Santi cui perteneano, un vaso di cristallo, un vaso di Sardonica, balsamo, probabilmente della Mecca, e cento pezze di porpora; inoltre cenquarantaquattromila bisantini d'oro, con promessa di aggiugnerne altri dugento sedicimila, allorchè Enrico fosse venuto in armi sul territorio pugliese, e confermata, con giuramento, la loro confederazione contro [173] il comune inimico. Il Principe alemanno[243] che già trovavasi in Lombardia, Capo di un esercito e di una fazione, accettando tosto queste magnifiche offerte, al mezzogiorno immantinente si volse; e benchè il fermasse in cammino la notizia della giornata di Durazzo, ricompensò abbondantemente il dono avuto dall'Imperatore, poichè lo spavento che coll'armi sue e col suo nome inspirò, costrinse Roberto a ricercar precipitosamente la Puglia. Enrico detestava i Normanni, come confederati e vassalli di Gregorio VII, implacabile suo nemico, orgoglioso sacerdote, che col suo zelo ambizioso riaccese la lunga querela tra il Sacerdozio e l'Impero[244]: il Re, il Papa, si mandavano anatemi a vicenda, e ognun d'essi avea posto un rivale sul trono del suo antagonista. Dopo la sconfitta e la morte del ribelle della Svevia, Enrico si condusse in Italia per assumervi l'imperiale corona, e scacciare il tiranno della Chiesa [174] dal Vaticano[245][246]: ma la causa di Gregorio i Romani sostennero, e fermi in lor coraggio rendevangli i soccorsi d'uomini e di danaro che ad essi venian dalla Puglia, onde per tre volte l'Imperatore alemanno tentò indarno l'assedio di Roma. Nel quarto anno, Enrico si guadagnò, coll'oro dicesi di Bisanzo, i Nobili romani che i lor dominj e le lor castella a tutti gli orrori della guerra videro in preda. Gli vennero consegnate le porte, i ponti e cinquanta ostaggi: l'antipapa Clemente fu consacrato nel palagio di Laterano, e pieno di gratitudine incoronò in Vaticano il suo protettore. L'Imperatore Enrico, intitolatosi successore d'Augusto e di Carlomagno, chiarì il Campidoglio sua stabile residenza. Il nipote di Gregorio le rovine del Septizonio tuttavia difendea: assediato entro castel S. Angelo il Papa nel solo coraggio e nella fedeltà del suo vassallo normanno ponea la speranza. Ben vero è che ingiurie e reciproche lamentanze aveano interrotto il buon accordo fra questi due personaggi; ma in sì imminente pericolo Guiscardo i suoi giuramenti, il suo interesse più forte ancora dei giuramenti, l'amor [175] della gloria, e l'odio che portava ai due Imperatori, sol calcolò. Dispiegata la santa bandiera, coll'animo deliberato di accorrere in soccorso al principe degli Appostoli, e dopo avere raunati seimila uomini a cavallo, e trentamila fantaccini, il più numeroso di quanti eserciti ebbe giammai, mosse da Salerno a Roma, e durante quel cammino i pubblici applausi, e le promesse di celeste soccorso, lui e le sue soldatesche accompagnarono. Vincitore in sessantasei battaglie, all'avvicinar di Guiscardo, Enrico tremò: mostrando ricordarsi d'alcuni indispensabili affari che la sua presenza volevano in Lombardia, esortò i Romani a conservarsi fedeli, e tre giorni prima che i Normanni giugnessero, affrettatamente partì. In men di tre anni, il figlio di Tancredi di Altavilla ebbe la gloria di liberare il Pontefice, e di vedere sparire dinanzi a sè le armi vincitrici degli Imperatori d'Oriente[247], e d'Occidente. Ma lo splendore del trionfo di Roberto le sciagure di Roma oscurarono. Già i partigiani di Gregorio toccata aveano la meta di rompere, di scalare le mura, già si trovavano in Roma; non quindi inoperosa, o priva di forze era la fazione degli Imperiali: laonde il terzo giorno si accese una terribile sedizione, e un accento inconsiderato sfuggito al vincitore, per cui parea la [176] difesa, o la vendetta essere comandate, divenne segnale d'incendio e di devastazione[248]. I Saracini della Sicilia, i sudditi di Ruggero, gli ausiliari di Guiscardo, colsero il destro per ispogliare e profanare la santa città de' Cristiani: migliaia di cittadini vennero oltraggiati, trucidati o ridotti in servitù, innanzi agli occhi e per opera de' confederati del loro padre spirituale. Un vasto rione che dal palagio di Laterano al Colosseo si estendea, le fiamme consunsero, sicchè anche ai dì nostri non offre più che un deserto[249]. Gregorio, abbandonata una città, che lo detestava e più nol temea, andò a terminare nel palagio di Salerno i suoi giorni. Senza dubbio, questo scaltro pontefice, colla lusinga della sovranità di Roma, o della Corona imperiale, Guiscardo adescò; ma un sì periglioso espediente, al certo, giusta ogni apparenza, opportunissimo ad infondere nuovo ardore nell'animo ambizioso del Duca normanno, coll'effettuarsi, avrebbe per sempre alienati dal Pontefice gli animi de' fedeli principi dell'Alemagna.

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A. D. 1084

Guiscardo liberatore e in un flagello di Roma, avrebbe potuto finalmente darsi al riposo: ma nel medesimo anno che egli aveva veduto fuggire l'Imperator d'Alemagna, il capitano instancabile agli antichi divisamenti delle orientali conquiste fece ritorno. L'entusiastico zelo, o la gratitudine di Gregorio, i regni della Grecia e dell'Asia al costui valore aveva promessi[250]. Le milizie del Normanno stavano in armi, fatte orgogliose dai buoni successi ottenuti, e preste a cercarne altri in mezzo alle pugne. La principessa Anna, valendosi delle parole di Omero paragona questi soldati ad uno sciame di api[251]: ma ho già fatto conoscere innanzi che maggior numero di forze il figlio di Altavilla non aveva mai radunate: cento venti navigli vi vollero ad imbarcarle, e innoltrata essendo di molto la stagione, il porto di Brindisi[252], alla rada aperta di Otranto [178] ci preferì. Alessio intanto, timoroso di un secondo assalto, a ristorare la marineria dell'Impero si adoperava, oltre al considerabile soccorso di trentasei legni da sbarco, di quattordici galee, e nove galeotte straordinariamente ampie e robuste che dalla Repubblica veneta aveva ottenuto: soccorso abbondantemente ricompensato col privilegio parziale di commercio conceduto alla repubblica, col dono fattole dall'Imperatore di molte botteghe e case nel porto di Costantinopoli, col pagamento di un tributo, tanto più gradevole ai Veneziani, che derivava da una tassa imposta ai cittadini di Amalfi loro rivali. La lega de' Greci coi Veneziani copriva di una squadra nemica il mare Adriatico. Ma fosse negligenza dei confederati, o abilità di Roberto, l'incostanza de' venti, o l'oscurità d'un nebbione, il Duca si aperse un varco, e i Normanni sani e salvi sulla costa d'Epiro sbarcarono. L'intrepido Capitano, comandando venti buone galee si pose immantinente in cerca dell'inimico, e benchè più avvezzo a guerreggiare a cavallo, commise la propria vita, e quella di suo fratello e de' suoi due figli all'evento di una battaglia navale. In tre successive pugne datesi a veggente dell'isola di Corfù, l'impero del mare fu disputato; e l'abilità e il numero de' confederati prevalsero nelle due prime: ma nella terza i Normanni riportarono una vittoria decisiva e compiuta[253]. Con ignominiosa [179] fuga i brigantini leggieri de' Greci si spersero: più ostinata lotta sostennero le nove Fortezze mobili de' Veneziani; sette mandate a fondo, e due cadute finalmente in potere dell'inimico; duemila cinquecento prigionieri la pietà del vincitore indarno implorarono, e la figlia di Alessio fa ascendere a tredicimila uomini il numero de' Greci, o confederati, che in tale occasione morti rimasero. L'altezza d'ingegno avea tenuto luogo di esperienza a Guiscardo. In ognuna delle sere successive alle azioni, dopo avere sonato a ritratta, esaminava tranquillamente le cagioni della sconfitta, e immaginava nuovi stratagemmi che alla sua debolezza supplissero, e i vantaggi del Greco rendessero vani. Le fazioni marittime il verno sospese: col ritorno di primavera pensò nuovamente ad impadronirsi di Costantinopoli; ma in vece di attraversare i colli dell'Epiro, si trasferì nella Grecia, e nelle città dell'Arcipelago, le cui spoglie un maggior premio alle sue fatiche offerivano; oltrechè, in un tal campo i suoi eserciti di terra e di mare poterono più vigorosamente, e con migliore speranza di buon successo, accordarsi; ma tai disegni turbò un morbo contagioso che si diffuse per tutto il campo normanno nell'isola di Cefalonia, e del quale lo stesso Roberto fu vittima. Egli spirò [180] entro la sua tenda in età di settant'anni: si sparse generalmente la voce che ei morisse avvelenato per opera o della moglie, o del greco Imperatore[254]. Questa inaspettata morte dà luogo alla immaginazione di spaziare per tutto il corso d'imprese che potevano ancora essere riserbate a Roberto, dall'esistenza del quale, ed è provato abbastanza, la grandezza dei Normanni pendea[255]. Un esercito vittorioso che non vedea più nemici attorno di sè, si sbandò e si ritrasse in preda al disordine della costernazione, ed Alessio, che palpitava pel proprio Impero credè appena a sè stesso di essere libero dal pericolo. La galea che portava i mortali avanzi di Guiscardo, naufragò alla costa d'Italia: pur questi, avendosi potuto ritirarli, deposti vennero nella tomba di [181] Venosa[256], luogo più celebre per essere stata culla di Orazio[257], che come sepolcro del guerriero di Normandia. Ruggero, secondogenito e successore di lui, ridotto videsi alla modesta condizione di Duca della Puglia. Fosse stima, o spirito di parzialità, Guiscardo non avea lasciato al prode Boemondo altro retaggio che la sua spada. Le pretensioni di questo turbarono la pubblica tranquillità sino all'istante che la prima Crociata contro i Saracini d'Oriente, un campo più luminoso di gloria e di conquiste gli aperse[258].

A. D. 1101-1154

E le più splendide, e le più modeste speranze della vita, vanno tutte, e prestamente, a perdersi nella tomba. La discendenza maschile di Roberto Guiscardo, così nella Puglia, come in Antiochia, alla seconda generazione si estinse: ma l'ultimo tra' fratelli di lui, fu il ceppo d'una dinastia di Re, e il figlio del Gran Conte il nome, le conquiste, e il coraggio di Ruggero I eredò[259]. Nato egli in Sicilia, [182] avea soli quattro anni, allor quando succedè al padre nella sovranità di questa contrada, retaggio che la ragione potrebbe invidiargli, se le fosse permesso un istante il desiderare i fastosi, e spesso chimerici diletti, che dal potere derivano. Se Ruggero si fosse contentato del fertile suo patrimonio, la gratitudine dei popoli avrebbe in lui ravvisato un benefattore, e mercè una saggia amministrazione, riconducendo i bei giorni delle Colonie greche[260], potea la Sicilia venire in tanta ricchezza e possanza, quanta è lecito aspettarne dalle più vaste conquiste; ma l'ambizione del Gran Conte così nobili disegni non conoscea, e colle volgari vie della violenza e dell'artifizio pensò a disbramarla. Ansioso di regnar solo in Palermo, di cui la metà al ramo primogenito di sua famiglia aspettavasi, si sforzò di dilatare lo Stato della Calabria oltre i confini stipulati co' primi patti, e spiò con impazienza l'istante che declinasse la salute già debole del suo cugino Guglielmo della Puglia, pronipote di Roberto. Alla prima notizia della morte di [183] esso partitosi Roberto con sette galee da Palermo, e nella baia di Salerno ancoratosi, ricevette, dopo dieci giorni di negoziazione, il giuramento di fedeltà della Capital de' Normanni, costrinse i Baroni a rendergli omaggio, e a concedergli investitura, i Pontefici, male atti a soffrire, così l'amicizia, come la nimistà di un sì poderoso vassallo. Rispettò nondimeno, qual patrimonio di S. Pietro, il territorio di Benevento; ma col ridursi a soggezione Napoli e Capua, mandò a termine i disegni concetti da Guiscardo suo zio, e tutte le conquiste de' Normanni si appropriò. Altero del sentimento della sua possanza e del suo merito, i titoli di Duca e Conte sdegnò, perchè pareagli che la Sicilia congiunta ad un terzo forse del continente d'Italia, potesse formar la base d'un reame[261], alle monarchie di Francia e d'Inghilterra solamente inferiore. Ei venne coronato a Palermo, e i Capi della nazione che alla cerimonia assistettero, aveano senza dubbio il diritto di decidere sotto qual nome ei regnerebbe sovr'essi; ma l'esempio d'un tiranno greco, e d'un emiro de' Saracini non bastava a giustificare il suo titolo di monarca al cospetto di nove Re del Mondo latino[262], che poteano [184] ricusare di riconoscerlo, finchè la sanzione del Pontefice avesse ottenuta. L'orgoglio di Anacleto concedè di buon grado un titolo che l'orgoglio di Ruggero sottomesso erasi a chiedere[263]. Ma Anacleto medesimo trovavasi nella circostanza di veder contrastata la propria elezione, perchè nominato erasi un altro Papa sotto nome di Innocenzo II; e intanto che Anacleto stavasi sul Vaticano, il suo fuggitivo, ma più felice, emulo, dalle nazioni europee veniva riconosciuto. La monarchia di Ruggero fu crollata e quasi distratta per l'abbaglio che egli commise nell'eleggersi il protettore ecclesiastico; la spada dell'imperatore Lottario II, le scomuniche d'Innocenzo, le squadre di Pisa, lo zelo di S. Bernardo, alla perdizione del masnadiero della Sicilia si collegarono; onde Ruggero, dopo vigorosa resistenza, scacciato videsi dal continente dell'Italia; e alla cerimonia dell'investitura d'un nuovo Duca della Puglia, il Papa e l'Imperatore, tennero, ciascuno, una falda del gonfalone, per dare a divedere che sosteneano i loro diritti, e i litigi lor sospendeano. Ma durò per poco [185] questa irrequieta amicizia, e le malattie e le diffalte non tardarono a distruggere gli eserciti dell'Alemagna[264]. Ruggero che di rado perdonava ai nemici, o morti, o vivi che fossero, il Duca della Puglia e tutti i partigiani del medesimo sterminò. Innocenzo, debole quanto vanaglorioso, divenne, al pari di Leone IX, suo predecessore, il prigioniero e l'amico de' Normanni; e la loro riconciliazione trovò per celebrarla l'eloquenza di S. Bernardo, fattosi allora pien di rispetto verso il titolo e le virtù del Re siciliano.

Ad espiare la sacrilega guerra contra il successor di S. Pietro intrapresa, Ruggero avea promesso di inalberare lo stendardo della Croce; nè fu lento nel compiere un voto che ai suoi interessi, e alle mire di sua vendetta si conformava. I recenti oltraggi che sofferti avea la Sicilia, lo sollecitavano a giuste rappresaglie sui Saracini; e i Normanni già unitisi di sangue con tante famiglie di quella antica parte di Grecia rimembrarono, e vogliosi si fecero d'imitare, le imprese marittime di quelli che erano divenuti i loro antenati; laonde nella maturità di lor forze lottarono contro la potenza affricana che allor declinava. Allorchè il Califfo Fatimita si partì per la conquista dell'Affrica, volle ricompensare il merito reale, e la fedeltà apparente di Giuseppe, uno de' suoi ufiziali [186] presentandolo del proprio regio manto, di quaranta cavalli arabi, del suo palagio colle pregiose suppellettili che vi si trovavano, e per ultimo del governo de' regni di Tunisi e di Algeri. I Zeiridi[265], discendenti di Giuseppe, dimenticando la sommessione e la gratitudine che a questo lontano benefattore dovevano, si erano impadroniti della suprema possanza, ed abusati del frutto di loro prosperità; già volgeano allo scadimento, dopo essersi mostrati, nè con abbagliante splendore, fra le dinastie d'Oriente. Oppressi per terra dagli Almoadi, principi fanatici di Marocco, vedeano le loro rive esposte alle correrie de' Greci e de' Franchi, che prima del finire dell'undicesimo secolo li sottoposero ad un tributo di dugentomila piastre d'oro. Le prime geste di Ruggero unirono alla Corona di Sicilia lo scoglio di Malta, che una colonia religiosa e militare in appresso illustrò; assalì indi Tripoli[266], piazza forte situata sulla costa, ove trucidati i maschi, ridusse le donne a schiavitù: ma fa d'uopo ricordarsi che spesse volte i Musulmani egualmente della vittoria abusarono. La capitale de' Zeiridi nomavasi Affrica, come il paese, detta però talvolta Mahadia[267], dal nome dell'Arabo che gettate ne aveva [187] le fondamenta: città forte e fabbricata sull'Istmo; ma la fertilità della circostante pianura all'imperfezione del porto è lieve compenso. Giorgio, ammiraglio di Sicilia assediò Mahadia con una squadra di cencinquanta galee, di soldati e di strumenti da guerra ben provvedute. Già il sovrano avea presa la fuga, e ricusato il Governatore moro di capitolare; ma temendo avventurarsi all'ultimo assalto, fuggì secretamente coi Musulmani abbandonando ai Franchi i tesori e la città. Il Re di Sicilia e i suoi luogotenenti soggiogarono in diverse spedizioni Tunisi, Saface, Capsia, Bona, e una lunga estensione di littorale[268]; vennero posti presidj nelle Fortezze, assoggettata a tributo la contrada, onde non mancò apparenza di verità all'adulazione, allor quando asserì che la spada di Ruggero teneva Affrica sotto il giogo[269]. Ma lui morto, questa spada si ruppe e sotto il tempestoso regno del suo successore, i possedimenti oltramarini della Sicilia[270], vennero trascurati, o abbandonati, [188] o perduti. I trionfi di Scipione e di Belisario, hanno dimostrato non essere nè inaccessibile nè invincibile l'Affrica; pur grandi principi della Cristianità che possono gloriarsi della rapidità di loro conquiste, e della loro dominazione sulla Spagna, nel volersi armar contra i Mori incagliarono.

A. D. 1146

Dopo la morte di Roberto Guiscardo, i Normanni dimenticarono per sessanta anni i lor divisamenti sull'Impero di Costantinopoli. L'accorto Ruggero sollecitò, appo i greci principi, alleanze politiche e domestiche, che meglio il suo titolo di Re rialzassero; e chiesta in nozze una donzella della famiglia Comnena, le prime negoziazioni un esito favorevole prometteano. Ma il disprezzo con cui vennero accolti gli ambasciatori di Sicilia in Costantinopoli, irritò la vanità di Ruggero, e, giusta le leggi delle nazioni, un popolo innocente portò la pena dell'alterigia della Corte di Bisanzo[271]. L'ammiraglio siciliano, Giorgio, passò dinanzi a Corfù con una squadra di settanta galere. Poco affezionati alla Corte che governavali, e istrutti dall'esperienza che un tributo è meno disastroso ancor d'un assedio, quegli abitanti, posero la capitale e l'isola intera nelle mani de' conquistatori. Durante siffatta invasione, non indifferente negli annali del commercio, i Normanni si diffusero sul Mediterraneo e sulle province della Grecia; nè la rispettabile [189] vetustà di Atene, di Tebe e di Corinto, oppose argine alla rapina, e alla crudeltà de' vincitori. Niun monumento della devastazione che Atene sofferse, è pervenuto insino a noi. I Latini scalarono le antiche mura, che ricigneano, senza difenderle, le ricchezze di Tebe, e i vincitori si ricordarono sol del Vangelo, per farlo mallevadore del giuramento a cui costrinsero i legittimi proprietarj di non avere sottratto alcun tesoro alla rapacità degl'invasori. All'avvicinar de' Normanni, la città bassa di Corinto rimase vota d'abitatori; i Greci si ripararono alla rocca, situata sopra un'eminenza, d'onde versava copiose le sue acque la fonte di Pirene, cotanto nota agli amatori dell'antica Letteratura; rocca invincibile, se i vantaggi dell'arte e della natura, la mancanza di valore potessero compensare. Gli assedianti non durarono altra fatica che inerpicarsi sulla collina: il loro generale, maravigliato egli medesimo della sua vittoria, ne manifestò al Cielo la propria gratitudine collo strappar dall'altare una immagine preziosa di S. Teodora, avvocata della Fortezza. La parte più preziosa del bottino si stette in fabbricatori di seta d'entrambi i sessi, che Ruggero nella Sicilia inviò; nella qual circostanza, instituendo confronto tra l'abile industria di quegli artigiani, e la dappocaggine de' suoi soldati, esclamò essere la rocca e il telaio le sole armi cui trattar sapessero i Greci. Due segnalati avvenimenti questa spedizione marittima contraddistinsero; la liberazione d'un Re di Francia, e l'insulto che a Costantinopoli i navigli Siciliani inferirono. I Greci avendo, contra tutte leggi di religione e d'onore, ritenuto prigioniero Luigi VII di ritorno dalla sua mal augurosa crociata, la flotta normanna lo incontrò, e toltolo [190] di mano a costoro, alla Corte di Sicilia onorevolmente il condusse, d'onde poi, passando per Roma, a Parigi si trasferì[272]. Essendo altrove l'Imperator greco, indifesi trovavansi nè si credeano in sicurezza Costantinopoli e l'Ellesponto. Le galee siciliane venute a gittar l'áncora dinanzi all'imperiale città, il clero e il popolo empierono di spavento: soldati non eranvi, per aver questi seguite le bandiere di Manuele. Certamente l'ammiraglio Siciliano non trovavasi in forze bastanti per assediare o prender d'assalto una sì grande metropoli: ebbe nulla meno la soddisfazione di umiliare la greca arroganza, e di additare ai navigli di occidente il cammino della vittoria. Sbarcata una parte di truppe che devastarono i giardini imperiali, armò di punte d'argento, o cosa più verisimile, di sostanze ardenti le frecce che contro il palagio de' Cesari vennero lanciate[273]. Manuele finse non curare [191] questo disadatto scherzo de' corsari della Sicilia, che un istante di sorpresa e di negligenza avea favorito; ma il suo coraggio e le sue forze, preste erano alla vendetta. Dalle squadre greche e veneziane coperti vidersi l'Arcipelago e il mar Ionio; nondimeno non so quanti legni da sbarco, quanti carichi di munizioni, quante lancio fosse d'uopo supporre, per adattare la ragion nostra, o anche i calcoli della nostra immaginazione, a quelli dello Storico di Bisanzo, che fa ascendere a mille e cinquecento il numero de' navigli messi in mare in tal circostanza. L'Imperatore, con molta saggezza e vigorìa, regolò questa impressa; onde l'ammiraglio Giorgio, costretto a ritirarsi, perdè diciannove galee, molte delle quali caddero in potere dell'inimico. Corfù, dopo essersi ostinatamente difesa, la clemenza del suo legittimo sovrano implorò, e d'allora in poi non vi fu tra i limiti del greco impero un naviglio, o un soldato del Principe siciliano, che prigioniero non divenisse. Declinavano del pari la fortuna e la salute di Ruggero, cui pervenivano, in fondo del suo palagio, alternativi messaggi di vittorie e sconfitte, intanto che l'invincibile Manuele, primo sempre alla pugna, venia riguardato dai Greci e dai Latini, come l'Alessandro, o l'Ercole del suo secolo.

A. D. 1155

Ad un principe di siffatta indole non potea bastare l'aver rispinto un barbaro ardimentoso. Il suo dovere e la cura di mantenere i proprj diritti, forse anche il suo interesse e la sua gloria, gli prescrivevano tornar in onore l'antica maestà dell'Impero; e ricuperando le province dell'Italia e della Sicilia, punire questo preteso Re, pronipote d'un vassallo [192] normanno[274]. I nativi della Calabria sempre affezionati mostravansi alla lingua e alla religione de' Greci, che il clero latino avea severamente abolite. Estinta la prima linea dei duchi della Puglia, il Re di Sicilia pretendea che, qual pertenenza di sua Corona, questa provincia si riguardasse; il fondatore della monarchia siciliana aveala retta coll'armi, e col morire di lui sminuì la tema de' suoi sudditi; i loro mali umori non si dileguarono. Il Governo feudale racchiudeva non pochi germi di ribellione, e un nipote di Ruggero chiamò, egli stesso, in Italia i nemici della sua famiglia e della sua patria. La dignità della porpora, e una sequela di guerre contra gli Ungaresi ed i Turchi avendo impedito a Manuele di condurre in persona la spedizione italiana, affidò al valoroso e nobile Paleologo la flotta e l'esercito dell'Impero. Questi fece sua prima impresa l'assedio di Bari, in ogni occasione giovatosi, e con buon sucesso così del ferro, come dell'oro. Salerno, e alcune città della costa occidentale, serbaronsi fedeli al Re normanno, che nondimeno, in due azioni campali, perdè la maggior parte delle terre possedute sul Continente; e il modesto imperatore de' Greci, disdegnando l'adulazione e la menzogna, si appagò di udir celebrata la riduzione di trecento città, o villaggi della Puglia o della Calabria, i cui nomi e titoli sovra ogni parete del palazzo [193] vennero impressi. Per servire alle pregiudicate opinioni dei Latini, venne ad essi mostrata una donazione, o vera, o falsa de' Cesari dell'Alemagna[275]; ma il successore di Costantino vergognando subitamente di un tale pretesto, fece valere i suoi diritti inalienabili sull'Italia, protestando voler confinati i Barbari di là dall'Alpi. Le città libere, incoraggiate dai seducenti discorsi, dalle liberalità, e dalle illimitate promesse di Manuele loro confederato, perseverarono in un generoso resistere contra il dispotismo di Federico Barbarossa: l'Imperatore di Bisanzo pagò le spese delle rifabbricate mura di Milano, e versò, dice uno Storico, fiumi d'oro nella città di Ancona confermata nel suo affetto ai Greci dal geloso odio che i Veneziani portavanle[276]. Il commercio di Ancona, e la giacitura posta nel cuor dell'Italia, la rendeano importante piazza, che le truppe di Federico assediarono per due volte, sempre respinte dal coraggio che dall'amor di libertà viene inspirato. Oltrechè, questo amore mantengano e gli ufizj dell'ambasciatore di Costantinopoli, e gli onori e le ricchezze di cui, come a fedelissimi amici, largiva la Corte di Bisanzo agli Anconitani più intrepidi e più [194] zelanti per la lor patria[277]. Manuele nell'orgoglio suo disdegnava un Barbaro per collega, e la sua ambizione era invigorita dalla speranza di togliere la porpora agli usurpatori dell'Alemagna, e di assodare in Occidente come in Oriente il suo legittimo titolo di solo imperator de' Romani. Fermo in tale divisamento, chiamò seco in lega il popolo e il vescovo di Roma. Molti Nobili le parti di lui abbracciarono. Le nozze di una sua nipote con Odono Frangipani, lo fecero sicuro dei soccorsi di questa potente famiglia[278]: l'antica metropoli dell'Impero accolse con rispetto gli stendardi e le immagini di Manuele[279]. Durante la querela tra Federico e Alessandro III, il Papa ricevè due volte in Vaticano gli ambasciatori di Costantinopoli: ed or venia lusingata la pietà del Pontefice col dimostrargli possibile l'unione delle due Chiese da così lungo tempo promessa, or eccitata la cupidigia della venale sua Corte; or esortavasi Alessandro III a vendicare le proprie ingiurie, e a profittare del favorevol momento per deprimere la feroce [195] tracotanza degli Alemanni, e riconoscere il vero successore di Costantino e di Augusto[280].

Ma queste conquiste in Italia, questo regno universale erano chimere che ben tosto svanirono. Le prime inchieste di Manuele fece vane la prudenza di Alessandro III, che calcolò le conseguenze d'un cambiamento così importante[281]; nè una disputa, sol personale, valse per indurre il Papa a spogliarsi del retaggio perpetuo del nome latino. Riconciliatosi una volta con Federico, più chiaramente si espresse; confermò gli atti de' suoi predecessori; scomunicò i partigiani dell'Imperator greco; la separazione definitiva delle due Chiese, o almeno degli Imperatori di Roma e di Costantinopoli, pronunziò[282]. Le città libere della Lombardia avendo prestamente dimenticato lo straniero loro benefattore, il monarca di Bisanzo si vide esposto all'odio de' Veneziani, nè l'amicizia di Ancona si conservò[283]. Fosse per principio di avarizia, [196] o così mosso dalle rimostranze de' sudditi, fece imprigionare i trafficanti veneziani e le cose lor confiscare; la qual violazione della fede pubblica, un popolo libero e dedito al commercio irritò. Cento galee allestite ed armate in tre mesi, tribolarono le coste della Dalmazia e della Grecia: ma dopo scambievoli perdite, la guerra fu terminata con un aggiustamento poco glorioso all'Impero, alla repubblica di Venezia poco piacevole: ai Veneziani della successiva generazione era serbato il vendicare compiutamente le antiche ingiurie che nuove ingiurie ancora aggravarono. Il luogotenente di Manuele avea fatto giungere alla sua Corte queste notizie, essere egli in forza bastantemente per estinguere le ribellioni della Puglia e della Calabria, ma non per resistere al Re di Sicilia, in procinto già d'assalirlo: predizione che non tardò a verificarsi. La morte di Paleologo fu cagione che si ripartisse il comando fra diversi Capi eguali tutti di grado, e tutti egualmente di militar sapere sforniti; vinti per terra e per mare i Greci, que' prigionieri che all'acciaro de' Normanni e de' Saracini poterono sottrarsi, abbiurarono ogni specie di ostilità contro la persona e gli Stati del lor vincitore[284]. Ciò nullameno il Re di Sicilia apprezzava [197] la perseveranza e il coraggio di Manuele, giunto a sbarcare un secondo esercito ai lidi d'Italia: onde indirigendo rispettose proposte al novello Giustiniano, sollecitò una pace, o una tregua di trent'anni, accettando, come favore, il titolo di Re, e vassallo militare dell'Impero Romano riconoscendosi[285]. I Cesari di Bisanzo a questo fantasma di dominazione si accomodarono, senza bramar forse mai l'opera de' Normanni, onde la tregua di trent'anni da alcun atto ostile fra la Sicilia e Costantinopoli non fu turbata. E stava per terminare la tregua, allorchè usurpò il trono di Manuele un barbaro tiranno, orrore del suo paese e del Mondo: un principe fuggitivo della famiglia Comnena armò in suo favore Guglielmo II, pronipote di Ruggero; e i sudditi di Andronico non vedendo nel lor padrone che un nemico pericolosissimo, accolsero, come amici, i Normanni. Gli Storici latini si diffondono raccontando[286] il rapido progresso de' quattro Conti che invasero la Romania, e molte castella e città al Re di Sicilia sommisero; i Greci[287] [198] narrano esagerando le crudeltà licenziose e sacrileghe commesse nel saccheggio di Tessalonica, seconda città dell'Impero. I primi deplorano la morte di que' guerrieri invincibili, e pieni di buona fede che per gli artifizj di un vinto nemico perderon la vita: celebrano con canto di trionfo i secondi le moltiplici vittorie de' lor concittadini e sul mar di Marmora o Propontide, e sulle rive dello Strimone, e sotto le mura di Durazzo. Un cambiamento politico che punì le colpe d'Andronico, unì contra i Franchi lo zelo e il coraggio dei Greci: e diecimila Normanni rimasero morti sul campo della battaglia, e di quattromila d'essi prigionieri potè valersi a grado della sua vanità, o della sua vendetta, Isacco l'Angelo, il nuovo imperatore. Tal fu l'esito dell'ultima guerra fra i Greci e i Normanni: venti anni dopo, le nazioni rivali erano sparite, o sotto straniero giogo gemeano, e i successori di Costantino non durarono assai lungo tempo per allegrarsi sulla caduta della monarchia siciliana.

A. D. 1054

Lo scettro di Ruggero passò successivamente nelle mani del figlio e del pronipote di lui, conosciuti entrambi col nome di Guglielmo, ma contraddistinti dai soprannomi opposti di Cattivo e di Buono; nondimeno questi due predicati che indicar sembrano i due estremi del vizio e della virtù, nè all'uno, nè [199] all'altro de' due principi convenevolmente si adattano. Allorchè il pericolo e la vergogna costrinsero il primo a ricorrere all'armi, non tralignò dal valore de' suoi maggiori: ma debole ne era l'indole, dissoluti i costumi, ostinate e funeste le passioni, ed ha avuto taccia presso la posterità, non solamente delle colpe sue personali, ma di quelle di Maio, suo Grande Ammiraglio, che abusò, prima della confidenza del suo benefattore, poi contra i giorni del medesimo cospirò. La Sicilia, dopo la conquista degli Arabi, molte tracce delle costumanze orientali offeriva; vi si trovava il dispotismo, la pompa e fino gli harem convenienti ad un Sultano; onde una nazion di Cristiani vedeasi oppressa e oltraggiata da eunuchi, che apertamente, o in segreto, professavano la religione di Maometto. Un eloquente storico di Sicilia[288] ha dipinti i costumi del suo paese[289], la caduta dell'ingrato Maio, [200] la ribellione e il gastigo de' suoi assassini, la prigionia e la liberazione del medesimo Re, le guerre particolari che partorirono i disordinamenti dello Stato, e le scene di calamità e di discordie che afflissero la Capitale, sotto il regno di Guglielmo I e la minorità di suo figlio. La giovinezza, l'innocenza e la beltà di Guglielmo II[290] amar lo fecero dalla nazione; le fazioni si riconciliarono, ripresero vigore le leggi, e dal punto in cui questo soave principe pervenne a virile età sino a quello della immatura sua morte, la Sicilia godè un breve intervallo di pace, di giustizia e di felicità, cose che ella apprezzò tanto più per la ricordanza delle passate calamità, e per tema delle future. Colla morte di Guglielmo II, si spense la posterità maschile legittima di Tancredi di Altavilla; ma la zia di Guglielmo, figlia di Ruggero, avea sposato il più possente principe del suo secolo; onde Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, scese le Alpi, pretendendo la Corona imperiale e il retaggio della moglie sua. Respinto dal voto unanime [201] di un popolo libero, sol colla forza potè ottenere l'intento. Mi è aggradevole il trascrivere i pensieri e le parole dello Storico Falcando, che sul luogo, e nell'istante degli avvenimenti, scrivea coll'anima di un vero amico della sua patria, e colla sagacità profetica d'un uomo di Stato. «Costanza, sin dalle fasce, educata nella copia delle tue delizie, o Sicilia, cresciuta colle tue istituzioni, colle tue dottrine, co' tuoi costumi, ti abbandonò per portare fra i Barbari i tuoi tesori: ed or fa ritorno con uno sciame di costoro per contaminare di barbarica laidezza i fregi della sua patria nutrice. Già mi sembra vedere le turbolente falangi de' nostri tiranni, empir di terrore, devastar colla strage, stremar colle rapine, deturpare colle dissolutezze queste doviziose città e questi paesi per lunga pace fiorenti. Vedo l'eccidio, o la cattività de' nostri cittadini, le nostre vergini e le nostre matrone in preda ai soldati[291]. In tale estremità (si fa quindi ad interrogare un amico) che operar debbono i Siciliani? l'elezione unanime di un re valoroso ed esperto può salvare ancora la Calabria e la Sicilia[292], perchè la leggierezza de' Pugliesi, [202] sempre avidi di politici cambiamenti, nè confidenza, nè speranza m'inspira[293]. Se noi perdiamo la Calabria, le alte torri, la numerosa gioventù e i navigli di Messina[294] basteranno per arrestare i masnadieri: ma se i Selvaggi della Germania si collegano coi messinesi pirati, se portano la fiamma in questa fertile regione, già spesso assai travagliata dalle lave dell'Etna[295], qual difesa rimane alle parti interne dell'Isola, a quelle belle città, che il piè nemico di un Barbaro non dovrebbe mai profanare[296]? Un tremuoto ha di bel nuovo rovesciata Catania, le antiche virtù di Siracusa languiscono nella solitudine e nella povertà[297]; ma Palermo ha conservato il suo ricco diadema, e le sue triplici mura racchiudono una moltitudine, di Cristiani e di Saracini, ardenti in difenderla. [203] Se le due nazioni, sollecite della comune lor sicurezza, si uniscono sotto un medesimo re, potranno far impeto sui Barbari con forze invincibili: ma se i Musulmani, stanchi di una lunga serie d'ingiustizie si ritirassero, e facessero sventolare lo stendardo della ribellione, se s'impadronissero de' castelli, delle montagne e della costa marittima, gli sciagurati Cristiani, esposti a doppio assalto, e quasi posti fra l'incude e il martello, costretti sarebbero a rassegnarsi ad inevitabile servitù[298].» A tale proposito non debbe omettersi di osservare essere un prete che antepone il suo paese alla sua religione, e che i Musulmani, co' quali cotest'uomo voleva una lega, erano ancora numerosi e potenti nella Sicilia.

Il Falcando vide compiersi la prima parte delle sue speranze, o almen de' suoi voti. I Siciliani con voce unanime, conferirono lo scettro a Tancredi, pronipote del primo Re, illegittimo di nascita, ma dotato di virtù civili e militari, che senza alcuna [204] macchia splendeano. Egli trascorse i quattro anni del suo regno sul confin della Puglia, ove l'esercito de' nemici fermò; e restituì agli Alemanni una prigioniera di sangue reale, la stessa Costanza, senza farle soffrire alcun cattivo trattamento, e senza pretendere riscatto; generosità che oltrepassava forse i limiti permessi dalla politica e dalla prudenza. Dopo la morte di Tancredi, la moglie e il figlio di lui, in tenera età, senza resistenza perdettero il trono. Enrico marciò vincitore da Capua a Palermo, e le vittorie di lui, l'equilibrio dell'Italia annientarono; laonde i Papi e le città libere, se avessero conosciuti i loro veri interessi, si sarebbero adoperati con tutti i modi spirituali e temporali, ad impedire la pericolosa unione del regno di Sicilia all'Impero d'Alemagna; ma quella accortezza del Vaticano, sì di frequente lodata, o accusata, in tal momento fu cieca o inoperosa; e se fosse vero che Celestino III, con un calcio buttò via dal capo di Enrico III, prostratosi dinanzi a lui, la Corona imperiale[299], un tale atto di impotente orgoglio, non avrebbe avuta altra conseguenza, che sciogliere lo stesso Imperatore da ogni riguardo di gratitudine, e farlo nemico alla Chiesa. I Genovesi che aveano in Sicilia una fattoria, al lor commercio vantaggiosissima, porsero orecchio alle proposte di Enrico, convalidate dalla promessa di un limitato guiderdone, e di una [205] pronta partenza[300]. I vascelli genovesi che comandavano lo stretto di Messina, apersero il porto di Palermo all'Imperatore; della cui amministrazione fu primo atto l'abolire i privilegi, e impadronirsi delle proprietà di questi imprudenti confederati. La discordia de' Cristiani e de' Musulmani, deluse l'ultimo voto che il Falcando avea concepito: perchè questi si battettero in seno della Capitale, nel qual fatto più migliaia di Maomettani perirono; quelli che si sottrassero alla morte, riparatisi nelle montagne, per trenta e più anni, turbarono la pace dell'Isola. Federico II trapiantò sessantamila Saracini a Nocera, Cantone della Puglia; e così egli, come Manfredo figlio di lui, nelle loro guerre contra la Chiesa Romana, adoperarono il vergognoso soccorso de' nemici di Cristo; per lo che questa colonia di Musulmani, conservò in mezzo all'Italia, la sua religione e i suoi costumi, sino al terminarsi del decimoterzo secolo, allorchè la vendetta e l'entusiasmo della casa di Angiò la distrusse[301]. La crudeltà e l'avarizia dell'Imperatore, oltrepassarono tutti i flagelli [206] che avea predetti il Falcando. L'avidità di questo Principe il trasse a violare le tombe dei Re, e a cercare per ogni banda i nascosti tesori del palagio e del regno. Oltre alle perle e ai diamanti, facili ad essere trasportati, sopra censessanta cavalli si caricarono l'oro e l'argento della Sicilia[302]. Il giovine Re, la madre di lui, le sorelle, i Nobili d'entrambi i sessi vennero separatamente imprigionati nelle Fortezze dell'Alpi, e al menomo sentore di ribellione, i prigionieri perdeano o la vita, o gli occhi, o gli organi della virilità. A tante sventure della sua patria fu commossa anche Costanza; e questa erede della schiatta de' Normanni, molti sforzi operò per frenare il dispotismo del marito, e per salvare il patrimonio del figlio suo, nato allor di recente di quell'Imperatore, e che fu nella successiva età sì famoso, sotto nome di Federico II. Dieci anni dopo questa politica vicissitudine, i Re di Francia, il ducato di Normandia alla lor Corona congiunsero; lo scettro degli antichi Duchi, per via di una pronipote di Guglielmo il Conquistatore, alla Casa dei Plantageneti pervenne; onde questi prodi Normanni, [207] che tanto numerosi trofei nella Francia, nell'Inghilterra, nella Irlanda, nella Puglia e nella Sicilia innalzarono, per le conseguenze della vittoria, o della servitù, si trovarono colle nazioni vinte confusi.

[208]

CAPITOLO LVII.

I Turchi Selgiucidi. Loro ribellione contra Mamud, conquistatore dell'Indostan. Togrul sottomette la Persia e protegge i Califfi. Romano, Imperatore debellato e fatto prigioniere da Alp-Arslan. Potenza e grandezza di Malek-Sà. Conquiste dell'Asia Minore e della Siria. Trista condizione cui Gerusalemme è ridotta. Pellegrinaggio al Santo Sepolcro.

Fa duopo che il leggitore, abbandonando le rive della Sicilia, si trasporti al di là del mar Caspio, in quelle contrade d'onde uscirono i Turchi o Turcomanni, contro de' quali la prima tra le Crociate venne intrapresa. L'Impero che questi fondato aveano nel sesto secolo sulle regioni della Scizia, da lungo tempo non era più; ma vivea tuttor celebre il loro nome fra i Greci e fra gli Orientali: e gli avanzi di cotesta nazione formavano diverse popolazioni independenti, formidabili per le lor forze, e diffuse in tutta l'estensione del Deserto, dalla Cina alle rive del Danubio e dell'Osso. La colonia ungarese facea parte della Repubblica europea; sui troni d'Asia altrettanti schiavi, e soldati di origine turca si stavano. Intanto che le lancie normanne soggiogavano la Sicilia e la Puglia, uno sciame di questi pastori del Settentrione, i reami della Persia inondava. I loro Principi, della stirpe di Selgiuk, innalzarono un saldo e possente Impero, che da Samarcanda ai confini della Grecia, e dell'Egitto [209] estendeasi, e i Turchi signoreggiarono l'Asia Minore assai prima che lo stendardo vincitore della luna ottomana sventolasse sulla cupola di S. Sofia.

A. D. 997-1028

Mamud il Gaznevida[303], che regnava nelle province orientali della Persia, dieci secoli dopo la nascita di Cristo, fra i maggiori principi della nazione turca vien collocato. Sebectagi, padre di lui, era lo schiavo dello schiavo dello schiavo del comandante de' Credenti, ma in questa genealogia di servitù, l'infimo grado era unicamente di titolo; poichè questo schiavo di uno schiavo di schiavo, governava con sovrana podestà la Transossiana e il Korasan, contrade solo in apparenza sottomesse al Califfo di Bagdad. Lo schiavo da cui dipendea Sebectagi era un ministro di Stato, un luogotenente dei Samanidi[304] che ribellandosi infranse i ceppi della [210] politica schiavitù, e il ridetto Sebectagi dopo avere effettivamente servito nella famiglia di questo ribelle, in premio del suo valore e della sua abilità, genero e successore del proprio padrone, Capo della città e della provincia di Gazna, divenne[305]. Perchè la dinastia de' Samanidi, a que' giorni affatto inclinando, fu sostenuta da prima, poi rovesciata dagli ambiziosi suoi servi, e in mezzo ai pubblici disordinamenti, la fortuna di Mamud si accrebbe ogni giorno. A pro di lui inventatosi il nome di Sultano[306], egli estese la sua dominazione dalla Transossiana ai dintorni d'Ispahan, e dalle rive del Caspio alla foce dell'Indo; ma la prima origine [211] della sua fama e delle sue ricchezze, gli derivò dalla santa guerra ch'ei mosse ai Gentù dell'Indostan. Basterebbe appena un volume a descrivere i combattimenti e gli assedj, che alle sue dodici spedizioni andarono uniti, e che, estranei al mio argomento, cercherò racchiudere in men d'una pagina. Nè inclemenza di stagioni, nè altezza di montagne, nè larghezza di fiumi, nè sterilità di deserti, nè copia di nemici, o formidabile apparecchio dei loro elefanti da guerra[307], arrestarono mai il cammino del Sultano di Gazna, che i suoi trionfi portarono oltre i limiti delle conquiste di Alessandro. Dopo una peregrinazione di tre mesi fra le colline di Cascemira e del Tibet, ei pervenne alla famosa città di Kinnoga[308] situata alle rive dell'alto Gange, e in una battaglia navale accaduta sopra un ramo dell'Indo, quattromila battelli carichi di nativi sconfisse. Dely, Lahor, e Multan costrette vidersi [212] ad aprirgli le porte. La conquista del regno di Guzarate, tentata avendo l'ambizione del vincitore, la fertilità poi del paese lo indusse a stanziarvisi, e per avarizia si lasciò adescare dal disegno di scoprire nell'Oceano Australe le isole produttrici dell'oro e degli aromi. I Raia conservarono, pagando un tributo, i loro dominj: il popolo ricomperò allo stesso prezzo la vita e la proprietà, ma lo zelante Musulmano si mostrò crudele e inesorabile verso la religion dei Gentù: si contano a centinaia i tempj e le pagode adeguate al suolo per ordine di costui, e a migliaia i simulacri d'idoli infranti, che, composti di materie preziose, furono eccitamento e premio ai fedeli seguaci del Corano. La pagoda di Sumnad trovavasi sul promontorio di Guzarate, nelle vicinanze di Diu, città compresa fra gli antichi possedimenti de' Portoghesi, e ad essi rimasta[309]. Ricca delle rendite di duemila villaggi questa pagoda, vi stavano duemila Bramini consacrati al servigio della divinità del paese, e questa lavavano mattina e sera con acqua attinta al Gange, benchè posta ad una distanza considerabile da quel paese; cotesti Bramini aveano sotto il loro comando trecento musici, trecento barbieri, e cinquecento danzatrici distinte per nascita o per avvenenza. Da tre bande l'Oceano difendea il tempio; e un precipizio o naturale, o scavato dall'opera umana, chiudea l'ingresso della stessa lingua di terra su di cui trovavasi collocato: una nazione di fanatici popolava la città e que' dintorni. I ministri del tempio, e i devoti, bandirono [213] essere state giustamente punite Kinnoga, e Dely: ma che i fulmini del cielo avrebbero sicuramente annichilato l'empio Mamud, se al tempio di Sumnad ardia avvicinarsi. Stimolato vie più da cotale disfida il religioso zelo del Sultano, si trasse a far prova delle sue forze contro quelle dell'indiana divinità. Cinquantamila adoratori di essa caddero sotto il ferro de' Musulmani; scalate le mura, profanato il Santuario, il vincitore percosse colla sua mazza ferrata il capo dell'idolo. Per salvarlo, gli spaventati Bramini offersero, dicesi, un valore equivalente a dieci milioni di lire sterline; e i più saggi fra i cortigiani di Mamud gli dimostravano che la distruzione di una statua di pietra non bastava a cambiare le menti dei Gentù, ma che una somma sì rilevante poteva essere adoperata a sollievo de' buoni seguaci di Maometto. «Le vostre ragioni, il Sultano rispondea, sono forti e speciose, ma non sarà mai che Mamud comparisca agli sguardi della posterità, come un uomo che ha patteggiato sugl'idoli». Addoppiò indi i colpi, e la molta copia di perle e rubini usciti dal ventre della statua, diede in qualche modo ragione delle prodighe offerte fatte da sacerdoti per riscattarla. I frantumi dell'idolo vennero spediti a Gazna, alla Mecca e a Medina. Bagdad udì con commozione l'edificante racconto di tale impresa, e il Califfo conferì a Mamud il titolo di guardiano della fortuna e della fede di Maometto.

Obbligatomi a queste sanguinolente discrizioni, di cui così sovente è composta la storia de' popoli, non posso negare a me stesso il distormene per raccogliere alcuni fiori di scienza e di virtù che in mezzo alle stragi ancor pullularono. Il nome di Mamud, il [214] Gaznevida, vien tuttavia profferito con rispetto nell'Oriente; perchè, avendo egli in appresso fatto godere giorni di prosperità e di pace a' suoi sudditi, quanto era di difettoso in lui il velo della religione coperse. Due esempli daranno a divedere la giustizia e la magnanimità di un tal principe.

I. Un giorno ch'ei presedeva al Divano, venne un infelice a' piedi del trono lamentando la violenta audacia di un turco guerriero, che violato avea e il talamo, e la casa del supplicante cacciandonel fuori. «Sospendete le vostre querele, a questo disse Mamud; e unicamente avvisatemi la prima volta che il colpevole ritorna in casa vostra, ond'io possa trasferirmi in persona a giudicarlo, e punirlo». Così avendo eseguito poco dopo l'offeso, il Sultano lo prese a sua guida, e fatte schierare intorno alla casa di lui le sue guardie, e ordinato che si spegnessero tutti i lumi, pronunziò decreto di morte contra colui che in atto di commettere violenza e adulterio era stato sorpreso. Compiuta la sentenza, vennero riaccese le fiaccole, e Mamud postosi in ginocchione si diede ad orare; poi terminata la preghiera chiese in fretta qualche alimento che, comunque grossolano, ei mangiò colla voracità d'un affamato. In mezzo ai sensi della gratitudine quel meschino, al quale era stata fatta giustizia, non potè celar quelli della sorpresa e della curiosità sopra una tanto singolare condotta. L'affabile Sultano non tardò molto a dargli spiegazione di tutto: «Io avea pur troppo ragione di credere che, ne' miei Stati, nessun altro fuor d'un mio figlio fosse capace di tale delitto. Ho fatto spegnere i lumi, affinchè la mia giustizia fosse inflessibile e cieca. Indi ho ringraziato il cielo, dopo avere scoperto chi [215] era il colpevole: e tali furono le mie angosce sin dall'istante in cui mi portaste querela, che da tre giorni io non avea preso cibo».

II. Il Sultano di Gazna avea bandita la guerra alla dinastia de' Bovidi, sovrani della Persia occidentale. Ivi allora governava, a nome d'un fanciullo, la sultana madre che accortamente così scrisse a Mamud: «Finchè è vissuto mio marito ho paventata la vostra ambizione; egli era un principe e un guerriero degno del vostro valore. Or più non vive, e lo scettro di lui è passato nelle mani di una donna e d'un fanciullo; voi non oserete assalire l'infanzia e la debolezza. Niuna gloria andrebbe unita alla vostra conquista, e vergognosissima sarebbe per voi una disfatta, giacchè, per ultimo, l'Onnipossente è solo arbitro delle vittorie.» Mamud sospese l'invasione sintanto che il giovine principe fosse a virilità pervenuto[310].

Un sol difetto, l'avarizia, oscurava il bel carattere di Mamud: nè altri più di lui giunse ad appagare questa passione. Gli Orientali oltrepassano perfino i limiti della verisimiglianza nel descriverne i tesori, facendoli ascendere a tanti milioni d'oro e d'argento quanti l'avidità umana non ne ha accumulati giammai, e a perle, diamanti e rubini, che di tal grossezza non ne produsse mai la natura[311]. Conviene ciò nonostante [216] considerare che il suolo dell'Indostan è pieno di miniere preziose; che in tutti i secoli il suo commercio vi ha portato l'oro e l'argento del rimanente del globo; che finalmente prima dei Maomettani, le sue ricchezze non erano state preda d'altri conquistatori. La condotta tenutasi da Mamud all'atto del suo morire, diè a divedere, nel modo il più segnalato, la vanità di tutti questi possedimenti, con tante fatiche acquistati, custoditi a prezzo di tanti pericoli, e che pur gli era inevitabile l'abbandonare. Dopo avere considerate le vaste sale che conteneano i tesori di Gazna, pianse a cald'occhi, e ne chiuse le porte, senza distribuire porzione alcuna di sì copiose ricchezze che non gli era più lecito il conservare. Alla domane passò in rassegna le sue forze militari, composte di centomila fantaccini, di cinquancinquemila uomini a cavallo, e di mille trecento elefanti da guerra[312]: indi versò nuove lagrime sulla instabilità delle umane grandezze. L'acerbità del suo dolore gli si accrebbe in udendo i progressi de' Turcomanni, per ordine da lui stesso introdotti nel cuore del suo reame di Persia, ove in quel momento avanzavano come nemici.

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A. D. 980-1028

Nello stato attuale di spopolazione a cui trovasi ridotta l'Asia, sol ne' dintorni delle città, gl'influssi regolari di un governo, e le tracce dell'agricoltura, si possono ravvisare; il rimanente del paese è abbandonato alle tribù pastorali degli Arabi, de' Curdi e de' Turcomanni[313]. Due bande considerabili di questi ultimi, ad entrambe le rive del mar Caspio hanno possedimenti; la colonia occidentale può mettere in armi quarantamila guerrieri; quella dell'Oriente, meno accessibile ai viaggiatori, ma più forte e più numerosa, di centomila famiglie all'incirca è composta. Circondate da nazioni venute a civiltà, i costumi dello scitico deserto conservano, cambiano di campi colle stagioni, fra le rovine de' palagi e dei templi mettono a pascolare le loro mandrie, sola ricchezza che s'abbiano. Le costoro tende, bianche o nere, giusta il colore dello stendardo, e di forma circolare, vanno coperte di feltro: una pelle di pecora è l'abito del verno di questi Barbari; nella state vestono panno o tessuti di bambagia: rozza e truce è la fisonomia degli uomini: mansueta e aggradevole quella delle donne. Una vita errante, il coraggio e le consuetudini militari in essi mantiene; combattono a cavallo, e moltiplicati litigi o fra loro, o co' vicini, li mettono spesso in circostanza di dimostrare il proprio valore. Comprano il diritto di pascolo, pagando un tenue tributo al Sovrano del paese; [218] ma la giurisdizione domestica ai Capi e ai vecchi appartiene. A quanto sembra la prima migrazione de' Turcomanni orientali[314], i più antichi di loro schiatta, accadde nel decimo secolo dell'Era Cristiana. Quando inclinava il poter de' Califfi, e poichè incominciarono a mostrarsi fievoli anche i loro capitani, il confine dell'Jaxarte fu spesse volte oltrepassato: dopo la ritirata, o la vittoria che seguiva ciascuna correria, diverse di esse tribù abbracciando la religione maomettana, otteneano il diritto di stanziarsi liberamente nelle spaziose pianure, e sotto il gradevole clima della Transossiana e di Karisma. Quegli schiavi turchi che aspiravano al trono, proteggeano tai migrazioni, che ingrossavano i loro eserciti, intimorivano i loro sudditi e i loro rivali, e difendeano la frontiera contra i nativi più selvaggi del Turkestan. Mamud il Gaznevida abusò di una tale politica anche più de' suoi predecessori; e il fece accorto di questa imprudenza un Capo della schiatta di Selgiuk che il territorio di Bocara abitava. Perchè avendo domandato a questo il Sultano quanti soldati avrebbe potuto somministrare: «Se voi lanciate, rispose Ismael, una di queste frecce nel nostro campo, cinquantamila de' vostri servi si metteranno a cavallo». — «E se un tal numero non mi [219] bastasse?» continuò Mamud, — «mandate questa seconda freccia alla banda di Balik, e avrete cinquantamila guerrieri di più». — «Ma..., soggiunse il Gaznevida dissimulando i proprj timori, se abbisognassi di tutte le forze delle vostre tribù collegate?» — «Allora, conchiuse Ismael, potreste mandare il mio arco; esso andrà attorno per le tribù, e dugentomila uomini a cavallo ubbidiranno ad un tale comando». Mamud spaventato di una sì formidabile colleganza, fece condurre le più pericolose fra coteste tribù nelle parli interne del Korasan, ove l'Osso dai lor compatriotti le disgiugnea; nel mettere la qual provvisione, ebbe inoltre l'avvertenza di far sì che le ridette tribù si trovassero per ogni banda circondate da città sottomesse. Ma l'aspetto del nuovo paese sedusse più assai di quello che spaventasse l'instituita colonia, e la lontananza, indi la morte di Mamud, indebolì il vigor del Governo per tenerla in freno. I pastori divennero scorridori; e le lor bande in un esercito di conquistatori si trasformarono; devastata la Persia fino alla città d'Ispahan, e alle rive del Tigri, i Turcomanni non ebbero nè tema, nè riguardi che li rattenessero dal cimentarsi co' più orgogliosi monarchi dell'Asia. Massud, figlio e successore di Mamud, avea troppo trascurati i consigli de' più saggi fra i suoi Omrà. «I vostri nemici, questi gli ripeterono di frequente, erano sul principio uno sciame di formiche, sono oggidì serpentelli: ma se non vi affrettate a schiacciarli, acquisteranno ben tosto il veleno de' rettili più spaventosi». Dopo diverse vicende di tregue, o di ostilità, di disastri, o buoni successi particolari ottenuti dai capitani di Massud, marciò questi in persona contra i Turcomanni, [220] che, d'ogni banda, disordinatamente e mandando terribili grida fecero impeto sopra di lui. Massud, narra lo Storico persiano[315], solo tuffossi in mezzo al torrente di quell'armi sfavillanti, per opporglisi con imprese di una forza, di un valor gigantesco, quali nessun monarca mai operò. Un picciol numero de' suoi amici, animati dalle sue parole, dalle sue azioni, e da quell'onore ingenito che inspirano i prodi, lo secondarono sì, che per ogni dove ei portava la tremenda sua spada, i Barbari mietuti o atterriti da quell'invincibile braccio, quai mordeano la polvere, quai si ritiravano dinanzi a lui. Ma nel momento che l'aura della vittoria parea gonfiasse la sua bandiera, gli soffiava il disastro alle spalle. Si guardò attorno, e vide tutto il suo esercito, eccetto il corpo ch'ei comandava in persona, divorare i sentieri della fuga. Il Gaznevida si trovò abbandonato dalla viltà o dalla perfidia di alcuni generali d'origine turca; e fu la memorabile giornata di Zendekan[316], che la dinastia de' Re pastori[317] nella Persia fondò.

[221] I Turcomanni vincitori procedettero immantinente ad eleggersi un Re; e se dobbiamo prestar fede al racconto assai verisimile d'uno storico latino[318], la sorte sola decise della scelta del loro nuovo padrone. Sopra un certo numero di frecce, vennero scritti i nomi delle diverse tribù; indi dal fascio delle frecce medesime un fanciullo ne trasse una; sopra altre frecce si scrissero indi i nomi di tutte le famiglie della tribù favorita dalla sorte, e collo stesso metodo si sperimentò qual fosse tra queste famiglie quella da preferirsi. Furono parimente scritti sopra altrettante frecce i nomi degl'individui della famiglia fortunata, e rinovando egual prova, la Corona venne a porsi sul capo di Togrul-Beg, figliuolo di Michele, e pronipote di Selgiuk, il cui nome divenne immortale per la grandezza a cui son saliti i suoi posteri. In altri tempi, il Sultano Mamud, versatissimo nella genealogia delle famiglie, erasi espresso di non conoscere quella di Selgiuk; benchè molte apparenze diano a credere che questo Capo di tribù, godesse di molta fama e possanza[319]. Selgiuk era [222] stato bandito dal Turkestan per avere osato introdursi nello harem del suo Principe. Dopo avere passato il fiume Jaxarte, condottiero di una tribù numerosa di amici e vassalli, ne' dintorni di Samarcanda pose il suo campo; ed avendo abbracciata la religione di Maometto, ottenne, in una guerra mossa agl'Infedeli, la corona di martire, che giunto era al centesimosettimo anno dell'età sua. Molto tempo prima, essendogli morto il figlio Michele, avea presa cura de' suoi due pronipoti, Togrul e Giaafar: il primo de' quali, maggior d'anni, avea già compiuti i quarantacinque, allorquando nella reale città di Nisabur ricevette il titolo di Sultano. Il cieco decreto della sorte le virtù di cotest'uomo giustificarono. Superflua cosa sarebbe l'esaltare il valore di un Turco; ma l'ambizione di lui il suo valor pareggiava[320]. Scacciò i Gaznevidi dall'oriente della Persia, e andando in traccia di una più ubertosa contrada, e di un clima più mite, li spinse a mano a mano insino alle rive dell'Indo. Impose termine alla dinastia de' Bovidi nell'Occidente, nella quale [223] circostanza lo scettro d'Irak passò dalle mani dei Persiani in quelle de' Turchi. I Principi che avean fatta prova, o temeano farla, de' dardi dei Selgiucidi, nella polve si prosternarono. In questo mezzo, Togrul avendo conquistato l'Aderbigian, ossia la Media, alle frontiere romane si avvicinò; e il pastore osò chiedere, per via di un ambasciatore, o d'un araldo, obbedienza e tributo all'Imperatore di Costantinopoli[321]. Togrul ne' suoi Stati, il padre de' soldati e del popolo dimostravasi; mercè di una ferma e imparziale amministrazione, ristorò in Persia i mali dell'anarchia, e quelle sue mani che prima nel sangue s'immersero, l'equità e la pace pubblica tutelarono. I più rozzi, forse i più savj fra i Turcomanni[322], continuarono a vivere sotto le tende de' loro maggiori: le quali colonie militari, protette dal principe si dilatarono dall'Osso all'Eufrate. Ma i Turchi della Corte e della città, trattando i negozj s'ingentilirono, e in mezzo ai piaceri, la mollezza li soggiogò; presero le vesti, l'idioma e i costumi persiani, e i palagi di Nisabur e di Rey, assunsero le forme e la magnificenza addicevoli ad una grande [224] monarchia. I più meritevoli fra gli Arabi e i Persiani agli onori dello Stato pervennero, e l'intero corpo della nazione de' Turchi abbracciò fervorosamente e sinceramente la religione di Maometto. Da ciò è derivata l'eterna nimistà onde rimasero disgiunti que' Barbari del Settentrione che innondarono l'Europa da quelli che dell'Asia s'impadronirono. Così fra i Musulmani, come fra i Cristiani, le tradizioni vaghe e locali cedettero alla ragione, e all'autorità di un sistema di religione dominante, all'antica fama che questo erasi acquistata, ad un consenso generale de' popoli; ma tanto più puro si fu il trionfo del Corano, che il culto prescritto da esso nulla avea di quella esterna pompa, cotanto atta a sedurre i Pagani per una specie di somiglianza coll'idolatria[323]. Il primo fra i Sultani Selgiucidi per sua fede e zelo si segnalò: ei facea ogni giorno le cinque preghiere imposte ai Musulmani; consacrava i due primi giorni della settimana con un particolare digiuno, e in ciascuna città innalzava una moschea, prima che gli venisse l'idea di mettere le fondamenta di un palagio[324].

Nel sottomettersi alla religione del Corano, il figliuolo di Selgiuk concepì alta venerazione verso [225] il successor del Profeta (A. D. 1055); ma i Califfi di Bagdad e dell'Egitto, rivali fra loro, e continui nel disputarsi l'uno all'altro questo sublime titolo di dignità, non ometteano cure per dimostrare, ciascuno per parte propria, la ragionevolezza delle sue pretensioni, a questi Barbari, ignoranti al pari che poderosi. Mamud il Gaznevida, che spiegato erasi favorevole alla discendenza di Abbas, avea ricusata con disprezzo la veste d'onore, presentatagli da un ambasciator fatimita. Ciò nulla meno l'ingrato Asemita, cambiando di stile colla fortuna, fe' plauso alla vittoria di Zendekan, acclamando suo vicario temporale nel Mondo musulmano il Sultano Selgiucida; della quale carica Togrul adempiè e dilatò il ministero. Chiamato alla liberazione del Califfo Cayem, obbedì volonteroso a questi santi comandi, che un nuovo regno offerivangli da conquistare[325]. Il Comandante de' credenti, ombra vana di quanto un dì furono i suoi predecessori, pur tuttavia rispettato, nel suo palagio di Bagdad sonnecchiava. Il Principe de' Bovidi, suo servo, o per dir meglio padrone, non avendo nè manco la forza di proteggerlo, contro l'audacia di secondarj tiranni; la ribellione degli Emiri turchi ed arabi, desolava le rive dell'Eufrate e del Tigri. La presenza pertanto di un conquistatore veniva invocata, siccome un dono del Cielo; e la strage, e gli incendj, passeggieri danni, erano riguardati come rimedj amari sì, ma necessarj, e solo capaci di ristorare la cosa pubblica. Il Sultano di Persia partitosi quindi da Hamadan a capo di un [226] invincibile esercito, sterminò i superbi, fece grazia a coloro che gli si prostrarono innanzi: il Principe de' Bovidi sparì: le teste de' più ostinati ribelli vennero portate a' piedi di Togrul, che diede così una lezione di ubbidienza alle popolazioni di Mosul e di Bagdad. Dopo avere puniti i colpevoli, e ritornata la pace, questo illustre pastore ricevè il guiderdone di sue fatiche, intanto che una pomposa commedia rappresentava il trionfo della superstizione sulla forza de' Barbari[326]. Il Sultano turco, imbarcatosi sul Tigri, approdò alla porta di Racca, ove fece il suo ingresso pubblico a cavallo. Giunto alla porta del palagio, scese rispettosamente, e camminò a piedi, preceduto dai suoi Emiri disarmati. Il Califfo, dietro ad un velo nero, stava seduto, portando sulle spalle il mantello nero degli Abbassidi, e reggendo colla mano la verga dell'Appostolo di Dio. Il vincitor dell'Oriente baciò la terra, e si tenne per qualche tempo in una modesta postura, fintanto che il Visir e un interprete, lo condussero in vicinanza del trono. Sedè egli medesimo sopra un trono prossimo a quel del Califfo; e allor fu letto pubblicamente il chirografo che lo chiariva luogotenente temporale del Vicario del Profeta. Decorato indi delle sette vesti d'onore, gli furono presentati sette schiavi nati ne' sette climi dell'arabo Impero. Profumatogli il velo mistico d'ambra, gli vennero, siccome emblema della sua dominazione [227] sopra l'Oriente e l'Occidente, collocate due corone sul capo, e cinte al fianco due scimitarre. Dopo la quale inaugurazione, il Sultano, cui venne impedito il prostrarsi nuovamente, baciò due volte le mani al Califfo: indi gli Araldi, fra le acclamazioni de' Musulmani, i titoli ne promulgarono. In un secondo viaggio che il Principe Selgiucida imprese a Bagdad, strappò di bel nuovo dalle mani de' suoi nemici il Califfo, e il condusse devotamente dalla prigione al palagio, camminando a piedi e tenendo ei medesimo la briglia della mula pontificale: e tal loro lega venne consolidata dalle nozze di una sorella di Togrul con Kaiem. Però questo successore del Profeta, che non fu schifo di dar luogo nel suo harem ad una vergine turca, ricusò superbamente la propria figlia al Sultano, disdegnando mescolare il sangue degli Asemiti, col sangue di un pastor della Scizia; ed allontanò per più mesi una tale negoziazione, sin tanto che le sue rendite, a mano, a mano, venute a stremo, gli fecero comprendere che sotto il dominio d'un padrone ei viveva. L'anno in cui Togrul sposò la figlia di Kaiem, fu parimente quello nel quale morì[327]; nè lasciando esso posterità, gli succedè ne' titoli e nelle prerogative il nipote Alp-Arslan; onde i Musulmani nelle pubbliche loro preghiere, dopo il nome del Califfo quello d'Arslan pronunziarono. Ciò nullameno [228] un tal cambiamento politico, la libertà e la possanza degli Abbassidi aumentò. Perchè i Sovrani turchi, posti sul trono d'Asia, men gelosi mostraronsi dell'amministrazione domestica di Bagdad, e i Califfi si trovarono sciolti dalle vessazioni ignominiose cui la presenza e la povertà dei Re persiani li sommettea.

I Saracini, divisi fra loro, e inviliti sotto il governo di deboli Califfi, rispettavano le province asiatiche del Romano impero, che le vittorie di Niceforo, di Zimiscè, di Basilio aveano estese sino ad Antiochia e ai confini orientali dell'Armenia. Venticinque anni dopo la morte di Basilio, l'Imperatore greco videsi assalito da una banda sconosciuta di Barbari, che al valore scitico univano il fanatismo de' novelli convertiti, e l'arti e le ricchezze di una possente monarchia[328]. Miriadi di Turchi a cavallo copersero una frontiera di seicento miglia, da Tauride ad Erzerum; e centrentamila Cristiani, ad onore del Profeta arabo vennero trucidati; ma l'armi di Togrul non fecero nè lunga, nè profonda impressione sul greco Impero; e il torrente dell'invasione dal paese aperto si allontanò. Il Sultano fece le sue prove, ma senza onore, o almeno senza buon successo, assediando [229] una città dell'Armenia; e le diverse vicende della fortuna, ora interruppero, or rinovarono oscure ostilità; e solamente la prodezza delle legioni macedoni rammentò la gloria del vincitore dell'Asia[329]. Il nome di Alp-Arslan, che equivale a generoso lione, esprime, giusta le comuni idee, il carattere in cui stassi la perfezione dell'uomo; e veramente il successore di Togrul diè a divedere la coraggiosa alterezza e la nobiltà di questo sovrano degli animali. Dopo avere passato l'Eufrate a capo della cavalleria turca, entrò in Cesarea, metropoli della Cappadocia, ove tratto aveanlo la fama e la ricchezza del tempio di San Basilio. Ma la saldezza di quell'edifizio a' suoi divisamenti di distruzione si oppose; nè potè di più che trasportar seco le porte del Santuario incrostate d'oro e di perle, e profanar le reliquie di quel Santo, i cui trascorsi umani la veneranda polve dell'antichità aveva coperti. Alp-Arslan mise a termine la conquista dell'Armenia e della Georgia. Già la monarchia armena, non men del coraggio degli abitanti, al nulla era ridotta; e truppe mercenarie venute da Costantinopoli, e infidi stranieri, e veterani privi d'armi e di stipendj, e soldati novizj, inesperti e indisciplinati [230] del pari, cedettero con viltà le piazze alla lor difesa commesse.

Non si pensò più d'un giorno alla perdita di una sì importante frontiera, perchè i Cattolici nè sorpresi, nè afflitti furono, in veggendo un popolo tanto infetto degli errori di Nestorio e di Eutichio, che Cristo e la Madre sua abbandonavano nelle mani degl'Infedeli[330][331]. Con maggior costanza i nativi della Georgia[332], o gl'Ibernj, nelle foreste e nelle valli del monte Caucaso si mantennero; ma Arslan, e Malek [231] figlio di Arslan, instancabili si mostrarono in tal guerra religiosa, ove pretendeano dai lor prigionieri un'obbedienza spirituale e temporale; e quelli che voleano rimanere fedeli al culto dei lor maggiori, vennero costretti a portare, invece di collane e smaniglie, un ferro da cavallo, qual marchio della loro ignominia. Pure non fu nè sincera, nè universale la conversione de' vinti; e ad onta de' trascorsi secoli di servitù, i Georgiani hanno conservata la serie dei loro Principi e de' loro Vescovi. Ma l'ignoranza, la povertà e la corruttela giungono facilmente a pervertire una schiatta d'uomini, che la natura delle più perfette forme dotò. Non è che di nome la professione loro del Cristianesimo, e soprattutto la pratica del serbato culto; e se liberati sonosi dall'eresia, lo debbono alla somma loro ignoranza che impedisce ad essi il ricordarsi dogmi metafisici quali che sieno[333].

A. D. 1068-1071

Alp-Arslan, lungi dall'imitare la grandezza d'animo reale, od ostentata di Mamud il Gaznevida, non ebbe scrupolo di far la guerra all'Imperatrice Eudossia e ai figli della medesima. Il terrore de' buoni successi che egli ottenea, costrinse questa sovrana a dar la mano e lo scettro ad un soldato; onde Romano Diogene della porpora imperiale venne insignito. Trasportato questi da zelo di patria, e forse anche da orgoglio, uscì fuori di Costantinopoli; due mesi dopo il suo avvenimento al trono; e al successivo anno, [232] nel durar delle feste di Pasqua, con grande scandalo della popolazione, si mise in campo. Entro la reggia, Romano si contentava di essere il marito di Eudossia; ma a capo dell'esercito ei si mostrava l'Imperator d'Oriente, e benchè fornito di pochi modi per far la guerra, con invincibile coraggio il suo carattere sostenea. Cotanto valore e veri buoni successi e solerzia ne' soldati, e speranza ne' sudditi, e spavento negli inimici destarono. Benchè i Turchi fossero già penetrati nel cuor della Frigia, il Sultano aveva abbandonata ai suoi Emiri la condotta della guerra; e le numerose loro falangi dilatate eransi per l'Asia, colla fiducia che la vittoria suole ispirare. Ma i Greci sorpresero e battettero spartatamente questi corpi di truppa carichi di bottino, e ad ogni subordinazione stranieri. Pieno di sollecitudine l'Imperatore, accorreva qua e là, sicchè pareva ne' diversi luoghi moltiplicarsi, e intanto che il nemico udiva le notizie de' proprj trionfi presso le mura di Antiochia, sconfitto venia da Romano sulle colline di Trebisonda. I Turchi, dopo tre disastrose stagioni campali, respinti vidersi al di là dell'Eufrate; e in una quarta, Romano, la liberazione dell'Armenia intraprese. Ma sì devastato erane il territorio, che fu costretto a trasportarsi con sè viveri per due mesi, e andò a stringere d'assedio Malazkerd[334], fortezza rilevante, situata fra le moderne città di Erzerum e di Van. [233] A centomila uomini già sommava il suo esercito. Le truppe di Costantinopoli erano rinforzate dalle copiose, ma disordinate soldatesche della Frigia e della Cappadocia; onde il vero nerbo dell'esercito de' Cristiani formavano i sudditi e confederati dell'Europa, le legioni della Macedonia, le bande della Bulgaria, gli Uzj, Tribù moldava di schiatta turca[335], e soprattutto le mercenarie brigate de' Normanni e dei Franchi. Il prode Ursel di Bailleul, confederato, indi ceppo de' re scozzesi[336] comandava a questi ultimi, che aveano fama di essere eccellenti nell'armi, o, giusta l'esprimersi de' Greci, nella danza pirrica.

Al ricevere la notizia di questa ardita invasione che i dominj ereditari suoi minacciava, Alp-Arslan, condottiero di quarantamila uomini, sul teatro della [234] guerra sollecitamente si trasferì[337]; ove con rapide e perite fazioni, l'esercito greco, benchè superiore di numero, pose in iscompiglio e atterrì. La sconfitta di Basilacio, uno fra i primarj generali greci, si fu la prima occasione in cui Alp-Arslan diede prova di moderazione e valore ad un tempo. Dopo la presa di Malazkerd, avendo Romano disgiunte incautamente le proprie forze, volle indarno richiamare i Franchi mercenarj presso di sè; costoro gli ordini di lui trasgredirono, nè l'alterezza dell'Imperator greco permetteagli aspettare che ritornassero. Ma la diffalta degli Uzj avendogli empiuto l'anima d'inquietudini e di sospetti, contro l'avviso de' più saggi, affrettossi a venire a decisiva battaglia. S'ei porgeva orecchio ai partiti ragionevoli fattigli dal Sultano, poteva tuttavia assicurarsi una ritirata, e fors'anco la pace. Ma Romano non vedendo in essi che il timore, o la debolezza dell'inimico, con tuono d'insulto, e di minaccia rispose. «Se il Barbaro brama la pace, abbandoni a noi il terreno su cui si trova, e quale ostaggio di sua buona fede, ne consegni la città e il palagio di Rey». Su questo eccesso di vanità sorrise Arslan, ma deplorò ad un tempo le ulteriori stragi cui vedeva esposto un tanto numero di fedeli suoi Musulmani, a tal che, dopo una fervorosa preghiera, [235] notificò all'esercito essere permesso a chiunque era stanco di combattere il ritirarsi. Rialzò di sua mano i crini della coda del suo cavallo; cambiò l'arco e le frecce in una mazza e in una scimitarra, vestì abito bianco, e si profumò di muschio, pubblicando che se rimanea vinto, il luogo ove trovavasi sarebbe stato quello del suo sepolcro[338]. Ma, a malgrado di avere ostentato questo abbandono delle sue frecce, ei ponea la fiducia della vittoria ne' dardi della cavalleria turca, i cui squadroni in forma di mezza luna aveva ordinati. Romano invece di distribuire le sue soldatesche in linee successive e corpi di riserva, giusta le leggi dell'arte militare de' Greci, le unì in rinserrata battaglia, precipitandosi vigorosamente sopra de' Turchi, i quali se a tale impeto resistettero, il dovettero all'agilità del loro difendersi. La maggior parte di una giornata estiva, in questo inutile combattimento venne adoprata, sintanto che la prudenza e la stanchezza persuasero il Greco a raggiungere il proprio campo. Ma pericolosa è sempre una ritirata alla presenza d'un nemico sollecito a profittar degli istanti; oltrechè, nel momento che indietreggiavano gli stendardi, si ruppe la falange, per codardia, o per gelosia, più vile ancora, di Andronico, principe rivale di Romano, e che il sangue e la porpora de' Cesari disonorava[339]. In tal momento di confusione e d'infiacchimento [236] de' Greci, furono questi oppressi da un nembo di frecce lanciate dagli squadroni turchi, che producendo le punte della lor formidabile mezza luna, la chiusero alle spalle degl'inimici. Fatto in pezzi l'esercito di Romano, il campo di lui fu saccheggiato. Sarebbe stata vana cura il volere indicare il numero de' morti e de' prigionieri. Gli Storici bisantini sospirano una perla d'inestimabile prezzo che andò perduta; e dimenticano dirne che quella fatale giornata tolse per sempre le sue province d'Asia all'Impero.

Fintanto che rimase qualche speranza, Romano non omise prove per riordinare e salvare gli avanzi delle sue truppe, e comunque il centro, ov'ei combattea fosse aperto da tutte le bande, e circondato dai Turchi vincitori, sino al tramontar del sole pugnò col coraggio della disperazione, a capo di quei prodi che al suo stendardo si conservarono fedeli. Ma tutti caddero attorno di lui; il suo cavallo fu ucciso, ferito egli stesso; pure, in tale stato e solo, intrepido si difese finchè oppresso dal numero non fu più padrone di moversi. Uno schiavo e un soldato si disputarono la gloria di farlo prigioniero; il primo d'essi lo avea veduto sul trono di Costantinopoli: il soldato di deformissima figura, era stato [237] ammesso nell'esercito, a sola condizione di operare atti di straordinaria valore. Romano spogliato dell'armi sue, delle sue gemme, e della porpora, passò sul campo di battaglia la notte, solo, esposto a gravissimi rischi, in mezzo alla ciurma degl'infimi soldati; allo schiarire del giorno venne condotto innanzi al Sultano, che alla propria buona sorte non volle credere, sintanto che i suoi ambasciatori non ebbero ravvisato Romano nel prigioniero; e convenne ancora che la testimonianza loro fosse confermata dal cordoglio di Basilacio che baciò, versando dirotte lagrime, le piante al suo sfortunato monarca. Il successore di Costantino, vestito come un uomo del volgo, fu trasportato al divano, ove intimato vennegli di baciar la terra al cospetto del dominatore dell'Asia. Avendo egli obbedito con repugnanza, dicesi che il Sultano si lanciò dal trono, presto a porre un piede sul collo al vinto imperatore[340]; ma dubbioso è il fatto, e quand'anche fosse vero che nell'ebbrezza della vittoria Alp-Arslan si fosse uniformato ad una costumanza della sua nazione, la condotta ch'egli tenne da poi, costrinse i più fanatici tra i Greci ad encomiarlo, e può additarsi qual modello ai secoli più ingentiliti. Sollevò immantinente da terra il principe prigioniero, e stringendogli per tre volte, in atto di tenerezza, la mano, gli promise di non operare veruna cosa nè contro i giorni, nè contro la dignità del medesimo; aggiugnendo che egli, Arslan, avea imparato a rispettare [238] la maestà de' suoi pari, e le vicissitudini della fortuna. Fatto indi condurre Romano in una tenda vicina, gli ufiziali stessi del Sultano il servivano onorevolmente, e con rispetto; alla mensa del mattino e della sera il posto dovuto alla sua dignità gli assegnavano. Per otto giorni, seco intertennesi in famigliari colloqui il vincitore, astenendosi dal menomo accento, dalla menoma occhiata che l'animo di lui potesse trafiggere. Ben censurò acerbamente la condotta degl'indegni sudditi di Romano, che, nell'istante del pericolo, il valoroso lor principe aveano abbandonato, e avvertì pur con dolcezza il suo antagonista di alcuni abbagli commessi da questo nel regolare la guerra. Venutosi a ragionare sui preliminari della negoziazione, Arslan chiese all'Imperatore a qual trattamento ei s'aspettasse. Questi gli rispose con tale tranquilla indifferenza che palesò, come la libertà del suo spirito conservasse. «Se siete crudele, gli disse, mi toglierete la vita: se date retta alle suggestioni dell'orgoglio mi trascinerete dietro al vostro carro: ma se consultate i vostri veri interessi, accetterete un riscatto, e mi restituirete alla mia patria. — Però, proseguì il Sultano; come mi avreste trattato, se il destin della guerra vi fosse stato propizio»? La risposta datasi dal Principe greco, mostrò l'impulso d'un sentimento, che per vero dire, la prudenza ed anche la gratitudine dovean consigliargli a tenere celato. «Se ti avessi vinto, ei ferocemente rispose, t'avrei fatto opprimere a furia di battiture». Per tale arroganza del prigioniero, il vincitore sorrise, pago di rimostrargli che veramente la legge dei Cristiani raccomandava l'amore, sin verso i nemici, e il perdono delle [239] ingiurie sofferte. «Nondimeno, ei nobilmente soggiunse, non seguirò un esempio che disapprovo». Arslan, dopo maturo pensamento, le condizioni della pace e della libertà dell'Imperatore dettò; e queste furono il riscatto di un milione di piastre d'oro; un tributo annuale di trecento sessantamila[341]; le nozze tra i figli de' due principi; la libertà di tutti i Musulmani caduti in potere de' Greci. Dopo che Romano ebbe sottoscritto, non senza sospirare, un negoziato sì vergognoso per l'Impero, venne rivestito di un caffetan d'onore: i suoi nobili e patrizj gli furono restituiti; e Arslan dopo averlo affettuosamente abbracciato, lo rimandò con ricchi donativi, e scortato da una guardia militare d'onore. Ma Romano, giunto ai confini dell'Impero, intese che la Corte imperiale e le province, credute eransi sciolte dal lor giuramento di fedeltà verso un sovrano prigioniero; onde a stento potè raccogliere dugentomila piastre d'oro, e spedire questa parte di suo riscatto al vincitore, confessandogli tristemente la propria impotenza, e il disastro che lo incalzava. Il Sultano mosso da generosità, e probabilmente ancor da ambizione, fece causa propria quella dell'infelice confederato: ma la sconfitta, l'imprigionamento, e la morte di Romano Diogene impedirono che i divisamenti di Arslan fossero mandati ad effetto[342].

[240]

A. D. 1072

Nel negoziato di pace che fra Romano e Alp-Arslan fu pattuito, non sembra essere stata compresa alcuna obbligazione imposta al prigioniero di rinunziare province, o città; le spoglie della Natolia, e i trofei della riportata vittoria che da Antiochia al mar Nero estendevansi, bastarono alla vendetta del vincitore. La più bella parte dell'Asia alle sue leggi obbedendo, mille dugento principi, o figli di principi ne circondavano il trono, e dugentomila soldati sotto lo stendardo del fortunato Arslan militavano. Disdegnando perfino inseguire i Greci fuggiaschi, volse immediatamente i suoi pensieri alla più gloriosa conquista del Turkestan, culla della Casa dei Selgiucidi. Trasferitosi da Bagdad alle rive dell'Osso, si gettò un ponte sul fiume, che a poter valicare men di venti giornate non vollersi. Ma il governatore di Berzem, Giuseppe il Carizmio, arrestò i progressi del vincitore, osando difendere la sua città contra le forze dell'intero Oriente. Caduto prigioniero, ei venne entro la regal tenda condotto, ove il Sultano, anzichè lodare il valore del vinto, di una stolta ostinatezza lo rampognò; e irritato dalle audaci risposte che facevagli Giuseppe, ordinò fosse attaccato [241] a quattro pali, e lasciato morire in questa postura sì miserabile. Spinto allora alla disperazione il Carizmio, trasse il pugnale, impetuosamente insino al trono lanciandosi; le guardie sollevarono le loro azze da guerra; e si fece a moderare il loro zelo Arslan, il migliore arciere della sua età, che tosto scoccò il proprio arco; ma essendogli mancato un piede, la freccia scalfì soltanto il fianco del prigioniero, che giunse ad immergere il suo pugnale in petto al Sultano. Ben trucidato fu il feritore, ma la ferita era stata mortale, onde il Principe turco pervenuto agli estremi di sua vita, tramandò questa lezione all'orgoglio dei re: «Nella mia giovinezza un saggio mi consigliò umiliarmi dinanzi a Dio, diffidare delle mie forze, rispettar sempre, comunque spregevole appaia, un nemico. Ho trascurati siffatti avvisi, e me ne trovo giustamente punito. Allorchè ieri, dall'alto del mio trono, io contemplava il buon ordine, il coraggio, la disciplina delle numerose mie squadre, sembrava che la Terra tremasse sotto i miei piedi, ed io diceva a me stesso. — Tu sei, non v'ha dubbio, il Re dell'Universo, il più grande, il più invincibile de' guerrieri. — Queste falangi han finito di appartenermi, e per essermi troppo affidato alla forza mia personale, muoio sotto i colpi di un masnadiero[343]». Alp Arslan possedea le virtù d'un Turco e d'un Musulmano; fornito di voce e statura [242] che il rispetto inspiravano, lunghi mustacchi ne ombravano una parte del volto, e il largo suo turbante a guisa di corona se gli adattava sul capo. Le mortali spoglie di esso vennero deposte nella tomba della dinastia de' Selgiucidi, come la seguente bella iscrizione additavalo[344]. O voi, stati spettatori della gloria di Alp-Arslan sollevatasi sino ai cieli, venite a Maru, e vedrete questo eroe nella polvere; e, cosa ben atta a dimostrare l'instabilità delle umane grandezze, l'iscrizione e la tomba sono sparite.

A. D. 1072-1092

Durante la vita di Alp-Arslan, il figlio di lui primogenito Malek-Sà era stato riconosciuto erede presuntivo del trono de' Turchi; ma dopo la morte del Sultano, e lo zio, e il cugino, e il fratello di Malek, fattisi a disputargli questa successione, presero ciascuno l'armi e le loro truppe adunarono. Malek-Sà trionfando di tutti tre i competitori, la propria fama e il diritto della primogenitura consolidò[345]. In tutti i tempi la sete dell'autorità ha inspirate le passioni medesime, e prodotti eguali disordini, singolarmente nell'Asia; ma in mezzo a tante guerre civili, sarebbe [243] difficile il rinvenire alcuna cosa tanto sublime, che il sentimento espresso ne' seguenti detti del Principe turco, in purezza e magnanimità, pareggiasse. Nel giorno che precedea la battaglia, ei stava a Tua, orando a piè del sepolcro d'un Imano, chiamato Riza; e poichè Nisam, visir del Sultano, parimente orando, stava prostrato dietro di lui, allorquando entrambi si furono rialzati, gli chiese: «Qual era lo scopo della vostra preghiera?» Il Visir, prudentemente, e, giusta ogni apparenza, con sincerità, gli rispose: «Io supplicava Iddio pel trionfo dell'armi vostre.» Ed io, soggiunse il generoso Malek, lo supplicava perchè mi togliesse la corona e la vita, se mio fratello più di me era degno di regnare su i Musulmani.» — Il cielo giudicò in favor di Malek, e questo decreto del cielo fu autenticato dal Califfo, il quale conferì per la prima volta ad un Barbaro il sacro titolo di Comandante de' Credenti; ma questo Barbaro e per merito proprio, e per vastità d'impero, era il maggior principe del suo secolo. Regolate appena le cose pubbliche della Persia e della Siria, a capo di un innumerabile esercito si condusse a compiere la conquista del Turkestan che il padre suo aveva intrapresa. Al passaggio dell'Osso, udì le querele di alcuni navicellai, ai quali incresceva, che i loro stipendj fossero stati assegnati sulle rendite di Antiochia; la qual provvisione parve fuor di luogo allo stesso Sultano, che ne manifestò scontento al Visir. Ma dovette sorridere egli stesso sull'ingegnosa scusa, che il cortigiano seppe con maestra adulazione architettare. «Non vi avvisaste, o signore, che per differire la paga a questi giornalieri, io l'avessi assegnata su d'un paese tanto remoto; ma piaceami attestare alla posterità che sotto il vostro [244] regno Antiochia e l'Osso obbedivano ad un sovrano medesimo». Pur questa distribuzione de' confini dell'impero di Malek, troppo limitata ancor risultò. Ei sottomise al di là dell'Osso le città di Bocara, di Carizma, di Samarcanda, e sconfisse tutti i ribelli, o Selvaggi independenti che all'armi di lui osaron resistere. Varcò il Sihon, o Jaxarte, ultima frontiera della parte di Persia venuta a civiltà: le bande del Turkestan l'impero di Malek riconobbero; e il nome di lui scolpito sulle monete, venne ripetuto persino nelle pubbliche preci del Casgar, Regno tartaro situato ai confini della Cina; e da questa frontiera egli estendea, a ponente e ad ostro, la sua giurisdizione immediata, ossia il potere di primario Capo della sovranità, fino ai monti della Georgia, ai dintorni di Costantinopoli, alla città santa di Gerusalemme, e agli odorati boschi dell'Arabia Felice. Schifo d'abbandonarsi alla mollezza del suo serraglio, il Re pastore non cessò, nè durante la pace, nè durante la guerra, di tenersi operoso, e di condur sempre la vita nel campo, ch'egli trasportava continuamente da un paese all'altro per fare a mano a mano liete di sua presenza tutte le soggette province; onde narrasi avere egli per dodici volte trascorsa l'estensione de' suoi dominj, che in vastità oltrepassavano quelli posseduti da Ciro e dagli antichi Califfi. Di tutte le peregrinazioni di questo Sovrano, la più religiosa e la più rinomata ad un tempo, fu la visitazione da esso fatta alla Mecca. In tale circostanza, l'armi di lui la libertà e la sicurezza delle carovane protessero; mentre la generosità de' soccorsi da esso forniti e cittadini, e viandanti arricchirono; e con provvidi asili che freschezza e ristoro offerivano ai pellegrini, la trista [245] uniformità del deserto interruppe. Era suo diletto, anzi passione dominante, la caccia, e in questo intertenimento quarantasettemila uomini a cavallo il seguivano. Nè dee negarsi che cacce di sì fatta natura erano veri macelli; ma dopo ciascuna di esse, distribuiva ai poveri tante piastre d'oro, quanti animali erano stati uccisi; ad ogni modo, lieve compenso di quanto costano ai popoli le ricreazioni dei re! Durante la pacifica prosperità del regno di Malek, le città dell'Asia abbondarono di palagi e d'ospitali, di moschee e di collegi: nè alcuno uscia del Divano, o scontento, o senza avere ottenuta l'implorata giustizia. Anche la lingua e la letteratura persiana sotto la dinastia de' Selgiucidi presero nuova vita[346]; e se fosse solamente vero che Malek nell'onorarle gareggiò di liberalità con un Turco men potente di lui[347], i canti di cento poeti avrebbe la reggia sua ripetuti. Ma più gravi cure e più sensate diede il ridetto Sultano alla riforma del Calendario, riforma operata da un'assemblea generale degli astronomi dell'Oriente. Per legge di Maometto, i Musulmani [246] si adattarono all'irregolare calcolo dell'anno lunare; benchè fin dal secolo di Zoroastro i Persiani conoscessero la rivoluzione periodica del sole, e con una festa annuale usassero celebrarla[348]: ma caduto l'Impero de' Magi, trascurata avevano l'intercalazione; e l'ore e i minuti accumulatisi, divennero giorni, talchè il principio di primavera trovavasi innoltrato dall'Ariete all'Acquario. L'Era Gelalea illustrò pertanto il regno di Malek, e tutti gli errori passati, o avvenire, in ordine a ciò, trovaronsi corretti da un calcolo che l'esattezza del Calendario Giuliano oltrepassa e a quella del Gregoriano avvicinasi.[349].

A. D. 1092

Lo splendore e i lumi del sapere che si diffusero per tutta l'Asia, in un tempo in cui l'Europa nella più profonda barbarie giaceva, vogliono essere attribuiti alla docilità, anzichè alle cognizioni de' Turchi vincitori. Gran parte di lor saggezza e virtù questi dovettero ad un Visir persiano, che sotto i regni di Alp-Arslan e di Malek ebbe l'amministrazion dell'Impero. Nisam, uno fra i più sapienti personaggi dell'Oriente, venia riguardato dal Califfo, quale oracolo della religione e della scienza; e il Sultano affidavasi in lui, come nel più fedele ministro della sovrana giustizia e possanza. Pure la cosa pubblica sì rettamente amministrata per un volgere di trent'anni, la fama con ciò acquistatasi dal Visir, la sua fortuna, [247] e perfino i servigi, a colpa vennergli ascritti. Le cabale d'un suo rivale unite a quello di una femmina lo perdettero; e ne accelerò la caduta l'imprudenza che egli ebbe di asserire che dal suo turbante e dal suo calamaio, emblemi del visirato, dipendeano, per li decreti di Dio, il trono e il diadema del Sultano. Questo rispettabile ministro si vide all'età di novantatre anni scacciato dal suo padrone, accusato da' suoi nemici, e morto sotto il pugnal d'un fanatico: le estreme parole di lui ne attestarono l'innocenza; e spirato Nisam, Malek non visse che pochi giorni privi di gloria. Abbandonata Ispahan che stata era il teatro di questa scena d'iniquità, si trasferì a Bagdad col disegno di rimovere dal trono il Califfo, e porre stabile dimora nella capitale de' Musulmani. Quel debole successore di Maometto ottenne una dilazione di dieci giorni. Ma questa non era per anco spirata, quando Malek fu chiamato dall'Angelo della morte. In quel tempo avendo gli ambasciatori dello stesso Malek chiesta per esso la mano di una principessa romana, l'Imperator greco con decenti modi se ne schivò. Anna figlia di Alessio, sopra la quale cadeano i divisamenti di nozze del Principe turco, rammenta con orrore una sì mostruosa proposta[350]. Il Califfo Moctadi sposò la figlia del Sultano, ma coll'inviolabile patto di rinunciar per sempre alla vicinanza dell'altre [248] mogli e concubine, volendosi che fosse a bastanza pago di questo onorevole parentado.

Con Malek Sà la grandezza e l'unità dell'Impero turco si dileguarono, il fratello e i quattro figli di lui essendosi disputato il trono. Quel negoziato, onde si riconciliarono fra loro i competitori che alle accadute guerre civili poterono sopravvivere, separò dal rimanente dell'Impero la dinastia persiana, ramo primogenito, e principale della casa de' Selgiucidi. I tre rami minori erano quelli di Kerman, di Sorìa e di Rum: il primo governava dominj estesi, ma quasi incogniti[351] sulle rive dell'Oceano indiano[352]; il secondo scacciò i Principi arabi di Aleppo e di Damasco, e il terzo, che in questa parte di storia più ne rileva, invase le province romane dell'Asia Minore. All'ingrandimento di questi rami non lievemente contribuì la generosa politica di Malek, che avea permesso ai principi del suo sangue, fossero anche stati vinti nelle battaglie, il cercarsi novelli reami degni della loro ambizione: nè per vero dire incresceagli lo spacciarsi con tal grazia d'uomini inquieti e coraggiosi che la tranquillità del suo regno [249] turbar poteano. Qual Capo supremo della sua dinastia e nazione, il Sultano della Persia riceveva obbedienza e tributo da' suoi fratelli; onde all'ombra dello scettro di lui, s'innalzarono i troni di Kerman e di Nicea, di Aleppo e di Damasco; e gli Atabechi, e gli Emiri della Sorìa, e della Mesopotamia gli stendardi lor dispiegarono[353]; e bande di Turcomanni le pianure dell'Asia occidentale copersero. Ma i vincoli di colleganza e di subordinazione, affievoliti per la morte di Malek, a rompersi non tardarono: la troppa bontà de' principi della casa de' Selgiucidi collocò altrettanti schiavi sul trono, e, se qui mi fosse lecito adoperare lo stile orientale, un nugolo di principi dalla polve de' loro piedi si sollevò[354].

A. D. 1074-1084

Un Principe appartenente alla real dinastia, di nome Cutulmis, figlio d'Izrail, e pronipote di Selgiuk, perì in una battaglia contro Alp Arslan, non senza destar pietà nell'animo dell'umano vincitore, che di alcuna lagrima la tomba dell'estinto onorò. I cinque figli di Cutulmis, forti per molto numero di partigiani, ambiziosi e avidi di vendetta, contra il figlio di Arslan brandirono l'armi; e già i due eserciti aspettavano il segnale della battaglia, allor quando il Califfo, dimenticata l'etichetta che divietavagli mostrarsi agli occhi del volgo, frappose la sua mediazione, che rispettavano entrambe le parti. [250] «Perchè in vece di versare il sangue de' fratelli vostri, fratelli per natura e per comunione di credenza, non unite le vostre forze, per guerreggiare santamente i Greci, nemici del Signore e dell'Appostolo del Signore?» Ben accolti i consigli del successore di Maometto, il Sultano si strinse al seno i congiunti testè ribelli; e il maggior d'essi, il prode Solimano, accettò dalle mani di lui il regio vessillo, sotto gli auspizj del quale, tutte le province del romano Impero, che si estendono da Erzerum a Costantinopoli e alle incognite regioni dell'Occidente, conquistò e retaggio fe' de' suoi posteri[355]. Ei passò co' suoi quattro fratelli l'Eufrate, nè andò guari che le turche tende apparvero sul territorio della Frigia, in vicinanza a Kutaia; e la cavalleria leggiera di Solimano devastò il paese fino all'Ellesponto e al mar Nero. Ben dopo il declinar dell'Impero, la penisola dell'Asia Minore avea sofferte passeggiere correrie di Persiani e di Saracini. Ma i frutti di una durevol conquista serbati erano a questo Sultano, cui dischiusero il varco alcuni Greci, empiamente sospirosi di regnare sull'eccidio della loro patria. Il figlio di Eudossia, Principe pusillanime, per sei anni sotto il peso di una Corona aveva tremato, incominciando dai giorni della cattività di [251] Romano, sino all'istante che una duplice ribellione gli fece perdere in uno stesso mese le orientali e le occidentali province. I due Capi de' sollevati il nome entrambi portavano di Niceforo; ma il pretendente d'Europa col soprannome di Briennio distinguevasi da quello dell'Asia, appellato Botoniate. Il Divano le ragioni de' due competitori, o più veramente le promesse de' medesimi ventilò, e finalmente dopo qualche incertezza, Solimano chiaritosi per Botoniate, aperse alle sue soldatesche una via da Antiochia a Nicea. Onde i vessilli della Luna e della Croce, veduti furono sventolar congiunti nel campo degli eserciti confederati. Pervenuto quindi al trono di Costantinopoli Niceforo Botoniate, ricevè onorevolmente il Sultano nel sobborgo di Crisopoli, o Scutari, e agevolato a duemila Turchi il passaggio in Europa, dovette alla destrezza e al valore di questi la disfatta, la cattività del suo competitore Briennio; ma i conquisti fatti da Botoniate in Europa vennero a carissimo prezzo pagati col sagrifizio de' possedimenti dell'Asia. Mancarono immantinente a Costantinopoli l'omaggio e le rendite delle province situate oltre il Bosforo e l'Ellesponto; e fu spettatrice delle mosse de' Turchi che ordinatamente avanzavansi affortificando i passi de' fiumi e le gole de' monti; la qual cosa toglieva del tutto la speranza o di vederli ritirarsi, o di poterli scacciare. Entrò indi in campo un altro pretendente, di nome Melisseno, che la protezione del Sultano implorava, e vestendo la porpora, e calzando i rossi coturni, seguiva gli accampamenti de' Turchi, e confortava con vane lusinghe le scoraggiate città, che adescate dai manifesti di un Principe romano venivano in sostanza in balìa [252] de' Barbari abbandonate. Un negoziato di pace che l'Imperatore Alessio di poi sottoscrisse, le ridette conquiste in man de' Turchi consolidò; perchè questo Principe, mosso dal terrore che Roberto inspiravagli, l'amistà di Solimano richiese; onde solamente dopo la morte del secondo, potè allargare la frontiera orientale dell'Impero, sino a Nicomedia, vale a dire sessanta miglia all'incirca sopra Costantinopoli. La sola Trebisonda, difesa d'ogni lato dal mare e dalle montagne, conservava all'estremità dell'Eussino l'antica indole di colonia greca e le basi di un Impero cristiano.

Lo stanziarsi de' Turchi nella Natolia, o Asia Minore, fu il massimo disastro che dopo le prime conquiste de' Califfi, sofferto avessero la Chiesa e l'Impero. La propagazione della Fede musulmana fruttò a Solimano il titolo di Gazi, ossia campione sacro, e le tavole dell'orientale geografia, col reame dei Romani o di Rum da esso fondato, aumentaronsi. Gli autori descrivono questo novello Stato di una vastità che tenesse i paesi posti fra l'Eufrate e Costantinopoli, fra il mar Nero e i confini della Sorìa, ricco inoltre di miniere d'argento e di ferro, di allume e di rame, fertile di biade e vino, abbondante di mandrie e di eccellenti cavalli[356]. Ma le ricchezze della Lidia, le arti della Grecia, e lo splendore del secolo d'Augusto ne' libri sol si trovavano, o, tutto al più, se ne scorgeano le tracce [253] per mezzo a rovine, di cui schifi erano parimente gli Sciti che il paese occupavano. Ciò nullameno la Natolia offre ancora ai dì nostri alcune opulenti e popolose città, delle quali sotto l'Impero di Bisanzo erano maggiori il numero, l'importanza e le ricchezze. Dopo avere affortificata Nicea, capitale della Bitinia, il Sultano vi pose dimora; onde la residenza del governo de' Selgiucidi di Rum non trovavasi più di cento miglia distante da Costantinopoli, e la Divinità di Gesù Cristo vedeasi rinnegata e insultata in quel medesimo tempio, ove il primo Concilio generale de' Cattolici articolo di fede avevala promulgata[357]: l'unità di Dio e la Missione di Maometto in tutte le Moschee venivano predicate; le scuole insegnavano le scienze arabe; colle leggi del Corano i Cadì giudicavano: così l'idioma come le costumanze de' Turchi prevaleano nelle città; di campi di Turcomanni abbondavano le pianure e i gioghi della Natolia. Se i Greci ottennero la libertà del loro culto, tal concedimento dovettero al duro patto di pagare un tributo, e di vivere sotto il giogo dei Turchi: ma profanati furono que' loro templi che in maggior venerazione teneano, nè insulti ai Sacerdoti e Vescovi cristiani si risparmiarono[358]; e al [254] cordoglio di veder trionfanti i Pagani si aggiunse per essi lo spettacolo dell'apostasia de' proprj fratelli; circoncisi erano a migliaia i fanciulli; migliaia di schiavi consacrati ai servigi, o ai diletti de' loro padroni[359]. Comunque l'Asia fosse perduta pe' Greci, Antiochia e le sue pertenenze, rimanevano tuttavia fedeli a Gesù Cristo ed a Cesare; ma circondata da ogni lato dalle forze maomettane questa solitaria provincia, qual soccorso sperar potea dai Romani? Già il governator della medesima Filarete, disperando di potersi difendere, a tradire la sua religione e il dovere si apparecchiava; ma in tale colpa lo prevenne suo figlio, che trasferitosi affrettatamente alla reggia di Nicea, offerse a Solimano la propria opera per farlo padrone di una cotanto ragguardevole città. L'ambizioso Sultano, montato subitamente a cavallo, compiè un cammino di seicento miglia in dodici notti, perchè di giorno si riposava. Tai furono la segretezza e la rapidità dell'impresa, che non lasciarono [255] ad Antiochia il tempo di deliberare; e l'esempio della Metropoli seguirono le città che ne dependeano sino a Laodicea e ai confini di Aleppo[360]. Da Laodicea al Bosforo di Tracia, o braccio di S. Giorgio, le conquiste dell'Impero di Solimano occupavano uno spazio di trenta giornate di cammino in lunghezza, e di dieci, o quindici in larghezza fra le rupi della Licia e il mar Nero[361]. L'imperizia de' Turchi nella navigazione concedè per qualche tempo all'Imperatore greco una sicurezza priva di gloria; ma, poichè i prigionieri greci ebbero fabbricata ai loro padroni una flotta di dugento navi, entro le mura della sua capitale Alessio tremò. Ad eccitare la compassione dei Latini, ei mandò per tutta Europa lettere di lamentazione ove il pericolo, la debolezza, i tesori della città di Costantino si dipingeano[362].

La più importante fra le conquiste de' Turchi Selgiucidi, fu la presa di Gerusalemme[363], la qual città [256] divenne bentosto il Teatro dell'Universo. Omar concedè a quegli abitanti una capitolazione che la libertà del loro culto e la conservazione dei loro possedimenti ai medesimi assicurava: ma gli articoli di un tale negoziato dovevano essere interpretati da un padrone, col quale era pericoloso il discutere; onde ne' quattro secoli che il regno de' Califfi durò, a frequenti vicissitudini fu soggetto lo stato politico di Gerusalemme[364]. Primieramente i Musulmani si impadronirono di tre quarti della città; il che forse era necessaria conseguenza dell'aumentato numero della popolazione e de' proseliti di Maometto: venne nondimeno assegnato un rione a parte al Patriarca, al suo clero e al suo gregge; e il sepolcro di Gesù Cristo, e la chiesa della Risurrezione, rimasero fra le mani de' Cristiani, che per prezzo della protezione lor conceduta, pagavano un testatico di due piastre d'oro. Ma la parte più numerosa e più ragguardevole di Cristiani, non ne' soli abitanti di Gerusalemme [257] si stava; la conquista degli Arabi, anzichè toglier di mezzo i pellegrinaggi a Terra Santa, ne eccitò maggior desiderio; e il dolore e l'indignazione cresceano nuova forza all'entusiasmo che l'idea di questi rischiosi viaggi inspirò. I pellegrini dell'Oriente e dell'Occidente giugneano a torme al Santo Sepolcro, e alle chiese circonvicine, soprattutto nel tempo delle feste pasquali; i Greci e i Latini, i Nestoriani e i Giacobiti, i Cofti, e gli Abissinj, gli Armeni e i Georgiani manteneano, ciascuno per propria parte gli oratorj, il clero, e i poveri della loro comunione. L'armonia di tutte queste preghiere fatte in idiomi così diversi, il concorso di tante nazioni assembrate nel tempio comune di lor religione, avrebbero dovuto offerire uno spettacolo di edificazione e di pace; ma lo spirito di odio e vendetta inacerbiva lo zelo delle Sette cristiane, che ne' luoghi medesimi, ove il Messia, perdonando ai suoi carnefici, avea perduta la vita, voleano dominare e perseguitare i proprj fratelli. Il coraggio ed il numero assicurando ai Franchi la preminenza, Carlomagno colla sua grandezza[365] proteggea i pellegrini della Chiesa latina, e i Cattolici dell'Oriente. La povertà di Cartagine, di Alessandria e di Gerusalemme trovò ristoro ne' soccorsi di questo pietoso Imperatore, che inoltre edificò, o riparò molti monasteri della Palestina. Arun al-Rascid, il maggiore fra gli Abbassidi, apprezzava [258] nel principe cristiano, da lui chiamato fratello, una grandezza d'animo e una possanza eguale alla sua, e l'amicizia loro avendo consolidata i donativi e le frequenti ambascerie, il Califfo, serbando a sè la vera dominazione di Terra Santa, le chiavi del Santo Sepolcro, e forse della città di Gerusalemme, al cristiano Imperator presentò. Declinando la monarchia de' Carlovingi, la repubblica d'Amalfi prestò non pochi servigi ai commercio e alla religione degli Europei nell'Oriente; perchè le navi della medesima portavano i pellegrini sulle coste dell'Egitto e della Palestina: e mercè le derrate che vi sbarcava, il favore e l'amicizia de' Califfi Fatimiti si cattivò[366]. Istituitasi sul Calvario una fiera annuale, i mercatanti Italiani fondarono il convento e lo spedale di S. Giovanni di Gerusalemme, culla dell'Ordine monastico e militare, che da poi diede leggi all'isola di Rodi, indi a quella di Malta. Se i pellegrini cristiani fossero stati paghi di venerare la tomba di un Profeta[367], i discepoli di Maometto, lungi dal querelarsi di una simile divozione, imitata l'avrebbero: [259] ma spiacque oltremodo a questi rigidi unitarj l'indole di un culto inteso a persuadere la nascita, la morte e la risurrezione di un Dio; invilirono col nome d'idoli le immagini de' Cattolici, e col sorriso dello sdegno riguardarono[368] la fiamma miracolosa che, la vigilia di Pasqua, sul Santo Sepolcro[369] appariva. Da questa pia frode[370] inventata nel nono secolo[371], i Crociati latini si erano lasciati sedurre; e i preti delle Comunioni greca, armena e cofta[372] la rinovano ciascun anno agli occhi di una credula moltitudine che costoro ingannano per interesse proprio, [260] e per quello de' loro tiranni[373]; perchè in tutti i secoli l'interesse ha fatto forte il principio della tolleranza, e le spese fatte da un sì smisurato numero di stranieri, e il tributo che essi pagavano, accresceano ciascun anno le rendite del principe e del suo Emir.

A. D. 969-1076

Il cambiamento politico, onde lo scettro degli Abbassidi passò nelle mani de' Fatimiti, più vantaggio che nocumento a Terra Santa arrecò. Un sovrano la cui residenza era in Egitto, potea calcolar meglio il profitto che dal commercio co' cristiani gli derivava, e per altra parte gli Emiri della Palestina si trovavano men lontani dalla sede del trono, e dell'amministrazione della giustizia; ma sventuratamente il terzo Califfo Fatimita fu quel famoso Akem[374], giovane farnetico, empio, dispotico, che scioltosi d'ogni timore di Dio e degli uomini, in tutta la condotta della sua vita un bizzarro miscuglio di vizj e di stranezze unicamente mostrò. Sprezzate le più antiche [261] costumanze dell'Egitto, obbligò le donne ad un'assoluta prigionia, genere di tribolazione che le querele d'entrambi i sessi eccitò; e tali querele avendolo tratto in maggior furore, fece commettere alle fiamme una parte dell'antico Cairo, gli abitanti della quale città sostennero contro le guardie del Califfo una lotta micidiale che per molti giorni durò. Costui, datosi sulle prime a divedere zelante musulmano, avea fondato e arricchito più collegi e moschee; a spese del medesimo erano stati trascritti in lettere d'oro mille dugento novanta esemplari del Corano, e sterpate per suo ordine tutte le vigne dell'alto Egitto; ma eccesso di vanità lo condusse ben tosto nella speranza di fondare una nuova religione; nè il credito di profeta bastandogli, volle lo riguardassero come immagine visibile dell'Altissimo, che dopo essere nove volte sulla terra apparito, finalmente nella persona reale di Akem agli uomini si dimostrava. Al nome di Akem, Sovrano de' vivi e de' morti, ciascuno dovea piegar le ginocchia, e adorare una montagna posta in vicinanza del Cairo, e consacrata ai misterj del culto istituito da questo fanatico. Già sedicimila persone aveano sottoscritta la lor professione di fede, e anche oggi giorno una popolazione libera e guerriera, i Drusi del monte Libano, giurano nella divinità di questo insensato tiranno, persuasi che ancora egli viva[375]. Nella sua [262] divina qualità, Akem abborriva gli Ebrei, e i Cristiani, perchè soggetti ai Maomettani, divenutigli rivali, atteso il nuovo culto che ei s'arrogò istituire; benchè un avanzo di prime impressioni, o un riguardo fors'anche di prudenza, gli parlassero a favore dell'Islamismo. Le crudeli persecuzioni che nell'Egitto e nella Palestina operò, fecero alcuni martiri, e molta mano di apostati. Sprezzatore egualmente dei diritti comuni e de' privilegi particolari delle varie Sette, proibì agli stranieri e agli abitanti di Gerusalemme ogni visita al sepolcro di Gesù Cristo. Il tempio del Mondo cristiano, la chiesa della Rissurrezione, sin dalle sue fondamenta fu demolita: il prodigio luminoso che contemplavasi nelle feste di Pasqua disparve; molti sforzi vennero adoperati a colmare la cavità della rupe, in cui riguardasi, aggiustatamente parlando, l'esistenza del Santo Sepolcro. Alla notizia di un tanto sacrilegio, eguali furono la sorpresa e il cordoglio delle nazioni europee: ma anzichè armarsi per la difesa di Terra Santa, altro non fecero che arder vivi o bandire gli Ebrei, da essi considerati come i segreti consiglieri dell'empio Akem[376]. Pure un atto d'incostanza o di pentimento del tiranno, alleviò in qualche modo i mali di Gerusalemme; [263] e stava sottoscrivendo il decreto della restituzione delle chiese, quando venne assassinato da alcuni sgherri mandati a tal fine da una sorella del medesimo. I Califfi successori di Akem riassunsero le antiche massime della religione e della politica musulmana: regnò nuovamente la tolleranza: mercè i pietosi soccorsi spediti dall'Imperatore di Costantinopoli, risorse di mezzo alle sue rovine il Santo Sepolcro, e, dopo essere stati privi di tal vista per qualche tempo, i pellegrini vi ritornarono con quel fervore che delle privazioni suol essere conseguenza[377]. Il viaggio di Palestina per mare offeriva non pochi pericoli, nè frequenti erano per imprenderlo le occasioni: ma la conversione della Ungheria aperse una comunicazione sicura fra l'Alemagna e la Grecia. Il caritatevole zelo di S. Stefano appostolo del suo regno, soccorreva e guidava i pellegrini[378], che per trasferirsi da Belgrado ad Antiochia, attraversavano per mezzo ad un impero cristiano un'estensione di mille cinquecento miglia. Non mai con più forza il fervore dei pellegrinaggi tra i Franchi erasi manifestato, e si vedeano coperte le strade di persone di [264] ogni sesso e d'ogni grado che giuravano bramar solamente tanto spazio di vita per giungere a baciar la tomba del Redentore. E principi, e prelati abbandonavano la cura de' lor dominj; onde il numero di queste pie carovane divenne il pronostico degli eserciti di Crociati che nel successivo secolo approderebbero ai lidi di Palestina. Mancavano circa trent'anni all'epoca della prima Crociata allorchè l'Arcivescovo di Magonza, i Vescovi di Utrecht, di Bamberga e di Ratisbona, abbandonarono le rive del Reno per trasferirsi, seguìti da settemila persone, alle sponde del Giordano. L'Imperatore gli accolse con ogni ospitalità a Costantinopoli; ma avendo questi pellegrini fatto imprudente sfoggio di lor ricchezze, vennero indi assaliti dai feroci Arabi del Deserto, e parea quasi che avessero scrupolo a valersi dell'armi loro in propria difesa. Sostennero un assedio nel villaggio di Capernaum, e solamente alla venale protezione dell'Emiro Fatimita la propria liberazione dovettero. Dopo avere visitati i luoghi santi, veleggiarono verso l'Italia; ma di settemila che erano partendo, duemila soltanto la patria rividero. Ingolfo, segretario di Guglielmo il Conquistatore, a questa carovana appartenea: e narra che di trenta cavalieri vigorosi e armati di tutto punto, i quali seco lui aveano abbandonata la Normandia per trasferirsi in Palestina, nel rivalicare le Alpi, rimaneano solamente venti miserabili pellegrini a piedi, non d'altro forniti fuor del loro bordone e della bisaccia che portavano sulle spalle[379].

[265]

A. D. 1076-1096

Dopo la sconfitta di Romano, la tranquillità dei Califfi Fatimiti dai Turchi venne turbata[380]. Atsiz il Carizmio, uno fra i capitani di Malek-Sà, penetrato nella Sorìa a capo di un esercito poderoso, coll'armi e colla fame ridusse Damasco. Hems e le altre città della provincia avendo riconosciuto il Califfo di Bagdad e il sultano di Persia, il vittorioso Emiro s'innoltrò, senza incontrar resistenza, insino alle rive del Nilo. E già il Fatimita a ripararsi nel cuor dell'Affrica s'apparecchiava, quando i Negri della sua guardia, e gli abitanti del Cairo, operando una disperata sortita, dalle frontiere dell'Egitto i Turchi scacciarono. La strage e il saccheggio contrassegnarono la strada tenutasi da Atsiz nel ritirarsi: per costui ordine vennero trucidati il giudice e i notai di Gerusalemme, da lui medesimo eccitati a venir nel suo campo; alla qual perfidia seguì appresso l'uccisione di tremila cittadini. Egli non tardò a veder punita la sua crudeltà, o veramente la sua sconfitta, dal sultano Tucus, fratello di Malek-Sà, che munito di migliori titoli, e di forze più formidabili, sostenne i suoi diritti all'impero della Sorìa e della Palestina. La casa di Selgiuk regnò a Gerusalemme circa vent'anni[381]; poi il comando ereditario della [266] Santa Città, e delle sue pertenenze fu commesso all'Emiro Ortok, Capo di una tribù di Turcomanni. I figli di questo, scacciati indi dalla Palestina, diedero origine a due dinastie che sulle frontiere dell'Armenia, e della Sorìa ebbero regno[382]. I Cristiani dell'Oriente, e i pellegrini della Chiesa latina, gemettero su di una politica vicissitudine che sostituì per essi all'amministrazione regolare, e all'antica amistà de' Califfi, il ferreo giogo degli stranieri del Settentrione[383]. La Corte e l'esercito del Sultano sotto alcuni aspetti, le arti e i costumi della Persia offerivano; ma la maggior parte de' Turchi, e soprattutto le tribù pastorali, la ferocità delle popolazioni del deserto serbavano. Da Nicea a Gerusalemme le contrade occidentali dell'Asia, fatte eransi teatro di guerre straniere, o intestine; nè l'indole, o lo stato de' pastori della Palestina, che usavano un'autorità precaria sopra una malcontenta frontiera, davano alle medesime il tempo di aspettare i tardi vantaggi della libertà del commercio e della tolleranza religiosa. I pellegrini che, dopo superati innumerevoli [267] rischi, pur giungevano alle porte di Gerusalemme, divenivano vittime del ladroneccio de' particolari, o della tirannide amministrativa; talchè non di rado ad essi accadea di soggiacere alla miseria, o alle infermità, prima di aver avuto il conforto di salutare il Santo Sepolcro. Fosse naturale barbarie, o zelo di nuova religione, i Turcomanni insultavano i sacerdoti di tutte le Sette: il patriarca venia trascinato pe' capelli sul pavimento del tempio, e confinato indi in un carcere; e spesse volte per costrignere il suo gregge a redimerlo, que' selvaggi padroni turbavano senza riguardo le cerimonie della Chiesa della Risurrezione; le quali circostanze divulgate con patetiche narrazioni, eccitarono milioni di Cristiani a marciare sotto il vessillo della Croce alla liberazione di Terra Santa, Pur tutti questi mali, accumulati, erano di gran lunga inferiori all'atto sacrilego di Akem, che i Cristiani della Chiesa latina con tanta pazienza avean sopportato! Minori vessazioni infiammarono l'indole più irascibile de' lor discendenti. Surto era un nuovo spirito di cavalleria religiosa, e di sommessione all'impero universale del Papa. Una fibra delicatissima fu toccata, e la impressione si fe' sentire nelle più interne parti d'Europa.

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CAPITOLO LVIII.

Origine della prima Crociata e numero de' Crociati. Indole de' Principi latini. Loro spedizione a Costantinopoli. Politica dell'Imperatore greco Alessio. Nicea, Antiochia e Gerusalemme conquistate dai Franchi. Liberazione del Santo Sepolcro. Goffredo di Buglione primo Re di Gerusalemme. Istituzione del regno franco o latino.

A. D. 1095-1099

Circa vent'anni dopo che i Turchi si erano impadroniti di Gerusalemme, un Eremita per nome Piero, nativo di Amiens in Picardia,[384] visitò il Santo Sepolcro. Quanto ei vide sofferire ai Cristiani, quanto sofferse egli stesso, destò in lui commozione e risentimento; e mescolando le sue lagrime a quelle del Patriarca, lo supplicò additargli se vi fosse qualche speranza di soccorso per parte degl'Imperatori d'Oriente. Al qual proposito il Patriarca i vizj e la fiacchezza de' successori di Costantino gli dipingea. «Io armerò per voi, sclamò Piero, le nazioni guerriere di tutta Europa». (Chi avrebbe in quell'istante creduto che tutta l'Europa sarebbe stata docile alle [269] voci dell'Eremita?) Attonito di una tal fidanza il Patriarca, rimise a Piero, mentre partivasi, lettere credenziali, ove i mali de' Cristiani si descrivevano. Toccato appena il lido di Bari, l'Eremita senza perdere istanti, corse a gittarsi ai piedi del romano Pontefice. La statura piccola di Piero, e il suo portamento ignobile anzichè no, non pareano, per vero dire, atti a dar peso all'impresa che ei consigliava; ma vivace era ed acuto il suo sguardo, e possedea quella veemenza di dire, cui quasi sempre la persuasione va unita[385]. Uscito di una famiglia di gentiluomini (perchè ne giova ora del più moderno stile valerci), avea militato da prima sotto i Conti di Bologna marittima, feudatarj del suo vicinato, ed eroi della prima Crociata; ma ben tosto e l'armi, e il Mondo ebbe a schifo. E se egli è vero quanto raccontasi che la moglie di lui, quanto nobile, altrettanto era vecchia e difforme, non si stenta a comprendere, come senza molta ripugnanza la abbandonasse per ripararsi in un convento, e poco dopo in un romitaggio. L'austera penitenza, alla quale in questa solitudine si assoggettò, ne infiacchì il corpo, ma l'immaginazione gli accese. Avvezzatosi a credere quanto egli bramava, i suoi sogni, per lui rivelazioni, gli confermavano la realtà di quanto ei credea. Piero l'Eremita tornò da Gerusalemme più fanatico [270] ancora che dianzi: ma poichè, per un eccesso di follìa venuta in rinomanza a que' giorni, attraea sopra di sè i pubblici sguardi, Papa Urbano II, siccome un Profeta lo accolse, ne applaudì il glorioso divisamento, promise sostenerlo in un generale Concilio, lo incoraggiò a divenir banditore della liberazione di Terra Santa. Fatto forte dall'approvazione del Pontefice, lo zelante missionario attraversò le province dell'Italia e della Francia con tal buon successo, che alla celerità della sua corsa, poteva soltanto paragonarsi. Rigidissimo nell'austerità de' suoi digiuni, assorto in lunghe e frequenti preghiere, distribuiva d'una mano le elemosine che riceveva coll'altra. Colla testa calva scoperta, e co' piedi ignudi, avvolto in ruvida veste il magro suo corpo, tenea fra le mani un pesante crocifisso, che non si stancava di offrire agli sguardi de' passeggieri: le turbe affollatesi ad ascoltarlo, rispettavano persino il giumento cavalcato dall'Eremita, riguardando in questo animale il servo dell'uom di Dio. Non cessava Piero dall'aringare le ciurme nelle chiese, nei trivj, e nelle strade maestre, mostrandosi con egual successo ne' palagi de' Grandi, e nelle capanne. La veemenza della sua voce traeva a suo grado gli animi della plebe, e tutti in quel momento plebe divennero. Piero all'armi e a penitenza fervorosamente eccitavali: e allorchè dipignea i patimenti degli abitanti e de' pellegrini della Palestina, la compassione impadronivasi di tutti i cuori, trasformandosi poscia in ira, quand'egli intimava ai guerrieri del secolo il dovere di difendere i fratelli, e di liberare il lor Salvatore. Compensando tutto ciò che, quanto ad arte o ad eloquenza, mancavagli, con sospiri, lagrime [271] e slanci di santo entusiasmo, ei suppliva parimente alla debolezza de' suoi argomenti con enfatiche e frequenti appellazioni a Cristo, alla Vergine madre di Cristo, ai Santi e a tutti gli Angeli del Paradiso, co' quali erasi trovato in famigliari colloqui. I più famosi oratori della Grecia, avrebbero potuto invidiargli i buoni successi della sua eloquenza: onde non è maraviglia, se il rozzo entusiasmo che lo animava, passò rapidamente in altrui, e se gl'impazienti voti della Cristianità, non anelavano più altra cosa se non se il Concilio, e i decreti che il sommo Pontefice stava per promulgarvi.

Armar l'Europa contro l'Asia, era disegno già meditato dall'ardimentoso Pontefice Gregorio VII, e le lettere di lui attestano tuttavia l'ardore dello zelo e dell'ambizione che lo agitavano; che anzi pervenuto era ad arrolare sotto i vessilli di S. Pietro[386], all'una e all'altra falda dell'Alpi, cinquantamila Cattolici, ardente egli stesso della brama di farsi lor condottiero, contra gli empj settarj di Maometto, segreto che il successore di Gregorio svelò. Ma la gloria, o il rimprovero di mandare a termine la santa impresa erano serbati ad Urbano II[387], il più fedele fra i discepoli di Gregorio; benchè però la Crociata il nuovo Pontefice non comandasse in persona. [272] Urbano alla conquista dell'Oriente accigneasi, intanto che Giberto di Ravenna impadronitosi della maggior porzione di Roma, cui già stava fortificando, il titolo di Papa, e gli onori del pontificato gli contendea. E a far più arduo lo stato di Urbano, ei doveva riunire le Potenze occidentali in un tempo che i Principi, dalla Chiesa, i popoli, dai lor Principi erano disgiunti, a motivo delle scomuniche che i predecessori di lui, ed egli medesimo, contra il Re di Francia e l'Imperatore aveano fulminate. Il primo di questi, Filippo I, sopportava pazientemente anatemi, che collo scandalo di sua condotta, e con adultere nozze si procacciò. Enrico IV di Alemagna, fermo stavasi nel sostenere il diritto delle investiture, la prerogativa di confermare col pastorale e coll'anello le elezioni de' Vescovi. Intanto nell'Italia, la fazione imperiale opprimea l'armi de' Normanni e della Contessa Matilde; lunga lotta, allora invelenita dalla ribellione di Corrado, figlio di Enrico, e dalla ignominia della moglie di questo Principe[388], la quale ne' Concilj di Costanza, e di Piacenza, rivelò le numerose prostituzioni, cui l'avea commessa uno sposo, poco sollecito dell'onor della moglie, come del proprio[389]. Ma l'opinione [273] generale tanto ad Urbano dimostravasi favorevole, e tanto si era la prevalenza di questo Pontefice, che il Concilio da lui assembrato in Piacenza, si vide composto di dugento Vescovi Italiani, Francesi, Borgognoni, Svevi, Bavaresi[390]. Quattromila ecclesiastici e trentamila laici, si trasferirono a questa importante assemblea: nè essendovi cattedrale tanto ampia che capir la potesse, le adunanze, durate sette giorni, in uno spianato vicino a Piacenza si tennero. Ivi gli Ambasciatori di Alessio Comneno, Imperator greco, mostraronsi, narrando le sciagure del loro Sovrano, [274] e i pericoli imminenti a Costantinopoli, non più disgiunta che per un angusto braccio di mare dai Turchi, nemici implacabili di tutto quanto portava il nome cristiano. Destramente adulando colla loro supplica la vanità de' Principi latini, mostravano ad essi, come la prudenza e la Religione del pari, li consigliassero a respingere i Barbari sui confini dell'Asia, innanzi che costoro penetrassero nel cuor dell'Europa. Al racconto della trista e perigliosa condizione de' Cristiani dell'Oriente, tutta l'assemblea pianse a cald'occhi: i più zelanti della medesima si protestarono pronti a porsi in cammino, onde gli inviati d'Alessio portaron seco in partendo, la sicurezza di un sollecito e poderoso soccorso. Il disegno di liberare Costantinopoli non era che una parte di altro disegno più vasto, per la liberazione di Gerusalemme concetto; ma l'accorto Urbano protrasse le finali deliberazioni ad un secondo Sinodo di cui propose l'adunata in una città della Francia, durante l'autunno del medesimo anno: breve dilazione intesa ad accrescere il pubblico entusiasmo, oltrechè il Pontefice fondava le sue più salde speranze, sopra una nazione di guerrieri[391], superba della preminenza del proprio nome, ed ambiziosa [275] d'imitare il suo eroe Carlomagno[392], al quale il romanzo popolare di Turpino[393] attribuite avea le conquiste di Gerusalemme e di Terra Santa. Forse anche riguardi di patrio affetto, o fors'anche di vanità ebbero parte in questo avviso di Urbano. Anticamente monaco di Cluny, nato a Castiglione in riva alla Marna, città della Sciampagna, primo de' Francesi che avesse occupato il trono pontificale, orgoglioso del lustro con ciò arrecato alla propria famiglia e alla patria, ei sentiva forse con ardore il diletto che da pochi diletti vien superato; quello di ricomparire in tutto lo splendore di altissima dignità, su quel teatro, ove nella oscurità e fra ignorate fatiche, la giovinezza è stata trascorsa.

A. D. 1095

Taluno potrebbe sulle prime stupire alla vista di un Pontefice Romano che si avvisò di erigere nel cuor medesimo della Francia un tribunale, d'onde lanciare i suoi anatemi contra il Sovrano di quella contrada: ma la maraviglia sparisce affatto agli occhi di chi si faccia una giusta idea di un Re di Francia [276] dell'undicesimo secolo[394]. Filippo I, pronipote di Ugo Capeto, e fondatore della famiglia regnante, che in mezzo allo scadimento della posterità di Carlomagno, avea instituiti in reame i suoi dominj ereditarj di Parigi e di Orleans, ben possedea in proprietà la giurisdizione e la rendita di questo picciolo Stato; ma quanto al rimanente della Francia, nè Ugo, nè i primi suoi discendenti, altra cosa erano che gli alti feudatarj di circa sessanta Ducati, o contee ereditarie o independenti[395], i Capi de' quali paesi, sdegnando le legali assemblee, poco obbedivano, così alle leggi come al Monarca; e il sol modo che questi avesse tal volta per vendicarsi della loro tracotanza, nella indocilità de' Nobili di minor conto era posta. A Clermont dunque, e in tutta la signoria del conte di Alvernia[396], il Papa potea disfidare impunemente la collera di Filippo, onde il Concilio adunatovi da Urbano, nè in numero, nè in ragguardevolezza, a quello di Piacenza cedè[397]. Oltre alla sua Corte, e al collegio [277] de' Cardinali Romani, il Pontefice vedeasi ivi fiancheggiato da tredici arcivescovi, da dugentoventicinque vescovi, e da quattrocento prelati di mitra insigniti. Le persone più rinomate per santità e dottrina in quel secolo vennero a rischiarare co' lumi della loro scienza, e a soccorrere co' proprj consigli, i Padri della Chiesa: intanto che immenso stuolo di possenti signori e di valorosi cavalieri accorrea da tutti i vicini reami al Concilio, e ne aspettava con impazienza i decreti[398]. Tanto era il fervore inspirato da zelo e curiosità ad un tempo, che migliaia di stranieri, non trovando più alloggio nella città, accampavano nella pianura, senza badare che già innoltrato era il novembre. Otto giorni di questa adunata partorirono per vero dire alcuni canoni edificanti, o giovevoli alla riforma de' costumi. Portate severissime censure contra la licenza delle guerre fra particolari, venne confermata la tregua di Dio,[399] ossia la sospensione di ogni ostilità per quattro giorni della settimana. La Chiesa si chiarì proteggitrice de' sacerdoti e del sesso femminile da essa presi sotto la sua salvaguardia; la qual tutela, durante tre anni fu estesa ai coltivatori e ai mercatanti, impotenti vittime della vessazion militare: ma [278] comunque una legge sia rispettabile, l'autorità dalla quale deriva non perviene in un subito a cambiare l'indole di una generazione; e sappiamo men grado ad Urbano degli sforzi da esso fatti per sedare i litigi de' privati, allorchè allo scopo di queste sue provvisioni consideriamo. Ei non pensava che ad agevolare a sè stesso le vie di dilatare l'incendio della guerra dalle rive dall'Atlantico, alle sponde dell'Eufrate. Dopo la convocazione del sinodo di Piacenza, la fama di un sì grande disegno sparsa erasi appo i diversi popoli. Gli ecclesiastici che da un paese e dall'altro tornavano, aveano già predicato in tutte le diocesi il merito e la gloria alla liberazione di Terra Santa congiunti: pel quale motivo, il Pontefice dall'alto della cattedra che nel mercato di Clermont gli era stata innalzata, non durò molta fatica a persuadere uditori, così ben preparati, e propensi avidamente a credere ad ogni suo detto. Chiari ne sembravano gli argomenti, veementi erano le sue esortazioni, e il buon successo non poteva mancare. Migliaia di voci, che in una sola si confondevano, interruppero l'oratore esclamando strepitosamente nel rozzo linguaggio di que' tempi: Deus lo volt, Deus lo volt.[400] [279] «Dio vuole così certamente; il pietoso Pontefice replicò. Che questo accento memorabile Deus vult, dettato senza dubbio dallo Spirito Santo, sia d'ora in poi il vostro grido eccitatore della battaglia; esso animerà lo zelo e il coraggio de' difensori di Gesù Cristo. La sua Croce è il simbolo della vostra salute. Portatene una rossa di color di sangue sul vostro petto, o sulle vostre spalle, e sia dessa il segno esteriore della irrevocabile obbligazione che avete assunta». Giubilando ognuno obbedì, e molta mano di ecclesiastici e di laici attaccarono sulle lor vesti il segnal de' Crociati[401], supplicando Urbano a farsi lor condottiero. Il prudente successor di Gregorio ricusò quest'onore pericoloso, adducendo a scusa del suo rifiuto lo scisma della Chiesa e i doveri del Pontificato. Arringati poscia que' fedeli, il cui zelo di partecipare alla santa impresa venia ritardato o dal sesso, o dalla lor professione, o dagli anni, o dalle infermità, raccomandò loro secondassero colle preghiere e colle elemosine il coraggio di coloro che aveano la bella sorte di potere militare in persona, conferì il titolo e la podestà di Legato appostolico ad Ademaro; vescovo di Puy, nel Velay, primo a ricever la Croce dalle mani del sommo Pontefice. Raimondo, conte di Tolosa, il più fervente fra i condottieri laici, assente trovavasi dal Concilio; [280] ma gli ambasciatori di lui ne fecero la scusa, e pel loro padrone obbligaronsi. Tutti i ridotti campioni si confessarono, e ricevettero l'assoluzione, unitamente ad una esortazione, divenuta superflua, di sollecitare i loro compatrioti ed amici a seguirli. La partenza per Terra Santa venne deliberata pel giorno solenne dell'Assunzione, ossia quindicesimo di agosto del successivo anno[402].

Gli atti violenti sono tanto famigliari agli uomini, che connaturali ai medesimi potrebbero quasi supporsi. Il più lieve pretesto, il più incerto fra i diritti ne sembrano bastanti motivi per armare una nazione [281] contro d'un'altra. Ma il nome e l'indole d'una guerra santa vogliono un esame più rigoroso, nè dobbiamo credere sì alla presta che i servi di un Principe di pace abbiano sguainata la spada di distruzione senza motivi rispettabili, senza le apparenze di un diritto legittimo e di una indispensabile necessità. Alle tarde lezioni dell'esperienza per lo più è riserbato l'illuminare gli uomini sulla politica o buona, o cattiva di una qualunque impresa dai medesimi sostenuta; ma prima che a questa si accingano, gli è d'uopo almeno che la coscienza loro il motivo e lo scopo ne approvi. Nel secolo delle Crociate, i Cristiani dell'Oriente e dell'Occidente, erano con vero convincimento persuasi della giustizia e del merito della loro spedizione; e comunque gli argomenti che eglino adoperavano, si trovino il più delle volte annebbiati da un continuo abuso della Scrittura, e delle figure rettoriche; trapela però che particolarmente fondavansi sul diritto naturale e sacro di difendere la propria religione, sui titoli speciali che essi reputavano avere al possedimento di Terra Santa, sull'empietà de' loro nemici o Maomettani, o Pagani che fossero[403].

I. Il diritto di una giusta difesa comprende, non v'ha dubbio, anche quella de' nostri collegati o spirituali, o civili; e si appoggia sull'esistenza reale del [282] pericolo, più o meno incalzante a proporzione dell'odio e del poter de' nemici. È stata imputata a dogma maomettano una massima perniciosa, il dovere cioè di estirpare tutte le altre religioni coll'armi: accusa portata contro essa dall'odio, o dalla ignoranza, e confutata abbondantemente dal Corano, dalla storia de' conquistatori Musulmani, dalla tolleranza pubblica e legale al culto de' Cristiani conceduta dall'Islamismo. Non può per altro negarsi che i Musulmani, sotto un ferreo giogo, assoggettano le chiese dell'Oriente; che così in pace come in guerra si attribuiscono, come per diritto divino e incontestabile, l'Impero dell'Universo: che le conseguenze necessarie della loro condotta minacciano ad ogni istante le nazioni, da essi nomate infedeli, di perdere la loro religione, o la loro libertà, doppia perdita, che appunto nell'undicesimo secolo, le vittorie de' Turchi faceano a ragione temere. Essi aveano sottomessi in men di trent'anni tutti i reami dell'Asia fino a Gerusalemme e all'Ellesponto, e l'Impero greco già inclinar sembrava alla sua totale rovina. Oltre ad un sentimento naturale d'affetto pe' loro fratelli, i Latini avevano un interesse proprio nel difendere Costantinopoli, il baluardo il più saldo dell'Occidente; nè può contrastarsi che il privilegio della difesa, tanto al prevenire quanto al respingere una invasione, legittimamente si estende. Però al buon successo di tale impresa così numerosi soccorsi non si voleano, nè la ragione umana potrà approvare giammai le spaventose migrazioni che, spopolando l'Europa, apersero inutilmente alle genti migrate una tomba nell'Asia.

II. L'acquisto della Palestina non avrebbe, in verun caso, contribuito alla possanza, o alla maggior sicurezza [283] de' Latini; onde il fanatismo soltanto ha potuto accignersi a difendere questa impresa contra un picciolo paese tanto rimoto. Ma i Cristiani armavano i loro diritti sopra una terra, promessa ad essi in virtù d'un patto inalienabile, suggellato col Sangue di Gesù Cristo. Il lor dovere gli obbligava, dicevano, a scacciare dalla santa eredità che lor pertenea, una banda di ingiusti possessori che, profanando il sepolcro dell'Uomo Dio, la devozione de' Pellegrini insultavano. — Come rispondere ad essi che la preminenza di Gerusalemme, e la santità della Palestina, colla legge di Mosè erano sparite? che il Dio de' Cristiani non è una divinità locale: che il possedimento di Betlemme o del Calvario, l'acquisto della tomba, o della culla del Redentore non renderanno mai scusabile agli occhi di lui l'infrazione de' precetti morali dell'Evangelio? Questi argomenti perderanno sempre ogni forza contra le pesanti armi della superstizione, nè è cosa sì agevole che anime timorate, spontaneamente i loro creduti diritti sulla Terra Sacra de' misteri e de' prodigi abbandonino.

III. Ma le guerre sante che hanno insanguinati tutti i climi del globo, dall'Egitto alla Livonia, dal Perù all'Indostan, ebbero d'uopo di cercare la loro legittimità, in massime più generali e più pieghevoli a cotal uopo. Si è soventi volte, e per più riprese, supposto e affermato che la differenza delle dottrine religiose, basta a giustificare qualsivoglia ostilità; che i campioni della Croce possono soggiogar santamente, od anche piamente immolare, tutti gl'increduli ostinati, e che la Grazia è l'unica origine, del potere sulla terra, della felicità nel regno de' Cieli. Più di quattro secoli innanzi la prima Crociata, i Barbari [284] dell'Arabia e della Germania, quasi nello stesso tempo, e nel modo medesimo, avevano invase le province orientali e occidentali dell'Impero romano. Il tempo, i negoziati, la conversione de' Franchi al cristianesimo, le conquiste di questi aveano autenticate; ma i principi maomettani comparivano tuttavia, così agli occhi de' sudditi, come a quelli de' vicini, quai tirannici usurpatori, nè scorgeasi alcuna ingiustizia nel privarli, o per via di guerre, o per via di sommosse, di un illegittimo possedimento[404].

Col corrompersi de' costumi de' Cristiani, più severo divenne il loro codice di penitenza[405], e la moltitudine de' peccati, partorì la moltiplicità dei rimedj. Ne' tempi della Chiesa primitiva, i peccatori, con una pubblica e volontaria confessione, all'espiazione delle colpe si apparecchiavano. Nel medio evo, i vescovi e i preti, facendosi eglino stessi ad interrogare il colpevole, lo costrigneano a rendere un severo conto de' suoi pensieri, delle sue parole e delle sue azioni, prescrivendogli indi, sotto quai patti dovea meritarsi la divina misericordia: ma poichè la tirannide e l'indulgenza, aveano un campo per [285] abusare a vicenda di questo arbitrario potere, venne composta una regola di disciplina, che d'istruzione e di guida ai giudici spirituali servisse. Primi inventori di siffatta legislazione furono i Greci; la Chiesa latina, i lor precetti penitenziali[406] tradusse, o imitò: e ne' giorni di Carlomagno, il clero di ciascuna diocesi aveva un codice, che veniva prudentemente nascosto agli occhi del volgo. In sì dilicata valutazione delle offese e de' gastighi, l'acume e l'esperienza de' frati, tutti i casi, e tutte le distinzioni andavano prevedendo. Trovavansi nella lor lista peccati che parea non avesse potuto sospettare la stessa malizia, altri cui la ragione non sapea prestar fede. Le colpe più comuni di fornicazione, di adulterio, di spergiuro e di sacrilegio, di rapina e omicidio, venivano espiate con una penitenza, che, giusta le circostanze, dai quaranta giorni ai sette anni si prolungava. Durante questo corso di salutari mortificazioni, una pratica metodica di preghiere e digiuni ridonava la salute all'anima del peccatore, e l'assoluzione delle sue colpe ottenevagli. Il disordine delle sue vesti ne annunziava i rimorsi e la contrizione; astener doveasi da ogni affare, e sociale diletto. Ma il rigoroso adempimento di tali prescrizioni, avrebbe di leggieri convertiti in deserti i palagi, i campi e le intere città; i Barbari dell'Occidente non mancavano, per dir vero, di fiducia e di docilità al sacerdozio; ma la natura umana contra le massime [286] si ribellava, e spesse volte le magistrature indarno adopravansi a far forte l'ecclesiastica giurisdizione; oltrechè, diveniva cosa impossibile l'eseguire esattamente una gran parte di penitenze. Il peccato di adulterio, per un giornaliero reiterarsi delle fralezze degli uomini, moltiplicavasi, e quello dell'omicidio talvolta comprendea la strage di una intera popolazione; ogni atto peccaminoso producea un conto a parte; onde in quella età di anarchia[407] e di corruzione, non era difficile che un peccatore, anche fra i meno colpevoli, contraesse in penitenze un debito di trecent'anni. A questa sua impotenza di pagamento suppliva una commutazione, o indulgenza: ventisei solidi[408] d'argento, quattro lire sterline all'incirca, pagavano la penitenza di un anno per l'uomo ricco, tre solidi, o nove scellini, all'indigente egual servigio prestavano. Cotali elemosine vennero [287] bentosto adoperate agli usi della Chiesa, che nella remission de' peccati una sorgente inesausta di ricchezze e di potenza rinvenne[409]. Un debito di tre secoli (mille dugento lire sterline all'incirca) potea arrecar sommo danno ad uno splendidissimo patrimonio: la mancanza d'oro e d'argento fu ammendata colla alienazione delle terre; e Pipino, e Carlomagno, formalmente protestarono che le immense loro donazioni aveano per iscopo la guarigione delle proprie anime. Ella è massima delle leggi civili, che chiunque non può pagare con danaro, sconti col proprio corpo, onde i Monaci ammisero la pratica della flagellazione, doloroso ma economico supplimento[410]. Dopo una stima arbitraria, un anno di penitenza fu valutato tremila colpi di disciplina[411], e tali erano la robustezza e la pazienza del famoso eremita S. Domenico l'Incuoiato[412], che in sei [288] giorni con una flagellazione di trecentomila battiture, il debito di un secolo intero pagava. Un grande numero di penitenti d'entrambi i sessi, cotesto esempio imitò. E poichè era permesso il trasportare in un altro il merito della sopportata flagellazione, un campion vigoroso potea sulle proprie spalle espiare i peccati di tutti i suoi benefattori[413]. Sì fatti compensi pecuniarj e personali introdussero, nell'undicesimo secolo, un genere di più onorevole soddisfazione. I predecessori di Urbano II, aveano concedute indulgenze a coloro che, contro i Saracini dell'Affrica e della Spagna, brandivano l'armi; estendendo l'esempio ricevuto da essi, questo Pontefice, nel Concilio di Clermont, compartì indulgenza plenaria a tutti quelli che sotto i vessilli della Croce si arrolerebbero: la quale indulgenza era posta nell'assoluzione di tutti i loro peccati, e nella remission generale di tutto il debito che in penitenze canoniche ai medesimi rimaneva[414]. La fredda filosofia del [289] nostro secolo, durerà forse fatica a comprendere la viva impressione, che sopra anime colpevoli e fanatiche questa promessa operò. Alla voce del lor Pastore, i masnadieri, gli omicidi, gli incendiarj a migliaia accorrevano, impazienti di riscattare le proprie anime, col trasportare in mezzo agl'Infedeli il furore onde si erano fatti esecrabili nella lor patria. I peccatori di ogni grado e di ogni specie, questo nuovo metodo di espiazione avidamente abbracciarono. Niuno credeasi a bastanza puro, niuno esente da colpa e dal dovere di far penitenza; e quelli ancora che aveano minor motivo di paventare la giustizia di Dio e della Chiesa, si confortavano nell'idea di acquistare tanto maggiori diritti ad una ricompensa del lor pietoso coraggio, così in questo Mondo, come nell'altro. Il Clero latino non esitò a promettere la corona del martirio[415] a chiunque fosse in così santa spedizione soggiaciuto; e chi alla conquista di Terra Santa sopravvivea, poteva aspettarsi con sicurezza un premio, che cogli anni della vita sua accumulavasi in Cielo. Di fatto, tutti questi Crociati offerivano il proprio sangue al figlio di Dio, che immolato erasi per la lor redenzione; prendeano la Croce; entravano con fiducia nella via del Signore; la Providenza di lui dovea vegliare sovr'essi, e forse anche la sua onnipotenza, con modi visibili e miracolosi, toglier di mezzo gli ostacoli che l'impresa [290] loro impacciassero. La nube e la colonna di Jehova non erano marciate dinanzi agli Israeliti guidandoli fin nella Terra Promessa? a miglior diritto i Cristiani non poteano sperare che i fiumi si aprirebbero per dare ad essi passaggio, che le mura delle più forti città cadrebbero al suono delle loro trombe, che il sole arresterebbe il suo corso, per lasciare a questi campioni il tempo necessario a distruggere gli Infedeli?

Fra i condottieri e i soldati che al Santo Sepolcro affrettavansi, oserei assicurare non essersene trovato un solo che lo spirito di entusiasmo, la fiducia nel merito dell'impresa, la speranza del guiderdone e del patrocinio celeste, non animassero. Ma mi persuado parimente che, per la maggior parte di essi, tali motivi non fossero i soli; e che per alcuni anzi, non formassero il principal fomite di tanto fervore. La preponderanza, o l'abuso, della religione, difficilmente arrestano il torrente de' costumi dei popoli, bensì quando voglion affrettarne il corso, l'impulso loro non trova più resistenza. I Papi e i Sinodi indarno tuonavano contro le guerre de' privati, i sanguinosi tornei, gli amori licenziosi, i duelli giudiziarj. Più agevolmente riuscivano ad eccitare disputazioni metafisiche fra i Greci, a trar ne' chiostri le vittime del dispotismo e dell'anarchia, a santificare la pazienza de' vili e degli schiavi, o in appresso, a farsi merito dell'umanità e della benevolenza che fra i moderni Cristiani ravvisansi. Gli esercizj della persona, e la guerra, erano le passioni favorite de' Franchi e de' Latini; veniva lor comandato di abbandonarsi alle medesime per ispirito di [291] penitenza, di trasportarsi in lontani paesi, e sguainare le loro spade contra le nazioni dell'Oriente; il buon successo, o solamente l'aver cercato di meritarlo, bastavano a fare immortali i nomi degli eroi della Croce; anche una pietà la più pura da una sì luminosa prospettiva di gloria militare allettata esser poteva. Nelle picciole lor guerre europee, questi campioni versavano il sangue de' loro amici, o compatriotti, per l'acquisto forse unicamente di un villaggio, o di un castello: quale esser doveva la loro esultanza nel correre ad affrontare stranieri nemici, vittime al ferro lor consacrate! già colla loro immaginazione afferravano le corone ricche dell'Asia; e i trofei riportati dai Normanni nella Puglia, e nella Sicilia, parean mallevadori d'un trono al più oscuro fra i venturieri. Le contrade abitate dai Cristiani in quel secolo di barbarie, e per clima, e per coltivazione al suolo de' Maomettani cedevano: oltrechè, i vantaggi, di cui natura ed arte largheggiavano all'Asia, erano stati fuor di misura esagerati dallo zelo, o dall'entusiasmo de' pellegrini, e dalle idee che avea concepita l'Europa in veggendo i frutti di un commercio ancor nell'infanzia; il volgo di tutte le classi bevea con avidità i racconti delle maraviglie, che presentava una contrada innaffiata da fonti di mele, e da ruscelli di latte, abbondante di miniere d'oro e di diamanti, coperta di palagi di marmo e di diaspro, adombrata da boschetti olezzanti di cinnamomo e d'incenso. Ciascun Capo di guerrieri si ripromettea dalla sua spada un ricco ed onorevole possedimento, cui assegnava per solo confine l'ampiezza de' proprj desiderj in questo paradiso [292] terrestre[416]. I vassalli, i soldati poneano la propria fortuna nelle mani di Dio e del loro Signore. Le spoglie di un Emiro turco, bastar doveano ad arricchire l'infimo tra i fantaccini: la squisitezza de' vini della Grecia, l'avvenenza delle donne di quel paese, nella immaginazione di que' campioni della Croce, destavano commozioni più conformi alla natura umana, che alla lor professione[417]. Nel medesimo tempo, l'amore della libertà accendea gli animi di tutti coloro che della tirannide feudale ed ecclesiastica erano vittime. Col divenire Crociati, i borghigiani, e i contadini, soggetti alla servitù della gleba, sottrar si poteano al giogo di un superbo padrone, e trapiantarsi colle loro famiglie in una terra di libertà. Il frate vedeva un modo di sciogliersi dalla rigida disciplina del suo convento; il debitore di sospendere gl'interessi dell'usura e le persecuzioni de' creditori; gli assassini, e i malfattori d'ogni genere, di sfuggire la punizione de' loro delitti, e di disfidare impunemente le leggi[418].

Potenti e numerosi erano questi motivi; ma dopo [293] avere calcolata la forza de' medesimi sopra ciascun individuo particolare, gli è d'uopo aggiugnere ancora la autorità indefinita, e sempre crescente, dell'esempio, e di ciò che chiamasi moda. I primi proseliti, divenuti i più zelanti e i più utili missionarj della Croce, predicavano ai loro amici e compatriotti, l'obbligazione, il merito, la ricompensa della santa impresa, e gli uditori, anche a ciò meno propensi, trovavansi, a mano, a mano, trascinati dal turbine della autorità o della persuasione. Quella gioventù guerriera al menomo rimproccio, o sospetto di viltà di cui si credesse scopo, infiammavasi; tale occasione di poter visitare protetti da un formidabile esercito, il Santo Sepolcro, seducea vecchi ed infermi, donne e fanciulli, che il fervore non le forze lor consultavano: e se taluno eravi che, il dì innanzi, avesse accusati di poco senno i compagni, il dì appresso della follia loro ardentemente partecipava. Quella medesima ignoranza che i vantaggi dell'impresa ingrandiva, ne facea parer minori i pericoli. Per la conquista de' Turchi, essendo stati una serie d'anni interrotti i pellegrinaggi, gli stessi condottieri non aveano che nozioni imperfette su la lunghezza del cammino e lo stato di forze degl'inimici. Tale era anzi la stupidezza degli uomini del volgo, che alla prima città, alla prima rocca oltre i limiti conosciuti, in cui si scontravano, stavan per chiedere se quella fosse Gerusalemme, la meta del loro viaggio e lo scopo delle intraprese fatiche. Ciò nulla ostante i più prudenti fra i Crociati, non a bastanza sicuri di essere nudriti lungo la via da una pioggia di quaglie o di manna celeste[419], [294] pensarono a provvedersi di que' preziosi metalli che, per consenso d'ogni paese, sono il simbolo degli agi di nostra vita. Laonde per aver di che sostenere, giusta il loro grado, le spese del viaggio, i Principi diedero in pegno i proprj allodj, ed anche le loro province, i Nobili vendettero terre e castella, i contadini il bestiame e gli strumenti d'agricoltura. Il numero e la fretta de' venditori, inviliva il prezzo delle proprietà, intanto che i bisogni e l'ampiezza dei compratori faceano salire ad esorbitante valore l'armi e i cavalli. In questo mezzo, quelli che rimasero alle case loro, e possedeano qualche danaro e l'accorgimento necessario a farlo fruttare, nell'epidemia generale arricchirono[420]. I Sovrani acquistarono a buon patto i dominj de' lor vassalli, e i compratori ecclesiastici, mettendo a conto di pagamento la promessa di lor preghiere, minor danaro sborsavano[421]. Alcuni zelanti Crociati, valendosi di un ferro caldo, o di un liquor corrosivo che ne rendesse l'impronta indelebile, stampavano sul proprio corpo la Croce che gli altri di portar sull'abito si contentavano; e fuvvi uno scaltro frate, il quale, dando a credere che un miracolo divino gli avesse impresso il santo marchio sul petto, la venerazione dei popoli e i più ricchi [295] benefizj della Palestina con questa frode si procacciò[422].

A. D. 1096

Il Concilio di Clermont, come dicemmo, avea posto pel giorno della partenza de' Crociati il 15 di Agosto; ma costrinse ad anticiparla il numero e la straordinaria impazienza di pezzenti plebei a questa spedizione raccoltisi. Racconterò brevemente e quanto costoro soffersero, e quanto di malvagio operarono, prima d'incominciare il racconto dell'impresa più rilevante e più felice de' lor condottieri. Al comparire di primavera, oltre sessantamila persone di entrambi i sessi e della feccia del popolo, dai confini della Francia e della Lorena sen vennero, tutti accerchiando il primo missionario della Crociata, e sollecitandolo con grida, e con ogni modo di importunità, perchè presto al Santo Sepolcro li conducesse. Piero, trovatosi Generale, senza averne o il sapere, o l'autorità, guidò, o piuttosto seguì i suoi ardenti proseliti lungo le rive del Reno e del Danubio. Il numero e il bisogno li costrinsero ben tosto a sbandarsi. Gualtieri Senza Sostanze, luogotenente dell'Eremita, e soldato coraggioso, comunque oppresso dall'indigenza, comandava l'antiguardo de' Crociati. Ci formeremo facilmente un'idea di questo esercito di ciurmaglia osservando che per ogni quindicimila pedoni vi si contavano appena otto uomini a cavallo. Godescallo, altro frate fanatico, le cui prediche aveano arrolati quindici o ventimila contadini de' villaggi dell'Alemagna, l'esempio e le traccie di Piero eremita d'appresso seguì; e a tutti costoro ancora si [296] unirono dugentomila mascalzoni, la feccia più ributtante della plebaglia di tutti i paesi, che delle pratiche di pietà, del ladroneccio, dell'ubbriachezza, e d'ogni ribalderia, un orrendo miscuglio faceano. Alcuni Conti o gentiluomini, condottieri di tremila soldati a cavallo, trovarono espediente l'adattarsi alle costoro voglie per partecipar con essi alle prede. Ma i veri comandanti, almeno da questa bruzzaglia riconosciuti per tali (chi crederà oggimai ad un eccesso tal di demenza?) erano un'oca e una capra, che costoro si teneano a capo di tutte le squadre, e alle quali bestie questi spettabili Cristiani attribuivano una ispirazione divina[423]. Contra gli Ebrei, carnefici di Gesù Cristo, vennero adoperate le prime e men difficili imprese di codeste bande fanatiche, e di quelli che le secondavano. Le ricche e numerose colonie di tal nazione, stanziatesi nelle città mercantili del Reno e della Mosella, ivi sotto la protezione dell'Imperatore e de' Vescovi, di un libero esercizio del loro culto godeano[424]. A Verdun, a Treveri, a Magonza, [297] a Spira, a Worms più migliaia di questi infelici furono spogliati e trucidati[425], nè dopo la persecuzione di Adriano, altra più sanguinolenta ne aveano sofferta. Ben la fermezza de' Vescovi salvò alcuni di essi che momentaneamente finsero di abbracciare il Cristianesimo; ma gli Ebrei più ostinati, fanatismo opposero a fanatismo, e sbarrate le proprie case, e lanciandosi entro il fiume, o in mezzo alle fiamme, colle proprie famiglie e co' proprj tesori la rabbia, o almen l'avarizia, de' furibondi lor nemici delusero.

A. D. 1096

Tra i confini dell'Austria e la capitale dell'Impero d'Oriente i Crociati dovettero attraversare, per un intervallo di seicento miglia, i selvaggi deserti della Ungheria e della Bulgaria[426]. Fertile oggidì, e frastagliato da fiumi è quel suolo; ma in quella età non vi si incontravano che paludi, e quelle vastità di foreste, la cui estensione non conosce più limiti, allorchè l'uomo è schifo di assoggettare alla propria solerzia la terra. Avendo entrambe le nazioni ricevuti i principj del Cristianesimo, gli Ungari obbedivano ad un principe nato fra essi; un luogotenente del greco Imperatore i Bulgari governava. Ma la feroce indole di queste genti, al più lieve pretesto di scontento, destavasi, [298] nè lievi pretesti i ladronecci de' Crociati ad essi fornirono. Queste ignoranti popolazioni, presso le quali, come si è veduto, l'agricoltura mal regolata languìa, abbandonavano nella state le lor città, fabbricate di legno e di canne, per portarsi sotto le tende, più consuete abitazioni di popoli pastori e cacciatori. I Pellegrini crociati dopo aver chieste con arroganza alcune vettovaglie di cui mancavano, se ne impadronirono colla forza, voracemente le dissiparono, e dopo il primo contrasto che ebbero, a tutto l'impeto della vendetta e della indignazione si diedero. Ma l'assoluta ignoranza del paese ove trovavansi, e dell'arte della guerra e della disciplina a cadere in tutti gli agguati gli avventurava. Il prefetto di Bulgaria avea truppe regolari sotto i suoi ordini, e allo squillar primo della tromba guerriera, l'ottava, o decima parte degli Ungaresi corse all'armi, e in un corpo formidabile di cavalleria si ordinò; le quali truppe ai pietosi masnadieri tendendo insidie, sovr'essi ottennero una sanguinosa e memorabil vendetta[427]. Un terzo all'incirca di questa masnada, spogliata di tutto ed ignuda, ebbe a ventura il potersi riparar nella Tracia: Piero l'Eremita fu tra quelli che si salvarono. Il Greco imperatore che rispettava i motivi del viaggio impresosi dai Latini, e desideroso inoltre de' loro [299] soccorsi, fece scortar questi avanzi per una strada sicura e facile infino alla sua Capitale, ove li consigliò stessero ad aspettare l'arrivo de' lor compatriotti. La ricordanza delle commesse irregolarità, e dei danni che ne erano ad essi avvenuti, li tenne in dovere, sin tantochè incoraggiati della liberale accoglienza che a costoro fecero i Greci, la solita cupidigia tornò a dominarli, nè risparmiarono gli stessi benefattori; e giardini e palagi e chiese divennero scopo alle loro devastazioni. Alessio, che per la propria sicurezza incominciò a paventare, tanto fece che li persuase a trasferirsi sulla sponda asiatica del Bosforo; ma spinti da cieco impeto, abbandonarono ben tosto il campo che il Principe greco aveva ad essi additato come il migliore, e senza pensare alle conseguenze, si precipitarono addosso ai Turchi che la via di Gerusalemme tenevano. L'Eremita, vergognandosi di far sì trista comparsa, dal campo de' Crociati a Costantinopoli si trasferì, e il luogotenente del medesimo Gualtieri, ben degno di comandare a migliori truppe, si adoperò, ma indarno, per introdurre qualche poco di ordine e di disciplina in mezzo a questi selvaggi. Tornati a sbandarsi per avidità di saccheggio, caddero facilmente negli agguati che apparecchiò loro il sultano Solimano. Questi fece spargere destramente la voce, che una parte di Crociati marciata innanzi, della capitale de' Turchi erasi impadronita. Tutti gli altri corsero allora sullo spianato di Nicea, impazienti di raggiugnere i compagni, e star con essi a parte di preda; ma caduti vittime de' turchi dardi, cumuli d'ossa annunziarono la sconfitta de' primi a quelli che vennero dopo[428]; e già trecentomila Crociati avean [300] trovato il lor sepolcro nell'Asia, prima che una sola città agl'Infedeli si fosse tolta, prima che i Capi e i Nobili della Cristianità, gli apparecchi della santa impresa avesser compiti[429].

  CROCIATI CAPI VIAGGIO A COSTANTIN. ALESSIO NICEA E ASIA MIN.
I. Gesta Francorum p. 1, 2 p. 2 p. 2, 3 p. 4, 5 p. 5-7
II. Roberto il Monaco p. 33, 34 p. 35, 36 p. 36, 37 p. 37, 38 p. 39-45
III. Baldricus p. 89   p. 91-93 p. 91-94 p. 94-101
IV. Raimondo d'Agiles     p. 139, 140 p. 140, 141 p. 142
V. Alberto d'Aix l. j, c. 7, 31   l. ij, c. 1-8 l. ij, c. 9, 19 l. ij, c. 20-43; l. iij, c. 1-4
VI. Foulcher di Chartres p. 384   p. 385, 396 p. 386 p. 387, 389
VII. Giberto p. 482, 485   p. 485, 489 p. 485, 490 p. 491-493, 498
VIII. Guglielmo di Tiro l. j, c. 18, 30 l. j, c. 17 l. ij, c. 1, 4, 13, 17, 22 l. ij, c. 5-23 l. iij, c. 1-12; l. iv, c. 13-25
IX. Radulphus Cadomensis   c. 1, 3, 15 c. 4-7, 17 c. 8-13, 18, 19 c. 14-16, 21-47
X. Bernardo Thesaurarius c. 7, 11   c. 11-20 c. 11-20 c. 21-25
  EDESSA ANTIOCHIA BATTAGLIA SANTA LANCIA CONQUISTA DI GERUS.
I. Gesta Francorum   p. 9-15 p. 15-22 p. 18-20 p. 26-29
II. Roberto il Monaco   p. 45, 55 p. 56-66 p. 61-62 p. 74-81
III. Baldricus   p. 101-111 p. 111-122 p. 116-119 p. 130, 138
IV. Raimondo d'Agiles   p. 142-149 p. 149-155 p. 151, 152, 156 p. 173-183
V. Alberto d'Aix l. iij, c. 5-32; l. iv, 9, 12; l. v, 15-22 l. iij, c. 33-66; iv, 1-26 l. iv, c. 7-56 l. iv, c. 43 l. v, c. 45, 46; l. vj, c. 1-50
VI. Foulcher di Chartres p. 389-390 p. 390-392 p. 392-395 p. 392 p. 396-400
VII. Giberto p. 496, 497 p. 498, 506, 512 p. 512-523 p. 520, 530, 533 p. 523-537
VIII. Guglielmo di Tiro l. iv, c. 1-6 l. iv, 9-24; l. v, 1-23 l. vj, c. 1-23 l. vj, c. 14 l. vij, c. 1-25; l. viij, c. 1-24
IX. Radulphus Cadomensis   c. 48-71 c. 72-91 c. 100, 109 c. 111-138
X. Bernardo Thesaurarius c. 26 c. 27-38 c. 39-52 c. 45 c. 54-77

La prima Crociata non contò alcun monarca europeo che vi marciasse in persona. L'imperatore Enrico IV avea tutt'altra voglia che di obbedire alle prescrizioni del Papa. Filippo I, re di Francia, pensava a ricrearsi, Guglielmo il Rosso, re d'Inghilterra, a conservare una recente conquista; bastanti brighe offeriva ai re di Spagna la guerra guerreggiata nell'interno del lor paese co' Mori; i Sovrani settentrionali della Scozia e della Danimarca[430], della Svezia e della Polonia, manteneansi tuttavia indifferenti agli interessi e alle passioni de' popoli del Mezzogiorno. Il fervor religioso si fece con più efficacia sentire ai principi di secondo ordine, che nel sistema feudale una rilevante sede occupavano; e fu una tal circostanza che, come naturalmente, sotto quattro principali condottieri, i Crociati raccolse. Nel dipingere i caratteri di ognuno di questi duci molte inutili ripetizioni potrò [302] evitare, osservando che il coraggio e le consuetudini dell'armi, attributi generali erano di tutti i venturieri cristiani.

I. Goffredo di Buglione, e nella guerra, e ne' consigli, meritò il primo grado, e felici i Crociati se la condotta generale della impresa fosse stata unicamente affidata a questo eroe, degno di rappresentar Carlomagno, da cui per linea femminile scendea. Il padre di lui apparteneva alla nobile schiatta de' Conti di Bologna marittima. La madre era erede del Brabante, ossia Bassa Lorena[431], l'investitura del qual paese, l'Imperatore conferì a Goffredo con titolo di Ducato, applicato poi impropriamente a Buglione nelle Ardenne, patrimonio primitivo dei Signori di Buglione[432]. Militando sotto Enrico IV e portando egli il grande stendardo dell'Impero, il cuore di Rodolfo il Ribelle, colla lancia sua trapassò. Stato egli il primo a scalar le mura di Roma, una infermità sopraggiuntagli, un voto fatto nel durare della medesima, o fors'anche il rimorso di avere portate l'armi contra il sommo Pontefice, lo confermarono nella risoluzione, più antica in esso, di visitare, non a guisa di pellegrino, ma di liberatore, il Santo Sepolcro. Il valor suo temperavano la prudenza [303] e la moderazione; e comunque cieca la sua pietà, era però verace, e in mezzo al tumulto de' campi, tutte le virtù reali ed immaginarie di un cenobita in lui si scorgevano. Superiore alle fazioni che fra gli altri duci spargean la discordia, ai soli nemici di Cristo i suoi sdegni serbava[433]; e benchè cotale impresa gli fruttasse un regno, non evvi alcuno fra i medesimi suoi rivali che alla purezza del suo zelo, o al suo disinteresse non abbia fatta giustizia. Due fratelli in questa spedizione lo accompagnarono: Eustachio il primogenito, erede della contea di Bologna, e Baldovino il minore, le cui virtù da contrarj sospetti non andarono immuni. Ad entrambe le rive del Reno ripettavasi il Duca di Lorena; e la nascita e l'educazione, le lingue francese e teutonica gli rendeano famigliari egualmente. Allor quando i Baroni di Francia, di Alemagna e di Lorena i lor vassalli assembrarono, l'esercito confederato che militò sotto la bandiera di Goffredo ad ottantamila fantaccini, e a diecimila uomini a cavallo sommò.

II. Fra i principi che si chiarirono campioni della Croce al parlamento tenutosi alla presenza del Re di Francia, circa due mesi dopo il Concilio di Clermont, può riguardarsi come il più illustre, Ugo, conte di Vermandois; ma più che il merito, o i possedimenti comunque sotto entrambi questi riguardi ei meritasse venir distinto, gli ottenne il soprannome di Grande, la [304] sua qualità di fratello del francese Monarca[434]. Roberto duca di Normandia, e figlio primogenito di Guglielmo il Conquistatore, per propria indolenza, e per altrettanta solerzia del fratello del medesimo Guglielmo il Rosso, avea perduto, alla morte del padre, il trono dell'Inghilterra. Indole leggiera e animo debole, molt'altre prerogative di Roberto offuscavano. Per umore naturalmente gioviale, abbandonavasi di soverchio ai piaceri: le sue profusioni rovinavano lui come i popoli: per una mal intesa clemenza, incoraggiava i delitti, onde le virtù amabili di un privato, funesti vizj divenivano in un sovrano. Risoluto di partirsi per la Palestina, diede in pegno, per la picciola somma di diecimila marchi, il Ducato di Normandia all'usurpatore dell'Inghilterra[435]: ma la sua spedizione a Terra Santa, e il contegno da esso tenutosi durante la guerra, tutt'altro uomo in lui dimostrarono, e in qualche modo l'opinione pubblica gli rendettero. — Eravi un altro Roberto, conte di Fiandra, regale [305] provincia che diede in quel secolo tre regine ai troni di Francia, d'Inghilterra, e di Danimarca. Veniva soprannomato la Lancia o la Spada de' Cristiani: ma abbandonandosi all'impeto di un soldato, gli obblighi di un generale talvolta dimenticava. — Stefano, conte di Chartres, di Blois e Trojes, uno de' più ricchi principi del suo secolo, talchè il numero de' suoi castelli, co' trecento sessantacinque giorni dell'anno solea confrontarsi; avea, mediante lo studio delle Lettere, la mente sua ingentilita, onde nel consiglio dei duci, l'eloquente Stefano elessero a presidente[436]. Erano questi i quattro principali Capi che i Franchi, i Normanni e i pellegrini delle isole Britanniche conducevano; ma un registro di tutti i Baroni crociati che tre o quattro città sol possedeano, oltrepasserebbe, dice un autore contemporaneo, il catalogo de' comandanti della spedizione troiana[437].

III. Nel mezzodì della Francia si spartirono fra loro il comando Ademaro, vescovo di Puy, Legato pontificio, e Raimondo conte di San-Gille e di Tolosa, che a questi titoli i più luminosi di Duca di Narbona, e di Marchese di Provenza aggiugnea. Il primo d'essi, rispettabile prelato, le virtù necessarie alla felicità temporale ed eterna in sè stesso accoglieva; il secondo, guerriero veterano, dopo avere già combattuti i Saracini di Spagna, gli ultimi suoi giorni alla liberazione [306] e alla difesa del Santo Sepolcro fe' sacri. Perizia del pari e ricchezze, gli acquistarono somma prevalenza nel campo de' Cristiani che spesso di soccorsi da esso abbisognarono, e qualche volta gli ottennero; ma più agevole cosa riusciva a Raimondo il costringere gli Infedeli ad ammirarne il valore, che serbarsi l'affetto de' suoi vassalli e de' suoi compagni d'armi: l'indole di lui arrogante, invidiosa, ostinata oscurava l'altre prerogative dell'animo suo; onde a malgrado di avere egli abbandonato per la causa di Dio un ricco patrimonio, la pietà sua, nell'opinione pubblica, apparve non disgiunta dai sentimenti dell'avarizia e dell'ambizione[438]. I Provenzali hanno fama di essere più mercatanti assai che guerrieri, e sotto nome di Provenzali[439], gli abitanti dell'Alvernia e della Linguadoca[440], e i vassalli del regno di Borgogna e di Arles venivan compresi. Raimondo trasse dalle frontiere della Spagna una banda d'intrepidi venturieri, [307] e passando per la Lombardia, una folla d'Italiani, che sotto le sue bandiere arrolaronsi; onde a centomila combattenti, di fanteria e cavalleria, le forze del medesimo in tutto sommavano. Se Raimondo, primo ad assumere il vessillo della Croce, fu l'ultimo a mettersi in cammino, la grandezza degli apparecchi da esso fatti, e il disegno di dire eterno addio alla sua patria, possono riguardarsi come una scusa legittima di tale tardanza.

IV. Una doppia vittoria, sul greco imperator riportata, avea già fatto celebre il nome di Boemondo, figliuolo di Roberto Guiscardo; ma il testamento paterno al principato di Taranto, e alla sola ricordanza de' trofei orientali lo avea ridotto, allorchè la fama eccitata dalla santa impresa, e il passaggio de' Pellegrini franchi il destarono. È meritevole di attenzione il carattere di questo Duca normanno, in cui più che in altri ravviseremo grande ambizione, congiunta a fredda politica, nè però affatto scevra di religioso fanatismo. La condotta da lui tenutasi dà luogo a credere, ch'egli avesse regolati di nascosto i disegni del Sommo Pontefice, e finto in appresso di venirli a saper con sorpresa, e di secondarli con zelo. Nell'assedio di Amalfi, co' discorsi e coll'esempio, il fervore de' confederati maggiormente infiammò; si lacerava le vesti per presentar di Croci coloro che al suo esercito si ascrivevano, e già comandava diecimila uomini a cavallo, e ventimila fanti, quando a visitar Costantinopoli e l'Asia s'apparecchiò. Molti Principi normanni seguirono ansiosamente l'antico lor Generale; ma il cugino di esso, Tancredi[441], più di suo [308] compagno che di soggetto ai suoi ordini in questa impresa le parti sostenne. Il carattere di Tancredi, nobile sotto ogni aspetto alle virtù che ad eccellente cavaliere si addicono[442], univa quel vero spirito di cavalleria, che inspira al guerriero sentimenti di beneficenza [309] e di generosità, ben da preferirsi alla spregevole larva di filosofia, ed alla divozione ancor più spregevole di que' tempi.

Nel tempo trascorso fra il secolo di Carlomagno e le Crociate, fatto erasi presso gli Spagnuoli, i Normanni, i Franchi, un cambiamento che per tutta l'Europa rapidamente si dilatò e fu quello di commettere ai soli plebei il servigio dell'infanteria. Divenuta nerbo degli eserciti la sola cavalleria, il nome onorevole di miles fu riserbato ai gentiluomini[443] che combatteano a cavallo, dopo essere stati insigniti del carattere di cavaliere. I Duchi e i Conti, dopo essersi arrogati i diritti della sovranità, coi fedeli loro Baroni le province si scompartivano: e i Baroni a lor volta, distribuirono ai proprj vassalli i feudi e i benefizi della giurisdizione da essi goduta. Di questi vassalli militari, riguardati pari l'uno a petto dell'altro, e persino pari al Signore, da cui la primitiva autorità derivava, era composto l'Ordine equestre, ossia l'Ordine de' Nobili, che avrebbero arrossito di ravvisare nel contadino o nel borghese un ente della loro spezie. Manteneano la dignità de' natali con una scrupolosa sollecitudine di non contrar parentadi fuori del loro ceto; e i figli de' medesimi non poteano venire ammessi nell'Ordine de' cavalieri, se quattro [310] quarti, o generazioni immuni da taccia, o rimprovero non provavano. Ciò nullameno un valoroso plebeo poteva arricchirsi, nobilitarsi nell'armi, divenire ceppo d'una nuova prosapia. Un semplice cavaliere avea diritto di istituirne un altro, cui di questo onore militare credesse degno; e i bellicosi monarchi dell'Europa, più di questa distinzion personale che dello splendor del diadema, invanirono. Una tal cerimonia, di cui troviamo le tracce nelle opere di Tacito e nei boschi della Germania[444], fu semplice nella sua origine, e dalle idee religiose disgiunta. Dopo alcune prove d'uso, venivano adattati alla gamba del candidato gli speroni, e cintagli la spada, dopo di che ricevea una lieve percossa sulla spalla, o sulla guancia, come per avvertirlo essere questo l'ultimo affronto che ei non potea sopportare senza volerne vendetta; ma la superstizione, ben tosto, in tutti gli atti della vita privata, o pubblica si frammise. Dalle guerre sante consacrata la professione dell'armi, i diritti e i privilegi degli Ordini Sacri del sacerdozio, all'Ordine cavalleresco divenner comuni. Il bagno, e la tonaca bianca di cui vestito era il novizio, una sconvenevole imitazione della rigenerazion battesimale divennero. I ministri della Chiesa benedivano la spada, che sull'altare, il cavaliere nuovamente creato posava. Preghiere e digiuni precedevano la cerimonia, e armato era cavaliere a nome di Dio, di S. Giorgio e dell'Arcangelo S. Michele. Ei profferiva il voto di adempire i doveri della sua professione; della qual promessa l'educazione, l'esempio, l'opinion [311] pubblica si facevano mallevadori. Come campione di Dio e delle donne (arrossisco nel collegare insieme queste due idee così disparate) egli obbligavasi a non mai tradire la verità, a mantenere la giustizia, a proteggere gli infelici, ad usare la cortesia, (virtù agli antichi men famigliare) a combattere gli Infedeli, a sprezzare le lusinghe di una vita molle e pacifica, a difendere, in tutte le occasioni pericolose, l'onore della cavalleria, l'abuso della quale, il disprezzo dell'arti, della pace e dell'industria ben tosto fra i cavalieri introdusse. Riguardatisi questi, come i soli giudici, e vendicatori competenti delle proprie ingiurie, le leggi della società civile e della militar disciplina rifiutarono parimente; ciò non ostante sonosi provati spesse volte, e ravvisati con molta evidenza, i felici effetti che una tale istituzione operò, nell'ammansare l'indole feroce de' barbari, e nell'inspirare ai medesimi i principj della buona fede, dell'umanità e della giustizia. Dileguatesi a poco le ingiuste nimistà prodotte da differenza di patria, la fraternità d'armi, o di religione, introdusse uniformità di massime, e gara di virtù fra i Cristiani. I guerrieri di ogni nazione aveano ad ogni istante motivi di assembrarsi, per pellegrinaggi al di fuori, per imprese, o esercizj militari nelle interne parti d'Europa; e un giudice imparziale, ai Giuochi olimpici, tanto nell'Antichità rinomati[445], i tornei de' Goti certamente [312] preferirà. Negli spettacoli del primo genere che corrompeano i costumi de' Greci anzichè no, la modestia bandiva necessariamente dallo stadio le vergini e le matrone; ne' secondi in vece, nobili ed avvenenti donne accresceano co' vezzi di lor presenza la pomposa decorazione della lizza, e il vincitore ricevea il premio dell'agilità e del coraggio dalle lor mani medesime. La forza e la destrezza che nella lotta e nel pugilato voleansi, hanno corrispondenze sol lontane ed incerte, co' pregi ad un soldato essenziali: ma i tornei, siccome inventati vennero in Francia, e nell'Oriente e nell'Occidente imitati, una vera immagine delle militari fazioni presentano. I particolari certami, le generali scaramucce, le difese di un passo o di un castello, nel modo medesimo che alla guerra vi si eseguivano, e in entrambe le circostanze dall'abilità del guerriero nel regolare il suo corridore, e nell'adoperare la sua lancia, i buoni successi pendeano. Quasi sempre della lancia il cavaliere valeasi. E nel momento del maggior pericolo, cavalcava un grande ed impetuoso corridore, che nel tempo rimanente della giostra veniva condotto a mano; ed intanto un palafreno, avvezzo a più mite andatura, il suo ufizio al combattente prestava. Superflua cosa or sarebbe il descrivere la foggia degli elmi, delle spade, de' cosciali, degli scudi, e mi basterà a tal proposito annotare che invece di pesanti corazze, i giacchi, o saj da guerra, il petto de' combattenti coprirono. Dopo aver messa in resta la lunga lancia, e spronato violentemente il suo cavallo di battaglia, il cavaliere faceva impeto sull'avversario, impeto tanto forte ed immediato, che rade volte la cavalleria de' Turchi e degli Arabi il potea sostenere. Ciascun cavaliere veniva nel campo [313] di battaglia accompagnato dal suo fedele scudiero, giovine, per lo più, eguale di nascita al proprio Capo, e che faceva a canto di lui il noviziato della milizia. I suoi arcieri ed armigeri gli venivano dopo, nè men di quattro o cinque soldati erano necessarj a formare una lancia compiuta. I patti del servigio feudale, alle spedizioni straniere, o di Terra Santa, non obbligavano. In tali guerre, l'opera de' cavalieri e del lor seguito ottenevasi unicamente dal loro zelo e dalla loro affezione alla causa che doveasi difendere, ovvero per via di ricompense e promesse. Il numero de' combattenti era proporzionato alla possanza, alle ricchezze, alla celebrità di ciascuno de' Capi independenti, i quali gli uni degli altri si discerneano allo stendardo, alle imprese, al grido di guerra; onde le più antiche famiglie d'Europa, fra questi segnali, l'origine e le prove della vetusta loro nobiltà van rintracciando. Questa compendiosa descrizione della cavalleria mi ha fatto portare indugio alla storia delle Crociate che di una tale istituzione furono effetti e cagioni ad un tempo[446].

A. D. 1097

Tali furono le milizie, e tali i duci che assunsero l'impresa della Croce per correre a liberare il Santo Sepolcro. Era già partita la flotta de' vagabondi, descritti dianzi, allorchè quelli mutuamente s'incoraggiarono, per via di lettere e parlamenti, ad adempiere i giurati voti, e ad affrettar la partenza. Le mogli, [314] le sorelle di questi campioni entrar vollero a parte del merito e de' rischi del santo pellegrinaggio. Tutte le preziose suppellettili in verghe d'oro e d'argento vennero convertite; i principi e baroni si condussero dietro e cani, e falchi, per non perdere lungo la strada il piacere della caccia, e per essere certi di tener provvedute le proprie mense. La difficoltà di procurar nudrimento a sì grande numero d'uomini e di cavalli, a separare le loro forze costrinsegli; l'elezione loro, o le circostanze di sito, additarono il compartimento delle strade, e rimasero d'accordo di convenir tutti nelle vicinanze di Costantinopoli, e colà incominciar tosto le fazioni belliche contra i Turchi. Dalle rive della Mosella, Goffredo di Buglione attraversò in linea retta l'Alemagna, l'Ungheria, e il paese de' Bulgari, e sintantochè egli comandò solo, il suo esercito non fece passo, che non comprovasse la prudenza e le virtù del condottiero. Ai confini dell'Ungheria, lo arrestò per tre settimane, una popolazione di Cristiani, che il nome della Croce, o piuttosto, nè in ciò avean torto, l'abuso che di cotal nome erasi fatto, abborrivano. Recenti essendo le ingiurie che dai primi pellegrini ricevettero gli Ungaresi, questi che a lor volta oltre ogni confine spinta avevano la vendetta, temeano a ragione un eroe da sdegno di patria congiunto co' loro offensori, e con essi ad un'impresa medesima accinto; ma dopo l'esame de' motivi e degli avvenimenti, il virtuoso Goffredo, limitandosi a deplorare i delitti e le sciagure de' suoi indegni compatriotti, dodici deputati, quai messaggeri di pace inviò, onde a nome di esso, domandassero libero il passaggio, e a moderato prezzo le vettovaglie. Che anzi per togliere ogni argomento d'inquietezza, o sospetto a queste genti, Goffredo [315] diede in ostaggio sè, indi il proprio fratello a Carlomanno, principe di Bulgaria, che con modi semplici, ma amichevoli, co' medesimi usò. Sul Vangelo, in cui gli uni e gli altri credevano, giurarono scambievolmente di mantenere i patti, intantochè un bando, che pronunziava contra chi il violasse la morte, e la licenza e l'audacia de' latini soldati frenò. Dall'Austria fino a Belgrado, senza commettere, o ricevere la menoma ingiuria, attraversarono le pianure dell'Ungheria, e la presenza di Carlomanno, che con numerosa cavalleria a fianco di questi armati veniva, alla sicurezza loro in uno, e a quella de' suoi Stati giovò. Così pervennero i Crociati sino alle sponde della Sava, il qual fiume varcato, Carlomanno gli ostaggi restituì, e gli accompagnò nel separarsi da essi con sinceri voti pel buon esito della loro spedizione. Nel modo medesimo, e serbando egual disciplina, Goffredo trascorse le foreste della Bulgaria, e i confini della Tracia, potendo congratularsi con sè medesimo di essere quasi aggiunto al termine del suo pellegrinaggio senza l'uopo di sguainare contra un Cristiano la spada. Intanto Raimondo, co' suoi Provenzali, dopo aver seguìte da Torino ad Aquilea le strade dilettevoli e facili della Lombardia, camminò quaranta giorni per le inospite contrade della Dalmazia[447] e della Schiavonia, ove ai disgusti che offeriva un paese sterile e montagnoso, quelli di un cielo sempre annuvolato si aggiunsero. Gli abitanti [316] davansi alla fuga, o quai nemici si dimostravano; poco frenati dalla lor religione, o dal lor governo, ricusavano viveri e scorte a que' passaggieri, e se scontravansi in soldati sbandati gli uccideano; talchè, nè giorno, nè notte, ebbe pausa la vigilanza del Conte, il quale più profitto ritrasse dal far giustiziare alcuni di cotesti ospiti scorridori, che da un parlamento e da un negoziato convenuto col Principe di Scodra[448]. Innoltre nel suo cammino fra Durazzo e Costantinopoli, lo tribolarono, senza però arrestarne il viaggio, i soldati e i contadini del greco Imperatore; i quali, con alcune equivoche ostilità, s'accigneano parimente a turbare il passaggio degli altri Capi che sulla costa d'Italia per valicare l'Adriatico mare imbarcavansi. Boemondo, ben provveduto d'armi e di navi, era di più previdente, sollecito di mantenere la militar disciplina, nè le province dell'Epiro e della Tessaglia doveano per anche aver dimenticato il nome di questo guerriero; onde il suo saper militare e il valore di Tancredi tutti gli ostacoli superavano. Benchè il Principe normanno molto riguardo inverso i Greci ostentasse, permise il saccheggio del castello d'un eretico a' suoi soldati[449]. I nobili [317] Franchi affrettarono il lor cammino con quell'ardore cieco e presuntuoso che alla nazion loro viene sì spesso rimproverato. Dall'alpi fino alla Puglia, la corsa di Ugo il Grande, de' due Roberti e di Stefano di Chartres, per mezzo ad un florido paese, e fra le acclamazioni de' Cattolici, ad una processione trionfale paragonar si potea. Baciarono i piedi del Pontefice Romano, dalle cui mani il fratello del Re di Francia ricevè lo stendardo dorato del Principe degli Appostoli[450]; ma per questa visita di divozione e diporto trascurarono di calcolar le stagioni e di procacciarsi quanto era necessario all'imbarco. Perduto inutilmente il verno, i soldati Franchi dispersi per le città dell'Italia corruppersi. Per più riprese si veleggiò senza avere la debita cura alla sicurezza della flotta, e alla dignità de' condottieri. Nove mesi dopo la festa dell'Assunzione, assegnata dal Papa qual giorno della partenza, tutti i Principi latini ne' dintorni di Bisanzo convennero; ma il Conte di Vermandois vi comparve in forma di prigioniero, perchè la tempesta avendo separate le prime navi della sua flotta, i luogotenenti di Alessio, tutte le leggi delle nazioni infrangendo, [318] della persona del principe francese si erano impadroniti. Intanto ventiquattro cavalieri in armadura d'oro splendenti, aveano annunziato l'arrivo di Ugo, e intimato all'Imperatore di rispettare il Generale dei cristiani latini, e il fratello del Re dei Re[451].

A. D. 1096-1097

Ho letta in una novelletta orientale, la favola di un pastore, che per avere appunto veduto pago un suo voto, ogni cosa perdè. Questo meschino chiedeva acqua, e il Gange, innondandogli il podere, la mandria e la capanna del supplicante, seco si trascinò. Una sorte non molto diversa, sovrastò ad Alessio Comneno, che non per la prima volta in questa Storia è nominato, e la condotta del quale viene in così diverso modo dipinta da Anna Comnena, figlia del medesimo[452], e dagli scrittori latini[453]. [319] Gli Ambasciatori di questo Sovrano, nel Concilio di Piacenza, aveano pregato per ottenere un mediocre sussidio, forse non maggiore di diecimila uomini; ma all'arrivo di tanti poderosi Capi, e di tante nazioni fanatiche in armi, atterrito rimase. Fra la speranza e il timore, fra il coraggio e la pusillanimità, l'Imperatore ondeggiava; pure non giungerò mai a persuadermi, nè veggo alcuna ragione di credere, che nella sua tortuosa politica, da lui ravvisata siccome prudenza, egli abbia mai cospirato contro la vita, o l'onore de' Francesi. Le bande, condotte da Piero Eremita, un miscuglio di selvagge fiere, anzi che d'uomini ragionevoli, presentavano, onde Alessio non potè nè prevenirne, nè deplorarne la perdita. Le truppe comandate da Goffredo, e dai compagni di esso, meritevoli di maggior rispetto, non di maggior fiducia, sembrarongli. Comunque pietosi e puri riguardar si potessero i fini che li guidavano, l'Imperator greco paventava del pari l'ambizione conosciuta di Boemondo, e la mal cognita indole degli altri Capi. Cieco ed impetuoso era il coraggio de' Franchi; le ricchezze della Grecia potevan sedurli; fiancheggiati da eserciti numerosi, il convincimento delle lor forze, trarli in maggiore orgoglio, e incoraggiarne la cupidigia; in somma, non sarebbe stato strano che per Costantinopoli, Gerusalemme avessero dimenticata. Dopo un lungo cammino e una penosa astinenza, le soldatesche di [320] Goffredo nelle pianure della Tracia accamparono, ove intesero la cattività del Conte di Vermandois, colla massima indignazione; indignazione cui lo stesso Generale non potè impedire qualche sfogo di rappresaglie e rapine. Ma gli ammansò la sommessione di Alessio, che promise vettovagliare il lor campo; e poichè i soldati negavano tragittare il Bosforo fra i rigori del verno, vennero assegnate stanze ai medesimi per mezzo ai giardini e ai palagi, che questo braccio di mare coprivano. Intanto durava sempre un germe inestinguibile di nimistà fra le due nazioni, che i predicati di schiavi e di barbari, mutuamente si compartivano. Della ignoranza è figlio il sospetto; dal sospetto alle provocazioni giornaliere, è breve il tragitto; le preoccupazioni dell'animo sono cieche; la fame non ascolta ragioni. Venne apposta ad Alessio l'accusa di aver divisato affamare i Latini, in un posto pericoloso, cinto per ogni lato dall'acque[454]. Goffredo ordinò si sonasse a raccolta, forzò una trincea, coperse col suo esercito la pianura, ai sobborghi di Costantinopoli fece oltraggio; ma sì agevole cosa non era il rompere le porte della città, o dar la scalata a baluardi, guerniti di soldatesche. Dopo una pugna d'esito incerto, le voci della pace e della ragione, entrambe le parti ascoltarono. I donativi [321] e le promesse del Principe greco, a mano, a mano i violenti animi degli Occidentali ammollirono, e, guerriero cristiano egli pure, Alessio studiossi rianimare l'ardore per la santa impresa, promettendo le sue milizie e i suoi tesori per secondarla. Giunta la primavera, condiscese Goffredo ad occupare un adatto e ben provveduto campo nell'Asia, e varcato ch'egli ebbe il Bosforo, i legni greci alla riva opposta tornarono; greca politica che fu successivamente adoperata cogli altri Capi venuti da poi, i quali assicurati dall'esempio de' loro predecessori, e stremati dalle fatiche del viaggio, usarono egual compiacenza ad Alessio, che con accorgimento e solerzia, evitò sempre l'unione di due eserciti sotto le mura di Costantinopoli; onde dopo la festa della Pentecoste, un sol Crociato sulla riva d'Europa non rimaneva.

Certamente questi eserciti cotanto formidabili, avrebbero potuto liberar l'Asia, e rispingere i Turchi dalle vicinanze del Bosforo e dell'Ellesponto; recentissima viveva ancora la rimembranza delle fertili province che da Nicea ad Antiochia, erano state tolte al Principe greco, il quale in sè trasfusi sentiva gli antichi diritti, che il romano Impero sulla Siria e sull'Egitto avea conquistati. Compreso da questo entusiasmo Alessio si abbandonò, o finse abbandonarsi all'ambiziosa speranza di vedere rovesciati i troni dell'Asia, dai suoi novelli confederati; ma dopo alcune meditazioni, la ragione in parte, in parte la sua indole al sospettare propensa, il distolsero dal confidare la sicurezza della sua persona nelle mani di Barbari sconosciuti, o che freno di disciplina non rispettavano. Si limitò quindi ad esigere, [322] fosse per prudenza o per orgoglio, dai pellegrini Franchi un vano omaggio, o giuramento di fedeltà, e la promessa di restituirgli quanto nell'Asia conquisterebbero, oppure di protestarsi, in ciò che a tali possedimenti spettavasi, umili e fedeli vassalli del greco Impero. L'alterezza de' Crociati si mostrò sulle prime irritata dalla proposta di una volontaria servitù; ma ai seducenti artifizj dell'adulazione e della liberalità a grado a grado cedettero, e quei primi che ad umiliazione soggiacquero ad insinuarla ai proprj compagni cooperarono. L'orgoglio di Ugo di Vermandois, fu men forte nell'animo suo degli onori che durante la cattività ricevette, e l'esempio d'un fratello del re di Francia, tutti gli altri a sommessione eccitò. Quanto a Goffredo, tutte le considerazioni semplicemente umane, a quella che ei credeva gloria divina, e al buon successo dell'armi sue posponeva, laonde costantemente respinse le sollecitazioni di Raimondo e di Boemondo, che con ardore gli consigliavano il tentare la conquista di Costantinopoli. Da siffatta virtù il greco Imperatore commosso, nominò, e giustamente, Goffredo il campion dell'Impero, e nobilitonne il titolo di vassallo coll'altro di figlio adottivo, che con tutte le solenni cerimonie gli conferì[455]. Boemondo contro cui da prima tutto l'odio di Alessio si rivolgea, venne accolto come un antico e fedele confederato da questo Principe, [323] il quale, se gli ricordò le antiche ostilità, il fece soltanto per encomiare il valore e la gloria, che nelle pianure di Durazzo e di Larissa, questo figlio di Guiscardo si procacciò. Venne quindi Boemondo alloggiato, mantenuto e servito con reale magnificenza; ma un dì, mentre questi attraversava una loggia del palagio, una porta, come a caso rimastane aperta, gli lasciò vedere un cumulo d'oro e d'argento, di suppellettili e arredi preziosi, ammucchiati con apparente disordine e d'un'altezza, che tenea lo spazio frapposto tra il pavimento e la soffitta. «Quai conquiste, meditò fra sè stesso l'avaro ambizioso, potrebbero farsi col soccorso di questo tesoro! — È vostro, si affrettò a dire un Greco che gli leggea negli occhi, i sentimenti dell'animo:» Boemondo, dopo avere titubato un istante, si degnò accettare un così magnifico donativo; e gli si fece inoltre sperare un principato independente: ma Alessio senza profferire un assoluto rifiuto, evitò di rispondere all'inchiesta audace, fattasi dal Normanno per divenire Gran Domestico, ossia Generale dell'Oriente. Anche i due Roberti, uno figlio del re d'Inghilterra, l'altro parente di tre Regine, inchinarono a lor volta il trono d'Alessio[456]. Una lettera di Stefano di Chartres attesta i sentimenti d'ammirazione, che questo Principe studiavasi di manifestare all'Imperator greco, da lui chiamato il migliore e il più liberale degli uomini; e si persuadeva esserne il favorito, tanto più per la promessa ottenutane, di vedere innalzato, e presentato di possedimenti, [324] il più giovine de' proprj figli. Il Conte di S. Gille e di Tolosa, che nella sua provincia meridionale, quasi straniero di lingua e nazione al re di Francia, di questo riconosceva appena la supremazia, annunziò superbamente alla presenza de' suoi centomila uomini, di non voler essere che servitore e soldato di Cristo, e che il Principe greco potea ben contentarsi d'un negoziato di amicizia e di lega, come fra Principi eguali si usa; colla quale ostinata resistenza rendè maggiore, agli occhi almeno de' Greci, il merito della sommessione, a cui in appresso si uniformò. «Ei splendea fra i Barbari, dice la principessa Comnena, come il Sole fra le stelle del Firmamento». L'Imperatore si disacerbò col suo fedele Raimondo, narrandogli l'avversione che nel suo animo aveano destata, la fama e l'audacia dei guerrieri francesi, e i sospetti che sui disegni di Boemondo avea concepiti. Istrutto per lunga esperienza ne' politici accorgimenti, il conte di Tolosa non durò fatica ad accorgersi, che menzognera esser potea l'amicizia di Alessio, ma che costui nell'odiare almeno era sincero[457]. Lo spirito di cavalleria nella persona di Tancredi, fu l'ultimo a cedere, nè eravi chi potesse arrossire nel seguir gli esempj d'un cavaliere sì valoroso. Sdegnati parimente l'oro e gli encomj del Principe greco, castigò alla presenza di lui la tracotanza di un patrizio; indi sotto le spoglie di semplice soldato fuggì nell'Asia, cedendo, comunque il sagrifizio fosse penoso al suo orgoglio, alla autorità di Boemondo e all'interesse della causa [325] comune. La ragion migliore e più concludente di tanta sommessione de' Crociati, si era che non poteano attraversare lo stretto, nè compiere quindi il lor voto senza la permissione e le navi di Alessio. Ma in segreto speravano che giunti sul continente dell'Asia, i loro acciari cancellerebbero tanta vergogna, e romperebbero una obbligazione, della quale potea sperarsi che lo stesso Principe di Bisanzo, non avrebbe troppo religiosamente serbati i patti. Intanto la formalità del prestato omaggio fe' prestigio agli occhi di un popolo, presso il quale da lungo tempo tenea vece di possanza l'orgoglio. Sedutosi sull'alto suo trono l'Imperatore, rimase muto ed immobile intanto che i Principi latini lo adoravano, e si sottomettevano a baciargli i piedi o le ginocchia. Gli stessi storici de' Crociati, vergognando di confessare tanta viltà, non ardiscono però di negarla[458].

L'interesse pubblico, o particolare, rattenea i Duchi e i Conti da clamorose querele; ma fuvvi un Barone francese, Roberto di Parigi, a quanto viene supposto[459], il quale ardì salire sul trono, e mettersi a [326] fianco di Alessio. Sul quale atto avendolo prudentemente rimproverato Baldovino, costui si fece con impeto a rispondere nel suo barbaro idioma: «chi è egli finalmente questo screanzato che si prende la libertà di star seduto sul proprio scanno, mentre tanti valorosi capitani rimangono in piedi dintorno a lui?» Tacque l'Imperatore, e dissimulò la sua indignazione, chiedendo soltanto all'interprete la spiegazione di que' detti di Roberto, benchè ai gesti e al contegno, onde furono pronunziati, avesse potuto indovinarli egli stesso. Prima che i Crociati partissero, Alessio mostrò curiosità di sapere chi fosse questo ardimentoso Barone. Egli medesimo gliel rispose: «Io sono Franco, e vanto nobiltà purissima, antichissima del mio paese. Posso dirvi che nelle mie vicinanze è posto un oratorio[460], ove si trasferiscono quelli che bramano provare in particolar combattimento il proprio valore; colà volgono le lor preci a Dio e ai Santi suoi, sintanto che vedano [327] comparire un nemico. Ci sono stato più d'una volta, e non ho per anche ritrovato un avversario che ardisca accettare una mia disfida». Alessio congedò questo prode, dandogli alcuni saggi consigli sulla condotta da tenersi nel far la guerra co' Turchi; e gli storici francesi narrarono con compiacenza un tal singolare esempio de' costumi del loro secolo e del lor paese.

A. D. 1097

Alessandro intraprese e ridusse a termine la conquista dell'Asia con trentacinquemila Greci o Macedoni[461], fondando soprattutto la propria fiducia sul valore e sulla disciplina della sua falange d'infanteria. Il precipuo nerbo de' Crociati si stava nella loro cavalleria, onde allor quando negli spianati di Bitinia, vennero passati in rassegna, i cavalieri e i sergenti a cavallo di seguito, sommavano a centomila combattenti compiutamente armati d'elmo e di giaco. Una tal sorte di soldati ben meritava ne fosse fatta una enumerazione scrupolosa ed autentica; nè per vero è cosa da maravigliarne che in un primo sforzo il fiore della cavalleria di tutta l'Europa abbia potuto somministrare questa formidabile unione di armati a cavallo. Avvi luogo a credere che i fanti venissero serbati alle fazioni degli arcieri, de' guastatori, degli esploratori. Ma il disordinamento che fra coteste turbe regnava, non permise alcuna certa congettura sul numero di coloro che le formavano, nè a determinarlo abbiamo altra guida che l'opinione, o la fantasia di [328] un cappellano del conte Baldovino[462], la cui testimonianza nè sopra un esame oculare, nè sopra avverate nozioni si fonda: ei conta seicentomila pellegrini atti a portar l'armi, non comprendendo fra questi i preti, i frati, le donne, e i fanciulli che il campo de' Latini seguivano. Senza dubbio griderà all'esagerazione il lettore; ma prima che egli si riabbia dalla sua sorpresa, stimo opportuno l'aggiugnere, seguendo sempre la medesima autorità, che, se tutti coloro i quali ricevettero la divisa della Croce, il proprio voto avessero adempiuto, più di sei milioni d'Europei per la spedizione d'Asia sarebber partiti. Sopraffatto io medesimo da quanto il narratore dianzi citato mi vorrebbe far credere, trovo qualche conforto dal parere profferito a tale proposito da uno Storico più giudizioso e assennato[463], il quale convenendo in quella parte di calcolo che si riferisce alla cavalleria, quanto al rimanente taccia di credula dabbenaggine il prete di Chartres, dubitando per fino se le contrade cisalpine (così dee chiamarle un Francese) possano somministrar uomini che a sì sterminate migrazioni col loro numero corrispondano. Lo storico scettico, più tranquillo ancora nelle sue meditazioni, rammenterà che [329] molta mano di questi pietosi volontarj, nè anco videro Nicea, o Costantinopoli. Capriccioso e di breve durata è il predominio dell'entusiasmo: laonde una parte di que' pellegrini, la ponderazione, o la paura, la debolezza o la indigenza rattennero: altri tornarono addietro spaventati dagli ostacoli del cammino, tanto meno superabili, che que' fanatici ignoranti non gli aveano preveduti. Le ossa di una gran parte di costoro copersero i paesi inospiti dell'Ungheria e della Bulgaria. Il loro antiguardo dal Sultano de' Turchi fu fatto in pezzi; e già la perdita della prima spedizione è stata calcolata di trecentomila uomini uccisi, o morti di stento, e per l'influenza del clima. Ciò nullameno ne rimaneva ancora, e giugnevano di continuo truppe sì numerose, che lo stupor de' Greci parimente eccitarono. La faconda energia della greca lingua sembra non bastare allo studio postosi dalla principessa Comnena nell'amplificare il numero di queste genti[464]. «Tutti gli sciami delle locuste, tutte le foglie e tutti i fiori della terra, le arene del mare, e le stelle del cielo» non sono che imperfette immagini di quanto ella ha veduto o inteso dire. Talchè finalmente esclama che «l'Europa smossa dalle sue fondamenta è precipitata contro dell'Asia». Regna tuttavia la stessa incertezza sul numero a cui gli antichi eserciti di [330] Dario e di Serse sommavano; nondimeno propendo a credere che fino allora, entro il recinto di un solo campo, non si fossero mai trovate raccolte tante soldatesche, quante se ne adunarono all'assedio di Nicea, prima azione campale de' Principi latini. Sono or noti i motivi che li spinsero, l'indole loro, il genere d'armi che da questi si adoperava. La più grossa parte di loro truppe andava composta di Franchi: poderosi rinforzi aveano ricevuti dalla Puglia e dalle rive del Reno: bande di venturieri dalla Spagna, dalla Lombardia e dall'Inghilterra[465] erano accorse: oltre ad alcuni selvaggi fanatici, pressochè ignudi, feroci nelle case loro, nell'esterne guerre paurosi, che dalle montagne della Scozia e dalle paludi dell'Irlanda sbucarono[466]. Se la superstizione non avesse riguardata come sacrilega un'antiveggenza per cui sarebbero stati privi [331] del merito del pellegrinaggio i deboli e gl'indigenti, la folla di coloro che consumavano le vettovaglie senza guadagnarsele col proprio valore, avrebbe potuto fermarsi negli Stati del greco Imperatore, sintantochè i lor compagni più atti a tale spedizione, le avessero aperto e assicurato il cammino del Santo Sepolcro. Ma venne permesso di affrettarsi a visitarlo, chè non era ancora liberato, a quante ciurme, o valorose, o non valorose passarono il Bosforo. Avvezze ai climi settentrionali, le esalazioni e i cocenti raggi del sole, ne' deserti della Sorìa non poterono sopportare. Con insensata prodigalità consumarono gli adunamenti d'acque e di viveri; per la copia loro le interne parti del paese estenuavano affatto; già lontano avevano il mare, e i Greci mal contenti de' Cristiani di tutte le Sette, dal ladroneccio e dalla voracità de' latini confratelli lungi fuggivano. Pervenuti a sì orribile necessità, la fame per fin li costrinse a cibarsi delle carni de' lor prigionieri, e adulti, e fanciulli; con che procacciatisi il nome e la riputazione di cannibali, si accrebbe ne' Saracini l'orrore che contra gli europei idolatri nudrivano[467]. A certi esploratori introdottisi nella cucina di Boemondo vennero mostrati alcuni corpi umani posti allo spiedo, e i Normanni credettero atto accorto l'accreditare una vociferazione che, se maggior terrore incutea negli Infedeli, il loro odio parimente contra i Cristiani aumentava[468].

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A. D. 1097

Volentieri io mi son diffuso nel narrare i primi atti de' Crociati, che dipingono parimente i costumi e l'indole degli Europei di que' giorni. Ma restringerò il molesto e uniforme racconto di tante oscure imprese che la forza eseguì, e l'ignoranza descrisse. Dal loro primo campo situato ne' dintorni di Nicomedia, innoltratisi per più riprese, e uscendo fuori degli angusti limiti del greco Impero, si apersero per mezzo alle montagne una strada, e la pietosa lor guerra contra il Sultano de' Turchi incominciarono, assediandone la capitale. Dall'Ellesponto sino alle frontiere della Sorìa, gli Stati di Rum, reame del ridetto Principe, si estendevano, vietando così ai pellegrini la strada di Gerusalemme. Ivi regnava Kilidge-Arslan, o Solimano[469], come dicemmo, uscito della schiatta di Selgiuk, e figlio del primo conquistatore. Nel difendere un paese, che i Turchi riguardavano come loro legittima proprietà, Solimano meritò gli encomj de' suoi nemici medesimi, che soli ai posteri lo hanno dato a conoscere. Cedendo [333] al primo impeto di quel torrente, la sua famiglia, i tesori entro Nicea pose in salvo, ritirandosi nelle montagne, ove cinquantamila uomini a cavallo il seguirono; e due volte ne scese per affrontar gli assedianti, il campo de' quali offeriva un cerchio imperfetto di sei miglia all'incirca. Alte e saldissime mura, fiancheggiate da trecentosettanta torri, e da profonda fossa difese, la città di Nicea circondavano; e le facea presidio il fiore de' Musulmani che guardavano i confini, per cui gli Stati turchi dalla Cristianità eran disgiunti; gente valorosa, ben addestrata alla guerra, e del culto suo zelantissima. Innanzi alla indicata città i Principi Franchi accamparonsi; ma le loro fazioni, nè si comunicavano scambievolmente, nè ad una massima generale sottomettevano. L'emulazione animava il valor de' medesimi; poi questo valore contaminavano le crudeltà, e l'emulazione tralignava in invidia e in discordie. I Latini adoperarono, all'assedio di Nicea, tutte le macchine da guerra dall'Antichità conosciute. Mine, arieti, testuggini, torri sulle ruote, (belfredi), baliste, fuochi artifiziali, catapulte, fionde, e balestre che pietre e dardi lanciavano[470]. Durante cinque settimane di fatiche e di pugne, molto sangue fu sparso; e gli assedianti, sopra tutti il conte Raimondo, fecero alcuni progressi; ma i Turchi durar potevano nel resistere e assicurarsi la ritirata, fintantochè dominavano [334] il lago Ascanio[471], che al ponente di Nicea per parecchie miglia si estende. La prudenza e l'industria di Alessio, un tale ostacolo superarono; sua mercè, vennero trasportati dal mare in sul lago, molti battelli carichi di abili arcieri, che alla fuga della Sultana si opposero. Già Nicea era stretta da tutte le bande, quando un messo dell'Imperator greco, avvertì gli abitanti di sottrarsi, finchè ne erano in tempo, al furore de' Selvaggi d'Europa, accettando la protezione del suo Signore. Laonde nel momento della vittoria, o certamente allorchè vi era ogni ragion di sperarla, i Crociati, avidi di sangue e di strage, furono costretti fermarsi alla vista dello stendardo imperiale, che sventolava sulle mura della rocca; ed una sì importante conquista, Alessio con grande cura a sè medesimo riserbò. La voce dell'onore e dell'interesse, al bisbigliar dei Capi impose silenzio. Dopo un riposo di nove giorni, s'incamminarono verso la Frigia, condotti da un Generale greco, che inteso però sospettavano col Sultano. La Sultana e i primarj servi di Solimano, ottennero senza riscatto la loro libertà: e questa generosità dall'Imperatore usata ai miscredenti[472], per una prova di perfidia ebbesi dai Latini.

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A. D. 1097

Più irritato che avvilito si mostrò Solimano della perdita della sua capitale. Fatta nota con manifesti ai suoi sudditi e confederati, la straordinaria invasione de' Barbari di Occidente, gli Emiri turchi alla voce del Principe e della religione obbedirono. Molte bande di Turcomanni alle bandiere del Sultano si affrettarono; onde le forze congiunte del medesimo, con un calcolo vago, si fecero dai Cristiani ascendere a dugento ed anche trecento sessantamila uomini di cavalleria. Ciò nullameno Solimano aspettò con pazienza, che i Cristiani si fossero allontanati dal mare, e dalle frontiere della Grecia, e volteggiando ai lor fianchi, li seguitò. Pieni questi d'una imprudente fiducia, marciarono in due corpi separati, e posti fuor d'abilità di vedersi l'un l'altro; onde poche miglia di qua da Dorilea nella Frigia, il corpo di sinistra, il men numeroso, fu sorpreso da Solimano che lo assalì, e quasi sconfisse[473]. Il caldo della stagione, il nembo di frecce, le grida degli Ottomani avendo sparso per ogni dove il terrore e la confusione, i Crociati, perduta ogni speranza, si sbaragliarono, e se la inegual pugna si resse, fu dovuto anzi che all'abilità, al valor personale di Boemondo, [336] di Tancredi e di Roberto di Normandia. La vista delle bandiere di Goffredo, che col Conte di Vermandois e con sessantamila uomini di cavalleria, in soccorso de' suoi accorreva, rianimò lo stremato coraggio delle soldatesche. Raimondo di Tolosa, e il Vescovo di Puy, ben tosto arrivarono col rimanente dell'esercito, e senza riposarsi un istante, si schierarono in ordine di battaglia, e la pugna rincominciò. Intrepidi la sostennero gli Ottomani, ed uno sprezzo eguale, con cui venivano riguardati i popoli della Grecia e dell'Asia, fece confessare ad entrambe le parti, che i soli Turchi ed i Franchi il nome di soldati si meritavano[474]. Variati furono gli assalti, e li contrabbilanciò la differenza delle armi e della disciplina; da una banda si faceva impeto immediato, rapidi moti dall'altra operavansi; con lancia inclinata i Cristiani affrontavano, opponeano i Turchi le lor chiaverine; oltre alle differenze della pesante e larga spada de' primi, della ricurva sciabola che gli altri portavano, delle vesti leggiere e ondeggianti e della greve armadura, dell'arco de' Tartari e della balestra; sino a quei giorni sconosciuta agli Orientali[475]. Sintanto che i cavalli [337] mantennero il loro vigore, e ne' maomettani turcassi frecce rimasero, Solimano sempre superiore, a quattromila Cristiani fe' morder la polvere; ma sull'imbrunir della sera all'agilità prevalse la forza: d'ambo le parti eguale era il numero; o almeno trovavansi in ogni luogo tante aste, quante lo spazio ne potea contenere, e i Generali far movere; ma gli ultimi manipoli de' Provenzali di Raimondo, girando attorno alle colline, e senza forse averlo divisato, presero alle spalle il nemico già stanco, e così decisero d'un esito per sì lungo tempo sospeso: oltre alla moltitudine de' morti di minor conto che niuno si degnò numerare, tremila cavalieri pagani, quali nella battaglia, quali inseguiti perirono. Saccheggiato il campo di Solimano, oltre al prezioso bottino, offerse anche pascolo alla curiosità de' Latini, che contemplarono da presso tutte quell'armi e quegli attrezzi stranieri, e i cammelli e i dromedarj, affatto nuovi per essi. Quanto fosse importante quella vittoria, lo provò la precipitosa fuga del Sultano; il quale seguìto da diecimila guardie, avanzi del suo esercito, sgombrò il territorio di Rum, correndo ad implorare i soccorsi, e a riaccendere l'astio de' suoi compatriotti dell'Oriente. In un cammino di cinquecento miglia, i Crociati trascorsero le devastate campagne, e le deserte città dell'Asia Minore, senza scontrarsi nè in amici, nè in avversarj. Il Geografo[476] può delineare [338] i siti di Dorilea, di Antiochia, di Pisidia, di Iconium, di Archelaide, di Germanicia, confrontando queste antiche denominazioni, co' moderni nomi di Eskishehr (la Vecchia Città), Akshehr (la Città Bianca), Cogni, Erekli e Marash. I pellegrini attraversarono un deserto, ove un bicchier d'acqua a prezzo d'argento vendeasi; e al tormento d'una intollerabile sete, ne succedè un maggiore, allorchè il primo ruscello scopersero; tanto furono ad essi fatali e l'impazienza di estinguer la sete, e l'intemperanza nello sbramarla. Con paura, e a stento, superarono le discoscese e sdrucciolevoli pendici del monte Tauro; nel qual varco un grande numero di soldati, per minorare i pericoli della salita, si spacciò delle proprie armi, onde se il terrore non avesse preceduto il loro antiguardo, bastava una mano di nemici risoluti, a gettare nel profondo di orridi precipizj, quelle torme da spavento comprese. I due più rispettabili Capi de' Crociati, il Duca di Lorena e il Conte di Tolosa, venivano portati entro lettighe. Raimondo era salvo, diceasi, per miracolo, da una malattia pericolosa, che non lasciava luogo a speranza; Goffredo aveva sofferto grave strazio da un orso, che ci stava nelle montagne di Pisidia cacciando.

A. D. 1097-1151

Perchè nulla mancasse alla generale costernazione, il cugino di Boemondo e il fratello di Goffredo, disuniti eransi dall'esercito, ciascuno co' suoi squadroni, composti di sei o settecento uomini a cavallo. [339] Dopo avere attraversate rapidamente le montagne e le coste marittime della Cilicia, da Cogni sino alle frontiere della Sorìa, il Normanno piantò per il primo i suoi stendardi sopra le mura di Tarso e di Malmistra; ma l'orgoglio ingiusto di Baldovino stancata avendo la pazienza del generoso Italiano, in singolare certame la lor disputa definirono. Solo motivo delle azioni di Tancredi era l'onore, nè ad altra ricompensa fuorchè alla gloria aspirava; ma le imprese men generose del suo rivale la fortuna favoreggiò. Un tiranno greco od armeno, al quale i Turchi permetteano dominare sopra i Cristiani di Edessa[477], chiamò Baldovino in soccorso, dandogli il titolo di suo figlio e campione, che l'altro non ricusò: ma appena introdotto nella città, eccitò il popolo a trucidar questo padre, s'impadronì dei tesori e del trono, ed estendendo le sue conquiste nelle montagne dell'Armenia, e nelle pianure della Mesopotamia, fondò al di là dell'Eufrate la prima sovranità de' Franchi, o Latini, sovranità che cinquantaquattro anni durò[478].

A. D. 1097-1098

Trascorsero affatto la state e l'autunno, prima che i Franchi penetrassero nella Sorìa. Se dovesse imprendersi [340] tosto l'assedio di Antiochia, o ripartire qua e là l'esercito per lasciarlo in riposo, durante il verno fu argomento di forti discussioni ne' lor consigli. L'ardor di combattere e la brama di liberare il Santo Sepolcro, vinsero il partito, risoluzione forse anche consentanea alla prudenza, essendo cosa certissima che ogni istante d'indugio scema il vigore di un'invasione, e il terrore che ne deriva; migliora la condizione di chi si difende. La capitale della Sorìa difendevano l'Oronte e il ponte di Ferro, ponte di nove archi che questo nome traea dalle sue porte massicce, e da due torri costrutte a ciascuna delle estremità del medesimo. Ma queste al valore del Duca di Normandia non avendo potuto resistere, la vittoria di lui aperse a trecentomila Crociati il cammino; il qual calcolo, ammettendo anche molte perdite e diserzioni, dimostra evidentemente esagerato l'altro della rassegna di Nicea. Per chi si accigne a descrivere la città di Antiochia[479], non è sì agevole cosa il trovare un termine medio, fra l'antica magnificenza per cui sotto i successori di Alessandro e di Augusto splendea, e l'aspetto sotto il quale mostrasi oggidì nello stato d'invilimento, cui l'hanno ridotta i Turchi. La Tetrapoli o le quattro città, se pure il loro nome e sito serbavano, doveano lasciare grandi [341] vuoti in un circuito di dodici miglia, la quale estensione, guernita di quattrocento torri, non collima gran che colle cinque porte che si vedono citate sì di frequente nella storia di quell'assedio. Ciò nullameno, ogni apparenza dimostra, che Antiochia fosse tuttavia e vasta, e popolosa, e fiorente. Baghisiano, vecchio generale, difendeva a capo degli Emiri la piazza, comandando un presidio d'uomini a cavallo, fra i sei e i settemila, e di fanti fra i quindici e i ventimila. Si pretende che vi perirono sotto i colpi delle spade centomila Musulmani, e giusta i verisimili calcoli, il numero di questi era inferiore a quel de' Greci, degli Armeni, di que' di Sorìa, soggiogati, non erano più di quattordici anni, dai Selgiucidi. Ricigneano questa città alte e salde mura che, giudicandone dai loro avanzi, s'innalzavano sessanta piedi sopra le valli. E le parti di questo ricinto, ove era stato adoperato men d'arte e fatica a munirle, venian supposte difese a bastanza dalle montagne, dalla palude e dal fiume. A malgrado però delle sue fortificazioni, la città è stata presa successivamente dai Persiani, dagli Arabi, da' Greci e dai Turchi; perchè era difficile che una sì vasta circonferenza, qualche punto debole non offerisse. Nell'assedio che, a mezzo ottobre, i Cristiani ne impresero, il solo vigore posto nell'eseguirlo, potea scusar l'ardimento di averlo tentato. Quanti prodigi possono aspettarsi dalla forza e dal valore, per parte dei campioni della Croce si videro. Costretti sì di frequente a battersi, or dalle sortite degli assediati, or dalla necessità di foraggiare, or da quella di difendere le proprie vettovaglie, e di assalire quelle dell'inimico, ottennero spesse vittorie, e sol dobbiamo [342] lamentarci dall'esagerazione di chi, raccontando le prodezze de' Franchi, ogni probabilità oltrepassò. Col fendente della sua spada[480], Goffredo spaccò in due parti dalla spalla all'anca un Turco, del cui cadavere cadde una metà, l'altra il corridore del Franco fino alle porte di Antiochia si trasportò. Roberto di Normandia, galoppando allo scontro dell'avversario, pietosamente esclamò: «consacro la tua testa ai demonj dell'inferno», e col primo colpo di sciabola gli fendè il capo insino al petto: ma la realtà o la fama di tali gigantesche avventure[481], avrà certamente persuasi i Musulmani, a trincerarsi entro le loro mura, e contro mura di mattoni e di terra, sono armi impossenti la lancia e la spada. L'ignoranza e la negligenza de' Crociati, li rendea mal atti a regolare le lunghe e successive fazioni di un assedio; oltrechè, mancavano e d'intelligenza per [343] inventare le macchine che le possono agevolare, e di danaro per provvederle, e d'industria per prevalersene. Nella conquista di Nicea, eransi maravigliosamente giovati dell'erario e del sapere dell'Imperatore Alessio, e di questo possente soccorso mal teneano luogo nel secondo assedio, alcuni legni pisani e genovesi, che il commercio, o la religione traevano sulle coste della Sorìa. Penuriavasi di vettovaglie, incerti i modi di provvederle, difficili e pericolose le comunicazioni. Fosse trascuratezza, o impotenza, i Cristiani non aveano stretta per ogni lato la città, e due porte di essa, rimaste libere, assicuravano continuamente nuovi rinforzi e viveri alla guernigione. In sette mesi d'assedio, i Crociati videro pressochè distrutta la loro cavalleria, oltre ad uno sterminato numero di soldati, che le fatiche, la fame e le diffalte lor tolsero; nè intanto alcun considerabile progresso avevano fatto. E forse più lungo tempo incerto sarebbe stato l'esito di loro impresa, se lo scaltrito e ambizioso Boemondo, l'Ulisse de' Latini, le armi dell'inganno e del tradimento non avesse operate. Antiochia racchiudeva molta mano di malcontenti Cristiani: fra quali Firuz, rinnegato della Sorìa, godendo il favor dell'Emiro aveva il comando di tre torri. Costui col farsi merito di un nuovo pentimento, nascose forse ai Latini, e a sè medesimo, l'obbrobrio della propria perfidia. Ragione di mutuo interesse avendo pertanto posti in segreta corrispondenza Firuz e il Principe di Taranto, Boemondo manifestò ai Duci assembrati in consiglio, come dipendesse da lui il farli entrare nella città, ma per prezzo del servigio, richiese la sovranità di Antiochia. Erano quelli a sì dure estremità che dovettero accettare [344] un partito, da cui sulle prime per gelosia rifuggirono. I Principi francesi e normanni mandarono ad effetto questa sorpresa, salendo eglino stessi le scale di corda che venivano lor gettate fuor delle mura. Il contrito proselito de' Cristiani, colle mani ancora grondanti del sangue d'un suo fratello, che avea, agli occhi di lui, troppi scrupoli, abbracciò i servi di Dio e nella città gl'introdusse. Apertesi all'esercito le porte, i Musulmani sperimentarono che, se era inutile il sottomettersi, il resistere diveniva impossibile; ma le Fortezze avendo ricusato di arrendersi, i vincitori si trovarono ben tosto circondati e assediati dall'esercito innumerevole di Kerboga, Principe di Mosul, che, accompagnato da vent'otto Emiri, in soccorso d'Antiochia accorreva. Per venticinque giorni, i Cristiani rimasero in tale stato che speranza di salvamento non offeriva, e già l'orgoglioso luogotenente del Califfo, sola alternativa per la morte o la schiavitù, ad essi lasciava[482].

A. D. 1098

A tale eccesso di sciagure condotti, raccolsero quante forze lor rimanevano, e usciti della città, con una vittoria delle più memorande, distrassero e spersero in un sol giorno tanta copia di Turchi e d'Arabi, che i vincitori poterono, senza tema di essere contradetti, calcolare a seicentomila uomini[483] il numero. [345] Porterò fra poco le mie indagini su quella parte di tal vittoria che al soccorso di confederati soprannaturali venne attribuita; ma l'intrepida disperazione de' Franchi fu la cagione naturale della vittoria di Antiochia, e aggiungasi ancora, la sorpresa, la discordia, e forse gli abbagli degl'ignoranti e presuntuosi loro avversarj. La confusione di quella giornata si è frammessa ne' racconti di chi l'ha descritta: non passeremo nullameno sotto silenzio quanto vi si narra intorno alla tenda di Kerboga, vasto palagio ambulante, ricco di tutto il fasto dell'Asia, ed atto a contenere oltre duemila persone. Dalle stesse descrizioni udiamo ancora che le guardie di Kerboga, in numero di tremila, andavano, non meno de' lor cavalli, tutte coperte di un'armadura di acciaio.

Finchè durarono l'assedio e la difesa di Antiochia, i Crociati, or mostraronsi inorgogliti per la vittoria, ora oppressi dalla disperazione, or notavano nell'abbondanza, or la fame e gli stenti stremavanli. Un filosofo contemplativo avrebbe ragione d'immaginarsi che la fede de' Crociati grandemente sugli atti loro operasse, e che i soldati del vessillo della Redenzione, i liberatori del Santo Sepolcro, con una vita sobria e virtuosa, si apparecchiassero alla palma del martirio, ognor presente ai lor guardi. Ma la pia [346] illusione vien dissipata dalla esperienza: onde rade volte la storia delle guerre profane offre scene di dissolutezza e di prostituzione da paragonarsi con quelle che sotto le mura di Antiochia avvenivano. Il boschetto di Dafne non era più, ma, tuttavia infetto delle antiche corruttele l'aere della Sorìa, i Cristiani non resistettero nè alle tentazioni inspirate dalla natura, nè a quelle che la natura respinge[484]; sprezzando essi l'autorità de' lor Capi, e sermoni ed editti nulla poteano contra disordini che alla disciplina militare, e alla purezza evangelica parimente opponeansi. Così ne' primi giorni dell'assedio, come ne' primi di Antiochia occupata, i Franchi dissiparono con tutta la prodigalità della spensieratezza quelle vettovaglie, che una frugale economia avrebbe fatto durare per molte settimane e per molti mesi; que' devastati dintorni non poteano più somministrar loro alcuna cosa, nè andò guari che l'esercito de' Turchi dal quale erano circondati, li privò d'ogni comunicazione coll'interno del paese. Le infermità, compagne inseparabili della fame, acquistarono maggiori gradi di malignità dalle piogge del verno, dai calori della state, dal mal sano nudrimento, dall'affollamento stesso della moltitudine. Le schifose pitture della peste e della fame essendo sempre le medesime, la nostra immaginazione può facilmente additarci, quai fossero i patimenti di questi sciagurati, quali le misere provvisioni per cui si studiavano di alleviarli. Quanto rimanea de' tesori e delle prede veniva da [347] essi con larga mano adoperato a procacciarsi i più vili alimenti. Quali saranno state le angosce del povero, se il conte di Fiandra e Goffredo, dopo avere pagato quindici marchi d'argento per una capra, e altri quindici per un cammello etico,[485] si videro costretti l'uno a mendicare un pranzo, l'altro a cercare in prestito un cavallo! Sessantamila cavalli passati dianzi in rassegna nel campo, trovavansi prima del terminar dell'assedio, ridotti a soli duemila. L'infiacchimento del corpo, e i terrori dell'immaginazione, avendo ammorzato l'entusiasmo de' pellegrini, l'amor della vita[486] divenne più forte de' sentimenti dell'onore e della religione. Fra que' Capi nullameno possono annoverarsi tre eroi, da tema e demerito serbatisi immuni. Goffredo di Buglione che la sua pietà magnanima sostenea; Boemondo per impulso d'ambizione e di personale interesse; e Tancredi, il quale, siccome verace Cavaliere, protestò che sintantochè gli sarebbero rimasti quaranta compagni per seguirlo, non avrebbe abbandonata la spedizione della Palestina. Ma il conte di Tolosa e di Provenza infermò, e finta ne fu sospettata la malattia; le censure della [348] Chiesa richiamarono dalle coste marittime il Duca di Normandia. Ugo il Grande, benchè comandasse l'antiguardo dell'esercito, si valse di un pretesto equivoco per ritornarsene in Francia: Stefano di Chartres abbandonò obbrobriosamente lo stendardo nelle sue mani affidato e il Consiglio cui presedeva; i soldati ogni coraggio perdettero in veggendo partire Guglielmo Visconte di Melun, che i colpi vigorosi della sua azza da guerra avean fatto soprannomare il Carradore; i devoti rimasero scandalezzati della caduta di Piero l'Eremita, che dopo avere armata tutta l'Europa contro dell'Asia, alle molestie d'un forzato digiuno tentò sottrarsi. I nomi di tant'altri guerrieri che mancarono di coraggio, vennero cancellati, come si esprime uno storico, dal libro di vita; e coll'epiteto ignominioso di ballerini da corda furono qualificati que' tanti che, per fuggire da Antiochia, ne scalarono di notte tempo le mura. L'Imperatore Alessio che pareva movesse in soccorso de' Latini[487], atterrì in udendo come ad estremo caso fosser ridotti. Tutti in preda ad una tetra disperazione, quasi aspettavano omai con tranquillità il loro destino. Vane tornarono le prove de' giuramenti e delle punizioni, talchè per costringerli i soldati a difender le mura, fu di mestieri metter fuoco alle case ove stanziavano.

Eppure quello stesso fanatismo, che a quasi inevitabile distruzione gli aveva condotti, li fece uscire [349] vittoriosi di un tal pericolo. In una tale spedizione, in mezzo ad un esercito di simil natura, frequenti e famigliari esser doveano le visioni, le profezie ed i miracoli. Questi, nel durare de' patimenti che i Cristiani soffersero in Antiochia, si ripeterono con maggior forza e con istraordinario buon successo. Ora sant'Ambrogio aveva assicurato un pio Ecclesiastico che il momento della grazia e della liberazione esser dovea preceduto da due anni di prova. Or narravasi di alcuni disertori arrestati da Cristo comparso in persona per rampognarli; i morti si erano obbligati ad uscire fuor dalle tombe per combattere a fianco de' proprj fratelli. La Vergine aveva ottenuto ai Franchi il perdono de' lor peccati, e la confidenza di ognuno fu invigorita dalla fausta e luminosa scoperta della Santa Lancia[488]. In tali estremità, molto lodata venne la politica di que' duci, e certamente almeno meritevole era di scusa. Ma di rado, una pia frode in mezzo ad un numeroso consiglio può concertarsi; bensì un impostore volontario avea di che fondarsi sull'appoggio degli uomini istrutti e sulla credulità popolare. Un prete, nomato Pietro Bartolommeo, della diocesi di Marsiglia, fornito di un ingegno rozzamente artificioso, e de' cui costumi era sospetta la fama, si mostrò alla sala del Consiglio per rivelare ivi, come Sant'Andrea gli fosse apparso per tre volte durante il sonno, e dopo minacciategli terribili punizioni, se ai comandi del Cielo osava resistere, così gli avesse parlato: «In [350] Antiochia, nella chiesa di mio fratello, San Pietro, vicino all'Altar Maggiore, si troverà, scavando sotterra, il ferro che percosse il costato del nostro Redentore. Fra tre giorni, questo strumento dell'eterna salute verrà manifestato ai suoi discepoli, e la liberazione de' medesimi opererà. Cercate, e troverete. Sollevate questo mistico ferro in mezzo all'esercito, e andrà a ferire fino nell'anima i miscredenti». Il vescovo di Puy, Legato del Papa, mostrò di ascoltare, con indifferenza e poca fiducia, la rivelazione del prete marsigliese; ma avidamente l'accolse il Conte Raimondo, che questo suo fedele suddito aveva prescelto, a nome dell'appostolo, per essere guardiano della Santa Lancia. Deliberatosi di tentare l'esperimento, nel terzo giorno indicato dalla profezia, il messo di S. Andrea, dopo essersi, com'era convenevole, a ciò preparato col digiuno e colla preghiera, introdusse nel tempio dodici spettatori di sua confidenza, nel cui novero il Conte Raimondo e il Cappellano di lui computavansi; sbarrate vennero le porte per evitare l'affoltamento delle turbe impazienti di verificare il prodigio. Si cominciò lo scavamento nel luogo che era stato accennato; ma gli operai che si davano la muta, dopo essere scesi co' loro ordigni fino alla profondità di dodici piedi, non quindi rinvenivano quanto cercavasi. Solamente la sera, allorchè il Conte si fu ritirato alle sue stanze, e quando gli spettatori, stanchi incominciavano a bisbigliare, Bartolommeo in camicia, e dopo essersi levate le scarpe, si calò coraggiosamente entro la fossa. L'oscurità dell'ora e del luogo, gli agevolò l'artifizio di celare in quella cavità il ferro di una lancia che a qualche Saracino avea appartenuto. [351] Al primo suono, al primo scricchiolar dell'acciaro, venne salutato fra acclamazioni di divozione e di gioia. Toltala quindi dal luogo ov'era stata nascosta, la Santa Lancia venne avvolta in un velo di seta ricamato, ed esposta alla venerazione de' Crociati. Da quel momento le angosce loro in grida di giubilo e di entusiasmo si convertirono, e il rinato entusiasmo restituì alle scoraggiate truppe l'antico valore. Qualunque sia stata la parte che a tale avvenimento ebbero i Capi, e che che si pensassero della cosa, certamente un sì felice cambiamento, per tutte le vie suggerite dalla disciplina e dalla Religione, protessero. Rimandati vennero ai loro alloggiamenti i soldati, raccomandatosi ai medesimi di affortificare il corpo e l'anima per essere in tutto apparecchiati al prossimo combattimento; consumassero senza tema le ultime vettovaglie e i foraggi, aspettando allo schiarire del nuovo giorno il segnale della vittoria. Ricorrendo alla domane la festa de' SS. Pietro e Paolo, le porte di Antiochia si apersero, ed una processione di preti e monaci uscì cantando il salmo di guerra.

La battaglia fu ordinata in dodici corpi ad onore de' dodici Appostoli; il cappellano di Raimondo ebbe, a nome e vece del suo Signore, l'incarico di portare la Santa Lancia. La possa di questa reliquia, o trofeo, si fece sentir fortemente non solo ai servi di Cristo, ma forse anche a quelli che nemici ne erano[489]. E ad invigorirla [352] contribuì il caso, o uno stratagemma, o la voce sparsasi di un nuovo miracolo. Tre cavalieri vestiti di bianco e di splendenti armadure coperti, furono veduti uscire delle montagne. Ademaro, Legato pontifizio esclamò essere eglino i martiri San Giorgio, San Teodoro e San Maurizio. Il tumulto delle pugne non avendo lasciato il tempo nè di dubitare, nè di avverare le cose, favorevole si fu la creduta apparizione ad abbagliare gli occhi e la fantasia, di un esercito di fanatici. Così ne' momenti del pericolo, come ne' primi della vittoria, non vi fu chi sulla veracità della rivelazione di Bartolommeo Marsigliese mostrasse dubbio; ma in mezzo alla calma che venne dopo, gli onori e le copiose elemosine che la dignità di guardiano della Santa Lancia al Conte di Tolosa produsse, nel moverli ad invidia, risvegliarono la ragione nelle menti de' suoi rivali. Un Cherco normanno osò esaminare con occhio filosofico le credibilità della leggenda, le circostanze della scoperta, la riputazione del Profeta: per lo che il pio Boemondo meramente ai meriti e all'intercessione di Gesù Cristo attribuì la liberazione dei Crociati. I clamori e l'armi de' Provenzali, per qualche tempo, questo Palladio di lor nazione difesero; e nuove visioni annunziavano la morte e la dannazione degli empj che con scettica esitanza si facessero solamente lecito di movere indagini sul merito, o sulla realtà della scoperta. Ma l'incredulità prevalse, e costrinse Bartolommeo ad assoggettare ad un [353] Giudizio di Dio la verità delle cose che avea rivelate e la propria vita. Innalzatasi in mezzo al campo una catasta di fascine secche, alta quattro piedi e lunga quattordici, e mentre l'impeto delle fiamme a quattordici cubiti le sollevava, il prete marsigliese venne obbligato ad attraversare un sentiero non più largo d'un piede che in mezzo alla fornace lasciato erasi aperto. A malgrado di sua destrezza ed agilità, lo sciagurato ne riportò il ventre e le coscie arrostite, onde in termine di ventiquattro ore spirò, sempre protestandosi e veritiero, e innocente, le quali proteste saranno forse di qualche peso appo le menti, a credere molto inclinate. Indarno i Provenzali si adoperarono a sostituire una croce, o un anello, o un tabernacolo alla Santa Lancia, la cui sola ricordanza fatta erasi argomento a dileggio[490]. Pur chi il crederebbe? Gli storici de' secoli successivi hanno con gravità attestata la rivelazione di Antiochia, e tali progressi può fare la credulità, che miracoli de' quali fu dubitato ne' tempi, e nelle contrade ove nacquero, dalle età più lontane, e in luoghi da queste contrade remoti, con implicita fede vengono accolti.

La prudenza o la buona sorte de' Franchi fatto avea che differissero la loro spedizione sino al momento [354] che l'Impero de' Turchi declinava[491]. Sotto il vigoroso governo de' tre primi sultani la pace e la giustizia tenea i reami dell'Asia congiunti. Gli innumerabili eserciti che quei principi conduceano in persona, pareggiavano in valore quelli de' Barbari dell'Occidente, in disciplina li superavano; ma ne' giorni delle Crociate, quattro figli di Malek-Sà, se ne disputavano scambievolmente il retaggio. Intesi affatto alle cure di personale ambizione, poco il rischio pubblico li commovea: e la variabilità de' successi di questi pretendenti, rendea incerti, e non curanti i principi lor vassalli sulla parte cui serbar dovevano fedeltà. I vent'otto Emiri che sotto gli stendardi di Kerboga pugnarono, o suoi rivali erano, o suoi nemici. Quell'esercito vedeasi composto di soldatesche raunate affrettatamente nelle città, e nelle tende della Sorìa e della Mesopotamia, intanto che le vecchie bande interteneansi di là dal Tigri in civili guerre struggendosi. Tal momento di debolezza e discordia sembrò opportuno al Califfo d'Egitto per ricuperare gli antichi possedimenti. Il suo sultano Afdal, dopo avere assediate Tiro e Gerusalemme, scacciati i figli di Ortok, restaurò nella Palestina l'autorità civile ed ecclesiastica de' Fatimiti[492]. Intesero con sorpresa come [355] numerosi eserciti di Cristiani fossero passati d'Europa in Asia, e si allegrarono di assedj e combattimenti, atti a distruggere la possanza de' Turchi, persecutori della lor setta, avversi alla lor monarchia: ma questi Cristiani medesimi erano nemici giurati del Profeta, e dopo avere conquistata Nicea ed Antiochia, doveano per lo scopo di loro impresa, i cui motivi già cominciavano ad essere palesi, trasferirsi sulle rive del Giordano, e su quelle forse del Nilo. La Corte del Gran Cairo entrò co' Latini in corrispondenza di lettere e messaggi, il cui stile, giusta le variate vicende della guerra mansueto, o superbo mostravasi, e lo scambievole orgoglio di questi negoziatori, dall'ignoranza e dall'entusiasmo degli uni e degli altri, prendeva origine. I ministri del sultano d'Egitto, or con tuono imperioso chiarivano, or con più cortesi modi rimostravano, che il lor monarca, vero e legittimo comandante de' Credenti, avea dalla tirannide de' Turchi liberata Gerusalemme, e poter liberamente i pellegrini visitare il Sepolcro di Gesù Cristo, ove con modi oltre ogni dire amichevoli verrebbero accolti, purchè disarmati, e in successivi drappelli, vi sì trasportassero. Vi fu un istante, che il Califfo Mostali, credendoli inevitabilmente perduti, ne sprezzò l'armi, e fece imprigionare i loro messaggieri; ma la conquista e la vittoria di Antiochia la costui alterigia repressero, onde reputò espediente cosa il procurare di affezionarsi questi formidabili campioni, presentandoli di cavalli, di vesti di seta, di vasellami, e di borse d'oro e d'argento. Giusta l'idea che il ridetto Califfo erasi fatta del merito e della autorità de' medesimi, Boemondo teneva la prima sede, Goffredo la seconda. Non cambiando cuore per varietà [356] di vicissitudini, i Crociati stettero fermi in rispondere, che alieni dall'esaminare i diritti particolari di ciascun settario di Maometto, l'usurpatore di Gerusalemme, qualunque ne fosse il nome, o il paese, aveano per nemico; quindi lo consigliavano, che invece di additar loro i modi, o i patti del pellegrinaggio, si attenesse al più prudente partito di consegnare, come lor sacro e legittimo retaggio, ai Crociati la città e la provincia: e aggiungevano non aver egli altra via per serbarseli amici, e sottrarsi alla rovina che lo minacciava[493].

Ciò nulla meno, mentre questa meta gloriosa della loro impresa vedean sì vicina, che toccarla quasi pareano, non assalirono la città di Gerusalemme, che dieci mesi dopo sconfitto Kerboga. Nel momento della vittoria si affievolirono lo zelo e l'ardor de' Crociati, i quali, anzichè profittare, col maggiormente innoltrarsi, del terrore che aveano per ogni dove diffuso, solleciti apparvero di sbandarsi per godere meglio le molli delizie della Sorìa. Forse un sì inconcepibile indugio, non meno a mancanza di subordinazione, che ad estenuata forza, vuol essere attribuito. Nelle penose e variate fazioni dell'assedio di Antiochia, avean perduta tutta la loro cavalleria, e migliaia di guerrieri d'ogni grado, o disertori, o rimasti vittime della penuria e delle infermità. L'abuso stesso che fecero dell'abbondanza, una terza carestia generò; [357] onde l'avvicendarsi della fame e degli effetti della dissolutezza, portò nel campo un morbo pestilenziale, cui cinquantamila pellegrini soggiacquero. Pochi in istato di comandare, tutti ricusavano d'obbedire. Le private querele, in mezzo al comune rischio sopite, con maggior impeto, o certamente colla stessa acerbità di astio, rinnovellaronsi: i buoni successi di Baldovino e di Boemondo, la gelosia de' lor colleghi aizzavano: i più valenti cavalieri arrolavansi per correre in difesa de' nuovi acquisti: il conte Raimondo, inteso ad una spedizione inutile nelle parti interne della Sorìa, le sue genti e i suoi tesori stremava. Così il verno tra le discordie e la confusione trascorse: alcune scintille d'onore e di religione si ridestarono in primavera, perchè i semplici soldati meno scossi dalle passioni dell'ambizione e della invidia, mandando grida d'indignazione, scossero i duci dall'indolenza in cui si giacevano. Nel mese di Maggio (A. D. 1099), gli avanzi di questo esercito poderoso, ridotti a quarantamila uomini (e fra questi, sol ventimila di fanteria, e mille cinquecento a cavallo, in istato erano di servire) s'innoltrarono da Antiochia a Laodicea, senza incontrare ostacoli nel cammino, che tennero tra la costa marittima e il monte Libano. Abbondantemente li fornirono di vettovaglie i legni di commercio genovesi e pisani che, lungo il mare, li secondavano, oltre alle forti contribuzioni che ritrassero dagli Emiri di Tripoli, Tiro, Sidone, Acri e Cesarea, da' quali ottennero il passaggio e la promessa di uniformarsi al destino che avrebbe corso Gerusalemme. Da Cesarea si portarono fino in mezzo al paese, ove i cherci riconobbero le tracce della geografia sacra di Lidda, Ramla, Emaus, e Betlemme; ma non sì tosto [358] scoperta ebbero la Santa Città, i Crociati, tutt'altra cura dimenticando, pensarono a chiedere la ricompensa delle loro fatiche[494].

A. D. 1099

Dal numero e dalla difficoltà de' suoi memorabili assedj, Gerusalemme un qualche lustro ha ottenuto. Sol dopo lunghi e sanguinosi combattimenti, Babilonia e Roma trionfarono un giorno dell'ostinatezza del popolo, e degli ostacoli che opponea loro un terreno sì discosceso, da rendere inutile ogni altra fortificazione; e aggiungasi che le mura erano munite di torri, valide a difendere la più accessibil pianura[495]. Però nel secolo delle Crociate, una parte di questi ostacoli non incontravasi. La rovina assoluta di quei baloardi, mal emendarono le nuove restaurazioni. Certamente, la dominazione de' Giudei, e del loro culto, era sbandita da Gerusalemme per sempre, ma la natura non cambia cogli uomini, e il sito di quella città, benchè spianati alquanto ne fossero gli ingressi, potea tuttavia dar lungo indugio agli sforzi di un assalitore. La esperienza di un assedio recente, e tre anni di possedimento, aveano fatti accorti i Saracini d'Egitto sui difetti di una Fortezza, che l'onore e la religione, vietavano ad essi di abbandonare, e sui modi più giovevoli ad assicurarsela. [359] Aladino, o Istikar luogotenente del Califfo, comandante di Gerusalemme, adoperavasi a tenere in freno i Cristiani, che entro quelle mura abitavano, col minacciare distruzione ad essi e al Santo Sepolcro; il valore de' Musulmani eccitava colla speranza della ricompensa che in questo, e in un miglior Mondo, aspettavanli. Viene assicurato, che la guernigione era composta di quarantamila Turchi, o Arabi, e se fosse vero che il comandante potè armare inoltre più di ventimila abitanti, certamente l'esercito degli assediati avrebbe superato in numero quello degli assalitori[496]. Supposto ancora che i Latini fossero stati tanti, da potere circondare la città, che avea quattromila verghe (circa due miglia inglesi e mezzo) di circonferenza[497], a qual pro sarebbero essi discesi nella [360] valle di Ben-Himmon, e verso il torrente di Cedron[498]? A qual pro guardare i precipizj di ostro e di levante, d'onde non aveano cosa da temere o sperare? Si attennero al partito di fare scopo principale d'assedio, le parti settentrionali e occidentali della città. Goffredo collocò il suo stendardo sulla prima eminenza del monte Calvario. Verso sinistra, e sino alla porta di S. Stefano, la linea degli assalitori prolungavano i due Roberti e Tancredi: nell'intervallo posto fra la rocca e il monte Sion, non più parte interna della città, il Conte Raimondo accampò. Nel quinto giorno i Franchi diedero assalto generale, mossi dalla fanatica speranza di rovesciare le mura, senza il ministerio di macchine, e di scalarle, privi di scale. L'impeto degli operati sforzi li fe' padroni del primo steccato, ma poi respinti vennero con perdita fino al loro campo. Il troppo frequente abuso de' pii stratagemmi avendo distrutta la possanza delle visioni e delle profezie, ognun si persuase che il valore, le fatiche e la perseveranza, erano le sole vie per conseguir la vittoria. L'assedio non durò più di quaranta giorni, ma furono quaranta giorni di stenti e di calamità. Per vero dire [361] l'appetito vorace ed improvvido dei Latini, avrà avuta parte nelle lamentanze di penuria, così spesso rinnovellate; ma gli è anche certo che il suolo sassoso di Gerusalemme non somministra acqua, pressochè di sorta alcuna, e le tenui sorgenti e i rivi che vi sono, l'ardor della state avea disseccati: nè poteano a questo inconveniente rimediar gli assedianti con acquidotti o cisterne, vantaggio di cui godeano gli assediati. Que' dintorni mancavano parimente d'alberi per ripararsi dal Sole, o fabbricare capanne; i Crociati, nondimeno, scopersero in una caverna alcuni pezzi di legno di una considerabile dimensione. Venne inoltre tagliato presso a Sichem, un bosco che è la foresta incantata del Tasso[499]. Tancredi, continuo nel dar prove di coraggio e di abilità, giunse a far trasportare nel campo, i materiali opportuni; e artefici genovesi, trovatisi per ventura nel porto di Giaffa, costrussero le macchine per condurre a fine l'assedio. Il Duca di Lorena e il Conte di Tolosa, fecero innalzare a proprie spese, e ne' loro campi, due torri sulle ruote, che condotte furono, non ai luoghi i più accessibili delle fortificazioni, ma verso quelli che erano i più trascurati. Il fuoco degli assediati incenerì la torre di Raimondo; ma il collega di lui fu ad un tempo più vigilante e felice. Giunti i suoi arcieri a fare sgombri di nemici i baloardi, i Latini abbassarono il ponte levatoio, e in un venerdì, a tre ore pomeridiane, [362] giorno e tempo della morte del Redentore, Goffredo Buglione, si mostrò vincitore sulle mura di Gerusalemme. Da ogni banda i Crociati cui si facea sprone il valore del duce, l'esempio di lui imitarono, e quattrocento sessant'anni dopo la conquista di Omar, i Cristiani tolsero al maomettano giogo la Santa Città. Patteggiato aveano gli assedianti, che nel saccheggio della città e delle ricchezze di privati, avrebbero rispettato il diritto di possesso del primo occupante; e le spoglie della grande Moschea, settanta lampade, e molta copia de' vasellami d'oro e d'argento, divenute compenso alle gloriose fatiche di Tancredi, diedero campo di segnalarsi alla generosità dell'eroe. I servi del Dio de' Cristiani, essendosi nel loro accecamento avvisati, che sanguinosi sagrifizj gli sarebbero accetti, il loro furore implacabile e dalla resistenza irritato, non perdonò a debolezza, di sesso e di età. Durata per tre giorni la strage[500], l'infezione de' cadaveri un morbo epidemico generò. Dopo avere passati a fil di spada settantamila Musulmani, e arsi vivi nelle lor sinagoghe gli Ebrei, i Cristiani conservarono ancora un grande numero di prigionieri, che l'avarizia o la stanchezza di tanto macello, persuase loro di risparmiare. Fra questi feroci eroi della Croce, Tancredi fu il solo che desse a divedere alcun sentimento di compassione: benchè non possiamo negare qualche encomio alla interessata clemenza di Raimondo, che concedè [363] una capitolazione e un salvocondotto, alla guernigion della rocca[501]. Così liberato finalmente il Santo Sepolcro, i vincitori, tinti ancora di sangue, a sciogliere il voto si prepararono. Con capo e piedi ignudi, col cuor contrito e in umil postura, ascesero il Calvario in mezzo alle antifone, intonate ad alta voce dal Clero; nè potendo staccare le labbra dalla pietra che avea coperto il Salvatore del Mondo, questo monumento della lor redenzione, di lagrime di gioia e di penitenza innondarono. Due filosofi hanno riguardato sotto aspetti diversi, questa stravagante mescolanza di passioni, le più feroci e le più tenere; l'un d'essi, facile e naturale la trova[502], l'altro assurda e incredibile[503], e ciò forse dipende dall'averla questo secondo, attribuita ai medesimi individui, nè distinti i momenti. La pietà del virtuoso Goffredo, destò quella de' suoi compagni, che purificando i corpi, le proprie anime ancora purificarono; ma duro fatica a credere, che quelli fra essi più feroci nell'ora del saccheggio e della strage, si mostrassero poi i più esemplari nella processione al Santo Sepolcro.

[364]

A. D. 1099

Otto giorni dopo questo memorabile avvenimento, cui andò innanzi la notizia della morte di Papa Urbano, i duci Latini procedettero all'elezione di un Re, che difendesse e governasse le conquiste della Palestina. Ugo il Grande e Stefano di Chartres, per la loro ritirata molto scapitarono di rinomanza, e vi volle in appresso una seconda Crociata, e la illustre morte alla quale soggiacquero, perchè la lor gloria riguadagnassero. Baldovino avea posta in Edessa, Boemondo in Antiochia la sua residenza; i due Roberti, il Duca di Normandia e il Conte di Fiandra[504], ad incerte pretensioni e a troni mal saldi, i loro Stati ereditarj dell'Occidente anteposero. Per sua ambizione e gelosia fu biasimato dai compagni Raimondo; per lo che l'esercito, con una scelta libera, giusta e necessaria acclamò Goffredo di Buglione, il primo e il più degno campione della Cristianità. L'eroe accettò un deposito, cui pericoli non minori della gloria si univano; ma in una città, ove il Salvatore dell'uman genere, era stato coronato di spine, ricusò il titolo e gli onori della monarchia; e fondatore di un regno, si contentò del modesto nome di difensore e barone del Santo Sepolcro. Il regno del medesimo che per mala ventura de' sudditi suoi, non durò oltre un anno[505], corse gravi pericoli, quindici [365] giorni dopo fondato, per l'avvicinarsi del Visir o Sultano d'Egitto, che, non avendo potuto giugnere in tempo per impedire la caduta di Gerusalemme, affrettavasi coll'ansietà di trarne vendetta. Ma nella giornata di Ascalon (A. D. 1099), egli ebbe tal rotta, che fe' più salda la dominazione de' Latini nella Sorìa, e apportò nuovo lustro al valore de' duci Franchi, i quali, dopo questa azione campale, per lungo tempo dalla Palestina e dalle sante guerre si congedarono. Nella battaglia di Ascalon, poterono i Crociati gloriarsi parimente della sterminata sproporzione di numero, che fra le due parti combattenti osservavasi. Nè mi arresterò a noverare le migliaia di soldati, così di cavalleria come di fanteria, che formavano l'esercito de' Fatimiti; perchè, eccetto tremila Etiopi, o Negri armati di staffili di ferro, i Barbari meridionali, dopo il primo impeto, datisi alla fuga, dimostrarono quanto immensa differenza vi fosse, fra l'intrepido valore de' Turchi, e l'effeminata viltà de' nativi Egiziani. Dopo avere appesa dinanzi al Santo Sepolcro, la bandiera e la spada del Sultano, il nuovo Re (o almeno l'eroe ben meritevole di questo titolo), abbracciò per l'ultima volta i compagni delle sue fatiche, e il solo d'essi ch'ei potè serbarsi appresso per difendere la Palestina, fu il prode Tancredi con trecento uomini a cavallo, e duemila fanti. Ma si vide ben tosto assalito da quel solo nemico, contro il quale mancasse di coraggio, Goffredo. Morto per l'ultima peste di Antiochia Ademaro, uomo rilevantissimo nelle azioni e nei [366] consigli, gli altri Ecclesiastici non serbarono della propria indole che l'avarizia e l'orgoglio, talchè per via di sediziosi clamori, avean fatto valere le lor pretensioni, affinchè prima d'un Re un vescovo si eleggesse. Avendo il Clero latino usurpate le rendite e la giurisdizione del Patriarca, le accuse di eresia e di scisma mosse a danno de' Greci, e degli abitanti della Sorìa, valsero ad escludere questi dal concorso[506]; per lo che, oppressi dal ferreo giogo de' loro liberatori, i Cristiani orientali la tolleranza de' Califfi arabi si augurarono. Damberto, Arcivescovo di Pisa, da lungo tempo iniziato ne' segreti della romana politica, avendo condotta in soccorso de' Crociati una flotta di suoi concittadini, fu nominato, senza trovare opposizione, Capo temporale e spirituale della Chiesa[507]. Cotesto nuovo Patriarca non tardò ad impadronirsi dello scettro, che era prezzo del sangue e delle fatiche de' pellegrini guerrieri; e Goffredo, e Boemondo, si sommisero a ricevere dalle mani di costui l'investitura dei loro possedimenti. Questo omaggio ancora sembrò poco a Damberto, che la proprietà immediata di Giaffa e di Gerusalemme voleva per sè. Invece di opporre all'ingiusta pretensione un franco e assoluto rifiuto, il guerriero negoziò col Sacerdote; la Chiesa ottenne una quarta parte delle due città, il modesto Prelato, riserbò a sè il diritto contingibile sul rimanente, ogni qual [367] volta o Goffredo morisse privo di figli, o la conquista del Cairo o di Damasco un nuovo regno gli assicurasse.

Che se il Pisano non usavagli almeno la condiscendenza di lasciargli questo precario usufrutto, il conquistatore vedeasi spogliato quasi per intero del nascente suo regno, che Gerusalemme e Giaffa, e una ventina di piccole città e villaggi di que' dintorni sol racchiudea[508]. Si arroge che, in uno spazio sì poco esteso, i Maomettani possedevano diverse inespugnabili Fortezze; onde e agricoltori, e mercadanti, e pellegrini vedeansi continuamente ad ostilità avventurati. Gli sforzi di Goffredo, de' due Baldovini, che succedettero al trono, maggior tranquillità procacciarono appresso ai Latini; gli Stati de' quali finalmente, mercè molte fatiche e pugne, trovaronsi adeguati, in estensione però, non nel numero degli abitanti, agli antichi regni d'Israele e di Giuda[509]. Dopo che [368] le città marittime di Laodicea, Tripoli, Tiro e Ascalon[510] a suggezione furon ridotte, e molto in ciò operarono le flotte di Venezia, di Pisa, di Genova, e pur di Fiandra e di Norvegia[511], i pellegrini di Occidente da Scanderoon sino alle frontiere dell'Egitto tutta quella costa marittima possedettero. Il principe di Antiochia non volle riconoscere la supremazia del re di Gerusalemme, ma vassalli a questo si protestarono i conti di Edessa e di Tripoli. Così esteso avendo i Latini il loro regno oltre l'Eufrate, i Musulmani, delle conquiste fatte in Sorìa[512], non conservarono che le sole quattro città; Hems, Hamah, Aleppo e Damasco. Le leggi, la lingua, i costumi e i titoli della nazione francese e della Chiesa latina vennero in queste colonie di oltremare adottati. Giusta le norme della giurisprudenza feudale, i principali Stati e le baronie a questi soggette, passavano agli eredi, così in linea maschile come femminina[513]; [369] ma il lusso e il clima dell'Asia la discendenza mescolata e tralignata de' primi conquistatori distrussero[514]; e l'arrivo di nuovi Crociati dall'Europa era un avvenimento incerto, sul quale non potea farsi conto. Il numero de' vassalli obbligati al militare servigio a seicentosessantasei cavalieri ascendea[515], che poteano sperare un soccorso d'altri dugento capitanati dal conte di Tripoli. Ciascun cavaliere marciava armato alla pugna, e quattro scudieri, o arcieri a cavallo il seguivano[516]; le chiese e le città somministravano [370] cinquemila settantacinque sergenti, probabilmente soldati di fanteria; laonde, calcolata ogni cosa, le forze regolari di questo reame non oltrepassavano di numero gli undicimila uomini, meschina difesa contra le innumerevoli truppe di Turchi e di Saracini[517]. Ma d'altra sicurezza la città di Gerusalemme godea, e fondavasi su i Cavalieri[518] dell'Ospitale di S. Giovanni, e del Tempio di Salomone[519]; stravagante collegamento delle vite, monastica e militare, che, suggerito, non v'ha dubbio, dal fanatismo, la politica dovette approvare. Il fiore della Nobiltà europea aspirava a portar la Croce e a profferire i voti di questi ragguardevoli Ordini, che quanto a disciplina e valore in veruna occasione non si dismentirono. La donazione di ventottomila Signorie, di cui si videro ben [371] tosto arricchiti[520], diede ad essi abilità di mantenere truppe regolari di cavalleria e fanteria che difendessero la Palestina. Ma presto fra l'armi l'austerità monastica si dileguò; e per avarizia, orgoglio, corruttela di costumi, questi frati guerrieri tutto il Mondo cattolico scandalezzarono, armando pretensioni di immunità e giurisdizione: turbato venne per essi il buon accordo della Chiesa e dello Stato, e le loro gare mosse da scambievole gelosia, minacciavano ad ogn'istante la pubblica tranquillità. Pure sino allorquando più forti erano le costoro sregolatezze, i Cavalieri ospitalieri e templarj serbarono il lor carattere di fanatismo e d'intrepidezza; trascurando di vivere sotto le leggi di Gesù Cristo, pronti in ciascun'ora mostravansi a morire in difesa delle sue bandiere; e fu questa Instituzione, che dal Santo Sepolcro all'isola di Malta trasportò quello spirito di cavalleria da cui le Crociate ebbero origine, e che le Crociate mantennero[521].

A. D. 1369

Lo spirito di libertà che in mezzo alle istituzioni feudali trapela, parlava con tutta la sua forza ai campioni [372] volontarj della Croce, che fra tanti Capi, elessero per comandar loro il più degno: onde un modello di politica libertà si stanziò fra gli schiavi dell'Asia, incapaci di apprezzarlo, o di seguirne l'esempio. Le leggi di questo reame francese dalle sorgenti le più pure della giustizia e della eguaglianza derivano. La prima, e più indispensabile condizione delle medesime, è il consenso di coloro dai quali obbedienza pretendono, e per la cui felicità sono fatte. Non appena Goffredo di Buglione ebbe accettata la suprema carica del Governo, si mostrò e pubblicamente, e privatamente sollecito di consultare quelli fra i pellegrini, che delle leggi e delle costumanze d'Europa meglio erano istrutti. Col soccorso di tali nozioni, e munito de' consigli e dell'approvazione del Patriarca e de' Baroni, del Clero e del Popolo, Goffredo compose le Assise di Gerusalemme[522], prezioso monumento di feudale giurisprudenza. Questo nuovo codice contrassegnato dal sigillo del Re, del Patriarca, e del Visconte di Gerusalemme, venne deposto nel Santo Sepolcro, perfezionato a mano a mano, e rispettosamente consultato, ogni qualvolta nasceano casi dubbiosi ne' tribunali della Palestina. Comunque i Franchi di Palestina, allorchè perdettero la città, ed il Regno, tutto perdessero[523]; una gelosa tradizione serbò i [373] fragmenti della Legge Scritta[524], e una incerta pratica di quegli Statuti fino alla metà del secolo decimoterzo. Giovanni d'Ibelin, Conte di Giaffa, uno de' principali feudatarj, scrisse di bel nuovo il Codice[525], e nell'anno 1369, ebbe terminato di rivederlo ad uso del reame latino di Cipro[526].

Due tribunali d'impari dignità, instituiti da Goffredo di Buglione dopo la conquista di Gerusalemme, [374] manteneano la giustizia e la libertà della Costituzione. Il Re presedeva in persona la Corte suprema o Consiglio de' Baroni, i quattro primarj de' quali erano: il Principe di Galilea, il Signore di Sidone e di Cesarea, i Conti di Giaffa e di Tripoli, e a questi s'aggiugnea forse il Contestabile o il Maresciallo[527], tutti pari e giudici gli uni degli altri. I Nobili che ricevevano immediatemente l'investitura delle proprie terre dalla Corona, aveano potere ed obbligo di sedersi alla Corte del Re, e di giurisdizione, simile alla regia, usavano nell'assemblea dei feudatarj che ad essi erano subordinati. La dependenza del vassallo verso il suo signore, per volontaria ed onorevole aveasi: l'uno dovea rispetto al suo protettore: l'altro protezione al suo inferiore, e mutuamente impegnavano la lor fede, talchè, da entrambi i lati, l'obbligazione potea rimanere sospesa per incuria, per oltraggio annullata. Il clero erasi arrogata la giurisdizione su i matrimonj ed i testamenti, siccome cosa che alla Religion pertenea; ma la Corte suprema giudicava ella sola tutti gli affari civili e criminali de' Nobili, i diritti di successione, le trasmissioni de' Feudi. Ciascun individuo di essa era giudice e custode del diritto pubblico, e avea l'obbligo di servire, colla voce e colla spada, il suo supremo signore; ma ogni qualvolta un ingiusto feudatario attentava alla libertà, o alle proprietà del vassallo, i pari di questo doveano sostenerne colle [375] rimostranze e coll'armi i diritti; e divulgando coraggiosamente l'innocenza dell'oppresso e le ingiurie che aveva sofferte, chiedeano gli fossero restituiti i beni e la libertà; in caso di negata giustizia, il servigio lor ricusavano, liberavano dal carcere il proprio fratello; infine, per difenderlo, adoperavano tutte le vie di forza, che però in diretto modo non offendessero la persona del signore immediato, sempre sacro ai medesimi[528]. Gli avvocati della Corte pompeggiavano di destrezza e facondia nelle aringhe, o comparissero siccome attori, o si difendessero; ma l'uso del duello giudiziario, il più delle volte, veniva in luogo di argomenti e di prove. In molte occasioni le Assise di Gerusalemme ammetteano questa barbara costumanza, che sol lentamente le leggi e le nuove consuetudini dell'Europa hanno abolita.

Al combattimento giudiziario si facea luogo in tutte quelle cause criminali, ove della perdita della vita, di un membro, o dell'onore decider doveasi, e in tutte quelle pretensioni civili allor quando la cosa contrastata pareggiava, o oltrepassava il valore di un marco d'argento. Sembra che nelle cause criminali l'inchiesta del combattimento appartenesse all'accusatore; [376] il quale, tranne le accuse per delitti di Stato, vendicava egli stesso o l'ingiuria personale di cui querelavasi, o la morte della persona da esso rappresentata. Però in tutte quelle accuse che prova ammettevano, gli era d'uopo offerire testimonj di fatto. Nelle cause civili non si concedea il combattimento, come, prova che giustificasse i diritti di chi il richiedeva, ammenochè prima non desse testimonj, i quali avessero conoscenza del fatto, o affermassero averla. Allora il combattimento diveniva privilegio del difensore, che accusava i testimoni di spergiuro profferito a suo danno, e trovavasi quindi nella stessa circostanza di chi chiedea per cause criminali la pugna. In tal circostanza, il combattimento non provava nè per l'affermativa, nè per la negativa come il Montesquieu lo ha supposto[529]. Ma il diritto di presentarlo fondavasi sulla facoltà di ottenere coll'armi il risarcimento di un affronto; tal che la pugna giudiziaria non riconosceva origine diversa da quella per cui oggidì accadono i nostri duelli. Il campione non concedeasi che alle donne, e agli uomini privi di qualche membro, o l'età de' quali oltrepassasse i sessant'anni. La sconfitta decidea della morte o dell'accusato, o dell'accusatore, ovvero del campione, o testimonio che questo erasi assunto. Nelle cause civili però chi chiedeva il duello, rimanendo vinto, [377] non veniva punito che coll'infamia e colla perdita della causa; bensì il suo campione, o testimonio, ad obbrobriosa morte andava soggetto. In molti casi, il diritto di permettere, o proibire la pugna riserbavasi ai giudici; ma in due circostanze diveniva conseguenza inevitabile della disfida. Erano queste, se un fedele vassallo avesse data mentita a un de' suoi pari sopra qualche ingiusta pretensione da questo armatasi sopra una parte de' dominj del comune Signore; o se un litigante, mal contento della sentenza ardiva tacciare l'onore e l'equità de' giudici della Corte. Gli era lecito il farlo, ma sotto la clausola severa, quanto pericolosa, di battersi nel medesimo giorno con tutti i Membri del tribunale, e sin con quelli che trovati eransi assenti all'atto della condanna, bastando che ei fosse vinto da un solo per soggiacere alla morte, e alla infamia. Ella è cosa probabile assai che niuno si avvisasse di tentare un tale esperimento, ove niuna speranza vedeasi di vittoria. Il Conte di Giaffa merita encomj per l'accortezza, con cui nelle Assise di Gerusalemme, anzichè cercare di agevolarli, s'adoperò a tor di mezzo i combattimenti giudiziarj. Ei li riguardava piuttosto fondati sui principj dell'onore che su quelli della superstizione[530].

[378] L'instituzione de' Corpi civili e delle Comunità municipali, fu una delle precipue cagioni per cui i plebei alla feudale tirannide si sottrassero; e se la fondazione di tali corporazioni nella Palestina ha per epoca la prima Crociata, possono riguardarsi come le più antiche del Mondo latino. Grande era il numero degli uomini postisi in pellegrinaggio a solo fine di procacciarsi sotto le bandiere della Croce un rifugio contra gli immediati loro signori; la politica indusse i principi Francesi, come espediente di impedire tal migrazione, ad assicurar loro i diritti e i privilegi de' liberi cittadini. L'Assisa di Gerusalemme ne dà in aperti termini a divedere, come Goffredo, dopo avere instituita pei Cavalieri e Baroni, una Corte di Pari, alla quale egli medesimo presedeva, creasse un secondo tribunale, ove il Visconte dello stesso Goffredo ne teneva le veci. Su di tutta la cittadinanza del regno la giurisdizione di cotesta Corte estendeasi: ed era composta di un numero di cittadini, scelti fra i più ragguardevoli ed assennati, i quali si obbligavano con giuramento a giudicare secondo le leggi tutti gli affari che si riferivano alle azioni, o alle sostanze de' loro eguali[531]. I re, e i loro grandi vassalli fermandosi a mano a mano di residenza nei luoghi nuovamente conquistati seguirono l'esempio di Gerusalemme, onde prima della perdita [379] di Terra Santa, più di trenta delle ridette corporazioni vi si trovarono. Le cure del Governo si estesero sopra un'altra classe di sudditi, i Cristiani della Sorìa, o orientali[532] che sotto la tirannide del Clero gemeano. Avendo questi domandato di essere giudicati giusta le loro leggi nazionali, Goffredo ben accolse l'istanza; e a favor d'essi, venne instituita una terza Corte, la cui giurisdizione agli scambievoli affari di questi ricorrenti si limitava. Doveano i giudici scelti a tal uopo, essere nati in Sorìa, parlarne la lingua, e professarne la religione. Ma il Visconte della città vi adempia talvolta gli ufizj di presidente (Rais in lingua araba). Le Assise di Gerusalemme si presero ancora qualche pensiero degli uomini posti ad una incommensurabile distanza dai Nobili, degli stranieri, de' villici, e degli schiavi o di gleba, o fatti in guerra, che indistintamente venivano riguardati siccome altrettante proprietà. La cura di sollevare, o proteggere questi infelici, quasi men degna di un legislatore venia reputata; però nel menzionato codice si tratta dei modi di assicurare il ritorno de' fuggiaschi, senza pronunziar contr'essi pene afflittive. Coloro che gli aveano perduti, potevano fare istanza per riaverli, come se stati fossero cani o falconi. Di fatto il valore d'uno schiavo e d'un falcone era il medesimo: ma si chiedeano tre schiavi, o dodici buoi per compensare un cavallo di battaglia: e nel suolo della cavalleria, il prezzo di questo [380] animale, tanto agli altri due superiore venne valutato trecento piastre d'oro[533].

[381]

CAPITOLO LIX.

Impero greco salvato. Numero, passaggio de' Crociati, e avvenimenti della seconda e della terza Crociata. S. Bernardo. Regno di Saladino nell'Egitto e nella Sorìa. Conquista Gerusalemme. Crociata marittima. Riccardo I, re d'Inghilterra. Papa Innocenzo III. Quarta e quinta Crociata. Federico II Imperatore. Luigi IX di Francia, e due ultime Crociate. I Franchi o Latini scacciati dai Mamalucchi.

A. D. 1097-1118

Se fosse lecito per un istante dimenticare la gravità della Storia, l'Imperatore Alessio[534] potrebbe essere paragonato a quella fiera chiamata Jackal, che per nudrirsi di quanto avanza al pasto del leone, accompagna questo animale alla caccia. Sieno pure stati rilevanti i timori concetti dal ridetto principe, grande l'impaccio in cui trovossi al passaggio delle prime Crociate, i vantaggi venutigli in appresso dalle imprese de' Franchi largamente nel compensarono. Già assicurato, per accortezza e vigilanza, il possedimento di Nicea, prima conquista de' Crociati, dalla qual Fortezza a proprio talento minacciava i Turchi, [382] li costrinse così a sgomberare i dintorni di Costantinopoli. Intanto che i pellegrini guerrieri, trascinati da cieco valore, penetravano nel cuor dell'Asia, l'astuto Imperator de' Greci colse maestrevolmente l'istante in cui gli Emiri della costa marittima erano stati richiamati sotto lo stendardo del Sultano, per discacciare i Turchi dalle Isole di Rodi e di Chio, e restituire le città di Efeso, Smirne, Sardi, Filadelfia e Laodicea al Governo dell'Impero esteso per opera di lui dall'Ellesponto alle rive del Meandro e alle dirupate coste della Panfilia. Tornate le chiese all'antico loro splendore, rifabbricate e affortificate le città, questo deserto paese videsi di bel nuovo popolato da colonie di Cristiani, che di buon grado s'indussero ad abbandonare il soggiorno di una frontiera, che a costo di tanti pericoli custodivano. Tutte queste paterne sollecitudini alle quali avea volto l'animo Alessio, possono in qualche modo scusarlo ai nostri occhi, se la cura della liberazione del Santo Sepolcro pose da un lato; ma i Latini lo accusarono di diffalta e perfidia. Se per una parte, questi gli aveano fatto giuramento di obbedienza e fedeltà, egli erasi per l'altra obbligato a secondare la loro impresa o colla persona, o almeno co' suoi denari e colle sue truppe. Col ritirarsi vergognosamente ogni vincolo de' Crociati disciolse, e le loro spade, fin lì state ad essi strumento di vittorie, titolo e mallevadori della giusta loro independenza divennero. A quanto apparisce, non rinnovellò Alessio le sue antiche pretensioni sul regno di Gerusalemme[535]; ma le frontiere della Cilicia e della [383] Sorìa erano più recenti acquisti e meglio alle truppe greche accessibili. Annichilato, o disperso trovavasi il grande esercito de' Crociati. Boemondo sorpreso e fatto prigioniero avea lasciati gli Stati di Antiochia privi di un Capo che li governasse; costretto questo Principe a contrarre un rilevante debito per liberarsi di schiavitù; i Normanni non assai numerosi per rispingere i continui assalti de' Greci e de' Turchi. Pervenuto a tale estremità, Boemondo si appigliò al coraggioso partito di confidare la difesa di Antiochia al proprio congiunto, il fedele Tancredi, di armare contra l'Impero di Bisanzo tutte le forze dell'Occidente, in somma di mandar a termine quel disegno che additato aveangli le lezioni, e l'esempio del genitore Guiscardo. Imbarcatosi segretamente, attraversò il mare da' suoi nemici occupato, e se vogliam credere alla novelletta della principessa Anna, una bara entro cui si collocò, agli occhi di tutti lo nascondeva[536]. Accolto in Francia fra le acclamazioni e i pubblici applausi, lo stesso Re diedegli la propria figlia in isposa. Glorioso funne il ritorno nell'Asia, perchè i guerrieri i più rinomati del secolo [384] condiscesero a far parte della spedizione sotto di lui. Ripassò il mare Adriatico, condottiero di cinquemila uomini a cavallo e di quarantamila fanti d'ogni banda dell'Europa raccolti[537]. Ma la salda resistenza che la Fortezza di Durazzo opponea, la prudenza di Alessio, la carestia che già faceva sentirsi, e la vicinanza del verno, deluse avendo le speranze ambiziose del Capitano, i confederati ne abbandonarono vituperosamente gli stendardi. Un Trattato di pace[538], diè tregua al terrore de' Greci, che ben presto la morte dello stesso Boemondo liberò per sempre da un avversario, cui non opponea freno alcun giuramento, niun pericolo atterriva, niun prospero successo saziava. I figli di questo nel principato d'Antiochia gli succedettero; ma, determinati con ogni circospezione i confini, stipulata con tutta chiarezza la natura del vassallaggio da prestarsi da essi, le città di Tarso e di Malmistra tornarono in potere dell'Imperator di Bisanzo, divenuto padrone di tutta la circonferenza della costa di Natolia, da Trebisonda sino ai confini della Sorìa. La discendenza di Selgiuk stanziatasi nel regno di Rum[539], [385] d'ogni lato dal mare e dagli altri Musulmani rimase disgiunta. Le vittorie de' Franchi, e persino le loro sconfitte crollato aveano il poter de' Sultani, ritiratisi dopo la perdita di Nicea in Cogni, o Iconium, picciola città situata nell'intorno del paese e distante più di trecento miglia da Costantinopoli[540]. Invece di tremare per la propria capitale, i Principi Comneni faceano guerra offensiva ai Turchi, e dovettero soltanto alla prima Crociata, se la caduta del vacillante loro Impero fu differita.

A. D. 1101

Nel dodicesimo secolo, tre grandi migrazioni accaddero nell'Occidente, intese a trasferirsi per terra alla liberazione della Palestina, perchè l'esempio e i buoni successi della prima Crociata, eccitarono l'ardore dei Pellegrini e de' soldati lombardi, franchi e alemanni[541]. Quarant'otto anni dopo la liberazione del Santo Sepolcro (A. D. 1147), l'Imperatore Corrado III, e Luigi VII Re di Francia, impresero la seconda Crociata, a fine di soccorrere il vacillante Impero [386] (A. D. 1189) de' Latini della Palestina[542]. Una gran parte dei guerrieri della terza Crociata, era condotta dall'Imperatore Federico Barbarossa[543], che non meno dei Re di Francia e d'Inghilterra, scosso erasi alla notizia della perdita di Gerusalemme, perdita che tutti i Cristiani feriva. Le tre spedizioni, e nel numero de' Crociati, e nelle lor traversate per mezzo al greco Impero, e nelle circostanze e negli avvenimenti de' loro scontri co' Turchi, si rassomigliano. Un compendioso paralello eviterà le repliche di un monotono e molesto racconto. Comunque l'immaginazione possa trovarsi allettata dall'idea di una Storia seguìta delle Crociate, questa però non offre continuamente, se non se le stesse cagioni e gli stessi effetti; e i moltiplici sforzi adoperati, ora a difendere, ora a conquistar Terra Santa, ad altrettante copie imperfette di un medesimo originale, molto avvicinansi.

I. Le numerose bande che seguirono sì da vicino le orme de' Pellegrini erano condotte da Capi eguali [387] per grado a Goffredo e ai compagni del medesimo, benchè ad essi inferiori di fama e di merito. A capo delle lor bandiere vedevansi i Duchi di Borgogna, di Baviera e d'Aquitania; il primo, discendente da Ugo Capeto; ceppo della casa di Brunswik, il secondo. L'Arcivescovo di Milano, Principe temporale, si trasportò seco le ricchezze del suo palagio e della sua Chiesa, delle quali infine profittarono i Turchi; gli antichi Crociati, Ugo il Grande e Stefano di Chartres, tornarono in Asia per compire il voto che non aveano per anco soddisfatto. L'immensa moltitudine che disordinatamente seguivali, si avanzava in due bande, la prima composta di dugento sessantamila Pellegrini, la seconda di circa sessantamila uomini a cavallo e centomila fanti[544]. Gli eserciti della seconda Crociata, avrebbero potuto aspirare alla intiera conquista dell'Asia; poichè e la Nobiltà della Francia e dell'Alemagna, vedeasi animata dalla presenza dei suoi Sovrani, e il merito di Corrado e di Luigi contribuiva, non meno del loro grado, a rendere luminosa una tale spedizione, e ad infondere nelle soldatesche, una disciplina che da' Duci subordinati avrebbe potuto difficilmente aspettarsi. L'Imperatore e il Re di Francia, conduceano ciascuno, un corpo di cavalleria formidabile, composto di settantamila uomini, oltre all'ordinario corteggio di questi Sovrani[545]; laonde senza tener conto delle [388] truppe leggiere, de' contadini, delle donne, de' fanciulli, de' preti e de' monaci, la totale somma de' Pellegrini a quattrocentomila persone ascendea. Un movimento universale vedeasi nell'Occidente, dagli Stati di Roma alla Brettagna. I Re di Boemia e di Polonia agli ordini di Corrado ubbidirono; dalla testimonianza unanime de' Greci e de' Latini, veniamo assicurati che i messi dell'Imperatore di Bisanzo, dopo aver numerati al passaggio di un fiume, o di una gola, novecentomila uomini, si trovarono inabili a proseguir questo calcolo[546]. Nella terza Crociata, l'esercito di Federico Barbarossa apparve men numeroso, perchè gl'Inglesi, e i Francesi preferirono la navigazione del Mediterraneo. Di quindicimila cavalieri e d'altrettanti scudieri, andava composto il fiore dell'alemanna cavalleria; onde l'Imperatore, sulle ungaresi pianure, passò in rassegna sessantamila uomini a cavallo e centomila fanti, nè noi dopo quanto abbiamo udito raccontarci nelle prime Crociate, ci stupiremo che la credulità abbia fatto ascendere a seicentomila Pellegrini, il numero dei partecipanti a tale ultima migrazione[547]. Questi [389] stravaganti calcoli non mostrano che la maraviglia de' contemporanei: ma la loro maraviglia medesima fa prova evidente d'immenso numero, comunque a definirlo non basti. Poteano i Greci millantare la loro superiorità nell'arte e negli stratagemmi della guerra; ma non però si stavano dal celebrare il poderoso valore della cavalleria francese, e della infanteria degli Alemanni[548]; stranieri che troviamo dipinti come uomini di ferro, di gigantesca statura, che lanciavano fiamme dagli occhi e versavano sangue a maniera d'acqua. Corrado avea inoltre al suo seguito, una truppa di donne armate ad usanza di cavalieri. Gli stivali e gli speroni dorati, della condottiera di queste amazzoni, le meritarono il soprannome della Donna dai piedi d'oro.

II. Il numero e l'indole de' Crociati erano agli ammolliti Greci un soggetto di terrore; e quanto è soggetto di terrore agli uomini, della loro avversione il divien facilmente. Ma lo spavento inspirato dalla potenza dei Turchi per qualche tempo questo mal umore assopì: e ad onta delle invettive dai Latini scagliate contro di Alessio, crediamo potere accertare che questo Imperatore [390] ne dissimulò gli insulti, finse non accorgersi delle ostilità, regolò l'imprudente loro imperizia, aperse al coraggio de' medesimi la strada del pellegrinaggio e della conquista. Ma appena scacciati da Nicea e dalle marittime coste i sultani, allorchè la vicinanza di questi, ritiratisi in Cogni, non atterriva omai i principi di Bisanzo, i Greci si abbandonarono con minore riguardo all'indignazione prodotta in essi dal frequente e libero passaggio de' Barbari occidentali, che minacciavano la sicurezza dell'Impero e ne insultavano la maestà. Regnarono Manuele Comneno e Isacco l'Angelo ai tempi della seconda e terza Crociata. Il primo di questi sovrani a passioni, sempre impetuose, i sentimenti d'un cuor malevolo, spesse volte congiunse. Il secondo, esempio di codardia e di perfidia, avea così immeritamente come spietatamente punito il tiranno, in luogo del quale erasi posto. Eravi forse un segreto e tacito patto, fra i dominatori di Costantinopoli e il popolo, di distruggere o certamente sconfortare i pellegrini con ogni genere d'ingiurie ed angherie; e questi, per vero, col mancar di prudenza e di disciplina tutti i momenti, ne somministravano pretesti e occasioni. I Monarchi dell'Occidente aveano stipulato, che le loro soldatesche avrebbero trovato negli Stati del greco Imperator e libero passaggio, e vettovaglie, convenevolmente pagandoli; giuramenti e ostaggi aveano da entrambe le parti guarentiti simili patti, e il più povero tra i soldati di Federico, portava con seco tre marchi d'argento statigli per le spese del cammino assegnati. Ma la ingiustizia e la perfidia violarono ogni convenzione, e i ripetuti torti di cui ebbero a querelarsi i Latini, vengono attestati da uno storico [391] greco che all'onore de' suoi compatrioti antepose la verità[549]. Anzichè ricevere amichevolmente i Crociati, le città greche dell'Europa e dell'Asia chiudevano ad essi le porte, e sol dall'alto delle mura calavano ai medesimi canestri di vettovaglie, sempre al bisogno inferiori. Quand'anche l'esperienza del passato e il timore dell'avvenire, avessero potuto scusare questa timida ritrosia per parte dei Greci, come difendeano l'inumanità di mescolare nel pane somministrato ai Latini e calcina, e droghe mortifere? E se pur fosse lecito assolvere Manuele dal sospetto di aver partecipato colla sua tolleranza a pratiche sì abbominevoli, come lavarlo dalla taccia di aver fatta battere moneta di falsa lega per valersene a trafficare coi Pellegrini? Questi ad ogni passo venivano arrestati o indiritti sulla cattiva strada. Mandavansi segreti ordini a' governatori perchè affortificassero i passi, i ponti atterrassero. I soldati latini che restavano addietro, venivano spogliati o trucidati barbaramente. Se si addentravano nelle boscaglie, dardi, da invisibili mani lanciati, trapassavano i cavalli ed i cavalieri; trovavansi abbruciati ne' loro letti gli infermi, e lungo le strade, i Greci appiccavano i cadaveri degli uomini scannati da essi. Tal genere d'ingiurie accese lo sdegno de' campioni della Croce, che di pazienza evangelica non eran forniti; laonde i Principi greci per evitare le conseguenze di una nimistà che eglino stessi avevano provocata, senza trovarsi in forze [392] per poterla rintuzzare, la partenza e l'imbarco di questi ospiti formidabili sollecitarono. Giunto presso alla frontiera de' Turchi, Barbarossa perdonò alla colpevole Filadelfia[550], e largo di compensi ai servigi che la città di Laodicea gli aveva prestati, deplorò la fatale necessità che lo costrinse a versare il sangue di alcuni Cristiani. Ne' parlamenti avutisi dai Principi greci co' sovrani della Francia e dell'Allemagna, quelli si trovarono esposti a frequenti mortificazioni, e benchè, la prima volta che Luigi comparve dinanzi a Manuele, non gli fosse stato assegnato che un basso sgabello in vicinanza del trono[551]; appena il re francese ebbe condotto il suo esercito di là dal Bosforo, ricusò venire ad un secondo colloquio a meno che il suo fratello, l'Imperatore, non acconsentisse ad usar seco lui come con un sovrano eguale ad esso, e per mare, e sul continente. Maggiori difficoltà ancor si trovarono nel regolare il cerimoniale tra i Greci principi e gl'Imperatori Corrado e Federico. Pretendeano questi esser eglino, come [393] Imperatori di Roma, i veri successori di Costantino[552], e la purezza de' lor diritti e della lor dignità sostenevano alteramente. Il primo di questi rappresentanti di Carlomagno, non volle starsi a petto di Manuele che a cavallo, in mezzo ad una pianura; il secondo, coll'attraversare l'Ellesponto anzi che il Bosforo, si sottrasse dal passare per Costantinopoli, e dal vederne il Sovrano. Ad uno di questi Monarchi alemanni, pur coronati imperatori a Roma, il Principe greco nelle lettere che scrivea, non si degnava dare altro titolo fuor quello di Rex, o principe degli Alemanni; e il debole, quanto vanaglorioso, Isacco l'Angelo ostentava d'ignorare il nome del più grand'uomo e del maggiore sovrano del suo secolo. Intantochè gl'Imperatori greci riguardavano con abborrimento i Crociati, e siccome ministri ad essi di angosce, manteneano co' Saracini e co' Turchi segreta corrispondenza. Di fatto, Isacco l'Angelo che aveva in Costantinopoli fondata una moschea, ove potesse pubblicamente praticarsi il culto musulmano, doleasi perchè l'amicizia da lui dimostrata al gran Saladino, coi Franchi in mal accordo il poneva[553].

III. Le numerose catene di Pellegrini che passarono il Reno dopo la prima Crociata, rimasero distrutte sulle piazze della Natolia dalla peste, dalla fame e [394] dall'armi de' Turchi; i soli Capi, accompagnati da poco seguito di cavalleria si sottrassero, e la miseranda loro peregrinazione compirono. Può giudicarsi del senno di costoro, dal divisamento che di sottomettere strada facendo la Persia e il Khorasan avevano concepito, e della loro umanità, dalle carnificine degli abitanti di una città cristiana, che colle palme e colle croci in mano venivano ad incontrarli. La spedizione di Corrado e di Luigi fu meno imprudente e crudele, ma più della precedente Crociata partorì disastro e rovina alla Cristianità; e Manuele viene accusato fino da' proprj sudditi di avere traditi i Principi latini, e col far consapevole di tutti gli atti loro il Sultano, e col munirli di scorte infedeli. Mentre i Crociati avrebbero dovuto in uno stesso tempo assalire da due diverse bande il Sultano, l'emulazione affrettò la partenza degli Alemanni, il sospetto quella de' Francesi tardò. Per lo che, Luigi avea terminato di passare il Bosforo colle sue truppe, allor quando si scontrò in Corrado che riconducea gli avanzi di un esercito, del quale avea perduta la maggior parte sulle rive del Meandro, dopo un'azione gloriosa sì, ma sfortunata. Allora, tanto più sollecito fu a ritirarsi l'alemanno Imperatore, che pugnealo il confronto tra il proprio sfregio e la pompa presente del suo rivale. Ridotto, per la diffalta de' suoi vassalli independenti, alle truppe de' suoi Stati ereditarj, dovette chiedere ad imprestito alcuni vascelli dai Greci onde compiere per mare il voto fatto di peregrinare alla Palestina. Nè alle lezioni dell'esperienza, nè alla natura di una simile guerra, ponendo mente il re di Francia, s'innoltrò nel paese stesso, ove Corrado ebbe disastro; nè di questo ebbe miglior fortuna. L'antiguardo che [395] portava la regal bandiera e l'oriflamma di S. Dionigi[554] raddoppiò imprudentemente il cammino; onde il retroguardo, in mezzo al quale il sovrano trovavasi, fu costretto ad accampare di notte tempo, senza avere potuto raggiugnere la parte di esercito marciata avanti. Venne circondato e forzato il campo da una moltitudine di Turchi, i quali nell'arte della guerra più abili che non fossero i Cristiani del dodicesimo secolo, col favor delle tenebre, e della confusione degli accampati, questi fugarono o uccisero, del campo s'impadronirono. In mezzo a quel soqquadro de' suoi, Luigi salì sopra un albero; e fatto salvo dal proprio valore e dall'accecamento de' nemici, potè, allo schiarire del giorno, sottrarsi ai medesimi, e pressochè solo il suo antiguardo raggiugnere. Non osando più allora continuare la sua peregrinazione per terra, si trovò felice a bastanza nel poter raccogliere in sicuro gli avanzi dell'esercito entro l'amico porto di Satalia, d'onde veleggiò ad Antiochia. Ma sì pochi legni i Greci gli somministrarono, che non gli fu dato il condurre seco se non se i nobili e i cavalieri. La infanteria perì, miseramente abbandonata alle falde de' monti della Panfilia. L'imperatore ed il re si abbracciarono a Gerusalemme, e piansero congiuntamente; poi unite le forze che lor rimaneano a quelle de' Cristiani della Sorìa, gli ultimi tentativi della seconda Crociata ebbero [396] sotto le mura di Damasco infausto successo. Corrado e Luigi s'imbarcarono per l'Europa, dopo essersi acquistata grande fama di coraggio e pietà. Ma intanto gli Orientali aveano imparato a disfidare la possanza di due monarchi, il cui nome e le forze militari da lungo tempo li minacciavano[555]. Forse avrebbero dovuto paventare assai più Federico I, e l'esperienza che sotto il suo zio Corrado questo principe aveva acquistata nell'Asia. Oltrechè, quaranta stagioni campali nell'Alemagna e nell'Italia, lo aveano istruito nell'arte di comandare; e veramente sotto il regno di lui, i suoi sudditi, e persino i principi dell'Impero, avvezzati eransi ad obbedire. Perdute di vista Filadelfia e Laodicea, ultime città dell'Impero greco, Federico Barbarossa s'innoltrò per mezzo ad un paese deserto, sterile, impregnato di sali, terra dice lo Storico[556] di tribolazione e d'orrore. Per venti giorni di penoso e sconfortante cammino, dovette ad ogni istante difendersi dagli assalti d'innumerabili bande di Turcomanni[557] [397] che parea continuamente risorgessero, e più furibondi, dalle sofferte sconfitte. Ma non si stancò di combattere e di sofferir l'Alemanno; e tanto era ridotto, quando pervenne sotto le mura d'Iconium, che appena mille de' suoi cavalieri aveano quanta forza bastasse loro a tenersi in arcione. Pure, mercè un impeto violento, e al quale i Musulmani mai non aspettavansi, li sconfisse, prese la città d'assalto, costrinse il Sultano ad implorare pace e clemenza dal vincitore[558], e fatto per tal guisa libero il cammino, Federico portò l'armi sue trionfanti nella Cilicia, fatal limite delle sue vittorie, perchè ivi travolto da un torrente annegò[559]. Le infermità e le diserzioni, il rimanente degli Alemanni distrussero, o spersero, e lo stesso figlio dell'Imperatore morì all'assedio di Acri, avendo egual sorte la maggior parte degli Svevi suoi vassalli che colà il seguitarono. Fra tutti gli eroi latini, Goffredo di Buglione e Federico Barbarossa sono i soli che pervennero ad attraversare l'Asia Minore. Ma il loro ardimento, e per fino i [398] buoni successi ottenuti dai medesimi, servirono di lezione e cautela, a quelli che vennero dopo; onde ne' secoli più illuminati dalle successive Crociate, tutte le nazioni alle molestie e ai pericoli della via di terra quelli del mare anteposero[560].

L'entusiasmo che animò la prima Crociata, è avvenimento semplice e naturale. Recentissima la speranza concetta, ignoti i rischi, conformità dell'impresa col genio dominante del secolo; ma ben sono giusto argomento di sorpresa e di commiserazione ad un tempo, e la ostinata perseveranza dell'Europa, a vincere la quale fu senza frutto l'esperienza delle sciagure de' predecessori; e il reiterarsi di queste sciagure, fattosi quasi fomite alla fiducia di chi le affrontava di nuovo; e sei successive generazioni che a capo chino si precipitavano nell'abisso innanzi ad esse dischiuso; e gli uomini d'ogni stato e condizione, che rischiavano esistenza e averi, coll'unico fine di acquistare o conservare un sepolcro di pietra[561], posto [399] duemila miglia lontano dalla lor patria. Per un volgere di due secoli, dopo il Concilio di Clermont, ciascuna primavera, ciascuna state partoriva una nuova migrazione di Pellegrini, armati per la difesa di Terra Santa; ma i sette grandi armamenti, ossia le sette Crociate, ebbero per motivo o una recente calamità, o un incalzante pericolo; e a queste spedizioni trascinati vennero i popoli e dall'autorità de' Pontefici, e dall'esempio dei Re. Alla voce dei Santi Oratori, il comune zelo infiammavasi, la nazione ammutiva, e fra questi Oratori la prima sede vuol essere assegnata al monaco Bernardo (A. D. 1091-1153), collocato indi fra i Santi della Chiesa romana[562]. Nato di una famiglia nobile della Borgogna, otto anni all'incirca dopo la prima conquista di Gerusalemme, avea [400] ventitre anni, quando andò a segregarsi dai profani, nel monastero di Citaux di recente instituito, e che col vigore delle nuove fondazioni fioriva. Dopo due anni, come Capo della terza colonia del ridetto Ordine, si trasferì a Chiaravalle nella Sciampagna[563], contentatosi poi, finchè visse, dell'umile titolo di Abate di questa Comunità. I filosofi del nostro secolo; senza curarsi assai di distinguere, hanno versato su tali eroi spirituali, la derisione e il disprezzo. Diversi anche de' men rinomati fra essi, per una certa forza d'animo si segnalarono; e maggiori almeno de' lor seguaci e discepoli, in quella età di superstizione, ad una meta aggiugneano che molta mano di emoli lor contendea. La solerzia, l'eloquenza, l'ingegno di scrivere, grande preminenza sopra i rivali, e sopra i contemporanei, a S. Bernardo acquistarono; e veramente le Opere di lui nè di arguzia, nè di calore vanno sfornite; e mostrano aver egli prese a norma la ragione e l'umanità fin quanto il suo carattere di Santo gliel permetteva[564]. Se fosse [401] rimasto al secolo, avrebbe posseduta la settima parte di un mediocre retaggio; coi pronunziati voti di penitenza e di povertà[565], col rifiuto di ogni dignità ecclesiastica, coll'assoluta non curanza delle vanità mondane, l'Abate di Chiaravalle divenne l'oracolo dell'Europa e il fondatore di centosessanta monasterj. La libertà delle appostoliche censure ch'ei profferiva, facea tremare i Papi e i Sovrani. In uno scisma della Chiesa, la Francia, l'Inghilterra, Milano lo consultarono, e stettero al giudizio ch'ei pronunciò, Innocenzo II, non dimenticò di aver dovuta all'Abate di Chiaravalle la tiara; e di questo Abate era stato amico e discepolo Eugenio III, successor d'Innocenzo. Ma la pubblicazione della seconda Crociata, fu per S. Bernardo l'istante di splendere qual missionario profeta, chiamando le nazioni alla difesa [402] del Santo Sepolcro[566]. Nel parlamento di Vezelai aringò il Re; e Luigi VII, e i vassalli di questo Sovrano ricevettero dalle mani di S. Bernardo la Croce. L'Abate di Chiaravalle si prese indi il meno facile assunto di trarre al proprio partito l'Imperatore Corrado, e colla forza de' gesti, della voce della sua patetica veemenza, giunse ad infiammare gli animi di un popolo melenso e ignorante, e che inoltre la lingua dell'Oratore non intendea. Tutta la strada che ei trascorse da Costanza a Colonia, il trionfo del suo zelo e della sua eloquenza contrassegnò. S. Bernardo si congratula con sè medesimo di essere pervenuto a spopolare l'Europa, affermando che le città e le castella, prive trovavansi d'abitanti, e facendo il conto che vi rimaneva appena un uomo, per consolar sette vedove[567]. Gli accecati fanatici, vinti dalla possanza del suo dire voleano sceglierlo per generale; ma S. Bernardo, che avea dinanzi agli occhi l'esempio di Piero l'Eremita, si contentò di assicurare il celeste favore ai Crociati, ed ebbe l'accorgimento di ricusare il comando di una militare impresa, della quale e i disastri, e i buoni successi del pari la rinomanza delle virtù evangeliche del Santo poteano offuscare[568]. Non quindi evitò dopo [403] il cattivo esito della Crociata le imputazioni di falso Profeta e di autore delle pubbliche calamità. I nemici di lui trionfarono, confusi rimasero i suoi partigiani, e tardi solamente, offerse al Pubblico una apologia della propria condotta, apologia a dir vero, poco soddisfacente. Cita in essa l'obbedienza che ai comandi del Papa ei doveva, si diffonde sulle vie misteriose della Providenza accagiona de' mali dei Cristiani le colpe degli stessi Cristiani, e lascia modestamente trapelare che la sua missione era stata da visioni e miracoli confermata[569]; argomento cui non v'era replica, se fosse stata certa la cosa. Ma di venti, o trenta prodigi che i discepoli di S. Bernardo affermano operati da lui, in un sol giorno, nel mezzo delle pubbliche assemblee della Francia e dell'Inghilterra, ch'essi chiamano in testimonianza[570], non ve n'è forse un solo, il quale fuor del ricinto di Chiaravalle, ai nostri dì sia creduto; oltre di che, in tutto quanto riguarda le guarigioni soprannaturali di infermi, di storpj, di ciechi che vennero condotti al cospetto dell'uomo di Dio, non è più possibile in [404] oggi il discernere qual parte debba attribuirsi al caso, quale alla immaginazione degli uomini, quale alla impostura e alle finzioni dell'operator del miracolo[571][572].

La stessa divina onnipotenza diviene scopo alle querele de' mortali, fra loro opposti ne' desiderj. La liberazione di Gerusalemme, considerata in Europa come una beneficenza del cielo, fu deplorata, e forse anche, qual calamità pubblica, riguardata nell'Asia. Dopo la presa di questa città, i fuggiaschi della Sorìa portarono fino ai remoti paesi la costernazione che gl'invase. I cittadini di Bagdad piansero prostrati nella polvere; Zeineddino, cadì di Damasco, si strappò alla presenza del Califfo la barba; tutto il Divano versò [405] calde lagrime su la dolente avventura[573]. Ma non altro che lagrime potevano offerire i Comandanti de' Credenti, schiavi eglino stessi fra le mani de' Turchi; e benchè, nell'ultimo secolo degli Abbassidi, la possanza temporale de' Califfi si fosse alcun poco rimessa, questa però alla città di Bagdad e alle province de' dintorni si limitava. I tiranni de' Califfi, i discendenti di Selgiuk, al pari dell'altre asiatiche dinastie, le vicissitudini del valore, della possanza, della discordia, dell'invilimento, della caduta aveano sopportate; nè le forze loro, o il loro coraggio bastavano alla difesa della religione. Sangiar, ultimo eroe di loro stirpe, ritirato agli estremi confini della Persia non era conosciuto, nemmen di nome, ai Cristiani dell'Oriente[574]. Intanto che i deboli Sultani languivano nei lor serragli, da catene seriche avvinti[575] il pio assunto [406] di salvare l'Islamismo si presero i loro schiavi, gli Atabek[576], il nome turco de' quali come quello dei patrizj di Bisanzo ammette essere tradotto colla espressione padri del principe. Il valoroso Turco, Ascanzar, già favorito di Malek-Sà, dal quale aveva ottenuto il privilegio di starsi alla destra del trono, nelle guerre civili che alla morte dello stesso principe succedettero, perdè il suo governo di Aleppo e la vita. I fedeli Emiri che gli erano stati soggetti, persistettero nel portare amore al figlio di Ascanzar, Zenghi, segnalatosi guerreggiando i Franchi, nella giornata di Antiochia funesta ai Musulmani. Trenta stagioni campali che, servendo il Califfo e i Sultani, contava Zenghi, la fama militare di cui godeva, gli assicuravano, e ottenne il comando di Mosul, siccome il solo campione che potesse vendicare e difendere la causa del Profeta. Nè Zenghi la speranza di sua nazione deluse; perchè, dopo un assedio di venticinque giorni, e prese Edessa d'assalto, e i Franchi da tutte le [407] terre vinte oltre l'Eufrate scacciò[577]. Questo independente sovrano di Mosul e di Aleppo, le guerriere tribù del Curdistan sottomise, e i soldati di lui s'avvezzarono a riguardare il campo come lor patria, lasciando alla liberalità del principe il pensiere di compensare le fatiche de' suoi difensori, e di proteggerne le famiglie ch'eglino abbandonavan per lui. Condottiero di tai veterani, Noraddino, figliuolo di Zenghi, riunì a poco a poco sotto di sè i possedimenti maomettani (A. D. 1145-1174); il regno di Damasco a quel di Aleppo congiunse; e fece con buon successo una lunga guerra ai Cristiani della Sorìa. Dilatato il suo vasto Impero dalle sponde del Tigri a quelle del Nilo, gli Abbassidi ogni titolo e prerogativa regale al loro servo fedel concedettero. I Latini medesimi si videro costretti ad ammirare la saggezza, il valore, e persino la giustizia e la pietà di questo implacabile loro nemico[578]. Negli atti e della vita privata, e del suo governo, il [408] pio guerriero rianimò lo zelo, e ricondusse la semplicità de' primi Califfi; sbanditi l'oro e la seta dal suo palagio, proibito negli Stati di lui l'uso del vino, scrupolosamente le rendite pubbliche al servigio dei popoli adoperò, nè mai alle frugali spese della sua casa si prevalse d'altre ricchezze fuor delle rendite de' fondi da lui comprati, colla parte legittima che gli spettava sulle prede fatte ai nemici (A. D. 1163-1169). La sultana favorita avendogli mostrato ardente desiderio di possedere certa ricca suppellettile di femminile lusso, ei le rispose. «Come volete ch'io faccia! Temo Dio, e non sono che il cassiere de' Musulmani: le loro ricchezze non mi appartengono. Però possedo tuttavia tre botteghe nella città di Hems, servitevene, ma non ho altra cosa da poter dare». La Corte di giustizia di Noraddino era il terror de' Grandi, l'asilo de' poveri. Alcuni anni dopo la morte di questo sultano un cittadino che lagnavasi di oppressione per parte del successore corse per la strada esclamando, «o Noraddino! Noraddino! che cosa sei tu divenuto? abbi pietà del tuo popolo e vieni a soccorrerlo.» Si paventò di un tumulto, e il tiranno seduto sul proprio trono, arrossì e tremò, al nome di un monarca che più non era.

Per l'armi de' Franchi e de' Turchi, i Fatimiti aveano perduto l'intera Sorìa, e benchè si mantenessero nell'Egitto, l'invilimento cui declinò la loro possanza, portò conseguenze ancor più disastrose a questi discendenti o successori di Maometto. Nondimeno, rispettati fino allora, siccome tali, viveano rinchiusi nel proprio palagio del Cairo, e sacre le lor persone, di rado al profano sguardo o de' sudditi, o degli stranieri si offersero. Gli ambasciatori latini[579] [409] hanno descritto il cerimoniale della loro ammissione dinanzi al Califfo, e come introdotti venissero attraversando una sequela di anditi oscuri e di portici illuminati. Ravvivavano una tale scena il mormorare degli augelli e il susurrare delle fontane: non vedeano d'ogni banda che animali di specie rara, e preziose suppellettili. Fu anche mostrata ad essi una porzione del tesoro: la rimanente parte supposero. Dopo avere oltrepassato un gran numero di porte custodite da Negri e da eunuchi, pervennero al Santuario, ossia alla stanza entro cui stavasi il Sovrano dietro una cortina velato. Il Visir che conduceva gli ambasciatori, deposta la scimitarra, per tre volte sul pavimento prostrossi. Sollevata venne alfin la cortina, e poterono contemplare il Comandante de' credenti, che dava ordini al suo primo schiavo, in sostanza padrone: i Visir, o i Sultani usurpata aveano la suprema amministrazion dell'Egitto; e decidendosi coll'armi le gare degli aspiranti a tal carica, il nome del più meritevole, ossia del più forte nella patente reale del comando veniva registrato. Le fazioni di Dargam e di Saver si scacciavano a vicenda dalla capitale e dal regno, e quella di esse che soggiaceva, implorava la pericolosa protezione del Sultano di Damasco, o del re di Gerusalemme, mortali nemici della setta, e della Monarchia de' Fatimiti. Più formidabili, [410] per potere e professata religione, erano i Turchi: ma i Franchi aveano sopra Noraddino il vantaggio di non trovare ostacoli nel trasferirsi per linea retta da Gaza al fiume Nilo. Per la situazione degli Stati di Noraddino, le truppe di lui vedeansi costrette ad un giro molesto e pien di pericoli intorno all'Arabia, onde si trovavano esposte alla sete, ai disagi e al malefico influsso de' venti infocati del Deserto. Zelo unito ad ambizione, facea bramoso il Principe turco di regnare sotto il nome degli Abbassidi in Egitto: l'impresa di restituire la perduta dignità a Saver che aveva implorata la protezione di Noraddino, gli offerse un motivo specioso alla prima spedizione, che egli confidò all'Emiro Siracù, generale rinomato per sua esperienza e valore. Dargam perdè la battaglia e la vita; ma il felice rivale di questo Visir, parte per ingratitudine, parte per timori e sospetti non privi di fondamento, sollecitò i soccorsi di Gerusalemme onde liberare l'Egitto dalla prevalenza de' suoi superbi benefattori. Trovatosi il generale di Noraddino nell'impossibilità di resistere alle forze congiunte de' due nemici, abbandonò le recenti conquiste, e fe' sgombra Belbeis, o Peluso, a patto di ottenere una libera ritirata; nel tempo della quale, mentre i Turchi marciavano alla sfilata dinanzi al nemico, e chiudea l'ordine della battaglia il lor generale armato della sua azza da guerra, attento a tutto ciò che accadea, un Franco osò domandargli, se non temeva di essere assalito. «Certamente non appartiene che a voi, rispose l'intrepido Emiro, il cominciare l'assalto, ma abbiatevi per sicurissima cosa, che un solo de' miei soldati non andrà in paradiso, senza avere mandato prima [411] un infedele all'inferno.» Ricomparso il generale alla presenza del suo Sovrano, le ricchezze del paese, la mollezza degli abitanti, le discordie lor gli narrò, le quali cose la speranza riaccesero in Noraddino. Ai pietosi divisamenti di questo, il Califfo di Bagdad fece plauso, e Siracù condottiero di dodicimila Turchi e di undicimila Arabi, si mostrò per la seconda volta in Egitto. Nondimeno, queste forze erano ben inferiori alle forze degli eserciti confederati de' Franchi e de' Saracini; onde a me sembra che il passaggio del Nilo operato dal generale di Noraddino, la ritirata nella Tebaide, le fazioni della giornata di Babain, la sorpresa di Alessandria, le spedizioni e le controspedizioni, nelle pianure e nelle valli di Egitto, dal Tropico al mare, palesino, nell'uomo che divisò tali imprese, un nuovo e straordinario grado d'intelligenza militare. L'abilità di lui secondarono le valorose sue soldatesche, e un Mammalucco, il giorno prima di un'azione campale esclamava:[580] «Se non possiamo liberare l'Egitto da questi cani di Cristiani, perchè non rinunciamo agli onori e ai premj che ne ha promessi il Sultano? Perchè non andiamo coi villani a coltivare la terra? o colle donne a filare entro un harem? Cionnullameno, a malgrado di tanti sforzi[581], e comunque l'eloquenza [412] di Saladino sì nobilmente si adoperasse in Alessandria[582] per difendere la condotta militare tenuta dal suo zio Siracù, questi terminò la seconda sua spedizione con una ritirata preceduta da un'onorevole capitolazione; e Noraddino aspettò con impazienza l'occasione di tentare con miglior successo una terza impresa; occasione ben tosto offertagli da Amalrico, o Amauri, Re di Gerusalemme, imbevutosi della perniciosa massima, che non dee serbarsi fede agl'inimici di Dio. Un guerriero religioso, il gran Mastro dell'Ordine degli Ospitalieri, lo incoraggiò ne' disegni concetti; l'Imperatore di Costantinopoli diede, o promise una flotta per secondare gli eserciti della Sorìa; e il perfido Cristiano, non sazio del fatto bottino, e de' sussidj che gli venivano dall'Egitto, a conquistare questo paese si accinse. In tale estremità, i Musulmani al Sultano di Damasco volser gli sguardi; e il Visir Saver, che d'ogni banda attorniavan pericoli, cedè ai desiderj unanimi della nazione. Noraddino parve contento di un'offertagli terza parte sulle rendite dell'Egitto. Già i Franchi erano alle porte del Cairo; ma al loro avvicinarsi, fu appiccato il fuoco ai sobborghi della vecchia città; un negoziato insidioso li trasse in inganno; [413] i lor vascelli non poterono entrare nel Nilo. Schivata prudentemente una battaglia co' Turchi, in mezzo ad un paese nemico, Amauri tornò nella Palestina, carico della vergogna e del rimprovero, compagni sempre dell'ingiustizia dal buon successo non coronata. Partiti i Franchi, Siracù, qual liberatore dell'Egitto, di una veste d'onore fu ornato; ma la contaminò ben tosto coll'ordinare la morte dell'infelice Saver. La carica di Visir per qualche tempo gli Emiri turchi si degnarono assumere: ma la conquista degli stranieri, affrettò la caduta de' Fatimiti; grande cambiamento politico, eseguitosi tranquillamente e per l'effetto d'un ordine e d'una parola. Già i Califfi, e per la propria debolezza, e per la tirannide de' Visiri, si erano nell'opinione pubblica disonorati. Fremuto aveano i loro sudditi in veggendo il discendente e il successore del Profeta, porgere la sua mano ignuda ad essere toccata dalla callosa mano di un ambasciatore latino; e piansero allora quando il Califfo d'Egitto, i capelli delle proprie donne, come segnale di ultimo stremo e cordoglio, al Sultano di Damasco inviò (A. D. 1171). Per ordine di Noraddino, e per sentenza de' Dottori, vennero solennemente ribenedetti i nomi sacri di Abubeker, di Omar e di Otmano; Mostadi, Califfo di Bagdad, nelle pubbliche preghiere venne solennemente riconosciuto siccome il vero Comandante de' Credenti; alla divisa nera degli Abbassidi fece luogo la verde de' figli di Alì; l'ultimo di questa schiatta, il Califfo Aded, dieci giorni dopo, morì, nella felice ignoranza del proprio destino. Le ricchezze di lui assicurarono l'obbedienza de' soldati, e il tumultuar de' Settarj sedarono; nè accadde in appresso, per qualsivoglia [414] cambiamento politico[583], che dalla tradizione ortodossa de' Musulmani i popoli dell'Egitto si allontanassero.

A. D. 1171-1195

Le colline di là dal Tigri abitate sono dai Curdi, tribù di ardimentosi pastori[584], vigorosi, selvaggi, indocili, dediti al ladroneccio, e ostinatamente affezionati al governo di Capi che hanno comune con essi la patria e l'origine. La somiglianza di nome, di situazione e di costumanze, ne danno fondamenti a crederli i Carduchiani de' Greci[585]; e difendono tuttavia contro i tentativi della Porta ottomana quell'antica libertà che, a malgrado de' successori di Ciro, mantennero. L'indigenza e l'ambizione li trassero ad abbracciare il mestiere di soldati mercenarj. Fecero strada al regno del gran Saladino i servigi [415] del padre di lui, e dello zio[586]; e il figlio di Giob, o Aìub, semplice Curdo, era a bastanza grande di per sè stesso per ridersi dell'adulazione di chi ne volea derivata sin dai Califfi arabi la genealogia[587]. Noraddino prevedea sì poco la rovina prossima ed imminente alla propria famiglia, che costrinse Saladino a seguire in Egitto il suo zio Siracù. Questo giovine assicurò la sua rinomanza militare nella difesa di Alessandria, e se potessimo prestar fede ai Latini, sollecitò ed ottenne dal generale cristiano gli onori profani della cavalleria[588]. Morto Siracù, Saladino, il più giovine e il meno possente fra gli Emiri, per questa considerazione appunto ottenne la carica, divenuta, come dicemmo, men rilevante di gran Visir; ma giovatosi de' consigli del padre, la cui venuta al Cairo egli aveva affrettata, bentosto per suo ingegno acquistò preminenza sopra gli eguali, e seppe rendere affezionato a sè e ai proprj interessi [416] l'esercito. Sin tanto che Noraddino visse, questi ambiziosi Curdi, i più sommessi fra gli schiavi del medesimo si dimostrarono; e il sagace Aiub impose silenzio alle querele dell'irrequieto Divano, protestando che, se tal fosse la volontà del padrone, egli medesimo avrebbe condotto a piè del trono il figlio carico di catene. «Mi è convenuto, ei dicea, in particolare a Saladino usare siffatto linguaggio in una assemblea composta di vostri rivali: ma sappiatelo; oggidì ci troviamo in tale stato da non dovere nè paventare, nè obbedire; e tutte le minacce di Noraddino non otteranno da noi il tributo di una canna di zucchero». La morte del Sultano giunse in tempo di salvar padre e figlio dai pericoli, e dai rimproveri che a tal pensamento andavan congiunti. Il figlio del morto Sultano d'anni undici, rimase per qualche tempo fra le mani degli Emiri di Damasco, intanto che il nuovo Signore dell'Egitto veniva insignito dal Califfo di tutti que' titoli[589], che giustificar ne poteano agli occhi del popolo la usurpazione; ma non andò guari che sembrando a Saladino non bastante possedimento l'Egitto, da Gerusalemme i Cristiani, da Damasco, da Aleppo, dal Diarbekir gli Atahek discacciò. Avendolo riconosciuto per protettor temporale la Mecca e Medina, il fratello di lui conquistò l'Yemen ossia l'Arabia Felice; e crebbe [417] tanto in dominazione che questa, negli ultimi giorni di Saladino, da Tripoli d'Affrica sino al Tigri, dall'Oceano Indiano fino alle montagne dell'Armenia estendevasi. Giusta le massime di buon ordine e di fedeltà di suddito diffuse fra noi, difficilmente può sembrarne immune da rimprovero di ingratitudine e di perfidia, il contegno tenutosi da Saladino; ma l'ambizione di lui può trovar qualche scusa nelle rivoluzioni dell'Asia[590], ove persin l'idea di successione legittima era perduta, nel recente esempio che gli stessi Atabek aveano dato, ne' riguardi che Saladino usò mai sempre al figlio del suo benefattore, nella condotta generosa ed umana che verso i rami collaterali della caduta dinastia conservò, nel proprio merito e nella loro inettezza, nell'approvazione del Califfo, fonte unica della legitima autorità, per ultimo nel voto e negl'interessi de' popoli, alla felicità de' quali sono per prima cosa instituiti i governi. Fu ammirato in Saladino, come nel suo predecessore, il felice, quanto raro, accoppiamento delle virtù di un santo e delle virtù di un eroe; poichè Saladino e Noraddino nel novero de' Santi Maomettani l'uno e l'altro son collocati. Costantemente avvezzatisi a meditar guerre sante, parve, che insieme a tal consuetudine, acquistassero quell'indole prudente e moderata, della quale in tutti gli atti di loro vita scorgiamo le tracce. Saladino, in sua gioventù, era [418] stato dedito al vino e alle donne[591]; ma l'ambizione fece ben presto, che rinunziando ai diletti de' sensi, le più dignitose follìe del potere, e dell'amore della rinomanza, a questi sostituisse. Vestiva un rozzo abito di lana; bevea solamente acqua; mostratosi non men sobrio, e di gran lunga più casto del Profeta degli Arabi, e nella sua fede e in tutte le sue azioni diede continuamente a divedere il rigido Musulmano. Finchè visse, manifestò il suo rincrescimento che le cure necessarie alla difesa della religione, non gli permettessero adempire il dovere del pellegrinaggio alla Mecca; ma alle ore prefisse, e cinque volte al giorno, orava in compagnia de' fratelli; e accadendogli di avere involontariamente tralasciato alcuno de' digiuni dal Profeta prescritti, col massimo scrupolo l'omissione sua riparava. Può essere citata siccome prova (che per vero dire di ostentazione sentiva) del coraggio e della divozione di Saladino, il costume che egli avea, di leggere prima di dar battaglia il Corano standosi a cavallo, camminando a capo delle sue soldatesche, e posto in mezzo ai due eserciti che in procinto erano di assalirsi[592]. Schifo d'ogni studio che alla dottrina superstiziosa della Setta di Safei non si riferisse, tutti gli altri depresse: ebbe a vile i poeti, e questa circostanza fece la lor sicurezza; perchè tanto abborriva tutte le scienze profane, che un filosofo, il quale avea diffuse alcune [419] sue scoperte speculative, venne preso, e, per ordine del pietoso Sultano, strozzato. Il più oscuro fra' sudditi poteva implorare la giustizia del Divano contra il Principe, o contra il ministro del Principe; e solamente, allor che un regno era prezzo dell'ingiustizia, Saladino non sentiva ritrosìa nel commetterla. Mentre i discendenti di Selgiuk e di Zenghi gli teneano la staffa, e davano ordine ai suoi vestimenti, gl'infimi servi della sua casa riceveano prove della dolcezza e dell'affabilità del loro Signore; si contraddistinse per eccesso di liberalità all'assedio di Acri colla distribuzione gratuita di dodicimila cavalli, e quando morì non furono trovate nel suo erario che quarantasette dramme d'argento, e una sola piastra d'oro. Durante un regno, quasi tutto speso nelle guerre, i tributi diminuì, e i cittadini godettero pacificamente de' frutti di loro industria. Nell'Egitto, nella Sorìa e nell'Arabia, moschee, collegi, ospitali e una ben munita Fortezza nel Cairo edificò: ma tutte le fondazioni di Saladino avendo per mira il ben pubblico[593], fra queste non ebbevi un palagio, un giardino al lusso personale del Sultano serbati. In un secolo di fanatismo le naturali virtù di un fanatico eroe gli stessi Cristiani a stima e ad ammirazione costrinsero: dell'amicizia di Saladino l'Imperatore di Alemagna gloriavasi[594]; quel di Bisanzo, suo confederato, il chiedeva[595]. La conquista di [420] Gerusalemme per tutto Oriente ed Occidente diffuse, e, fors'anche oltre al vero, ampliò la rinomanza di questo Sultano.

Il regno di Gerusalemme fu di breve durata, e se più presto anche non cadde[596], alle discordie de' Turchi e de' Saracini il dovette. I Califfi Fatimiti, e i Sultani di Damasco, abbagliati da alcuni vantaggi presenti e personali, sagrificarono la causa generale della loro religione. Ma poichè le forze dell'Egitto, della Sorìa, e dell'Arabia, riunite furono sotto l'Impero di un eroe, che natura e fortuna sembravano avere armato contra i Cristiani, tutte le cose all'interno di Gerusalemme presero minaccevole aspetto, e tutt'altro che apparenze lusinghiere, lo stato interno di esse offeriva. Dopo la morte de' due Baldovini, uno fratello, l'altro cugino di Goffredo di Buglione, lo scettro passò nelle mani di Melisinda, figlia del secondo Baldovino, e nel marito della medesima, Folco, Conte di Angiò, stato per un precedente maritaggio il ceppo de' nostri Plantageneti dell'Inghilterra. I due figli di Melisinda e di Folco, Baldovino III ed Amauri sostennero con qualche buon successo una guerra vivissima contro gl'Infedeli. Ma la lebbra, frutto delle Crociate, privò Baldovino IV, figlio di Amauri, delle facoltà del corpo e della mente. E ne era la naturale erede Sibilla sorella del defunto e madre di Baldovino V, la quale, dopo la morte, non assai provata naturale, del proprio figlio, coronò un secondo [421] marito, Guido di Lusignano, principe di bell'aspetto, ma sì poco meritevole di rinomanza che lo stesso Goffredo, fratello del medesimo, fu udito esclamare: «Se hanno fatto di lui un Re perchè non far di me un Dio?» in somma una tale scelta il biasimo generale incontrò. Raimondo, Conte di Tripoli, il più potente fra i vassalli che dalla successione e dalla reggenza trovavansi esclusi, concepì odio sì invelenito contra il nuovo Sovrano, che per disbramarlo vendè il proprio onore e la propria coscienza al Sultano. Tali furono, a mano, a mano, i guardiani della Santa Città, un lebbroso, un fanciullo, una donna, un codardo e un traditore. Pur ne fu tardata, per altri dodici anni, la caduta mercè alcuni soccorsi giunti d'Europa, e pel valore de' monaci guerrieri, e per le brighe che al potentissimo avversario de' Cristiani occorsero, or nelle parti interne del suo vasto impero, or a' confini remotissimi da Gerusalemme. Finalmente, questo Stato, giunto al pendìo di sua rovina, vedeasi circondato e stretto da nemici per ogni banda, allorchè i Franchi sconsigliatamente violarono la tregua che la precaria esistenza loro protraeva. Rinaldo di Castiglione, soldato di ventura, avendo sorpreso una Fortezza in vicinanza del Deserto, da questo campo spogliava le carovane, insultava la religion del Profeta, alle città di Medina e della Mecca le sue minacce estendea. Saladino si degnò querelarsene, e chiedere una soddisfazione cui desiderava di non ottenere; negatagli questa, immediatamente, condottiero di un esercito di ottantamila uomini, la Terra Santa assalì: e fu prima impresa di lui l'assedio di Tiberiade, suggeritogli dal Conte di Tripoli al quale la stessa città appartenea. Il Re di Gerusalemme cadde nella rete di estenuare le guernigioni delle proprie Fortezze, e di mettere in armi [422] il suo popolo per munire di soccorsi un Forte rilevante qual Tiberiade si era[597]. Il traditor Raimondo, dopo avere additato ai nemici il modo di sorprendere i Cristiani in un campo mancante d'acqua, all'istante della battaglia, si diede alla fuga, da suoi e dai nemici egualmente esecrato[598]. Sconfitto e preso Lusignano in un combattimento, che gli costò la perdita di trentamila uomini, la vera Croce, il che fu massimo avvilimento per li Cristiani, cadde nelle mani degl'Infedeli. Venne condotto nella tenda di Saladino il Re prigioniero, quasi moriente di sete e paura. Il vincitor generoso lo presentò di una tazza di sorbetto; ma non permise a Rinaldo di Castiglione il partecipare di tale atto di clemenza e di ospitalità. «La persona e la dignità di un Re, dicea Saladino a Lusignano, son sacre; ma quest'empio masnadiero renderà tosto omaggio al Profeta ch'egli ha bestemmiato, o perirà della morte che per tante riprese ha meritata». Fosse orgoglio, o comando della sua coscienza, il guerriero cristiano ricusò il primo patto, e, percosso sul capo dalla scimitarra del Sultano, le guardie del medesimo terminarono di dargli morte[599]. [423] Venne condotto a Damasco, e rinchiuso entro onorevole prigione il tremante Sultano di Gerusalemme, al quale un pronto riscatto dovea fra breve restituire la libertà. Ma la vittoria di Saladino fu macchiata dalla sentenza di morte eseguita sopra dugentotrenta Ospitalieri, intrepidi campioni e martiri della lor fede. Il Regno rimase privo di Capo, e de' gran mastri de' due Ordini militari, un di loro ucciso, l'altro condotto prigioniere. Convenute erano a questa fatale battaglia le guernigioni della capitale e di tutte le città della costa marittima, e dell'interno del paese. Tiro e Tripoli le sole furono che alla rapida invasione di Saladino resistessero, onde, tre mesi dopo la giornata di Tiberiade, il Sultano con numerosa oste si mostrò alle porte di Gerusalemme[600].

A. D. 1187

Potea Saladino temere che l'assedio di una città, il cui destino tenea l'Europa e l'Asia perplesse, ridestasse le ultime scintille dell'entusiasmo ne' Cristiani, e che fra i sessantamila di essi, i quali tuttavia rimanevano in Gerusalemme, ciascuno sarebbe stato soldato, e ciascun soldato un eroe avido del [424] martirio. Ma la regina Sibilla per sè medesima e pel marito prigioniero tremava; quelli fra i baroni e cavalieri che aveano potuto sottrarsi alla morte e alle catene, conservavano, in quegli estremi, lo stesso spirito di fazione, le medesime passioni di personale interesse. Composta di Cristiani orientali la massima parte degli abitanti di Gerusalemme, gli avea l'esperienza ammaestrati a preferire al governo de' Latini il giogo maomettano[601]; nè il Santo Sepolcro conducea a quelle regioni se non se ciurme di miserabili prive d'armi, come di valore, che colle carità de' pellegrini guerrieri vivevano. Ciò nullameno vennero affrettatamente fatti alcuni apparecchi di difesa; ma l'esercito vittorioso rispinse le sortite degli assediati, e collocate le sue macchine con buon successo, e aperta una larga breccia, nel giorno decimoquarto, dodici stendardi di Maometto e del Sultano sulle mura di Gerusalemme fè sventolare. Invano la Regina, le donne[602] e i frati co' piè scalzi e processionalmente, si portarono a supplicare il figliuol di Dio, perchè volesse salvar la sua tomba dalle mani sacrileghe degl'Infedeli. Fece mestieri il ricorrere alla clemenza del vincitore, che la prima deputazione severamente ricusò, facendo noto il suo giuramento di vendicare le lunghe angosce con tanta pazienza sofferte dai Musulmani; essere trascorsa l'ora del perdono, giunto il momento di espiare il sangue innocente versato per opera di Goffredo [425] e de' Crociati. Ma spinti a tal disperazione i Cristiani, con un coraggioso sforzo fecero comprendere al Sultano, ch'ei non era per anche sicuro affatto della vittoria, e la loro appellazione al padrone comune di tutti gli uomini, fu ascoltata con rispetto dall'Aiubita. Un sentimento di umanità ammollì il rigore del fanatismo e della conquista; accettata la sommessione della città, condiscese Saladino a risparmiare il sangue degli abitanti; i Cristiani greci e orientali ottennero permissione di vivere sotto il governo del vincitore; non così i Franchi e Latini, pei quali fu decretato, che entro quaranta giorni sgombrassero Gerusalemme, con promessa di essere condotti sani e salvi ne' porti dell'Egitto e della Sorìa. I riscatti vennero poi così regolati; dieci piastre d'oro per ogni uomo, cinque per ogni donna, una per ciascun fanciullo; chi non aveva modo di pagare un tale riscatto in perpetua cattività rimanea. Alcuni Storici, con malignità, anzichè no, sonosi compiaciuti nel raffrontare la clemenza di Saladino e la strage della prima Crociata: differenza che sarebbe da attribuirsi unicamente al carattere personale del conquistatore: nè per altra parte dobbiamo dimenticarci l'offerta di capitolare fatta dai Cristiani, l'ostinatezza de' Maomettani nel sostenere l'assedio insino all'ultimo, la presa della città seguìta per assalto. Fa d'uopo, per vero dire, dar merito all'esattezza onde il Sultano le condizioni del Trattato adempì, e al guardo di compassione ch'ei volse sulla sventura de' vinti. In vece di pretendere a tutto rigore il pagamento del riscatto, liberò settemila indigenti, contentandosi della somma di trentamila bisantini, e altri due o tremila, immuni da qualunque [426] sborso. Il numero degli schiavi rimasti, si ridusse ad undici o al più quattordicimila persone. Nell'abboccamento che ebbe colla Regina, Saladino cercò raddolcirne l'afflizione co' discorsi e persin colle lagrime. Distribuì con larga mano elemosine alle vedove e agli orfani che a tale stato avea ridotti la guerra, e mentre gli Ospitalieri combatteano tuttavia contro di lui, l'umano vincitore permetteva ad alcuni loro fratelli, che mossi da più vorace pietà al servigio degl'infermi adoperavano le proprie cure, il continuare un intero anno in sì caritatevole ufizio. Cotali atti di clemenza e di virtù, l'amore e l'ammirazione degli uomini gli han meritati. Nè vi era cosa che costringesse a fingere Saladino; poichè anzi, il fanatismo in lui eccessivo, dovea indurlo piuttosto a dissimulare che ostentare verso i nemici del Corano una colpevole compassione. Quando Gerusalemme fu libera dalla presenza degli stranieri, il Sultano al suono di una musica guerriera, e cogli stendardi spiegati dinanzi a sè, vi fece il suo ingresso trionfale. La grande moschea di Omar, che in una chiesa aveano convertita i Cristiani, fu di nuovo consacrata a un solo Dio, e al Profeta di lui Maometto. Con acqua di rosa ne vennero purificati i pavimenti e le mura, e collocata nel Santuario una cattedra fatta dalle stesse mani di Noraddino. Ma allorchè fu veduta atterrata e trascinata per le strade la Croce d'oro che splendea sulla cupola, i Cristiani di tutte Sette misero un lamentevole gemito, cui risposero le acclamazioni di giubilo de' Musulmani. Il Patriarca aveva in quattro cofani d'avorio raccolto le Croci; le immagini, i vasellami, e le reliquie della Santa Città. Di questi s'impadronì il Sultano che avea divisato, [427] siccome trofei della cristiana idolatria[603], portarli in dono al Califfo. Ma poi si piegò a confidarli nelle mani del Patriarca e del Principe d'Antiochia, sacrati pegni, che di poi a prezzo di cinquantaduemila bisantini d'oro Riccardo d'Inghilterra ricuperò[604].

A. D. 1188

Eravi luogo a temere, o sperare, giusta gl'interessi diversi delle nazioni che, fra brevissimo tempo, i Cristiani da tutta quanta la Sorìa verrebber cacciati. La cosa nondimeno non si avverò, che un secolo dopo la morte di Saladino[605]; la resistenza opposta dalla città di Tiro, in mezzo al corso delle vittorie, il fermò. Erano state imprudentemente condotte in questo porto tutte le truppe delle guernigioni che aveano capitolato, le quali trovandosi in numero forte a bastanza per difendere quella piazza, riacquistarono fiducia e coraggio per l'arrivo di Corrado di Monferrato, che fra quelle mal disciplinate torme l'ordine restituì. Il padre del ridetto Corrado, venerabile pellegrino, era caduto, nella battaglia di Tiberiade, prigioniero: ma il disastro di tale giornata [428] tuttavia in Grecia e in Italia ignoravasi, allorchè l'ambizione e la pietà condussero questo nuovo Crociato a visitare gli Stati del proprio nipote, il giovine Baldovino. La vista degli stendardi di Maometto avendolo avvertito di evitare le coste di Giaffa, venne unanimamente accolto, qual Principe e difensore di Tiro che già Saladino assediava. Fermezza di zelo, e forse fiducia nella generosità del nemico, gl'inspiravano l'ardimento di affrontarne le minacce, e di protestare che, quand'anche avesse veduto il vecchio padre suo in pericolo sulla breccia, avrebbe egli lanciato il primo dardo, e procacciata a sè medesimo la gloria d'essere figlio di un martire[606]. Apertosi il porto di Tiro alla flotta degli Egiziani, fu d'improvviso tesa di nuovo la catena che lo chiudeva, onde cinque galee maomettane rimasero prese, o mandate a fondo; in una sortita di Cristiani perirono mille Turchi; e tal si fu la difesa, che Saladino, dopo avere arse le sue macchine, tornò a Damasco, compiendo con una vergognosa ritirata una serie di azioni campali che gli partorirono tanta gloria. Nè andò guari ch'ei dovette sostenere una più formidabil procella. Narrazioni patetiche, ed anche tele effigiate, che in commovente modo offrivano allo sguardo la schiavitù di Gerusalemme e la profanazione del tempio, ridestarono lo assopito zelo dell'Europa; l'Imperatore Federico Barbarossa e i Re di Francia e d'Inghilterra preser la Croce; ma la lentezza degl'immensi apparecchi di [429] queste grandi Potenze i deboli Stati marittimi e dell'Oceano e del Mediterraneo provennero. Gl'Italiani più abili ed antiveggenti, sopra legni pisani, genovesi, veneti, primi di tutti veleggiarono a Tiro: li seguirono indi i pellegrini più zelanti della Francia, della Normandia e delle isole dell'Occidente. Un navilio circa di cento legni portò a quelle spiagge i poderosi soccorsi mandati dalla Fiandra, dalla Frisia e dalla Danimarca; e i nortici guerrieri si faceano in mezzo agli spianati discernere, per l'alta statura, e per le pesanti loro azze da guerra[607]; nè la voce stessa di Corrado tener lontana, nè poterono le mura di Tiro capire più a lungo tanta moltitudine di guerrieri ogni giorno crescente. Deploravano la sventura, e riverivano le dignità di Lusignano che i Turchi aveano lasciato in libertà, forse mossi dalla speranza di mettere fra gli eserciti latini discordia. Avendo questi proposto l'assedio di Tolomaide, ossia Acri, che situata ad ostro di Tiro, trenta miglia ne era distante, videsi immantinente circondata la piazza da trentamila fanti, e da duemila uomini a cavallo, de' quali venne a quanto sembra, affidato allo stesso Lusignano il comando. Non mi diffonderò intorno alla storia di questo memorabile assedio (A. D. 1189-1191) che, durato circa due anni, entro angusto spazio di terreno, tante forze di Europa e di Asia stremò. Non mai il fuoco dell'entusiasmo erasi manifestato con [430] impeto più violento e struggitore; e i Fedeli (entrambe le parti di questo nome gloriavansi) nell'onorare i lor martiri, non poteano negare un tributo di lodi allo sfrenato zelo e al valore de' loro avversarj. Al primo squillare della sacra tromba, i Musulmani dell'Egitto, dell'Arabia, della Sorìa, e di tutte le province dell'Oriente sotto le bandiere del servo di Maometto si raunarono[608]. Il campo di lui, o avanzasse, o indietreggiasse, poche miglia sempre si discostava da Acri, tanto il pungea notte e giorno la brama di liberare i proprj fratelli, e di portare ultimo sterminio ai Cristiani. Nove battaglie, che ben tutte di battaglie meritavano il nome, si diedero nelle vicinanze del monte Carmelo; e tai furono le vicissitudini della fortuna, che il Sultano si aperse una volta la via persino alla città; altra volta i Cristiani si spinsero entro la tenda di Saladino. Col ministero di palombai e di colombi, il Sultano teneasi in continua corrispondenza cogli assediati, e profittava d'ogni istante in cui fosse libero il mare, per dar rinforzo di nuovi soldati a quell'estenuato presidio. Intanto la fame, le pugne, i mali influssi di un clima straniero, ogni dì il latino esercito diminuivano; ma ogni dì le tende de' morti bastavano appena agli uomini sopraggiunti, che esageravano il numero e la sollecitudine degli ausiliari postisi sulle lor tracce. Il volgo stupefatto giunse perfino a credere che il Pontefice, Capo [431] di un esercito numeroso, fosse nelle vicinanze di Costantinopoli pervenuto. Più giusti soggetti di ansietà all'Oriente la venuta dell'alemanno Imperatore somministrava; e la politica di Saladino nel moltiplicargli ostacoli nell'Asia, e probabilmente ancor nella Grecia, soprattutto si contraddistinguea; laonde la gioia inspiratagli dalla notizia della morte di Barbarossa, pareggiò la stima che il Musulmano avea concepita di un tanto guerriero. Più sconforto che fiducia trassero i Cristiani dall'arrivo del Duca di Svevia, e di cinquemila Alemanni, avanzo dell'esercito imperiale, ridotto a stremo dal lungo cammino. Finalmente nella primavera del successivo anno, le flotte di Francia e d'Inghilterra gettarono l'ancora nella baia di Tolomaide; e l'emulazione de' due giovani re Filippo Augusto e Riccardo Plantageneto, le fazioni dell'assedio rinvigorì. Dopo avere tentata indarno ogni via di salvezza, e privi già d'ogni speranza, i difensori di Acri, sottomettendosi per ultimo al proprio destino, una capitolazione, ma a patti durissimi, ottennero[609]. Dugentomila piastre d'oro furono il prezzo posto alla loro vita e alla lor libertà; e dovettero promettere di far liberi cento prigionieri della classe nobile e millecinquecento d'ordine inferiore, e di restituire il legno della vera Croce. Alcuni [432] dubbj in ordine alla convenzione, alcuni indugi nell'adempirla, avendo ridestata la furibonda rabbia de' Franchi, il truce Riccardo fe' decollare quasi a veggente del Sultano tremila Musulmani. Certamente la conquista di Acri mise in poter de' Latini una ragguardevole Fortezza e un ottimo porto; ma a caro prezzo un tal vantaggio scontarono. Lo Storico, ministro di Saladino, fondandosi sulle asserzioni stesse degli avversarj, calcola a cinque, o seicentomila uomini il numero de' Cristiani successivamente approdati, e a centomila quello de' morti coll'armi alla mano. Molto maggior numero ne tolser di vita i naufragi e le infermità; e d'un esercito sì sterminato, una piccolissima parte potè, immune da disastri, rivedere la patria[610].

A. D. 1191-1192

Filippo Augusto e Riccardo I, sono i due soli Re di Francia e d'Inghilterra, che abbiano sotto le stesse bandiere militato; ma scambievole gelosia di nazione pregiudicava alla santa guerra che avevano intrapresa; e le due fazioni, ciascuna delle quali riconosceva per suo proteggitore nella Palestina uno di questi Principi, più accanite al reciproco danno, che a quello del comune inimico, mostravansi. Gli Orientali riguardavano il Re di Francia come superiore in dignità e possanza all'Inglese, e in mancanza dell'Imperatore, i Latini, siccome lor Capo lo [433] riverivano[611]. Molto minori della sua fama le imprese ne furono; perchè comunque di valor non mancasse, le qualità d'uom di Stato nell'indole del medesimo prevalevano. Stancatosi tostamente di sagrificare la salute e i proprj interessi sopra una sterile spiaggia, la presa d'Acri fu per lui segnale di ritirata. Ben lasciò per la difesa di Terra Santa, diecimila fanti e cinquecento uomini a cavallo, sotto il comando del Duca di Borgogna: ma non quindi il disonore di tal partenza perdonato gli venne. Il Re d'Inghilterra, benchè inferiore per dignità, superava in ricchezze e militar rinomanza il rivale[612]; e se un brutale e feroce valore bastasse all'essenza dell'eroismo, Riccardo Plantageneto avrebbe diritto a comparire fra i primarj eroi del suo secolo. Per lungo tempo, cara e gloriosa agl'Inglesi fu la ricordanza di Cuor-di-Leone; e sessant'anni dopo la sua morte, i pronipoti de' Turchi e de' Saracini da lui soggiogati, fin ne' proverbj loro lo rammentarono con onore. Le madri della Sorìa si giovavano di un tal nome per fare star zitti i loro fanciulli; se un cavallo aombravasi, il cavaliere soleva, rampognando [434] l'animale esclamare: «Credi forse che il re Riccardo[613] si aggiri per queste boscaglie?» La crudeltà ch'ei verso i Musulmani adoprò, era effetto di zelo e di violenza della sua indole; ma penoso mi è il persuadermi che un guerriero sì abile e prode nel giovarsi della sua lancia, siasi avvilito a ricorrere al ministero del pugnale contra il proprio collega, il valoroso Corrado di Monferrato, morto ad Acri per tradimento d'ignota mano[614]. Dopo la presa d'Acri e la partenza di Filippo, Riccardo, fattosi condottiero de' Crociati alla conquista della costa marittima, le città di Giaffa e di Cesarea aggiunse agli avanzi del regno di Lusignano; e un cammino di cento miglia che Ascalon da Acri divide, fu per undici giorni l'aringo di un grande e continuo combattimento; e fuvvi un punto che scoraggiate le truppe turche, Saladino si trovò sul campo di battaglia da sole diciassette delle sue guardie accompagnato; pur vi rimase senza calar le bandiere, nè permettere che sol per poco cessasse lo squillo delle sue trombe. Ben pervenne a riordinare i soldati, e a ricondurli contro il nemico: ben i suoi predicanti e i suoi [435] araldi esortarono con incalzante tuono gli unitarj a oppor fermo petto agl'idolatri cristiani; ma all'impeto di questi idolatri non poteva allora resistere, e sol collo spianare le mura e le fortificazioni di Ascalon, giunse ad impedire ai Cristiani l'occupazione di così munita Fortezza, situata ai confini dell'Egitto. Durante un rigido verno, inoperose stettero l'armi; ma al ricomparire della primavera, i Franchi, sempre guidati dal medesimo condottiero, s'innoltrarono tanto che d'una sola giornata da Gerusalemme distavano. Ivi il solerte re Riccardo impadronitosi d'una carovana di settemila cammelli, costrinse Saladino[615] a rinchiudersi nella Città Santa, divenuta per maggior disastro del Principe musulmano, soggiorno di costernazione e discordie. Questi orò, fece digiuni e prediche, offerse di partecipare egli medesimo ai pericoli dell'assedio; ma fosse principio d'affetto, e di animo alle sedizioni propenso, i suoi Mammalucchi, ingombra ancora la fantasia del disastro sofferto in Acri dai lor compagni, con preghiere che di clamori sentivano, supplicarono il Sultano volesse conservare la propria persona e il valore de' suoi soldati a miglior uopo, per la difesa del culto del Profeta e dell'Impero[616]. [436] La ritirata de' Cristiani tanto improvvisa, che miracolo la credettero gli assediati, a tali angustie sottrasseli[617]. Riccardo vide i proprj allori appassire o per la prudenza, o per l'invidia de' suoi compagni. Sopra un monte, d'onde Gerusalemme scoprivasi, l'eroe il volto velossi con voce d'indignazione esclamando. «Coloro che rifiutano liberare il Santo Sepolcro di Gesù Cristo, sono immeritevoli di contemplarlo». Appena giunto ad Acri gli fu nunziato che il Sultano avea stretta d'assedio la città di Giaffa. Pronto Riccardo nell'imbarcare sè e le sue truppe sopra alcuni legni mercantili in quel porto ancorati, e primo a lanciarsi sulla riva, rianimò lo spento coraggio de' difensori della rocca; onde sessantamila Turchi, o Saracini, al solo avviso dell'arrivo di Cuor-di-Leone si diedero a fuga. Saputa indi la debolezza del drappello che l'Inglese avea guidato con sè, ricomparvero alla domane, e il trovarono, come se non vi fosse stato alcun pericolo da temere, accampato dinanzi alla porta di Giaffa colla sola scorta di diciassette uomini a cavallo e di trecento arcieri. Non prendendosi pensiero del numero degli assalitori, la presenza loro sostenne con tanta intrepidezza, che, a confessione degli stessi nemici, colla lancia in resta trascorse galoppando da [437] destra a sinistra, dinanzi a tutto il fronte de' Saracini, nè vi fu fra questi un solo che ardisse fermarlo[618]. Si narrano forse in questo luogo le storie di Amadigi o di Orlando?

Nel durare delle ostilità i Franchi e i Musulmani incominciarono, interruppero, riassunsero per più riprese, lente e languide negoziazioni[619]. Alcuni atti di scambievole cortesia fra i due Re, qualche donativo di frutta e di neve, diversi cambj di falchi di Norvegia con cavalli arabi, l'acerbità di una guerra di religione addolcirono. Forse le alternative de' successi indussero i due monarchi a sospettare che il cielo non si prendesse poi tanto pensiero dei loro litigi, e troppo ben si conosceano l'un l'altro gagliardi, perchè niun d'essi una concludente vittoria sperasse[620]. Intanto declinavano la salute di Riccardo [438] e di Saladino: pativano entrambi tutti i mali alle discordie civili e alle lontane guerre congiunti. Plantageneto ardea della brama di punire un perfido rivale che profittando della lontananza di lui aveva invasa la Normandia, intanto che l'instancabile Sultano resisteva a fatica ai clamori de' soldati, strumenti del suo zelo guerriero, e a quelli del popolo che ne era la vittima. Il Re d'Inghilterra chiese primieramente la restituzione di Gerusalemme, della Palestina, e della vera Croce, protestando con fermezza che egli e i pellegrini tutta la loro vita alla santa impresa sagrificherebbero, anzichè rivedere, carichi di rimorsi e di ignominia, l'Europa; ma rifuggiva la coscienza di Saladino ad acconsentire, senza un condegno compenso, che i Cristiani riavessero i loro idoli, o a favoreggiare in alcun modo la loro idolatria[621]. Con uguale fermezza i suoi diritti temporali e religiosi sulle sovranità della Palestina difese, e riguardando egli pure, siccome santa, Gerusalemme, e il possedimento di essa rilevante cosa pei Maomettani, ricusò calare ad alcun patto di parteggiamento colle nazioni latine. Fra i patti proposti [439] da Riccardo fuvvi pur quello di concedere la propria sorella in moglie al fratello di Saladino; ma la disparità di religione non permise che un tal parentado si conchiudesse: nè l'inglese Principessa potea concepir senza orrore la sola idea di vedersi fra le braccia di un Turco, nè sì di leggeri Adel, o Safadino (nomi di questo fratello) avrebbe rinunziato alla pluralità delle mogli. Negò il Sultano di venire a parlamento con Riccardo, adducendone a motivo la disparità del linguaggio che avrebbe loro impedito a vicenda l'intendersi. Artifiziosamente tirata in lungo per via di messi e d'interpreti una tale negoziazione, il Trattato definitivo offese lo zelo di entrambe le parti, e il Pontefice di Roma e il Califfo di Bagdad parimente sen dolsero. Venne stipulato col medesimo che Gerusalemme e il Santo Sepolcro rimarrebbero aperti alla divozione de' Cristiani e de' pellegrini d'Europa, senza che questi fossero costretti a tributo, o soffrissero vessazioni; che rimanendo nello stato suo di assoluta rovina Ascalon, i Cristiani conserverebbero tutta la costa marittima da Giaffa a Tiro, comprendendo queste due città ne' loro possedimenti; che al Conte di Tripoli e al Principe di Antiochia si estenderebbe la tregua; che per tre anni e tre mesi, niuna ostilità, nè da una parte, nè dall'altra, sarebbe lecita. I principali Capi de' due eserciti giurarono di mantenere la convenzione; ma i due Monarchi ebbero per bastanti mallevadori la propria parola e l'atto di porgersi la destra; e la regal maestà venne dispensata dal giuramento, come se questo includesse implicitamente il sospetto della perfidia. Riccardo corse a cercare in Europa lunga cattività, e morte immatura; [440] trascorsi pochi mesi la gloria e la vita di Saladino videro il termine (A. D. 1193). Vien celebrato dagli Orientali il modo edificante cui questo guerriero finì i suoi giorni in Damasco; nè a quanto sembra pervennero ad essi le bizzarre notizie delle elemosine egualmente distribuite ai settarj di tre religioni diverse, nè del panno funebre sostituito allo stendardo di Maometto, per avvertire l'Oriente della instabilità delle umane grandezze[622]. Colla morte di Saladino l'unità dell'Impero fu sciolta; oppressi i figli di lui dal poderoso braccio del loro zio Safadino, le dissensioni fra i Sultani d'Egitto, di Damasco e di Aleppo si rinovarono[623]; circostanze tutte per le quali i Franchi poterono respirare in pace nelle Fortezze lor rimaste sulle coste della Sorìa, e alle speranze tuttavia abbandonarsi.

A. D. 1198-1216

La decima, conosciuta sotto il nome di decima di Saladino, tributo a cui il popolo e il Clero della Chiesa latina si erano assoggettati per le spese necessarie a guerreggiar Saladino, è il più splendido monumento della rinomanza di questo guerriero, e del terrore che aveva inspirato. Una tal costumanza portava troppo vantaggio ad alcune persone, perchè cessar dovesse col cessar de' motivi dai quali ebbe origine. Da questo tributo derivano le ricognizioni [441] e le decime su i beni della Chiesa, ricognizioni e decime che il Pontefice talora concedeva ai Sovrani, talora per gli usi particolari della Santa Sede si riserbava[624]; e certamente questo tributo pecuniario[625] dovette aumentare il fervore che per la liberazione di Terra Santa dimostravano i Papi. Dopo la morte di Saladino, continuarono essi, e per lettere, e col ministerio di missionari e Legati a predicar le Crociate; e lo zelo e l'ingegno d'Innocenzo III al buon esito della pietosa impresa erano favorevoli augurj[626]. Per opera di questo giovine ed ambizioso Pontefice, i successori di S. Pietro al massimo grado di lor grandezza pervennero; e durante il suo regno di diciotto anni, dominò con dispotica autorità sugli Imperatori e sui Re, che egli creava, a talento suo rimovea, e sulle nazioni che per le colpe dei loro governanti puniva, privandole, interi mesi ed anni, d'ogni esercizio del religioso lor culto. Fu soprattutto nel Concilio di Laterano che Innocenzo si comportò qual sovrano spirituale, e quasi padrone temporale dell'Oriente e dell'Occidente. Ai piedi [442] del Legato d'Innocenzo, Giovanni d'Inghilterra rassegnò la propria corona; e questo Pontefice potè vantarsi de' due più segnalati trionfi che sul buon senso e sull'umanità sieno stati riportati giammai, la Transustanziazione posta in dogma[627], e le prime fondamenta della Inquisizione da esso gettate. Alla voce di lui (A. D. 1203), due Crociate vennero intraprese, la quarta e la quinta; ma eccetto il re d'Ungheria, queste non ebbero che Principi di secondo ordine per comandanti, e trovatesi le forze inferiori all'ampiezza della impresa, i successi alle speranze del Papa e de' popoli non corrisposero. I pellegrini della quarta Crociata (A. D. 1218) dimenticarono la Sorìa per Costantinopoli, la conquista della qual capitale operata per l'armi Latine, ne somministrerà l'argomento del seguente Capitolo. Nella quinta Crociata[628], dugentomila Franchi sbarcarono alla foce orientale del Nilo: persuasi con assai di ragione che il miglior modo per liberare la Palestina, fosse vincere il Sultano in Egitto, luogo di sua residenza ed emporio di quella dominazione. E veramente, dopo un assedio di sedici mesi, i Musulmani dovettero deplorare [443] la perdita di Damieta. Ma l'esercito cristiano andò perduto per l'orgoglio e la tracotanza del Legato Pelagio, che a nome del Pontefice, impadronito erasi del comando. I Franchi, estenuati dai morbi epidemici, rinserrati fra l'acque del Nilo e tutte le forze d'Oriente armatesi contro di loro, abbandonarono Damieta, per ottenere la franchigia della ritirata, alcuni concedimenti a favore de' pellegrini, e la tarda restituzione del legno della vera Croce, monumento, che molta parte di sua autenticità avea perduta. L'infausto esito delle Crociate vuole in parte essere attribuito alla moltiplicità e all'abuso di queste pie spedizioni, che nel tempo medesimo e contra i Pagani della Livonia, e contra i Mori di Spagna e gli Albigesi di Francia, e contra i Re siciliani della famiglia imperiale venivan bandite[629]. Nelle imprese meritorie del secondo genere poteano gli avventurieri senza uscir dell'Europa ottenere le stesse indulgenze, oltre a ricompense temporali più certe e più ragguardevoli. Laonde i Papi, dal santo loro zelo contro i nemici domestici si lasciarono trasportar sì, che le sciagure de' Cristiani della Sorìa ponevano in dimenticanza. L'ultimo secolo delle Crociate, mise per un certo tempo all'arbitrio de' Papi un esercito e una rendita considerabile, onde diversi profondi ragionatori si portarono a sospettare che sin dal tempo [444] del primo Sinodo di Piacenza, tutte le ridette spedizioni la politica di Roma avesse condotte. Ma nè sulla realtà, nè sulla verisimiglianza, un tal sospetto è fondato. Le apparenze dimostrarono che i successori di S. Pietro secondarono, anzichè regolare l'impulso de' costumi e delle pregiudicate opinioni di quelle età. Senza aver preveduta la stagione delle messi, senza essersi prese le cure del coltivare, colsero a lor tempo i frutti naturali della superstizione, ricolta che di pericoli e di fatiche per loro fu scevra. Nel Concilio di Laterano, Innocenzo annunziò in termini ambigui il disegno di animare col proprio esempio i Crociati; ma il nocchiero della Santa nave non potea abbandonarne il governale, nè alcun Pontefice romano consacrò colla sua santa presenza le spedizioni della Palestina[630].

A. D. 1228

Assuntisi i Papi la protezione immediata delle persone, delle famiglie, delle sostanze de' pellegrini, quegli spirituali tutori si arrogarono ben tosto il diritto di regolarne le azioni, e di costringerli a mantenere i carichi che si erano addossati. Federico II[631], pronipote di Barbarossa, fu successivamente [445] il pupillo[632], il nemico e la vittima della Chiesa. In età di ventun anni, prese la Croce per non contravvenire ai voleri del suo tutore, Innocenzo III, che alle singole coronazioni, come Re e come Imperatore, lo costrinse a rinovare questa obbligazione; oltrechè il maritaggio da lui contratto colla erede del Re di Gerusalemme, gli imponea per sempre il dovere di assicurar questo regno al proprio figlio Corrado; ma avanzando Federico negli anni, e più ferma vedendo la sua autorità, degli obblighi contratti imprudentemente in giovinezza gli increbbe; e le acquistate cognizioni e l'esperienza instruito aveanlo a disprezzare le illusioni del fanatismo, e le corone dell'Asia. Fattosi minore il rispetto di lui verso i successori d'Innocenzo, il solo disegno di restaurare la Monarchia italiana, dalla Sicilia all'Alpi, l'animo suo ambizioso occupava. Ma il buon successo di tale impresa, ricondotti avrebbe alla semplicità primitiva i Pontefici; i quali tenuti a bada con indugi e scuse per dodici anni, non risparmiarono sollecitazioni e minacce; tanto che indussero il Monarca dell'Alemagna a prefiggere il giorno della sua partenza ai lidi della Palestina. Egli fece allestire ne' porti della Sicilia e della Puglia una flotta di cento galee e di cento vascelli, costrutti in modo che potessero trasportare e sbarcare facilmente duemila cinquecento cavalieri coi loro cavalli e il loro seguito. Dai vassalli imperiali di Napoli e di Alemagna, levò un poderoso esercito, e la fama portò sino a sessantamila il numero de' pellegrini [446] dell'Inghilterra: ma gl'indugi volontarj, o inevitabilmente congiunti a sì immensi apparecchi, estenuarono le vettovaglie e le forze dei più poveri fra i pellegrini; le infermità e le diserzioni l'esercito diradarono, e la state ardente della Calabria anticipò i disastri che a quelle truppe si preparavano nei campi della Sorìa. Finalmente l'Imperatore salpò da Brindisi con una flotta e un esercito di quarantamila uomini. Ma non tenne il mare più di tre giorni, e una precipitosa ritirata, che gli amici di lui a grave infermità attribuirono, venne dai suoi avversarj riguardata, come una volontaria e ostinata inobbedienza ai voleri del Sommo Pontefice. Per avere infranto il suo voto, Federico videsi scomunicato da Gregorio IX, che lo scomunicò una seconda volta nel successivo anno per avere ardito adempire lo stesso voto[633]; e intanto ch'egli conduceva la Crociata in Palestina, una Crociata bandivasi in Italia contro di lui, e ritornando venne costretto a chieder perdono di ingiurie che unicamente avea ricevute. Gli Ordini militari e il Clero di Palestina, erano stati anticipatamente avvertiti di disobbedirgli, e non farsi lecito il menomo consorzio con un uomo scomunicato. Per ultimo aggravio, l'Imperatore si trovò in mezzo al suo campo, e, ne' proprj Stati di Palestina, costretto a tollerare che i comandi venissero dati in nome di Dio e della Repubblica cristiana, che del suo nome non fosse fatta menzione. Trionfale fu l'ingresso di Federico in Gerusalemme; e colle proprie mani, perchè niun ecclesiastico a [447] tale ufizio volle prestarsi, prese la corona posta sull'altare del Santo Sepolcro. Ma il Patriarca lanciò anatema sulla Chiesa, che la presenza di questo Principe avea profanata; e i Templarj e gli Ospitalieri, eglino stessi fecero avvertire il Sultano del momento opportuno a sorprendere ed uccidere Federico in riva al Giordano, ove questi con debole scorta si trasferiva. Circondato in tal guisa da fanatici e da faziosi, non che impossibile cosa l'aspirare a vittorie, gli era persin difficile il provvedere alla propria sicurezza. Ma le discordie de' Maomettani, e la stima che Federico aveva a questi inspirata, gli fruttarono un Trattato vantaggioso di pace con essi. L'uom percosso dagli anatemi della Chiesa, venne tosto accusato di avere mantenuto coi miscredenti pratiche disdicevoli ad un Cristiano, sprezzata la sterilità del suolo di Palestina, d'essersi lasciati sfuggir dal labbro questi empj detti: «che se Jeova avesse conosciuto il regno di Napoli, non avrebbe scelta la Palestina a retaggio del suo popolo eletto». Pur questo Federico aveva ottenuta dal Sultano la restituzione di Gerusalemme, di Betlemme, di Nazaret, di Tiro e di Sidone; per esso i Latini divenuti liberi di abitare e fortificare la Città Santa. Fra gli accordi patuiti dal Principe alemanno, eravi una mutua libertà civile e religiosa così pei discepoli di Gesù, come per quelli di Maometto, in conseguenza di che i primi avrebbero ufiziato nella chiesa del Santo Sepolcro; poteano i secondi orare e predicare nella moschea del tempio[634], d'onde credevano che [448] il loro Profeta fosse partito di notte tempo pel viaggio suo verso il Cielo. Contro d'una sì scandalosa tolleranza il Clero si scatenò; i Musulmani, trovandosi ivi i più deboli, vennero in modo quasi insensibile discacciati; e quanto uom ragionevole potea prefiggersi a scopo nelle spedizioni delle Crociate, tutto erasi, senza l'uopo di sparger sangue, ottenuto. Le chiese restaurate, riempiuti di Monaci i conventi; in meno di quindici anni Gerusalemme noverava seimila Latini fra i suoi abitanti. L'invasione de' selvaggi Carizmj pose fine a questo pacifico e prospero stato[635], di cui i Latini non avean saputo nè grado, nè grazia a chi lo avea lor procurato. Abbandonate le rive del mar Caspio, d'onde i Mongui li scacciarono, i pastori Carizmj innondarono la Sorìa, nè la lega de' Franchi coi Sultani di Aleppo, di Hems e Damasco a rintuzzare l'impeto di costoro bastò. Divenne inutile ogni resistenza, e la morte, o la cattività unicamente ne erano prezzo. Una sola battaglia, pressochè affatto, i militari ordini esterminò. Saccheggiata la città, profanato il Santo Sepolcro, i Franchi dovettero, e confessarlo di propria bocca, augurarsi la disciplina e l'umanità de' Turchi e dei Saracini.

La sesta o settima Crociata imprese vennero da Luigi IX, Re di Francia, che la libertà in Egitto, in Affrica perdè la vita. Ventott'anni dopo la sua morte, Roma lo collocò fra i proprj Santi, e nel medesimo tempo comparvero sessantacinque miracoli, [449] che solennemente attestati, sembrarono valevole giustificazione agli onori tributati alla memoria di questo Monarca[636]. Più onorevole testimonianza alle virtù di lui rende lo Storico, presentandoci, in Luigi IX, congiunti i pregi dell'uomo, del Re e dell'eroe; amor di giustizia in esso l'impeto del valor temperò, e mostrossi padre de' sudditi, amico de' vicini, terrore degl'Infedeli[637]. Solo il funesto influsso della superstizione[638], talvolta le belle prerogative del suo ingegno e del suo cuore oscurò. Divoto ammiratore de' frati mendicanti di S. Francesco e di S. Domenico, imitarli non disdegnava; e fattosi con cieco zelo e crudele, persecutore de' nemici della Fede, il migliore fra i Re, per sostenere la parte di Cavaliere errante, due volte dal proprio trono discese. Se un frate ne avesse scritta la storia, certamente gli avrebbe largheggiato d'encomj per quella parte della sua vita che piuttosto rimproveri meritò; ma il prode e leale Joinville[639], che possedè [450] l'amicizia del suo Monarca, e gli fu nella cattività confratello, ne ha offerta con ingenua imparzialità la pittura così delle virtù, come de' difetti di questo Principe. Tale storia scritta da un cortigiano, che le segrete mire del proprio Re ben conoscea, ne trae a sospettare che i disegni politici di Luigi IX intendessero ad indebolire la potestà de' grandi vassalli, disegni politici di cui frequentemente è stata apposta la taccia a tutti i Sovrani, che le Crociate hanno promosse. Luigi IX fu uno tra i Principi del medio evo che con miglior successo si adoperarono a richiamare tutte le sue prerogative alla Corona: ma nel proprio regno, e non nell'Oriente, a sè medesimo e alla sua discendenza siffatti vantaggi cercò. Il voto che lo trasse in pellegrinaggio ebbe origine da una infermità e dal suo entusiasmo. Autore di questa pietosa follìa[640] ne fu pur anche la vittima; per correre ad invader l'Egitto, delle sue truppe e dei suoi tesori la Francia stremò; coperse di mille e ottocento vele il mar di Cipro; e i calcoli più [451] moderati fanno ascendere a cinquantamila uomini il suo esercito. Se noi vogliamo aver fede alla testimonianza medesima di questo Re, testimonianza che la vanità orientale si fece sollecita di divulgare, egli sbarcò novemila cinquecento uomini a cavallo, e centotrentamila fantaccini, che sotto la protezione di esso peregrinarono[641].

A. D. 1249

Luigi, armato di tutto punto e preceduto dall'oriflamma, fu primo a lanciarsi sulla riva, e corso a Damieta, gli atterriti Musulmani, al primo assalto dei Franchi abbandonarono quella città che avea sostenuto un assedio di dodici mesi contra i predecessori di Luigi. Ma fu Damieta la prima, e l'ultima conquista del regal pellegrino; e nella sesta Crociata, cagioni eguali, e pressochè sul campo medesimo, rinnovellarono le calamità che aveano mandato a vuoto la prima[642]. Dopo un indugio funesto che introdusse nel campo i germi di un morbo epidemico, i Franchi dalla costa marittima ver la Capitale dell'Egitto innoltratisi, s'accinsero a superare lo straripamento del Nilo che opponevasi ai loro progressi. Innanzi agli occhi dell'intrepido Monarca, que' baroni e cavalieri diedero alte prove dell'invitto valore che li contraddistingueva, e ad un tempo di quell'indomabile avversione, ad ogni sorta di disciplina, per cui [452] parimente erano noti. Il conte d'Artois, per un tratto di mal avvisata prodezza, prese d'assalto la città di Massura, e nell'istante medesimo i colombi addestrati all'ufizio di messaggieri, portarono agli abitanti del Cairo l'annunzio che tutto era perduto. Un soldato, fattosi indi usurpatore del trono d'Egitto, i fuggiaschi affrettatamente raccolse e riordinò. Intanto il conte d'Artois, essendosi troppo scostato dal corpo dell'esercito, le sue truppe rimasero sconfitte, privo egli di vita. Mentre i Musulmani non cessavano di rinversare pioggia di fuoco greco sui Franchi, le galee egiziane difendevano il Nilo, gli Arabi tenean la pianura e impedivano ogni arrivo di vettovaglie al nemico: ogni giorno i mali della fame e delle contagioni si rendeano più gravi: finalmente quando inevitabile parve la ritirata, non era più possibile l'eseguirla. Gli Scrittori orientali affermano che S. Luigi avrebbe potuto fuggire, purchè non gli fosse incresciuto di abbandonare i proprj sudditi. Fatto prigioniero, egli e la maggior parte de' suoi Nobili, tutte le persone inabili a servire, o a procurarsi riscatto, vennero senza pietà trucidate, nel qual momento una fila di teste cristiane (A. D. 1250) il ricinto delle mura del Gran Cairo adornò[643]. Lo stesso Re Luigi venne caricato di catene: ma il generoso vincitore, pronipote del fratello di Saladino, inviò all'augusto prigioniero una veste d'onore. Quattrocentomila piastre d'oro e la restituzione di Damieta ottennero la libertà del [453] Re di Francia e de' soldati che gli rimanevano[644]. Gli effeminati discendenti de' compagni d'armi di Saladino; ammolliti dal lusso e dal clima, non sarebbero già stati di per sè stessi abili a resistere al fiore della cavalleria dell'Europa; e dovettero la vittoria al valore dei loro schiavi o Mammalucchi, robusti figli del Deserto, compri al mercato della Sorìa, e sin dai primi anni allevati in mezzo ai campi e nel palagio del Sultano. Ma non andò guari che l'Egitto offerse un nuovo esempio dei pericoli da temersi da pretoriane coorti, e che la rabbia di queste feroci belve, lanciate dianzi contra i Franchi, si volse allo strazio del proprio loro benefattore. Inorgogliti della vittoria, i Mammalucchi trucidarono Turan-Saw, ultimo rampollo della sua dinastia; indi i più audaci di questi assassini, brandendo la scimitarra, tuttavia grondante del sangue del lor Sultano, nella stanza penetrarono del franco re prigioniero. La fermezza opposta da Luigi costrinse al rispetto costoro[645], [454] e l'avarizia al fanatismo e alla crudeltà impose silenzio. I patti del Trattato vennero adempiuti, e il re di Francia cogli avanzi del proprio esercito, ottenne la libertà di veleggiare ai lidi di Palestina. Quattro anni nella città di Acri ei trascorse, ma senza mai potersi aprire strada per arrivare a Gerusalemme, e sempre ricusando di ritornare privo di gloria alla patria.

A. D. 1270

Dopo sedici anni di un regno saggio e pacifico, la ricordanza dell'antica sconfitta, eccitò S. Luigi ad imprendere la settima ed ultima Crociata. Tornate in istato fiorente erano le sue rendite; gli Stati suoi aumentati, e risorta in questo intervallo una nuova generazione di guerrieri. Rinnovellatasi parimente in lui la fiducia di migliori successi, posesi in mare, condottiero di seimila uomini a cavallo, e di trentamila fanti. La perdita di Antiochia che fatta aveano i Cristiani, davasi per motivo di una tale spedizione; la bizzarra speranza di amministrare il sacramento del Battesimo al re di Tunisi, indusse il Monarca francese a veleggiare primieramente verso le coste dell'Affrica. La fama sparsa degli immensi tesori che colà racchiudevansi, confortò i Crociati sul ritardo che alla lor peregrinazione opponeasi. Ma in vece di un proselito, il santo esercito trovò in quelle rive un assedio da imprendere. I Francesi nella loro espettazione delusi, in mezzo a quelle arse arene perivano; la morte colpì S. Luigi entro la sua tenda e immediatamente l'erede del trono diede il segno della ritirata[646]. In cotal guisa, così un ingegnoso scrittore [455] si esprime, un Re cristiano presso le rovine di Cartagine incontrò la morte facendo guerra ai Musulmani in un paese, ove Didone avea introdotte le divinità della Sorìa[647].

A. D. 1250-1517

Non è lecito l'immaginarsi una costituzione più assurda e tirannica di quella che condanna in perpetuo una nazione a vivere schiava sotto il governo arbitrario di schiavi stranieri. Tale, nondimeno, è stata da oltre cinque secoli la condizione dell'Egitto; in guisa che i più illustri Sultani della dinastia Baarite e Borgite[648], derivavano eglino stessi da tartare o circasse tribù, e i ventiquattro Beì, o Capi militari dell'Egitto, hanno sempre avuti per successori, non già i proprj figli, ma i loro servi. Fondano costoro i proprj diritti sul Trattato che Selim I conchiuse con questa repubblica militare, Trattato che riguardano come la Grande Carta di lor libertà[649]: laonde gl'Imperatori ottomani continuarono d'allora in poi a riscotere unicamente dall'Egitto un lieve tributo, siccome pegno del vassallaggio di questa contrada. La storia delle accennate due dinastie, eccetto brevi intervalli d'ordine e di tranquillità, non presenta che una continua serie di assassinj e [456] misfatti[650]; ma il trono delle medesime, comunque crollante per sì forti scotimenti, sulla salda base della disciplina e del valor si reggea; laonde governavano e l'Egitto, e l'Arabia, e la Nubia, e la Sorìa; e i Mammalucchi, composti in origine di ottocento uomini di cavalleria moltiplicaronsi fino al numero di venticinquemila: obbedivano in oltre a questi Capi dell'Egitto centosettemila uomini di milizia provinciale, e all'uopo poteano sul soccorso di sessantaseimila Arabi calcolare[651]. Cosa naturale ella era, che Principi così coraggiosi e di sì considerabili forze invigoriti non avrebbero lungo tempo tollerata tanta prossimità di una nazione independente e nemica, e se l'espulsione assoluta de' Franchi, di quaranta anni in circa, venne tardata, di questo mezzo secolo d'esistenza ebbero l'obbligazione agl'impacci in cui trovossi la nuova dominazione egiziana ancora mal salda, all'invasione de' Mongu, ai soccorsi [457] che da alcuni pellegrini guerrieri agli stessi Crociati venner condotti. Nel novero di tali soccorritori, il leggitore inglese fermerà il guardo sul nome di Eduardo I, che durante la vita del padre suo Enrico, prese la Croce. Capitano di mille soldati, il futuro conquistatore del paese di Galles e della Scozia, costrinse gl'Infedeli a levare l'assedio di Acri, e innoltratosi fino a Nazaret con novemila uomini, emulò la gloria del suo zio Cuor-Di-Leone; con ardite imprese ad una tregua di dieci anni il nemico forzò; e ricco di questi allori, rivide l'Europa a malgrado di un fanatico traditore che pericolosamente il ferì[652]. Bondocdar, o Bibars, Sultano dell'Egitto e della Sorìa, sorprese e quasi per intero distrusse la città di Antiochia[653], trovatasi fino allora, per sua giacitura, meno esposta alle calamità della Santa Guerra. Tal si fu il termine di questo principato; e la prima città conquistata dai Cristiani, videsi spopolata dalla strage di settemila, e dalla cattività di centomila de' suoi abitanti. Le città marittime di Laodicea, Gabala, Tripoli, Berite, Sidone, Tiro, Giaffa, e le Fortezze degli Ospitalieri e de' Templarj, si arrendettero successivamente. Il solo possedimento che i Franchi [458] serbassero, si stette nella città e colonia di S. Giovanni d'Acri, da alcuni scrittori indicata sotto il nome più classico di Tolomaide.

Dopo la perdita di Gerusalemme, Acri[654], lontana circa settanta miglia dalla prima città, divenne la metropoli de' Latini orientali: di vasti e saldi edifizj la ornarono, di doppio muro la cinsero, un porto artifiziale ivi costrussero. E fuggiaschi, e nuovi pellegrini ne aumentarono la popolazione, mentre il favor della tregua e il sito suo vantaggioso, tutto il commercio dell'Oriente e dell'Occidente vi conduceano. Trovavansi ne' mercati di Acri le produzioni di ogni clima; gl'interpreti d'ogni lingua vi convenivano; ma un tal miscuglio di tutte le nazioni, tutti i vizj ancora addusse colà, e propagò. Fra quanti eranvi discepoli di Cristo e di Maometto, gli abitatori di Acri d'entrambi i sessi, tutti gli altri in fama di corruttela e dissolutezza passavano, nè le leggi erano a bastanza forti per frenar quivi gli abusi della religione. Parecchi sovrani contava questa città, governo nessuno. I Re di Gerusalemme e di Cipro appartenenti alla Casa di Lusignano, i principi di Antiochia, i conti di Tripoli e di Sidone, i Gran Mastri degli Ordini, ospitaliero, templario e teutonico, le repubbliche di Venezia, di Genova, di Pisa, il Legato del Papa, i Re di Francia e d'Inghilterra, tutti con autorità independente volean dominarvi. Diciassette tribunali giudicavano con diritto di [459] assolvere e sentenziare a morte; laonde i colpevoli d'un rione si rifuggivano ad un altro, ove non accadea mai che protezione non ottenessero. La gelosia delle diverse nazioni, e violenze, e sanguinosi casi partoria di frequente. Alcuni venturieri disonorando la Croce che difendeano, si trassero per correggere il ritardo de' loro stipendj a saccheggiare diversi villaggi maomettani. Diciannove mercatanti della Sorìa, che riposandosi nella fede pubblica, faceano tranquillamente il loro traffico, vennero spogliati ed appiccati per opera de' Cristiani; il Governo de' quali, negando la giusta soddisfazione chiesta per tale misfatto dal Sultano Kalil, le ostilità di questo principe giustificò. Ei mosse ver la città con sessantamila uomini di cavalleria, e cenquarantamila d'infanteria. Il suo traino di artiglieria, se mi è lecito valermi di questa espressione, era formidabile e numeroso. Vi vollero cento carri per trasportare i pezzi di legno, de' quali una sola macchina andava composta. Lo storico Abulfeda, che militava nelle truppe di Hamà, fu egli medesimo spettatore di questa santa guerra. Comunque grandi fossero le sregolatezze de' Franchi, l'entusiasmo e la disperazione animaronli di novello coraggio; ma dilacerati per le discordie de' diciassette lor Capi, si trovarono da tre bande oppressi dal peso delle forze che conduceva il Sultano. Dopo un assedio di trentatre giorni (A. D. 1291), i Musulmani forzarono il doppio muro. Le macchine distrussero la primaria fra le torri d'Acri; e datosi assalto generale dai Mammalucchi, la città venne presa, e sessantamila Cristiani perirono, o divennero schiavi. Il Convento, o a meglio dire la Fortezza dei Templarj, per tre giorni ancor resistè; ma trapassato [460] da una freccia il Gran Mastro perì, e di cinquecento cavalieri che difendevano quelle mura, soli dieci rimasero in vita; più sfortunati però di coloro che caddero vittime della pugna, poichè il destino più tardi serbavali a patire su feral talamo le conseguenze dell'ingiusto e crudel bando che tutto il loro Ordine fulminava. Il re di Gerusalemme, il Patriarca, e il Gran Mastro dell'Ordine degli Ospitalieri, operarono la loro ritirata verso la riva; ma tempestosa era l'onda, nè il numero delle navi bastante ad accoglierli. Molta mano di fuggitivi annegò prima di aggiugnere l'isola di Cipro, ove Lusignano della perduta Palestina potea consolarsi. Vennero per ordine del Sultano spianate le chiese e le fortificazioni delle latine città; un motivo di timore o di avarizia persuase lasciar libero alla pietà cristiana l'accesso del Santo Sepolcro, libertà di cui alcuni devoti pellegrini d'indi in poi profittarono. Su quel lido, che sì lungo tempo avea rintronato delle querele del Mondo, un lugubre e solitario silenzio regnò[655].

FINE DELL'UNDECIMO VOLUME.

[461]

INDICE

DEI CAPITOLI E DELLE MATERIE
CHE SI CONTENGONO
NELL'UNDECIMO VOLUME

CAPITOLO LIV. Origine, e dottrina dei Paoliziani. Persecuzioni che soffersero dagl'Imperatori greci. Loro ribellione in Armenia ec. Migrazione nella Tracia. Dottrina de' medesimi propagata in Occidente. Germi, caratteri e conseguenza della Riforma.
 
A. D.
  Indolente superstizione della Chiesa greca pag. 5
660 Origine de' Paoliziani, o discepoli di San Paolo 8
  Bibbia de' Paoliziani 10
  Semplicità della dottrina e del culto de' medesimi 12
  Ammetteano i due principj de' Magi e dei Manichei 15
  Pongono dimora nell'Armenia, nel Ponto ec. 17
  Perseguitati dagl'Imperatori greci 19
845-880 Ribellione de' Paoliziani 22
[462]
  Affortificano Tefrica 23
  Saccheggiano l'Asia Minore 24
  Venuti a scadimento 26
  Trapiantati dall'Armenia nella Tracia 26
  Mettono soggiorno in Italia e in Francia 30
1200 ec. Persecuzione degli Albigesi 38
  Indole e conseguenze della Riforma 40
 
CAPITOLO LV. I Bulgari. Origine, migrazioni, e fermate degli Ungaresi. Lor correrie nell'Oriente e nell'Occidente. Monarchia de' Russi. Particolarità sulla Geografia e il commercio di questa nazione. Guerra de' Russi contro l'Impero greco. Conversione de' Barbari.
 
680-1017 ec. Migrazione de' Bulgari 53
900 Croatti, o Schiavoni della Dalmazia 55
640-1017 Primo regno de' Bulgari 57
884 Migrazione de' Turchi e degli Ungaresi 61
  Origine finnica di questi popoli 65
900 Cognizioni militari e costumanza degli Ungaresi e de' Bulgari 67
889 Correria degli Ungaresi; paesi ove si fermano 70
934 Vittorie di Enrico l'Uccellatore 75
955 Di Ottone il Grande 76
839 Origine della monarchia Russa 80
  I Varangi di Costantinopoli 83
950 Geografia e commercio della Russia 85
[463]
  Spedizioni navali de' Russi contra Costantinopoli 89
865 I. 91
904 II. 92
941 III. 93
1043 IV. 94
  Negoziazioni e profezie 94
955-973 Regno di Svatoslao 96
970-973 Sconfitta di Svatoslao per l'armi di Giovanni Zimiscè 98
864 Conversione della Russia 101
955 Battesimo di Olga 102
988 Di Volodimiro 104
800-1100 Cristianesimo del Nort 105
 
CAPITOLO LVI. I Saracini, i Franchi e i Greci in Italia. Prime avventure de' Normanni, e colonie poste da essi in questa parte dell'Europa. Indole e conquiste di Roberto Guiscardo duca della Puglia. Liberazione della Sicilia operata da Ruggero, fratello di Guiscardo. Vittoria sugl'imperatori dell'Oriente e dell'Occidente da Roberto riportata. Ruggero, re di Sicilia, invade l'Affrica e la Grecia. L'imperatore Manuele Comneno. Guerra tra i Greci e i Normanni. Estinzione de' Normanni.
 
840-1017 Guerre de' Saracini, de' Latini e dei Greci in Italia 109
871 Conquista di Bari 111
[464]
890 Nuova provincia de' Greci in Italia 113
  Fatti particolari 116
1016 Comparsa de' Normanni in Italia 120
1029 Fondazione di Aversa 124
1038 Milizie de' Normanni nella Sicilia 125
1040-1043 Conquistano la Puglia 127
  Indole de' Normanni 130
1046 Oppressione della Puglia 131
1049-1054 Lega fra il Papa e i due Imperi 133
1053 Spedizione di Papa Leone IV contra i Normanni 135
  Disfatta e prigionia di questo Pontefice 136
  Origine dell'investitura del regno di Napoli conferita dai Pontefici 138
1020-1085 Nascita e indole di Roberto Guiscardo 139
1054-1080 Ambizione del medesimo e buoni successi ottenuti 143
1060 Duca della Puglia 145
  Conquiste di esso in Italia 146
  Scuola di Salerno 148
  Commercio di Amalfi 149
1060-1090 La Sicilia conquistata dal Conte Ruggero 150
1081 Impero d'Oriente invaso da Roberto 155
1081 Assedio di Durazzo 158
  Esercito e azioni campali dell'Imperatore Alessio 161
1081 Battaglia di Durazzo 165
1082 Presa di Durazzo 168
  Ritorno di Roberto e condotta di Boemondo 170
[465]
1081 Enrico III imperatore, chiamato in soccorso dai Greci 172
1081-1084 Assedia Roma 174
  Fugge all'avvicinar di Roberto 175
1084 Roberto riporta l'armi sue nella Grecia 177
1085 Morte di Roberto 180
1101-1154 Regno di Ruggero, gran Conte della Sicilia, ambizione del medesimo 181
1127 Duca della Puglia 182
1130-1139 Primo Re di Sicilia 183
1122-1152 Fa conquiste nell'Affrica 185
1146 Invade la Grecia 188
  Luigi VII Re di Francia, liberato per opera dell'ammiraglio di Ruggero 189
  Insulti portati sotto le mura di Costantinopoli 190
1148-1149 Normanni scacciati dall'Imperatore Manuele 191
1155 Riduzione della Puglia e della Calabria 191
1155-1174 ec. Disegni di conquista sull'Italia e sull'Impero d'Occidente 193
  Andati a vuoto 195
1156 Pace coi Normanni 197
1154 Ultima guerra fra i Greci e Normanni 197
1154 Guglielmo I, soprannomato il Cattivo, Re di Sicilia 198
1166-1189 Guglielmo II, soprannomato il Buono 200
  Lamentazioni dello Storico Falcando 201
1194 Regno di Sicilia conquistato dall'Imperatore Enrico VI 203
1204 Fine del regno de' Normanni 206
[466]
 
CAPITOLO LVII. I Turchi Selgiucidi. Loro ribellione contra Mammud, conquistatore dell'Indostan. Togrul sottomette la Persia, e protegge i Califfi. Romano, Imperatore debellato e fatto prigioniero da Alp-Arslan. Potenza e grandezza di Malek-Sà. Conquiste dell'Asia Minore e della Sorìa. Trista condizione cui Gerusalemme è ridotta. Pellegrinaggio al Santo Sepolcro.
 
  I Turchi 208
997-1028 Mammud il Gaznevida 209
  Le dodici spedizioni di Mammud nell'Indostan 211
  Indole di Mammud 213
980-1028 Costumi e migrazioni de' Turchi o Turcomanni 217
1038 Mettono in rotta i Gaznevidi, e riducono la Persia 220
1038-1063 Regno e indole di Togrul-Beg 222
1055 Libera il Califfo di Bagdad 224
  Ne riceve investitura 226
1063 Morte di Togrul-Beg 227
  I Turchi invadono l'Impero romano 228
1063-1072 Regno di Alp-Arslan 229
1065-1068 Conquista dell'Armenia e della Georgia 229
1068-1071 Romano Diogene Imperatore 231
1071 Sconfitto 233
  Fatto prigioniero e liberato 236
1072 Morte di Alp-Arslan 240
[467]
1072-1092 Regno e prosperità di Malek-Sà 242
1092 Morte 246
  Parteggiamento dell'Impero de' Selgiucidi 248
1074-1084 Asia Minore conquistata dai Turchi 249
  Regno di Rum fondato dai Selgiucidi 252
638-1099 Stato di Gerusalemme, e particolarità sulle peregrinazioni al Santo Sepolcro 255
969-1076 Condizione di Gerusalemme sotto i Califfi Fatimiti 260
1009 Sacrilegio di Akem 261
1024 ec. Numero de' pellegrini aumentato 263
1076-1096 Conquista di Gerusalemme dall'armi turche operata 265
 
CAPITOLO LVIII. Origine della prima Crociata e numero de' Crociati. Indole de' Principi latini. Loro spedizione a Costantinopoli. Politica dell'Imperatore greco Alessio. Nicea, Antiochia e Gerusalemme conquistate dai Franchi. Liberazione del Santo Sepolcro. Goffredo di Buglione, primo Re di Gerusalemme. Istituzione del regno franco o latino.
 
1095-1099 Prima Crociata 268
  Piero l'Eremita 268
1095 Urbano II al Concilio di Piacenza 271
1095 Concilio di Clermont 275
  Le Crociate considerate sotto l'aspetto dell'equità 280
[468]
  Motivi spirituali e indulgenze 284
  Motivi temporali e mondani 290
  Forza dell'esempio 293
  Partenza de' primi pellegrini condotti da Piero l'Eremita 295
1096 Distrutti nell'Ungheria e nell'Asia 297
  Partenza dell'esercito de' Crociati 300
  Goffredo di Buglione 302
  Ugo di Vermandois, Roberto di Fiandra, Stefano di Chartres ec. 303
  Raimondo di Tolosa 305
  Boemondo e Tancredi 307
  Cavalleria 309
1096-1097 Principi latini, convenuti a Costantinopoli 313
1096-1097 Politica dell'Imperatore Alessio Comneno 318
  Ottiene omaggio dai Crociati 321
  Tracotanza de' Franchi 325
1097 Rassegna e novero de' Crociati 327
1097 Assedio di Nicea 332
1097 Battaglia di Dorilea 335
  I Crociati si volgono all'Asia Minore 337
1097-1151 Principato di Edessa, fondato da Baldovino 338
1097-1098 Assedio di Antiochia 340
1098 Vittorie riportate dai Crociati 344
  Fame e stremi cui si trovano ridotti in Antiochia 345
  Leggenda della Santa Lancia 349
  Guerrieri celesti 352
[469]
  Stato politico de' Turchi e de' Califfi d'Egitto 353
1098-1099 Indugio de' Franchi 356
1099 Marciano a Gerusalemme 357
  Assedio e conquista di Gerusalemme nel medesimo anno 358
1099-1100 Elezione e regno di Goffredo di Buglione 364
1099 Giornata di Ascalon 365
1099-1187 Reame di Gerusalemme 367
1099-1369 Assise di Gerusalemme 371
  Corte de' Pari 373
  Legge de' combattimenti giudiziarj 375
  Corte de' borghesi 377
 
CAPITOLO LIX. Impero greco salvato. Numero, passaggio de' Crociati, e avvenimenti della seconda e della terza Crociata. S. Bernardo. Regno di Saladino nell'Egitto e nella Sorìa. Conquista Gerusalemme. Crociata marittima. Riccardo I, re d'Inghilterra. Papa Innocenzo III. Quarta e quinta Crociata. Federico II Imperatore. Luigi IX di Francia, e due ultime Crociate. I Franchi o Latini scacciati dai Mammalucchi.
 
1090-1118 Buoni successi riportati da Alessio 381
1101 Spedizioni per terra incominciando dalla prima Crociata 385
[470]
1147 Seconda Crociata condotta da Corrado III e da Luigi VII 385
1189 Terza da Federico 386
  Passaggio de' Crociati pe' dominj dell'Imperator greco 389
  Guerra de' Turchi 390
  Considerazioni sulla durata dell'entusiasmo delle Crociate 398
1091-1153 Indole e missione di S. Bernardo 399
  Progressi dei Maomettani 404
  Gli Atabek della Sorìa 405
1127-1175 Zenghi 406
1145-1174 Noraddino 407
1163-1169 L'Egitto conquistato dai Turchi 408
1171 Caduta de' Califfi Fatimiti 413
1171-1193 Regno e indole di Saladino 414
1187 Conquista il regno di Gerusalemme 420
  Prende la città nel medesimo anno 423
1188 Terza Crociata per mare 427
1189-1191 Assedio di Acri 429
1191-1192 Riccardo d'Inghilterra nella Palestina 432
1192 Trattato conchiuso dal medesimo, e sua partenza 437
1193 Morte di Saladino 440
1198-1216 Innocenzo III 440
1203 Quarta Crociata 442
1218 Quinta 442
1228 L'Imperatore Federico II nella Palestina 444
1243 Invasione de' Carizmj 448
1248-1254 S. Luigi, e sesta Crociata 448
1249 Presa di Damieta 451
[471]
1250 Cattività di S. Luigi in Egitto 452
1270 Muore sotto le mura di Tunisi nella settima Crociata 454
1250-1517 I Mammalucchi d'Egitto 455
  Acri, e tutta la Terra Santa, perdute pei Latini 459

FINE DELL'INDICE.

NOTE:

1. Abbiamo già detto altrove, e lo ripetiamo, che la Teologia ci dice non essere i misterj del Cristianesimo contrarj alla ragione, ma soltanto superiori alla ragione. Bisogna poi convenire, che la carità, fondamento della parte morale del Cristianesimo, è stata dalle fierissime controversie teologiche non solo violata, ma mutata in odj, in persecuzioni crudeli, in orribili stragi che si rinovarono fra' cristiani per una successione di secoli. (Nota di N. N.)

2. La Casa imperiale d'Isauria proscrisse il culto delle Immagini; noi abbiamo già scritto, spiegandolo, una lunga nota al T. IX. (Nota di N. N.)

3. Un teologo troverebbe più conveniente il dire, che il Cristianesimo aveva prevalso al Politeismo, ed al Giudaismo, e che le decisioni de' sei primi Concilj generali, sostenute dalla forza dei cattolici imperatori greci, avevano punito severamente, e condannate al silenzio le opinioni erronee, che, nate fra' cristiani stessi, avevano formato moltissime Sette cristiane, e ne vennero reciproche, e crudeli persecuzioni. (Nota di N. N.)

4. Potevasi moderare questa forte espressione, e sebbene le persecuzioni che si fecero fra loro i Cristiani ortodossi, ed eterodossi, per le loro contrarie opinioni in Teologia dogmatica sieno state lunghe, feroci, e sanguinose, posto che oggidì i saggi, illuminati Governi, provvidamente più non permettono, per le passate terribili esperienze, che avvengano simili pubblici disastri, potevansi coprire d'un velo i moltissimi fatti storici, che provano a che grado di furiosa crudeltà possa giungere l'entusiasmo, ed il fanatismo de' popoli rozzi, nelle controversie di religione. (Nota di N. N.)

5. Il dotto Mosheim coll'imparzialità e buona fede, solite in lui, esamina gli errori e le virtù de' Paoliziani (Hist. eccles. seculum IX, p. 311, ec.) desumendo i fatti da Fozio (contra Manichaeos, l. I), e da Pietro il Siciliano (Hist. Manichaeorum). La prima delle ridette opere non mi è venuta fra le mani: ho letta la seconda, che d'ordinario il Mosheim ha preferita, valendomi di una versione latina inserita nella Maxima Bibliotheca Patrum (t. XVI, p. 754-764), Edizione del Gesuita Radero (Ingolstadt, 1064, in 4).

6. Nei giorni di Teodoreto, la diocesi di Cirro nella Sorìa contenea ottocento villaggi; due de' quali abitati dagli Ariani, e dagli Eunomj, otto dai Marcioniti, che quell'operoso vescovo unì alla Chiesa cattolica (Dupin, Biblioth. eccles. t. IV, p. 81, 82).

7. Nobis profanis ista (sacra Evangelia) legere non licet, sed sacerdotibus duntaxat; fu questo il primo scrupolo di un cattolico cui veniva consigliato legger la Bibbia (Pietro il Siciliano, p. 761).

8. L'opinione de' Paoliziani che ricusavano di ammettere la seconda Epistola di S. Pietro, trova appoggio nell'autorità di alcuni rispettabilissimi scrittori tanto antichi quanto moderni (V. Wetstein, ad loc. Simon, Hist. crit. du Nouveau Testament, c. 17). I Paoliziani ricusavano ancora l'Apocalisse; (Pietro il Sic., p. 736). Dal vedere che i contemporanei non ne apposero ad essi un delitto, potrebbe quasi dedursi che i Greci del nono secolo non facessero gran caso delle rivelazioni.

9. Una tale contesa, che alla malignità di Porfirio non isfuggì, suppone errore o passione nell'uno e nell'altro de' due appostoli, o forse anche in entrambi. S. Grisostomo, S. Gerolamo ed Erasmo, la suppongono una lite finta, un pietoso artifizio ideato per istruire i Gentili, e per correggere gli Ebrei (Middleton's Works, vol. II, p. 1-20).

10. Chiunque bramasse tutte le particolarità che riguardano i libri eterodossi può consultare le ricerche del Beausobre (Hist. critique du Manichéisme, t. I, p. 305-437). S. Agostino parlando de' libri manichei, che si trovano nell'Affrica dice: Tam multi, tam grandes, tam pretiosi codices (contra Faust., XIII, 14); ma aggiunge poi senza misericordia: incendite omnes illas membranas, e tal consiglio fu rigorosamente seguito.

11. La religion cristiana è composta di tre parti: la morale, la dogmatica, la disciplinare: la parte morale è contenuta intera chiaramente, senza bisogno di spiegazioni, e di interpretazioni, in queste parole, scritte nell'Evangelo, nelle quali disse Gesù Cristo consistere tutta la legge, Ama il signore Dio tuo sopra tutte le cose, ed il Prossimo tuo come te stesso; in questi due precetti tutta la legge ed i Profeti stanno. Queste poche parole sono da annoverarsi fra quelle delle quali scrisse, con buon senso, Agostino: Vi sono alcune cose nelle Scritture, le quali richiedono più il semplice uditore che il comentatore. La parte morale intrinsecamente non ha cangiato mai.

La parte dogmatica è pure negli Evangelj, ma pel modo ond'è esposta, ha avuto bisogno di spiegazioni, di interpretazioni, ed in conseguenza di queste (le quali furono fatte da scrittori ecclesiastici, ed anche da Concilj generali, cominciando quanto a questi ultimi dall'anno 325, in cui si adunò quello generale di Nicea, e venendo all'anno 381 in cui fu convocato l'altro generale di Costantinopoli, e indi all'anno 400 in cui si convocò quello primo di Toledo soltanto nazionale, o provinciale, e poscia all'anno 1274 in cui si tenne quello generale di Lione) fu scritto, e compiuto il Credo in unum Deum ec., che dicesi nella Messa, e ch'è la formula della credenza de' cattolici. Non si può sostenere, che sieno state fatte veramente innovazioni nella parte dogmatica; era questa già contenuta negli Evangelj, non vi fu bisogno, che d'interpretarla, dilucidarla, e scriverla in una formula da presentarsi a' Cristiani, perchè da essi dovesse esser creduta. Ecco ciò che fecero molti Concilj in differenti secoli, secondo, che porgevasi l'occasione di decidere controversie, che spesso sorgevano, e che le une dalle altre nascevano intorno ai dogmi. Per esempio (pigliando la prima, e principal controversia) sta scritto nell'Evangelo che Gesù Cristo disse: mio Padre è in me, ed io sono in lui: ed in un altro luogo pure dell'Evangelo è scritto, che Gesù Cristo disse: il Padre, che mi mandò è maggiore di me; ed altrove pure nell'Evangelo; siccome il Padre mandò me, così io mando voi; disse Cristo agli Appostoli. Da questi due ultimi passi dell'Evangelo giudicavano i Cristiani, detti Ariani dal loro Capo il prete Ario, che Gesù Cristo non fosse della stessa sostanza del Padre, ossia dell'esser supremo, e perciò non fosse Dio; ed il Concilio di Nicea di 318 vescovi, l'anno 325, condannandoli giudicò, che per il primo passo, Gesù Cristo era, per le parole di lui medesimo, della stessa sostanza del Padre, vale a dire, ch'era Dio, e perciò si scrisse nel Concilio il Credo in unum Deum ec., in cui i Vescovi, contro il minor numero de' Vescovi Ariani, decretarono, che si scrivesse, come fu scritto, che Gesù Cristo era consustanziale del Padre, cioè della stessa sostanza del Padre, cioè ch'era Dio, siccome leggesi nel Credo di Nicea. Tuttavia la guerra per la parola consustanziale, e per l'idea che racchiude, durò moltissimi anni nelle province cristiane d'Asia, e d'Europa; l'Arianismo mutò d'aspetto colla denominazione Nestorianismo da Nestorio Patriarca di Costantinopoli; vi venne dopo l'Eutichianismo, poi seguitò il Monotelismo, e questa Storia empiè alcuni volumi.

La parte disciplinare poi ha avuto tali, e tante variazioni sì inferiormente che esteriormente, che sarebbe troppo lungo il riferirle; converrebbe scrivere un grosso volume in-folio. (Nota di N. N.)

12. Bisogna osservare, che qui l'autore, riferisce le cose dette dai Paoliziani, che erano nell'errore, ed il Cattolico non dee punto turbarsi nella sua credenza. (Nota di N. N.)

13. Si faccia qui la medesima riflessione, da ripetersi ogni volta, che l'autore riferisce gli errori de' Paoliziani. (Nota di N. N.).

14. Il legame fra l'Antico, ed il Nuovo Testamento fu stabilito dai Concilj, dai Padri, e dai Teologi. Agostino ci dice; novum in vetere est figuratum, et vetus in novo est revelatum, nel Testamento Nuovo spesso si cita l'Antico: la Teologia è tutta fondata sull'autorità dei libri del Testamento Vecchio e Nuovo, dei decreti dei Concilj, dei Papi, e delle spiegazioni dei Padri, e dei Teologi che ottennero credito. (Nota di N. N.)

15. Pietro il Siciliano (p. 756) ha additati, ma con molta parzialità e passione i sei errori capitali dei Paoliziani.

16. Primum illorum axioma est, duo rerum esse principia; Deum malum et Deum bonum, aliumque hujus mundi conditorem et principem, et alium futuri aevi. (Pietro il Siciliano, p. 756.)

17. Due dotti critici il Beausobre (Hist. critique du Manichéisme, l. I, IV, V, VI), e il Mosheim (Institut. histor. eccles. et De rebus christianis ante Constantinum, sec. I, II, III), sonosi studiati di riconoscere e distinguere gli uni dagli altri i diversi sistemi de' Gnostici intorno ai due Principj.

18. Appostolo vuol dire inviato in generale; ciò è vero; ma questo vocabolo, per quanto sembra, è da usarsi soltanto parlando di quelli, che furono inviati da Gesù Cristo a spargere la sua religione: euntes, docete etc., e non di Silvano che andava diffondendo le sue opinioni contrarie a quelle determinate dai Concilj generali. (Nota di N. N.)

19. I Medi e i Persiani possedettero più di tre secoli e mezzo le province poste fra l'Eufrate a l'Halis (Erodoto l. I, c. 103), e i Re di Ponto perteneano alla reale casa degli Achemenidi (Sallustio, Frammento l. III, con supplimento e note dal presidente di Brosse).

20. Gli è verisimile che Pompeo fondasse questa città dopo la conquista del Ponto. Trovasi la medesima in riva al Lico, al di sopra di Neo-Cesarea: i Turchi la chiamano Culei-Hisar, ovvero Scionac; assai popolata, e posta in un paese ben difeso dalla natura (D'Anville, Géographie ancienne, t. II, p. 34; Tournefort, Voyage du Levant, t. III, lettera 21, p. 293).

21. Il tempio di Bellona a Comana, nel Ponto, ricca e possente fondazione, ove il gran Sacerdote veniva onorato, come seconda persona del regno. Di tale carica erano stati insigniti diversi proavi materni di Strabone, che con particolare compiacenza si arresta a descrivere (l. XII, p. 809-835, 836, 837) il tempio, il culto della Dea, e la festa che ad onore di essa ogni anno si celebrava; ma la Bellona del Ponto più alla Dea dell'amore che a quella della guerra si assomigliava.

22. Gregorio, vescovo di Neo-Cesarea (A. D. 240-265), soprannomato Taumaturgo, ossia facitore di maraviglie. Un secolo dopo, Gregorio di Nissa, fratello del gran S. Basilio, pubblicò la storia o veramente il romanzo della vita di Gregorio il Taumaturgo[*].

* Non è da dirsi che la vita di S. Gregorio Taumaturgo sia un romanzo, perchè fu scritta, e pubblicata un secolo dopo da un altro Santo, Gregorio di Nissa. (Nota di N. N.)

23. Non bisognava unire insieme il tempio di Bellona, ed i miracoli di Gregorio. (Nota di N. N.)

24. Hoc caeterum ad sua egregia facinora, divini atque orthodoxi imperatores addiderunt, ut Manichaeos Montanosque capitali puniri sententia juberent, eorumque libros quocumque in loco inventi essent flammis tradi; quod si quis uspiam eosdem occultasse deprehenderetur, hunc eundem mortis paenae addici, ejusque bona in fiscum inferri. (Pietro il Siciliano p. 759). Che di più poteano augurarsi il bigottismo e lo spirito di persecuzione?

25. Sembrerebbe che i Paoliziani si fossero fatti leciti alcuni equivoci o alcune restrizioni mentali, sintanto che i Cattolici trovassero finalmente con quali interrogazioni poteano ridurli all'alternativa della apostasia, o del martirio (Pietro il Sicil. p. 760).

26. Pietro il Siciliano (p. 579-767) racconta questa persecuzione con gioia e in tuono di scherzo. Justus justa persolvit. — Simeone non era τιτος, Tito, ma κητος, Ceto, (convien dire che la pronunzia di questi due vocaboli fosse all'in circa la stessa), una grande balena che sommergeva i marinai caduti nell'errore di crederla un'isola (V. Cedreno p. 434-435).

27. Se gl'Imperatori Greci iconoclasti fossero stati indulgenti verso i Paoliziani, siccome questi avevano alcuni errori comuni co' Manichei, i Monaci già padroni degli animi de' sudditi, gli avrebbero al solito accusati di manicheismo; cotale accusa avrebbe prodotto il tristo effetto di sollevazioni, e di nuovi mali, che i saggi e forti governi d'oggidì sanno allontanare da' loro Stati contenendo il Clero nei doveri di sudditanza. (Nota di N. N.)

28. Pietro il Siciliano (p. 763-764), il Continuatore di Teofane (l. IV, c. 4, p. 103, 104), Cedreno (p. 541, 542, 545) e Zonara (t. II, l. XVI; p. 156) narrano la ribellione e le imprese di Carbeas e de' suoi Paoliziani.

29. Otter (Voyages en Turquie et en Perse t. II) giusta ogni apparenza fu il solo tra i Franchi, innoltratosi fin nel territorio de' Barbari independenti, e in Tefrica, oggidì Divrigni: ed ebbe la ventura di fuggire dalle lor mani accompagnandosi ad un ufiziale turco.

30. Genesio nel tessere la storia di Crisocario (Chron. p. 67-70, ediz. di Venezia), ne ha dato a divedere qual fosse allora la debolezza dell'Impero. Costantino Porfirogeneta (in vit. Basil., c. 37-43, p. 166-171) parla pomposamente della gloria dell'avo suo. Cedreno (p. 570-573) mostra come fosse privo delle passioni, ma anche delle cognizioni dei precedenti.

31. L'Autore mostra qui la sua non curanza delle risposte che sanno dare i teologi alle proposizioni simili a questa non ha potuto impedire ec.; le ricorderemo noi al lettore. I Santi hanno fatto, e possono fare meravigliose cose, e miracoli; ma siccome essi gli intercedono da Dio, e siccome vengono fatti, o non fatti, secondo che li meritiamo, o no, così può avvenire, siccome moltissime volte avvenne, che non sieno fatti miracoli anche allor quando sembra ragionevole, ed opportuno di vederne operati: dei nostri meriti poi, o delle nostre colpe, noi non possiamo esser giudici, e ne viene che quantunque si abbia una buona causa, siccome era quella contro i Paoliziani, non si ottengano miracoli a punizione delle colpe nostre, o degli atti nostri. (Nota di N. N.)

32. Ricordiamo al lettore che la ribellione è sempre un atto che merita punizione, e non trionfo. (Nota di N. N.)

33. Συναπεμαθανθη πασα η’ ανθουσα της Τεφθιπης ευανδρια, venne meno insieme la florida Fortezza di Tefrica. Come è elegante la lingua greca fra le labbra ancor di un Cedreno!

34. Copronimo trapiantò i suoi συγγενεις, concittadini eretici; e parimente επλατυνθη η’ αιθεσις Παυλικιανων, si dilatò l'eresia dei Paoliziani, dice Cedreno (p. 465), che ha copiati gli Annali di Teofane.

35. Pietro il Siciliano, dimorato nove mesi a Tefrica (A. D. 870) per negoziare il riscatto de' prigionieri (p. 764), fu istrutto di questa divisata missione; e ad impedire il trionfo dell'eresia, inviò la sua Historia manichaeorum al nuovo arcivescovo dei Bulgari (p. 754).

36. Zonara (t. II, l. XVII, pag. 209) e Anna Comnena (Alexiad., l. XIV, p. 450, ec.) parlano della colonia di Paoliziani e Giacobiti, che Zimiscè, nell'anno 970, dall'Armenia trapiantò nella Tracia.

37. Anna Comnena racconta nell'Alessiade (l. V, p. 31; l. VI, p. 154-155; l. XIV, p. 450-457, colle osservaz. del Ducange) la condotta appostolica tenutasi dal padre suo rispetto ai Manichei, da essa chiamati abbominevoli eretici, che ella aveva in animo di confutare.

38. Fra Basilio, capo de' Bogomili, Setta di gnostici che ben tosto disparve (Anna Comnena, Alessiade, l. XV, p. 486-494; Mosheim, Hist. eccles., p. 420).

39. Matt. Paris, Hist. major., p. 267. Il Ducange riporta questo passo dello Storico inglese in una eccellente nota ad una pagina del Villehardouin (n. 208), che trovò a Filippopoli i Paoliziani strettisi in lega coi Bulgari.

40. V. Marsigli, Stato militare dell'impero Ottomano, p. 24.

41. Bisogna convenire che la Corte di Roma ne' tempi andati si mostrò avara; ma l'aggettivo tirannica, è eccessivo; quanto poi al dispotismo, i Papi usavano dell'autorità del loro primato e per determinarlo molto si questionò; e se alcuni ne abusarono, o ne oltrepassarono i limiti, fu cosa cattiva. Del resto, noi ora non vogliamo entrare, perchè ne verrebbe una lunga dissertazione, nelle controversie mosse, e sostenute ne' famosi Concilj generali di Costanza e di Basilea, intorno l'autorità del Papa, e dai Concilj, nell'occasione del processo, e della deposizione del famoso Papa Giovanni XXIII, che fece la guerra non meno al Concilio di Costanza, che ai due Papi contemporanei Gregorio XII, e Benedetto XIII. V. Fleury, e Lenfant. (Nota di N. N.)

42. Gesù Cristo, siccome è scritto nell'Evangelo, disse nella Cena, tenendo del pane in mano, questo è il mio corpo; ma non disse: questo pane è la figura del mio corpo, perciò il senso figurato, ossia metaforico delle parole questo è il mio corpo ec., è da rigettarsi, e devesi ritenere il loro senso naturale, e letterale. Il Testamento Nuovo, in tutti i luoghi ne' quali fa menzione di questo atto di Cristo nella Cena, parla con termini, che presi in senso naturale e letterale, esprimono, coerentemente alle parole di Cristo, la presenza reale del corpo, e del sangue di lui, e perciò la mutazione del pane nel corpo, e del vino nel sangue di Cristo; non ci parla mai in modo, che il pane, ed il vino sieno figure, o segni soltanto del corpo, e del sangue di lui, siccome sostennero indi nell'undecimo secolo, e dopo, i moltissimi seguaci di Berengario Arcidiacono d'Angers, e maestro di Teologia in Tours sua patria, e poscia gli Albigesi, e finalmente i dottori protestanti Lutero, Calvino, Zuinglio ec., in un con tutti i popoli, che indussero co' loro ragionamenti a cotale errore. Dunque la credenza del cangiamento, ossia della transustanziazione ebbe origine dalle parole di Cristo, e non fu una innovazione della Chiesa romana, ossia d'Innocenzo III nel Concilio generale di Roma l'anno 1215, cui vuol alludere l'Autore: riferiremo poi le nuove espressioni definitive d'Innocenzo, e del Concilio intorno l'Eucaristia.

Per poter pigliare le parole riferite nell'Evangelo questo è il mio corpo ec. in senso figurato, e sostenere, che il pane eucaristico (ossia pane di rendimento di grazie pel mistero della Redenzione) sia soltanto la figura del corpo, e del sangue di Cristo, sarebbe necessario, o che Cristo ci avesse fatti avvertiti che prendeva in senso figurato, e metaforico le espressioni usate (senso di cui spesso si serviva per far intendere più facilmente dagli ascoltanti le sue lezioni di morale), e non nel naturale, e letterale, o che queste espressioni, prese in questo senso, avessero significato un'assurdità sì palpabile, e sì grossolana, che l'uomo il più ignorante, avesse dovuto accorgersi, che Gesù Cristo non potea giammai prenderle nel senso naturale, e letterale.

I. Gesù Cristo ben lungi dal darci questo avvertimento, dispose anzi i suoi seguaci a prendere le dette parole in senso naturale e letterale, dicendo loro, prima d'istituire l'Eucaristia colle parole stesse, che la sua carne era cibo, che il suo sangue era bevanda; aveva di più promesso loro di dare ad essi questo pane, e gli Ebrei udendolo dir ciò, si chiedevano l'un l'altro, come potrebbe dare a mangiar loro la sua carne; e Gesù Cristo, avendoli uditi, non rispondendo a questa interrogazione, ripetè, che la sua carne era cibo veramente, ed il suo sangue bevanda veramente, e che se non mangiassero la carne del figlio dell'uomo, e non bevessero il suo sangue, non avrebbero la Vita Eterna.

II. Non si può dire, che il senso naturale, e letterale delle parole questo è il mio corpo ec., onde fu istituita l'Eucaristia, contenga un'assurdità palpabile, o una contraddizione aperta, di modo, che udendo le parole stesse, la mente lasci il senso letterale, e s'appigli al figurato, perchè in tal caso i Cristiani non avrebbero mai creduto alla presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nel pane Eucaristico; inoltre sembra che non si avrebbe potuto stabilire giammai questa credenza, questo dogma, o almeno si avrebbe udito fra Cristiani, ne' primi secoli, dei reclami contro di esso, ed i più si sarebbero appigliati al senso figurato. Al contrario, quando Berengario combattè questa credenza, questo dogma della presenza reale, i Cristiani vi credevano, nè pensavano, che l'Eucaristia fosse la figura, il segno soltanto del corpo di Cristo. Non si trova che alcun scrittore ecclesiastico, che alcun vescovo si sia giammai lamentato, che s'introducesse al suo tempo un'idolatria condannabile, perchè si adorasse Gesù Cristo, come realmente presente, sotto le apparenze del pane e del vino. (Perpetuité de la foi, vol. in 12, pag. 23).

Rilevasi dagli scritti de' Padri dei primi secoli, ch'essi prendevano le parole di Cristo questo è il mio corpo ec. nel senso naturale, e non nel figurato, e che quindi credevano alla presenza reale. Non conviene in ciò appigliarsi ad un picciolo numero di passi delle loro opere per assicurarsi della loro opinione, bisogna prendere tutto il contesto de' luoghi dove hanno parlato di ciò. Dunque se talora si leggerà, che i Padri abbiano dato al pane Eucaristico il nome di segno, d'Immagine, di figura, non si conchiuderà, che non credessero alla presenza reale (N. Ales. t. 2, l. I).

Per le parole della consacrazione, la sostanza del pane, e dal vino è mutata, secondo i Padri, nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo; ma questo corpo, e questo sangue non si vedono: i sensi non sentono che le specie del pane e del vino, e perciò esse, dopo la consecrazione sono i segni del corpo di Gesù Cristo; ecco come il pane, ed il vino sono i segni del corpo e del sangue di Cristo.

Pascasio monaco, e poi abate di Corbia, diede origine all'errore di Berengario verso la fine del secolo nono, avendo composto poco prima per l'istruzione de' Sassoni (che la forza di Carlomagno costrinse a farsi Cristiani, mettendone a morte molte migliaia, che non vollero rinunciare alla lor religione) un trattato del corpo e del sangue di Cristo: stabiliva la presenza reale, e sosteneva che il corpo, che noi riceviamo, e mangiamo nel pane Eucaristico è quello stesso nato da Maria, e ch'era stato appeso alla croce, e che noi beviamo quel sangue uscito dal Costato di Cristo. Sebbene Pascasio seguisse la credenza de' Cattolici, non v'era il costume di dire formalmente queste cose. Questa maniera di esprimersi ebbe de' contraddittori; egli la sostenne; la controversia menò rumore, e durò finchè Berengario prese ad esaminare lo scritto di Pascasio, ed i libri de' suoi oppositori.

Berengario, vedendo che il pane ed il vino conservavano dopo la consecrazione le proprietà e le qualità che avevano prima, e che davano tanto prima, che dopo i medesimi effetti, affermò che il pane, ed il vino non erano il corpo, ed il sangue di Cristo, siccome diceva Pascasio. Sostenne, ed insegnò, che il pane, ed il vino non si cangiavano; ma non negò la presenza reale, secondo il senso naturale e letterale delle parole di Cristo; sosteneva che il pane, ed il vino contenevano il corpo ed il sangue di lui, perchè il Verbo si univa al pane ed al vino, e che per tale unione, il pane, ed il vino divenivano poi il corpo ed il sangue di Cristo, senza che la loro natura, e la loro essenza fisica si mutassero.

Berengario insegnò queste cose nella scuola di Tours, e le sostenne in una lettera, che, letta in un Concilio di Roma fu condannata, e l'Autore scomunicato, ed essendolo stato nuovamente, timoroso si ritrattò, visse ritirato, e morì intorno l'anno 1088.

Ma l'errore di Berengario fu sostenuto dal gran numero de' suoi discepoli, che presero il nome di Berengariani. Non istettero attaccati all'errore del maestro, andavano innanzi con arditi ragionamenti: tutti riconoscevano col maestro, che il pane ed il vino non si cangiavano; ma molti non potendo concepire, che il Verbo si unisse al pane ed al vino, come aveva detto Berengario, conchiusero che in nessun modo il pane, ed il vino non erano il corpo ed il sangue di Cristo, e che non ne erano, che la figura, il segno; quindi negarono compiutamente il cangiamento.

Benchè condannato, l'errore si sostenne e si divulgò moltissimo in Francia, in Alemagna, ed in Italia. Presero i Berengariani da Alby in Francia, loro centro, il nome di Albigesi. Essi inoltre non volevano tollerare le grandi ricchezze, e la potenza del Clero, giunte all'estremo, e sostenevano non doversegli pagare le decime; la qual cosa fu sostenuta anche dal povero Arnaldo da Brescia, fatto miseramente bruciar vivo dal Papa Adriano IV. Per verità, i vizj, e i disordini del Clero erano al colmo: vendevasi ogni cosa nelle Chiese; gli Albigesi generalmente erano poveri, e di poche fortune, e regolati.

Rammentando con rammarico i moltissimi Albigesi bruciati vivi dagli Arcivescovi di Tolosa e di Lione, e l'armata de' crocesegnati, raccoltasi per pigliar la promessa indulgenza, comandata dall'Abate de' Cisterciensi, Legato del Papa, e da' Vescovi, che trucidò, o bruciò (Istoria di Linguad.) furiosamente in Bezieres, settantamila persone, donne, vecchi, uomini, fanciulli, veri, o creduti Albigesi, lo stabilimento del tribunale de' Padri Inquisitori, che scorsero le province, scomunicando, e bruciando Albigesi, per molti anni, onde di loro non rimase che il nome, e la lagrimevole istoria, e ritornando al punto di Fede, al dogma, il Concilio generale di Roma, l'anno 1215, presieduto dal Papa Innocenzo III, lo confermò, e stabilì contro i Berengariani, e contro gli Albigesi, usando in modo di spiegazione la parola transustanziazione, che cangiamento di sostanza significa, con queste espressioni.

«In qua (ecclesia) idem ipse sacerdos, et sacrificium Jesus Christus; cujus corpus, et sanguis in sacramento altaris sub speciebus panis, et vini veraciter continentur: transubstantiatis pane in corpus, et vino in sanguinem, potestate divina, ut at perficiendum mysterium unitatis accipiamus ipsi de suo quod accepit ipse de nostro.» (Labbe Collectio Concil.)

E Bossuet dice a questo proposito a' Dottori protestanti. «Puisqu'il étoit convenable, ainsi qu'il a été dit, que les sens n'aperçussent rien dans ce mystère de foi, il ne falloit pas qu'il y eut rien de changé à leur égard dans le pain, et dans le vin de l'Eucharistie. C'est pourquoi etc.» Bossuet: Exposition de la doctrine p. 105, picciolo libro scritto in vano con molta abilità ed avvedutezza per persuadere ed attrarre i protestanti all'unione co' cattolici. Chi poi volesse vedere distesamente come rispondano i teologi cattolici alle obbiezioni de' teologi protestanti (raccolte specialmente nell'Opera del dottore Eduardo Albensino) legga ne' Corsi di Teologia dogmatica i capitoli dell'Eucaristia, o l'Opera Variazioni ec. di Bossuet, giacchè i Protestanti sostennero, e sostengono lo stesso errore de' Berengariani, e degli Albigesi intorno il pane, ed il vino dopo le parole della consecrazione. Gli Albigesi furono distrutti, come detto è, ma i Protestanti per le loro vittorie contro l'Imperator Carlo V, e per l'editto nomato Interim, che fu costretto a dare, prosperarono, estesero, e rafforzarono la Riforma in molte regioni considerevoli dell'Europa. (Nota di N. N.).

43. Il Muratori (Ant. Ital. medii aevi, t. V, Dissert. 60, p. 81-152) e il Mosheim (p. 379-382, 419-422) discutono partitamente quanto si riferisce ai Paoliziani che posero dimora nell'Italia e nella Francia. Ma entrambi gli autori ommisero nelle precitate opere un passo osservabilissimo di Guglielmo di Puglia, che in modo ben chiaro segnalò i Paoliziani, descrivendo una battaglia accaduta fra i Greci e i Normanni nell'anno 1040 (in Muratori, Script. rerum Italic., t. V, p. 256):

Cum Graecis aderant quidam, quos pessimus error

Fecerat amentes, et ab ipso nomen habebant.

Ma lo stesso Muratori conosce sì poco la dottrina de' Paoliziani, che la converte in una specie di Sabellianismo o di Patripassianismo.

44. Il nome di Bulgari, B-ulgres, B-ugres, non indicava che un popolo; i Francesi ne han fatto un termine di vilipendio, a mano a mano applicato agli usurai, e a coloro che commettono peccati contro natura; fu dato il nome di Paterini, o Patelini, a quegli ipocriti che hanno un linguaggio adulatorio e melato, siccome il protagonista della vaghissima burletta, l'avvocato Patelin. (Ducange, Gloss. latin. medii et infimi aevi). I Manichei venivano anche nomati Chatari o Puri, corrottamente Gazari ec.

45. Il Mosheim (p. 477-481) offre un'idea giusta, benchè generale, delle leggi emanate, della Crociata bandita contro gli Albigesi, e della persecuzione che sopportarono. Se ne leggono le particolarità presso gli Storici ecclesiastici antichi e moderni, cattolici e protestanti, fra' quali il più imparziale e moderato di tutti è il Fleury.

46. Gli atti (Liber sententiarum) della Inquisizione di Tolosa (A. di Cristo 1307-1323) sono stati pubblicati dal Limborch (Amsterdam 1692), e li precede una Storia generale della Inquisizione. Meritavano essi un autore più dotto e migliore nella critica. Non essendo lecito calunniare nè il demonio, nè il santo Ufizio, farò osservare a questo proposito come, in una lista di rei che tiene diciannove pagine in foglio, solamente quindici uomini e quattro donne siano stati consegnati al braccio secolare.

47. I nomi di Zuinglio, di Lutero, di Calvino sono pronunciati con lode e riverenza, da alcuni popoli della Germania, della Svizzera, dell'Olanda, dell'Inghilterra, della Svezia ec. che pervennero a persuadere, ma non lo sono dagli altri popoli dell'Europa, che rimasero cattolici. (Nota di N. N.)

48. Se i dottori protestanti adottarono molti errori, ritennero però la credenza a' misterj principali dell'Unità, e Trinità di Dio, dell'Incarnazione ec. (Nota di N. N.)

49. Il Mosheim, nella seconda parte della sua Storia generale, racconta le opinioni e la condotta de' primi riformatori; ma dopo avere fin lì tenuta la bilancia con occhio sicuro, e mano fermissima, incomincia, d'allora in poi, a farla inclinare a favore de' Luterani, suoi confratelli.

50. Gesù Cristo è venuto a riformare, a perfezionare non ad abolire la legge di Mosè, data pure da Dio; egli disse, non veni solvere legem sed adimplere. (Nota di N. N.)

51. La transustanziazione è un mistero, è una cosa di Fede, e perciò deve credersi sommessamente, e non bisogna ragionarvi sopra: siccome poi in cotale cangiamento rimangono le specie, ossia le apparenze del pane e del vino, anche per dichiarazione del Concilio stesso di Roma dell'anno 1215, così la testimonianza de' sensi non fa ostacolo alla credenza del cangiamento suddetto, che presso i protestanti, e gl'increduli. È naturale poi che a' dottori protestanti facessero impressione le parole di Gesù Cristo hoc est ec. riferite nell'Evangelo, perchè ammettevano, del pari, che i Cattolici, le decisioni, e spiegazioni dei Concilj generali del quarto e del quinto secolo, e quindi credevano, siccome credono, che Gesù Cristo sia Dio: non conterranno verità le parole di Dio? la contengono, dissero i dottori protestanti, ma nello spiegare le parole, che la contenevano, errarono con sottili ragionamenti su i vocaboli, sull'uso delle metafore, fatto spesso da Gesù Cristo, e con confronti d'altri passi del Nuovo Testamento, perchè vollero, e pretesero riformare, in iscambio di conformarsi alla tradizione, ai Padri, ai Concilj ed ai Papi, e di credere sommessamente. (Nota di N. N.)

52. In modo più spiegato e compiuto accadde sotto il regno di Eduardo VI la Riforma della Inghilterra; ma una formale e violenta dichiarazione, che contro la Presenza reale conteneasi negli articoli fondamentali della Chiesa Anglicana, venne cancellata dall'originale per piacere al popolo, ai Luterani, o forse anche alla regina Elisabetta (Burnet's History of the Reformation, vol. II; p. 82-128-302).

53. Intorno a tutte queste materie si deve ammettere, e credere ciò che insegna la Chiesa generale, spiegando di pien diritto il Nuovo Testamento, di cui come si sa, fanno parte le lettere di S. Paolo. (Nota di N. N.)

54. È noto a' dotti, che i teologi e filosofi, detti scolastici dal secolo duodecimo, e dopo, movevano nelle scuole sottili quistioni, che sostenevano furiosamente con forme sillogistiche, e con vane parole da essi adoperate invece di ragionamenti. Facevano una moltitudine di definizioni, e distinzioni, sostenevano pertinacemente una ridicola guerra di sillogismi, senza avere bene spesso cognizioni, e idee positive della materia che trattavano, e dopo una lunga scena, i questionanti stanchi dal combattere, ma nè vinti, nè vincitori, nulla avevano imparato, e concluso. La Logica e la Filosofia d'oggidì, dopo i Loke, i Baconi, i d'Alembert, i Condillac, sommi uomini, fondate sull'osservazione, sull'esperienza, su i fatti, sul retto uso della ragione, sull'analisi della cose, e delle idee, mandò in dileguo la Scolastica. Quanto ai Padri della Chiesa, ve ne furono alcuni le cui opinioni furono condannate, per esempio Origene e Tertuliano, dai Concilj, e perciò se taluno di loro prepararono alcune sottili quistioni, non è questo un appoggio a' dottori protestanti, per non conformarsi alle spiegazioni, e decisioni de' Concilj. (Nota di N. N.)

55. Il Cattolico deve dire entusiasti dell'errore. (Nota di N. N.)

56. «Se non vi fossimo stati Lutero ed io, diceva il fanatico Whiston al filosofo Halley, rimarreste ancora in ginocchione dinanzi ad una immagine di S. Vinifredo».

57. Il Cattolico deve ritenere tutto ciò, che gl'insegna la Chiesa cattolica, cioè i Concilj, e se i dottori protestanti hanno levato via molte cose da questo insegnamento, ciò non riguarda che i popoli, ch'essi venivano a capo di persuadere, e nulla i Cattolici. Quanto poi alle Indulgenze, ecco ciò che ci dice il Bossuet: «Quand donc elle (la Chiesa) impose aux pêcheurs des oeuvres pénibles, et laborieuses, et qu'ils les subissent avec humilité, cela s'appelle satisfaction, et lorsqu'ayant égard ou à la ferveur des pénitens, ou à d'autres bonnes oeuvres, qu'elle leur prescrit, elle relâche quelque chose de la peine, qui leur est due, cela s'appelle Indulgence.» Exposition de la doctrine de l'Eglise Catholique p. 53. (Nota di N. N.)

58. L'autore qui allude al culto delle Immagini, da noi già altrove spiegato, ed al culto esteriore prestato da' Cattolici. Il culto interiore, ch'è quello solo, che rendono a Dio i protestanti, e ch'è pure reso da' Cattolici, non basta; vi vuole anche il culto esteriore, ch'è quello che prestiamo col corpo essendo pure l'uomo un composto d'anima e di corpo: l'unione delle due parti del culto lo rendono perfetto. (Nota di N. N.)

59. La Chiesa Cattolica vuole che si sia soggetto a questa catena d'autorità; di già la Teologia è fondata sull'autorità. (Nota di N. N.)

60. La dottrina de' protestanti lascia interpretare a ciascuno la Sacra Scrittura, ma la dottrina de' Cattolici ciò proibisce espressamente; nessuno può, secondo la propria privata ragione, interpretarla e intenderla; questo potere spetta soltanto a' Padri, a' Papi, a' Concilj, ed il credente deve sommessamente ammettere soltanto le loro spiegazioni, e rinunciare a quelle che fossero suggerite dallo spirito privato, ch'è da riguardarsi in ciò siccome una petulanza: così decretò due secoli e mezzo sono, il Concilio generale di Trento: «Praeterea ad coescenda petulantia ingenia, decernit, ut nemo suae prudentiae innixus, in rebus fidei, et morum ad aedificationem doctrinae Christianae pertinentium, Sacram Scripturam ad suos sensus contorquens, contra eum sensum, quem tenuit, et tenet sancta Mater ecclesia, cujus est judicare de vero sensu, et interpretatione Scripturarum Sanctarum, aut etiam contra unanimem consensum patrum, ipsam scripturam sacram interpretari audeat, etiam si ejusmodi interpretationes nullo unquam tempore in lucem edendae forent. Qui contravenerint per ordinarios declarentur, et poenis a jure statutis, puniantur.» Sessio 4 Conc. Trid.

Ordina, il Concilio, che i Vescovi rispettivi debbano dichiarare, e denunciare coloro, che interpretano la Scrittura, secondo la loro ragione privata, quand'anche non pubblichino colle stampe le spiegazioni date, acciò sieno puniti. (Nota di N. N.)

61. L'articolo Servet del Dizionario Critico del Chauffepié, è quanto ho trovato di meglio fra gli scritti che danno conto di questa indegna ed inumana condanna. V. anche l'abate di Artigny, Nouveaux Mémoires d'Histoire, etc., t. II, p. 55-154.

62. Move in me più ribrezzo il supplizio di Servet, che non gli auto-da-fè della Spagna, e del Portogallo. 1. Giusta ogni apparenza, lo zelo di Calvino era invelenito dall'astio e fors'anche dalla gelosia. Egli accusò l'avversario dinanzi ai giudici di Vienna, nemici d'entrambi; e a fine di perderlo con maggior sicurezza, ebbe la viltà di tradire il sacro deposito di un carteggio particolare. 2. Questo atto di crudeltà, non fu nemmeno colorato dal pretesto di un pericolo per la Chiesa, o per lo Stato; perchè dal momento in cui Servet a Ginevra si trasferì, vi condusse una vita tranquilla; non predicò, non pubblicò alcun libro, non fece proseliti. 3. Un inquisitore cattolico si sottomette almeno al giogo ch'egli medesimo ha imposto; ma Calvino trasgredì quella sublime massima di fare agli altri quanto vorremmo fatto a noi stessi; massima che io trovo in un tratto morale d'Isocrate (in Nicocle, t. I, p. 93 ediz. Battie), e che precedè di quattro secoli la pubblicazione dell'Evangelo. Α πασχονκες υφ’ ετερων οργιζεσθε, ταυτα τοις αλλοις μη ποιειτε Non fate agli altri quello, per cui v'adirate, soffrendolo dagli altri.

63. V. Burnet, vol. II, pag. 84-86. L'autorità del primate soggiogò il senno e l'umanità del giovine monarca.

64. Erasmo può venire considerato come il padre della Teologia nazionale. Ella sonnecchiava da un secolo, allorchè la tornarono in onore nell'Olanda gli Arminiani, il Grozio, il Limborch e il Leclerc: in Inghilterra il Chillingworth e i Latitudinarj di Cambridge (Hist. of own Times, vol. I, p. 261-268, ediz. in 8), Tillotson, Clerke, Hoadley ec.

65. La libertà di coscienza veramente non si oppone allo spirito della religione Cristiana. Quanto poi alla tolleranza, ella è o civile, o ecclesiastica: la prima che consiste soltanto nel non perseguitare alcuno per motivo di religione, che non fu a grande sventura ammessa ne' secoli di fanatismo, e di barbari costumi, e quindi furono immolate a migliaia, e migliaia le misere vittime, e ne vennero tanti, e lunghi disastri, è oggidì pe' progressi della filosofia, della ragione e dell'umanità, uno de' principj fondamentali di tutti i Governi, ed è un vero benefizio: la tolleranza ecclesiastica poi, che esigerebbe una lunga dissertazione, consiste nel non prevalersi, per contenere nella credenza, e nel rispetto della religione i Cristiani cattolici, che dei mezzi, e dei metodi prescritti dall'Evangelo in quel luogo: Sit tibi tanquam Etnicus, et publicanus si ecclesiam non audierit. (Nota di N. N.)

66. Duolmi osservare che i tre filosofi del secolo passato, Bayle, Leibnitz, e Locke, segnalatisi nel difendere sì nobilmente i diritti della tolleranza, fossero laici, e filosofi.

67. V. l'eccellente capitolo di Sir Guglielmo Temple, intorno la Religione delle Province Unite. Non so perdonare al Grozio (De rebus belgicis, Annal., l. I, pag. 13, 34, ediz. in 12), l'avere approvate le leggi imperiali che alla persecuzione si riferiscono, e serbati i suoi biasimi al solo tribunal sanguinario della Inquisizione.

68. Sir Guglielmo Blackstone (Commentaries, vol. IV, p. 53, 54), dilucida la legge inglese qual fu posta all'atto della Rivoluzione. Severa non solamente contro i Papisti e coloro che negano la Trinità, essa lascerebbe un campo bastantemente ampio alla persecuzione in generale, se lo spirito della nazione non fosse più forte di cento atti del Parlamento.

69. Essi s'avvedono con dispiacere che l'audace spirito di ricerca seco trae facilmente una poca credenza alla rivelazione, e può condurre al deismo. Ognun sa che gli Arminiani, gli Ariani, i Nestoriani, i Sociniani, hanno rotta la catena de' misterj creduta da' Cattolici, e si andò avverando ciò che aveva preveduto S. Paolo: in novissimis temporibus discedent quidam a fide, attendentes spiritibus erroris etc.

70. Denunzio alla pubblica considerazione due passi del dottore Priestley, i quali scoprono a che intendano realmente le opinioni di questo scrittore. L'uno di essi (Hist. of the Corruptions of Christianity, vol. I, p. 275, 276) dee fare tremare il sacerdozio, l'altro (vol. II, p. 484) la magistratura.

71. Il diligentissimo Giovanni Gotthelf Stritter ha compilati, raccolti e tradotti in latino tutti i passi della Storia Bisantina che si riferiscono ai Barbari nelle sue Memoriae populorum, ad Danubium, Pontum-Euxinum, Paludem Maeotidem, Caucasum, mare Caspium, et inde magis ad septentriones incolentium, Pietroburgo, 1771-1779, 4 tomi, o 6 volumi in 4; ma col merito del suo lavoro non ha fatto spiccare il valore di questi indigesti materiali.

72. V. il capitolo XXXIX della presente opera.

73. Teofane, p. 296-299, Anastasio, pag. 113; Niceforo, C. P. p. 22, 23. Teofane colloca l'antica Bulgaria sulle rive dell'Atell, o del Volga; ma asserendo egli che questo fiume mette foce nell'Eussino, un errore si grossolano, gli toglie fede anche nel rimanente.

74. Paolo Diacono (De gestis Langobard., l. V, c. 29, p. 881, 882), Camillo Pellegrino (De ducatu Beneventano, dissert. 7, in scriptores rerum ital., t. V, p. 186, 187), e il Beretti (Chronograph. Ital. medii aevi, p. 273 ec.), conciliano facilmente le apparenti differenze che si ravvisano fra lo Storico Lombardo, e i Greci mentovati nella nota precedente. Questa colonia di Bulgari si stanziò in un cantone deserto del Sannio, ove imparò la lingua latina senza dimenticare la nativa.

75. Nella disputa di giurisdizione ecclesiastica fra i Patriarchi di Roma e di Costantinopoli, queste province dell'Impero vennero, adoperando il linguaggio del Baronio (Annal. eccles. A. D. 869, n. 75), assegnate al regno de' Bulgari.

76. Cedreno (p. 713) indica chiaramente la situazione di Licnido, o Acrida, e il regno di cui questa città era la Capitale. La traslazione dell'Arcivescovato o Patriarcato di Justinianea prima a Licnido e indi a Ternovo, ha portata confusione nell'idee e nelle espressioni de' Greci. Niceforo Gregoras (l. II, c. 2, p. 14, 15), Thomassin (Discipline de l'Eglise, t. I, l. I, c. 19-23), e un Francese (d'Anville) mostrano di avere sulla geografia del greco Impero assai più precise nozioni (Hist. de l'acad. des inscriptions t. 31).

77. Calcocondila, atto a profferir giudizio su di tale argomento, afferma l'identità dell'idioma de' Dalmati, de' Bosnj, de' Serviani, de' Bulgari e de' Polacchi (De rebus turcicis, l. X, p. 283), e altrove de' Boemi (l. II, p. 38). Il medesimo autore ha accennato qual fosse l'idioma particolare degli Ungaresi.

78. V. l'opera di Gian Cristoforo Giordano (De originibus sclavicis; Vienna 1745, in quattro parti, o due vol. in fol.). La Raccolta, e le Ricerche di questo Autore portano schiarimenti sulle antichità della Boemia e de' paesi circonvicini; ma troppo limitato è il suo disegno, barbaro lo stile, ne è superficiale la critica, e si vede che il Consigliere aulico non si è liberato affatto dalle pregiudicate opinioni d'un Boemo.

79. Giordano ammette la ben nota e verisimile etimologia di Slava, laus, gloria, termine di uso famigliare ne' varj dialetti, e che forma la desinenza di chiarissimi nomi (De originibus sclavicis, pars. I, p. 40: para. IV, 101, 102).

80. Sembra che tal cambiamento di un nome proprio in un nome appellativo, sia accaduto nel duodecimo secolo presso gli abitanti della Francia orientale, ove i Principi e i Vescovi aveano molti Schiavoni, in istato di cattività, non della schiatta boema, esclama Giordano, ma di quella de' Sorabi. Indi il termine divenne di un uso generale, passando nelle lingue moderne e persin nello stile degli ultimi autori di Bisanzio (V. i Glossarj greci e latini). La confusione poi del nome σερβλοι Serviani e del latino Servii, anche maggiormente si propagò, ed era più famigliare ai Greci del basso Impero (Costant. Porfir. De administrando imperio, c. 32, p. 99).

81. L'imperatore Costantino Porfirogeneta, esattissimo allorchè parla degli avvenimenti del suo tempo, ma favoloso oltre ogni dire, quando racconta cose accadute prima di lui, narra diverse particolarità intorno agli Schiavoni della Dalmazia (c. 29-36).

82. V. la Cronaca anonima del secolo XI, attribuita a Giovanni Sagornin (p. 94-102) e la Cronaca composta nel secolo XIV dal Doge Andrea Dandolo (Script. rerum ital., t. XII, pag. 227-230), i due più antichi monumenti della Storia di Venezia.

83. Gli Annali di Cedreno e di Zonara parlano, nelle note che a ciò si riferiscono, del primo regno de' Bulgari. Lo Stritter (Memoriae popolorum, t. II, part. II, p. 441-647) ha raccolti i materiali somministrati dagli Autori bisantini, e il Ducange ha determinata e posta in ordine la serie dei re della Bulgaria (Fam. byzant., p. 305-318).

84. Simeonem semi-Graecum esse aiebant, eo quod a pueritia Byzantii Demosthenis rhetoricam et Aristotelis syllogismos didicerat (Luitprand, l. III, c. 8). Questo autore dice in altro luogo: Simeon, fortis bellator, Bulgariae praeerat; christianus, sed vicinis Graecis valde inimicus (l. I, c. 2).

85.

— Rigidum fera dextera cornu

Dum tenet infregit, truncaque a fronte revellit.

Ovidio (Metamorph., IX, 1-100) ha dipinte arditamente le pugne fra i nativi del paese, e gli stranieri, sotto figura del Dio del fiume e dell'eroe.

86. L'ambasciatore di Ottone sentì fin ribrezzo delle scuse che i Greci fecero a questo re: Cum Christophori filiam Petrus Bulgarorum VASILEUS conjugem duceret, Symphona, id est consonantia, scripto juramento firmata sunt ut omnium gentium apostolis, id est nunciis, penes nos Bulgarorum apostoli praeponantur, honorentur, diligantur (Luitprando, in Legatione, p. 482). V. il Cérémonial di Costantino Porfirogeneta t. I, p. 82; t. II, p. 429, 430-434, 435-443, 444-446, 447, colle Osservazioni del Reiske.

87. Un vescovo di Virtzburgo sottomise questa opinione al giudizio di un reverendo Abate, che gravemente decise essere Gog e Magog i persecutori spirituali della Chiesa, perchè Gog significa il fasto e l'orgoglio degli eretici, e Magog la conseguenza del fasto, vale a dire la propagazione delle loro Sette. Questi erano nullameno gli uomini che pretesero imprimere rispetto in tutto il genere umano! (Fleury, Hist. eccles., l. XI, p. 594, ec.).

88. I due Autori ungaresi de' quali più mi sono giovato, sono Giorgio Pray (Dissertationes ad Annales veterum Hungarorum, etc., Vienna, 1775, in folio), e Stefano Katona (Hist. critica ducum et regum Hungariae stirpis Arpadianae, Pest, 1778-1781, 5 vol. in 8). Il primo comprende un grande intervallo di tempo, sul quale non può spesse volte formare che congetture. Il secondo, per dottrina, sagacità e senno, merita il nome di Storico critico.

89. Vien dato all'autore di questa cronaca il titolo di notaio del re Bela. Il Katona che lo colloca nel dodicesimo secolo, lo difende contro le accuse del Pray. Sembra che il ridetto Autore di annali, malgrado la sua rozzezza siasi giovato unicamente di alcuni monumenti storici, poichè così si esprime con dignità, Rejectis falsis fabulis rusticorum, et garrulo cantu joculatorum. Queste favole poi vennero raccolte nel secolo XV dal Tutotzio, e abbellite dall'italiano Bonfini (V. il discorso preliminare della Historia critica, Ducum p. 7-133).

90. V. Costantino (De administrando imperio, c. III, 4-13-38-42). Il Katona con assai d'intelligenza ha riferita la data di quest'opera agli anni 949, 950, 951 (p. 4-70). Lo storico critico (p. 34-107) s'ingegna provare l'esistenza e le geste del Duca Almo, padre di Arpad, cose tacitamente ricusate da Costantino.

91. Il Pray (Dissert. p. 37-39) riporta, e chiarisce i passi originali de' missionarj ungaresi, Bonfini ed Enea Silvio.

92. Vedonsi ne' deserti posti a libeccio di Astrakan, le rovine di una città detta Madsciar, che attesta essere soggiornate in questi luoghi bande di Ungaresi, o Magyar (Précis de la Géogr. univ., di Malte-Brun, t. I, pag. 353). (Nota dell'edit.)

93. Il Fischer (Quaestiones petropolitanae, de origine Hungarorum) e il Pray (Dissert. 1, 2, 3, ec.), hanno pubblicate diverse tavole di confronto fra la lingua degli Ungaresi, e i dialetti finnici. L'affinità è grande; ma brevi sono i cataloghi, e le parole che ne' medesimi si rinvengono, sono state scelte con troppo studio. Leggo poi nel dotto Bayer (Comment. acad. Petropol., t. X, p. 374) che, comunque la lingua degli Ungaresi abbia ammesso un grande numero di voci finniche (innumeras voces), le due lingue differiscono fra loro toto genio et natura.

94. Nel paese di Turfan che i geografi cinesi chiaramente e partitamente descrivono (Gaubil, Histoire du grand Gengis-Kan, pag. 13; de Guignes, Histoire des Huns, t. II, pag. 31 ec.).

95. Historia genealog. de' Tartari, di Abulghazi-Bahadur-Khan (part. II, p. 90-98).

96. Isbrand Ives (Harris's Collection of Voyages and Travels, vol. II, p. 920, 921), e Bell (Travels, v. I, p. 174), andando alla Cina, trovarono i Vogulitz ne' dintorni di Tobolsk. Mettendo i vocaboli alla tortura, come gli etimologisti hanno l'arte di fare, Ugur e Vogul offrono il medesimo nome. Le montagne circonvicine vengono di fatto chiamate Ugriane, e fra tutti i dialetti finnici, il voguliano è quello che si avvicina meglio all'ungarese (Fischer, Disser. I p. 20-30; Pray, Dissert. 2, p. 31-34).

97. Le otto tribù della schiatta finnica veggonsi descritte nella opera apprezzabilissima del signor Levesque (Hist. des Peuples soumis à la domination de la Russie, t. I, p. 361-561).

98. Questa pittura degli Ungaresi e de' Bulgari è tratta principalmente dalla Tattica di Leone (p. 796-801), e dagli Annali latini riportati dal Baronio, dal Pagi, e dal Muratori, A. D. 889 ec.

99. Buffon (Hist. nat., t. V, p. 6, in 12). Gustavo Adolfo si accinse, ma senza frutto, ad instituire un reggimento di Lapponi. Il Grozio parlando di queste tribù antiche si esprime: Arma, arcus et pharetra, sed adversus feras (Annal. l. IV, pag. 236). Indi, conformandosi all'esempio di Tacito, procura di colorare con una vernice filosofica la brutale ignoranza di costoro.

100. Dalle osservazioni di Leone apparisce che il governo dei Turchi era monarchico; e che presso queste genti si usava di rigorose punizioni (Tattica p. 86; απεινεις και βαρειας). Reginone (in Chron., A. D. 889) mette il furto fra i delitti capitali, il che è confermato dal codice originale di S. Stefano (A. D. 1016). Se uno schiavo commettea un delitto, per la prima volta gli venia tagliato il naso obbligandolo a pagar cinque vacche; la seconda volta perdea le orecchie ed era costretto ad un'ammenda simile alla prima; la terza volta veniva punito di morte; quanto all'uomo libero non soggiaceva al supplizio capitale che dopo il quarto delitto, giacchè in pena del primo perdea soltanto la libertà (Katona, Hist. regum hungar., t. I, p. 231, 232).

101. V. Katena, Hist. ducum Hungar., p. 321-352.

102. Hungarorum gens, cujus omnes fere nationes expertae saevitiam, etc. Così comincia la prefazione di Luitprando, (l. I, c. 2 ) che assai si diffonde sulle sciagure della sua età (V. l. I, c. 5; l. II, c. 1, 2, 4, 5, 6, 7, l. III, c. 1, ec. l. V, c. 8, 15, in Legat. p. 485). Le tinte di questo Storico sono vivaci, ma fa duopo correggerne la cronologia, seguendo le osservazioni del Pagi, e del Muratori.

103. Il Katona (Hist. ducum ec. p. 107-499) ha diffusa la luce della critica sui tre regni sanguinosi di Arpad, di Zoltano e di Toxo. Egli ha cercato accuratamente tutto quanto riferivasi ai nativi del paese, e agli stranieri; nondimeno a questi annali di gloria e di devastazione ho aggiunta la distruzione di Brema; fatto storico che l'Autore sembra avere ignorato; così Adamo di Brema (1, 43).

104. Il Muratori con patriottica accuratezza ha esaminati i pericoli ai quali fu esposta Modena, e i modi che questa città avea per liberarsene. I cittadini supplicarono S. Geminiano loro avvocato a distorre da essi, mediante la sua intercessione, la rabies, il flagellum etc.

Nunc te rogamus, licet servi pessimi,

Ab Ungarorum nos defendas jaculis.

Il Vescovo edificò mura per la pubblica difesa, non già contra Dominos serenos (Antiq. Italic. med. aevi, t. I, Dissert. 1, p. 21, 22); e la canzone della guardia notturna non è priva di eleganza e di utilità (t. III, Dissert. 40, p. 709). Questo Autore degli Annali d'Italia ha accennata con molta esattezza la sequela delle correrie degli Ungaresi (Annali d'Italia, t. VII, p. 365-367-393-401-437-440; t. VIII, p. 19-41-52 ec.).

105. Gli annali dell'Ungheria e della Russia suppongono che gli Ungaresi assalissero, assediassero, o per lo meno insultassero Costantinopoli (Pray, Dissert. 10, pag. 239; Katona, Hist. ducum, p. 354-360). Gli Storici di Bisanzio (Leone Grammatico, p. 506; Cedreno t. II, p. 629) quasi concedono un tal fatto; ma il Katona, ed anche il notaio di Bela, lo impugnano, o certamente lo mettono in dubbio, benchè glorioso, alla loro nazione. Degno d'elogi è un tale scetticismo: certamente non poteano nè copiare, nè ammettere le rusticorum fabulae; ma il Katona avrebbe dovuto far caso della testimonianza di Luitprando: Bulgarorum gentem atque GRAECORUM tributariam fecerant (Hist., l. II, c. 4, p. 435).

106.

─ λεονθ’ ως δηρινθητην

Οτ’ ουρεως κορυφεσι περι κταμενης ελαφιοιο

Αμφω πειναοντε μεγα φρονεοντε μαχεςθον

Contendeano come due leoni i quali nelle vette di un monte combattono affaticati e animosi per una cerva uccisa.

107. Il Katona (Hist. ducum, p. 360-368-427-470) discute a lungo tutto quanto a queste due battaglie si riferisce. Luitprando (l. II, c. 8, 9) offre sicurissime testimonianze intorno alla prima, e Witichin (Annal. Saxon. l. III) sulla seconda; ma uno Storico critico non potrà starsi dal far qualche osservazione sulla cornetta d'un guerriero conservata, ivi dicesi, a Jaz-Berin.

108. Hunc vero triumphum tam laude quam memoria dignum, ad Meresburgum rex in superiori caenaculo domus per ζωγραφιαν, idest, picturam notari, praecepit, adeo ut rem veram potius quam verisimilem videas (Luitprand. l. II, c. 9). Carlomagno avea fatti dipingere argomenti sacri in un altro palagio dell'Alemagna, e il Muratori giustamente osserva: nulla saecula fuere in quibus pictores desiderati fuerint(Antiqu. ital. med. aevi, t. II, Dissert. 24, p. 360, 361). Le pretensioni degli Inglesi all'antichità dell'ignoranza e dell'imperfezione originale, per valermi delle pungenti espressioni del Signor Walpole, hanno una data assai più recente (Anecdotes of Painting, vol. I, p. 2 ec.).

109. Non è superstizione l'invocare i Santi nelle disgrazie; il Cattolico che gli ammette e crede alla loro intercessione sente, chiamandoli, un conforto alla sua debolezza, e al tristo suo stato; perchè toglierglielo? (Nota di N. N.)

110. V. Baronio (Annal. Eccles. A. D. 929, n. 2, t. 5), Luitprando (l. IV, c. 12); Sigeberto, e gli Atti di S. Gerardo, testimonj di fede degnissimi, parlano della lancia di Gesù Cristo; ma quanto ho detto delle altre reliquie, non è fondato che su l'opera Gesta Anglorum post Bedam, (l. XI, cap. 8).

111. Katona (Hist. ducum Hungar. p. 500, ec.).

112. Fra queste colonie possono distinguersi, 1. i Chazari, o Cabari che si unirono agli Ungaresi. (Costant. De admin. imper. c. 39, 40, p. 108, 109); 2. i Giazigi, i Moravi e i Siculi che gli Ungaresi trovarono sul territorio ove posero domicilio; questi ultimi, forse gli avanzi degli Unni di Attila, ebbero l'incarico di guardare i confini; 3. i Russi, che, come gli Svizzeri oggidì presso i Francesi, diedero il loro nome ai portinai de' reali palagi; 4. i Bulgari, i Capi de' quali (A. D. 956) vennero chiamati, cum magna multitudine HISMA-HELITARUM. Che mai alcuni di questi Schiavoni avessero abbracciato l'Islamismo? 5. i Bisseni, e i Cumani, miscuglio di Patzinaciti, di Uzi e di Cazari ec., dilatatisi fino alla parte infima del Danubio. I Re Ungaresi (A. D. 1239) ricevettero e convertirono l'ultima colonia di quarantamila Cumani, e da essi ottennero un nuovo titolo (Pray, Diss. 6, 7, p. 109-173; Katona, Hist. ducum, pag. 95-99, 259-264, 476-479; 483, ec.).

113. Christiani autem, quorum pars major populi est, qui ex omni parte mundi illuc tracti sunt captivi, ec. Così parlava Piligrino il primo missionario che entrasse nell'Ungheria (A. D. 973). Pars major è molto dire (Hist. ducum, p. 517).

114. Gli antichi diplomi fanno menzione de' fideles Teutonici di Geisa; e il Katona colla solita sua abilità è giunto a calcolare con giustezza la forza di queste colonie, cotanto esagerata dall'italiano Ranzani (Hist. crit. ducum, p. 567-681).

115. Presso i Greci questo nome di nazione è espresso da Ρως, Ros, parola indeclinabile, che ha dato luogo a molte immaginarie etimologie. Ho letta con piacere e vantaggio una dissertazione De origine Russorum (Comment. acad. Petropolitanae, t. VIII, p. 388-436) di Teofilo Sigefredo Bayer, Alemanno pieno di dottrina, che ha consacrate le sue fatiche e la vita al servigio della Russia. Ho profittato parimente di un tratto di Geografia del d'Anville, intitolato; de l'Empire de Russie, son origine et ses accroissemens (Parigi, 1772, in 12).

116. V. tutto il passo (dignum, dice il Bayer, ut aureis in tabulis figatur) negli Annales Bertiniani Francorum (in Script. ital. Muratori, t. II, part. I, p. 525) A. D. 839, 22 anni prima dell'era di Ruric. Luitprando che viveva nel duodecimo secolo parla (Hist. l. V, cap. 6) de' Russi e dei Normanni, come di que' medesimi Aquilonares homines, fattisi soprattutto discernere per la vivacità del lor colorito.

117. Io non conosco questi Annali che dalla storia della Russia del signor Levesque. Nestore il primo e il migliore fra i compilatori degli Annali russi era monaco a Kiovia, e morì nel principio del duodicesimo secolo. Ma la Cronaca da esso composta è rimasta poco meno che sconosciuta sino al 1767, nel qual tempo è stata pubblicata in 4.º a Pietroburgo. (Levesque, Hist. de Russie, t. I, p. 16; Coxe's Travels, vol. II, pag. 184)[118].

118. Abbiamo ora una traduzione degli Annali di Nestore eseguita dall'erudito Schloetzer che vi ha aggiunte note, preziose massimamente per coloro che di conoscere le antichità russa hanno vaghezza. (Nota dell'Editore)

119. Theophil. sig. Bayer, De Varagis (Così il Bayer li denomina) in Comment. Acad. Petropolitanae, tom. IV, p. 275-311.

120. Ciò nullameno, nell'anno 1018, Kiovia e la Russia erano tuttavia difese, ex fugitivorum servorum robore, confluentium et maxime Danorum. Il Bayer, citando (p. 292) la Cronaca di Ditmar, di Merseburgo, fa osservare che gli Alemanni non prestavano servizio nelle truppe straniere.

121. Il Ducange ha raccolti i passi degli autori originali che hanno scritto dello stato, e della storia de' Varangi a Costantinopoli (Gloss. med. et infim. graecitatis, sub voce βαραγγοι; med. et infim. latinitatis, sub voce Vagri. Not. ad Alex. Annae Comnenae, p. 256, 257, 258; Notes sur Villehardouin, p. 296-299). V. ancora le note del Reiske sul Ceremoniale aulae Byzant. di Costantino t. II, p. 149, 150. Sassone il Grammatico assicura che essi parlavano la lingua danese; ma se si crede al Codino si valsero fino al decimoquinto secolo, dell'inglese, come idioma nativo. Πολυχρονιζουσι Βαραγγοι κατα την πατριην γλωσσαν αυτων ητοι Ιγκιληνισι. Perseverano i Varangi nella lingua patria come nell'inglese.

122. Le nozioni che abbiamo sulla geografia, e sul commercio della Russia vennero pubblicate in quel tempo dall'imperatore Costantino Porfirogeneta (De administrat. imperii, c. 2, p. 55, 56, c. 9, p. 59-61, c. 13, p. 63-67; c. 37, p. 106, c. 42, p. 112, 113), e rischiarate per le cure del Bayer (De geographia Russiae vicinarumque regionam circiter, A. D. 948, tra Comment. academ. Petropol., t. IX, p. 367-422, t. X, p. 371-421) col soccorso delle Cronache e delle tradizioni della Russia, della Scandinavia ec.

123. Il signor Levesque (Histoire de Russie t. I, p. 60), attribuisce ai tempi che il regno di Ruric precedettero questo orgoglioso proverbio: «Chi può resistere a Dio, e alla grande Novogorod?» Nel corso della sua Storia egli parla frequentemente di questa Repubblica, distrutta poi nell'anno 1475 (tom. II, p. 252-266). Un esatto viaggiatore, Adamo Oleario, descrive (nel 1035) gli avanzi di Novogorod, e la via che tennero per mare e per terra gli ambasciadori di Holstein (tom. I, p. 123-129).

124. In hac magna civitate, quae est caput regni, plus trecentae Ecclesiae habentur et nundinae octo, populi etiam ignota manus (Eggehardus, ad A. D. 1018, apud Bayer, t. IX, p. 412). Egli cita parimente (t. X, p. 397) le parole dell'Annalista sassone: Cujus (Russiae) metropolis est Chive, aemula sceptri constantinopolitani, quae est clarissimum decus Graeciae. Kiovia, soprattutto nell'undecimo secolo, era conosciuta dai geografi arabi ed alemanni.

125. In Odorae ostio, qua scythicas alluit paludes, nobilissima civitas, Julinum, celeberrimam Barbaris, et Graecis qui sunt in circuitu, praestans stationem, est sane maxima omnium quas Europa claudit vivitatum (Adamo di Brema, Hist. eccles., p. 19); stravagante esagerazione anche nel labbro di uno scrittore dell'undicesimo secolo. L'Anderson (Hist. Deduction of Commerce) ha trattato accuratamente tutto quanto al commercio del Baltico e alla Lega anseatica si appartiene: su di tale argomento non conosco, nelle lingue almeno che ci sono famigliari, alcun'altra opera così compiuta.

126. Stando alle nozioni somministrate da Adamo di Brema (De situ Daniae, p. 58) l'antica Curlandia per un tratto di otto giornate prolungavasi sulla costa; e Pietro il Teutoburgico (p. 68, A. D. 1326) assegna Memel, qual frontiera comune alla Russia, alla Curlandia e alla Prussia. Aurum ibi plurimum (dice Adamo) divinis, auguribus atque necromanticis omnes domus sunt plenae... a toto orbe ibi responsa petuntur, maxime ab Hispanis (forsan ZUPANIS, id est regulis Lettoviae) et Graecis. Davasi ai Russi il nome di Greci, anche prima della loro conversione; conversione imperfetta assai, se conservarono l'uso di consultare gli stregoni della Curlandia. (Bayer, t. X, p. 378-402 ec. Grotius Prolegomen., ad Hist. goth., p. 99).

127. Costantino accenna solamente sette cateratte delle quali indica i nomi in lingua russa e schiavona. Ma tredici ne addita il signor di Beauplan, ingegnere francese, che avea esaminato il corso e la navigazione del Dnieper e del Boristene. (V. la sua descrizione De Lucrania, Rouen 1660, picciolo in 4). Sfortunatamente la carta che accompagna quest'opera non trovasi unita all'esemplare che io ne posseggo.

128. Nestore, (presso Levesque, Hist. de Russie; t. I, p. 78-80). I Russi, vi si dice, si trasferivano dal Dnieper o dal Boristene nella Bulgaria Nera, nella Chozaria e nella Siria. Nella Siria! e come, e in qual tempo, e in qual porto? Invece di Συρια Siria non potrebbe egli leggersi Σκανια Scania (De administ. imper., c. 42, p. 113)? Il cambiamento è leggiero. La situazione della Scania, posta fra la Chozaria e il Lazico spiegherebbe il tutto, tanto più che questo nome adoperavasi anche nell'undicesimo secolo (Cedrenus, tom. II, pag. 770).

129. Le guerre accadute ne' secoli nono, decimo e undecimo fra i Russi ed i Greci, vengono raccontate negli Annali di Bisanzio, e soprattutto dal Zonara e da Cedreno; e le diverse testimonianze di questi scrittori trovansi unite nella Russica dello Stritter (t. II, part. II, p. 939-1044).

130. Προσεταιρισαμενος δε και συμμαχικον ου ολιγον αρο των κατοικουντων εν ταις προσαρκτιοις του Οκεανου νησοις εθων. Trasferendo anche non pochi commilitoni dalle genti che abitavano nelle isole settentrionali dell'Oceano. (Cedren., in Compend., p. 758).

131. V. Beauplan (Description de l'Ukraine, pag. 54-61). I racconti di questo autore sono vivaci, esatte le sue descrizioni; ed, eccetto l'armi da fuoco, quanto egli accenna de' moderni Cosacchi può perfettamente agli antichi Russi applicarsi.

132. Abbiamo a dolerci che il Bayer non abbia pubblicato che una dissertazione De Russorum prima expeditione Constantinopolitana (Comment. acad. Petrop. t. VI, p. 365-391). Dopo avere fatto sparire alcune cronologiche difficoltà, ei porta l'epoca di una tale spedizione agli anni 864, o 865, la qual data avrebbe dovuto dileguare i dubbj, e render meno ardue le difficoltà che si trovano sul principio della storia del sig. Levesque.

133. Nel tempo che Fozio scrivea la sua lettera circolare sulla conversione de' Russi, il miracolo non era per anco maturo. Egli rimprovera alla nazione, εις ωμοθητα και μιαιφονιαν παντας δευτερους ταττομενον che educava tutti gli ultimi alla crudeltà e alla strage.

134. Leone il Grammatico, p. 463, 464; Constantini, continuator, in script, post. Theophaneum, pag. 121, 122; Simeon Logothet., p. 445, 446; Georg. Monach., p. 535, 536; Cedrenus, t. II, p. 551; Zonara, t. II, p. 162.

135. V. Nestore e Nicone nella Histoire de Russie, del signor Levesque (t. I, p. 74-80); il Katona (Hist. Ducum, p. 75-79) usa de' suoi privilegi per non ammettere una tal vittoria de' Russi, che toglierebbe splendore all'assedio di Kiovia operato dagli Ungaresi.

136. Leone il Grammatico, pag. 506, 507: Incert. Contin. p. 263, 264; Simeon Logothet, p. 490, 491; Georg. Monach, p. 588, 589; Cedrenus, t. II, p. 629; Zonara, t. II. p. 190, 191; e Luitprando (l. V, c. 6), che descrivendo le cose narrategli dal suocero suo, allora ambasciatore a Costantinopoli, corresse le esagerazioni della vanità de' Greci.

137. Non posso citare a tale proposito che Cedreno (t. II, p. 758, 759) e Zonara (t. II, p. 253, 254); ma le testimonianze di questi Scrittori divengono più sicure e meritevoli di fede, a proporzione del loro avvicinarsi ai tempi ne' quali vissero.

138. Nestore presso Levesque, Hist. de Russie, t. I, p. 87.

139. Questa statua di bronzo veniva da Antiochia, e i Latini la fusero. Supponeasi rappresentasse Giosuè o Bellorofonte. Bizzarra alternativa! V. Niceta Coniate; (p. 413, 414); Codino (De Originibus, C. P. p. 24); e l'Autore anonimo De Antiquitate C. P. (Banduri, Imp. orient. t. I, 17, 18) che vivea verso l'anno 1100. Essi attestano che credeasi alla profezia; non rileva il restante.

140. Il signor Levesque (Hist. de Russie, t. I, p. 94-107) ha composto, seguendo le Cronache russe, un epilogo della vita di Swatoslao, o Sviatosla, o finalmente Sphendosthlabus.

141. Somiglianza che scopresi con grande chiarezza nel nono libro dell'Iliade (205, 221), e nelle descrizioni della cucina di Achille. Un poeta che al dì d'oggi tal dipintura offerisse in una Epopea, il suo lavoro deturperebbe, nè si renderebbe grato ai lettori; ma i versi greci sono armoniosi; le espressioni di una lingua morta, rare volte, ignobili o troppo famigliari ne sembrano; oltrechè ventisette secoli trascorsi dai giorni di Omero aggiungono ai nostri occhi vezzo alle antiche costumanze.

142. Il singolare epiteto di Zimiscè dalla armena lingua deriva. I Greci traducevano la parola ζιμισκες giovandosi dell'altra μουζακιζες o μοιρακιζης. Il significato dell'una e dell'altra espressione essendomi ignoto egualmente, mi sarà lecito il chiedere come nella commedia: Di grazia quale è l'interprete di voi due? Ma dal modo della loro composizione sembra che corrispondano ad adolescentulus (Leone Diacono, l. IV, MS., ap. Ducange, Gloss. graec., p. 1570).

143. In lingua Schiavona, Peristhlaba, equivaleva a grande o illustre città, μεγαλη και ουσα και λεγομενη, la quale è veramente, e vien nomata grande, dice Anna Comnena (Alexiade, l. VII, p. 194). Della sua situazione posta fra il monte Emo e la parte inferior del Danubio, potrebbe dirsi che essa occupasse il luogo, o almeno all'incirca il luogo di Marcianopoli. Non troviamo difficoltà nel determinare la giacitura di Durostolo o Dristra che agevolmente si riconosce (Comment. Acad. Petropol. t. IX, p. 415, 416; d'Anville, Geogr. anc. t. I, p. 307-311).

144. Il libro De administratione imperii spiega, soprattutto ne' sette primi capitoli, la condotta politica tenutasi da' Greci verso i Barbari e specialmente coi Patzinaciti.

145. Nel racconto di una tale guerra, Leone il Diacono (presso il Pagi, Critica, t. II, A. D. 968-973) è più autentico, e porta maggiori particolarità di Cedreno (t. II, p. 660-683) e di Zonara (t. II, p. 205-214). Questi declamatori hanno fatto ascendere a trecento ottomila, e trecento trentamila uomini il numero delle truppe russe, calcolato con maggior moderazione e verisimiglianza dai contemporanei.

146. Phot. epist. 2, n. 35, pag. 58 ediz. Montacut. Questo dotto editore non avrebbe dovuto confondere il grido di guerra de' Bulgari colle due parole το Ρως il Ros, le quali non vogliono dir altro che nazione russa; nè Fozio, uom di senno, dovea accusare gli idolatri schiavoni της Σλληνικης και αθειου δοξης, di greca ed atea fede. Essi non erano nè Greci nè Atei.

147. Le notizie più compiute che abbiansi su la religione degli Slavi e la conversion della Russia, son quelle offerteci dal Signor Levesque nella sua Hist. de Russie, da esso dedotta, così dalle antiche Cronache, come dalle osservazioni che su queste i moderni hanno fatte, (t. I, p. 35, 54, 59-92, 93, 113-121, 124-129, 148, 149 ec.).

148. V. il Cerem. aulae byzant., t. II, c. 15, p. 343-345, ove Olga o Elga vien nominata Αρχοντισσα Ρωσιας, Principe della Rosia. I Greci, per indicare la sovrana delle Russie adopravano il titolo di un magistrato di Atene terminato in desinenza femminina, la qual cosa avrebbe stranamente sonato all'orecchio di Demostene.

149. V. un frammento anonimo pubblicato dal Banduri (Imper. or. t. II, p. 112, 113. De conversione Russorum).

150. L'Erbestein (apud Pagi, t. IV, pag. 56) narra, che Valadimiro fu battezzato e maritato a Cherson o Corsun. Novogorod conserva anche ai dì nostri tale tradizione, e le porte delle quali parlato abbiamo nel testo. Nondimeno un viaggiatore ed osservatore esatto pretende venute da Magdeburgo queste porte di bronzo, (Coxe's, Travels into Russia ec., v. I, p. 452) e cita un'iscrizione che par fatta per dimostrare tale assunto. I leggitori non debbono confondere questa Cherson, città della Tauride, o della Crimea, con una città del medesimo nome, stata fabbricata alla foce del Boristene, e di recente illustrata da un parlamento che vi hanno tenuto Caterina II e l'Imperatore Giuseppe.

151. V. Il testo latino o la versione inglese dell'eccellente Storia della Chiesa del Mosheim, al primo capitolo, ossia alla prima Sezione intorno ai secoli nono, decimo e undecimo.

152. Non solo la religione cristiana differiva, e differisce nella teoria dall'antico culto degli idoli, come già abbiamo altrove mostrato, ma anche nella pratica; in questo culto, per esempio, v'erano i sacerdoti particolari di Giove, di Marte, di Cerere; nel culto cristiano non ci sono che i sacerdoti, o ministri di Dio; gli altri oggetti del culto cristiano non hanno sacerdoti proprj: quanto poi a questi oggetti, cioè alla teoria del culto delle imagini, ripetiamo ciò che ne abbiamo detto in una nota al vol. IX. (Nota di N. N.)

153. Nel 1000, gli ambasciadori di S. Stefano ricevettero da Papa Silvestro il titolo di Re d'Ungheria, e il donativo d'un diadema che era lavoro di artisti greci. Doveva esserne presentato il Duca di Polonia, ma i Polacchi, per lor confessione medesima, erano troppo barbari, e immeritevoli quindi di una corona angelica ed appostolica. (Katona, Hist. crit. regum stirpis Arpadianae, t. I, p. 1-20).

154. Si ascoltino i cantici trionfali di Adamo di Brema (A. D. 1080) che hanno un fondo di verità: Ecce illa ferocissima Danorum, etc. natio..... jamdudum novit in Dei laudibus alleluia resonare.... Ecce populus ille piraticus... suis nunc finibus contentus est. Ecce patria, horribilis semper, inaccessa propter cultum idolorum... praedicatores veritatis ubique certatim admittit, etc. (De situ Daniae, etc., p. 40, 41, ediz. Elzevir); opera ove scorgesi una pittura originale e dilettevole del Nort dell'Europa, e della introduzione del Cristianesimo in questa parte del Mondo.

155. I grandi principi abbandonarono nel 1156 la residenza di Kiovia, smantellata indi dai Tartari nel 1240. Mosca divenne nel secolo XIV la sede dell'Impero. V. il primo e secondo volume della Hist. de Russie, del signor Levesque, e i Viaggi di Coxe nel Nort, t. I, p. 241.

156. Gli ambasciatori di S. Stefano aveano adoperate le rispettose espressioni di regnum oblatum, debitam obedientiam, etc. che Gregorio VII alla lettera interpretò; onde gli Ungaresi sonosi trovati impacciati fra la santità del Papa e l'independenza della Corona (Katona, Hist. critica, tom. I, p. 20-25, t. II, p. 304, 346, 360 ec.)

157. In quanto spetta alla storia d'Italia dei secoli nono e decimo, posso citare i libri quinto, sesto, e settimo del Sigonio, De regno Italiae (secondo volume delle sue opere, ediz. di Milano 1732): gli Annales del Baronio colla critica del Pagi: il settimo e ottavo libro della Istoria civile del regno di Napoli, del Giannone: il settimo e ottavo volume degli Annali d'Italia del Muratori (ediz. in 8), e il secondo volume dell'Abrégé chronologique del signor di Saint-Marc, opera che sotto un titolo superficiale molta dottrina, e indagini molte racchiude. Accerto i miei leggitori, e conoscendo eglino adesso il mio metodo di scrivere la Storia dovrebbero crederlo facilmente, che fin dove ho potuto, e tutte le volte che era utile il farlo, ho portate le mie ricerche a tutte le fonti primitive, e soprattutto ho accuratamente consultati gli originali dei primi volumi della grande Raccolta intitolata Scriptores rerum ital. del Muratori.

158. Il dotto Camillo Pellegrino, che viveva a Capua nel secolo XVII, ha rischiarata la storia del ducato di Benevento nella sua Historia principum longobardorum. V. i Scriptores el Muratori (t. II, part. I, p. 221-345; e t. V, p. 159-245).

159. V. Costantino Porfirogeneta, De thematibus, lib. II, c. 11, in vit. Basil. c. 55, p. 181.

160. La lettera originale dell'imperatore Luigi II all'imperatore Basilio, curioso monumento del nono secolo, è stata per la prima volta pubblicata dal Baronio (Annal. eccles., A. D. 871 n. 51-71), che ha seguìto un manoscritto dell'Erenperto, o piuttosto dello Storico Anonimo di Salerno, tratto dalla Biblioteca del Vaticano.

161. V. l'eccellente dissertazione De republica Amalphitana, nella Appendix (p. 1-42) della Historia Pandectarum(Trajecti ad Rhenum, 1722 in 4) di Enrico Brencmann.

162. Il vostro signore, dicea Niceforo, ha dato soccorso e protezione, principibus capuano et beneventano, servis meis, quos oppugnare dispono.... Nova (piuttosto Nota) res est od eorum patres et avi, nostro imperio tributa dederunt (Luitprando, in Legat., p. 484). Non si fa qui menzione di Salerno; pur fu in questi giorni all'incirca che questo principe cambiò di parte, e Camillo Pellegrino (Script. rer. ital., t. II, part. I, p. 285) ha osservato con molta accortezza questo cambiamento nello stile della Cronaca Anonima. Luitprando (p. 480) fonda su prove dedotte dalla Storia e dalla Lingua i diritti dei Latini sulla Puglia e sulla Calabria.

163. V. I Glossarj greci e latini del Ducange (articoli Κατεπανο Catapana) e le sue note sull'Alexiade (pag. 275). Egli non ammette l'idea de' contemporanei che derivar faceano questo vocabolo da Κατα παν, juxta omne; e trova soltanto che essa è una corruzione del vocabolo latino capitaneus. Il signor di Saint-Marc osserva però giustamente (Abrégé chronolog., t. II, pag. 924) che in quel secolo i Capitanei non erano Capitani, ma solamente i Nobili di primo ordine, i grandi sottovassalli dell'Italia.

164. Ου μονον δια πολεμων ακριβως ετεταγμενον το τοιουτον υπηγαγε το εθνος (i Lombardi) αλλα και αγχινοια χρησαμενος, και δικαισυνη και χρηστοτητι επιεικως τε τοις προσερχομενοις προσφερομενος και την ελευθεριαν αυτοις πασης τε δουλειας, και των αλλων φορολογικων χαριξομενος, non solamente con guerre saggiamente condotte assoggettò la nazione (i Lombardi); ma usando d'ingegno, e colla giustizia e l'indulgenza egualmente proferendosi a' nuovi sudditi, e facendo lor grazia della libertà franca, da ogni servitù e dagli altri tributi usitati (Leone, Tattica, c. 15, pag. 741). La Cronaca di Benevento (t. II, part. I, p. 280) offre una idea ben diversa de' Greci in que' cinque anni (891-894) che Leone signoreggiò la città.

165. Calabriam adeunt, eamque inter se divisam reperientes, funditus depopulati sunt (o depopularunt) ita ut deserta sit velut in diluvio. Tale è il testo di Eremperto o Erchemperto, giusta le due Edizioni del Caraccioli (Rerum ital. script. t. V, p. 23) e di Camillo Pellegrino (t. II, part. I, p. 246) opere rarissime al tempo che il Muratori le ha pubblicate di nuovo.

166. Il Baronio (Annal. eccles. A. D. 874 n. 2) ha tratta questa storia da un manoscritto di Eremperto, che morì a Capua, quindici anni dopo un tale avvenimento. Ma un falso titolo ha ingannato questo Cardinale, e noi non possiamo citare che la Cronaca Anonima di Salerno (Paralipomena, c. 110), composta verso la fine del decimo secolo, e pubblicata nel secondo volume della Raccolta del Muratori. V. le Dissertazioni di Camillo Pellegrino (t. II, part. I, pag. 231-281 ec.).

167. Costantino Porfirogeneta (in vit. Basil. c. 58, p. 183) è il primo autore che racconti questo fatto. Ma lo pone accaduto sotto i regni di Basilio e di Lodovico II, mentre la riduzione di Benevento operata dai Greci, non avvenne che nel 891, vale a dire dopo la morte di questi due principi.

168. Paolo Diacono (De gest. Longob., l. V, c. 7, 8, p. 870, 871, ediz. Grot.) racconta un fatto simile, accaduto nel 663 sotto le mura della stessa città di Benevento; ma attribuisce ai Greci il delitto di cui gli autori di Bisanzo incolpano i Saracini. Dicesi che nella guerra del 1756 il signor di Assas, ufiziale del reggimento di Auvergne, si consecrasse in egual modo alla morte: ed anzi con maggiore eroismo, perchè i nemici che lo aveano fatto prigioniere, non gli chiedeano che il silenzio. (Voltaire, siècle de Louis XV, c. 33, t. IX, p. 172).

169. Tebaldo che Luitprando colloca fra gli eroi, fu, propriamente parlando, duca di Spoleto e marchese di Camerino dall'anno 926 al 935. Il titolo e l'impiego di marchese (comandante della Marca, o della Frontiera) era stato introdotto in Italia dagl'imperatori francesi (V. Abrégé chronologique, t. II, p. 645-732, ec.).

170. Luitprando, Hist., l. IV, c. 4, Rerum italic. scriptores, t. I, part. I, p. 453, 454. Se qualcuno trovasse troppo libera tal descrizione sarei costretto ad esclamare col povero Sterne: «Duolmi di non potere trascrivere con circospezione quelle cose che senza scrupolo un vescovo ha scritte; sarebbe stato ben peggio se avessi tradotto alla lettera ut viris certetis testiculos amputare, in quibus nostri corporis refocillatio, etc.».

171. I monumenti che ci restano del soggiorno de' Normanni in Italia, sono stati raccolti nel quinto volume del Muratori; fra i quali monumenti conviene distinguere il poema di Guglielmo Pugliese (p. 245-278) e la storia di Galfridus (Gioffredo) Malaterra (p. 537-607). Nati entrambi in Francia, i ridetti autori scrivevano in Italia, colla robusta franchezza di uomini liberi ai giorni de' primi conquistatori (prima dell'anno 1100). Non fa di mestieri il ripetere i nomi de' compilatori e critici della Storia d'Italia, Sigonio, Baronio, Pagi, Giannone, Muratori, Saint-Marc ec. da me consultati sempre, e non copiati giammai.

172. Alcuni fra i primi convertiti si fecero battezzare dieci, o dodici volte, affine di ricevere dieci o dodici volte la tonaca bianca che era d'uso il dare in dono ai Neofiti. Ai funerali di Rollone, furono fatte largizioni ai monasteri pel riposo dell'anima del defunto, e sagrificati cento prigionieri; ma nello spazio di una, o due generazioni, il cambiamento fu compiuto e generale.

173. I Normanni di Bayeux, città situata sulla costa marittima, parlavano tuttavia (A. D. 940) la lingua danese, mentre a Rouen la Corte e la Capitale l'avevano dimenticata. Quem (Riccardo I) confestim pater Baiocas mittens Botoni militiae suae principi nutriendum tradidit, ut ibi LINGUA eruditus DANICA suis exterisque hominibus sciret aperte dare responsa (Wilhelm Gemeticensis, De ducibus Normannis, l. III, cap. 8, pag. 623, edizione di Camden). Il Selden (Opera, t. II, pag. 1640, 1656) ha offerto un saggio della lingua naturale e favorita di Guglielmo il Conquistatore (A. D. 1035), saggio troppo vieto ed oscuro ai dì nostri anche per gli Antiquari, e pei Giureconsulti.

174. V. Leandro Alberti (Descrizione d'Italia, p. 250) e Baronio (A. D. 493, n. 43). Quando anche l'Arcangelo avesse ereditato il tempio dell'oracolo e come è presumibile la caverna di Calcante, l'astrologo degli antichi (Strabone, Geogr. l. VI, pag. 435, 436), i Cattolici in questo caso colla eleganza della loro superstizione aveano superati i Greci.

175. I Normanni erano pel loro valore conosciuti in Italia; alcuni anni prima, cinquanta de' loro cavalieri trovatisi a Salerno nel tempo che un'armatetta di Saracini veniva ad affrontar la città, chiesero armi e cavalli a Guaimaro III, allora principe di Salerno, e chiesto si aprissero loro le porte della città, fecero impeto ne' Saracini e li sconfissero. Guaimaro divisava conservar questi guerrieri presso di sè. Ma volendo essi ripartire, si fece promettere che sarebbero tornati con altri prodi di lor nazione per combattere gl'Infedeli (Hist. des republ. ital., t. I, p. 263.) (Nota dell'Editore).

176. L'autore della storia delle repubbliche italiane al tomo I p. 267, racconta in ben altro modo la cosa. Dopo la ritirata dell'imperatore Enrico II, i Normanni, unitisi sotto gli ordini di Rainolfo, presero Aversa, in allora piccolo castello del ducato di Napoli; ne erano padroni da pochi anni, quando Pandolfo IV, principe di Capua s'impadronì di Napoli all'impensata. Sergio, duce delle soldatesche, e Capo della repubblica, uscì coi principali cittadini fuori di una città, ove non potea veder senza orrore una straniera dominazione introdursi. Si ritirò in Aversa, e allorchè col soccorso de' Greci, e dei cittadini rimasti fedeli alla loro patria ebbe raccolto quanto denaro bastava a saziare la cupidigia dei venturieri normanni, si valse de' loro soccorsi ad assalire la guernigione del principe di Capua, che egli sconfisse tornando indi in potere di Napoli. In questa occasione, confermò ai Normanni il possedimento di Aversa, e de' suoi dintorni, formandone una contea della quale conferì l'investitura a Rainolfo. (Hist. des republ. ital., t. I, p. 267). (Nota dell'Editore).

177. V. il primo libro di Guglielmo Pugliese. Le descrizioni di questo scrittor di versi possono adattarsi a tutti gli sciami di Barbari e di Filibustieri.

Si vicinorum quis PERNITIOSUS ad illos

Confugiebat, eum gratanter suscipiebant,

Moribus et lingua, quoscunque venire videbant,

Informant propria; gens efficiatur ut una.

e altrove quando parla de' venturieri Normanni, in cotal guisa si esprime.

Pars parat, exiguae vel opes aderant quia nullae;

Pars quia de magnis majora subire volebant.

178. Luitprand., in Legatione, p. 485. Il Pagi ha schiarito questo avvenimento seguendo il manoscritto storico del Diacono Leone (t. IV, A. D. 965, n. 17-19).

179. V. la Cronaca araba della Sicilia, nel Muratori (Script. rerum italic., t. I, p. 253).

180. V. Gioffredo Malaterra che narra la guerra della Sicilia e la conquista della Puglia (l. I, c. 7, 8, 9-19), Cedreno, (tom. II, p. 741-743, 755, 756) e Zonara (tom. II, p. 237, 238) descrivono gli avvenimenti medesimi: e poichè i Greci si erano già avvezzi alle umiliazioni, una sufficiente imparzialità scorgesi ne' loro racconti.

181. Cedreno specifica il ταλμα ordinanza militare dell'Obsequium (Phrygia) e il μεθος parte, de' Tracesii (Lydia), v. Costantino (De Thematibus, 1, 3, 4, con la carta del Sig. Delisle); e chiama indi i Pisidii, e i Licaonii col predicato foederati.

182.

Omnes conveniunt et bis sex nobiliores,

Quos genus et gravitas morum decorabat et aetas,

Elegere duces. Provactis ad comitatum

His alii parent. Comitatus nomen honoris,

Quo donantur erat. Hi totas undique terras

Divisere sibi, ni sors inimica repugnet,

Singula proponunt loca quae contingere sorte

Cuique ducis debent, et quaeque tributa locorum.

E dopo avere parlato di Melfi, Guglielmo Pugliese aggiunge:

Pro numero comitum bis sex statuere plateas,

Atque domus comitum tolidem fabricantur in urbe.

Leone d'Ostia (l. II, c. 67) ne istruisce in qual modo vennero distribuite le città della Puglia: ma inutile mi è sembrata una tal descrizione.

183. Guglielmo Pugliese (lib. II, c. 12). Mi fondo sopra una citazione del Giannone (Ist. civ. di Napoli t. II, p. 31), citazione che nell'originale non posso verificare. Il Pugliese loda le validas vires, probitas animi et vivida virtus di Braccio-di-Ferro, aggiugnendo che, se questo eroe fosse vissuto più lungamente, niun poeta avrebbe potuto pareggiarne il merito co' suoi canti (l. I, p. 258, l. II, p. 259). Braccio di ferro fu pianto dai Normanni, quippe qui tanti consilii virum dice il Malaterra (l. I, c. 12, p. 552) tam armis strenuum, tam sibi munificum, affabilem, morigeratum ulterius se habere diffidebant.

184. Malaterra (l. I, c. 3, pag. 550): Gens astutissima, injuriarum ultrix..... adulari sciens..... eloquentiis inserviens; espressioni che dimostrano qual fosse l'indole, fin passata in proverbio, de' Normanni.

185. Il genio della caccia, e l'uso di addestrare ad essa i falconi, apparteneano specialmente ai discendenti de' marinai della Norvegia; del rimanente è possibile che i Normanni abbiano portati dalla Norvegia e dall'Irlanda i più belli uccelli da falconeria.

186. Può confrontarsi questo ritratto, con quello che della stessa popolazione ha fatto Guglielmo di Malmsbury (De gest. Anglorum, l. III, p. 101, 102), il quale i vizj e le virtù de' Sassoni e de' Normanni colla bilancia dello storico e del filosofo apprezza. Certamente l'Inghilterra nell'ultima conquista ha vantaggiato.

187. Il Biografo di S. Leone IX avvelena santamente la descrizione che fa dei Normanni; Videns indisciplinatam et alienam gentem Normanorum, crudeli et inaudita rabie et plus quam pagana impietate adversus ecclesias Dei insurgere, passione christianos trucidare, etc. (Wibert, c. 6). L'onesto Pugliese si contenta di indicare con calma l'accusatore di questo popolo qual uomo veris commiscens fallacia (l. XI, p. 259).

188. Tutte queste particolarità che si riferiscono alla politica de' Greci, alla ribellione di Maniaces ec., possono vedersi in Cedreno (t. II, p. 757, 758), in Guglielmo Pugliese (l. I, p. 257, 258: l. II, p. 259), e in due Cronache di Bari lasciateci da Lupo Protospata (Muratori Script. rer. ital., t. V, p. 42, 43, 44), e da autore anonimo (Antiq. ital. med. aevi, t. I, p. 31-33). Quest'ultima è un frammento di qualche pregio.

189. Argiro ottenne, dice la Cronaca anonima di Bari, imperiali patenti, faederatus et patriciatus et catapani et vestatus. Il Muratori ne' suoi Annali (t. VIII., p. 426) fa giustamente una correzione, ossia interpretazione, su questa ultima parola. Egli legge sevestatus, vale a dire Sebastos, ossia di Augusto: ma nelle sue Antichità, seguendo il Ducange, fa di questo sevestatus, un officio di palagio, cioè quello di Gran Mastro della guardaroba.

190. Viberto ha composta una vita di S. Leone IX, ove si ravvisano le passioni e le massime pregiudicate del suo secolo; opera stampata a Parigi nel 1615 in 8.º, e inserita indi nelle Raccolte de' Bollandisti del Mabillon e del Muratori. Il signore di Saint-Marc (Abrégé t. II, p. 140-210, e p. 25-95) ha narrata con molta accuratezza la storia pubblica e privata di questo Pontefice.

191. Vuol dire qui l'Autore, che Leone IX il Santo aveva l'indole sì semplice, che poteva ingannare sè stesso, e colla sua autorità sugli animi del popolo, siccome Papa, indurre gli altri in inganno, senza volere, e senza avvedersi di essere ingannatore. Leone per la sua indole poteva ingannarsi ne' negozj familiari, o politici, ed indurre in inganno gli altri; ma nella cosa di cui trattavasi non sembra essersi potuto ingannare, nè essersi ingannato. Trattavasi di soccorrere gli abitanti della Puglia, e di far che i Normanni pagassero le decime ecclesiastiche: bisogna per altro confessare, che è, in quei tempi d'ignoranza e di barbarie, da condannarsi il costume di usare le armi, inducendo ad impugnarle i poveri popoli, per sostenere le censure, le scomuniche, fatte di tal maniera più spaventose. (Nota di N. N.)

192. V. intorno alla spedizione di Leone IX contra i Normanni, Guglielmo il Pugliese (l. II; p. 259-261) e Gioffredo Malaterra (l. I, c. 13, 14, 15, p. 253). Questi due autori danno a divedere imparzialità; perchè la preoccupazione nazionale che tiene gli animi loro, è contrabbilanciata da un'altra preoccupazione di mestiere, siccome preti.

193. Il Cattolico romano non chiama superstizioso il rispetto dei Normanni verso S. Leone IX: s'egli seguì il cattivo uso del suo tempo barbaro facendo la guerra a' Normanni pei motivi indicati, il buon credente sentirà che doveva a' Normanni, buoni cattolici, far grande impressione il vedere un Papa, generale d'un'armata nemica. (Nota di N. N.)

194.

Teutonici quia Caesaries et forma decoros

Fecerat egregie, proceri corporis illos,

Corpora derident normannica, quae breviora

Esse videbantur.

I versi del Pugliese non hanno per l'ordinario maggior pretensione: ma egli si anima poi quando gli accade il descriver battaglie. Due delle sue comparazioni, tratte dalla caccia del falco e della negromanzia, servono ad indicare i costumi dei suoi tempi.

195. Il signor di Saint-Marc (t. II, p. 200-204) cita le lamentanze, o le censure che sulla condotta del Pontefice vennero fatte in allora da rispettabili personaggi. Avendo Pietro Damiano, l'oracolo di quella età, ricusato ai Papi il diritto di far la guerra, il cardinale Baronio (Annal. eccles. A. D. 1053, n. 10-17) rimanda l'eremita al suo posto (Lugens eremi incola) sostenendo con calore le prerogative delle due spade di S. Pietro[*].

* Si sa qual uso siasi sempre fatto ne' secoli passati di quell'espressione dell'Evangelo: ecce duo gladii hic, asserendo la Corte romana, e sostenendo i Teologi di quella Chiesa, che una delle due spade era la figura della forza delle scomuniche e dell'autorità spirituale del Papa, e l'altra della sua autorità nelle cose temporali. Quanto al Cardinal Baronio sanno gl'illuminati ingegni, ch'egli ne' suoi Annali ecclesiastici spesse volte eccede in favorire la Corte di Roma, e che quell'Opera corretta dal dottissimo Pagi, e nell'istoria, e nella cronologia, e ne' ragionamenti, acquistò maggior pregio dalla critica di lui, che dall'autore, che ebbe il merito d'aver ordinato gli Annali, ma non discernimento nel trattare la materia, e ne' giudizj. (Nota di N. N.)

196. Il Giannone (Istor. civ. di Napoli, t. II, p. 37-49-57-66) discute con eguale abilità e come giureconsulto, e come antiquario, l'origine e la natura delle investiture pontificie: ma fa vani sforzi per conciliare insieme i doveri di patriota e di cattolico, e colla futile distinzione, Ecclesia romana non dedit, sed accepit, si sottrae alla necessità di una confessione sincera, ma pericolosa.

197. Le particolarità che riguardano la nascita, l'indole e le prime imprese di Guiscardo, trovansi in Gioffredo Malaterra (l. I, c. 3, 4-11-16, 17, 18-38, 39, 40), in Guglielmo Pugliese (l. II, pag. 260-262), in Guglielmo Gemeticense, o di Jumièges (l. XI, c. 30, p. 663, 664, ediz. di Camden), in Anna Comnena (Alexiade, l. I, p. 23, 27, l. VI, p. 165, 166) colle note del Ducange (Not. in Alex. p. 230-232-320), che ha raccolte tutte le Cronache latine e francesi, e nuovi schiarimenti ne ha tratti.

198. Ο δε Ρομπερτος (parola corotta alla Greca) ουτος ην Νορμαννος το γενος, την τυχην ασημος.... e altrove εξ αφανους πανυ τυχης περιφανης, Romperto (parola corrotta alla greca invece di Roberto) era Normanno di nazione, ignobile di nascita.... e altrove divenuto illustre dopo una nascita affatto oscura, e in un altro luogo (l. IV, p. 84) απο εουχατης πενιας και τυχης αφανους da una estrema miseria a da oscura nascita. Anna Comnena era nata per vero dir nella porpora; non così il padre suo di privata condizione, illustre bensì, ma innalzato dal merito solamente.

199. Il Giannone (t. II, p. 2), dimenticando i suoi autori originali, per far derivare Guiscardo da una schiatta principesca, si fida alla testimonianza d'Inveges, frate agostiniano di Palermo, che vivea nell'ultimo secolo. Questi due autori prolungano la successione dei Duchi, fino a Guglielmo II il Bastardo o il Conquistatore, che credevasi (comunemente si tiene) il padre di Tancredi di Altavilla. Questo errore è maiuscolo, ed eccita tanta maggior maraviglia, che allor quando il figlio di Tancredi guerreggiava nella Puglia, Guglielmo II non avea più di tre anni (A. D. 1037).

200. Il giudizio del Ducange è giusto e moderato: «Certe humilis fuit ac tenuis Roberti familia, si ducalem et regium spectemus apicem, ad quem postea pervenit; quae honesta tamen et, prater nobilium vulgarium statum et conditionem, illustris habita est, quae nec humi reperet, nec altum quid tumeret». (Guglielmo di Malmsb. De gest. Anglorum, l. III, p. 107, Not. ad Alexiad., p. 230).

201. Citerò alcuni de' migliori versi del Pugliese (lib. II, pag. 270),

Pugnat utraque manu, nec lancea cassa, nec ensis

Cassus erat, quocunque manu deducere vellet.

Ter dejectus equo, ter viribus ipse resumptis

Major in arma redit: stimulos furor ipse ministrat.

Ut leo cum frendens, etc.

· · · · · · · · · · · · · ·

Nullus in hoc bello, sicuti post bella probatum est,

Victor vel victus, tam magnos edidit ictus.

202. Gli autori e gli editori normanni che meglio conoscevano la loro lingua, traduceano la parola Guiscardo o Wiscard nell'altra Callidus, uomo scaltrito ed astuto. La radice Wise è famigliare agli orecchi inglesi, e l'antico vocabolo Wiseacre offre all'incirca lo stesso significato, e la medesima desinenza. Την χυχην πανουργοτατος esprime assai bene il soprannome e l'indole di Roberto.

203. La storia del modo onde Roberto Guiscardo si procacciò il titolo di Duca è un argomento assai intralciato ed oscuro. Seguendo le giudiziose osservazioni del Giannone, del Muratori e del Saint-Marc, ho procurato narrarla nella maniera più coerente e meno inverisimile.

204. Il Baronio (Annal. ecclesiast. A. D. 1059, n. 69) ha pubblicato l'Atto originale, ch'ei dice aver copiato dal Liber censuum, manoscritto del Vaticano. Ciò nondimeno il Muratori ha pubblicato (Antiq. med. aevi; t. V, p. 851-908) un Liber censuum, ove un tale atto non trovasi; e i nomi di Vaticano e Cardinale destano egualmente i sospetti d'un protestante e d'un filosofo.

205. V. la vita di Guiscardo nel II e III libro del Pugliese, nel I e II di Gioffredo Malaterra.

206. Il Giannone (vol. II della sua Istoria civile l. IX, X, XI, e l. XVII, p. 460-470) narra con imparzialità le conquiste di Roberto Guiscardo e di Ruggero I, l'esenzione di Benevento, e delle dodici province del regno. Questa ripartizione però accadde soltanto sotto il regno di Federico II.

207. Il Giannone (t. II, p. 119-127), il Muratori (Antiq. medii aevi, t. III, Dissert. 44, p. 935, 936), il Tiraboschi (Istor. della letteratura ital.) ne hanno offerto uno specchio storico de' medici della Scuola Salernitana. Quanto al giudicare la teorica e la pratica della lor medicina, è tal bisogna che ai nostri medici sol s'appartiene.

208. L'instancabile Enrico Brenckmann ha aggiunte sul finire della sua Historia Pandectarum (Trajecti ad Rhenum, 1722, in 4.), due dissertazioni, De Repubblica amalphitana e Da Amalphi a Pisanis direpta, fondate sulla testimonianza di cenquaranta scrittori; ma poi ha dimenticati i due importanti passi dell'ambasceria di Luitprando (A. D. 959), ove s'instituisce un parallelo fra il commercio e la navigazione di Amalfi e di Venezia.

209.

Urbs Latii non est hac delitiosior urbe,

Frugibus, arboribus vinoque redundat; et unde

Non tibi poma, nuces, non pulchra palatia desunt,

Non species muliebris, abest probitasque virorum.

Guglielmus Appulus, l. III, p. 267.

210. Il Muratori pretende che i versi di cui parlasi, sieno stati composti dopo l'anno 1066, epoca della morte di Odoardo il Confessore, rex Anglorum, al quale sono indiritti. Le opinioni intorno a ciò, o piuttosto gli sbagli del Pasquier (Recherches de la France, l. VII, c. 2), e del Ducange (Gloss. lat.) non indeboliscono in modo alcuno le prove del Muratori. Già nel settimo secolo, era conosciuta l'usanza de' versi rimati; usanza tolta alle lingue nortiche ed orientali (Muratori, Antiquit., t. III; Dissertat., n. 40, p. 686-708).

211. Esattissima ed assai poetica è la descrizione di Amalfi fatta da Guglielmo Pugliese (l. III, p. 267) co' seguenti versi, il terzo de' quali sembra alla bussola riferirsi:

Nulla magis locuples argento, vestibus, auro,

Partibus innumeris: hac pluribus urbe moratur

Nauta MARIS COELIQUE VIAS APERIRE PERITUS.

Huc et Alexandri diversa feruntur ab urbe

Regis, et Antiochi. Gens haec freta plurima transit.

His Arabes, Indi, Siculi nascuntur et Afri.

Haec gens est totum prope nobilitata per orbem,

Et mercando ferens, et amans marcata referre.

212. Il nostro Autore appoggia forse questo calcolo ai riferti de' viaggiatori eruditi che nel principio del secolo decimottavo visitarono Amalfi (Brenckm., De rep. Amalph. Diss. 1, c. 23); l'Autore però della Hist. des Rep. Ital., nel vol. I, p. 304, ne porta la popolazione a sei o ottomila abitanti. (N. dell'Ed.)

213. Latrocinio armigerorum suorum in multis sustentabatur, quod quidem ad ejus ignominiam non dicimus; sed, ipso ita praecipiente, adhuc viliora et reprehensibiliora dicturi sumus, ut pluribus patescat, quam laboriose et cum quanta angustia a profonda paupertate ad summum culmen divitiarum vel honoris attigerit. Così il Malaterra s'introduce a narrare il furto de' cavalli (lib. I, c. 25). Dal momento che questo autore fa menzione di Ruggero, suo mecenate (l. I, c. 19), Guiscardo, qual secondo personaggio, sol comparisce. Trovasi qualche cosa di somigliante nella condotta di Velleio Patercolo, Storico di Augusto e di Tiberio.

214. Duo sibi proficua reputans, animae scilicet et corpori, si terram idolis deditam ad cultum divinum revocaret (Gioffredo Malaterra, l. II, c. 1). I tre ultimi libri di questo Storico son dedicati a narrare la conquista della Sicilia; e lo stesso Malaterra ha composto il Sommario esatto de' suoi Capitoli (p. 544-546).

215. V. la parola milites nel Glossario latino del Ducange.

216. Fra le altre circostanze curiose, o bizzarre, il Malaterra ne racconta che gli Arabi aveano introdotto in Sicilia l'uso de' cammelli, (l. 1, c. 33), e de' colombi messaggeri (c. 42); che il morso della tarantola produce una malattia quae per anum inhoneste crepitando emergit; fenomeno assai ridicolo cui soggiacque tutto l'esercito de' Normanni, accampato sotto la mura di Palermo (c. 36). Aggiugnerò una etimologia che non è indegna dell'undicesimo secolo. Messana è derivato di Messis, luogo d'onde le biade venivano dalla Sicilia inviate in tributo a Roma (l. II, c. 1).

217. V. la capitolazione di Palermo nel Malaterra (lib. II, c. 45) e nel Giannone che parla sulla tolleranza generale conceduta ai Saracini (t. II, p. 72).

218. Giovanni Leone Affricano (De medicis et philosophis Arabibus, c. 14, presso Fabricio, Bibl. graec. t. XIII, p. 278, 279). Questo filosofo nomavasi Esseriff, Essascialli, e morì nell'Affrica (A. E. 516, A. D. 1112). Tal denominazione ha molta somiglianza coll'altra Seriff al Eldrisi. Così chiamavasi chi offerse il suo libro (Geogr. nubiens.; V. la Prefazione, p. 88, 90, 176) a Ruggero re di Sicilia (A. E. 548, A. D. 1153; D'Herbelot, Bibl. orient. p. 786; Prideaux, Life of Mahomet, pag. 188; Petis de la Croix, Hist. de Gengis-kan, p. 535, 536; Casiri, Bibl. arab. hispan. t. II, p. 9-13), onde temo sia accaduto in ordine a ciò qualche equivoco.

219. Il Malaterra parlando della fondazione de' Vescovadi (l. IV, c. 7) porta la Bolla in originale (l. IV, c. 29). Il Giannone, come istorico del paese, offre un'idea di questo privilegio e della monarchia di Sicilia (t. II, p. 95-102), e Saint-Marc (Abrégé, t. III, p. 217-301) discute una tale quistione con tutta l'abilità d'un giureconsulto siciliano.

220. Nelle descrizioni della prima spedizione di Roberto contra i Greci, i miei autori sono: Anna Comnena (I, II, IV, V. libri dell'Alexiade), Guglielmo Pugliese (lib. IV e V, p. 270-275), e Gioffredo Malaterra (l. III, c. 13, 14-24, 29-39); essi erano contemporanei, e possono riguardarsi come autentici i loro scritti, avvertendo però, che niun d'essi fu testimonio oculare delle battaglie.

221. Una di queste si sposò ad Ugo, figlio di Azzo, o Axo, marchese di Lombardia (Guglielmo Pugliese, l. III, p. 267), ricco, potente e nobile nell'undecimo secolo, e i cui maggiori il Muratori e il Leibnitz hanno scoperto appartenere al nono e decimo secolo. Le due famose Case di Brunswick e di Este derivano da due figli primogeniti del marchese Azzo. V. Muratori, Antichità Est.

222. Anna Comnena loda e sospira con un po' troppo di libertà questo bel giovinetto, che le venne promesso in isposo quando fu sciolto l'altro contratto di nozze colla figlia di Guiscardo. Nel lib. I, pag. 23, ella dice che questo principe era αγαλμα φυσεως... Θεου χειρων φιλοτιμημα.... χρυσου γενους απορροη un gioiello dalla natura... una bell'opera delle mani di Dio... una emanazione dell'età d'oro, ec. (p. 27). Ella descrive altrove il bianco e il vermiglio della pelle, gli occhi di falco ec. l. III, p 71.

223. Anna Comnena (l. I, p. 28-29), Guglielmo Pugliese (l. IV, p. 271), Gioffredo Malaterra (l. III, c. 13, p. 579, 580). Più circospetto si mostra quest'ultimo; ma il Pugliese dice,

Mentitus se Michaelem

Venerat a Danais quidam seductor ad illum.

Si lasciò sorprendere da questa frode Gregorio VII; e il Baronio è quasi l'unico che la voglia sostenere qual verità (A. D. 1080, n. 44).

224. Ipse armatae militia non plusquam MCCC milites secum habuisse, ab eis qui eidem negotio interfuerunt attestatur (Malaterra, l. III, c. 24, p. 583), e sono i medesimi che il Pugliese al l. IV, p. 273 chiama equestris gens ducis, equites de gente ducis.

225. Εις τριακοντα χιλιαδας da trentamila, così si esprime Anna Comnena (Alexias, l. I, p. 37), e un tale calcolo concorda col numero e col carico de' navigli. Ivit in Dyrrachium cum XV militibus hominum, dice il Chronicon Breve Normannicum (Muratori, Scriptores, t. V, p. 278). Io mi sono adoperato a conciliare insieme queste diverse testimonianze.

226. L'Itinerario di Gerusalemme (p. 609, ediz. Wesseling) accenna un intervallo ragionevole e vero di mille stadj, o cento miglia, che stravagantemente hanno duplicato Strabone (l. VI, pag. 433) e Plinio (Hist. nat. III, 16).

227. Plinio (Hist. nat. III, 6, 16) assegna QUINQUAGINTA miglia a questo brevissimus cursus, e indica la vera distanza da Otranto alla Vallona o Aulon (d'Anville, Analyse de sa carte des côtes de la Grèce, etc. p. 3-6). Ermolao Barbaro che sostituisce il vocabolo centum (Hardouin, not. 66, in Plin. lib. III) avrebbe potuto essere corretto da quanti piloti veneziani erano usciti di quel golfo.

228. Infames scopulos Acroceraunia, Horat., Carmen 1 e 3. Vi è qualche poco di esagerazione nel praecipitem Africum decertantem aquilonibus et rabiem Noti, e nel monstra natantia dell'Adriatico; ma Orazio palpitante per la vita di Virgilio, è un esempio che ben comparisce nella storia della poesia e dell'amicizia.

229. Των δε εις τον πωγωνα αυτου εφυβρισαντων insultavanlo per la barba (che gli mancava) (Alexias, l. IV, p. 106). Ciò nondimeno i Normanni si radeano la barba; i Veneziani la lasciavano crescere: di qui avrà avuta origine la mancanza di barba attribuita, poco felicemente per dir vero, a Boemondo (Ducange, Not. ad Alex., p. 283).

230. Il Muratori (Annali d'Italia, t. IX, p. 136, 137), osserva che alcuni autori (Pietro Diacono, Chron. Casin. lib. III, cap. 49) fanno ascendere l'esercito de' Greci a censettantamila uomini, ma che si può levare il cento, lo stesso Malaterra indicandone soli settantamila; piccola svista! Il passo al quale fa allusione il Muratori trovasi nella Cronaca di Lupo Protospata (Script. ital. t. V, p. 45). Il Malaterra, (l. IV, 17) parla in termini, ampollosi, ma vaghi, di questa imperiale spedizione: Cum copiis innumerabilibus, e il Poeta Pugliese (l. IV, p. 272):

More locustarum montes et plana teguntur.

231. V. Guglielmo di Malmsbury, De Gestis Anglor., l. II, p. 92. Alexius fidem Anglorum suscipiens, praecipuis familiaritatibus his eos applicabat, amorem eorum filio transcribens. Orderico Vitale (Hist. eccles., l. IV, pag. 508, l. VII, p. 841) racconta la partenza di questi profughi dall'Inghilterra e il modo onde presero servigio in Grecia.

232. V. il Pugliese (l. I, p. 256). Ho già descritto nel capitolo LIV la storia e l'indole di questi Manichei.

233. V. il semplice ed ammirabile racconto di Cesare (Comment. de bell. civil. III, 41-75). Gli è da deplorarsi che Quinto Icilio (il Signor Guichard) non sia vissuto a bastanza per far le note a questa parte di essi come le ha fatte alle azioni campali dell'Affrica e della Spagna.

234. Παλλας αλλη και μη Σθηνη un'altra Pallade, ma non Minerva. Il presidente Cousin (Hist. de Constantinople, t. IV, p. 131, in 12) ha tradotto molto aggiustatamente «che combattea come una Pallade, benchè non dotta al pari di quella della Grecia». I Greci aveano composti gli attributi delle loro divinità di due caratteri poco fatti per accoppiarsi, quello di Neith, l'artigiana di Sais nell'Egitto, e quello di una vergine amazzone del lago Tritonio nella Libia (Banier, Mythologie, t. IV, p. 1-31, in 12).

235. Anna Comnena (lib. IV, p. 116) ammira con una specie di terrore le maschili virtù di una tal donna. Queste erano più famigliari alle Latine, e benchè il Pugliese (lib. IV, p. 273) faccia menzione della presenza e della ferita della moglie di Guiscardo, affievolisce l'idea della sua intrepidezza:

Uxor in hoc bello Roberti forte sagitta

Quadam laesa fuit: quo vulnere TERRITA nullam

Dum sperabat opem, se poene SUBEGERAT hosti.

Il vocabolo subegerat non è felice che trattandosi di una donna prigioniera.

236. Απο της του Ρομπερτου προηγησαμενης μαχης, γινοσηων την προτων κατα των εναντιων ιππασιαν των Κελτων ανυποιστον dalla prima battaglia data da Romperto, conoscendo l'invincibile cavalleria de' Celti che primi combattevano nella fronte (Anna, l. V, p. 133) ed altrove και γαρ Κελτος ανηρ πας εποχουμενος μεν ανυπιστος την ορμην, και την θεαν εστιν poichè il Celta a cavallo è formidabile non che all'impeto, alla sola vista (pag. 140). La pedanteria adoperata dalla Principessa nella scelta delle denominazioni classiche ha incoraggiato il Ducange ad attribuire ai suoi compatrioti l'indole degli antichi Galli.

237. Lupo Protospata (t. III, p. 45) dice seimila; Guglielmo Pugliese più di cinquemila (l. IV, p. 275): nel che è lodevole e singolare la lor modestia; era sì facile ad essi con un tratto di penna l'uccidere venti o trentamila scismatici, od infedeli.

238. I Romani riguardando come nome di cattivo augurio il nome Epidamnus, gli sostituirono l'altro Dyrrachium (Plinio, III, 26), di cui il popolo avea fatto Duracium (V. il Malaterra), vocabolo che ha qualche somiglianza coll'altro, durezza. Durando era uno fra i nomi di Roberto, e veramente Roberto potea chiamarsi un Durando; giuoco scipitissimo di parole. (Alberic, Monach. in Chron., V. Muratori, Annali d'Italia, t. IX, p. 137).

239. βρουχους και ακριδας ειπεν αν τις αυτους πατερα και υιον il padre e il figlio erano appellati bruchi e locuste (Anna, lib. I, pag. 35). Mercè tali comparazioni, tanto diverse da quelle di Omero, costei s'immagina inspirar disprezzo ed orrore contra il cattivo animaluzzo che appellasi conquistatore. Fortunatamente il comun raziocinio, ossia la comune irragionevolezza, ai lodevoli disegni della greca Principessa fan guerra.

240.

Prodiit hac auctor Trojanae cladis Achilles.

Virgilio nel libro secondo dell'Eneide (Larissaeus Achilles) aggiugne forza alla supposizione del Pugliese (l. I, p. 275), supposizione non giustificata dalle geografiche descrizioni che si trovano in Omero.

241. L'ignoranza ha tradotto των πεδιλων προαλματα, (punte de' talari) Speroni; e questi impacciavano i cavalieri che combattevano a piedi (Anna Comnena, Alexias, lib. V, p. 140). Il Ducange ha dedotto il vero significato di queste parole da una usanza ridicola, ed incomoda, durata dall'undicesimo secolo fino al decimoquinto. I ridetti speroni, configurati a guisa di scorpione, aveano talvolta due piedi e una catenella d'argento che gli attaccava al ginocchio.

242. Tutta questa lettera merita di essere letta (Alexias, l. III, p. 93, 94, 95). Il Ducange non ha intese le seguenti parole αστροπελεκυν δεδεμενον μετα χρυμαφις. Ho procurato di dar loro una interpretazione possibilmente plausibile: χρυμαφιου significa corona d'oro. Simone Porzio (in Lexico graeco-barbar.) dice che ασροπελεκυς equivale a κεραυνος, πρηστηρ, lampo.

243. Intorno a questi principali fatti rimetto i leggitori agli storici Sigonio, Baronio, Muratori, Mosheim, Saint-Marc etc.

244. Le vite di Gregorio VII sono o leggende, o invettive (Saint-Marc, Abrégé; t. III. p. 233; ec.), e i moderni leggitori non crederanno più ai suoi miracoli che ai suoi sortilegi. Nel Leclerc (Vie de Hildebrand, Bibliothèque ancienne et moderne, t. VIII) si trovano diverse nozioni instruttive a tale proposito, e molte dilettevoli nel Bayle (Dictionaire critique, Grégoire VII). Questo pontefice fu, non v'ha dubbio, un uomo sommo, un secondo Atanasio, in un secolo più fortunato per la Chiesa. Mi sarà egli lecito aggiugnere che il ritratto di Atanasio da me offerto nel Capitolo XXI è uno de' tratti della mia storia de' quali mi trovo meno scontento?

245. Ciò che qui dice l'autore di Gregorio VII forse è esagerato; vegga il lettore ciò che abbiamo scritto di questo Papa famoso in una Nota al vol. IX. (Nota di N. N.)

246. Anna, col rancore proprio ad una scismatica greca, chiama Gregorio καταπτυσος ουτς Παπας (lib. I, pag. 32), un Papa e un prete degno che gli sia sputato addosso; lo accusa di aver fatto frustare gli ambasciatori di Enrico, di aver fatto ad essi rader la barba; forse d'averli privati degli organi della virilità (p. 31-33); ma questo crudele oltraggio è poco verisimile, nè ben provato. V. la sensata prefazione del Cousin.

247.

.... Sic uno tempore victi

Sunt terrae Domini duo: rex Alemannicus iste,

Imperii rector romani maximus ille.

Alter ad arma ruens armis superatur: et alter

Nominis auditi sola formidine cessit.

È cosa non poco singolare che questo poeta latino parli dell'Imperatore greco come se governasse l'Impero romano (t. IV, p. 274).

248. La narrazione del Malaterra (l. III, c. 37; pag. 587, 588) è autentica, minuta, imparziale. Dux ignem exclamans urbi incensa, etc. Il Pugliese attenua la disgrazia: inde quibusdam aedibus exustis, disgrazia che alcune Cronache parziali si studiano esagerare (Muratori, Annali, t. IX, pag. 147).

249. Il Gesuita Donato (De Roma veteri et nova, l. IV, c. 8, p. 489) dopo avere parlato di una tale devastazione, aggiugne con grazia: Duraret hodieque in Caelio monte interque ipsum et Capitolium miserabilis facies prostratae urbis, nisi in hortorum vinetorumque amenitatem Roma resurrexisset, ut perpetua viriditate contegeret vulnera et ruinas suas.

250. Il titolo di Re promesso, o conferito a Roberto dal sommo Pontefice (Anna l. I, p. 32) è a bastanza provato dal Poeta Pugliese (l. IV, p. 270):

Romani regni sibi promisisse coronam

Papa ferebatur.

e non intendo il perchè questo nuovo tratto di giurisdizione apostolica spiaceva al Gretser e ad alcuni altri difensori del Papa.

251. V. Omero Iliade B. (quanto detesto questo metodo pedantesco di citare i libri dell'Iliade colle lettere dell'alfabeto greco!) 87 ec. Le api di Omero offrono l'immagine di una turba disordinata; perchè la loro disciplina, e i lavori repubblicani sembrano idee di un secolo posteriore (V. Eneide, lib. I).

252. Guglielmo Pugliesi (l. V, p. 276). L'ammirabile porto di Brindisi ne formava due; il porto esterno offeriva un golfo coperto da un'isola, il quale per gradi si restringeva, e comunicava, mediante un canale, nel porto interno che da due bande comprendea la città. Cesare e la natura, sonosi adoperati a rovinarlo: e a petto di siffatte potenze che valgono i deboli sforzi del governo Napolitano? (Swinburne's Travels in the two Sicilies, vol. I, p. 384-390).

253. Guglielmo Pugliese (l. V, p. 276) descrive la vittoria de' Normanni, e dimentica le due sconfitte anteriori, che Anna Comnena però non dimentica (l. VI, p. 159, 160, 161); anzi a sua volta, ella inventa, o esagera una quarta battaglia ove i Veneziani sono vendicati delle perdite sofferte, e del loro zelo ricompensati. I Veneziani non la pensavano così, poichè rimossero il loro Doge, propter excidium stoli. (Dandolo in Chron., Muratori, Script. rerum italicarum, tom. XII, pag. 249).

254. I più autentici fra gli storici, Guglielmo Pugliese, (l. V, p. 277), Gioffredo Malaterra (l. III, c. 41, p. 589), e Romualdo di Salerno (Chron. in Muratori, Script. rerum ital. t. VII) non fanno parola di un tale misfatto, che trovano tanto evidente Guglielmo di Malmsbury (l. III, p. 107) e Ruggero di Hoveden (pag. 710, in Scrip. post Bedam). L'Hoveden anzi ne viene spiegando, come Alessio il Giusto sposasse, incoronasse, e facesse bruciar viva la complice della sua colpa. Ma questo Storico inglese è sì cieco che colloca Roberto Guiscardo, o Wiscard, nel novero de' cavalieri di Enrico I, il quale ascese al trono quindici anni dopo la morte del Duca di Puglia.

255. Anna Comnena cosparge con gioia d'alcuni fiori la tomba del suo nemico (Alexiade, l. V, p. 162-166); ma il merito di Guiscardo è ben meglio provato dalla stima e dalla gelosia di Guglielmo il Conquistatore, ne' cui Stati la famiglia di Guiscardo vivea. Graecia (dice il Malaterra) hostibus recedentibus libera laeta quievit: Apulia tota, sive Calabria turbatur.

256.

Urbs Venusina nitet tantis decorata sepulchris.

Uno dei migliori versi del Poema del Pugliese (l. V, p. 278). Guglielmo di Malmsbury (l. III, p. 107) ne ha data cognizione di un epitafio di Guiscardo, che qui non merita d'aver luogo.

257. Ciò nullameno Orazio condotto a Roma sin dalla sua fanciullezza (Sermon. 1 e 6) avea poche obbligazioni a Venosa, e le sue reiterate allusioni agl'incerti limiti della Puglia e della Lucania (Carm. III, 4, Sermon. II, 1) mal si addicono al suo ingegno e al secolo in cui vivea.

258. V. Il Giannone (t. II, pag. 88-93) e gli Storici della prima Crociata.

259. I Regni di Ruggero e dei Re normanni della Sicilia, tengono quattro libri della Istoria civile del Giannone (t. II, l. XI-XIV, p. 136-140), e trovansi qua e là descritti nel nono e decimo volume degli Annali del Muratori. La Biblioteca Italica (t. I, pag. 175-222) contiene un compendio molto utile delle opere del Capecelatro, moderno Napoletano, che ha pubblicati due volumi sulla storia del suo paese, incominciando da Ruggero I e venendo inclusivamente a Federico II.

260. Giusta le testimonianze di Filisto e di Diodoro, Dionigi tiranno di Siracusa manteneva un esercito di diecimila uomini a cavallo, di centomila fantaccini e di quattrocento galee. Si confrontino l'Hume (Saggi, v. I, p. 268-435) e il Wallace, avversario di questo istorico, (Numbers of Mankind, p. 306-307). Tutti i viaggiatori, D'Orville, Reidesel, Swinburne, ec. parlano delle rovine d'Agrigento.

261. Un autore contemporaneo che descrive le azioni di Ruggero, dall'anno 1127 all'anno 1135, fonda i titoli di questo principe sul merito e sulla possanza del medesimo, sul consenso de' Baroni, e sull'antichità della monarchia di Palermo e della Sicilia, senza far parola della investitura di Papa Anacleto (Alexand. caenobii Telesini abbatis de rebus gestis regis Rogerii, l. IV, in Muratori, Script. rerum ital., t. V, p. 607-645).

262. I Re di Francia, d'Inghilterra, di Scozia, di Castiglia, di Aragona, di Navarra, di Svezia, di Danimarca e di Ungheria. Il trono de' primi tre era assai più antico di quello di Carlomagno. Fra i sei successivi, i tre primi aveano fondate colla spada, i tre ultimi col battesimo le loro monarchie. Il Re d'Ungheria era il solo che avesse avuto l'onore, o l'affronto di ricevere dal Papa la propria corona.

263. Fazello, e una folla d'altri Siciliani, hanno immaginata una incoronazione precedente di alcuni mesi, alla quale nè il Papa, nè l'Imperatore avrebbero avuta parte (A. D. 1130, 1 maggio). Il Giannone a proprio malgrado la nega (t. II, p. 137-144): il silenzio dei contemporanei dismentisce una tal favola, nè vale a sostenerla un preteso chirografo di Messina. (Muratori, Annali d'Italia, t. IX, p. 340; Pagi, Critica, t. IV, p. 467, 468).

264. Ruggero corruppe il secondo ufiziale dell'esercito di Lottario, il quale fece sonare a ritratta, o piuttosto gridò alle truppe di ritirarsi: perchè gli Alemanni, aggiugne il Cinnamo (l. III, c. I, p. 51) non conoscono l'uso delle trombe. Nell'asserire la qual cosa, ci mostra di non conoscere egli medesimo gli usi de' popoli che ha descritti.

265. V. De Guignes, Hist. génér. des Huns, t. I, p. 369-373, e Cardonne, Hist. de l'Afrique, etc., sous la domination des Arabes, t. II, p. 70-140. Sembra che questi due autori abbiamo preso Novairi per loro guida.

266. Tripoli (dice il Geografo di Nubia, o parlando con più esattezza il Seriffo al Edrisi) urbs fortis, saxeo muro vallata, sita prope littus maris. Hanc expugnavit Rogerius, qui mulieribus captivis ductis, viros peremit.

267. V. la Geografia di Leone l'Affricano (in Ramusio, t. I, fol. 74, vers. fol. 75 recto) e i Viaggi di Shaw (p. 110); il settimo libro del presidente De Thou, e l'undecimo dell'Abate di Vertot. I cavalieri di Malta ebbero la saggezza di rifiutare questa piazza, che Carlo V offeriva loro a condizione di difenderla.

268. Il Pagi ha indicate con esattezza le conquiste di Ruggero nell'Affrica: e l'amico di lui, l'abate di Longuerue, ne illustrò le osservazioni con alcune Memorie arabe (A. D. 1147, n. 26, 27; A. D. 1148, n. 16: A. D. 1153, n. 16).

269. Appulus et Calaber, Siculus mihi servit et Afer. Orgogliosa iscrizione, dalla quale apparisce che i vincitori normanni veniano sempre contraddistinti dai lor sudditi Cristiani e Musulmani.

270. Ugone Falcando (Hist. Sicula, in Muratori, Script., t. VII, p. 270, 271) attribuisce tali perdite alla negligenza, o alla perfidia dell'ammiraglio Maio.

271. Al silenzio degli Storici siciliani, che finiscono troppo presto, o cominciano troppo tardi, possono supplire Ottone di Fraysingen (De gest. Freder. I, l. I, c. 33, in Muratori, Scriptor., t. VI, pag. 668), il veneziano Andrea Dandolo (Id., t. XII, p. 282, 283) e gli Autori greci, Cinnamo (l. III, c. 2-5) e Niceta (in Manuel. l. II, c. 1-6).

272. Credo riferirsi alla prigionia e alla liberazione di Luigi VII il παρ ελιγον ηλθε του αλωναι, venne dall'essere prigioniero per poco tempo, di Cinnamo l. II, c. 19, p. 47. Il Muratori, fondandosi sopra assai valevoli testimonianze (Ann. d'Ital. t. IX, p. 420, 421), si fa beffe del dilicato riguardo di alcuni autori Francesi i quali asseriscono marisque nullo impediente periculo ad regnum proprium reversum esse; del rimanente il loro difensore Ducange, a quanto osservo, si mostra meno asseverante nel comentare Cinnamo che allorquando presenta l'edizione del Joinville.

273. In palatium regium sagittas igneas injecit, dice Dandolo; ma Niceta (l. II, c. 8, p. 66) trasforma queste frecce in Βελη αργντεους εχοντα ατρακτους, frecce che aveano la punta d'argento; aggiugnendo che Manuele qualificava un tale oltraggio co' vocaboli παιγνιον, γελωτα... γηστευοντα, puerili, ridicoli... da ladroni. Un compilatore, Vincenzo di Beauvais, dice che queste frecce erano d'oro.

274. V. intorno all'invasione dell'Italia, argomento quasi disdegnato da Niceta, la più accurata storia del Cinnamo (l. IV, c. 1-15, p. 78-101). Quest'ultimo si fa strada ad una diffusa narrazione con questo pomposo proemio, περι της Σικελιας τε, και της Ιταλων εσηεπτετολης, ως και γαυτας Ρωμαιοις ανασωσαιτο, fu veduto intorno alla Sicilia, e all'Italia, inteso a restituire a Roma anche quelle province.

275. Un Autore latino, Ottone (De gestis Friderici I, l. II, c. 30, p. 734), attesta essere stato finto un tal documento. Il Greco Cinnamo (l. I, c. 4, p. 78) fa valere una promessa di restituzione di Corrado, o di Federico. Una frode è sempre credibile quando viene attribuita ai Greci.

276. Quod Anconitani graecum imperiunt nimis diligerent.... Veneti speciali odio Anconam oderunt. I beneficia e il flumen aureum dell'Imperatore erano la cagione di questo effetto, e forse ancora di una tal gelosia. Il Cinnamo (l. IV, c. 14) conferma la narrazione latina.

277. Il Muratori fa menzione di due assedj di Ancona. Il primo nel 1167, sostenuto contra Federico I, che combattè in persona (Ann., t. X, p. 39 ec.), il secondo nel 1173, contra l'arcivescovo di Magonza, luogotenente di questo principe, prelato indegno del suo titolo e delle sue cariche (p. 76 ec.). Le Memorie pubblicate dal Muratori nelle sua grande Raccolta (t. VI, p. 921-946) al secondo assedio si riferiscono.

278. Questa circostanza abbiam ricavata da una Cronaca anonima del Fossa Nova, pubblicata dal Muratori (Script. ital., t. VII, p. 874).

279. Il βασιλειος σημειον, segno regio, del Cinnamo (l. IV, c. 14, pag. 99) ammette due spiegazioni. Uno stendardo si conforma meglio ai costumi de' Latini, una immagine a quelli de' Greci.

280. Nihilominus quoque petebat, ut quia occasio justa et tempus opportunum et acceptabile se obtulerant, romani corona imperii a sancto apostolo sibi redderetur; quoniam non ad Frederici Alamanni, sed ad suum jus asseruit pertinere (vit. Alexandri III a cardinal. Aragoniae, in Script. rer. ital., t. III, part. I, p. 458). Egli partì per la sua seconda ambasceria, cum immensa multitudine pecuniarum.

281. Nimis alta et perplexa sunt (vit. Alexandri III, p. 460, 461), dicea il circospetto Pontefice.

282. Μηδεν γεσον ειναι λεγλν Ρωμη τη νεοτερα προς την πρεσβυτεραν παλαι απορραμεισωέ, dicendo non essere alcuna differenza dalla nuova Roma in confronto all'antica, dopo averle divise. (Cinnamo, l. IV, c. 14, p. 99).

283. Il Cinnamo nel suo sesto libro descrive la guerra di Venezia, che Niceta non ha giudicata degna della sua attenzione. Il Muratori porta all'anno 1171 e successivi alcune particolarità che riguardano gl'Italiani, e che non hanno un vezzo generale per noi.

284. Romualdo di Salerno (in Muratori, Scr. Ital., t. VII, p. 198) fa menzione di una tale vittoria. Ella è cosa assai singolare che il Cinnamo (l. IV, c. 13, p. 97, 98) si mostri più animato del Falcando, e racconti particolarità omesse da questo Storico (p. 208, 270) nel far l'encomio del Re di Sicilia. Ma l'Autore greco amava le descrizioni, e il Latino non amava Guglielmo il Cattivo.

285. V. intorno alla lettera di Guglielmo I, il Cinnamo (l. IV, c. 15, p. 101, 102) e Niceta (l. II, c. 8). Sarebbe cosa malagevole il decidere, se i Greci s'ingannassero eglino stessi, o volessero ingannare il Pubblico con queste adulatrici descrizioni della grandezza dell'Impero.

286. Non posso citare a tal luogo altre originali testimonianze fuor delle miserabili cronache di Sicardo di Cremona (p. 603), e del Fossa Nova (p. 875) che leggonsi nel settimo volume storico del Muratori. Il Re di Sicilia inviò le sue truppe contra nequitiam Andronici... ad acquirendum imperium C. P. I soldati del medesimo furono capti aut confusi... decepti, captique da Isacco.

287. Ne manca qui il soccorso del Cinnamo, e ci vediamo ridotti a Niceta (Andronico, l. I, c. 7, 8, 9, l. II, c. 1, Isacco l'Angelo, l. I, c. 1-4) che diviene un contemporaneo di molto peso. Avendo egli scritto dopo la caduta dell'Imperatore e dell'Impero non è trascorso in adulazioni: ma il disastro di Costantinopoli inacerbisce la sua nimistà contro i Latini. Noterò qui ad onore della letteratura che Eustazio, arcivescovo di Tessalonica, il famoso comentatore di Omero, ricusò di abbandonare il suo gregge.

288. La Historia Sicula di Ugone Falcando che, per parlare aggiustatamente procede dall'anno 1154 all'anno 1169, trovasi nel settimo volume della Raccolta del Muratori (p. 259-344), ed è preceduta (p. 251-258) da una Prefazione, o eloquente lettera de calamilatibus Siciliae. Il Falcando è stato soprannomato il Tacito della Sicilia, e, salva l'immensa differenza che passa fra il primo secolo, e il dodicesimo, tra un senatore ed un frate, non disputerò al Falcando un simile onore. Rapida e chiara ne è la narrazione, coraggioso ed elegante lo stile, sensatissime le osservazioni: conoscea gli uomini, e cuore d'uomo egli avea. Spiacemi soltanto che abbia spese le sue fatiche sopra un terreno tanto sterile, ed esteso sì poco.

289. I laboriosi Benedettini pensano (Art de vérifier les Dates, p. 896) che il vero nome di Falcando sia Fulcandus, o Foucault. A loro avviso, Ugo Foucault, francese d'origine, che divenne in appresso Abate di S. Dionigi, avea seguìto in Sicilia il suo protettore, Stefano De La Perche, zio della madre di Guglielmo II, arcivescovo di Palermo, e Gran Cancelliere del regno. Ciò nullameno il Falcando ha tutti i sentimenti di un Siciliano, e il titolo di Alumnus che egli si attribuisce da sè medesimo, sembra indicare che egli sia nato, o almeno allevato nell'Isola.

290. (Falcando p. 303). Riccardo di S. Germano incomincia la sua Storia dal narrare la morte, e dal far gli encomj di Guglielmo II. Dopo alcuni epiteti che non significano nulla, aggiunge: Legis et justitiae cultus tempore suo vigebat in regno: sua erat quilibet sorte contentus (erano questi uomini?), ubique pax, ubique securitas, nec latronum metuebat viator insidias, nec maris nauta offendicula piratarum (Script. rer. ital. t. VII, p. 969).

291. Costantia, primis a cunabilis in deliciarum tuarum affluentia diutius educata, tuisque institutis, doctrinis et moribus informata, tandem opibus tuis Barbaros delatura discessit: et nunc cum ingentibus copiis revertitur, ut pulcherrima nutricis ornamenta barbarica foeditate contaminet...... Intueri mihi jam videor turbulentas Barbarorum acies.... civitates opulentas et loca diuturna pace florentia, metu concutere, caede vastare, rapinis atterere et foedare luxuria: hinc cives aut gladiis intercepti, aut servitute depressi, virgines constupratae, metronae, etc.

292. Certe si regem non dubiae virtutis elegerint, nec a Saracenis Christiani dissentiant, poterit rex creatus, rebus licet quasi desperatis et perditis subvenire, et incursus hostium, si prudenter egerit, propulsare.

293. In Appulis, qui, semper novitate gaudentes, novarum rerum studiis aguntur, nihil arbitror spei aut fiduciae reponendum.

294. Si civium tuorum virtutem et audaciam attendas..... murorum etiam ambitum densis turribus circumspectum.

295. Cum crudelitate piratica Theutonum confligat atrocitas, et inter ambustos lapides, et Ethnae flagrantis incendia, etc.

296. Eam partem quam nobilissimarum civitatum fulgor illustrat, quae et toti regno singulari meruit privilegio praeminere, nefarium esset... vel Barbarorum ingressu pollui. Merita di essere letta la descrizione ricercata sì, ma non priva di vezzo, con cui il Falcando dipinge il palagio, la città, e l'ubertosa pianura di Palermo.

297. Vires non suppetunt, et conatus tuos tam inopia civium, quam paucitas bellatorum elidunt.

298. At vero, quia difficile est Christianos in tanto rerum turbine, sublato regis timore, Saracenos non opprimere, si Saraceni injuriis fatigati ab eis coeperint dissidere, et castella forte marittima, vel montanas munitiones occupaverint; ut hinc cum Theutonicis summa virtute pugnandum, illinc Saracenis crebris insultibus occurrendum, quid putas acturi sunt Siculi inter has depressi angustias, et velut inter malleum et incudem multo cum discrimine constituti? Hoc utique agent quod poterunt, ut se Barbaris miserabili conditione dedentes, in eorum se conferant potestatem. O utinam plebis et procerum, Christianorum et Saracenorum vota conveniant, ut, regem sibi concorditer eligentes, Barbaros totis viribus, toto conanime, totisque desideriis proturbare contendant; nel qual voto i Normanni e i Siciliani vengono confusi fra loro.

299. La testimonianza di un Inglese, Ruggero di Hoveden (p. 689), è di poco peso a fronte del silenzio degli Autori alemanni ed italiani (Muratori, Annali d'Italia, tom. X, p. 156). Gli ecclesiastici, e i pellegrini che tornavan da Roma, innumerevoli favole spacciarono sull'onnipotenza del Santo Padre.

300. Ego enim in eo cum Theutonicis manere non debeo. (Caffari, Annales genuenses, in Muratori, Script. rer. ital. t. VI, p. 367, 368).

301. V. intorno ai Saracini della Sicilia e di Nocera gli Annali del Muratori (t. X, p. 149, ed A. D. 1223-1247), il Giannone (t. II, p. 385); e fra gli originali citati nella Raccolta del Muratori, Riccardo di S. Germano (t. VII, p. 996), Matteo Spinelli di Giovenazzo (t. VII, p. 1064), Nicolò di Jamsilla (t. X, p. 494) e Matteo Villani (t. XIV, l. VII, p. 103). L'ultimo di questi Scrittori lascia luogo a pensare che Carlo II della Casa di Angiò, adoperasse l'artifizio anzichè la violenza per ridurre in soggezione i Saracini di Nocera.

302. Il Muratori cita il passo di Arnaldo di Lubecca (l. IV, c. 20): Reparit thesauros absconditos, et omnem lapidum pretiosorum et gemmarum gloriam, ita ut oneratis 160 sommariis, gloriose ad terram suam redierit. Ruggero di Hoveden, che accenna la violazione delle tombe e de' cadaveri de' monarchi, fa ascendere il valore dello spoglio di Salerno a dugentomila once d'oro (p. 746). Al qual proposito, sarei propenso ad esclamare colla giovinetta stordita del La-Fontaine: «Vorrei aver io quel che ci manca».

303. Le particolarità da me narrate sulla vita e l'indole di Mamud sono tolte dal d'Herbelot (Bibl. orient., Mahmud, p. 533-537), dal De Guignes (Histoire des Huns, t. III, p. 155-173) e dal nostro concittadino il colonnello Alessandro Dow (v. I, p. 23-83), il quale ne ha offerti i due primi volumi della sua storia dell'Indostan, come una traduzione dell'opera del persiano Feristà. Ma in mezzo ai pomposi ornamenti di stile adoperati da questo Scrittore, non è sì facile il discernere, se veramente sia versione, o originale.

304. La dinastia de' Samanidi durò cenventicinque anni (A. D. 874-999) sotto il successivo governo di dieci principi. V. la genealogia de' medesimi, e la caduta della dinastia nelle tavole del sig. De Guignes (Hist. des Huns, t. I, pag. 404-406). Alla suddetta dinastia venne dopo quella de' Gaznevidi, A. D. 999-1183 (V. t. I, p. 239-240). Il metodo serbato da questo Storico nell'indicare le divisioni de' popoli ha sparsa non poca confusione sulle epoche, e oscurità quanto ai luoghi.

305. Gazna hortos non habet: est emporium et domicilium mercaturae indicae (Abulfeda, Geogr.; Reiske, Tabul 23, p. 349; d'Herbelot, p. 364). Niuno fra i viaggiatori moderni ha visitata questa città.

306. Fu anzi l'ambasciatore del Califfo di Bagdad che adoperò questo vocabolo arabo, o caldeo, ed equivalente al nostro di Signore e Padrone (d'Herbelot, p. 825). Gli Scrittori bisantini dell'undicesimo secolo si valgono a tradurlo delle voci Αυτοκρατωρ βασιλευς βασιλεων, e la voce Σουλτανος o Soldanus, dopo essere passata dai Gaznevidi ai Selgiucidi, e agli Emiri d'Asia e d'Egitto, vedesi usata spesse volte nel linguaggio famigliare de' Greci e de' Latini. Il Ducange (Dissert. 16 sopra Joinville, p. 238-240; Gloss. graec. e latin.) si sforza per provare che il titolo di Sultano veniva adoperato nell'antico regno di Persia; ma chimeriche sono le prove dal medesimo adotte: ei fonda tal sua opinione sopra un nome proprio de' temi di Costantino (II, 11), sopra un passo di Zonara, che ha confuse le epoche, e sopra una medaglia di Kai-Kosrù, il quale non è, come pensa il Ducange, il Sassanide del secolo XVI, ma il Selgiucida d'Iconium che viveva nel tredicesimo secolo (De Guignes, Hist. des Huns, t. I, p. 246.)

307. Feristà, giusta i racconti del Dow (Hist. of Hindostan, v. 1, p. 49), fa menzione di un'arma da fuoco che diceasi adoperata fra gli eserciti degl'Indù; ma non m'indurrò sì facilmente a persuadermi di tale uso anticipato dell'artiglieria (A. D. 1008), e piacerebbemi esaminare prima il testo, indi l'autorità di Feristà che vivea nel secolo XVII alla Corte Mogolla.

308. Kinnoga o Canoga (l'antica Palimbotra), vien collocata a 27° 3ʼ di lat. e 80° 11ʼ di long. V. D'Anville (Antiq. de l'Indie, p. 60-62), e la correzione del Maggiore Rennel che ha visitati i paesi in persona. (V. la sua eccellente Memoria sulla carta dell'Indostan, p. 37-43). Molte riduzioni sono da farsi sui trecento gioiellieri, e sulle trentamila botteghe di noci di areca, e sulle sessantamila bande di musici ec. numerati da Abulfeda (Geogr. Tab. XV, pag. 274: Dow, vol. I, p. 16).

309. Feristà chiama i Portoghesi gl'idolatri europei (Dow, vol. I, p. 66). V. Abulfeda, p. 272, e la Carte da l'Indostan, del Rennel.

310. D'Herbelot, Biblioth. orientale, p. 527. Del rimanente queste lettore, questi apoftegmi ec. offrono di rado il linguaggio del cuore, e il motivo delle pubbliche azioni.

311. Essi citano a cagion d'esempio un rubino di quattrocentocinquanta miskali (Dow, vol. I, pag. 53) ossia di sei libbre e tre once: mentre il più grosso fra i rubini trovato nel tesoro di Dely non pesava che diciassette miskali (Voyages de Tavernier, part. II, p. 280). Ben vero è che nell'Oriente si dà il nome di rubino a tutte le pietre colorate (p. 355), e che il Tavernier ne aveva vedute tre, più grosse e più preziose del ridetto rubino, fra le gemme del nostro gran re, il più potente e il più magnifico di tutti i re della terra (p. 376).

312. Dow, t. I, pag. 65. Dicesi che il sovrano di Kinnoga avea duemilacinquecento elefanti. (Abulfeda, Geogr. Tab. XV, p. 274). Il lettore può, giovandosi di queste particolarità intorno all'India, correggere una nota del Capitolo VIII, t. I, o seguendo quella nota correggere queste particolarità.

313. V. un'esatta e verisimile descrizione di questi costumi pastorali nella Storia di Guglielmo arcivescovo di Tiro (l. I, c. 7, Gesta Dei per Francos; p. 633-634), ed altra importantissima nota che è dovuta all'editore della Histoire généalogique des Tatars, p. 535-538.

314. Possono attingersi contezze sulle prime migrazioni dei Turcomanni, sull'incerta origine de' Selgiucidi nella storia laboriosa degli Unni scritta dal de Guignes (t. I, Tables chronolog. l. V, t. III, l. VII, IX, X), nella Biblioth. oriental. del d'Herbelot (pag. 799-802, 897, 901), in Elmacin (Hist. Saracen. pag. 331-333), e in Abulfarage (Dynast., p. 221, 222).

315. Dow, Hist. of Indostan, vol. I, pag. 89, 95, 98. Ho copiato questo passo, per dare un saggio sul modo di scrivere dell'Autore persiano: ma suppongo che per una bizzarra fatalità lo stile di Feristà sarà stato perfezionato da quello di Ossian.

316. Il Zendekan del d'Herbelot (p. 1028), il Dindaka del Dow (vol. I, pag. 97), secondo tutte le apparenze sono la stessa cosa che il Dandanekan di Abulfeda (Geograph. p. 345 Reiske), piccola città del Korasan, distante due giornate da Marù, e celebre in Oriente perchè vi nasce la bambagia, e gli abitanti suoi la lavorano.

317. Gli Storici bisantini (Cedreno t. II, p. 766, 767, Zonara t. II, p. 235, Niceforo Briennio, p. 21), hanno qui confuso le epoche e i luoghi, i nomi e le persone, le cagioni e gli effetti. L'ignoranza e gli errori di questi Greci, nè qui mi fermerò a diciferarli, possono inspirar molti dubbj sulla storia di Ciassare e di Ciro, tal quale la raccontano i più eloquenti fra i loro predecessori.

318. Guglielmo di Tiro (l. I, c. VII, p. 633). Il metodo di trar gli augurj dalle frecce è antico e celebre nell'Oriente.

319. D'Herbelot (pag. 801). Del rimanente, quando la posterità di Selgiuk fu pervenuta all'apice delle grandezze, non si mancò di celebrarlo, come trentaquattresimo discendente del grande Afrasiab, imperatore di Turan (p. 800). La genealogia tartara di Zingis ne fa conoscere un altro modo di adulare e un'altra favola: al dir dello storico Mirkond, i Selgiucidi di Alankavà derivano da una vergine (p. 801, col. 2); e se questi sono i Zalzut di Abulgazi-Bahadur-Kan (Hist. généalog. p. 148) vien citata in favor loro una testimonianza di molto peso; quella di un principe tartaro, discendente di Zingis, di Alankavà, o Alancù, e di Oguz-Kan.

320. Per effetto di un lieve cambiamento, Togrul-Beg trovasi essere il Tangroli-Pix de' Greci. Il d'Herbelot (Bib. orient. p. 1027, 1028) e il De Guignes (Hist. des Huns, t. III, p. 189-201) raccontano con molta esattezza le particolarità del regno e dell'indole di Togrul.

321. Cedreno (t. II, p. 774, 775) e Zonara (t. II, p. 257) colle solite lor cognizioni sugli affari di Oriente, ne dipingono questo ambasciatore come uno Sceriffo che simile al Syncellus del Patriarca, sia stato il vicario e il successore del Califfo.

322. Ho tolta da Guglielmo di Tiro una tal distinzione fra i Turchi e i Turcomanni, distinzione almeno popolare e spontanea. I nomi sono gli stessi e la sillaba man ha lo stesso valore negli idiomi persiano e teutonico. Pochi fra i critici ammetteranno l'etimologia di Giacomo di Vitry (Hist. Hieros. l. I, c. II, p. 1061), secondo il quale, Turcomanni significa Turci, e Comani un popolo mescolato.

323. È vero, che la religione maomettana non ha culto d'Immagini; e se i Cristiani lo avevano, siccome esso nè per la teoria, nè per la pratica non era, come pure non è, un'idolatria, così non sembra aver egli potuto indurre i popoli idolatri del Settentrione ad abbracciare a poco a poco il Cristianesimo. Molti poi di quei popoli s'erano fatti Ariani, ma non Cattolici. (Nota di N. N.)

324. Histoire génér. des Huns, t. III, p. 165, 166, 167. Il De Guignes cita Abulmahasan, storico dell'Egitto.

325. V. la Biblioteca orientale, agli articoli Abbassidi, Caher o Cayem, e gli Annali di Elmacin e di Abulfaragio.

326. Ho tolte dal signor De Guignes (t. III, p. 197-198) le particolarità che a questa stravagante cerimonia si riferiscono; e il dotto Autore le ha tratte da Bondari, che ha composta in arabo la storia dei Selgiucidi (t. V, p. 365). Nulla mi è noto sul carattere di questo Bondari, nè intorno al paese, o al secolo, ne' quali ha vissuto.

327. Eodem anno (A. E. 455) obiit princeps Togrul-Becus... Rex fuit clemens, prudens, et peritus regnandi, cujus terror corda mortalium invaserat, ita ut obedirent ei reges atque ad ipsum scriberent. Elmacin, Hist. Saracen., p. 342, vers. Erpenii.

328. V. intorno le guerre de' Turchi e de' Romani, Zonara, Cedreno, Scilitzes, il continuator di Cedreno, e Niceforo Briennio Cesare. I due primi erano frati, uomini di Stato i due ultimi; nondimeno tali erano i Greci d'allora, che appena distinguesi fra gli uni e gli altri qualche differenza di stile e di carattere. In quanto spetta agli Orientali mi sono prevalso, giusta il solito, delle erudite ricchezze del d'Herbelot (V. gli articoli de' primi Selgiucidi), e delle esatte ricerche del signor De Guignes (Hist. des Huns, t. III, l. X).

329. ’Εφερετος γαρ εν Τουρηοις λογος, ως ειη πεπρωμενον ηαταραφηναι το Τουρηων γενος απο της τοιαυτης δυναμεως, αποιαν ο Μακεδον Αλεξανδρος εχωι κατασρεψατο Περσος. Corse voce fra i Turchi, essere destino che da tanta potenza fosse rovesciata la stirpe turca, come per Alessandro Macedone furono sconfitti i Persiani. (Cedreno, t. II, p. 791). Nulla v'ha di inverisimile nella credulità del volgo, e i Turchi aveano imparata dagli Arabi la Storia, o la leggenda di Escander Dulcarnio. (D'Herb. p. 317, ec.)

330. Certamente che Dio fa vedere alcune volte subito, e chiaramente il suo castigo. (Nota di N. N.)

331. Οι και Ιβεριαν ηαι Μεσοποταμιαν, και Αρμενοιαν οικουσι και οι την Ιουδαικην του Νεσορου και των Ακεφαλων θρησκεδουτιν αιρεσιν, quelli che abitano l'Iberia e la Mesopotamia, e l'Armenia, e quelli che seguono l'eresia giudaica di Nestorio, e degli Acefali. V. inoltre le osservazioni di Scilitzes a piè della pagina di Cedreno (t. II, p. 834), poichè le costruzioni equivoche di questo Greco non mi inducono tuttavia a credere che egli abbia confuso il Nestorianismo e l'eresia dei Monofisiti. Egli parla frequentemente di μενις, χολος, οργη Θεου, ira, bile, collera di Dio, qualità che mi sembrano appartenere a tutt'altro che ad un ente perfetto; ma la cieca dottrina del ridetto scrittore è costretta a confessare che una tal collera οργε, μενις etc., non tardò a percotere i Latini ortodossi.

332. Se i Greci avessero conosciuto il nome di Georgiani (Stritter, Memoriae Byzant., t. IV, Iberica), io ne attribuirei l'etimologia all'agricoltura di questi popoli, come quella del Εκυθαι γεωδγοι, Sciti, Georgj (agricoltori) d'Erodoto (l. IV, c. 18, pag. 289, ediz. di Wesseling). Ma tal voce non rinveniamo nè fra i Latini (Giacomo di Vitry, Hist. Hierosol., c. 79, p. 1095), nè fra gli Orientali (d'Herbelot, p. 407), se non se dopo le crociate, e divotamente è stata tolta dal nome di S. Giorgio di Cappadocia.

333. Mosheim, Instit. Hist. eccles., p. 632. V. inoltre nei Voyages de Chardin (t. I, p. 171-174) i costumi e il culto di questa popolazione tanto avvenente e spregevole. La genealogia da' Principi georgiani incominciando da Adamo, e venendo sino ai nostri giorni, leggesi nelle Tavole del sig. de Guignes (t. I, p. 433-438).

334. Costantino Porfirogeneta fa menzione di queste città. (De administ. imper. l. II, c. 44, p. 119.) Gli Scrittori bizantini dell'undicesimo secolo ne parlano parimente chiamandola Mantzichierte, che molti confondono con Teodosiopoli; ma il Delisle, nelle sue note e nella sua Carta, ha determinata la situazione di Malazkerd. Abulfeda (Geogr., Tab. 18, p. 310) la vuole una piccola città, costrutta di pietre nere, provveduta d'acqua, ma priva di alberi ec.

335. Gli Uzj de' Greci (Stritter, Memor. byzant., t. III, p. 923-948) sono i Gozz degli Orientali (Hist. des Huns, t. II, p. 122; t. III, p. 533 ec.). Se ne trovano sulle rive del Danubio e del Volga, nell'Armenia, nella Sorìa, e nel Korasan, e sembra che il nome di Uzj sia stato dato all'intera popolazione de' Turcomanni.

336. Gioffredo Malaterra (l. I, c. 33) accenna con distinzione Urselius (il Russelius di Zonara) fra i Normanni che sottomisero la Sicilia, e gli attribuisce il soprannome di Baliol. Gli Storici inglesi raccontano in qual guisa i Bailleul vennero dalla Normandia a Durham; fabbricarono il castello di Bernard sul Tees; fecero entrare nella loro famiglia una erede di Scozia ec. Il Ducange (Note ad Nicephor. Briennium, l. II, c. 4) ha fatte diverse indagini su questo argomento per onorare il presidente di Bailleul, il cui padre avea abbandonato la professione dell'armi per vestire la toga.

337. Elmacin (p. 343, 344) accenna un tal numero che il verisimile non eccede; pure Abulfaragio (p. 227) lo riduce a quindicimila uomini a cavallo, e il D'Herbelot (p. 102) a dodicimila. Del rimanente lo stesso Elmacin fa ascendere a trecenmila uomini l'esercito imperiale, ed anche Abulfaragio si esprime in tal guisa. Cum centum hominum millibus, multisque equis et magna pompa instructus. I Greci si astengono dall'indicare alcun numero determinato.

338. Gli autori greci non asseriscono così chiaramente che il Sultano si sia ritrovato alla battaglia: assicurano che Arslan diede il comando delle truppe al suo eunuco, e che indi si ritirò lungi dal campo ec. Parlano forse in tal guisa per ignoranza, o per gelosia, o il fatto sarebbe mai vero?

339. Questo Andronico era figliuolo di Cesare Giovanni Duca, fratello dell'Imperator Costantino (Ducange, Fam. byzant. p. 165). Niceforo Briennio, mentre loda le virtù, e attenua le colpe (l. I, p. 30-38, l. II, p. 53) di cotest'uomo, confessa ciò nonostante l'odio del medesimo contra Romano. ου πανυ δε φιλιως εχον προς βασιλεα non avea dramma d'affetto pel re. Scilitzes narra in più chiare note il tradimento di Andronico.

340. Niceforo e Zonara operano saggiamente nel tacer questo fatto, raccontato da Scilitzes e da Manasse, ma che non pare troppo credibile.

341. Gli Orientali fanno ascendere a tali somme, assai verisimili, il riscatto e il tributo. Ma i Greci conservano un modesto silenzio, eccetto Niceforo Briennio, il quale osa sostenere che gli articoli erano ουκ αναξιας Ρομαιων αρχης non indegni dell'Impero Romano, e che l'Imperatore avrebbe preferita la morte ad un obbrobrioso negoziato.

342. Le particolarità intorno alla sconfitta e alla prigionia di Romano Diogene leggonsi in Giovanni Scylitzes (ad calcemCedreni, t. II, p. 835, 843), in Zonara (t. II, pag. 281-284), in Niceforo Briennio (l. I, p. 25-32), in Glica (p. 325-327), in Costantino Manasse (pag. 134), in Elmacin (Hist. Saracen., p. 343, 344), in Abulfaragio (Dynast., p. 227), in d'Herbelot (pag. 102-103), De-Guignes (tom. III, p. 207-211). Oltre ad Elmacin e Abulfaragio, co' quali ho acquistata famigliarità, lo Storico degli Unni ha consultato Abulfeda e Bensciuma suo compilatore, una Cronaca de' Califfi composta da Soyuri, l'egiziano Abulmahasen e l'affricano Novairi.

343. Il D'Herbelot (p. 103, 104) e il De Guignes (t. III, p. 212, 213), sulle tracce degli scrittori orientali, raccontano le circostanze di questa morte sì rilevante; ma niun d'essi nelle sue narrazioni ha conservata la vivacità del descrivere di Elmacin (Hist. Saracen., p. 344, 345).

344. Un critico celebre (il defunto dottore Johnson, che ha esaminato con tanto rigore gli epitafj di Pope) troverebbe forse argomento a ridire sulle parole di questa sublime iscrizione: Venite a Maru. Chi legge l'iscrizione, vi si dée già trovare.

345. La Biblioteca orientale ne presenta il testo per la storia del regno di Malek (p. 452, 543, 544, 654-655), e la Histoire générale des Huns (t. III, p. 214-224) ripete i fatti medesimi aggiugnendo quelle correzioni e que' supplimenti soliti in esse a trovarsi. Confesso che, se mi mancassero le disamine fatte da questi due dotti Francesi, in mezzo al Mondo orientale, mi troverei affatto perduto.

346. V. un eccellente Discorso posto in fine alla Storia di Nadir-Shah, di ser William Jones, e gli articoli de' poeti Amak, Anvari, Rascidi, ec., nella Biblioteca orientale.

347. Questo Principe turco nomavasi Keder-Kan. Provveduto di quattro sacchi di monete d'oro e d'argento attorno al suo sofà, le distribuiva a piene mani ai poeti che gli recitavano versi (d'Herbelot, p. 107). Tutte queste cose possono essere vere; ma non comprendo egualmente la possibilità che il ridetto principe regnasse nella Transossiana ai tempi di Malek Sà, e anche meno che il primo oscurasse in fasto e munificenza il secondo. Credo che Keder regnasse sull'incominciare, non verso la fine dell'undicesimo secolo.

348. V. Chardin, Voyages en Perse, t. II, p. 235.

349. L'Era Gelalea (Gelaleddin, la Gloria della Fede, era uno fra i nomi, o titoli attribuiti a Malek-Sà), veniva prefissa ai 15 marzo, A. H. 471, A. D. 1079. Il dottore Hyde ha riportate le testimonianze originali de' Persiani e degli Arabi. (De Religione veterum Persarum, c. 16, p. 200-211).

350. Anna Comnena parla di questo regno de' Persiani come απασης κακοδαιμονεσερον πενιας, la maggiore di tutte le calamità. Ella toccava i nove anni sul finire del regno di Malek-Sà (A. D. 1092); e quando narra che questo monarca fu assassinato, confonde il Sultano col suo Visir. (Alexias, l. VI, p. 177, 178).

351. Sono essi conosciuti sì poco, che il De Guignes, dopo tutte le sue indagini, si è limitato a trascrivere (t. I, p. 244; t. III, part. I, p. 269, ec.) la storia, o piuttosto il registro de' Selgiucidi di Kerman, qual trovasi nella Biblioteca orientale. Cotesta dinastia è sparita prima della fine del duodecimo secolo.

352. Il Tavernier, solo forse tra i viaggiatori che sia andato sino a Kerman, ne descrive la capitale, come un grande villaggio caduto in rovina, situato in mezzo ad una fertile contrada distante di venticinque giorni da Ispahan, e ventisette da Ormus. (Voyages en Turquie et en Perse: p. 107-110).

353. Stando ai racconti di Anna Comnena, i Turchi dell'Asia Minore obbedivano ai decreti d'arresto, ossia Sciaus del gran Sultano (Alexias, l. VI, p. 470), il quale, ella dice, teneva alla sua Corte i due figli di Solimano (p. 180).

354. Petis de la Croix (Vie de Gengis-khan, p. 161), cita questa espressione che giusta ogni apparenza ad un poeta persiano appartiene.

355. Nel narrare la conquista dell'Asia Minore, il De-Guignes non ha potuto giovarsi in modo alcuno degli scrittori arabi o turchi che si contentano di offerire una sterile genealogia de' Selgiucidi di Rum; e poichè i Greci furono ritrosi a palesare la propria ignominia, i moderni storici son ridotti a fondarsi unicamente sopra poche parole sfuggite a Scilitze (p. 860, 863), a Niceforo Briennio (p. 88-91, 92 ec., 103, 104), e ad Anna Comnena (Alexias, p. 91, 92, ec., 168, ec.).

356. Così il paese di Rum viene descritto dall'armeno Haiton, autore di una Storia tartara che leggesi nelle Raccolte del Ramusio e del Bergeron (V. Abulfeda, Geogr., Climat 17, p. 301-305.).

357. Abbiamo già mostrato in una Nota al vol. IX che la Divinità di Gesù Cristo era già stata creduta anche prima del Concilio generale di Nicea, adunato nell'anno 325, dove poi fu scritto il Credo ec. coll'espressione Consustantialem, che spiega, e stabilisce appunto la Divinità di Gesù Cristo. (Nota di N. N.)

358. Dicit eos quemdam abusione sodomitica intervenisse episcopum (Guibert. Abbat., Hist. Hierosol., l. I, p. 468). Ella è cosa singolare che il medesimo popolo ne abbia offerto ai nostri giorni un non dissimile tratto. «Non vi sono orridezze, dice il Barone di Tott nelle sue Memorie (t. II, p. 193) che cotesti Turchi non abbiano commesse; e simili a soldati che senza sentir legge o freno nel sacco di una città, non si appagano di manomettere tutto a lor grado, ma aspirano anche a' successi non lusinghieri in modo veruno, alcuni Spai sfogarono la loro libidine sulle persone del vecchio rabbino della Sinagoga, e dell'arcivescovo greco».

359. L'Imperatore, ossia l'Abate Giberto, descrive la scena del campo turco come se vi fosse stato in persona. Matres correptae in conspectu filiarum, multipliciter repetitis diversorum coitibus vexabantur. Cum filiae assistentes carmina praecinere saltando cogerentur. Mox eadem passio ad filias, ec.

360. V. diverse particolarità intorno Antiochia e la morte di Solimano in Anna Comnena (Alexias, l. VI, p. 168, 169), colle note del Ducange.

361. Guglielmo di Tiro (l. I, c. 9, 10, p. 635) offre descrizioni le più autentiche e le più deplorabili sulle conquiste de' Turchi.

362. Nella sua lettera al conte di Fiandra, sembra che Alessio avvilisca il suo carattere e il decoro imperiale; pure il Ducange la ravvisa per autentica (Not. ad Alexiad., p. 335, ec.), benchè sia piuttosto una parafrasi dell'Abate Giberto storico che vivea ai giorni di Alessio. Il testo greco è perduto e tutti i traduttori e copisti hanno potuto dire col citato Giberto (p. 475) verbis vestita meis, privilegio d'una indefinita estensione.

363. Due passi estesissimi ed originali di Guglielmo, arcivescovo di Tiro (l. I, c. 1-10; l. XVIII, c. 5, 6), il principale autore dell'opera Gesta Dei per Francos, contengono sicurissime particolarità intorno alla storia di Gerusalemme, cominciando da Eraclio, e venendo sino ai tempi delle Crociate. Il De Guignes ha composta una dotta Memoria sul commercio che, prima delle Crociate, avevano nel Levante i Francesi ec. (Mém. de l'Acad. des inscript., t. XXXVII, p. 467-500).

364. Secundum dominorum dispositionem, plerumque lucida, plerumque nubila recepit intervalla, et aegrotantium more, temporum praesentium gravabatur, aut respirabat qualitate (l. I, c. 3, p. 630). La latinità di Guglielmo di Tiro non è affatto sprezzabile; ma quando egli racconta essere trascorsi quattrocentonovanta anni fra il tempo della caduta e quello in cui fu ripresa Gerusalemme, ne mette una trentina di più.

365. V. intorno alle corrispondenze di Carlo Magno con Terra Santa Eginardo (De vita Caroli Magni, c. 16, p. 79-82), Costantino Porfirogeneta (De administr. imperii, l. II, c. 26, p. 80), e il Pagi (Critica, t. III, A. D. 800, n. 13, 14, 15).

366. Il Califfo concedè diversi privilegi Amalphitanis viris amicis et utilium introductoribus (Gesta Dei, p. 934). Il commercio di Venezia nell'Egitto e nella Palestina, non può vantare sì antica data, quando mai non si ammettesse la burlesca traduzione di un Francese che confondea le due fazioni del Circo (Veneti et Prasini) co' Veneziani e coi Parigini.

367. I pellegrini cristiani, a norma della loro fede, dovevano visitare la tomba di Gesù Cristo, come figlio di Dio, ed i pellegrini maomettani, secondo la loro credenza, visitavano quella di Maometto come semplice loro Profeta, ed inviato da Dio. (Nota di N. N.)

368. Una cronaca araba di Gerusalemme, presso l'Assemani (Bibl. orient., t. I, p. 628; t. IV, p. 368), attesta l'incredulità del Califfo e dello storico. Ciò nullameno Cantacuzeno osa appellarsi ai Musulmani medesimi sulla realtà di questo perpetuo miracolo.

369. L'erudito Mosheim ha discusso separatamente quanto a tal preteso prodigio si riferisce nelle sue dissertazioni sulla Storia Ecclesiastica (t. II, p. 214-306. De lumine sancti sepulchri).

370. Giacchè Gesù Cristo che ha fatto tanti miracoli, come sappiamo dagli Evangelisti, poteva operare anche questo, non dovevasi usare l'espressione pia frode. (Nota di N. N.)

371. Guglielmo di Malmsbury (l. IV, c. 11, 209) cita l'Itinerario del monaco Bernardo, testimonio oculare, che visitò Gerusalemme nell'anno 870; e la testimonianza di lui vien confermata da un altro pellegrino, che di alcuni anni avealo preceduto; e il Mosheim asserisce che i Franchi cotesta frode inventarono poco dopo la morte di Carlomagno.

372. I nostri viaggiatori, Sandys (p. 134), Thevenot (p. 621-627), Maundrell (p. 94, 95) ec., descrivono questa stravagante burletta. I Cattolici si trovano imbarazzati nel determinare il tempo in cui finì il miracolo, e gli fu sostituita la frode.

373. Gli stessi Orientali confessano la frode, adducendone poi a giustificazione la necessità e diverse mire edificanti, per cui fu inventata (Mémoires du chevalier d'Arvieux, t. II, p. 140; Giuseppe Abudacni, Hist. Coph., c. 20); ma io non farò prova, come il Mosheim, di indicare il modo onde il creduto miracolo si operava; e penso che i nostri viaggiatori sono caduti in abbaglio volendo spiegare la liquefazione del sangue di S. Gennaro.

374. Possono consultarsi il D'Herbelot (Bibl. orient., p. 411), il Renaudot (Hist. patriar. Alex., p. 390-397, 400, 401), Elmacin (Hist. Saracen., p. 321-323), e Marei (p. 384-386), storico dell'Egitto, tradotto dall'arabo nell'alemanno per opera del Reiske, e ch'io mi sono fatto interpretare verbalmente da un amico.

375. La religione dei Drusi è nascosta sotto il velo della ignoranza e della ipocrisia. Il segreto della loro dottrina viene comunicato ai soli Eletti che conducono una vita contemplativa. Quanto ai Drusi delle classi comuni, i più indifferenti di tutti gli uomini, si conformarono, giusta le circostanze, al culto de' Maomettani, o a quello de' Cattolici dei loro dintorni. Le poche cose che si sanno, o, a dir meglio, le poche cose che meritano essere conosciute intorno a questa popolazione, trovansi nel Niebur; il quale Autore ha accuratamente esaminati i paesi da lui trascorsi (Voyages, t. II, p. 354-357), e nel secondo volume del Viaggio recente ed instruttivo del Sig. Volney.

376. V. Glaber, l. III, c. 7, e gli Annali del Baronio e del Pagi, A. D. 1009.

377. Per idem tempus ex universo orbe tam innumerabilis multitudo coepit confluere ad sepulchrum Salvatoris Hierosolimis, quantum nullus hominum prius sperare poterat. Ordo inferioris plebis.... mediocres.... reges et comites.... praesules.... mulieres multae nobiles cum pauperioribus.... pluribus enim erat mentis desiderium mori priusquam ad propria reverterentur. (Glaber., l. IV, c. 6; Bouquet, Historiens de France, t. X, p. 50).

378. Glaber (l. III, c. 1). Katona (Hist. crit. reg. Hungar., t. I, pag. 304-311) si fa ad esaminare, se S. Stefano abbia fondato un monastero a Gerusalemme.

379. Il Baronio (A. D. 1064, n. 43-56) ha copiata la maggior parte de' racconti originali d'Ingolfo, di Mariano e di Lamberto.

380. V. Elmacin (Hist. Saracen., p. 349, 350), e Abulfaragio (Dynast., p. 237, vers. Pocock). Il De Guignes (Histoire des Huns, t. III, part. I, p. 215, 216) aggiugne le testimonianze, o piuttosto i nomi di Abulfeda e di Novairi.

381. Dal tempo della spedizione di Isar Atsiz (A. E. 469, A. D. 1076) fino all'espulsione degli Ortokidi (A. D. 1096). Ciò nonostante Guglielmo di Tiro (l. I, c. 16, p. 633) assicura che Gerusalemme rimase trentotto anni in potere dei Turchi; ed una Cronaca araba citata dal Pagi (t. IV, p. 202), suppone che un generale Carizmio l'abbia sottomessa al Califfo di Bagdad, nell'anno dell'E. 463, di Gesù Cristo 1070. Queste date tanto lontano mal si accordano colla storia generale dell'Asia, e son ben certo che nell'anno di Gesù Cristo 1064 il regnum Babylonicum (del Cairo) trovavasi tuttavia nella Palestina (Baronius, A. D. 1064, n. 56).

382. De Guignes, Histoire des Huns, t. I, p. 249-252.

383. Guglielmo di Tiro (l. I, c. 8, p. 634) si dà molta briga nell'ingrandire i mali che i Cristiani soffrivano. I Turchi pretendeano un aureus da ciascun pellegrino. Il caphar de' Franchi è oggidì di quattordici dollari, nè di tal volontaria tassa l'Europa lamentasi.

384. L'origine del vocabolo Picard, e per conseguenza di Picardie, non più remota del duodicesimo secolo, è affatto singolare, e deriva da un scherno, meramente accademico, sugli studenti dell'università di Parigi, venuti dalle frontiere della Francia, o della Fiandra, ai quali a motivo della indole loro litigiosa fu attribuito l'epiteto di Picards. (Valois, Notitia Galliarum, pag. 447; Longuerue, Descript. de la France, pag. 54).

385. Guglielmo di Tiro (l. I, c. 11, p. 637, 638) descrive così l'Eremita: Pusillus, personna contemplibilis, vivacis ingenii, et oculum habens perspicacem gratumque, et sponte fluens ei non deerat eloquium. (V. Alberto d'Aix, p. 185; Giberto, p. 482; Anna Comnena in Alex., l. X, p. 284 ec., e le Note del Ducange, p. 349).

386. Ultra quinquaginta millia, si me possunt in expeditione pro duce et pontifice habere, armata manu volunt in inimicos Dei insurgere, et ad sepulchrum Domini ipso ducente pervenire. (Greg. VII, epist. 2, 31, t. XII, p. 322, Concil.).

387. V. le vite originali di Urbano II, scritte da Pandolfo Pisano, e da Bernardo Guido nel Muratori (Rerum ital. script., t. III, part. I, 352, 353).

388. Cotesta donna è conosciuta sotto i nomi di Prasse, Euprecia, Eufrasia e Adelaide. Ella era figlia di un principe russo, e vedova di un Margravio di Brandeburgo (Struw, Corp. Hist. german. p. 340).

389. Henricus odio eam coepit habere: ideo incarceravit eam, et concessit ut plerique vim ei inferrent; imo filium hortans ut eam subagitaret (Dodechin, Continuat. Marian. Scot., apud Baron., A. D. 1092 n. 4), e nel Concilio di Costanza, da Bertoldo, rerum inspector viene indicata; quae se tantas et tam inauditas fornicationum spurcitias, et a tantis passam fuisse conquesta est, etc. e indi a Piacenza: satis misericorditer suscepit, eo quod ipsam tantas spurcitias non tam commisisse, quam invitam pertulisse, pro certo cognoverit papa cum sancta synodo (Ap. Baron. A. D. 1093, n. 4, 1094, 3). Bizzarro argomento alle infallibili decisioni di un Pontefice e di un Concilio![*]. Cotali abbominazioni ripugnano a tutti i sentimenti della natura umana, cui non può alterare una contesa che alla mitra e all'anello si riferisca. Sembra ciò nullameno che questa femmina sciagurata si lasciasse indurre dai preti a raccontare, o ad attestare colla propria sottoscrizione alcuni fatti obbrobriosi per essa e per suo marito ad un tempo.

* I cattivissimi costumi di quel tempo davano tali sospetti ai Concilj, che per mancanza di buone leggi, di saggia politica, d'illuminati magistrati, e in somma d'incivilimento, dovevano udire tali cose, e rimediarvi, e giudicarne: di que' secoli di mezzo, disse dottamente il Sabellico, ed abbiam noi maggior diritto di dirlo, giacchè di molto andarono innanzi le scienze, da Sabellico a noi: stupor et amentia quaedam oblivioque morum invaserant hominum animos. (Nota di N. N.)

390. V. la Descrizione e gli Atti del Sinodo di Piacenza (Concil. t. XII, p. 821 ec.).

391. Giberto, nato in Francia tesse egli stesso l'elogio del valore e della pietà di sua nazione, la quale co' detti e coll'esempio predicò la Crociata: Gens nobilis, prudens, bellicosa, dapsilis et nitida.... Quos enim Britones, Anglos, Ligures, si bonis eos moribus videamus, non illico Francos homines appellemus? (pag. 478). Egli medesimo per altro confessa che la vivacità de' suoi compatriotti degenera in vane millanterie (pag. 502), e in petulanza verso gli estranei (p. 483).

392. Per viam quam jamdudum Carolus magnus, mirificus rex Francorum, aptari fecit usque C. P. (Gesta Franc., p. 1, Roberto Monaco, Hist. Hieros., l. I, p. 33 ec.).

393. Giovanni Tilpino, o Turpino fu arcivescovo di Reims nell'anno di Cristo 773. Dopo il 1000, un frate delle frontiere della Spagna compose il romanzo che porta in fronte il nome di questo prelato, e ove questo Monsignore vien tratto a dipingersi da sè medesimo, com'uomo al vino e alle risse propenso. Ciò nullameno, tanta era in que' tempi l'opinione del merito degli ecclesiastici, il pontefice Calisto II, A. D. 1122, riconobbe un tale apocrifo libro, siccome autentico, e l'Abate Sugger lo ha citato rispettosamente nelle grandi Cronache di S. Dionigi (Fabric. Biblioth. latin. medii aevi, ediz. Mansi, t. IV, pag. 161).

394. V. Etat de la France, del Conte di Boulainvilliers, t. I, p. 180, 182, e il secondo volume delle Observations sur l'Histoire de France dell'abate Mably.

395. Nelle province australi della Loira, i primi Capeti godeano appena della supremazia feudale; d'ogni lato la Normandia, la Brettagna, l'Aquitania, la Borgogna, la Lorena e la Fiandra, restrigneano i limiti della Francia, così propriamente detta. V. Adr. Valois, Notitia Galliarum.

396. Questi Conti, usciti d'un ramo secondogenito de' duchi di Aquitania, vennero finalmente da Filippo Augusto spogliati della massima parte de' loro dominj; e i vescovi di Clermont insensibilmente diventarono i sovrani della città (Mélanges tirés d'une grande Biblioth., t. XXXVI, p. 288 ec.).

397. V. gli Atti del Concilio di Clermont (Concil., t. XII, p. 829, ec.).

398. Confluxerunt ad concilium e multis regionibus, viri potentes et honorati innumeri, quamvis cingulo laicalis militiae superbi (Baldric, testimonio occulare, p. 86-88; Roberto monaco, p. 31-32; Gugl. di Tiro, 1, 14-15, p. 639-641; Giberto, p. 478-480; Foulcher di Chartres, p. 382.)

399. La tregua di Dio (Treva o treuga Dei) ebbe la sua prima origine in Aquitania, nel 1032; biasimata da alcuni vescovi, come occasione prossima di spergiuro, rifiutata dai Normanni che in contraddizione co' lor privilegi la riguardarono (V. Ducange, Gloss. lat. t. VI, 682-685).

400. Deus vult! Deus vult! era il grido del Clero che intendeva il latino (Robert. Monach, l. I, p. 32). I Laici che parlavano il dialetto provenzale, o di Limoges lo corrompevano esclamando: Deus lo volt o Die el volt! V. Chron. Cassinense, l. IV, c. II, p. 497, nel Muratori, Script. rerum ital., t. IV, e Ducange, Diss. XI, p. 207, sopra Joinville, e Gloss. lat., t. II, p. 690. Quest'ultimo autore offre nella sua Prefazione un saggio difficile anzichè no del dialetto di Rouergue nel 1100; e le circostanze di luogo e di tempo, si avvicinano assai a quelle in cui il Concilio di Clermont fu tenuto (p. 15, 16).

401. Essi la portavano per lo più sull'omero, ricamata in oro o in seta, ovvero fatta di due pezzi di drappo cuciti sull'abito. Nella prima spedizione di tal genere tutte queste Croci erano rosse; nella terza i soli Francesi aveano serbato questo colore. I Fiamminghi preferirono croci verdi, bianche gl'Inglesi (Ducange, t. II, p. 651). Pure il rosso sembra il color favorito del popolo inglese, e in tal qual modo nazionale, se abbiasi riguardo ai loro stendardi e alle loro vesti militari.

402. Il Bongars che ha pubblicate le relazioni originali delle Crociate, adotta con compiacenza il titolo fanatico prescelto da Giberto, Gesta Dei per Francos. Alcuni critici proposero l'ammenda Gesta diaboli per Francos (Hannau 1611, 2 vol. in-fol.). Offrirò qui brevemente la nota degli autori da me consultati per la storia della prima Crociata collocandoli nell'ordine in cui si trovano nella raccolta, 1. Gesta Francorum; 2. Roberto il monaco; 3. Balderico; 4. Raimondo d'Agiles; 5. Alberto d'Aix; 6. Foulcher di Chartres; 7. Giberto; 8. Guglielmo di Tiro; 9. Radolfo Cadomense de gestis Tancredi(Script. rer. ital. t. V, p. 285-333), e 10. Bernardo Tesoriere, De acquisitione Terrae Sanctae (tom. VII, pag. 664-848). Quest'ultimo fu ignoto ad un autore francese moderno che ha composto un lungo registro critico degli storici delle Crociate (Esprit des Croisades, tom. I, p. 13-141), e i cui giudizj credo nella massima parte poter confermare. Non mi è riuscito il procacciarmi che tardi la raccolta degli Storici francesi del Duchesne. 1. Petri Tudebodi sacerdotis Sivracensis Historia de Hierosolymitano Itinere (t. IV, p. 773-815), è stata rifusa nelle opere del primo scrittore anonimo, del Bongars. 2. La storia in versi della prima Crociata, in sette libri divisa (p. 890-912), oltre all'essere assai sospetta, è ben poco istruttiva.

403. Se il lettore si farà ad esaminare la prima scena della prima parte dell'Enrico IV, troverà nel testo del Shakespeare gli slanci naturali dell'entusiasmo, e nelle note del dottore Johnson gli sforzi di uno spirito vigoroso, ma ad un tempo pregiudicato, che avidamente afferra tutti i pretesti per odiare e perseguitare chiunque nelle opinioni religiose da lui differisca.

404. Il sesto discorso del Fleury intorno alla Hist. ecclesiast. (p. 223-261) contiene un esame filosofico sulla cagione e su gli effetti delle Crociate.

405. Muratori (Antiq. ital. medii aevi, t. V, Dissert. 68, p. 709-768) e il sig. Chais (Lettres sur les jubilées et sur les indulgences, t. II, Lettres 21 e 22, p. 478-556) discutono ampiamente il soggetto della penitenza e delle indulgenze del Medio evo. Avvi però fra essi questa diversità che il dotto Italiano dipinge con moderazione, e forse con troppo deboli tinte, gli abusi della superstizione, mentre il ministro olandese gli esagera con eccesso di acerbità.

406. Lo Schmidt (Ist. degli Alemanni, t. II, p. 211-220, 452-462) offre uno scritto del Codice penitenziale di Regino nel nono secolo e di Burcardo nel decimo. A Worms in uno stesso anno furono commessi cinquantacinque assassinj.

407. Il male di que' tempi, nel quale erano involti i laici del pari, che gli ecclesiastici, ed i difetti delle discipline stesse colle quali pretendevasi porvi rimedio, sono già descritti lungamente dagli Storici. I progressi della civiltà, l'ordinamento delle leggi, la cognizione del vero ben pubblico, la buona filosofia, nata, a cresciuta lentamente, ma sodamente, dopo il coltivamento della lettere, e delle arti che a lei disposa, ed elevò gli animi, ci condussero ad uno stato oltremodo migliore, onde noi riguardiamo con compassione quei passati secoli, ne' quali si aveva una falsa idea dell'indulgenze. (Nota di N. N.)

408. Si può provare all'evidenza che fino al dodicesimo secolo il solidus d'argento, o lo scellino, valea dodici danari o soldi, e che venti solidi equivaleano al peso di una libbra d'argento, una lira sterlina in circa. La moneta inglese si trova ridotta ad un terzo del suo valore primitivo, e la francese ad un quinto.

409. Una qualche parte di queste grandi somme era impiegata a benefizio de' poveri; ma questa disposizione, per sè stessa pia, non faceva, non altrimenti, che quella simile de' ricchissimi monasteri, che alimentare l'infingardaggine, ed impedire il movimento dell'industria, una delle vere sorgenti della prosperità di un popolo. (Nota di N. N.)

410. È noto che v'erano cattive costumanze intorno la remissione de' peccati, e intorno al genere di penitenza, onde cancellarli. (Nota di N. N.)

411. Ad ogni centinaio di battiture, il penitente si purificava recitando un salmo; e tutto il Salterio accompagnato da quindicimila staffilate scontava cinque anni di penitenza canonica.

412. La vita e le imprese di san Domenico l'Incuoiato si trovano riferite da Pier Damiano, ammiratore ed amico di questo Santo. V. Fleury (Hist. ecclés., t. XIII, p. 96-104). Il Baronio (A. D. 1056, n. 7) osserva, sulle tracce di Damiano, quanto fosse venuto in usanza un tal modo di espiazione (Purgatorii genus), ed anche fra le più ragguardevoli matrone (sublimis generis).

413. A un quarto di reale, o anche ad un mezzo reale per battitura. Sancio Pansa non mettea tanto cara l'opera sua; nè forse era più mariuolo.... Mi ricordo aver veduto ne' Voyages d'Italie del padre Labat (t. VII, p. 16-29) una pittura ammirabile della destrezza d'uno di cotesti giornalieri.

414. Quicumque pro sola devotione, non pro honoris vel pecuniae adeptione, ad liberandam ecclesiam Dei Jerusalem profectus fuerit, iter illud pro omni paenitentia reputetur. (Canon., Concilio di Clermont, II, p. 829). Giberto chiama novum salutis genus questo pellegrinaggio (p. 471), e tratta, quasi da filosofo, un tale argomento.

415. Tali erano almeno la fiducia de' Crociati, e l'opinione unanime degli Storici d'allora (Esprit des Croisades, t. III, p. 477); giusta la teologia ortodossa però, le preghiere pel riposo dell'anime dovrebbero essere incompatibili coi meriti del martirio.

416. I venturieri scriveano lettere intese a confermare tutte queste belle speranze, ad animandos qui in Francia residerant. Ugo di Reiteste vantavasi di avere in sua porzione una abbazia e dieci castella, pretendendo che la conquista di Aleppo altre cento glie ne frutterebbe. (Guibert, p. 554, 555).

417. Nella sua lettera, o vera, o falsa, al conte di Fiandra, Alessio fa un miscuglio de' rischi della Chiesa, delle reliquie de' Santi e dello amor auri et argenti et pulcherrimarum faeminarum voluptas (p. 476): come se, montando in collera, osserva Giberto, le donne greche fossero più belle delle francesi.

418. V. i privilegi de' Crucesignati, immunità da' debiti, usure, ingiurie, braccio secolare ec. Essi erano sotto la perpetua salvaguardia del Papa (Ducange, t. II, p. 651, 652).

419. Facevano bene a procacciarsi denari, perchè non dobbiam sempre attendere miracoli. (Nota di N. N.)

420. Giberto (p. 481) offre una pittura vivacissima di questa frenesia generale. Egli era nel picciol numero di que' suoi contemporanei, capaci di esaminare e apprezzare con freddezza di mente la scena straordinaria che innanzi agli occhi accadeagli: Erat itaque videre miraculum caro omnes emere, atque vili vendere, ec.

421. Per quanto grande fosse il fanatismo, e la cecità degli uomini in quel tempo, bisognava che l'Autore non solamente citasse cotesta specie di pagamento, ma lo provasse con qualche esempio particolare. (Nota di N. N.)

422. Trovansi nell'opera (Esprit des Croisades, t. III, p. 169, ec.) intorno a questi stigmi alcune particolarità tolte da autori ch'io non ho confrontati.

423. Fuit et aliud scelus detestabile in hac congregatione pedestris populi, stulti et vesanae levitatis, anserem quemdam divino spiritu asserebant afflatum, et capellam non minus eodem repletam; et hos sibi duces secundae viae fecerant, ec. (Alberto d'Aix, l. I, c. 31, p. 169). Se cotesti contadini fossero stati fondatori di un impero, vi avrebbero potuto introdurre, come in Egitto, il culto degli animali che la filosofia de' lor discendenti avrebbe giustificato sotto il velo di qualche sottile e speciosa allegoria.

424. Beniamino di Tudela descrive lo stato de' suoi confratelli ebrei, dimoranti sulle rive del Reno, partendosi da Colonia; questi erano ricchi, generosi, istrutti, benefici, e l'arrivo del Messia con impazienza aspettavano (Viaggi t. I, p. 243-245, di Baratier). Ebbero d'uopo di un periodo di settanta anni (egli scrivea verso l'anno 1170) per rilevarsi dopo le perdite e le stragi sofferte.

425. Lo spogliamento e le strage degli Ebrei che per ogni Crociata rinnovellavansi, vengono dipinti come cose indifferenti dagli storici di quella età. Vero è che S. Bernardo (epist. 363, t. I, p. 329) avverte i Francesi orientali che non sunt Judaei persequendi, non sunt trucidandi. Ma un frate, rivale di S. Bernardo, predicava un'affatto opposta dottrina.

426. V. la Descrizione contemporanea dell'Ungheria in Ottone di Freysingen (l. II, c. 31) e nel Muratori (Script. rerum ital., t. VI, p. 665, 666.).

427. Gli antichi Ungaresi, senza eccettuarne Turotzio, sono male istrutti della prima Crociata, che, secondo essi, si ridusse a passar tutta per un sol luogo. Il Katona, costretto, come noi, a citare gli scrittori francesi confronta però con cognizione de' luoghi l'antica e la moderna geografia. Ante portam Cyperon est Sopron o Poson, Mallevilla, Zemlim, Fluvius Maroe, Sava; Lintax, Leith; Mesebroche vel Merseburg, Onar, o Moson; Tollemburg, Praga (De regibus Hungar., t. III, p. 19-93).

428. Anna Comnena (Alexias, l. X, p. 287) descrive questo οσων κολωνος, monte d'ossa, υψηλον και βαθος και πλατος και πλατος αξιολογωτατον, alto e scosceso e largo, degnissimo di memoria; i Franchi medesimi, all'assedio di Nicea, se ne prevalsero per fabbricare un muro.

429. Trovansi alla successiva p. 301 in un picciolo specchio i rimandi particolari agli Storici che scrissero i grandi avvenimenti della prima Crociata.

430. L'autore dello Esprit des Croisades ha poste in dubbio, e avrebbe anche potuto negare a suo grado, la crociata e la tragica morte del Principe Svenone, e de' suoi mille cinquecento, o quindicimila Danesi trucidati in Cappadocia dal sultan Solimano; ne ha conservata a bastanza la memoria il Tasso nell'ottavo suo canto.

431. Gli avanzi del regno di Lotharingia, o Lorena, vennero divisi in due Ducati, della Mosella, e della Mosa; il primo ha conservato il suo nome; l'altro ha acquistato quello di Ducato del Brabante. (Valois, Notit. Gall., p. 283-288).

432. V. nella Descrizione della Francia, dell'abate di Longuerue gli articoli intorno a Bologna (part. I, p. 47, 48, Bouillon; p. 134). Nell'atto di sua partenza Goffredo diede in pegno alla Chiesa il Ducato di Buglione, ottenendone tredicimila marchi.

433. V. in Guglielmo di Tiro (l. IX, c. 5-8), il carattere di Buglione; il suo antico divisamento, in Giberto (p. 485); l'infermità, e il voto ch'ei fece, in Bernardo il Tesoriere (c. 78).

434. Anna Comnena suppone che Ugo ostentasse nascita, potenza e ricchezze (l. X, p. 288); i due ultimi articoli potevano forse a qualche contestazione esser soggetti, ma una ευγενεια, nobiltà celebre, più di settecent'anni addietro nella reggia di Costantinopoli, attestava come antica fosse in Francia la dignità de' Capeti.

435. V. Guglielmo Gometicense (l. VII, c. 7, p. 672,673, in Camdem Normannicis). Roberto impegnò il Ducato di Normandia per un centesimo di quanto ne è rendita annuale a' dì nostri. Diecimila marchi possono valutarsi un mezzo milione di lire, e la Normandia oggigiorno paga ogn'anno al Re cinquantasette milioni (Necker, Administ. des finances, t. I, p. 287).

436. La lettera che Stefano scrisse a sua moglie trovasi, inserita nello Spicilegium di Dom Luc d'Acheri (t. IV), e citata nello Esprit des Croisades (t. I, p. 65).

437. Unius enim, duum, trium seu quatuor oppidorum dominos quis numeret? Quorum tanta fuit copia, ut non vix totidem Trojana obsidio coegisse putetur. Così esprimesi Giberto colla sua sempre dilettevole vivacità. (p. 486).

438. È cosa straordinaria che Raimondo di San Gille, personaggio secondario nella Storia delle Crociate, sia dagli scrittori greci ed arabi collocato a capo degli eroi di questa spedizione (Anna Comnena, Alex. l. X, XI, e Longuerue, p. 129).

439. Omnes de Burgundia et Alvernia, et Vescovania et Gothi (di Linguadoca) provinciales appellabantur, coeteri vero Francigenae et hoc in exercitu; inter hostes autem Franci dicebantur. (Raimondo d'Agiles, p. 144.)

440. La città natalizia, ossia il primo appannaggio di questo Raimondo, era dedicata a sant'Egidio, il nome del qual Santo, ai giorni della prima Crociata, i Francesi convertirono nell'altro di Saint-Gilles o Saint-Giles (san Gille). Situata nella Bassa Linguadoca, fra Nimes e il Rodano, questa città, vanta una Collegiata di cui lo stesso Raimondo è stato il fondatore (Mélanges tirés d'une grande Bibliothèque, t. XXXVII, p. 51).

441. Erano genitori di Tancredi il marchese Odone il Buono, ed Emma, sorella del gran Roberto Guiscardo. Fa maraviglia che la patria di un tanto illustre personaggio sia sconosciuta. Il Muratori, con molta probabilità, lo presume italiano, e forse della stirpe de' marchesi di Monferrato nel Piemonte (Script., t. V, p. 281, 282).

442. Per compiacere la puerile vanità della Casa d'Este[*] il Tasso ha inserito nel suo poema, e nella prima Crociata un eroe favoloso, il valente e innamorato Rinaldo. Forse ei prese ad imprestito questo nome da un Rinaldo decorato dell'Aquila bianca estense, che vinse l'Imperatore Federico I (Storia imperiale di Ricobaldo, nel Muratori, Script. Ital., t. X, p. 360; Ariosto, Orlando furioso); ma primieramente la distanza di sessant'anni fra la gioventù de' due Rinaldi, distrugge la loro identità; in secondo luogo, la Storia imperiale è una invenzione del Conte Boiardo, architettata sul finire del secolo XV (Muratori, p. 281-289). Per ultimo questo secondo Rinaldo e le sue imprese, non sono men favolose di quelle dell'altro Rinaldo cantato dal Tasso (Muratori, Antichità estensi, t. I, p. 350).

* Più antica di Virgilio, il quale assegna per antenati ad Augusto i pronipoti di Venere, figlia di Giove, è la compiacenza dei potenti nel veder immortalate le loro prosapie dal canto de' sommi poeti; e meglio che puerile potremmo chiamarla, una vanità ingenita nella natura umana. Nel caso particolare poi, chi conosce la vita e le sfortune del Tasso, potrà facilmente persuadersi che la finzione da esso inventata ad onore di una famiglia, la quale non manca d'uomini illustri, anche senza ricorrere a finzioni, gli fu suggerita da desiderio di rendersi accetto ai suoi padroni, anzichè da una brama da essi spiegata di voler essere onorati in tal guisa. (Nota dell'Editore)

443. Due etimologie vengono assegnate alla parola gentilis, gentiluomo. L'una deriva dai Barbari del quinto secolo prima arrolatisi come soldati, divenuti indi conquistatori dell'Impero Romano, i quali dalla loro straniera origine traevano vanità. L'altra dall'opinione de' giureconsulti che hanno per sinonimi i vocaboli gentilis ingenuus. Alla prima etimologia inclina il Selden; la seconda più spontanea, è anche la più probabile.

444. Framea scutoque juvenem ornant. Tacito, Germania, c. 13.

445. Gli esercizj degli atleti, soprattutto il cesto e il pancrazio, vennero biasimati da Licurgo, da Filoppemene e da Galeno, vale a dire da un legislatore, da un Generale e da un medico. Contro la censura di questi il lettore può leggere la difesa che ne ha fatto Luciano nell'elogio di Solone (V. West, sui Giuochi olimpici nel suo Pindaro, v. II, p. 86-96, 245-248).

446. Nelle opere del Selden (t. III, part. I. I Titoli di onore: part. II, c. 1-3, 5-8) trovansi molto estese descrizioni intorno la cavalleria, il servigio dei cavalieri, la nobiltà, il grido di guerra, gli stendardi e i tornei. V. anche il Ducange (Gloss. lat. t. IV, p. 398-412 ec., Diss. intorno al Joinville, l. VI, al XII, pag. 127-142, 165-222), e Mémoires de M. de Sainte-Palaye sur la Chevalerie.

447. L'opera Familiae dalmaticae del Ducange è arida ed imperfetta; gli storici nazionali troppo moderni e favolosi: troppo lontani e trascurati gli storici greci. Nell'anno 1004, Colomano diede per confini al paese marittimo Salona e Trau (Katona, Hist. crit. t. III, p. 195-207).

448. Scodra, presso Tito Livio, sembra essere stata la capitale o la Fortezza di Genzio, re degl'Illirici, arx munitissima, indi non colonia romana (Cellarius, t. I, p. 393-394), che ha preso poi il nome di Iscodar, o Scutari (D'Auville, Géogr. ancien., t. I, p. 164). Il Sangiacco, oggidì Pascià di Scutari, o Sceindeire, era l'ottavo sotto il Beglierbeg di Romania, e somministrava seicento soldati sopra una rendita di settantottomila settecento ottantasette risdaleri. (Marsigli, Stato militare dell'Impero Ottomano p. 128.)

449. In Pelagonia castrum haereticum... spoliatum cum suis habitatoribus igne combussere. Nec id eis injuria contigit: quia illorum detestabilis sermo et cancer serpebat, jamque circumjacentes regiones suo pravo dogmate faedaverat (Roberto Mon., p. 36, 37). Dopo avere freddamente raccontato il fatto, l'arcivescovo Baldricco aggiugne come un elogio: Omnes, siquidem illi viatores, Judaeos, haereticos, Saracenos aequaliter habent exosos; quos omnes appellant inimicos Dei (p. 92).

450. Αναλαβομενος απο Ρωμης την χρυσην του’ Αγιου Πετρου σημαιαν, levando da Roma tutto l'oro monetato di S. Pietro (Alexiad., l. X, p. 288).

451. Ο Βασιλευς των Βασιλεων, και αρχηγος του Φραγγικου στρατεματος απαντος, Re dei Re, e generalissimo di tutto l'esercito Franco: pompa orientale, che è ridicola in un conte di Normandia; ma il Ducange, compreso da patrio zelo (Not. ad Alexiad., p. 352, 353; Dissert. sopra Joinville p. 315) ripete con compiacenza i passi di Mattia Paris (A. D. 1254), e di Froiss (vol. IV, pag. 201) che attribuiscono al re di Francia i titoli di rex regum, o di chef de tous les rois chrétiens.

452. Anna Comnena, nata nel dì 1 dicembre, A. D. 1083, ind. VIII (Alexiad., l. VI, p. 166. 167) avea tredici anni all'epoca della prima Crociata. Già atta alle nozze, o forse sposatasi al giovine Niceforo, ella lo chiama con tenerezza τον εμαν Καισαρα, il mio Cesare (l. X, pag. 295, 296). Alcuni moderni hanno attribuita a dispetto amoroso l'avversione in cui ebbe Boemondo. Quanto alle cose accadute a Costantinopoli e a Nicza (Alex., l. X, XI, p. 283-517) la parzialità de' suoi racconti può contrabbilanciare quella degli storici latini; ma si ferma poco sugli avvenimenti che dalle stesse cose seguirono, ed è inoltre a tal proposito male istrutta.

453. Nel modo di dipingere il carattere e la politica di Alessio, il Maimbourg ha favoriti i Franchi cattolici, il Voltaire si è mostrato di soverchio parziale ai Greci scismatici. I pregiudizj di un filosofo sono meno scusabili che quelli di un Gesuita.

454. Fra il mar Nero ed il Bosforo sta il fiume Barbyses, profondissimo nella state, e che scorre per uno spazio di quindici miglia in mezzo ad una prateria uniforme e scoperta. La sua comunicazione con Costantinopoli e coll'Europa, è assicurata dal ponte di pietra di Blachernae che fu rifabbricato da Giustiniano e da Basilio (Gillio De Bosphoro Thracio, lib. II, c. 3, Ducange C. P. Christiana, lib. IV, cap. 2, pag. 179).

455. Due sorta v'erano di adozioni; quella dell'armi, e l'altra, la cerimonia della quale si stava nel far passare il figlio adottivo tra la pelle e la camicia del padre. Il Ducange, Dissert. XXII p. 270, suppone che Goffredo sia stato adottato nel secondo di tali modi.

456. Dopo il suo ritorno dalle Crociate, Roberto si fece affatto ligio al re d'Inghilterra. V. il primo atto dei Foedera del Rymer.

457. Sensit vetus regnandi, falsos in amore, odia non fingere; Tacito VI, 44.

458. La vanità degli storici delle Crociate accenna leggiermente e con imbarazzo questa circostanza umiliante; nondimeno è cosa molto naturale, che se questi eroi s'inginocchiarono per salutar l'Imperatore, che rimaneva immobile sul proprio trono, gli baciarono i piedi o le ginocchia. Solamente fa maraviglia che Anna non abbia ampiamente supplito al silenzio e all'oscurità dei Latini; l'umiliazione dei loro principi avrebbe aggiunto un capitolo, rilevante per questa donna, al Coeremoniale aulae Byzantinae.

459. Questo Crociato si diede il nome di φραγγος καθαρος ευγενων, Franco puro fra i Nobili (Alexiad., l. X, p. 301). Bel titolo di nobiltà, ascendente all'undicesimo secolo per chi potesse ai dì nostri provarsi derivato da questo Roberto! Anna racconta, con segnalata compiacenza, che questo arrogante Barbaro Λακινος τετυφωμενος, Latino pien di fumo, fu in appresso ucciso e sconfitto, combattendo alla prima linea dell'esercito nella battaglia di Dorilea, l. XI, p. 317; circostanza che può giustificare quanto il Ducange ha supposto intorno all'audace Barone; cioè essere questi Roberto di Parigi, del distretto chiamato il ducato o l'Isola di Francia.

460. Con eguale accorgimento il Ducange scopre che la chiesa di cui favellava il Barone, è S. Drauso o Drosino di Soissons. Quem duello dimicaturi solent invocare: pugiles qui ad memoriam ejus (alla tomba), pernoctant invictos reddit, ut de Italia et Burgundia tali necessitate confugiatur ad eum. Joan. Sariberiensis epist. 139.

461. Varie sono le opinioni sul numero d'uomini che questo esercito componeano; ma non avvi autorità paragonabile a quella di Tolomeo che lo determina di cinquemila uomini a cavallo, e trentamila fanti (V. gli Annales di Usher, p. 152).

462. V. Foulcher di Chartres p. 587. Egli annovera diciannove nazioni di nome e lingue diverse (p. 389). Io però non comprendo con molta chiarezza qual differenza ei ponga tra Franci e Galli, fra Itali e Apuli. Altrove (p. 385) parla col massimo disprezzo dei disertori.

463. V. Giberto, pag. 556. Però la modesta opposizione di questo istorico lascia tuttavia luogo ad ammettere un numero d'uomini considerabilissimo. Urbano II, nel fervor del suo zelo, conta sino a trecentomila i pellegrini (Epist. 16, Concil. t. XII, p. 731).

464. V. Alexias, l. X, p. 283-505. La ridicola schifiltà di questa principessa, la trae a lamentarsi della bizzarria di certi nomi alla pronunzia difficilissimi; e di fatto son pochi i nomi latini che ella non siasi studiata di sformare con quella orgogliosa ignoranza sì comune e tanto prediletta ai popoli ingentiliti. Ne citerò un solo esempio; ella trasforma il nome di S. Gille in Sangeles.

465. Guglielmo di Malmsbury che scrisse verso l'anno 1130, ha inserito nella sua Storia (l. IV, p. 130-154) il racconto della prima Crociata; ma avrei bramato che invece di prestare orecchio a voci di lieve conto, raccolte attraversando l'Oceano (p. 143), si fosse limitato a narrare quanto riferivasi al numero, alle famiglie, e alle avventure de' suoi compatriotti. Trovo in Dugdale che un Normanno inglese, Stefano conte di Albermarle e di Holdernesse, comandava alla battaglia d'Antiochia l'antiguardo in compagnia del Duca Roberto (Baronage, part. I, p. 61).

466. Videres Scotorum apud se ferocium, alias imbellium cuneos (Guibert, p. 471). Il crus intectum, e la hispida chlamys, possono riferirsi ai montanari scozzesi: ma il finibus uliginosis è applicabile con più naturalezza alle paludi della Irlanda. Il Malmsbury parlando degli abitanti di Galles e degli Scozzesi (l. IV, p. 133), dice che i primi abbandonarono venationem saltuum, i secondi familiaritatem pulicum.

467. Qui l'Autore a torto allude di nuovo al culto renduto da' Cattolici alle immagini. (Nota di N. N.)

468. Questa fame da cannibali, talvolta reale, e più sovente menzognera e artifiziosa, viene affermata da Anna Comnena (Alex., l. X, p. 288), da Giberto (p. 546), da Radolfo Cadom. (capo 97). L'autore dell'opera Gesta Francorum, il monaco Roberto, Baldricco e Raimondo di Agyle, riferiscono questo stratagemma all'assedio e alla carestia di Antiochia.

469. I Latini lo additano col nome di Solimano, nome che pur gli davano i Musulmani il carattere e l'indole di questo Sultano è stata di molto sublimata dal Tasso. I Turchi il nomavano Kilidge-Arslan (A. E. 485-500, A. D. 1092-1107. V. le Tavole del De Guignes, t. I, p. 245). Gli Orientali si valeano di questo nome; parimente l'adoperavano, benchè corrotto alcun poco, i Greci, ma non trovasi che un nome solo nelle storie de' Maomettani, i cui scrittori si dimostrano molto aridi e laconici in tutto quanto si aspetta alla prima Crociata (De Guignes t. III, part. II, p. 10-30).

470. Su tutto ciò che riguarda fortificazioni, macchine e assedj del Medio Evo, si consulti il Muratori (Antiq. Ital., t. II, Dissert. 26, p. 452-524). Il belfredus, d'onde è venuta la più moderna voce beffroi, era la torre sulle ruote degli Antichi (Ducange t. I, p. 608).

471. Non posso starmi dall'osservare la somiglianza tra le fazioni operate dai Crociati nell'assedio di Nicea dal suo lago protetta, e quelle di Fernando Cortez dinanzi alla capitale del Messico. (V. Robertson, Storia dell'America t. I, p. 608.)

472. Miscredenti, voce inventata dai Crociati francesi, e adoperata oggidì solamente nel significato ch'essa offre. Sembra però che i nostri antichi, nell'ardore della lor divozione, riguardassero come sinonimi i vocaboli miscredente, e uomo spregevole; questa pregiudicata opinione cova tuttavia nelle anime di alcuni che si pretendono essere veri cristiani.

473. Il Baronio ha tratta in campo una lettera molto apocrifa, e scritta al mio fratello Ruggero (A. D. 1098 n. 15). Giusta la medesima l'esercito nemico era composto di Medi, di Persiani e di Caldei: sia! il primo assalto fu a danno dei nostri; è vero anche questo: ma per qual motivo Goffredo di Buglione e Ugo si danno il titolo di fratelli? osservo inoltre che vien dato a Tancredi il nome di filius. Figlio di chi? Non certamente di Ruggero o di Boemondo.

474. Verum tamen dicunt se esse de Francorum generatione; et quia nullus homo naturaliter debet esse miles nisi Turci et Franci (Gesta Francorum, p. 7). Tal comune origine ed eguaglianza di valore nelle due genti viene parimente riconosciuta e attestata dall'Arcivescovo Baldricco, (p. 99).

475. Balista, balestra, arbalete, V. Muratori, Antiquit., t. II, p. 517-524: Ducange, Gloss. lat., t. I, p. 531, 532. Ai giorni di Anna Comnena, una tal arme, descritta dalla medesima sotto il nome di tzangra, era sconosciuta nell'Oriente. (l. X, pag. 291). Per un sentimento d'umanità che mal coll'altre cose accordavasi, il Papa si adoperò ad impedire nelle guerre de' Cristiani l'uso delle balestre.

476. Il leggitore curioso può far confronto tra la erudizione classica del Cellario, e la scienza geografica del d'Anville. Guglielmo di Tiro è il solo storico delle Crociate che conosca alcun poco l'antichità. Il Sig. Otter ha presso che passo a passo seguìti i Franchi da Costantinopoli fino ad Antiochia (Voyage en Turquie et en Perse, t. I, p. 35-88.)

477. Quanto avvi di meglio intorno a questa particolare conquista di Edessa, è il racconto fattone da Foulcher di Chartres, il valoroso Cappellano del Conte Baldovino, racconto che trovasi nelle compilazioni di Bongars, Duchesne e Martenne (Esprit des Croisades, t. I, p. 13, 14). E in ciò che spetta alle risse accadute fra questo Principe e Tancredi, la parzialità del ridetto Foulcher può contrapporsi a quella dimostrata da Randolfo Cadomense, soldato e storico del prode Marchese di Puglia.

478. V. de Guignes, Hist. des Huns, t. I, p. 456.

479. Quanto ad Antiochia, V. la Descrizione del Levante composta dal Pocock, vol. 2, part. 1, p. 188-193; Voyage d'Otter en Turquie, ec. t. I, p. 81, ec.; il Geografo turco nelle Note fatte al predetto viaggio; l'Indice geografico di Schultens (ad calcem Bohadin., vit. Saladini), ed Abulfeda (Tabula Syriae, p. 115, 116, vers. Reiske).

480. Ensem elevat, eumque a sinistra parte scapularum, tanta virtute intorsit ut quod pectus medium disjunxit, spinam et vitalia interrupit, et sic lubricus ensis super crus dextrum integer exivit, sicque caput integrum cum dextera parte corporis immersit gurgite, partemque quae equo praesidebat remisit civitati (Robert. Mon. p. 50). Cujus ense trajectus Turcus duo factus est Turci; ut inferior alter in urbem equitaret, alter arcitenens in flumine nataret (Radulph. Cadom., c. 53, p. 54). Questo autore ciò null'ostante si sforza a giustificare il fatto, deducendolo dalle stupendis viribus, o più che naturali di Goffredo. Guglielmo di Tiro cerca salvare la verisimiglianza colla seguente espressione obstupuit populus facti novitate: però un tal fatto ai cavalieri di quel secolo non dovea sembrare incredibile.

481. V. le geste di Roberto, di Raimondo, e del modesto Tancredi che imponea silenzio al proprio scudiere (Radulp., Cadom., c. 53).

482. Dopo avere raccontato a qual cattivo partito ridotti fossero i Franchi, e l'umile proposta che fecero al nemico, Abulfaragio aggiugne la superba risposta di Codbuka o Kerboga: Non evasuri estis nisi per gladium (Dynast., p. 242).

483. La maggior parte degli Storici latini (l'Autore delle Gesta, p. 17; il monaco Roberto, p. 56; Baldric, p. 111; Foulcher di Chartres, p. 392; Giberto, p. 512; Guglielmo di Tiro, l. VI, c. 3, pag. 714; Bernardo il Tesoriere, c. 39, p. 695) nel descrivere l'esercito di Kerboga si limitano alle espressioni vaghe di infinita multitudo, immensum agmen, innumerae copiae o gentes, che combinano coll'altre μετα ανοριθμητων χιλιαδων, innumerabili migliaia di migliaia, di Anna Comnena (Alexias, l. XI, p. 318-320). Alberto d'Aix fa sommare il numero de' Turchi a dugentomila uomini di cavalleria (l. IV, c. 10, p. 242), e Radolfo a quattrocentomila (c. 72, p. 309).

484. V. la fine tragica e scandalosa di un arcidiacono di stirpe reale, ucciso dai Turchi, mentre stavasi in un verziere giocando ai dadi con una concubina della Sorìa.

485. Il prezzo di un bue da cinque solidi (quindici scellini) salì a due marchi (quattro lire sterline), indi anche di più; un capretto, o un agnello da uno scellino a quindici o diciotto lire tornesi all'incirca. Nella seconda carestia, una pagnotta, o una testa d'animale, vendeansi una piastra d'oro. Molti altri esempj si potrebbero citare; ma sono i prezzi ordinarj non gli straordinarj che meritano l'attenzione del filosofo.

486. Alii multi, quorum omnia non tenemus, quia deleta de libro vitae, praesenti operi non sunt inserenda (Guglielmo di Tiro, l. VI, c. 5, p. 715). Giberto, pag. 518-523, cerca di scusare Ugo il Grande ed anche Stefano di Chartres.

487. V. il seguito della Crociata, la ritirata di Alessio, la vittoria di Antiochia, e la conquista di Gerusalemme nell'Alessiade, l. II, pag. 317-327. La Principessa greca era tanto propensa alla esagerazione, che neppure narrando le geste dei Latini, ha potuto farne di meno.

488. Non è da maravigliarsi, che in quei tempi, ed in quelle circostanze sia ciò avvenuto: ciò nulla ha relazione colla sostanza della religione cristiana. (Nota di N. N.)

489. Nel raccontare le cose che alla Santa Lancia si riferiscono, il maomettano Abulmahasen (V. de Guignes, t. II, parte 2, p. 95) è più esatto de' due storici Cristiani, Anna Comnena e Abulfaragio. La Principessa greca confonde la Lancia con un Chiodo della Croce, (l. XI, p. 366); e un primate giacobita col pastoral di S. Pietro (p. 242).

490. I due antagonisti che si mostrano meglio istrutti, e più fortemente convinti, l'un del miracolo l'altro della frode, sono Raimondo d'Agiles e Randolfo di Caen, il primo appartenente al seguito del Conte di Tolosa, il secondo al Principe normanno. Foulcher di Chartres osa dire: Audite fraudem et non fraudem! indi invenit lanceam, fallaciter occultatam forsitan: il rimanente della turba sostenea con fermezza e forza la veracità del miracolo.

491. V. De Guignes (t. II, part. 2, p. 223 ec.) e gli articoli di Barkiarok, Mohammed, Sangiar, nel d'Herbelot.

492. L'Emiro, o sultano Afdal ricuperò Gerusalemme e Tiro nell'anno dell'Egira 489 (V. Renaudot, Hist. patriarch. Alexand., p. 478, de Guignes, t. I, p. 249, indi Abulfeda e Ben-Schounah). Jerusalem ante adventum vestrum recuperavimus, Turcos ejecimus, diceano gli ambasciatori dei Fatimiti.

493. V. le transazioni tra il califfo d'Egitto e i Crociati in Guglielmo di Tiro (l. IV, c. 24; l. VI, c. 19) e in Alberto d'Aix (l. III, c. 39), i quali scrittori, a quanto apparisce, meglio de' contemporanei, valutavano l'importanza delle medesime.

494. La maggior parte del cammino trascorso dai Franchi trovasi con esattezza descritta nel Viaggio di Maundrell da Aleppo a Gerusalemme (p. 11-67), uno, senza dubbio, dei migliori documenti che abbiasi su tale soggetto (D'Anville, Mémoire sur Jerusaleme, p. 27).

495. V. l'ammirabile descrizione di Tacito (Hist. V, 11, 12, 13), il quale pretende che i legislatori degli Ebrei si fossero prefissi di mettere il loro popolo in istato di ostilità perpetua col rimanente del genere umano.

496. Il senno e l'erudizione dell'autore francese dell'opera Esprit des Croisades, contrabbilanciano fortemente l'ingegnoso scetticismo del Voltaire. Il predetto scrittore osserva (t. IV, p. 386-388) che, giusta i calcoli degli Arabi, gli abitanti di Gerusalemme oltrepassavano i dugentomila; che nel tempo di Gerusalemme assediata da Tito, Giuseppe li faceva ascendere ad un milione trecentomila; che Tacito stesso tenea per fermo sommassero a seicentomila, onde fatta anche la massima sottrazione, atta a giustificare l'accepimus di questo Storico, ad ogni modo superavano in numero l'esercito dei Romani.

497. Maudrell, che fece esattamente il giro delle mura, calcolò una circonferenza di seicentotrenta passi, o quattromila cento sessantasette verghe inglesi (pag. 109-110). Fondatosi sopra una pianta autentica, il d'Anville, nel suo breve e prezioso Trattato, ammette un'estensione di circa mille novecento sessanta tese francesi (p. 23-29). Quanto alla topografia di Gerusalemme, V. Reland (Palestina, t. II, p. 832-860).

498. Gerusalemme non trae le sue acque che dal torrente di Cedron, asciutto durante la state, e dal picciolo ruscello di Siloè (Reland, t. I, p. 294-300). E nativi e stranieri, parimente lagnavansi dalla scarsezza di acque, incomodo che in tempo di guerra, i nemici si studiavano accrescere. Secondo Tacito, erano entro la città una fontana, che non inaridiva in veruna stagione, un acquidotto, e cisterne per raccogliere le acque che venivan dal cielo; l'acquidotto le ricevea dal ruscello Tekoe, o Etham, di cui parla anche Boadino nella vita di Saladino (p. 238).

499. Gerusalemme liberata, Cant. XIII e XVIII. Non possiamo qui dispensarci dall'osservare con quanta cura il Tasso abbia conservate ed abbellite le più piccole particolarità di questo assedio.

500. Oltre agli storici Latini che di narrare questo macello non si vergognano. V. Elmacin (Hist. Saracen., pag. 363), Abulfaragio (Dynast., pag. 243), e il de Guignes (t. II, part. II, p. 9) fondato sulle testimonianze di Abul-Mahasen.

501. L'antica torre di Psefina, detta Neblosa nel Medio Evo, incominciò a chiamarsi Castellum Pisanum dopo che Damberto fu nominato patriarca. Essa è tuttavia residenza e rocca di un Agà turco. Da questa torre si scoprono il mar Morto, una parte della Giudea e dell'Arabia (d'Anville, p. 19-23). Venne chiamata parimente πυργος παμμεγεθεςατος, torre di David.

502. Hume, Storia dell'Inghilterra, vol. I, p. 311, 312, ediz. in 8.

503. Voltaire, Essai sur l'Histoire générale; t. II, c. 54, p. 345, 346.

504. Gl'Inglesi attribuiscono a Roberto di Normandia, i Provenzali a Raimondo di Tolosa, la gloria di avere ricusata la corona di Gerusalemme; ma la voce sincera della tradizione ha conservata la ricordanza dell'ambizione e della vendetta del Conte di San-Gille (Villehardouin, n. 136). Morì all'assedio di Tripoli, città posseduta dai successori di questo Conte.

505. V. l'elezione di Goffredo e la battaglia di Ascalon in Guglielmo di Tiro, l. IX, c. 1-12, e nella conclusione delle Storie Latine della prima Crociata.

506. Renaudot, Hist. patr. Alexand., p. 479.

507. V. le rimostranze del patriarca Damberto in Guglielmo di Tiro (l. IX, c. 15-18, l. X, c. 4, 7, 9), il quale scrittore con maravigliosa buona fede sostiene l'independenza dei conquistatori e de' re di Gerusalemme.

508. Guglielmo di Tiro (l. X, p. 19), la Historia Hierosolymitana di Giacomo di Vitry (l. I; c. 21, 50), e l'Opera Secreta fidelium Crucis, di Marino Sanuto (l. III, p. 1) offrono le opportune nozioni sullo Stato e sulle conquiste del regno latino di Gerusalemme.

509. Nell'instituire il censo de' sudditi, David si accorse di aver sotto i proprj ordini, non comprendendo le tribù di Levi e di Beniamino, un milione trecentomila di soli combattenti, o un milione cinquecento settantaquattromila; dal quale calcolo, aggiugnendo i vecchi, le donne, i fanciulli e gli schiavi, sarebbe risultato che un paese lungo sessanta leghe, largo trenta, contenesse una popolazione di circa tredici milioni. Il Le Clerc (Comment. XXIV, Chron., XXI), aestuat angusto in limite, e dà a divedere qualche sospetto di un error di copista; pericoloso sospetto!

510. Il racconto di tali assedj collocato ciascun d'essi al luogo che gli appartiene, trovasi nella grande storia di Guglielmo di Tiro, incominciando dal libro nono, e venendo fino al decimo ottavo. Leggonsi pure più in epilogo nell'opere di Bernardo il Tesoriere De acquisitione Terrae Sanctae (c. 89, 98, p. 732-740). Le Cronache di Pisa, Genova e Venezia, narrano alcuni fatti particolari che a queste repubbliche si riferiscono, ed altre particolarità pur si raccolgono dai tomi sesto, nono e duodecimo del Muratori.

511. Quidam populus de insulis Occidentis egressus et maxime de ea parte quae Norvegia dicitur. Guglielmo di Tiro (l. XI, c. 14, p. 804) descrive la loro corsa per Britannicum mare et Calpen, all'assedio di Sidone.

512. Benelathir parla certamente dell'interno del paese. V. de Guignes (Histoire des Huns p. 150, 151, A. D. 1127).

513. Il Sanato biasima, nè a torto, il diritto della succession femminile usato in una terra, hostibus circumdata, ubi cuncta virilia et virtuosa esse deberent. È però da osservarsi che ogni donna, erede di nobil feudo, veniva obbligata, per ordine e con approvazione del signore da cui le veniva l'investitura, a scegliersi un marito, o un campione (Assises de Jerusalem, c. 242 ec.) V. De Guignes (t. I, p. 441-471). Le tavole di questa dinastia esatte, e che possono essere utili, son tolte dall'opera Lignages d'outre-mer.

514. I figli nati da tali mescolanze chiamavansi per derisione pullani, e il loro nome non pronunziavasi che con disprezzo (Ducange, Gloss. lat. t. V, p. 535, Observations sur Joinville, p. 84, 85; Giacomo di Vitry, Hist. Hierosol., l. I, c. 67, 72) Illustrium virorum qui ad Terrae Sanctae.... liberationem, in ipsa manserunt, degeneres filli.... in deliciis enutriti, molles et effeminati (V. Sanuto, l. III, part. VIII, c. 2, p. 182).

515. Questo autentico ragguaglio è tolto dalle Assise di Gerusalemme (c. 324-326-331). Sanuto (l. III, c. I, p. 174) non conta che cinquecento diciotto uomini a cavallo, e cinquemila settecentosettantacinque armigeri.

516. Le prescrizioni che determinavano il contingente di tre grandi baronie, metteano l'obbligo di soli cento cavalieri. Forse i quattro uomini a cavallo che seguivano il Cavaliere possono dar ragione del testo delle Assise che porta a cinquecento il numero degli uomini a cavallo.

517. Nondimeno ne' grandi pericoli dello Stato, dice il Sanuto, i Cavalieri conduceano spontaneamente un seguito più numeroso, decentem comitivam militum juxta statum suum.

518. Guglielmo di Tiro (l. XVIII, c. 3, 4, 5) narra l'origine ignobile e la precoce tracotanza degli Ospitalieri, che abbandonarono ben presto il lor più modesto avvocato s. Giovanni l'Elemosiniere, per ostentarne uno più augusto in san Giovanni Battista. Vedansi a tal proposito gl'inutili sforzi del Pagi (Critica, A. D. 1099, n. 14-18). Abbracciarono la professione dell'armi verso l'anno 1120. L'Ospitale era mater; il Tempio filia; la fondazione dell'Ordine Teutonico si riporta all'anno di Cristo 1190, epoca dell'assedio di Acri (Mosh. Instit. p. 389, 390).

519. V. S. Bernardo, De laude novae militiae Templi, Opera composta A. D. 1132-1136 in Opp. t. I, parte 2, p. 547-563; ediz. Mabillon, Venezia 1730. Un tale elogio degli antichi Templarj sarebbe grandemente apprezzato dagli storici di Malta.

520. V. Mattia Paris, (Hist. Major., p. 544). Egli assegna agli Ospitalieri diciannovemila, ai Templarj novemila maneriu, vocabolo il cui significato, come il Ducange ha giudiziosamente osservato, è più esteso nella lingua inglese che nella francese. Il manor degl'Inglesi equivale a signoria, il francese manoir non è che una abitazione.

521. Ne' primi libri della Storia de' cavalieri di Malta, composta dall'abate di Vertot, i nostri leggitori potranno trovare una descrizione luminosa, e talvolta adulatrice, dell'Ordine dei Templarj, sintanto che rimasero a difendere la Palestina. I successivi libri trattano della lor migrazione alle isole di Rodi e di Malta.

522. Le Assise di Gerusalemme, scritte in antico francese, vennero, insieme alle Costumanze del Beauvoisis, impresse da Beaumanoir (Bourges et Paris, 1690 in folio), e commentate da Gasp.-Th. de La Thaumassière. Se ne pubblicò una traduzione italiana a Venezia, ad uso del regno di Cipro.

523. A la terre perdue, tout fut perdu; tale è l'espressione energica delle Assise (c. 281); ciò nonostante Gerusalemme capitolò con Saladino; la regina e i principali Cristiani ebbero la libertà di ritirarsi, nè questo codice prezioso e portatile adescar potea l'avarizia de' conquistatori. Più di una volta mi son condotto a dubitare sulla esistenza di questo Originale deposto nel Santo Sepolcro, e che ben potrebbe essere stato inventato per santificare quanto sulle costumanze dei Francesi nella Palestina fosse venuto meramente per tradizione.

524. Un nobile giureconsulto, Raoul di Tabarie, A. D. 1195-1205, richiesto dal re Amauri di pubblicare per iscritto le nozioni che aveva acquistate a tale proposito, rifiutò di prestarsi a ciò, protestando in chiari termini que de ce qu'il savait, ne ferait-il ja nul borjois son pareil, ne nul sage homme lettré (c. 281).

525. Il compilatore di quest'Opera, Giovanni d'Ibelin, era Conte di Giaffa e di Ascalon, signore di Barut (Berite) e di Rames; morì nell'anno di Cristo 1266 (Sanuto, l. III, part. 2, c. 5-8). La famiglia d'Ibelin che derivava da un ramo cadetto de' Conti di Chartres in Francia, occupò per lungo tempo un grado distinto nella Palestina e nel regno di Cipro. V. l'opera Lignages de decà mer o d'outre-mer (c. 6), alla fine delle Assise di Gerusalemme. Questo libro originale contiene tutta la genealogia de' venturieri francesi.

526. Sedici commissarj scelti negli Stati dell'isola, terminarono l'opera nel giorno 3 di novembre 1369; e questo codice suggellato con quattro sigilli venne deposto nella Cattedrale di Nicosia. V. la Prefazione delle Assise.

527. Il circospetto Giovanni d'Ibelin conchiude, anzichè affermare essere Tripoli la quarta Baronia, e manifesta alcuni dubbj su i diritti o le pretensioni del Contestabile o maresciallo (c. 323).

528. Entre seignor et homme ne n'a que la foi.... mais tant que l'homme doit à son seignor révérence en toutes choses (c. 206), tous les hommes du dit royaume sont, par ladite Assise, tenus les uns aux autres....: et en celle manière que le seignor mette main, ou fasse mettre au corps ou au fié d'aucun d'yaux sans esgard et sans connoissance de court, que tous les autres doivent venir devant le seignor, etc. (cap. 212). Le lor rimostranze scritte in uno stile nobile e semplice, offrono le forme caratteristiche della libertà.

529. V. Esprit des Lois, lib. XXVIII. Per un corso di quarant'anni dopo la pubblicazione della citata Opera, niun'altra fu maggiormente letta, e a maggiori critiche assoggettata; l'ardore delle ricerche per essa destatosi, non è la minore delle obbligazioni che all'autor della medesima protestiamo.

530. A meglio intendere quest'antica ed oscura giurisprudenza mi è stata d'un possente soccorso l'amicizia di un dotto Lord, che ha esaminata con pari accuratezza e sapere la storia filosofica delle leggi. I lavori di cotest'uomo potranno un giorno arricchire la posterità; ma i meriti del Giudice e dell'Oratore non possono essere apprezzati siccome si dee che dai soli contemporanei.

531. Il regno di Luigi il Grosso, riguardato come autore di tale instituzione negli Stati di Francia, non incominciò che nove anni dopo il regno di Goffredo (A. D. 1108), Assises (c. 2-324). V. intorno all'origine e agli effetti della instituzione medesima le osservazioni giudiziose del Robertson (St. di Carlo V, vol. 1).

532. Tutti i lettori che hanno famigliarità colla storia, intenderanno per popolo di Sorìa i Cristiani orientali, Melchiti, Giacobiti e Nestoriani, i quali tutti avean adottato l'uso della lingua araba.

533. V. le Assise di Gerusalemme (310, 311, 312). Queste leggi furono in vigore fino al 1350 nel regno di Cipro. Nello stesso secolo, sotto il regno di Odoardo I (e lo scorgo dal suo libro de' conti di recente pubblicato), il prezzo di un cavallo non era meno esorbitante nell'Inghilterra.

534. Anna Comnena racconta le conquiste fatte dal padre suo nell'Asia Minore (Alexiad., l. XI, p. 321-325, l. XIV, pag. 419); la guerra di Cilicia contra Tancredi e Boemondo (p. 228-342); la guerra di Epiro con insopportabile ampollosità (l. XII, XIII, pag. 345-406); la morte di Boemondo (l. XIV, p. 419).

535. Cionnullameno i Re di Gerusalemme ad alcune forme di dependenza si sottomisero; e nelle date delle loro iscrizioni, una delle quali è tuttavia leggibile nella chiesa di Betlem, al proprio nome, quello del regnante Imperatore rispettosamente anteponevano (Dissertat. sur Joinville, XXVII, pag. 319).

536. Anna Comnena, a compimento della sua favola, aggiunge che venne rinchiuso entro la bara in compagnia del cadavere d'un cuoco, e si degna fare le maraviglie che questo Barbaro abbia potuto sopportare tale imprigionamento e l'odore d'un morto. La ridicola novelletta dai Latini non è conosciuta.

537. Απο Θυλης, nella geografia bisantina dovrebbe significare Inghilterra. Pure sappiamo, in modo da non dubitarne, che Enrico I non permise a Boemondo il levar truppe dall'Inghilterra (Ducange, Not. ad Alexiad, p. 41).

538. La copia del Trattato (Alexiad, l. XIII, p. 406-416), è un documento meritevole di curiosità, che per essere inteso bene avrebbe d'uopo della carta del Principato di Alessandria: ma potrebbe anche fornire i dati per disegnarla.

539. V. nella dotta opera del de Guignes (t. II, part. II) quanto sulla storia de' Selgiucidi d'Iconium, di Aleppo e di Damasco si è potuto raccogliere dagli autori Greci, Latini, ed Arabi; ma questi ultimi poco istruiti degli affari di Rum si dimostrano.

540. Iconium viene citato da Senofonte, come posto fortificato; lo stesso Strabone lo accenna col nome equivoco di Κωμοπολις, Comopoli (Cellarius, t. II, p. 121): nondimeno S. Paolo trova questo sito abitato da una moltitudine πληθος di Ebrei, o Gentili. Abulfeda lo descrive, sotto la corrotta denominazione di Kunigià, come città grande, bagnata da un fiume, ricca di sontuosi giardini, distante tre leghe dalle montagne, e ornata, non so il perchè, dal mausoleo di Platone (Abulfeda, Tabul. XVII, p. 304, vers. Reiske, e l'Index geographicus di Schultens, tolto da Ibn Said).

541. Come supplimento alla storia della prima Crociata, V. Anna Comnena (Alexiad, l. XI, p. 331 ec.) e il libro ottavo di Alberto d'Aix.

542. Intorno la seconda Crociata di Corrado III e di Luigi VII, v. Guglielmo di Tiro (l. XVI, c. 18-29), Ottone di Freysingen (l. I, cap. 34-45, 59, 60), Mattia Paris (Hist. Mayor., p 68), Struve (Corpus Hist. Germanicae, p. 372, 373), Scriptores rerum Franc., del Duchesne, t. IV; Niceta, in Vit. Manuel, l. I, c. 4, 5, 6, pag. 41-48; Cinnamo (l. II, p. 41-49).

543. Intorno alla terza Crociata di Federico Barbarossa V. Niceta in Isacco l'Angelo (l. II, cap. 3-8, pag. 257-266), Struvio (Corpus Hist. Ger. p. 414), e due istorici che probabilmente furono spettatori: Taginone (in Script. Freher., t. I, p, 406-416, ediz. Struvio) e l'Anonimo de Expeditione Asiatica, Fred. 1 (in Canisii antiquit. Lection., t. III, part. II, p. 498-526, ediz. Basnage).

544. Anna Comnena che pone di quarantamila uomini a cavallo e di centomila fanti il numero di questi migrati, li chiama Normanni, e assegna loro per condottieri i due fratelli di Fiandra. I Greci erano in singolarissima guisa ignoranti sui nomi delle famiglie e de' possedimenti de' Principi latini.

545. Guglielmo di Tiro e Mattia Paris contano in ciascun esercito settantamila loricati.

546. Il Cinnamo cita questo conto imperfetto (εννενηκοντα μυριαδες, novecentomila), che Odone di Diogile presso il Ducange (ad Cinnamum) riduce alla esattezza col profferire un numero di novecentomila cinquecentocinquantasei individui. Perchè dunque la traduzione e il comentario si stanno al calcolo non compiuto di novecentomila? Goffredo di Viterbo esclama (Pantheon, p. 19 Muratori, t. VII, p. 462).

— Numerum si poscere quaeras,

Millia millena milites agmen erat?

547. Questo stravagante calcolo è di Alberto di Stade (V. Struvio, p. 414). Il mio è tolto da Goffredo di Viterbo, da Arnoldo di Lubecca, citato dallo stesso Goffredo, e da Bernardo il Tesoriere (c. 169, p. 804). Gli autori originali tacciono a tal proposito. I Maomettani faceano ascendere il loro esercito a dugento, o dugentosessantamila uomini (Bohadin, in vit. Saladin, p. 110).

548. Mi è d'uopo notare che nella seconda e nella terza Crociata, i Greci e gli Orientali chiamano i sudditi di Corrado e di Federico Alamanni. I Lechi o Tzechi del Cinnamo sono i Polacchi e i Boemi; questo autore conserva ai Francesi l'antica denominazione di Germani. Cita ancora i Βριταονοο Britanni o Βριττο, Britti.

549. Niceta, tuttavia fanciullo ne' giorni della seconda Crociata, durante la terza, difese contro i Franchi la rilevante piazza di Filippopoli. Cinnamo non respira che orgoglio e parzialità di nazione.

550. Niceta biasima la condotta tenutasi dagli abitanti di Filadelfia, intanto che l'anonimo Alemanno accusa i proprj compatriotti (culpa nostra). Sarebbe da augurarsi che solamente contraddizioni di questo genere la Storia offerisse. Gli è ancora da Niceta che sappiamo il pio dolore, e gli umani sentimenti dimostrati da Federico.

551. Χθαμαλη εδρα, bassa sedia, vocabolo che il Cinnamo traduce in latino come se fosse un sinonimo di Σεδδιον, sella. Il Ducange si adopera a tutt'uomo per coonestare questa circostanza umiliante pel suo Sovrano e per la sua patria (sur Joinville, Dissert. 27; pag. 317-320). In appresso Luigi insistè per un parlamento, in mari ex aequo, e non ex equo, come fu scioccamente in alcuni manoscritti copiato.

552. Ego Romanorum imperator sum, ille Romaniorum (Anonimo Canis. pag. 512). Lo stile pubblico e storico dei Greci era Ρεξ Rex o princeps; però il Cinnamo riguarda come sinonimi Ιμπερατορ, Imperatore e Re Βασιλευς.

553. V. nell'Epistole di Innocenzo III (13, p. 184), e nella Storia di Boadino (pag. 129, 130) quali fossero su di un tal genere di tolleranza le opinioni di un Papa e quelle di un Cadì.

554. Come conti di Vexin, i re di Francia prestavano omaggio di vassalli al monastero di S. Dionigi, e riceveano dall'Abate la bandiera del Santo, che era di forma quadrata, e di colore rosso fiammeggiante (flamboyant); e dal duodecimo fino al quindicesimo secolo l'oriflamma sempre innanzi ai francesi eserciti sventolò (Ducange sur Joinville, Dissert. 18, p. 244-253).

555. I materiali delle storie francesi della seconda Crociata si trovano nell'Opera Gesta Ludovici VII, pubblicata nel decimoquarto volume dalla Raccolta del Duchesne. Questo volume medesimo contiene molte lettere originali del Re, del ministro Suger ec., documenti i più autentici fra quanti la Storia ne somministri.

556. Terram horroris et salsuginis, terram siccam, sterilem, inamaenam (Anonim. Canis., p. 517). Modo di esprimersi enfatico e confacevole all'uom che soffriva.

557. Gens innumera, sylvestris, indomita, praedones sine ductore; in somma tal genia d'uomini che lo stesso Sultano di Cogni potea sinceramente allegrarsi della lor distruzione (Anon. Canis., p. 517, 518).

558. V. nello Scrittore anonimo della Raccolta di Canisio, in Taginone e Boadino (vit. Saladin. p. 119 e 120) la condotta ambigua tenutasi da Kilidge Arslan, sultano di Cogni, che detestava e temeva nel modo medesimo Saladino e Barbarossa.

559. Il vezzo di mettere in paralello due grandi uomini, ha tratti molti scrittori a credere, o almeno a voler sostenere, che Federico annegò nel Cidno, famoso per la morte di Alessandro che imprudentemente vi prese un bagno (Q. Curt., l. III, c. 4, 5). Ma la strada tenuta dall'imperatore Barbarossa, m'induce piuttosto a pensare che il Saleph sia tutto un fiume col Calicadno, riviera men rinomata del Cidno, ma nel suo corso più lunga.

560. Marino Sanuto mette per principio (A. D. 1321) quod stolus Ecclesiae per terram nullatenus est ducenda; e coll'attribuire a straordinario soccorso celeste il buon esito della prima Crociata, distrugge l'obbiezione, che questa alla massima da esso annunziata opporrebbe (Secreta fidelium crucis, l. II, pars II, c. 11, p. 37).

561. Ma questo sepolcro era quello di Gesù Cristo, riguardato da' Crociati, come una cosa preziosissima[*]. (N. di N. N.)

* Alla pia osservazione dell'Autore di queste note un'altra ne aggiugneremo, filosofica semplicemente. I Crociati, e massimamente i loro condottieri, non erano dalla sola pietà guidati a queste imprese, ma dal desiderio di conquistare ricchezze e novelli regni, come lo stesso sig. Gibbon ha osservato nel precedente capitolo. L'esperienza poi delle sciagure de' predecessori non poteva essere di tanto peso, massimamente ne' secoli della cavalleria, per uomini ardentissimi di gloria militare, avvezzi a non calcolare, può dirsi, nulla la vita sol che vedessero una lontana speranza di superare ostacoli da niuno ancor superati. Forse minori pericoli non disprezzavano, e non disprezzano tuttavia, dopo la scoperta del Nuovo Mondo, quegli arditi naviganti, che, avidi di trovare nuove terre, nuovi animali, nuove meteore, affrontano incogniti fondi, furor di selvaggi, e mostri, e fame, e mari di diaccio. (Nota dell'Editore)

562. I più autentici schiarimenti intorno a S. Bernardo si trovano ne' suoi scritti medesimi pubblicati nella edizione corretta del padre Mabillon, e ristampati a Venezia nell'anno 1750 in sei volumi in-folio. Tutto quanto l'affezione personale ha potuto raccogliere, tutto quanto la superstizione è stata capace di aggiungere, trovasi nelle due vite di questo Santo, composte da' suoi discepoli, nel sesto volume. Tutto ciò che l'erudizione e la sana critica possono ammettere, leggesi nelle Prefazioni degli Editori benedettini.

563. Chiaravalle, detta la valle di Assinto, è situata nelle foreste vicino a Bar di Aube, nella Sciampagna. S. Bernardo arrossirebbe oggidì al vedere il lusso della sua Chiesa; cercherebbe la biblioteca, nè rimarrebbe molto edificato trovando un tino di capacità eguale ad ottocento botti, quasi somigliante a quello di Eidelberga. (Mélanges d'une grande Bibliothèque, t. XLVI, p. 15-20).

564. Secondo l'Autore il carattere di Santo non è interamente combinabile colla ragione e coll'umanità. Ma il vocabolo Santo, altro non vuol dire, che buono, nel suo senso generale, applicabile a qualunque uomo, di qualunque nazione, e religione; e l'uomo buono pensa, ed opera secondo la ragione, e l'umanità; dunque non è vero essere il carattere di Santo in generale, e nel suo vero significato non combinabile colla ragione, e coll'umanità. Riferendo poi l'Autore il vocabolo Santo ai Cristiani, fra' quali era S. Bernardo, avverta il lettore, che vie più, quando veramente lo meritino, il vocabolo Santo è, loro bene applicato nel suo vero senso, inseparabile dall'uso della ragione, e dai sentimenti di umanità: nè varrebbe l'opporre alcuni fatti di zelo eccessivo e condannevole. (N. di N. N.)

565. I discepoli del Santo (vit. prima, l. III, c. 2, p. 1232; vit. secunda, c. 16, n. 45, p. 1383) raccontano un esempio sorprendente della pietosa apatia del loro maestro. Juxta lacum etiam Lausannensem totius diei itinere pergens, penitus non attendit, aut se videre non vidit. Cum enim vespere facto, de eodem lacu socii collequerentur, interrogabat eos ubi lacus ille esset; et mirati sunt universi. Per farsi idea del senso che una tal distrazione di S. Bernardo dovea eccitare, vorrei che il leggitore avesse, come io in questo momento, dinanzi alle finestre della sua Biblioteca, la deliziosa prospettiva di un sì ammirabil paese.

566. Ottone di Freysingen, l. I, c. 4; S. Bernardo, epist. 363, ad Francos orientales, Opp., t. I, pag. 328; vit. prima, l. III, c. 4, t. VI, p. 1235.

567. Mandastis et obedivi.... multiplicati sunt super numerum; vacuantur urbes et castella; et pene jam non inveniunt quem apprehendant septem mulieres unum virum; adeo ubique viduae vivis remanent viris (S. Bern. epist. pag. 247).

568. Quis ego sum ut disponam acies; ut egrediar ante facies armatorum, aut quid tam remotum a professione mea, si vires, si peritia, ec. (Epist. 256, t. I, pag. 259). Parla con disprezzo di Piero l'Eremita, vir quidam (ep. 363).

569. Sic dicunt forsitan isti, unde scimus quod a Domino sermo egressus sit? Quae signa tu facis ut credamus tibi? non est quod ad ista ipse respondeam; parcendum verecundiae meae, responde tu pro me, et pro te ipso, secundum quae vidisti et audisti, et secundum quod te inspiraverit Deus. (Consolat., lib. II, cap. 1, Opp., tom. II, p. 421-423).

570. V. le testimonianze, in vit. prima, l. IV, c. 5, 6, Opp., l. VI, p. 1258-1261, l. VI, c. 1-17, p. 1286-1314.

571. Filippo, arcidiacono di Liegi, che accompagnava S. Bernardo ha composta una narrazione de' miracoli che attribuivansi a questo Santo, e che, stando al detto del narratore, non erano meno di trentasei al giorno (Fleury, Hist. eccles. l. LXIX, n. 16). (Nota dell'Editore)

572. I Miracoli di S. Bernardo, senza entrare nell'esame delle particolarità del loro numero, della loro qualità, e delle loro circostanze, furono creduti; ma oggidì pei progressi delle cognizioni si distinguono gli effetti delle cause naturali, da quelli di una soprannaturale; e la filosofia mostra come sieno da separarsi le illusioni della calda immaginazione e della prevenzione, dalla realità, o l'imposture dalle verità. Molti luoghi poi di S. Bernardo, e specialmente quello sic dicunt farsitanae mostrano la sua abilità nell'arte rettorica. La grandissima prevenzione del popolo a di lui favore, doveva rendere sempre vittoriosa la di lui facondia, che tutti i popoli spingeva alla crociata in Palestina, onde ne venivano disertate le province. Oggidì la facondia di S. Bernardo non produrrebbe alcun effetto. (Nota di N. N.)

573. Abul-Mahazen, presso il De Guignes, Histoire des Huns, t. II, part. II, p. 99.

574. V. l'articolo Sangiar nella Biblioteca orientale del d'Herbelot, e il de-Guignes (t. II, part. 1, pag. 230-261). Per suo splendente valore, fu soprannomato dagli Orientali il secondo Alessandro, e tanto fu l'eccesso dell'affetto de' sudditi verso di lui, che per un anno intiero dopo la sua morte, continuarono pel Sultano le lor preghiere. Però Sangiar potrebbe essere caduto prigioniero così de' Cristiani, come degli Uzj. Regnò cinquant'anni all'incirca (A. D. 1103-1152), e si mostrò proteggitor generoso ai poeti della Persia.

575. L'Autore della Zaira avea del certo presente all'animo questo stato politico dell'Oriente in que' giorni, quando facea dire ad Orosmano:

«Mais la mollesse est douce, et sa suite est cruelle.

Je vois autour de moi cent rois vaincus par elle,

Je vois de Mahomet ces lâches successeurs,

Ces califes tremblans dans leur triste grandeur,

Couchés sur les debris de l'autel et du trone,

Sous un nom sans pouvoir languir dans Babylone;

Eux qui seraient encore, ainsi que leurs ayeux,

Maîtres du monde entier, s'ils l'avoient été d'eux.

Bouillon leur arracha Solyme et la Syrie;

Mais bientôt, pour punir une secte ennemie,

Dieu suscita le bras du puissant Saladin ec.»

(Nota dell'Editore).

576. V. la Cronologia degli Atabek di Yrak e della Sorìa nel De Guignes, t. I, p. 254, e nello stesso autore (t. II, part. 2, p. 147-221) i regni di Zenghi e di Noraddino, da esso descritti valendosi del testo arabo di Benelatir, Ben-Sciunà e Abulfeda; la Biblioteca orientale, agli articoli, Atabek e Noradinno; e le dinastie di Abulfaragio (p. 250-267, vers. Pocock).

577. Guglielmo di Tiro (l. XVI, capo 4, 5-7) racconta la presa di Edessa, e la morte di Zenghi. Il nome di Zenghi corrotto e trasformato in Sanguino somministra ai Latini materia di una goffa allusione e all'indole del medesimo, che essi fanno sanguinaria, e al suo misero fine: Fuit sanguine sanguinolentus.

578. Noradinus (dice Guglielmo di Tiro, lib. XX, 33) maximus nominis et fidei christianae persecutor; princeps tamen justus, vafer, providus, et secundum gentis suae traditiones religiosus. Possiamo aggiungere a questa autorità di un Cattolico, quella d'un primate de' Giacobiti (Abulfaragio, p. 267). Quo non alter erat inter reges vitae ratione magis laudabili: aut quae pluribus justitiae experimentis abundaret. Fra gli elogi fatti ai Re, i più meritevoli di fede sono quelli che questi ottengono dopo morte, e dal labbro stesso dei loro nemici.

579. Fondato su i racconti dell'Ambasciatore, Guglielmo di Tiro (l. XIX, cap. 17, 18) descrive il palazzo del Cairo. Vennero trovati nel tesoro del Califfo una perla grossa quanto un uovo di colombo, un rubino che diecisette dramme d'Egitto pesava, uno smeraldo lungo un palmo e mezzo, e grande numero di cristalli e di porcellane della Cina (Renaudot, p. 536).

580. Mamluc, al plurale Mamalic. Pocock (Proleg. ad Abulfaragio, pag. 7), e d'Herbelot, pag. 545, definiscono il Mamluc, servum emptitium, seu qui pretio numerato in domini possessionem cedit. Vediamo di frequente i Mammalucchi nelle guerre di Saladino (Bohadin, pag. 236). I primi Mammalucchi introdotti dai discendenti di Saladino nell'Egitto, furono i Mammalucchi Bahartie.

581. Giacomo di Vitry pretende che il re di Gerusalemme non avesse condotto con sè più di trecentosettantaquattro cavalieri. Tanto i Franchi, quanto i Musulmani, attribuiscono la superiorità di numero al nemico: i quali due calcoli si possono conciliare sottraendo in un d'essi i timidi Egiziani, nell'altro sommandoli.

582. Si parla qui di Alessandria degli Arabi, che, quanto ad estensione e ricchezze, può riguardarsi termine medio fra l'Alessandria de' Greci e de' Romani, e l'Alessandria de' Turchi (Savary, Lettres sur l'Egypte, t. I, p. 25, 26).

583. Intorno a questa grande rivoluzione dell'Egitto, V. Guglielmo di Tiro (l. XIX, 5, 6, 7-12-31, XX, 5-12), Boadino (in vit. Saladin. pag. 30-39), Abulfeda (in excerpt., Schultens, p. 1-12), d'Herbelot (Bibl. orient. Adhed, Fathema, ma vi è poca esattezza), Renaudot (Hist. patr. Alex., pag. 522-525, 532-537), Vertot (Hist. des chevaliers de Malte, t. I, p. 141-163, in 4) e de Guignes (t. II, part. II, p. 185-215).

584. Quanto ai Curdi, V. de Guignes (t. I, p. 416, 417), l'Indice geografico di Schultens, e Tavernier (Voyages, part. I, p. 308-309). Gli Aiubiti discendeano dalla tribù dei Ravadici, una fra le più nobili; ma essendo infetti della eresia delle Metempsicosi, i Sultani ortodossi procuravano farli credere non derivati dai Curdi, se non se per parte della madre che avesse sposato uno straniero stanziatosi fra queste genti.

585. V. il quarto libro dell'Anabasis di Senofonte. I diecimila ebbero più a dolersi delle frecce de' Carduchiani che di tutto il rimanente dell'esercito del gran Re.

586. Dobbiamo al professore Schultens i materiali i più autentici e preziosi intorno alla vita di Saladino; e sono: la vita di questo principe, composta dal suo ministro ed amico, il Cadì Boadino; numerose compilazioni della storia composta dal parente di Saladino, principe Abulfeda di Hamà. Aggiugneremo a questi l'articolo Salahaddin della Biblioteca orientale, e quanto è possibile il raccogliere dalle Dinastie di Abulfaragio.

587. Poichè il medesimo Abulfeda era un Aiubita, gli si dee merito, d'avere, almeno col suo silenzio, professata la modestia del fondatore.

588. Hist. Hieros., nell'Opera Gesta Dei per Francos, (pag. 1152). Trovasi un esempio di simil fatta nel Joinville (pag. 42, ediz. del Louvre); ma il pietoso S. Luigi ricusò agl'Infedeli l'onore di ammetterli a far parte di un Ordine cristiano (Ducange, Observ. p. 70).

589. A tutti i titoli degli Arabi fa d'uopo sottintendere sempre l'aggiunto religionis. Noraddino lumen r.; Ezodino, decus r.; Amaduddino, columen r.; il nome proprio del nostro eroe era Giuseppe, e venne soprannomato Salahaddin, Salus r.; Al Malicus, Al-Nasirus, rex defensor r.; Abu-Modafir, pater victoriae r.; (Schultens, prefazion.).

590. Abulfeda, nipote ex-fratre di Saladino, osserva, citandone molti esempj, che i fondatori delle dinastie assumono sopra sè medesimi il delitto, o il biasimo, e ne lasciano il frutto ai loro innocenti collaterali (Excerpt. p. 10).

591. V. la vita e il carattere di Saladino nel Renaudot (p. 537-548).

592. Boadino, testimonio oculare, e divoto di buona fede, esalta nel suo primo capitolo le virtù civili e religiose di Saladino.

593. L'ignoranza e de' nativi dell'Egitto, e de' viaggiatori, al proposito di molte di queste fondazioni, e particolarmente del Castello del Cairo e del pozzo di S. Giuseppe, ha confuse insieme le opere del Sultano e del Patriarca.

594. Anon. Caris. t. III, parte 2, p. 504.

595. Boadino, p. 129-130.

596. Intorno al regno latino di Gerusalemme V. Guglielmo di Tiro, (l. IX-XXII), Giacomo di Vitry (Hist. Hieros., l. I) e Sanuto (Secreta fidelium crucis, lib. III, part. VI, VII, VIII, IX).

597. Templarii ut apes bombabant, et Hospitalarii ut venti stridebant, et barones se exitio offerebant et Turcopoli (le truppe leggiere de' Cristiani) semetipsi in ignem injiciebant (Ispahani de expugnatione Kudsitica, p. 18, presso Schultens). Questo saggio di araba eloquenza è diverso alquanto dallo stile di Senofonte.

598. I Latini affermano che Raimondo avea tradito i Cristiani; gli Arabi lo danno a credere; ma se di questi, egli avesse abbracciata la religione, sarebbe stato posto dai Maomettani nel novero de' loro Santi ed eroi.

599. Rinaldo, Reginaldo, o Arnoldo di Castiglione, è celebre fra i Latini così per la sua vita, come la sua morte, le cui circostanze vengono chiaramente raccontate da Boadino e da Abulfeda. Joinville nella storia di san Luigi (p. 70) racconta un'usanza di Saladino, cioè di non commettere mai a morte un prigioniero, al quale avesse offerto pane e sale. Alcuni fra i compagni di Arnoldo caddero trucidati, e può dirsi sagrificati nella valle della Mecca, ubi sacrificia mactantur (Abulfeda pag. 32).

600. Vertot che ne ha offerto un racconto ben fatto della caduta del regno e della città di Gerusalemme (Histoire des chevaliers de Malte, t. I, l. II, p. 226-278) a tal proposito ha aggiunte due lettere originali di un Templario.

601. Renaudot, Hist. patr. Alex. p. 345.

602. Il teologo risponde, che i peccati dei Crociati, già descritti dall'Autore, tolsero loro l'aiuto di Gesù Cristo, e cagionarono la loro intera rovina, estesa sopra alcuni milioni d'uomini, malgrado i meriti dell'impresa. (Nota di N. N.).

603. Il culto delle Immagini bene considerato non è idolatria. (Nota di N. N.)

604. In quanto riguarda la conquista di Gerusalemme, Boadino (p. 67-76) e Abulfeda (p. 40-43) sono le nostre autorità maomettane. Fra gli storici Cristiani, Bernardo il Tesoriere (c. 151-157) è il più abbondante di particolarità, ed il più autentico. V. anche Mattia Paris (p. 120-124).

605. Intorno agli assedj di Acri e di Tiro ampie nozioni possono ottenersi da Bernardo il Tesoriere (De acquisit. Terrae Sanctae, c. 167-179), dall'Autore della Hist. Hieros. (p. 1150-1172), dal Bongars e d'Abulfeda (pag. 43-60), e da Boadino (p. 75-179).

606. Mi sono tenuto al racconto più saggio e più verisimile di un tal fatto. Il Vertot ammette senza esitare una novella romanzesca, giusta la quale il vecchio Marchese trovasi di fatto esposto ai dardi degli assediati.

607. Northmanni et Gothi, et coeteri populi insularum, quae inter Occidentem et Septentrionem positae sunt, gentes bellicosae, corporis proceri, mortis intrepidae, bipennibus armatae navibus rotundis quae Ysnachiae dicuntur advectae.

608. Lo Storico di Gerusalemme (p. 1108) aggiugne le nazioni dell'Oriente dal Tigri all'Indo, e le tribù de' Mauri e dei Getuli; di modo che l'Asia e l'Affrica combatteano contra l'Europa.

609. Boadino (pag. 180) e gli storici Cristiani non negano, nè disapprovano questa carnificina. Alacriter jussa complentes (i soldati inglesi), dice Goffredo di Vinisauf (lib. IV, c. 4, p. 346), e calcola di duemilasettecento il numero delle vittime. Roberto Hoveden pretende sieno state cinquemila (p. 697, 698). Fosse umanità, o avarizia, Filippo Augusto si piegò a restituire ai suoi prigionieri la libertà, mediante un riscatto (Giacomo di Vitry, l. I, c. 98, p. 1122).

610. Boadino, p. 14. Egli cita la sentenza di Baliano e del principe di Sidon, aggiugnendo: ex illo mundo quasi hominum paucissimi redierunt. Fra i nomi de' Cristiani periti sotto le mura di Acri, trovo quelli degl'Inglesi, Ferrers, conte di Derby (Dugdale, Baronnage, part. I, p. 260), Mowbray (idem., p. 124); Mandevil, Fiennes, S. John, Scrope, Pigot, Talbot ec.

611. Magnus hic apud eos, interque reges eorum tum virtute, tum majestate eminens.... summus rerum arbiter (Bohadin, p. 159). Non sembra che questo Storico abbia conosciuti i nomi di Filippo o di Riccardo.

612. Rex Angliae praestrenuus....... rege Gallorum minor apud eos censebatur, ratione regni atque dignitatis; sed tum divitiis florentior, tum bellica virtute multo erat celebrior (Bohadin, p. 161). È lecito ad uno straniero l'ammirare queste ricchezze; ma i nostri Storici avrebbero potuto raccontare a Boadino quali angherie, quali funeste depredazioni erano state usate per ammassarle.

613. Joinville (p. 17). «Guides-tu que ce soit le roi Richard?»

614. Egli era nondimeno colpevole di un tal delitto agli occhi de' Musulmani, i quali attestano che gli assassini confessarono essere stati inviati dal Re d'Inghilterra (Bohadin p. 225); mentre la difesa del re è tutta fondata sopra una supposizione evidentemente assurda (Hist. de l'Acad. des inscript., t. XVI, p. 155-163), sopra una pretesa lettera del Capo degli assassini, lo Sceik, o Vecchio della Montagna, che giustificava Riccardo, assumendo sopra di sè il biasimo, o il merito di un tale assassino.

615. V. gli estremi a cui Saladino era ridotto, e la pia fermezza dell'animo suo nella descrizione fattane da Boadino (p. 7-9, 235-236), che aringò egli stesso i difensori di Gerusalemme; l'atterrimento loro non era pei nemici un mistero (Giacomo di Vitry, l. I, c. 100, p. 1123, Vinisauf, l. V, c. 50, p. 399).

616. Pure a meno che il Sultano o un principe Aiubita non fosse rimasto entro Gerusalemme, nec Curdi Turcis, nec Turci Curdis essent obtemperaturi (Boadino p. 237). Qui lo Storico solleva una falda del velo politico.

617. Boadino (pag. 237) e lo stesso Goffredo di Vinisauf (l. VI, c. 1-8, pag. 403-409) attribuiscono allo stesso Riccardo la ritirata, e Giacomo di Vitry nota che per l'impazienza di partire in alterum virum mutatus est (pag. 1123). Nondimeno Joinville, cavalier francese, ne dà colpa alla gelosia d'Ugo, Duca di Borgogna (p. 116), senza supporre, come Mattia Paris, che questi si fosse lasciato corrompere dall'oro di Saladino.

618. Boadino (p. 184-249) e Abulfeda (p. 51, 52) raccontano le spedizioni di Giaffa e di Gerusalemme. L'autore dell'Itinerario, ossia il monaco di S. Albano, non può, in ordine alle prodezze di Riccardo, aggiungere alcuna cosa al racconto che di queste ha fatto il Cadì (Vinisauf, l. VI, c. 14-24, p. 412-421); Hist. major., p. 137-143. In tutta questa guerra è singolare un accordo che regna fra i Cristiani ed i Maomettani, quello cioè di esaltarsi per valore scambievolmente.

619. V. il progresso delle negoziazioni e delle ostilità in Boadino (p. 207, 260), che ebbe parte egli stesso nella conclusione del Trattato. Riccardo manifestò l'animo suo di ritornare con nuovi eserciti a compire la conquista di Terra Santa, alla quale minaccia Saladino con un cortese complimento rispose (Vinisauf, l. VI, c. 28, p. 423).

620. Fra i racconti che abbiamo di cotesta guerra, il meglio spiegato trovasi nell'Opera originale di Goffredo di Vinisauf, Itinerarium regis Anglorum Richardi et aliorum in terram Hierosolimarum, diviso in sei volumi. Lo stesso racconto trovasi per esteso nel secondo volume di Gale (Scriptores Hist. Anglicanae, p. 247-429). Anche Ruggero Hoveden e Mattia Paris somministrano utili materiali a tale storia: il primo di essi ne dà a conoscere con molta esattezza lo stato di navigazione e la disciplina della flotta inglese in que' tempi.

621. Così Saladino denominava il culto de' Cristiani; nè un Maomettano era obbligato a distinguere dall'Idolatria la venerazione che i Cattolici romani prestano alle Immagini de' Santi. Non mi fermo su questo argomento per averne già parlato a lungo nelle note precedenti. (Nota di N. N.)

622. Anche il Vertot (t. I, p. 251) ammette in questa ridicola favola della indifferenza religiosa di Saladino; di quel Saladino che fino all'ultimo respiro rigidamente professò l'Islamismo.

623. V. la genealogia degli Aiubiti in Abulfaragio (Dynast., p. 277 ec.), le Tavole del de Guignes, la Art de vérifier les dates, e la Bibl. orient.

624. Il Thomassin (Discipline de l'Eglise, t. III, p. 311-374) ha esaminato partitamente l'origine, gli abusi e le restrizioni di queste decime. Venne sostenuta per qualche tempo una opinione che facea le decime di legittimo diritto del Papa, come la decima del decimo de' Leviti dovuta al gran Sacerdote, o Pontefice (Selden, sulle Decime: V. le sue Opere, vol. III, parte II, p. 1083).

625. Il principale scopo de' Papi, come risulta dalle loro lettere, fu il togliere a' Maomettani Gerusalemme, ed il sepolcro di Gesù Cristo. (Nota di N. N.)

626. V. Gesta Innocentii III, nel Muratori, Script. rerum ital., t. III, part. I, p. 486-568.

627. Le massime affatto erronee dell'Autore protestante in ordine a questa materia, sono già state confutate nelle precedenti note. (Nota di N. N.)

628. V. la quinta Crociata e l'assedio di Damieta in Giacomo di Vitry (l. III, p. 1125-1149), in Bongars, testimonio oculare (Gesta Dei), in Bernardo il Tesoriere, contemporaneo (Script. Muratori, t. VII, p. 825-846, c. 190-207), in Sanuto, laborioso compilatore (Secreta fidel. crucis, l. II, parte XI, cap. 4-9); e fra gli Arabi in Abulfaragio (Dinast., p. 294) e nella fine dell'Opera del Joinville, pag 533-537, 540-547, ec.

629. A coloro che presero la Croce contro Manfredi, il Papa (A. D. 1255) concedè plenissimam peccatorum remissionem. Fideles mirabantur quod tantum eis promitteret pro sanguine Christianorum effundendo, quantum pro cruore infidelium aliquando. (Mattia Paris, pag. 785). Era già un ragionar molto nel secolo decimoterzo.

630. Questa semplice idea è conforme al retto sentire del Mosheim (Inst. Hist. eccl., p. 332), e alla illuminata filosofia dell'Hume (Storia d'Inghilterra, v. I, p. 330).

631. Per rinvenire i materiali di cui la storia della Crociata di Federico II è composta, vogliono essere consultati Riccardo di S. Germano nel Muratori (Script. rer. ital. t. VII, p. 1002-1013) e Mattia Paris (p. 286-291, 300-302, 304). I più ragionevoli fra i moderni sono Fleury (Hist. eccles., t. XVI), Vertot (Chev. de Malte, t. I, l. III), Giannone (Ist. Civ. di Napoli, t. II, l. XVI) e Muratori (Annali d'Italia, t. X).

632. Non della Chiesa, ma della Corte di Roma. (Nota di N. N.).

633. Il buon Muratori sa ben che pensare, ma non che dire a tale proposito; Chino qui il capo ec. (p. 322).

634. Il clero confuse ad arte la moschea ossia la chiesa del Tempio col Santo Sepolcro, errore volontario, che ha tratti in inganno il Vertot e il Muratori.

635. L'Invasione de' Carizmj, o Corasmini viene narrata da Mattia Paris p. 546, 547, dal Joinville, da Nangis e dagli storici Arabi.

636. Leggete, se ne avete il coraggio, la vita e i miracoli di S. Luigi, scritti dal confessore della regina Margherita (Joinville, p. 291-523, ediz. del Louvre).

637. Egli credea tutto quello che la Santa Madre Chiesa insegnava (Joinville p. 10); ma dava per avvertimento a Joinville di non entrare in dispute di religione cogl'Infedeli: «L'homme lay (diceva egli nel suo vecchio linguaggio), quand il ot médire de la loi chrestienne, ne doit pas deffendre la loi chrestienne, ne mais que de l'espée, de quoi il doit donner parmi le ventre dedens, tant camme elle y peut entrer» (p. 12).

638. Non è da dirsi superstizione la premura ch'ebbe S. Luigi IX di togliere a' Maomettani Gerusalemme. (Nota di N. N.)

639. Possedo due edizioni di Joinville, l'una di Parigi dell'anno 1668, utilissima per le unitevi osservazioni del Ducange, l'altra di Parigi, del Louvre, 1761, preziosa per la purezza e autenticità del testo, il cui manoscritto è stato recentemente scoperto. L'ultimo editore afferma che la storia di S. Luigi fu terminata nell'anno 1309; senza però offerire su di ciò schiarimenti, nè tampoco mostra sorpresa sull'età dell'autore che, in tale supposizione, dovrebbe avere oltrepassati i 90 anni (Pref., p. XI, Obs. Ducange, p. 17).

640. Bastava dire, che oggidì per prudenza, per amore dell'umanità, per riguardo alla Sovranità del Gran Signore non s'intraprenderebbe la guerra di Palestina; l'entusiasmo non è sì caldo oggidì, e si ragiona alcun poco. (Nota di N. N.)

641. Joinville, p. 32; Extraits arabes, p. 549.

642. Gli ultimi editori di Joinville hanno arricchito il loro testo di molte cose meritevoli di erudita curiosità, e tolte dagli Arabi Macrizi; Abulfeda ec. V. anche Abulfaragio (Dyn. p. 322-325) che per barbarismo chiama il Re de' Francesi Redefrans; Mattia Paris (p. 683, 684) ne ha dipinte le folli gare de' Francesi e degl'Inglesi che a Massura combattettero e vi trovarono la morte.

643. Il Savary nelle sue dilettevoli lettere intorno all'Egitto ne ha presentata una descrizione di Damieta (t. I, lettera XXIII p. 274-290), e un racconto della Spedizione di Luigi (XXV, p. 306-350).

644. Fu chiesto e conceduto pel riscatto di S. Luigi, un milione di bisantini; ma il Sultano lo ridusse a soli ottocentomila, la qual somma Joinville calcola equivalente a quattrocentomila lire francesi de' suoi tempi, e Mattia Paris a centomila marchi d'argento (Ducange, Dissert. 20 sopra Joinville).

645. Joinville assicura, con tutta la serietà, il desiderio manifestato dagli Emiri per eleggersi S. Luigi in loro Sultano, la quale idea non trovo tanto assurda quanto al Signor di Voltaire, lo è sembrata (Histoire générale, t. II, p. 386, 387); i Mammalucchi erano eglino stessi stranieri, ribelli, eguali fra loro, conoscevano il valore del re di Francia, speravano forse di convertirlo, e in una tumultuosa assemblea, un tale partito, che non fu poi accettato, poteva anche essere stato proposto da qualcuno di quegli Emiri, segretamente propensi al Cristianesimo.

646. V. la Storia di questa spedizione negli annali di S. Luigi, scritti da Guglielmo di Nangis (p. 270-287), e nell'Opera Extraits arabes (p. 545-555, ediz. di Joinville, del Louvre).

647. Voltaire, Hist. génér. t. II, p. 391.

648. La Cronologia delle due dinastie de' Mammalucchi, i Baariti Turchi o Tartari di Kipsak, e i Borgiti Circassi, trovasi nel Pocock (Proleg. ad Abulfarage, p. 6-31), e nel De Guignes (t. I, p. 264, 270). Anche la loro Storia si legge nel De Guignes, che, fino col principio del secolo XV, ha seguìti Abulfeda, Macrisi, ec. t. IX, p. 110-328.

649. Savary, Lettres sur l'Egypte, t. II. lett. XV. p, 189-208. Dubito grandemente sull'autenticità di una tale copia; però è vero che il sultano Selim conchiuse un Trattato coi Circassi o Mammalucchi d'Egitto, lasciando ai medesimi e armi, e ricchezze, e potere, V. Nouvel Abrégé de l'Histoire ottomane, composto in Egitto e tradotto dal Signor Digeon (t. I, p. 55-58, Parigi 1781); monumento di storia nazionale autentico e di vaghezza non privo.

650. Si totum quo regnum occuparunt tempus respicias, praesertim quod fini propius, reperies illud bellis, pugnis, injuriis ac rapinis refertum (Al-Jannabi, ap. Pocock, p. 31). Il Regno di Moammed (A. D. 1311-1341) offre una felice eccezione alle cose di sopra affermate (De Guignes, tom. IV, p. 208-210).

651. Or sono ridotti ad ottomila cinquecento; ma il mantenimento di ciascun Mammalucco porta una spesa di circa cento luigi, e l'Egitto geme per l'avarizia e la tracotanza di cotesti stranieri (Voyages de Volney, t. I, p. 89-187).

652. V. la storia dell'Inghilterra di Carte (v. II, p. 165-175), e gli originali dai quali è desunta, Tommaso Wikes, e Walter Hemingfort, (l. III, c. 34-35), Collezione di Gale (t. II, p. 97, 589-592). Nessuno di questi autori ha inteso far menzione del pio coraggio dimostrato dalla principessa Eleonora, nel succhiare la piaga avvelenata del marito e salvargli la vita, a rischio della propria.

653. Sanuto (Secret. fidel. crucis, l. III, part. 12, c. 9), e de Guignes (Hist. des Huns, t. IV, p. 143; desunta dagli autori Arabi).

654. Tutte le Cronache di que' tempi ne fanno conoscere lo splendore della città di Acri (l. VII, c. 144). La più copiosa e precisa è quella del Villani (l. VII, c. 144). V. anche Muratori (Script. rer. italiae, t. XIII, p. 337, 338).

655. V. l'espulsione definitiva de' Franchi in Sanuto (l. III, part. XII, c. 11-22), Abulfeda, Macrizis, De Guignes (t. IV, p. 162-164) e Vertot (t. I, l. III, p. 407-428).

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (Aiub/Aìub, follia/follìa e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le citazioni in greco sono state trascritte integralmente, senza apportare alcuna correzione per eventuali inesattezze ortografiche o grammaticali.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.